Cinquant’anni di sguardi: La fotografia scopre il Sacro Monte (1998)

in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea. Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria,  1998, pp.  137-145

 

 

 

“Crea è veramente un luogo amenissimo (…) Ma per ben intendere a cosa realmente serva il Santuario di Crea per i quattro quinti almeno di coloro, che là si arrampicano, è bene visitarlo in un giorno di domenica dei mesi d’agosto, di settembre o di ottobre.

Che mondo!…. Che baccano allora udiremmo su quel piazzale del convento!….

Qui un confettiere vorrebbe raddolcire la bocca (non parliamo della lingua) a tutta la gente: là un rumoroso venditore di rocche pretende che tutti (…) comprino lo strumento indispensabile per preparare il corredo delle spose. Più in qua un acquacedrataio ci introna le orecchie gridando: «acqua giassà:» a noi vicino poi una fruttivendola vuole riempirci, se pur lo potesse, le tasche di «castagne belle e calde, » mentre ci regala il fumo della sua caldarrostiera. De-Maria stando sulla porta del suo albergo saluta i nuovi arrivati: un gruppo di signore si muove verso il tempio accompagnate dai loro cavalieri serventi (…) famiglie d’operai vanno cercando un luogo per poter comodamente vuotare le canestre dei cibi (…) Vispe ed allegre fanciulle prendono i molti sentieri che su e giù s’intersecano pel bosco (…) E la volta del cielo copre tutta la varia scena: il bosco nasconde anche i peccati di desiderio (…).” (Niccolini 1877, pp.519-520)  Il tono di questa descrizione ha tutta la vivacità di un’istantanea: la raffigurazione di una coralità, di un insieme è risolta per scene fissate nel momento del loro compiersi, lontane dalla fissità della posa, in modi che la fotografia solo in quegli anni iniziava faticosamente a mostrare;  è proprio questa però -e quindi il fotografo- a risaltare per la sua assenza dalla scena sonora e viva che si svolge sulla piazza del Santuario e nei boschi intorno, che nel 1877 poco ancora sembrano aver conservato o riconquistato di sacro.  Nessun fotografo, da Asti, da Casale, da Vercelli a mescolarsi alla folla domenicale per eseguire ritratti a consegna immediata, le povere lastre zincate, nerastre,  rivestite al collodio dei ferrotipi,  utilizzati dagli ambulanti in giro per villaggi e fiere, per santuari.

Quando il primo fotografo – almeno per ciò che ne sappiamo sinora – sale a Crea è trascorso poco più che un anno dalla pubblicazione di questo testo, ma la sua attenzione non si sofferma certo sugli stessi soggetti: le tre riprese che Vittorio Ecclesia realizza nel 1878-1880 e presenta poi all’Esposizione torinese del 1884 riguardano la facciata e l’interno del santuario ed una Veduta generale del Sacro Monte di Crea  ripresa dal colmo della chiesa  che costituisce una delle più affascinanti invenzioni iconografiche del fotografo e di tutto il repertorio relativo a questi luoghi, per la sua capacità di porre in risonanza il segno architettonico del profilo del frontone della chiesa con quello del colle disseminato di cappelle, rinunciando alle facili suggestioni di una troppo rigida simmetria centrale per produrre, per la prima e forse unica volta, una precisa ed efficace sintesi visiva del sito, ribaltando il punto di vista – e quindi il significato- dello schizzo realizzato da Clemente Rovere il 13 settembre 1849 (Sertorio Lombardi 1978, n.2663). La presenza di Crea nella raccolta di immagini di Ecclesia[1] suggerisce però ulteriori considerazioni: poiché  la prevalenza dei soggetti rappresentati è costituita da chiese ed edifici romanici, da monumenti di riconosciuto interesse e valore architettonico quali le cattedrali di Asti e Casale, alla presenza delle immagini del santuario di Crea deve essere riconosciuto un significato diverso, legato al più complesso insieme di valori devozionali e tradizionali che ruotano intorno al monte di Crea nel secondo Ottocento.

Che non fosse il valore architettonico dell’edificio a giustificarne l’inserimento nella raccolta fotografica di Ecclesia è dimostrato indirettamente anche dalle scelte di un autore come Secondo Pia che solo nel 1902 si preoccuperà di inserire le due immagini della facciata e dell’interno della chiesa nel proprio repertorio ormai ventennale di architetture e opere d’arte piemontesi[2].  Quando sale per la prima volta al colle, il 15 settembre del 1885, la sua attenzione è rivolta al solo aspetto paesaggistico, risolto in un panorama in due parti ripreso da sud, secondo quel punto di vista canonico che, con leggere varianti sud / sud-est,  a partire dai primi disegni settecenteschi si ritroverà poi negli schizzi di Rovere del 1849, e nelle immagini di Negri, a volte realizzate col teleobiettivo (1890ca), mentre variazioni significative, in connessione con la coeva produzione fotografica di derivazione pittorialista, sono presenti nelle più tarde riprese effettuate da Padre Giovanni Valle o da Guido Cometto (1925-1930), destinate in parte alla edizione di cartoline e alla pubblicazione di  innumerevoli opuscoli e guide[3].

Pia tornerà, come suo costume, più volte a Crea nei decenni successivi (1888-1919) realizzando complessivamente più di trenta riprese dedicate specialmente alle opere d’arte conservate nel santuario, dalla tavola di Macrino d’Alba, fotografata una prima volta nel 1888 in esterni, forse su di un ponteggio e quindi riprodotta in autocromia nel 1909-1910,  agli affreschi da poco scoperti della cappella di Santa Margherita[4], in cui l’attenzione prevalente per l’insieme si apre al particolare per le due figure di Guglielmo VIII e Bernarda di Brosse rivelando un intrecciarsi di intenzioni documentarie e storico celebrative, per passare negli anni successivi ad altre opere presenti nella chiesa, con una attenzione singolarmente aperta alla considerazione di manufatti allora certamente considerati minori quali il Confessionale con colonne tortili, non più fotografato da altri nei decenni successivi, secondo  una accezione progettuale che non tende tanto alla esaustività del catalogo quanto alla messa in atto di un giudizio critico -seppur implicito- sul valore dell’antico di queste  opere. Sintomatica in questo senso la scelta relativa alla statuaria delle cappelle, che inizia a fotografare solo nel 1902, anno della pubblicazione del saggio di Francesco Negri dedicato al Santuario che verosimilmente gli fa da guida, per ritornarvi molti anni dopo, nel 1919,    limitandosi però a fotografare quelle sole cappelle in cui si conserva l’opera dei fratelli Tabacchetti  così puntualmente studiata dal fotografo casalese.

“Di tutte le terre monferrine – ricorda Luigi Gabotto nella commemorazione di Negri[5] – egli amò però in modo particolarissimo Crea. Crea ebbe per Lui un’attrattiva singolare, forse perché questo nostro magnifico colle è la sintesi del Monferrato. Qui egli trovava riunite, in picciol spazio, tutte le cose che più lo interessavano: la natura, la storia, l’arte.” L’indicazione, nella sua affettuosità,  non potrebbe essere più puntuale e sintetica: Crea è per molti versi il laboratorio di Negri, il luogo in cui conduce le proprie ricerche sul campo nei diversi ambiti che via via lo interessano, a partire certo dalla botanica, che pratica come è sua consuetudine a livelli di grande rilevanza redigendo una Flora casalese, poi rimasta inedita, per pubblicare nel 1889 un Elenco delle piante più notevoli del Monte di Crea e regioni vicine in appendice alle Notizie storiche di Corrado Onorato.  In questi anni sono ancora le scienze naturali a nutrire la sua curiosità  intellettuale, come dimostrano le  importanti ricerche microbiologiche e microfotografiche, abbandonate dopo il 1890 per dedicarsi totalmente allo studio storico-critico del patrimonio artistico casalese.

La quasi totale dispersione dell’archivio Negri[6] non ci consente di conoscere le ragioni di un mutamento di rotta che a noi appare repentino ma doveva invece essere fondato su solide basi se nello stesso 1890 Negri è nominato membro della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti d’Arte e d’Antichità per la Provincia di Alessandria, e che deve essere collegato  al più ampio dibattito sulla nascente cultura di conoscenza e tutela del patrimonio culturale piemontese, a cui non erano estranei neppure i contributi dei fotografi più attenti (e basti fare i nome di Pia e Pietro Masoero). Non va inoltre dimenticato -come nucleo di una ipotesi suggestiva- che per Negri un ruolo importante abbia avuto l’incontro con Samuel Butler[7], forse conosciuto nei primi  anni ‘80 in Valsesia in occasione delle prime ricognizioni dello scrittore sui santuari alpini[8], così come  la loro successiva lunga frequentazione, che porterà l’inglese più volte a Casale tra il 1887 e l’anno della morte, il 1902, in compagnia dell’amico e biografo Henry Festing Jones.

“How about your Tabacchetti?”  chiede Butler a Negri in una lettera scritta nei giorni in cui inizia a lavorare a Erewon Revisited,  spedita in accompagnamento alla traduzione in inglese dell’Odissea[9],  a riconferma di una consolidata attenzione per gli studi del casalese, esplicitamente citato anche per l’assegnazione – poi corretta – a Giovanni d’Enrico del gruppo sull’altare nella cappella della Immacolata Concezione a Crea[10],  e lo stesso Negri esprimerà “lode a Samuel Butler il quale, innamorato delle opere del Giovanni [Tabacchetti] ne scrisse a lungo nel suo Ex Voto non solo, ma nello intento di conoscerne il casato e l’origine si portò anche a Dinant” (Negri 1902, p. 65)  consentendo di completare la ricostruzione delle vicende biografiche relative a Jean de Wespin.

Erano state però le ricerche su Martino Spanzotti la sua prima occasione di studio del patrimonio artistico di Crea,  pubblicate nel 1892 col corredo di due riproduzioni in fototipia delle vetrate,  già collocate nelle lunette della sacrestia,  che “in una recente modificazione alle finestre a cui appartenevano da quattro secoli, sfidando l’ira dei tempi e dei Giacobini, non resistettero alla incoscienza artistica dei frati. Spero però che non le avranno gettate via, e vorranno, se le conservano ancora, metterle in qualche modo in vista.”[11] A queste seguirono gli studi su Gugliemo Caccia, figura ben più rilevante per la connotazione complessiva del complesso monumentale del Sacro Monte, pubblicati nel 1895-1896, i cui esiti confluiranno in parte negli studi dedicati a Crea, apparsi in forma definitiva nel 1902 ma sinteticamente anticipati in Crea 1900[12]. Sono questi l’occasione per offrire un panorama esaustivo e finalmente documentato in modo appropriato, con ricerche condotte direttamente sulle fonti  archivistiche e bibliografiche ma anche a partire da una articolata  analisi storico-critica delle opere, a cui fa da preciso riscontro la documentazione fotografica, qui non finalizzata alla costituzione di un repertorio di opere eccezionali come in Pia, ma intesa quale  strumento d’indagine (ben esemplificata dalle decine di riprese, specialmente relative ai gruppi scultorei delle cappelle) e anche, seppure in misura ridotta per esigenze di economia editoriale, di comunicazione, di illustrazione non subordinata al testo bensì a questo complementare, secondo il modello ancora una volta costituito dal saggio dell’amico Butler sugli Ex Voto, corredato da un apparato di illustrazioni che “The Spectator” aveva definito “strange and fascinating” (Holt 1989, p.87).

Proprio la sua segnalazione del Martirio di Sant’Eusebio come “la cappella più importante”  sembra aver orientato l’indagine di Negri che la fotografa ripetutamente per più di un decennio a partire dal giugno 1891, quando utilizza una illuminazione a candele steariche, eseguendo una serie di immagini che varia dalla ripresa d’insieme ai particolari, intesi qui come descrizione analitica non dell’opera ma della scena, che viene presentata nella doppia mediazione dei due strumenti narrativi, con l’intenzione esplicita di restituire visivamente quel “realismo così sano e spontaneo”[13] che tanto lo affascinava nelle opere di Giovanni Tabacchetti, di tradurre fotograficamente quella “disposizione delle persone (…) così naturale, che l’occhio contemplando la scena si sente riposato, la mente serena” nel vedere “una esecuzione capitale non tumultuosa e selvaggia, ma sibbene ordinata da un potere costituito su regole determinate e regolari”, interpretando in senso conservatore il “concetto che ebbe il Tabacchetti, di rappresentare cioè, non un assassinio, bensì l’esecuzione d’un supplizio decretato col rispetto delle forme legali e sanzionato dal potere legalmente costituito.” (Negri 1914, p.44)  Ciò che lo attira al di là del valore artistico dell’esecuzione o – meglio – quale fondamento di questo, è il naturalismo delle movenze e delle posture, la capacità di Wespin di cogliere il gesto significativo, e nelle sue riprese pone  in atto un rispecchiamento tra gesto del plasticatore  e gesto fotografico, entrambi impegnati a rappresentare la scena, declinando l’intenzione documentaria propria della fotografia di riproduzione d’arte secondo una più sottile intenzione che reinterpreta e stravolge la pratica consolidata dei grandi studi quali Alinari o Braun (verso i quali in quegli stessi anni si appuntavano le incisive osservazioni di Wölfflin)  attraverso la cultura visiva propria dell’istantanea fotografica, quel tentativo di rendere l’illusione della vita attraverso l’immobilizzazione del movimento e del gesto che era proprio anche della logica di rappresentazione scultorea.[14]

Omaggio implicito quanto evidente all’amico inglese è anche la tavola di apertura dell’apparato  iconografico dello studio di Negri su Crea che in modo altrimenti inspiegabile si apre con una riproduzione del “Vecchietto”  della Cappella della Deposizione della Croce (XXXIX) di Varallo – oggi attribuita a Giovanni d’Enrico – che Butler considerava la più bella del Santuario ipotizzandone anche una tarda provenienza da Crea[15], per proseguire con una porzione del ciclo di affreschi della cappella di Santa Margherita, fotografati al lampo di magnesio, “scintilla che portava sempre con sé”[16],  e passare quindi ad alcuni dei gruppi statuari più significativi: il Martirio di Sant’Eusebio; la Concezione di Maria, con le due figure dei fondatori conti di Gattinara; la Natività di Maria e l’Annunciazione, per chiudere infine col presunto autoritratto di Tabacchetti, ancora a Varallo. Sono gli stessi soggetti sui quali si eserciterà, come si è detto, anche Secondo Pia con inquadrature sottilmente differenti, più schematiche e immobili, specialmente preziose oggi anche quale documento delle mutate condizioni di conservazione; sono quelle stesse immagini che entreranno a far parte  per lungo tempo del repertorio  iconografico della pubblicistica relativa al Sacro Monte che sempre più nei decenni a cavallo tra i due secoli riconquista quelle attenzioni prima destinate prevalentemente al Santuario.

Così se dal 1891 al 1900, dalla Relazione della Solenne Incoronazione di Damonte ai Brevi cenni storici di Locarni, le prime riproduzioni fotografiche a comparire in volumi dedicati a Crea si limitano a una veduta generale e al prospetto della chiesa, sempre da riprese di Negri, e in Crea 1900 la sola cappella documentata è quella – da poco terminata – della Salita al Calvario, già fotografata da Negri ma qui illustrata con fotografie attribuite a Giovanni Augusto de Amicis, in Crea, 1913, a queste si aggiungono le immagini relative ai rifacimenti ottocenteschi (Sposalizio di Maria Vergine, Presentazione di Gesù al Tempio, Gesù coronato di spine) e si assiste al progressivo accrescimento del corredo fotografico che  assume una forma articolata e complessa ne Il Santuario di Crea, 1914, primo esempio compiuto di guida a più voci corredata di fotografie che illustrano i più diversi aspetti del luogo, dalla statuaria agli affreschi, alle nuove oreficerie, senza dimenticare alcuni esempi di scene di vita e di cronaca (L’incoronazione della Madonna,  5 Agosto 1890) né la discreta presenza dei frati, a cui  è dedicata anche una interessante serie di cartoline edite negli stessi anni.[17]

La successiva occasione editoriale è data dal Congresso Mariano del 1923, per il quale vengono pubblicati sia la “storia popolare” di Padre Francesco Maccono sia “un Album, in veste di lusso, che riproduce i principali monumenti d’arte del Santuario”[18] in quaranta tavole, affidando alle sole immagini la testimonianza del patrimonio artistico e architettonico. Le singole riprese, così come l’Album non portano indicazione d’autore ma sono da assegnare prevalentemente a Negri anche le  immagini nelle quali i gruppi statuari – diversamente da quanto accadeva nel saggio del 1902 –  sono documentati nel loro insieme di opera, con viste grandangolari che li collocano precisamente nello spazio architettonico, restituendo così compiutamente l’approccio complesso dell’autore casalese.

La scelta di affidare alla sola fotografia il compito di illustrare il Sacro Monte costituisce una novità assoluta rispetto alla pubblicistica precedente, certamente favorita dalla positiva  contingenza -anche economica- costituita dal Congresso Mariano ma derivata da una comprensione più profonda e specifica delle potenzialità del mezzo, quella stessa che porta a formulare  “L’idea geniale di fotografare tutti i pellegrinaggi della settimana del Congresso”[19] e di utilizzare in modo sempre più massiccio l’illustrazione fotografica sulle pagine del periodico del Santuario che ha da poco mutato testata.[20]

“Nessuno certo ignora i grandi vantaggi che apporta la fotografia associandosi allo storico fermando sullo strato sensibile di una lastra o pellicola le svariate scene che si svolgono di continuo. Pellegrinaggi, feste tradizionali spingono quassù fiumane di devoti. Schierati sull’ampio piazzale lo riempiono letteralmente e lo spettacolo si consegna alla cronaca in tutta la sua fedeltà numerica.”[21] Questi concetti, espressi nel 1925 sulle pagine del bollettino del Santuario, indicano chiaramente quali fossero le lucide intenzioni e quale l’ispiratore della nuova politica di utilizzazione del mezzo fotografico: Padre Gian Giuseppe Valle (Padre Giovanni), giunto a Crea nel 1922-23[22], la cui passione per la fotografia lo trasformerà ben presto in una delle figure caratteristiche della comunità francescana del Santuario, col “suo vestito trasandato, colla macchina fotografica a tracolla, qua e là per il monte per accontentare i pellegrini o per fissare in una lastra qualche panorama o qualche singolare fenomeno della natura da mettere poi nel Museo.” (Maccono 1936, p.22)

Chiare sono  le  ragioni del suo operare:  la registrazione minuziosa e fedele dei gruppi di pellegrini costituisce testimonianza dell’ampiezza del fenomeno devozionale e -insieme- una ulteriore occasione per rinsaldare il legame tra  fedeli e  luogo in termini modernissimi di comunicazione per immagini attraverso la commercializzazione delle fotografie e la loro pubblicazione sulle pagine del bollettino, per quei lettori sempre più “avidi di figure sensibili”, mentre la documentazione delle opere d’arte, di “questa realtà che sfugge l’occhio di molti visitatori che non spingono lo sguardo dietro le inferriate delle cappelle”[23] ha un ruolo più culturalmente connotato e intrinseco alla diffusione della pratica fotografica sin dalle origini: la formazione di quel “deposito di preziose memorie” che è una delle forme del Museo, specialmente locale.

Qui a Crea, in questa prospettiva si era mosso già Francesco Negri raccogliendo frammenti dei gruppi plastici  negli stessi anni in cui ne andava fotografando il  patrimonio[24], registrandone anche le progressive trasformazioni e impoverimenti;  dopo la sua morte l’impresa viene proseguita “con assidua fatica” proprio da Padre Valle, il quale affianca alla raccolta di reperti quella di immagini fotografiche, per la maggior parte da lui realizzate, non disdegnando però il ricchissimo repertorio delle cartoline,  raccolte in album “che si stanno compilando esaurientemente: vedute del S. Monte (…) dintorni coi suoi attraenti quadri tratti colla telefotografia dai colli remoti (…) splendidi tramonti: scene notturne eseguite al chiaror della molle luce offerta dall’astro minore: la nebbia fitta lambente il limitare del colle eccelso (…).”[25] Il tono lirico e compiaciuto lascia trasparire  l’orgoglio dell’amatore fotografo di formazione pittorialista, sin troppo simile a pagine e pagine di retorica “artistica” pubblicate sui periodici fotografici dell’epoca e specialmente rilevanti in ambito torinese[26], ma anche qui – come a volte accade- la concreta produzione fotografica riscatta i riferimenti di maniera: non solo il progetto complessivo, dai gruppi di pellegrini alla cronaca dei lavori del Santuario, dalla documentazione delle opere d’arte[27] alla vita dei confratelli, dimostra una volontà di restituzione totale, di catalogazione fotografica del mondo che è lontana dalle più estenuate ricerche formali e più strettamente connessa semmai alla tradizione ottocentesca, ma anche quando i temi si fanno più prossimi al repertorio “artistico”, come è per alcune nature morte di fiori e piante e per i paesaggi, lo sguardo si rivela dotato di una propria particolare fisionomia, sempre obliquo e complesso, inatteso, seppure non sempre sostenuto da una adeguata maestria di stampa, lasciando trasparire una concezione del paesaggio come sistema complesso di relazioni tra presenza architettonica ed elementi naturali, ancora una volta con rimandi precisi a Negri ma qui con un impianto compositivo più aggiornato, dove i solidi geometrici delle architetture sono come scomposti, incrinati dalle scritture organiche dei rami e delle loro ombre, in una lettura in cui il gesto fotografico si propone esplicitamente quale atto palese e significante, mai neutra registrazione invisibile e indifferente, non finestra sul mondo ma sua interpretazione mediata, sovente significata dalla presenza di elementi di filtro, quasi di ostacolo ad una visione presunta naturale, posti in primissimo piano, ad indicare la fisicità di una presenza, a storicizzare metaforicamente l’atto del guardare per vedere.

È questa consapevolezza che lo fa sentire – pur nel suo francescanesimo –  orgogliosamente diverso da quella “pleiade di [inetti] dilettanti muniti di un apparecchio fotografico” che per “carpire un lembo di questo suolo storico, un panorama più o meno ampio (…) una comitiva”, hanno invaso  gli spazi occupati dai venditori ambulanti solo cinquant’anni prima.

 

 

Note

[1]La cartella di fotografie relative a Chiese della provincia di Alessandria, conservata presso la Biblioteca Reale di Torino, M-XXVIII (1-45, nn. 24-26) a cui pervenne verosimilmente a chiusura della Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884, comprende immagini prevalentemente di V. Ecclesia (Casale: S. Evasio; Cortazzone: S. Secondo; Crea: Santuario; Vezzolano: S. Maria;  Asti: Cattedrale, S. Giovanni, S. Pietro, torre di S. Secondo; Bagnasco: cappella del cimitero; Albugnano, cappella del cimitero; Montechiaro d’Asti:S. Nazario;  Moncucco: castello) a cui si aggiungono quattro immagini dovute a Carlo Migliore di Casale Monferrato, relative alla chiesa di San Domenico. Sono tutte stampe all’albumina virate all’oro in formato 30×40 circa montate su cartoni 50×65 circa.  Per quanto riguarda le immagini di Ecclesia la presenza sul supporto secondario dell’indirizzo di Asti, via San Martino 19, prima sede locale dello studio, consente di datare le immagini al periodo 1878/80, realizzate forse poco dopo l’Album artistico della città di Asti/ 1878, cfr. Fotografi del Piemonte, pp.29-30, tavv.XXVIII, XXIX; per una corretta ricostruzione e datazione delle vicende professionali di Ecclesia cfr. Claudia Cassio, ad vocem, in Miraglia 1990.

[2] Sulla figura e l’opera di S. Pia, che meriterebbe ancora uno specifico approfondimento, si vedano Tamburini, Falzone Barbarò 1981;   Falzone del Barbarò, Borio 1989 ed i più recenti cataloghi di mostre prodotte in concomitanza con l’ostensione torinese della Sindone: L’immagine rivelata 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone 1998.

[3]Per un confronto e per una verifica della diffusione di questo stereotipo rappresentativo, evidentemente connesso anche ad una economia di rappresentazione, essendo il punto più favorevole per mostrare l’insieme, si rimanda alla bibliografia generale, segnalando qui due sole eccezioni costituite dalla veduta acquerellata compresa nella Descrizione dei Santuari del Piemonte, 1822 (cfr. Castelli, Roggero 1989, p.20)  e dall’incisione in antiporta a Tarra 1890, forse derivata dalla prima, entrambe con vista da sud-ovest e significativa modificazione delle relazioni orografiche necessaria per accentuare la presenza del santuario;  operazione evidentemente impossibile con i vincoli proiettivi geometricamente determinati propri della successiva produzione fotografica.

[4]Dal confronto tra il  “Regesto autografo delle Campagne di Secondo Pia” (cfr. Tamburini, Falzone Barbarò 1981, pp.55-58) e le immagini reperite nel corso della presente ricerca si ricava la seguente cronologia delle riprese:

15-09-1885, Panorama.

21-08-1888, Tavola di Guglielmo Fava detto Macrino;

25-08-1888, Cappella di Santa Margherita, affreschi. A questa data gli affreschi erano appena stati scoperti (cfr. Giorcelli 1900, pp.5-6)

1890, Immagini o documenti non reperiti

23-06-1893, ConfessionaleDipinto in stucco rapp.te Madonna col bambino con iscrizione.

15-10-1898, Due tavolette [ritratti di Lodovico di Saluzzo e della moglie Giovanna di Monferrato]; San Bernardo, affresco di G.Caccia detto il Moncalvo.

25-10-1902, Statua od erma antica della Madonna.

26-10-1902, Facciata della chiesa – stile dorico; Interno della chiesa;  Cappella I: Martirio di Sant’Eusebio; Vetri dipinti nella sacrestia a forma di lunetta.

12-10-1909, Crea [Veduta del Santuario scorciata dal basso], autocromia.

25-10-1909, Pianeta donata da Pio V; Reliquia del piede di S.Margherita; Ostensorio istoriato.

1909-1910, Tavola Macrino d’Alba, autocromia.

30-03-1910, Casale – pianeta di Crea santuario [pianeta donata da Pio V], autocromia.

1913, Immagini o documenti non reperiti

11-09-1919, Cappella IV, Concezione di Maria Vergine; Cappella V, Natività di Maria; Cappella VIII, Annunciazione di Maria Vergine, particolari dei gruppi dell’Eterno e di Giuditta.

Salvo diversa indicazione si tratta di riprese effettuate con lastre alla gelatina-bromuro d’argento nei formati dal 13×18 al 24×30 e quindi stampate per contatto su carte all’albumina o al citrato, successivamente montate su cartoni corredati di annotazioni autografe. Le stesse stampe venivano successivamente rifotografate per ricavarne piccole riproduzioni da inserire nelle schede analitiche che costituivano la struttura finale del sistema archivistico di Pia. Tali schede, confluite nel Fondo Pia della Confraternita del SS. Sudario di Torino, riportano la sigla di collocazione della relativa stampa a contatto, la numerazione progressiva della scheda; localizzazione, titolo  ed eventuali misure dell’oggetto fotografato corredate di sintetiche notizie storico-critiche; data, formato e collocazione del negativo di ripresa.  Prive di schede di riferimento sembrano essere invece le autocromie. Una elencazione  dei diversi fondi fotografici  di Pia  è stata recentemente fornita da Boschiero 1998,  ma a parziale integrazione di quanto indicato si deve ricordare che presso la Biblioteca Reale di Torino oltre all’album dedicato a Vittorio Emanuele III (1919?) è conservato anche un album precedente, datato 1907, dedicato a “A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia” relativo a Ricordi fotografici di insigni monumenti religiosi del Piemonte, entrambi con immagini relative a Santa Maria di Vezzolano e a Sant’Antonio di Ranverso, cfr. Cavanna 1997.  La notorietà e autorevolezza della sua opera così come l’estesa rete di relazioni con informatori e studiosi fa però sì che immagini di Pia siano presenti  in sedi e collezioni diverse, pubbliche e private, non sempre note. Per l’interesse relativo a questa ricerca segnalo il piccolo album, conservato presso la Biblioteca Civica di Casale Monferrato e verosimilmente proveniente dal lascito Negri: Secondo Pia,  Affreschi della Cappella di S.Margherita di Antiochia nell’Abbazia di Crea Attribuiti a Cristoforo Moretti di Cremona, [1900ca], quattro pagine, copertina cartonata rossa con impressioni in oro; contiene tre stampe [manca la ripresa relativa alla volta] all’albumina virate all’oro, cm.20x25ca, con  timbro a secco: “Secondo Pia/ Torino” in basso a sinistra. Nonostante la classificazione di “Monumento Nazionale” negli anni a cavallo tra i  due secoli il Sacro Monte di Crea non è ancora entrato a far parte del panorama “ufficiale” del patrimonio artistico ed architettonico piemontese, tanto che gli operatori degli Alinari inviati nella nostra regione nel 1898 non lo comprenderanno nel proprio itinerario di lavoro, nel quale sono invece compresi il Sacro Monte di Varallo (14 settembre) e quello di Orta (18 settembre), cfr. Sansoni 1987. Neppure nella successiva campagna del 1912  Crea sarà compresa nel loro repertorio (cfr. Alinari 1925) mentre alcune riprese erano state effettuate dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche di Bergamo.

[5]Luigi Gabotto 1925b; questo testo, estratto dalla commemorazione ufficiale tenuta a Crea il 28 maggio, fa seguito ad un primo necrologio pubblicato a febbraio (Gabotto 1925a).  I legami tra i due personaggi e la comune passione per questi luoghi sono ricordati nella dedica  autografa “All’avvocato Francesco Negri/ che mi ha fatto conoscere ed / amare Crea” con la quale Gabotto  accompagna il proprio volume del 1924 corredato di  foto Negri e dei “Frati di Crea” (Padre Giovanni). Sul fotografo casalese, membro della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti d’Arte e d’Antichità per la Provincia di Alessandria dal 1890 e Ispettore agli Scavi e Monumenti dal 1907 (Bencivenni, Dalla Negra, Grifoni 1992, pp. 253-268)  si vedano Colombo 1969; Greco 1969. A conferma della funzione di laboratorio svolta complessivamente da Crea ricordiamo che nel Fondo Negri della Biblioteca Civica di Casale Monferrato (BCCM/FN) sono conservate le riprese di selezione e le singole gelatine colorate necessarie alla realizzazione di alcune riprese per tricromie qui realizzate, datate 1904 (BCCM/FN, B14) poi non completate.

[6]Per una ricostruzione delle vicissitudini dell’eredità Negri rimando a Cavanna 1991; Id. 1992.

[7]Per Samuel Butler cfr. Festing Jones 1920; Durio 1940; Holt 1989.

[8] La  lunga e amorevole consuetudine di Bultler  con l’Italia  induce nel 1880 il suo editore a offrirgli 100 sterline per la realizzazione di un libro illustrato sul nostro paese; il manoscritto è completato entro la metà dell’anno successivo ma il testo viene rifiutato e sarà pubblicato a spese dell’autore nel 1882,  corredato di disegni ricavati sia da fotografie eseguite da autori locali come Vittorio Besso (per il cortile superiore di Oropa, ad esempio) sia da schizzi dal vero. Da questa rassegna era stato volutamente escluso il Sacro Monte di Varallo che Butler considerava il più importante dei santuari dell’Italia settentrionale e al quale si riprometteva di dedicare uno studio specifico, anche su precisa sollecitazione di Dionigi Negri, segretario comunale a Varallo e in contatto con lo  scrittore sin dalle sue prima vacanze valsesiane nell’agosto del 1871. Per meglio affrontare lo studio di questo complesso Butler moltiplica i propri soggiorni italiani, estende le ricerche su Tabacchetti a Casale Monferrato (dove si reca nel settembre del 1887 da Ivrea, provenendo da Alagna dopo essere disceso a Gressoney attraverso il Col d’Olen), e prende lezioni di fotografia per poter utilizzare questo nuovo strumento documentario sia in fase di studio sia in occasione della pubblicazione (Butler 1888, con 21 tavole f.t. da fotografie dell’autore). L’edizione italiana riveduta e ampliata, tradotta da Angelo Rizzetti, amico varallese di Butler, latinista, benemerito CAI, che nel 1897-98 contribuì economicamente al restauro della Chiesa della Madonna di Loreto presso Varallo, venne pubblicata a Novara nel 1894 dalla Tipo-Litografia dei Fratelli Miglio dopo che il volume era stato rifiutato dagli editori milanesi Treves e Hoepli, con una titolazione semplificata (Ex Voto. Studio artistico sulle opere d’arte del S.Monte di Varalo e di Crea) e con un apparato iconografico lievemente ampliato. La consuetudine della documentazione fotografica rimarrà immutata anche nei decenni successivi  e nel 1891 Butler realizzerà alcune immagini relative a Crea: “Prendo l’occasione del nuovo anno per mandarle alcune fotografie prese a Crea mentre l’estate passato (sic). Lei vedrà subito che alcune sono cattivissimi restauri, furono fatti 30 anni fa da un certo padre Latini”, scrive ad Arienta il 31 ottobre 1891 (Durio 1940, p.86).

[9]Datata 5 novembre 1900, è pubblicata in facsimile in Greco 1969, p.24. La stima di Butler per lo studioso casalese è chiaramente espressa in una lettera a Giulio Arienta del 31 ottobre 1891: “Quel prete Don Minina ed il cav. Avv. Francesco Negri sono i più attivi, e cercano dappertutto con zelo molto forte e molto intelligente (…) so d’ogni modo che l’avvocato Negri è uomo di ottimo giudizio in questi affari.” (in Durio 1940, p.86). Quale concreto segno di  stima Butler  finanzierà la realizzazione dei cliché fotografici a corredo del saggio di Negri sul santuario di Crea (Negri 1902, p.76). Le lunghe frequentazioni tra i due sono  documentate anche  da una lastra 13×18 in cui sono ritratti Butler e Festing Jones nel giardino di casa Negri a Casale (BCCM/FN, sc.B20) e da una ripresa stereoscopica datata 1898 (BCCM/ FN, sc.E13) in cui i due inglesi sono ritratti a Camino insieme a Cesare Coppo, amico comune i cui congiunti (la moglie e il figlio Angelo) visiteranno Butler a Londra proprio nel 1900.  Dopo la  morte di Butler (18-6-1902) gli esecutori testamentari H.Festing Jones e R.A. Streatfield doneranno a Negri uno schizzo a olio eseguito dallo scrittore nel 1871, in occasione del suo primo soggiorno a Varallo, “Preso dalla soglia della chiesa dell’Assunta” (Durio 1940, p.22, nota 3).  Prima di tradurre in inglese l’Iliade (1898) e l’Odissea  (1900) Butler aveva pubblicato The Authoress of the Odissey London: Longmans, 1897, libello nel quale sosteneva che l’autrice fosse una sacerdotessa trapanese che si nasconde nel racconto nel personaggio di Nausicaa: “un altro modo di dare l’assalto al mito, di riportare l’opera dell’uomo sul piano disincantato, casalingo, irritante e libero del reale.” (Drudi Demby 1993).

[10]Butler 1888 (trad. it. 1894, p.299). In Negri 1902, p.43 l’opera è  attribuita a Paolo Giovenone.

[11]Negri 1902, p.33. Nello stesso anno erano state fotografate da S. Pia, vedi Nota 4. Le due vetrate, che nel 1914 si trovavano nei locali della Amministrazione del Sacro Monte,  passarono poi ai Musei Civici di Torino.

[12]Crea 1900, numero unico del “Corriere di Casale”, 8-9-10 ottobre 1900, pubblicato in occasione del pellegrinaggio diocesano al Santuario di Crea, con brevi scritti di F. Negri, G. Giorcelli, F. Valerani et alii. Il fascicolo costituisce il primo esempio di quella lunghissima serie di pubblicazioni ibride, tra  foglio devozionale e  guida turistica, che verranno pubblicate a Crea nei decenni successivi, sovente senza variazioni sostanziali di contenuto né testuale né iconografico. Limitatamente a quelli in cui compaiono diverse edizioni del testo di Negri ricordiamo: Pel pellegrinaggio a Crea. Nel Giubileo dell’Immacolata. CasaleMonferrato: Tip. G. Pane, 1904;  Crea. Guida Storico-artistica. Casale Monferrato: Tip. Massaro, 1908;  Crea. Storia -Cronologia – Arte – Culto. Casale Monferrato: Tip. Editrice Ditta G. Pane, 1913; Il Santuario di Crea. Guida storico-artistica edita in occasione delle feste dell’anniversario della nuova Incoronazione. Crea 2-3 agosto 1914. Casale Monferrato: Tip. G. Pane, 1914. Lo stesso Negri ritornerà su questi temi  in una conferenza per l’Unione Escursionisti di Torino tenuta nel 1908, cfr. Negri 1908, corredandola – come era allora consuetudine – di diapositive che verosimilmente corrispondono a quelle oggi conservate nel Fondo Valle del Parco Regionale di Crea.  Per il ruolo sociale e culturale svolto dall’Unione Escursionisti cfr. Garimoldi 1996.

[13]Negri 1902, p.36 e segg. Le riprese più tarde (BCCM/FN, B13-9, B8-5) vennero realizzate ben oltre la pubblicazione di questo testo, nell’agosto del 1904 dopo i restauri condotti da Bigoni.

[14]Per le suggestive relazioni tra scultura e fotografia cfr. Pygmalion Photographe 1985; Sculpter-Photographier. Photographie-Sculpture 1991; Skulptur in Licht der Fotografie 1998.

[15]”Io son quasi d’opinione che il Vecchietto viene da Crea” scrive ad Arienta il 14 ottobre 1888 (Durio 1940, p.60). Alcuni studiosi di Butler (Hotl 1984, p.85) sostengono che il fascino esercitato da quest’opera possa essere meglio compreso se la si considera come una possibile “incarnazione” del vecchio John Pontifex, il  capostipite della famiglia protagonista del romanzo autobiografico The Way of All Flesh  (trai. it. Così muore la carne, a cura di E. Giachino. Torino: Einaudi, 1939) scritto tra 1872 e 1884 ma pubblicato postumo nel 1903.  Molte delle affermazioni e opinioni di Butler verranno ben presto  confutate proprio da Giulio Arienta, col quale egli ammetterà onestamente di “aver fatto tanti errori che ora non posso correggere” (30 giugno 1896) e di dover fare “modificazioni assai gravi nelle opinioni riguardo alle cappelle del Sacro Monte” (21 marzo 1896) (cfr. Durio 1940, pp.112-113). L’immagine pubblicata in Negri 1902, tav.1 si discosta parzialmente dalla ripresa per un diverso taglio della figura e per un tono generale più scuro, che la isola dal contesto.

[16] “Lo rivedo ancora nella buia cappella (…) a rivelarmi  le bellezze in essa racchiuse mediante il lampo del magnesio.” (Gabotto 1925b, p.82)

[17]Il volume ripropone sostanzialmente invariati i due saggi del Canonico Prof. Evasio Colli, parroco di Occimiano, poi vescovo di Acireale,  e di Francesco Negri, già pubblicati l’anno precedente nel “Numero unico” edito dalla tipografia G. Pane di Casale, che nello stesso 1914 pubblica a firma degli stessi autori  e con un apparato fotografico dovuto al sacerdote vercellese Alessandro Rastelli, Il B.Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio (nuova ediz. Trino: Circolo Culturale Trinese, 1996, con introduzione di P. Cavanna) singolare volume in cui il tema apparentemente agiografico si risolve in un contributo storiografico (Colli) intriso di propaganda sociale e politica fortemente influenzate dalla Rerum Novarum di Leone XIII, proprie anche di altri titoli dello stesso editore-tipografo (La Lega Internazionale dei Lavoratori spiegata al popolo), in accurate e innovative ricerche su temi di storia dell’arte locale (Negri) e in un corretto apparato fotografico dovuto ad un sacerdote dilettante fotografo.

Le prime  cartoline in cui sia registrata la presenza dei frati, comunemente ritratti in meditazione o in preghiera affacciati al pronao della cappella della Salita al Calvario o a quella del Paradiso secondo uno schema iconografico inaugurato intorno al 1865 da Giorgio Sommer con la sua veduta di Amalfi dal Convento dei Cappuccini (cfr. Palazzoli 1981, tav.45; Miraglia, Pohlmann 1992), erano edite dalla stessa ditta Pane, da A.Tabusso e dalle Sorelle Capra di Crea, mentre quelle più tarde (1930ca) sono pubblicate da Fotografia e Arti Grafiche, via Garibaldi 3, Torino, di Guido Cometto,  intimo amico di Padre Giovanni del quale realizzerà anche due intensi ritratti. Alla crescente diffusione della cartolina illustrata è dedicata una breve riflessione nel bollettino del Santuario in cui  dopo averla definita “Simpatica messaggera dei vari sentimenti dell’animo nostro [che] parla al cuore di chi è inviata con una sintesi meravigliosa”  così prosegue: “Ma ahimè, che in mezzo a tanta dovizia di cartoline belle e morali, ne insorgano altre laide e oscene, allettatrici di sensuali istinti forniti di insani desideri (…) Oh! Facciamo una guerra spietata a questa immonda messaggera di Satana” (Passiflora 1922).

[18] Maccono 1923;  Santuario di Crea. Album, 1923.

[19]Nota della Direzione 1923, che così prosegue: “Annunziamo ora che teniamo a disposizione un forte stock di fotografie formato cartolina a L.0,50 l’una. Coloro che desiderano la fotografia del proprio pellegrinaggio si rivolgano alla Direzione di questo periodico indicando il numero di cartoline che desiderano.”  Foto di gruppo di pellegrini erano però già state pubblicate nel 1922.

[20]Col 1 gennaio 1922, a.XIV, n.1 la vecchia denominazione di “Maria. Bollettino del Santuario di Crea”  muta in “La Madonna di Crea. Periodico del Santuario di Crea” e si inizia ad utilizzare la fotografia, prima completamente assente, per modernizzare un canale di comunicazione che fosse strategicamente adeguato a quegli anni cruciali.

[21]P.G. [Padre Giovanni Valle]  1925, p. 69; il testo venne ripubblicato con lievi varianti testuali in Valle 1926.

[22]Padre Giovanni Giuseppe della Croce, questo il suo nome di religioso (Mazzè: 13-5-1872 / Crea: 16-1-1936) inizia a fotografare nei primi anni del Novecento quando è Guardiano al Santuario di Belmonte nel Canavese (1901-1904) e prosegue questa sua attività specialmente a Crea, dove giunge secondo Maccono 1936, nel 1923 ma la data va anticipata di almeno un anno come confermano alcune riprese da lui realizzate  e specialmente l’Album artistico di Crea/ 1922 da lui composto che costituisce il modello della pubblicazione edita nel 1923 (cfr. Nota 17). Anche Luigi Gabotto lo ricorderà affettuosamente con “la sua macchina fotografica, curiosa scarabattola (…) Con la sua rustica cesta fratesca, il cavalletto sotto braccio, la bisaccia a tracolla [che] scalava i colli, si arrampicava sulle piante o su palchi di fortuna senza badare a pericoli ed alla sua povera tunica, pur di trovare un punto di vista e una luce perfetta.” (Gabotto 1936) traducendo in parole l’immagine bonariamente caricaturale, testimoniata da una riproduzione fotografica conservata nei depositi del Museo di Crea,  che di lui ci ha lasciato Carlo Pintor, pittore e restauratore sardo che risulta attivo – come mi ha segnalato Maria Carla Visconti, che ringrazio – nella “Cappella Reale” della Natività di Maria nel 1935 (SBAAP, Archivio corrente, Serralunga di Crea – Santuario).  Padre Giovanni costituisce sinora l’esito più interessante del fenomeno di diffusione della pratica fotografica amatoriale che si registra tra il clero nel  Piemonte centro-orientale (senza dimenticare la presenza torinese di Don Eugenio M. Casazza) nei primi decenni del secolo, che annoverava sinora i nomi di F. Origlia e A. Rastelli entrambi a loro volta in relazione con F. Negri, col canonico Colli e con le edizioni Pane di Casale Monferrato (cfr. Nota  16), secondo una trama di rapporti e intenzioni  culturali ancora tutta da indagare che comprendeva certamente anche Secondo Pia e viveva sotto il segno di un rinnovato interesse della chiesa e del clero per la fotografia – apprezzata da Leone XIII – dopo le riprese della Sindone nel 1898,  ma anche, per quanto riguarda la diffusione delle immagini fotografiche, del modello salesiano, la cui tipografia torinese si era dotata sin dal 1877 di un laboratorio per il trattamento e la stampa delle fotografie (Marchis 1989, pp.230) diretto da Carlo Antonio Ferrero, già titolare a Torino di un Emporio Fotografico specializzato in fotografia scientifica.

[23]Valle 1925, p.69. Questo accenno significativo allo sguardo “distratto” dei visitatori, che non sembrano interessati proprio agli elementi narrativi della macchina teatrale del Sacro Monte (tantomeno al loro valore artistico) ribadisce la centralità del problema delle strategie comunicative messe in atto dal discorso delle cappelle.

[24]Ibidem.  Il ruolo svolto da Negri nella ideazione e prima strutturazione del Museo del Sacro Monte, curiosamente dimenticato dagli stessi necrologi redatti da Gabotto (cfr. Nota 5)  è confermato dal medaglione con lapide commemorativa posto nell’atrio del museo: “ In memoria di / Francesco Negri / che illustrò Crea tanto amata / nei suoi ricordi gloriosi / Nella realtà fulgida di sue naturali bellezze / Gli amici tutti con affetto / Anno 1929”.  Poiché sappiamo da Gabotto 1925, che Negri si era recato a Crea per l’ultima volta il 16 ottobre 1921, vale a dire prima dell’arrivo di Padre Giovanni, dobbiamo supporre che la conoscenza tra i due e il volontario ruolo di prosecutore svolto dal francescano si fondassero su di un rapporto precedente e consolidato  che potrebbe essere fatto risalire al 1899-1901, quando Padre Giovanni era Maestro dei Chierici di Casale,  senza dimenticare però che egli si recava occasionalmente a Crea anche prima di stabilirvisi, come dimostra una sua immagine della cappella del Paradiso datata 19 febbraio 1920 (A9/8).

[25]Valle 1925, p.69. La parte più consistente dell’archivio fotografico di Padre Valle oggi costituisce il fondo omonimo conservato presso la sede del Parco del Sacro Monte di Crea. In attesa di una specifica catalogazione, una sommaria  ricognizione consente di definirne in prima approssimazione la consistenza:  4000ca negativi su lastra e pellicola alla gelatina-bromuro d’argento, nei formati dal 6,5×9 al 18×24, questi ultimi forse da attribuire a Francesco Negri, al quale vanno assegnate anche i 110ca positivi su vetro per proiezione, alla gelatina-bromuro d’argento, nel formato 8,5×10 la cui presenza è connessa all’idea “di far contemplare sullo schermo con nitide proiezioni il complesso storico ed illustrativo di Crea” (Valle 1925, p.70). I circa 1500 positivi (in prevalenza al bromuro e clorobromuro d’argento, in formati compresi tra il 9×12 e il 24×30) sono stati raccolti dallo stesso Padre Giovanni in 10 album insieme ad alcune centinaia di cartoline tipografiche e ad alcune stampe all’albumina ancora di F. Negri, a volte con annotazioni autografe al verso. Le date di esecuzione sono comprese tra 1890ca e 1910ca per Negri e 1920-1935 per Padre Giovanni. Un più ridotto numero di positivi (alcune decine) è stato individuato nel corso di questa ricerca anche tra gli eterogenei materiali conservati nel Museo del Santuario tra i quali si trovano anche alcuni apparecchi fotografici a soffietto da viaggio, un apparecchio fotografico tipo folding e uno tipo box oltre a cinque obiettivi, piastre portaottica e otturatori  che per tipologia ed epoca di costruzione avrebbero potuto appartenere a Francesco Negri, sebbene la loro utilizzazione da parte di Padre Giovanni sia parzialmente documentata da una fotografia datata 1928ca, oggi in collezione privata. Se ricerche successive dovessero confermare la provenienza di questi materiali, si tratterebbe di un ritrovamento di grande rilevanza per la comprensione dei modi operativi di Negri, del quale – come è noto – ben pochi strumenti e apparecchi sono conservati nel Fondo della Biblioteca Civica di Casale Monferrato.

[26]La nascita e lo sviluppo delle tendenze “artistiche” nell’ambiente fotografico torinese nei primi decenni del nostro secolo sono ormai ampiamente studiati,  cfr. Luci ed Ombre, 1987; Costantini 1990; Miraglia 1990; Fotografia luce della modernità 1991; Mario Gabinio 1996.

[27] “La maggior parte delle fotografie che illustrano questo studio mi vennero offerte dal dott. Vittorio Viale, direttore dei Musei Civici di Torino, e dal padre Gian Giuseppe Valle del Santuario di Crea.” (Gabrielli 1934, p.5, nota 1); mentre l’autrice parla di foto “offerte”,  la recensione comparsa sul periodico del Santuario di Crea sottolinea come “le fotografie che riguardano la Cappella sono opera del nostro ben conosciuto ed amato P. Gian Giuseppe Valle.”  (Recensione 1935, p.27)

 

 

 

Bibliografia citata

 

Barbano 1900

Orsola Maria Barbano, Davanti alla Cappella di Leonardo Bistolfi, in Crea 1900, numero unico del “Corriere di Casale”, 8 ottobre 1900,  pp. 9-10

 

Bencivenni, Dalla Negra, Grifoni 1992

Mario Bencivenni, Riccardo dalla Negra, Paola Grifoni, Monumenti e istituzioni, II. Firenze, SBAA per le provincie di Firenze e Pistoia, 1992

 

Boschiero 1998a

Gemma Boschieroa, Il fondo Pia dell’Archivio Storico del Comune di Asti, in Secondo Pia Fotografo della Sindone, 1998, pp.39-41

 

Boschiero 1998b

Gemma Boschiero, I fondi Pia conservati presso sedi diverse, in Secondo Pia Fotografo della Sindone, 1998, pp.43-44

 

Butler 1882

Samuel Butler, Alps and Sanctuaries. London: David Bogue, 1882

 

Butler 1888

Samuel Butler, Ex voto. An account of the Sacro Monte or New Jerusalem at Varallo Sesia. With some notices of Tabacchetti’s remaining work at the Sanctuary of Crea. London: Trübner & Co., 1888

 

Butler 1894

Samuel Butler, Ex Voto. Studio artistico sulle opere d’arte del S.Monte di Varallo e di Crea; traduz. di Angelo Rizzetti. Novara:Tipo-Litografia dei Fratelli Miglio,1894

 

Castelli, Roggero 1989

Attilio Castelli, Dionigi Roggero, Crea. Il Sacro Monte. Casale Monferrato: Edizioni Piemme, 1989

 

Cavanna 1991

Pierangelo Cavanna, Francesco Negri e la Biblioteca Civica di Casale Monferrato, “AFT”, 7 (1991), n.14, dicembre, pp.57-63.

 

Cavanna 1992

Pierangelo Cavanna, Il fondo fotografico della Biblioteca Civica di Casale Monferrato ed una mostra, “Fotologia”, 9 (1992), n. 14/15, primavera-estate, pp. 46-53

 

Cavanna 1997

Pierangelo Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauro. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp. 68-77

 

Colli et al. 1914

Evasio Colli, Francesco Negri, Giovanni Augusto de Amicis, Luigi Gabotto, Il Santuario di Crea. Casale Monferrato:Tipografia Ditta G. Pane,1914

 

Colombo 1969

Cesare Colombo, a cura di, Francesco Negri fotografo a Casale 1841-1924. Bergamo: Il Libro Fotografico, 1969

 

Costantini 1990

Paolo Costantini, “La Fotografia Artistica” 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990

 

Damonte 1891

Perpetuo Dionigi Damonte, Relazione della Solenne incoronazione della Madonna di Crea (5 agosto 1890). Casale:Tipografia Giovanni Pane,1891

 

Damonte 1894

Perpetuo Dionigi Damonte, Lettere su Crea (1878-1894). Casale Monferrato:Tipografia Giovanni Pane,1894

 

Drudi Demby 1993

Lucia Drudi Demby, Introduzione, in Samule Butler, Erewhon. Milano: Adelphi, 1993

 

Durio 1940

Alberto Durio, Samuel Butler e la Valle Sesia. Da sue lettere inedite a Giulio Arienta, Federico Tonetti e a Pietro Calderini. Varallo Sesia: Tipografia Testa, 1940

 

Falzone del Barbarò, Borio 1989

Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989

 

Festing Jones 1920

Henry Festing Jones, Samuel Butler author of Erewhon !1835-1902). A memoir. London: Macmillan & Co., 1920

 

Fotografi del Piemonte 1852-1899 1977

Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Fotografia luce della modernità 1991

Fotografia luce della modernità: Torino 1920/1950, dal pittorialismo al modernismo, catalogo della mostra (Torino, Museo dell’automobile Carlo Biscaretti di Ruffia, 10 ottobre-17 novembre 1991) a cura di Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier, saggio storico di Valerio Castronovo. Firenze: Alinari, 1991

 

Gabotto 1924

Luigi Gabotto, Crea. Casale Monferrato: Stab. Tip. Succ. Cassone,1924

 

Gabotto 1925a

Luigi Gabotto, Francesco Negri, “La Madonna di Crea”, 16 (1925), n.2, febbraio, pp.15-16.

 

Gabotto 1925b

Luigi Gabotto, Francesco Negri, “La Madonna di Crea”, 16 (1925), n.7, luglio, pp.81-83

 

Gabotto 1936

Luigi Gabotto, Padre Giovanni, “La Madonna di Crea”, 27 (1936), n.3, marzo, pp. 30-31

 

Gabrielli 1934

Noemi Gabrielli, Le pitture della Cappella di S.Margherita nel Santuario di Crea, “Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino”, 36 (1934), n.5-6, estratto

 

Garimoldi 1996

Giuseppe Garimoldi, Montagna – Città: autoritratto di un fotografo, in Mario Gabinio 1996, pp.37-46

 

Giorcelli 1900

Giuseppe Giorcelli, Gli affreschi della Cappella di S.Margherita nella Chiesa del Santuario di Crea , in Crea 1900, numero unico del “Corriere di Casale”, 8 ottobre 1900,  pp. 5-6

 

Godio 1887

Alessandro Godio,Cronaca di Crea. Casale Monferrato:Tipografia Litografia Corrado, s.d., [1887]

 

Greco 1969

Enzo Greco, La figura e l’opera di Francesco Negri. Casale Monferrato: Lions Club, 1969

 

Holt 1989

Lee E. Holt, Samuel Butler. Boston: Twayne Publishers,  1989

 

L’immagine rivelata 1998

L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998

 

Locarni 1900

Giuseppe Locarni, Brevi cenni storici sull’insigne Santuario di Nostra Signora di Crea. Casale Monferrato:Tipografia Gio. Pane,1900

 

Luci ed Ombre 1987

Luci ed ombre: Gli annuari della Fotografia Artistica Italiana 1923-1934, catalogo della mostra (Firenze, Largo Fratelli Alinari, 1987-1988) a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier, introduzione di Valerio Castronovo. Firenze: Alinari, 1987

 

Maccono 1923

Padre Francesco Maccono, Il Santuario di N.S. di Crea nel Monferrato. Storia popolare. Casale Monferrato: Tip. Miglietta, 1923 (II edizione riveduta e corretta, Casale Monferrato: Tip. di Miglietta, Milano e C. – Succ. Cassone, 1931)

 

Maccono 1936

Padre Francesco Maccono, Il P.Giovanni Giuseppe della Croce, “La Madonna di Crea”, 27 (1936), n.2, febbraio, pp. 22-23

 

Marchis 1989

Vittorio Marchis, La formazione professionale: l’opera di Don Bosco nello scenario di Torino, città di nuove industrie, in Giuseppe Bracco, a cura di, Torino e Don Bosco. Torino: Archivio Storico, 1989, pp.217-238

 

Mario Gabinio 1996

Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia, Pohlmann 1992

Marina Miraglia, Ulrich Pohlmann, Un viaggio fra mito e realtà: Giorgio Sommer fotografo in Italia. Roma: Peliti, 1992

 

Negri 1900

Francesco Negri,L’arte a Crea: brevi cenni,  in Crea 1900, numero unico del “Corriere di Casale”, 8 ottobre 1900,  pp. 3-5

 

Negri 1902

Francesco Negri, Il Santuario di Crea in Monferrato, “Rivista di storia, arte e archeologia per la Provincia di Alessandria”, 12 (1902), pp.1-76

 

Negri 1908

[Francesco Negri], Il Santuario di Crea. Cenni sulla conferenza dell’Avv. Cav. Francesco Negri. Torino: Unione Escursionisti, Tip.M.Massaro, 1908.

 

Negri 1914

Francesco Negri, Arte a Crea, in Il Santuario di Crea. Casale Monferrato: Tipografia Ditta G.Pane, 1914, pp.38-52

 

Niccolini 1877

Giuseppe Niccolini, A zonzo per il Circondario di Casale Monferrato. Firenze – Roma – Torino: Ermanno Loescher, 1877

 

Nota della Direzione 1923

Nota della Direzione, “La Madonna di Crea”, 15 (1923), n.9, settembre, p. 118

 

Palazzoli 1981

Daniela Palazzoli, a cura di, Giorgio Sommer fotografo a Napoli. Milano: Electa, 1981

 

Passiflora 1922

Passiflora, La cartolina illustrata,  “La Madonna di Crea”, 14 (1922), n.5, maggio, pp.58-59

 

Pygmalion Photographe 1985

Pygmalion Photographe: La sculpture devant la caméra 1844-1936, catalogo della mostra (Ginevra, Musée d’Art et d’Histoire, 1985),  Rainer Michael Mason, Helene Pinet, dir. Genève: Cabinet des Estampes, Musée d’Art et d’Histoire, 1985

 

Recensione 1935

Recensione a Noemi Gabrielli, Le pitture della Cappella di S.Margherita nel Santuario di Crea, “La Madonna di Crea”, 26 (1935), n.2-3, febbraio-marzo, p.27

 

Sansoni 1987

Mario Sansoni, Diario di un fotografo, “AFT”, 3 (1987), n.5, giugno, pp. 46-53

 

Sculpter-Photographier 1993

Sculpter-Photographier. Photographie-Sculpture, atti del convegno (Parigi, Museo del Louvre, 22 – 23 novembre 1991), Michel Frizot, Domique Païni, dir. Paris: Musée du Louvre – Marval, 1993

 

Secondo Pia 1998

Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia : immagini di Asti e dell’Astigiano , catalogo della mostra (Asti, Archivio storico del Comune, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998), a cura di Gemma Boschiero.  Asti: Comune di Asti, 1998

 

Sertorio Lombardi 1978

Sertorio Lombardi Cristina , a cura di, Il Piemonte antico e moderno delineato  e descritto da Clemente Rovere. Torino: Società Reale Mutua Assicurazioni, 1978

 

Skulptur im Licht der Fotografie 1997

Skulptur im Licht der Fotografie: von Bayard bis Mapplethorpe, catalogo della mostra (Wien,  Museum Moderner Kunst Stiftung Ludwig, 1997), hrasg. Erika Billeter. Bern : Benteli, 1997

 

Tamburini, Falzone Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981

 

Tarra 1890

Giulio Tarra, Il Santuario di Crea. Torino: Tipografia dell’Ateneo, 1890

 

Valle 1925

P.G. [Padre Giovanni Valle], Crea nella fotografia, “La Madonna di Crea”, 17 (1925), n.6, giugno, p. 69

 

Valle 1926

  1. Giovanni Valle, “L’arte fotografica a Crea, in La Fiorita di Crea, a cura dei PP. Francescani del Santuario. Casale Monferrato: Tip. Succ. Cassone, 1926, pp.275-279

“Catalogo della Fotografia dell’Emilia/ Bologna” (2015)

in Cinzia Frisoni, a cura di, Pietro Poppi e la Fotografia dell’Emilia, catalogo della mostra (Bologna, San Giorgio in Poggiale, 26-11-2015/ 28-02-2016). Bologna:  Bononia University Press, 2015, pp. 13-28

 

Al titolo segue l’indirizzo, ma nessuna indicazione relativa al contenuto compare in copertina di quel primo fascicolo pubblicato da Pietro Poppi intorno al 1871[1].  Manca perciò ogni riferimento ai soggetti , ma sul genere non potevano esserci dubbi: a quelle date uno studio fotografico avrebbe potuto pubblicare solo un repertorio di riproduzioni di monumenti, quadri e disegni, certo non di ritratti o altro.

“Quale è l’importanza annua delle fotografie che si fanno nel vostro stabilimento? Vi occupate specialmente delle vedute di monumenti, e della riproduzione di quadri, disegni ecc.?”  si chiedeva nel questionario (“interrogatorio”) utilizzato per l’Inchiesta industriale promossa dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio nel 1870 e realizzata attraverso la rete delle Camere di Commercio[2].  E ancora: “Credete voi che possano farsi qui fotografie di monumenti, quadri ecc. ugualmente bene, ed allo stesso prezzo che all’estero? Si fa esportazione dall’Italia di tali fotografie, e quale ne giudicate l’importanza?” Questi i quesiti posti  nello stesso anno in cui il Ministro della Pubblica Istruzione Cesare Correnti scriveva ai presidenti delle Accademie di Belle Arti affinché gli fornissero “con sollecitudine una nota particolareggiata di tutti gli edifici pubblici (cioè non appartenenti a privati cittadini) di qualsiasi forma, sacri o profani, esistenti nel distretto di codesta Accademia, i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali”[3].

Sono domande che rendono immediatamente chiaro quale fosse già allora il settore che più connotava la produzione dei principali studi fotografici attivi in Italia, anche nella percezione delle burocrazie ministeriali. Poppi fu tra i molti che non risposero all’Inchiesta, sebbene non dovesse  condividere l’opinione di Michele Schemboche che “i fotografi che si danno all’industria della riproduzione dei monumenti (e sono queste le sole fotografie che trovino all’estero facile smercio) si trovano a Roma, a Venezia, a Firenze, città eminentemente artistiche”[4].  E Bologna certamente non lo era, e non solo nell’opinione degli incolti. Quella necessità, evidente, di rivolgersi specialmente a una clientela straniera doveva essergli ben chiara già in occasione del suo secondo catalogo (1879), stampato in francese;  consuetudine che venne mantenuta anche nel successivo del 1883, nel quale non solo si indicavano le località rappresentate, ma l’elenco comprendeva appunto “città eminentemente artistiche” come Roma e Firenze, nel tentativo di adeguarsi alle pratiche commerciali dei grandi studi, ben delineate da Giacomo Brogi:  essendo “difficilissimo senza dubbio e che fa sciupare molto tempo utile a chi viaggia in Italia quello di recarsi presso i diversi editori di vedute per scegliere ciò che gli conviene (…) abbiamo creduto necessario di tenere un assortimento completo di fotografie di tutta l’Italia (…) e siamo stati convinti di questa necessità dallo splendido successo che abbiamo avuto”[5].

A Bologna l’edificio di via Mercato di Mezzo 56 era noto come Casa Campogrande. Fu  qui, in anni quasi concitati, che ebbero sede l’Officina di Fotografia di Dioneo Tadolini (dal 1857) e lo studio del polemico Emile Anriot (dal 1861-1862), posto “all’ultimo piano e non al primo”, come opportunamente precisava un avviso[6]. Qui Pietro Poppi, all’epoca ancora pittore ben presente nelle esposizioni locali[7], aveva aperto nel giugno 1863 una cartoleria in società con Adriano Lodi; attività formalmente chiusa quando, secondo la testimonianza per più ragioni affidabile di Carlo Malagola, in quell’edificio “lo Stabilimento Poppi [venne] fondato nel 1865 col titolo di Fotografia dell’Emilia”[8].   Senza dimenticare che nel frattempo Roberto Peli, dopo il distacco da Anriot e lo spostamento di quest’ultimo in Via San Mamolo nel 1864, aveva aperto un proprio studio (Nuova fotografia Peli), adottando come recapito proprio la cartoleria Lodi e Poppi. Si direbbero anni di tentativi incerti, di iniziative diverse destinate quasi a tastare il terreno, a verificare le possibilità del nuovo mercato delle fotografie che si andava definendo, come la società Peli, Poppi & C.[9], che stabilì la propria sede in strada San Mamolo 102, vale a dire nello stesso edificio in cui si era trasferito Anriot. Quasi per dispetto verrebbe da dire, specie considerando il fatto che la società ebbe breve vita[10].

Era il 1866. Lo stesso anno in cui lo “Stabilimento fotografico dell’Emilia” non solo era in piena attività ma ricevette il suo primo riconoscimento pubblico sotto forma di un articolo pubblicato ne “Il Monitore di Bologna”[11], in cui si lodava la riproduzione fotografica “dei 75 quadri, dell’Inferno (…) ormai celebri in Europa, del Sig. Gustavo Doré (…) per gentilezza usatagli dall’egregio Sig. Francesco Ratti, professore di questa nostra R. Accademia di Belle Arti”. Il brano offre con tutta evidenza informazioni per noi fondamentali: non solo ci informa di uno dei primi lavori di ‘riproduzione’ di opere d’arte,  qui condotto con largo anticipo sulla loro pubblicazione italiana[12], ma conferma i suoi legami con gli ambienti dell’Accademia bolognese  e suggerisce un elemento forte per la definizione del passaggio di Poppi dalla pratica pittorica a quella fotografica.  Certo, l’amicizia e la collaborazione con Roberto Peli. Certo, almeno in via ipotetica, la frequentazione delle lezioni che Anriot impartiva a pagamento, ma un ruolo centrale dovette svolgerlo proprio Ratti, docente di xilografia all’Accademia  più che interessato alle nuove tecnologie fotografiche[13]  e inoltre, dato per noi più significativo, vicino a Luigi Sacchi, con cui aveva collaborato all’edizione illustrata dei Promessi Sposi. Quello stesso Sacchi che dopo il passaggio alla fotografia documentò verso il 1852 le Arche dei Glossatori, il Palazzo Pontificio e la Fontana del Nettuno, inserendo poi queste ultime nella seconda serie dei Monumenti, vedute e costumi d’Italia[14].

Non si vuole qui suggerire alcuna derivazione di tipo artistico o stilistico; la formazione fotografica aveva significati e ragioni diverse da quella pittorica, ma forse possiamo accontentarci di credere che Poppi, sotto la spinta di concrete esigenze economiche, come molti in quegli anni del resto, abbia scelto di passare dalla pittura alla fotografia con il sostegno di Ratti e seguendone gli autorevoli insegnamenti tecnici,  magari confidando per breve tempo sull’esperienza maturata da Peli come assistente di Anriot. Nonostante la scarsa fortuna artistica di Bologna in ambito extralocale[15] anche la scelta di dedicarsi alla documentazione del patrimonio artistico e architettonico non appare così inconsueta, considerando il buon successo delle Vedute Fotografiche Artistiche e Monumenti della città di Bologna  in cui Anriot nel 1864 aveva fornito  “un più libera lettura della città e dei suoi monumenti”[16] per poi lasciare pochi anni dopo Bologna e campo libero all’attività di Poppi.  La città non era stata compresa tra le mete delle Excursions daguerriennes e  si dovette attendere Richard Calvert Jones per averne le prime testimonianze fotografiche[17], quindi le prove di Sacchi e poi, in chiusura di decennio, il  primo panorama fotografico della città realizzato da Carlo Napoleone Bettini[18].

È proprio con Anriot allora che pare misurarsi Poppi agli inizi della propria attività professionale di fotografo, come mostrano alcune stampe databili a quei primissimi anni, relative ai maggiori monumenti bolognesi e note nei formati carte de visite e album[19]. Tra queste risultano per noi di particolare interesse una veduta di piazza Santo Stefano realizzata prima del 1869[20], inquadrata dallo stesso identico punto di vista ed esattamente con le stesse luci che ritroviamo in due riprese coeve di Anriot e di Giorgio Sommer[21], solo utilizzando un obiettivo di lunghezza focale minore e quindi comprendendo una porzione più ampia di piazza, e soprattutto le Torri Asinelli e Garisendi intere con statua di S. Petronio vedute dall’Albergo dei Quattro Pellegrini, di cui sono note oltre la lastra originale e la stampa per contatto, anche un’edizione in formato “Gabinét”,  derivata non da una specifica ripresa ma dalla rifilatura della stampa di formato maggiore.

Le Torri “prese dai tetti” aprivano il catalogo del 1871. Una scelta che non poteva essere più significativa dal punto di vista culturale e simbolico, ma che costituiva anche un eccezionale esito in termini di qualità specifiche dell’immagine, dove l’uso  di un obiettivo di grande apertura angolare, forse un poco decentrato, determinava una leggera deformazione ottica ma accentuava  il gioco dinamico delle diverse diagonali che costruiscono l’immagine, consentendo di mostrare le torri in tutta la loro altezza, a partire da quello spazio ristretto e quasi scavato da cui crescono. Considerando l’intera serie poi si chiarisce ancor meglio una delle modalità operative di Poppi, che circumnavigava il soggetto, riprendendolo da diversi punti di vista e pubblicandone edizioni diverse non solo per il formato[22] ma anche, secondo un uso non raro in quegli anni, con l’aggiunta di nuvole in ogni senso pittoresche a movimentare lo spazio vuoto del cielo.

Furono proprio i principali monumenti bolognesi a costituire la sezione  più rilevante di quel catalogo, pubblicato a breve distanza dal trasferimento dello studio nella nuova sede di Casa Rodriguez, in Strada San Mamolo 101, non lontano da quella della precedente società con Roberto Peli e dello studio di Anriot (San Mamolo 102). Di quel primo repertorio facevano parte anche i “Paesaggi” e i “Quadri della Regia Pinacoteca ed altri quadri classici”[23], con una scelta di temi già indicativa e che nei decenni successivi si sarebbe ulteriormente articolata ma mai smentita:  un buon numero di chiese bolognesi, e non solo le maggiori, con molte riprese dedicate ai loro elementi decorativi, poi i grandi palazzi storici; accanto a questi però anche le principali architetture contemporanee, come il Palazzo della Banca Nazionale (192)[24] e quello della Cassa di Risparmio (202);  poi le due torri (anche “intere”, n. 366 nel formato grande di 36×45) e i panorami (ben sette), le piazze, le porte e alcune ville (Frank, Hercolani, Marescalchi, Salina, Zucchini), occasione per realizzare i primi soggetti di paesaggio, anche con figure[25], la cui messa in repertorio costituisce forse la novità più rilevante, mentre la sostanza del trattamento (“Gruppo di cipressi”, “Dettaglio: Tronchi d’alberi”), rimanda ancora ai modi dei calotipisti attivi specialmente a Roma nel decennio antecedente l’Unità. Oltre a Ravenna, dove riprese anche alcuni paesaggi (638 Pineta, con un primo piano materico di calanchi), la sola altra località considerata era Roma, con uno sparuto gruppo di quattro riprese (Piazza del Popolo, Piazza San Pietro, Arco di Settimio Severo, Tempio di Veneree Arco di Tito)  Oltre a quelli già presenti nelle serie dedicate alle chiese, il catalogo conteneva anche una specifica sezione dedicata a “Bassi Rilievi, esemplari artistici” tra cui  un Cespo d’Accanto spinoso (691) e  una Miscellanea di 5 pezzi variati di rilievi e bassi rilievi.  La sezione degli Ornati veri e propri si sarebbe poi sviluppata a partire dal 1879 ma questi due titoli sono già di per sé indicativi: sia la Miscellanea, che escludeva  ogni intento documentario per proporsi esplicitamente come modello manualistico per la copia, sia le foglie d’acanto che anticipavano i soggetti “presi dal vero” pubblicati a partire dal 1888. Erano questi lavori, forse insieme ai “monumenti moderni” della Certosa, ad avere i destinatari e acquirenti più immediatamente identificabili nei professori e negli allievi dell’Accademia, negli artigiani e nei frequentatori delle scuole d’arte, nel solco di una tradizione incisoria e poi litografica particolarmente ricca e qualificata, che ormai a queste date pativa la concorrenza della fotografia. Meno semplice risulta comprendere l’immissione in un catalogo destinato alla vendita delle riprese dedicate alle architetture contemporanee, per le quali è difficile immaginare una richiesta da parte del turismo colto che frequentava Bologna, né erano destinate a un album antologico dedicato alla sua città, che non risulta Poppi abbia mai prodotto, sebbene fosse una tipologia che si andava diffondendo in quegli anni anche in numerosi centri minori.

Il secondo catalogo, del 1879[26], presenta novità significative: non solo affiancava in copertina il nome del titolare a quello dello studio ma fu pubblicato in francese e corredato di una sintesi in quattro lingue dei soggetti contenuti, con una nuova numerazione  che risulterà definitiva.

Oltre a Bologna i luoghi indicati erano Ravenna, Urbino, Ferrara “et leurs environs”; mancava  Roma che pure era presente con le solite quattro riprese.  Significative sono le qualifiche con cui Poppi si presentava per la prima volta: “peintre-photographe/ membre correspondant de la R. Académie/ Raffaello a Urbino”. La prima, adottata da molti, moltissimi fotografi coevi aveva qui un valore più sostanziale e aderente al vero, cioè all’immagine che lo stesso Poppi dava di sé, come risulta da una lettera del 31 agosto 1877 inviata al  Presidente della Accademia Raffaello di Urbino in cui scriveva della sua “modestissima qualità di pittore paesista e di fotografo” e gli stessi suoi contemporanei lo indicavano ancora, nell’ordine, “pittore, paesista, direttore dello Stabilimento fotografico”.[27]  Meno singolare invece l’associazione all’Accademia, di cui si fregiavano anche altri fotografi[28] e che gli derivava da una ricca campagna condotta in quella città, qui presentata in due distinte sezioni.

La tavola delle materie che apre il catalogo non indica espressamente Bologna, i cui soggetti sono divisi tipologicamente e comprendono anche la  “Gare du Chemin de Fer”(279), ma ben più rilevante rispetto all’edizione precedente era il numero di quelli non bolognesi, quasi triplicato con le campagne urbinati e ferraresi e con le prime riprese dello “château des Miracles”, vale dire della Rocchetta Mattei, della quale accentuò il già sovrabbondante aspetto fantastico, forse su suggerimento dello stesso proprietario. Molto ricca anche la sezione degli Ornati, poi in piccola parte accresciuta nei cataloghi successivi, con soggetti che vanno dal Plat portant un ail, une pomme, un artichaut avec leur feuilles (704) a un Chapiteau dans l’église de Saint Marc de Venise (733), che pone di nuovo qualche problema: poiché la campagna veneziana comparve per la prima volta nel catalogo del 1890 doveva trattarsi di un calco, come per altri numeri di quella sezione.  Se dalle pagine passiamo alle lastre e alle rare stampe superstiti scopriamo infatti con una certa sorpresa che anche il Candélabre par Michelange Buonarroti (694) o i diversi elementi del Monumento Tartagni in San Domenico (770) non erano tratti dagli originali ma dai calchi, ripresi in Accademia o, non di rado, nello stesso studio del plasticatore. Le ragioni di questo procedere non ci sono note né paiono facilmente comprensibili essendovi la disponibilità degli originali (il monumento nella sua interezza è rubricato al n. 101) né sussistendo problemi di resa delle policromie originali, quelli che ancora a date piuttosto tarde lo portarono a riprodurre le stampe di traduzione dei dipinti. Non semplici riproduzioni allora, ma impronte di un’impronta immesse a loro volta in circolo virtuoso di figure per servire  di modello per stampe litografiche, come fu il caso del Monument Tartagni: détail de la caisse, che costituì il modello per una litografia di Silvio Gordini  (774)[29].

La circolazione di quel primo catalogo in francese dovette sortire qualche effetto se già nel 1880 Poppi risultava tra i fornitori della “Bibliothèque photographique” di Adolphe Giraudon, insieme ai maggiori italiani come Alinari e  Brogi[30], e fu forse quella una delle ragioni che lo determinarono a confermare la scelta della lingua francese anche per l’edizione del 1883[31]. Nei pochi anni che intercorsero tra questa e la precedente si registrarono due eventi che ebbero certo influenza sul suo lavoro e sulla sua decisione di pubblicare un nuovo repertorio a soli quattro anni di distanza: nel 1879 il fotografo era stato chiamato a collaborare alla campagna documentaria promossa dalla Commissione Conservatrice locale per incarico del Ministero della Pubblica Istruzione[32] e – soprattutto – entro il 1881 gli Alinari avevano realizzato la loro prima, consistente campagna fotografica bolognese, con ben 188 soggetti. Non solo: Poppi nel frattempo aveva potuto fregiarsi della qualifica di “pourvoyeur de S.A.R. le Duc de Monpensier”, Antoine Marie Louis Philippe d’Orléans, uno dei più noti (e discussi) aristocratici europei, e questa attribuzione di grande prestigio fu anteposta in copertina  a quella di membro corrispondente dell’Accademia Raffaello, sebbene poi del principesco palazzo di più di trecento stanze in quell’occasione non fotografasse che pochi elementi (nn. 253259)[33].

Anche per le altre città non mancavano elementi nuovi: espunta Ravenna, forse per un accordo con Luigi Ricci, comparvero alcune città padane e altre toscane tra cui Firenze, con ben 119 soggetti, in evidente concorrenza coi grandi studi e applicando alla lettera la strategia indicata da Brogi,  mentre altre sezioni vennero notevolmente accresciute come Riola di Vergato, anche perché “Dopo nuove costruzioni si sono eseguite negative che portano il nome d’altre descritte, ma il soggetto è variato” (995).  Negli anni di maggior successo dell’attività elettromeopatica  del suo proprietario, Poppi dedicò ben 68 nuove riprese alla Rocchetta, certo in accordo con Mattei che poteva disporre di fotografie da vendere ai numerosissimi pazienti che lo visitavano per sottoporsi ai suoi trattamenti (963); per analoghe ragioni l’intera serie di Riola comprendeva anche il vicino Albergo della Rosa (10051018), a cui vennero dedicate più di una decina di riprese con evidente funzione promozionale, secondo una pratica comune ad altri fotografi[34].

Nella sintesi obbligata dallo spazio disponibile al verso di una stampa in formato gabinetto che riproduce una pagina de La Terra di Lavoro illustrata dal Professore Aristide Sala[35], pubblicata l’anno prima, Poppi reclamizzava la sua “Gran collezione di vedute/ Monumenti, Quadri/ Architetture e Dettagli/ d’Ornati Classici/ delle città di/ Roma – Bologna – Firenze – Pistoja – Lucca/ Ferrara – Padova – Vicenza – Mantova – Parma – Carpi – Modena – Imola – Ravenna – Urbino”. Di questo sintetico elenco colpiscono l’ordinamento e le scelte: per prima è indicata la capitale, sebbene le riprese romane a quella data non fossero più di una quarantina[36], quindi l’ovvia Bologna,  alcune località toscane (oltre la specificità urbinate) e una sequenza, che diremmo  genericamente padana, che connotava il suo ambito operativo: da Ravenna a Mantova, la sola località lombarda citata, sebbene le fossero state dedicate solo tre riprese, mentre risultava esclusa dall’elenco una città ben più documentata come Bergamo. Le assenze erano altrettanto significative e corrispondevano ai programmi dell’immediato futuro: Milano (già con 7 titoli al 1883), Verona, Venezia e Chioggia, entrate in catalogo tra 1888 e 1890 e ancora Perugia, per  limitarsi ai centri maggiori.  Non ancora un’estensione a tutto il territorio nazionale (ciò che non sarà mai) ma certo un’offerta molto ricca e variegata, un repertorio a cui attinsero in particolare  molti architetti dell’eclettismo: dal piemontese Melchiorre Pulciano[37], che raccolse in album fotografici un ricco repertorio di temi architettonici e di ornato, con quaranta stampe di Poppi, al reggiano Guido Tirelli[38] come al romano Francesco Azzurri, progettista del nuovo Palazzo Pubblico di San Marino[39];  ma anche lo statunitense Russell Sturgis[40], la cui ricca collezione di fotografie comprendeva ben 135 esemplari del fotografo bolognese, per non dire dei legami con i più noti rappresentanti della cultura architettonica locale come Tito Azzolini[41], Raffaele Faccioli[42] e Antonio Zannoni[43], che a vario titolo ricorsero all’operato di Poppi. Com’è noto il rapporto fu particolarmente proficuo con Alfonso Rubbiani, a partire dai restauri della chiesa di San Francesco, quando l’architetto fece ampio ricorso alle stampe fotografiche, utilizzate non solo quale strumento conoscitivo nella tradizione metodologica stabilita da Eugène Viollet-le-Duc[44] e codificata in Italia giusto in quegli anni da Camillo Boito[45], ma quale supporto per verifiche metriche, costruzioni geometriche, indicazioni di restauro e simili, con un procedimento analogo a quello utilizzato da Alfredo d’Andrade[46]. Potrebbero essere stati contatti professionali avuti nel corso della documentazione del cantiere di San Francesco a offrire a Poppi un incarico per lui inconsueto come quello relativo ai lavori ai fiumi Brenta e Bacchiglione a Padova, con otto immagini[47] realizzate tra il 1887 e  il 1890, caratterizzate da uno sguardo ampio, che ogni volta lega in una sola veduta tutto il cantiere, con una impostazione che ritroviamo anche nella coeva ripresa dedicata alla Frana alle Pioppe [di Salvaro] (10134)  in  cui paesaggio e cronaca dei lavori in corso si integrano compiutamente. Come accadde in altri simili casi quelle fotografie non entrarono a far parte del nuovo Catalogo generale pubblicato nel 1888[48], edito nell’anno in cui si sarebbero svolte in città le celebrazioni per l’ottavo centenario dell’ateneo bolognese e l’Esposizione Emiliana.

Era per Poppi il momento della sintesi e, diremmo, della sua affermazione definitiva: la lingua utilizzata tornava a essere l’italiano ma era soprattutto l’aggettivo qualificativo a connotare questo come il repertorio più compiuto, tutto fatto di “riproduzioni originali”, secondo una terminologia per noi inconsueta, ora riferibile con fatica alle architetture e ai paesaggi[49].  Diversamente dalle edizioni precedenti questo catalogo non presenta in copertina l’elenco dei soggetti principali, rimandato a un più opportuno e sistematico “Indice alfabetico” posto in apertura: è il sintomo e la testimonianza di una organizzazione più scientifica e quindi moderna del proprio lavoro (o – almeno – della propria immagine). Così Bologna compare solo al terzo posto e, dopo Ferrara, troviamo i “Fiori e foglie presi dal vero”. Ne risulta un singolare andamento, in cui i toponimi sono mescolati a categorie varie come “Ornati, scolture fiamminghe e statue” e “Paesaggi e costumi campestri”, insieme ai già noti “Personaggi illustri antichi e moderni”, una serie in cui la fotografia abdicava alla sua funzione sociale più diffusa per recuperare quasi archeologicamente il contenuto referenziale delle opere d’arte. A scorrere le stampe, le “Sculture Fiaminghe” si rivelavano essere una serie di più modesti “Puttini” alternativamente “volanti” o “posanti”, ripresi singolarmente o in gruppo a formare leziose scenette che dovettero avere però un certo successo se una di quelle fotografie (3005Puttini fiamminghi) fu fatta propria e riprodotta nel fotomontaggio pubblicitario preparato per la Mostra industriale di Lecce del 1886 da Pietro Barbieri, fotografo modenese attivo nella città salentina, di cui  Roberto Peli aveva rilevato lo studio[50].

Come prometteva il titolo, quello del 1888 risulta il catalogo più ricco:  non compaiono nuove tipologie ma soggetti nuovi. Non mutano le caratteristiche generali ma si amplia il repertorio e l’offerta diviene ancora più sistematica e articolata, in particolare per quanto riguarda le chiese, dove cresce il numero di dettagli decorativi e la riproduzione di dipinti. Poiché però anche la quantità costituisce un dato qualitativo va notato che l’accrescimento di riprese rispetto a un singolo edificio fu esponenziale; è qui che il lavoro mostra la propria logica e con un significativo salto di scala passa da tutti gli edifici importanti di una città a tutti gli elementi importanti di un edificio.  La sezione dedicata ai “Paesaggi” venne presentata in indice insieme alla novità costituita dai “costumi campestri”, con ben 97 soggetti, tutti estesamente descritti[51]  per solleticare e sollecitare i possibili acquirenti. Ciascuna descrizione meriterebbe di essere riportata per la sua singolarità ecfrastica, ma basti questo esempio : “Sul limitare di un rustico abituro, una contadina seduta, scherza amorosamente col bambino che tiene sulle ginocchia, il fratellino seduto a terra guarda allegro il fratellino minore”. Cercando di dare forma visiva a queste parole la mente corre alle opere coeve di un pittore come Gaetano Chierici[52], in particolare a una delle sue tante Gioie Materne, a cui la descrizione parrebbe adattarsi particolarmente bene, ma non corrisponde alla fotografia:  le parole e l’immagine parlano reciprocamente d’altro. L’espressione della contadina è difficilmente decifrabile; ancor meno quella del pargoletto, mentre ci è dato solo di immaginare l’allegria nello sguardo del fratello maggiore, che ci dà le spalle (10024).

A quella data le scene di genere non costituivano certo una novità in sé, ampiamente praticate in differenti declinazioni non solo dalla pittura coeva ma da numerosi fotografi, però con un’attenzione per la singola figura (ed erano i ‘costumi’ in senso proprio) ovvero per l’azione, ma staccata dal contesto e collocata in un spazio privo di connotazioni,  teatrale. Questa caratteristica generale e comune prevedeva però già allora alcune differenti intenzioni e atteggiamenti compositivi, riconoscibili in opere di autori  quali Federico Faruffini, Anton Hautmann o  Filippo Belli[53], forse prossime a quelle del padovano  Pietro Sinigaglia, del quale le fonti ricordano “varie scene campestri, come la mietitura, la falciatura, la vendemmia [che] hanno il merito intrinseco della fotografia, quello artistico di bella distribuzione delle persone e delle cose”[54], dove quel cenno alle qualità artistiche lascia intendere uno sguardo che ancora non si poteva definire folclorico né tantomeno proto etnografico, in cui cioè la figura fosse ripresa nello svolgimento di una sua attività consueta, senza cenni di posa.  Ancora più palesemente costruite, sino alla soglia del tableau vivant erano poi certe fotografie di Rive e Sommer  (San Martino a Napoli, Amalfi, con presenza di frati ad animare il contesto conventuale) che in termini di composizione e regia possono essere avvicinate a quelle di Poppi, essendo proprio questa relazione stretta tra ambiente e figure a connotare il genere, come accadeva anche per le immagini di ambiente veneziano e chioggiotto realizzate da Carlo Naya  per l’album L’Italie pittoresque, photographies d’après nature, 1870[55]. Volendo poi estendere lo sguardo oltre i nostri confini per verificare l’estensione del fenomeno a scala almeno europea, ma senza per questo lasciar intendere influenze o derivazioni, assai improbabili  allo stato attuale delle nostre conoscenze, potremmo richiamare un antecedente come Les  chasseurs di Humbert de Molard, 1851, o  le opere cronologicamente più prossime di un autore come Henry Peach Robinson, che confezionava circa negli stessi anni scene di genere di tipo aneddotico analoghe a quelle di Poppi[56].

Ciò che distingueva queste immagini dalle precedenti era l’adozione consapevole delle possibilità espressive consentite dalle nuove emulsioni alla gelatina bromuro d’argento, vale a dire la rappresentazione dell’istantaneità  del movimento, pur non riuscendo ancora a nascondere il meticoloso lavoro di definizione della posa da far assumere agli ‘attori’. I nessi più che evidenti con certa pittura coeva non erano però solo di ordine iconografico ma più sostanzialmente concettuale, realizzando il passaggio fondamentale, e radicale in un autore come Poppi, dalla riproduzione all’invenzione di immagini ex novo,  ritornando con altri strumenti narrativi alla pratica della sua precedente stagione pittorica, in anni di nascente pittorialismo. In alcuni casi l’intenzione ‘artistica’  era rivelata proprio dalla relazione tra testo e immagine, come per la ripresa sopra citata, ancora in bilico tra pittoresco ed etnografia, in cui le possibilità descrittive offerte dallo strumento fotografico gli consentivano di allontanarsi dalla tradizionale rappresentazione oleografica del mondo contadino solo in virtù delle potenzialità documentarie proprie del medium, sebbene emerga chiara la  messa in scena e le figure rappresentate perdano la loro riconoscibilità anagrafica per mutare di statuto: da persona a icona. Ne sono un chiaro esempio tra i molti Tre contadinelle (10019), Cacciatore e due contadine (10054), o Dettaglio di casa rustica con gruppo di contadini (10041) tutte realizzate entro il 1888, che sono scene nel gusto di Giovanni Battista Quadrone[57]. Di qualità sostanzialmente diversa è invece un’immagine come Gruppo di contadini che lavorano (10022) che dietro al genericissimo titolo nasconde  una composizione e una regia estremamente innovative e sapienti, di cui non è possibile trovare l’eguale nella produzione italiana ed europea di quel periodo. Qui un tema iconografico tipico della pittura di genere è declinato con un linguaggio e con soluzioni narrative propriamente fotografiche: si consideri  la figura centrale della contadinella, bilanciata dallo schermo nero della porta aperta e resa con un mosso che la coinvolge tutta. Tranne i piedi. Il fotografo le avrà chiesto allora  di ondeggiare o di ruotare sull’asse del proprio corpo,  ma senza muoversi, mentre altri la osservano e una bambina seduta al margine destro non riesce a trattenere il riso.

Nei due anni successivi Poppi accrebbe la propria produzione di genere con una trentina di nuovi titoli, esito evidente di un buon successo, ma chi volesse verificarne i soggetti avrebbe una certa difficoltà a ritrovarla completa nella sezione apposita dell’Appendice del 1890. Sebbene la didascalia in lastra parli ancora e sempre di “Genere campestre” i soggetti dal n. 10129 al 10133 erano rubricati sotto il curioso titolo di “Studi di Nudo”; nell’ordine: un San Giovannino (10129) “seduto” o “in piedi” in un improbabile “deserto”, due varianti di ripresa del “Martirio di San Sebastiano” (10131) e un “S. Giovanni sdraiato sull’erba” (10133). Nulla a che vedere col “Genere” di cui sopra, se non forse per le persone ritratte; certo non per i personaggi evocati. Quel titolo apparentemente fuorviante ci consente però di suggerire un confronto tra queste immagini e alcune altre di un autore come Wilhelm von Glöden[58], in cui la differenza appare più di rimandi iconografici che di sostanza: dalla mitologica arcadia siciliana al cristianesimo in versione rurale dell’Appennino emiliano, conservando entrambi quel  “realismo senza compromessi” che prevaleva sulla “ricostruzione abborracciata di un’antichità museografica” di cui aveva parlato Carlo Bertelli proprio a proposito di  Von Glöden, riconoscendone la capacità di  restituire la natura con “turgida fedeltà”, in un percorso diametralmente opposto a quello della fotografia artistica di poco successiva, impegnata a “prendere le distanze dalla natura (…) a sottrarsi al suo assalto, a verificare anzi le proprie capacità di allontanarsene, di ricreare”[59].

Quei Costumi campestri dal vero, come li descrive il verso di una carte de visite, fecero parte  della ricca serie di fotografie presentate da Poppi all’Esposizione Emiliana del 1888, articolata nelle tre sezioni di Agricoltura e Industria,  Mostra Internazionale di Musica e Nazionale di Belle Arti[60]. La coincidenza tra data di produzione e occasione espositiva rende particolarmente convincente l’ipotesi a suo tempo formulata da Fabio Marangoni (1999) che quelle serie fossero state realizzate pensando in particolare ai visitatori dell’Esposizione di Belle Arti; un pubblico che avrebbe potuto apprezzare anche la  serie dei “Fiori e foglie presi dal vero”, della quale alcuni esempi erano già indicati in cataloghi precedenti, ma compresi tra gli “Ornati”.  Il tema godeva da tempo di una notevole fortuna a scala europea, con produzioni di altissimo livello quali la serie di Fleurs photographiées  pubblicata da Adolphe Braun nel 1854[61], una novità assoluta nella produzione fotografica, gli Études de Feuilles di Charles Aubry, del 1864 o ancora gli “Studi” realizzati da Alphonse Bernoud verso il 1875, dopo il suo ritorno a Lione[62], una città che non solo vantava una lunga tradizione pittorica nel genere ma aveva un’importante industria tessile.  Poiché erano i disegnatori, insieme ai pittori certo, i primi e più importanti destinatari di quelle opere che sulla neutralità della descrizione botanica facevano prevalere gli aspetti compositivi e formali dell’inquadratura come le possibilità offerte dalla fotografia di accentuare una resa quasi materica delle foglie e dei petali (10326, 10343)

Sebbene realizzati tra 1888 e 1890 vanno qui considerati anche gli studi di nubi “presi dal vero”, sottolineatura quasi pleonastica se non fosse che le nuvole erano già presenti in molte sue riprese, specie d’architettura, ma come frutto di un intervento manuale sulla lastra negativa (945). Questi invece sono proprio cieli carichi di nubi  (10162), nei quali solo di rado e in forma letteralmente marginale compare il resto di un profilo urbano (10158, 10164). Sono nuvole piene, corrusche e solide, viste da un piano prospettico fortemente inclinato o quasi verticale, per molti versi sovrapponibili agli studi “di nuvoli” realizzati dagli Alinari qualche anno dopo, quando l’impresa era diretta da Vittorio[63].  In entrambi i casi l’esiguità dei soggetti e la mancanza di un qualsiasi intento classificatorio non consentono di collocare quelle piccole produzioni nel contesto del dibattito internazionale che proprio in quegli anni si andava consolidando intorno al tema[64], anche se non possiamo neppure escluderne un qualche effetto di suggestione, combinato con il fascino pittoresco del tema, da sempre condiviso da pittori, letterati e poeti e che, per ragioni diverse, non aveva mai cessato di attrarre neppure i fotografi sin dai primi anni ‘50 e che ancora nei primi decenni del ‘900 avrebbe coinvolto amateur italiani come Andrea Tarchetti[65] e Mario Gabinio[66].

Il 1888 fu un anno cruciale per Poppi e la Fotografia dell’Emilia: non solo la privativa e il premio “con gioiello da S.M. la Regina d’Italia” ricevuto all’Esposizione e la pubblicazione di una cartella di stampe con testo di Corrado Ricci ma anche l’importante commessa da parte della Repubblica di San Marino per la realizzazione di un album da presentarsi all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno successivo, ottenuta per intercessione di Carlo Malagola[67], Commissario per la Divisione VIII Arti Grafiche della stessa Esposizione,  membro della Commissione Artistica e della Giuria che gli aveva assegnato il premio[68].

Nel testo che accompagnava le  trentuno fotografie dedicate ai  Monumenti sepolcrali di lettori dello Studio Bolognese nei secoli XIII, XIV e XV,  Ricci richiamava l’impossibilità metodologica di “tessere brevi ricordi biografici senza valore e sopra la sola fede di storie piene d’errori e di leggende”[69], ciò che poteva ben corrispondere anche all’uso ormai consolidato della fotografia quale strumento e fonte di mediazione documentaria di cui proprio quell’opera costituiva un importante esempio. Una eco, e un’ulteriore conferma di quelle posizioni si sarebbe poi ritrovata nelle parole di un altro storico dell’arte che più volte si avvalse delle riprese di Poppi come Francesco Malaguzzi Valeri, che introducendo il suo volume dedicato a L’architettura a Bologna nel Rinascimento, dichiarava che “la dottrina dell’arte nostra ha troppo bisogno di rinnovarsi originalmente con lo studio dei [sic] fonti a stralciare gli ultimi veli del fantastico e dell’accademico che ancor l’avviluppano”[70]. In anni in cui la storia dell’arte si definiva metodologicamente come disciplina anche in virtù di un ricorso sistematico alla fotografia quale fonte documentaria e strumento comparativo, l’offerta delle ditte fotografiche si ampliava estendendosi anche alle nuove realtà museali: così entrarono a far parte del Catalogo Poppi del 1888 anche 130 riprese dedicate agli ambienti e alle opere del Museo Civico Archeologico di Bologna, mentre la sezione dedicata ai “Quadri” si estendeva sino a comprendere opere conservate all’estero, come la “Maddalena nel deserto” (503) del Correggio (Maria Maddalena leggente, oggi perduta) ricavata però da un’incisione, come non era raro che accadesse in quegli anni non tanto per la difficoltà di raggiungere l’originale quanto per l’insoddisfacente traduzione tonale della cromia originale consentita dalle emulsioni non ortocromatiche.

Il lavoro su San Marino condotto nell’ottobre del 1888 in collaborazione con nipote Angelo Marzola venne illustrato da uno specifico catalogo firmato come “Fotografo governativo della Repubblica di San Marino”[71],  corredato di nota introduttiva di Malagola[72], autore anche delle didascalie alle trentasei immagini repertoriate, su di un totale di almeno settanta  realizzate nel corso della campagna. Sono fotografie accurate, corrette, con una inevitabile attenzione per il contesto paesaggistico ma prive di quella capacità di dialogo coinvolgente con le architetture rappresentate che è uno dei grandi pregi dell’operare di Poppi e che lo distingue immediatamente dalla produzione di altri studi e autori coevi, anche quando sente l’attrazione dei dettagli (185). Se “una fotografia Alinari è un mezzo ideale per comprendere l’architettura di Brunelleschi – come scrisse  Rudolf  Wittkower – poiché vi compare un punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschiani”[73], allora potremmo dire che Poppi, pur inevitabilmente legato allo stesso processo proiettivo, mostrava uno sguardo più nordico e padano, tra romanico e gotico e ovviamente non solo per le architetture fotografate (3430 – Bologna). Ne è testimonianza l’uso ricorrente del grandangolare, combinato con l’adozione di un punto di vista non di rado disposto in asse a uno spigolo dell’edificio, con  esiti non sempre controllati ma con risultati a volte eccezionali, come nella ripresa del Castello Estense a Ferrara (600),  che solo un residuo di consapevolezza storica ci impedisce di dire metafisica. Sono forse queste caratteristiche che fecero riconoscere a Renzo Grandi nel lavoro di Poppi “una percezione dei luoghi complessa e perfino inquieta e immaginosa”[74], non contraddetta da una sistematicità quasi maniacale, che lo portava a rifotografare a distanza di tempo lo stesso soggetto[75], in uno sforzo continuo di aderire alle mutazioni del reale nel tempo. Un’intenzione propriamente fotografica che lo induceva a  replicare rigorosamente le condizioni di ripresa (punto di vista e focale, e quindi inquadratura); indagando il soggetto con minime varianti, lavorando di campo e controcampo o riproponendolo scorciato dai due lati, come nella serie dedicata alla Porta dei Leoni di Palazzo Prosperi a Ferrara, a sua volta con varianti (6066076391).

E poi le luci: contravvenendo in non pochi casi alle buone regole che consigliavano riprese con illuminazione diffusa, Poppi apprezzava  e forse cercava  luci piuttosto radenti, in grado di dare maggior rilievo plastico agli elementi (2901 – Budrio – Palazzo Municipale), con ombre portate che a volte drammatizzano in modo quasi eccessivo la scena (1143).

E poi le persone: già nei primi esemplari noti gli spazi urbani appaiono occupati da figure in modi che è possibile riscontrare anche in Emile Anriot[76], ma qui ancor più marcati: Poppi amava riprendere i monumenti con la vita intorno. Persone ferme a guardare il fotografo, ancora curiose, magari celate nell’ombra di una porta, di un androne, protette da una grata di finestra. Più di frequente la presenza appare cercata e voluta,  (4960; 1721) non più come parametro dimensionale però: le figure occupano lo spazio e lo vivono; sono aneddoto non misura dell’opera (113). Nello spazio definito dal monumento accadono piccole storie, come nel caso delle due figure sulla scalinata della chiesa di San Fermo a Verona (4201),  messe in scena dal fotografo in modi analoghi a quelle di “Genere campestre”. Non si tratta – credo – di attenzione al colore locale nel “gusto di un Naya o di un Sommer” come sosteneva Zannier[77], ma di un portato della formazione pittorica di Poppi, quella stessa che lo induceva a dipingere a vernice grassa le nuvole nei cieli delle sue architetture anche in anni in cui la rapidità delle lastre alla gelatina  avrebbe consentito tecnicamente la loro ripresa. In fondo si trattava di risolvere un problema artistico: per ottenere l’effetto voluto, per arricchire la veduta, invece di utilizzare metodi fotografici come il fotomontaggio o la doppia esposizione, Poppi preferiva ricorrere alla manualità del gesto, infine pittorico.

 

 

Note

 

[1] Poppi 1871.

[2] Inchiesta 1873, p. 2.

[3] Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”, lettera del 6 maggio 1870; in una successiva missiva del 12-08-1870 indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti” il Ministro precisava: “a ciò fui mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa”.

[4] Inchiesta 1873, p. 10. Dopo l’attività di Anriot e di Poppi si dovrà attendere l’Appendice del 1881 per avere un primo, ricco catalogo bolognese; cfr. Sesti 1993.

[5] Citato in Tomassini 2003, p. 169.

[6] Citato in Cova 1987a;  la vicenda professionale di Anriot, ancora poco nota, lo colloca nel  gruppo non minuscolo dei fotografi itineranti di quegli anni: prima di giungere a Bologna aveva operato a Fiume e a Zara nel 1858-1859, cfr. Seferović 2009; dopo, come noto, si sarebbe trasferito a Roma.

[7] Suggestiva la lettura proposta da Varignana 1993, pp. 64-65, di un dipinto come Piazzetta dell’Aurora e via dell’Asse, post 1864, “che si direbbe realizzata, come già faceva Basoli, con l’aiuto della camera ottica”.

[8] Lettera ai Reggenti di San Marino del 18 marzo 1889, citata in Marangoni 1999, p. 54-55.

[9] La nuova società fu attiva parallelamente alla Fotografia dell’Emilia, che risulterebbe aver cessato la propria attività nel 1869, cfr. Cristofori 1992c.

[10] Varignana 1985, p. 44; Cristofori 1992c, p. 276.

[11] “Il Monitore di Bologna”, 17 aprile 1866, n. 105, citato in Cristofori 1992c; si veda anche Marangoni 1999, pp. 52-53, che riporta ampi stralci del brano. La porzione di Archivio Poppi acquistato nel 1940 dalla Cassa di Risparmio di Bologna è consultabile all’indirizzo https://digital.fondazionecarisbo.it/category/fondo-poppi?query=&sort=title&order=asc&page=1&size=20&filterField=

[12] Camerini 1868. Questa, come altre iniziative, si collocava nel contesto delle celebrazioni per il sesto centenario della nascita di Dante, a cui è riferibile anche l’opera di Carlo Saccani che a Parma, nello stesso 1866, pubblicava la parte dedicata all’Inferno de La Divina Commedia di Dante Alighieri illustrata, riproducendo fotograficamente i disegni di Francesco Scaramuzza, preparatori del grande ciclo di tele  avviato in un primo tempo su commissione di Luigi Carlo Farini, cfr. Bersani 1992.

[13] Fu presente come tecnologo e inventore di nuovi procedimenti fotografici sia all’Esposizione industriale ed Agraria del 1869 che all’Esposizione Emiliana del 1888.

[14] Luigi Sacchi 1998, sch. 34; Mormorio 2000, p. 104.

[15] Basti in tal senso la testimonianza di John Ruskin in una lettera inviata al padre da Pisa: “Al Camposanto ho fatto la conoscenza di due artisti che, sebbene fossero francesi, parlavano proprio come esseri umani; (…) Sono due anni, ormai, che studiano i dipinti antichi, quelli degni di nota, e mi hanno prodigato suggerimenti assai utili; sostengono che dovrei fermarmi un mese a Padova, e mi assicurano che non c’è niente a Bologna; una notizia, questa, che mi procura gran gioia, giacché non amo quella città”  (in Ruskin 1985, lettera del 21 maggio 1840), che ritornava però nei deliri dei primi stadi della sua malattia, quando gli compariva in sogno la Beata Vigri, “the only woman painter ever canonized”; cfr. Viljoen 1971, p. 105, citato in Bradley, Ousby 1987, p. 413.  Nonostante gli apprezzamenti di Jacob Burckhardt (Der Cicerone, 1855) quella ridotta considerazione dovette permanere a lungo se il catalogo Alinari del 1863 comprendeva solo la Testa del Nazareno di Guido Reni e la Santa Cecilia di Raffaello (tra i primi dipinti riprodotti anche da Poppi). Ancora nel  settembre del 1896 Sigmund Freud, che pure acquistò due fotografie di Poppi,  poteva scrivere alla moglie: “città stupenda, pulita, con piazze e monumenti colossali [ma] Chiese ed arte qui [sono] per fortuna meno coercitivi”, citato da Cecilia Cristiani sul sito dell’Associazione Amici della Certosa http://amicidellacertosa.com/articoli.html [25-07-2014].

[16] Poi raccolte nel 1868 per Nicola Zanichelli nel volume Edifizi, vedute, quadri insigni di Modena, Bologna, Ravenna, rappresentate colla fotografia, cfr. Cristofori 1992a, p. 270.

[17] Gray 1992;  Tromellini, Spocci 1992a.

[18] Benassati 1992a, in cui forse per un refuso sfuggito all’acribia della redattrice e curatrice si indica come data di esecuzione un improbabile termine post quem: “esec. 1833 [sic]-1859”. Un altro esemplare dello stesso panorama, non montato, appartiene alla collezione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, cfr.  Bonetti, Maggia 2007, pp. 34-35.

[19] Scorcio di Piazza Maggiore con il palazzo del Podestà ed il mercato delle erbe, 1865 circa.

[20] L’attribuzione della ripresa si deve a Angela Tromellini e a Roberto Spocci che hanno confrontato le diverse stampe conservate presso la  Soprintendenza Beni Architettonici e le collezioni della Cassa di Risparmio di Bologna con l’esemplare compreso in una cartella della Biblioteca Reale di Torino, che contiene altre sette stampe anonime  ma di identico formato e montaggio oltre che caratterizzate da una certa omogeneità di impianto, cfr. Tromellini, Spocci 1992b. Nelle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio è conservata una stampa  derivata da un’altra ripresa effettuata con luci analoghe ma con inquadratura meno accurata e spostata a destra, tale da comprendere anche la casa accanto. Nonostante il fatto che le imperfezioni comuni ed evidenti nel trattamento delle lastre al collodio da cui derivano le stampe comprese nella cartella conservata alla Biblioteca Reale sembrerebbero testimoniare non solo un’autorialità comune ma anche una plausibile scarsa perizia iniziale di Poppi o del misterioso fantasma della Fotografia dell’Emilia, la presenza nella stessa cartella della fotografia della Piazza di S. Domenico/ in Bologna, certamente di Anriot, ci fa ritenere che quella cartella non fosse di produzione editoriale ma semmai l’esito di una collazione, come sembrano confermare sia gli scarsi nessi tra le stampe e il bel raccoglitore con piatti in lacca cinese a motivi floreali sia una serie analoga  passata in asta da Gonnelli a Firenze nel 2013   http://www.gonnelli.it/it/asta-0013/anriot-andeacute-mile-bologna-.asp [23 07 2015], in cui erano comprese sia stampe di Anriot sia le Torri Asinelli e Garisendi intere con statua di S. Petronio di Poppi.

[21] Si confronti la stampa di Anriot compresa nelle Vedute Fotografiche con gli analoghi soggetto di Poppi e Sommer pubblicati rispettivamente da  Tromellini, Spocci 1992b e da Frisoni 2008, p. 64. Il punto di ripresa e la scelta dell’ora, della luce più adatta pare quasi obbligato o – almeno – largamente condiviso, come dimostra il confronto tra queste immagini, a loro volta utilizzate come modello per la realizzazione del dipinto di Alfredo Domenichini, Il complesso delle chiese stefaniane e il palazzo Isolani, 1875, olio su cartone,  55×45,5 cm. conservato nelle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna.

[22] Di quest’immagine venne prodotta anche  la versione in carte de visite, ottenuta apparentemente per riproduzione della stampa maggiore.

[23] A conferma della funzione selettiva di queste pubblicazioni ricordiamo che il catalogo non comprendeva le riproduzioni dal Dorè ed escludeva  le opere dei primitivi presenti nella Pinacoteca bolognese,  “coerentemente al gusto del tempo e agli ancora vigenti dettati accademici”, Varignana 1985, p. 44-45, quelli stessi che forse lo avevano portato a riprodurre anche La Sposa pompeiana di Modesto Faustini, presentata alla Esposizione triennale della Società Protettrice per le Belle Arti di Bologna del 1867 e acquistata dall’Accademia, cfr. Benassati 1992b che fraintendeva però il nome dell’autore attribuendo il dipinto ad un altrimenti ignoto “Faustino Modesti”. Come ricordava Diego Martelli nel 1867, prima che a Bologna l’opera era già stata esposta a Brera, ricevendo quegli apprezzamenti che avrebbero potuto indurre Poppi a realizzarne la riproduzione.

[24] In Poppi 1890 il repertorio si arricchirà di 15 riprese dei “Dipinti degli archi dei portici del Palazzo della Banca Nazionale,  del Prof. Lodi (1865)” (80808094) mentre in Poppi 1896 compariranno alcuni dei nuovi edifici costruiti su Via Indipendenza come il Palazzo Arena del Sole, il Palazzo Cavalieri Finzi e Treves e la  Casa Stagni.

[25] Si vedano le riprese relative alle cave di gesso di Monte Donato, che fu un tema ripreso molti anni dopo da Luigi Bertelli (1833-1916), Cave di Monte Donato, 1902 ca. MAMbo – Bologna, amico di Poppi di cui sono noti alcuni modesti lavori derivati da sue fotografie, cfr. Cristofori 1992b.

[26] Poppi 1879.

[27] Per entrambe le citazioni si rimanda a Marangoni 1999, pp. 61-62.

[28] Oltre a Luigi Ricci, a sua volta in rapporti con Poppi, ricordiamo almeno Federico Castellani, titolare di due studi ad Ales­sandria e Vercelli e il cremonese Aurelio Betri.

[29] Si veda Benassati 1992c, che aveva correttamente ipotizzato la derivazione dalla ripresa di Poppi, allora non nota non essendosi conservata la lastra nel Fondo omonimo, di cui è stata reperita una stampa nella collezione di Melchiorre Pulciano.

[30] Come risulta da una serie di lettere e bollettini di spedizione conservati presso la collezione di Robert Marchesin, oggi donata agli Archives départementales du Cher, a Bourges; cfr. Le Polley Fonteny 2003, p. 71 e p. 84 nota 7.

[31] Poppi 1883.

[32] Mozzo 2004, p. 862.

[33] Restano da comprendere le distinte ragioni per cui il Duca consentisse di pubblicare immagini anche di sale non di rappresentanza come  il “gabinetto che mette al fumoir” (253D) o il salotto e la sala da pranzo di “S.A.R. l’infante Donna Eulalia” di Spagna (3497, 3498, ante 1896) e, per altro verso,  quali ne fossero i possibili acquirenti. Potrebbe riferirsi indirettamente alle relazioni col duca anche l’ingresso in catalogo delle riproduzioni (nn. 520-521) di  alcune incisioni di un autore minore come François Claudius Compte-Calix che (nel 1863?) aveva dipinto il ritratto di una delle figlie del duca: la piccola Marie-Christine.

[34] Una analoga attenzione commerciale per le strutture alberghiere si ritrova ad esempio in Sella, Vallino 1890.

[35] L’esemplare fa parte di una serie di otto albumine, di identico formato, riunite  in una custodia cartonata rivestita di tela rossa, con l’ex-libris della “Bibliotheca/ Regis/ Umberti”, conservata presso la Biblioteca Reale di Torino.

[36] Come segnalava Becchetti 1983, p. 335, la campagna romana venne commissionata o, almeno, utilizzata per l’apparato illustrativo di Schutz 1885, in cui “molte tavole fototipiche recano oltre ‘Phot. Dell’Emilia. Bologna’ anche gli anni di esecuzione che vanno dal 1880 al 1882.” Il dato è confermato dalla documentazione conservata presso gli archivi dei Musei Vaticani, dai quali risulta – come mi ha comunicato Cristina Gennaccari, che ringrazio per la preziosa segnalazione – che  Poppi fu autorizzato in data 30 ottobre 1880 a lavorare per un mese “per riprodurre colla fotografia alcuni affreschi” nelle “Camere e Logge”, intendendosi verosimilmente le Stanze e Loggia di Raffaello. Forse per ragioni legate ai diritti editoriali dell’opera di Schutz quelle immagini entrarono a far parte dei cataloghi di Poppi solo a partire dal 1888. Restano però ancora non pochi problemi aperti, come suggerisce il fatto che la lastra n. 2126 dedicata al  Tempietto di San Pietro in Montorio a Roma, immessa in catalogo nel 1883 è una semplice variante di ripresa, eseguita quindi nello stesso momento, della lastra n. 5196, databile al  1875 ca e attribuita a  Pompeo Molins,  che verosimilmente deve essere considerato l’autore di entrambe, come ha indicato Jean-Philippe Garric, nel corso della sua comunicazione dedicata alla Collezione Parker, condivisa con Francesca Bonetti,  presentata al seminario internazionale Les capitales photographiques , che si è tenuto a Parigi il 17-18 settembre 2015,  promosso da Labex CAP (Création, Arts et Patrimoines) in collaborazione con altre istituzioni internazionali.

[37] Melchiorre Pulciano (1833-1923), collaboratore di Edoardo Arborio Mella e autore di alcune chiese e di edifici civili in stile ‘neomedievale’ o eclettico, attivo anche nell’ambito del restauro. Nel 1915 redasse il testo storico critico dedicato al Palazzo Barolo di Torino per la serie “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”, del fotografo Gian Carlo dall’Armi.

[38] L’Archivio dell’Ing. Guido Tirelli (1883 – 1940), costituito dai disegni di progetto e da una ricca raccolta fotografica che comprende anche 54 stampe di Poppi, è conservato presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia consultabile all’indirizzo https://collezionidigitali.comune.re.it/cris/fonds/fonds00211/fondsinformation.html?orderall=ASC&startall=440&sort_byall=11&open=all  [03 01 2023].

[39] Francesco Azzurri (1827-1901), Presidente dell’Accademia di San Luca dal 1890, acquistò una serie di fotografie di Poppi nel 1889 e negli anni successivi il fotografò documentò diverse fasi della costruzione del Palazzo, sino alla sua inaugurazione, cfr. Marangoni 1999, pp. 196-197. Altre fotografie di Poppi appartennero anche a Giacomo Santamaria, attivo a Milano tra eclettismo e liberty e a Gino Coppedè, queste ultime oggi conservate nel Fondo omonimo dell’Archivio Fotografico Toscano a Prato.

[40] Russel Sturgis (1836-1909), architetto e influente critico di architettura, fu tra i fondatori del Metropolitan Museum of Art di New York. Nel corso del suo secondo Grand Tour acquistò numerose fotografie che andarono ad arricchire la sua già importante raccolta iniziata nel corso del primo viaggio in Europa nel 1858-1861; alla sua morte le circa 20.000 stampe che la formavano furono acquisite dal dipartimento di Architettura della Washington University. Può essere un interessante indizio, sebbene singolare, del successo commerciale (e culturale) dei diversi fotografi ed editori considerare che a fronte di 135 fotografie di Poppi la collezione ne conserva 1008 di Alinari, 370 di Brogi, 274 di Naya, 175 di Moscioni e 113 di Sommer, per limitarci alle maggiori presenze italiane; cfr. Hanlon 1997, consultabile on line : https://library.wustl.edu/spec/russell-sturgis/  [03 01 2023]. A conferma di una buona attenzione per la sua produzione da parte di viaggiatori internazionali segnaliamo che alcune stampe Poppi di soggetti bolognesi sono comprese nell’album Venice Spezzia [sic] Bologna, dell’International Center of Photography di New York;  tra questi anche il Gioacchino Murat di Vincenzo Vela nella tomba di Letizia Murat Pepoli, che fu a sua volta una delle prime estimatrici di Poppi pittore, di cui nel 1857 acquistò  il dipinto Campagna lambita da corrente di fiume, cfr. Grandi 1983.

[41] Le prime committenze risalivano al 1882, quando Poppi intervenne a documentare il restauro del castello di San Martino in Soverzano di Minerbio (Bo) e proseguirono almeno sino al 1894 col  Museo di San Petronio.

[42] Numerose fotografie di Poppi sono comprese nel fondo conservato nel Gabinetto Disegni e Stampe, della Pinacoteca Nazionale di Bologna.

[43] L’ingegnere possedeva alcune stampe Poppi relative a edifici da lui realizzati, poi donate dalla moglie nel 1939  alla Biblioteca dell’Archiginnasio “per ricordare l’attività del marito nel campo dell’edilizia”.   cfr. Roncuzzi Roversi-Monaco 1992.

[44] E. Viollet-Le-Duc, voce Restauration. in Viollet-Le-Duc 1860, pp. 33-34.

[45] Boito 1893, pp. 28-30.

[46] Cavanna 1981.

[47] Se ne conoscono le stampe all’albumina, in grande formato (37×41 circa, montate su cartoni 44×52 cm), firmate Pietro Poppi e conservate presso la Biblioteca Civica di Padova. Non si può naturalmente escludere che tale incarico derivasse da contatti intrattenuti in occasione della campagna documentaria sul patrimonio architettonico patavino effettuata prima del 1883, ma l’affidamento a Poppi costituisce comunque una singolarità, sia rispetto alla sua produzione consueta (almeno per quanto ci è noto) sia per la presenza in città di buoni professionisti come Ferdinando Farina o Costante Agostini ma soprattutto per la disponibilità nella vicina Verona di uno specialista di grande livello come Moritz Lotze; cfr. Lotze 1984; Vanzella 1997. Altrettanto eccentriche risultano le cinque riprese dedicate al ponte San Michele sull’Adda (ponte di Paderno), completato nel 1889, ma in questo caso l’eccezionalità dell’opera ingegneristica ne determinò l’immissione in catalogo con l’Appendice 2a del 1896 (nn. 1441-1445).

[48] Poppi 1888. Lo spazio disponibile non ci consente di analizzare compiutamente altre produzioni di Poppi non confluite in catalogo, come quella condotta presso l’Istituto Aldini Valeriani nel 1878 o quella commissionata dopo il 1895 dalla Fernet-Branca per documentare la diffusione bolognese delle nuove insegne pubblicitarie con l’aquila disegnata da Leopoldo Metlicovitz, cfr. Tromellini, Cecchini 2003.  Colgo l’occasione per ringraziare Angela Tromellini per la segnalazione delle preziose stampe di Poppi.

[49] Tanto affascinante quanto complesso, e impraticabile qui, anche solo il proposito di accennare all’evoluzione terminologica del linguaggio intorno alla fotografia, ma ricordo a puro titolo di suggestione che l’Adalgisa, uno dei grandi personaggi di Gadda, tra i numerosi interessi del suo compianto Carlo (il marito) comprendeva anche “i ritratti dei paesaggi della Libia”, Carlo Emilio Gadda, L’ Adalgisa: disegni milanesi. Firenze: Le Monnier, 1944.

[50] Laudisa 1995, p. 85.

[51] Alcune riprese di soggetto analogo erano presenti già nel catalogo del 1871, come “Cava con donne” (261) o Sasso [Marconi] – “La torre – casa con figure in costume di codeste montagne” (272). La serie venne poi ulteriormente accresciuta nel 1890 e 1896 rispettivamente con 26 e 16 nuovi soggetti.

[52] Si veda Gaetano Chierici 1986.

[53] Fusco et al. 2011, pp. 93, 116, 126.

[54] F. F., Corrispondenza, [10 ottobre], “Cronaca. Giornale di Scienze, Lettere, Arti, Economia e industria pubblicato da Ignazio Cantù”, 2 (1856), disp.7, pp. 331-333,  Milano: Tipografia di Giuseppe Redaelli. citato in Vanzella 1997,  p. 32 come F. Falzago, Fotografia di Padova nel 1856, datato 15 ottobre 1856.

[55] Voir l’Italie 2009.

[56] Si vedano a titolo di esempio Wayside Gossip, 1882 e He Never Told His Love, 1884, entrambe nelle collezioni della Royal Photographic Society di Londra.

[57] Si veda Giovanni Battista Quadrone 2014.

[58] Si consideri ad esempio il Ritratto di ragazzo con flauto, 1900 ca. in Arte in Italia 2011, p.177. Von Glöden fu a sua volta autore di una nutrita serie di “Scene di vita e di lavoro”, ampiamente pubblicate all’epoca in periodici quali “Il Progresso Fotografico” e oggi quasi dimenticate, cfr. Zannier 2008; ricordiamo inoltre che le sue fotografie, come quelle di Poppi, comprendevano tra i propri possibili destinatari anche gli Istituti d’Arte, cfr. Wilhelm von Gloeden 2000.

[59] Bertelli 1979, pp. 68, 84-87.

[60] Expo Bologna 1888 2015.

[61] Adolphe Braun 2000 ; per Charles Aubry cfr. McCauley 1994. Diverso era l’intento e la concezione delle nature morte realizzate da Roger Fenton intorno al 1860 come delle 47 albumine di Pietro Guidi per la  Flora fotografata delle piante più pregevoli e peregrine di San Remo e sue adiacenze per Francesco Panizzi, del 1870.

[62] Fanelli, Mazza 2012, pp. 154-155.

[63] Quintavalle 2003, p. 408.

[64] La pubblicazione della prima opera fotografica dedicata al tema fu  Hildebrandsson, Osti 1879, con 16 stampe all’albumina,  mentre proprio nel 1890 venne edito il primo atlante sistematico (Hildebrandsson, Köppen,  Von Neumayer 1890),  cfr. Lebart 1996, disponibile on line: http://etudesphotographiques.revues.org/288  [05 08 2015].

[65] Si veda Andrea Tarchetti 1990.

[66] Si veda Mario Gabinio 1996.

[67] L’accurata ricostruzione delle vicende che portarono a questo incarico si deve a Marangoni 1999, pp. 159-198, poi sintetizzate in Marangoni 2001.

[68] Marangoni 1999, pp. 133-159.  Poiché il valore dichiarato degli “oggetti esposti” era di L. 1000,  considerando che il prezzo di ciascuna stampa oscillava tra le L. 1,50 cadauna per le sciolte e L. 0.70/1.00 per quelle in album, Poppi avrebbe dovuto esporre più di 600 fotografie, numero che pare troppo elevato anche per uno spazio espositivo molto grande (7×2.90 m. a parete e 7×0.90 in ingombro a terra per le vetrine), il maggiore di quella sezione. Possiamo quindi supporre che esponesse la gran parte dei “campionari” del suo repertorio. La documentazione dell’Esposizione Emiliana, di cui la ditta Poppi era “unica concessionaria del Comitato esecutivo”, comparve in catalogo solo nella Appendice Ia del 1890, ma alcune di quelle immagini vennero pubblicate sul giornale della stessa Esposizione.

[69] Avvertenza, in Ricci, Poppi  1888, p. 3, che più oltre, a proposito del Sepolcro di Rolandino Passeggerio riconosceva che  “la Tavola V ci dispensa da una lunga descrizione”, p. 10. A conferma del ruolo autoriale ed editoriale di Poppi ricordiamo che la pubblicazione era registrata anche nella Appendice I del 1890.  I rapporti tra i due, forse inizialmente mediati dal padre di Corrado, Luigi, con cui Poppi intratteneva rapporti professionali,  proseguirono negli anni successivi quando Ricci divenne Direttore delle “Regie Gallerie” di Parma (1893) e poi di Modena (1894); in quella occasione Poppi rispose alla richiesta di Ricci di integrare la serie di vedute di Modena proponendo una nuova campagna affidata al nipote Angelo Marzola. Ancora nel 1896 Poppi gli avrebbe chiesto di verificare la correttezza delle descrizioni dei soggetti d’arte compresi nell’Appendice 2a; ricordiamo infine che per sua iniziativa 49 fotografie di Poppi entrarono a far parte del”ricetto fotografico” di Brera verso il 1899. La collaborazione editoriale di Ricci con i fotografi fu sempre costante, sia nell’ambito dei propri progetti editoriali, quali l’ “Italia Artistica” sia redigendo testi e saggi introduttivi come fu per Cassarini 1894 e per Pedrini 1929.

[70] Malaguzzi Valeri 1899, nota introduttiva non titolata, pp.n.n. Il volume raccoglieva, rielaborandoli in parte,  anche alcuni contributi specifici già pubblicati nell’ “Archivio storico dell’arte” a partire dal 1893 a loro volta illustrati da fotografie di Poppi. Al verso del frontespizio si segnalavano le  “Fotografie dello Stabilimento Poppi di Bologna/ Eliotipie e Fototipie dello Stabilimento Danesi di Roma”. In realtà le 79 figure nel testo sono zincotipie mentre le venti f.t. sono eliotipie (o fototipie, i termini sono sinonimi). Segnaliamo che nelle zincotipie si riscontrano interventi di modifica quali scontornature degli elementi architettonici (capitelli) e aggiunta di nuvole ai cieli. Il volume è stato studiato da Rubbi 2010.

[71] Album di fotografie della Repubblica di San Marino/ in Bologna presso Pietro Poppi Fotografo governativo della Repubblica di San Marino. Bologna: s.e.,  1889. Come accadeva non di rado, il contratto non prevedeva  altro compenso che la copertura delle spese viaggio, vitto e alloggio; fu però concesso a Poppi di porre in vendita alcune copie dell’album durante l’Esposizione parigina.

[72] Ricordiamo qui che anche il figlio del Console di San Marino a Bologna, Guido Malagola, si sarebbe pochi anni dopo dedicato alla fotografie en amateur realizzando non solo una interessante serie di ritratti del bel mondo internazionale che ruotava tra Venezia e Londra ma anche immagini di tipo documentario, alcune delle quali furono utilizzate per illustrare un volume dedicato a  San Marino (Ricci 1903).

[73] Citato in Bertelli 1984, p. 7.

[74] Grandi 1983.

[75] Le ragioni potevano essere di volta in volta diverse: dalle mutate condizioni dell’edificio all’utilizzo di nuove emulsioni (dal collodio alle prime gelatine poi alle lastre ortocromatiche) sino alla necessità di rifare lastre per una qualche ragione rovinate.

[76] Si veda Modena, Facciata meridionale del Duomo, in E. Anriot, Edifizi, vedute quadri insigni di Modena, Bologna, Ravenna rappresentati colla fotografia. Modena: Nicola Zanichelli, 1868, tav. 65. in quel periodo le vedute animate erano invece consuete nei formati minori, e specialmente nelle riprese stereoscopiche.

[77] Zannier 1980.

 

 

Bibliografia citata

Adolphe Braun 2000

Image and enterprise. The photographs of Adolphe Braun. catalogo della mostra (Providence, Museum of Art, Rhode Island School of Design, 4 febbraio -22 aprile 2000; Cleveland, The Cleveland Museum of Art,  18 giugno – 27 agosto 2000),  Maureen C. O’Brien, Mary Bergstein, eds. London/ Provincetown, Thames & Hudson in association with the Museum of Art, Rhode Island School of Design, 2000

 

Andrea Tarchetti  1990

Andrea Tarchetti, notaio: Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, Auditorium di Santa Chiara, gennaio-febbraio 1990) a cura di Pierangelo Cavanna, Domenico Vetrò. Vercelli: Assessorato alla Cultura di Vercelli, 1990

 

Arte in Italia  2011

Arte in Italia dopo la fotografia: 1850-2000, catalogo della mostra (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna, 24 dicembre 2011-4 marzo 2012), a cura di Maria Antonella Fusco, Maria Vittoria Marini Chiarelli.  Roma; Milano: Ministero per i Beni e le attività culturali;  Mondadori Electa, 2011

 

Attraverso l’Italia 1902

Attraverso l’Italia. Raccolta di 2000 fotografie di vedute, di tesori d’arte e tipi popolari; con un testo di Ottone Brentani. Zurigo – Lipsia – Milano:  C. Schmidt – Touring club italiano, 1902

 

Becchetti 1978

Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880. Roma: Quasar, 1978

 

Becchetti 1983

Piero Becchetti, La fotografia a Roma dalle origini al 1915. Roma: Editore Carlo Colombo, 1983

 

Benassati 1992a

g.b. [Giuseppina Benassati], Bettini, Carlo Napoleone (1819 – ?), in Benassati,  Tromellini 1992, sch. I/29, p. 132

 

Benassati 1992b

g.b. [Giuseppina Benassati], Fotografia dell’Emilia (att. 1865 – 1940)/ La Sposa Pompeiana, in Benassati,  Tromellini  1992, sch. I/64, p. 156

 

Benassati 1992c

g.b. [G. Benassati], Gordini Silvio (1849-1937)/ [Particolare dell’arca del Monumento Tartagni in S. Domenico], in Benassati,  Tromellini 1992, sch. I/9, p. 112

 

Benassati,  Tromellini 1992

Fotografia & Fotografi a Bologna 1839-1900, catalogo della mostra (Bologna, Museo Civico Archeologico, 25 gennaio-1 marzo 1992), a cura di Giuseppina Benassati e Angela Tromellini.   Bologna: Grafis Edizioni, 1992

 

Bersani 1992

Cristina Bersani, Biblioteca dell’Archiginnasio: le raccolte fotografiche, in Benassati,  Tromellini 1992, pp. 80-83

 

Bertelli 1979

Carlo Bertelli, La fedeltà incostante. In: Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali 2”, I, Torino: Einaudi, 1979, pp. 59-198

 

Bertelli 1984

Carlo Bertelli, La fotografia come critica visiva dell’architettura, “Rassegna”, n.20, 1984, pp. 6-13

 

Boito 1893

Camillo Boito, Questioni pratiche di Belle Arti. Milano, Hoepli, 1893

 

Bonetti, Maggia 2007

Un itinerario italiano: Fotografie dell’Ottocento dalla Collezione Sandretto Re Rebaudengo, catalogo della mostra (Roma, Museo Hendrik Christian Andersen, 18 aprile-17 giugno 2007), a cura di Maria Francesca Bonetti, Filippo Maggia. Torino: Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, 2007

 

Bradley,  Ousby 1987

John Lewis Bradley, Ian Ousby, eds., The Correspondence of John Ruskin and Charles Eliot Norton. Cambridge; New York : Cambridge University Press, 1987

 

Camerini 1868

La Divina Commedia di Dante Alighieri illustrata da Gustavo Doré e dichiarata con note tratte dai migliori commenti per cura di Eugenio Camerini: Inferno. Milano: Stabilimento dell’Editore Edoardo Sonzogno, 1868

 

Cassarini 1894

Alessandro  Cassarini, Il Montefeltro. Bologna: Tipografia Zamorani e Albertazzi, 1894

 

Cavanna 1981

Pierangelo Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale/Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981), a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp. 107-123

 

Cavicchi 2006

Monica Cavicchi, Quadraturismo e fotografia a Bologna, in Realtà e illusione nell’architettura dipinta : quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca,  Atti del convegno internazionale di studi (Lucca, San Micheletto, Palazzo Ducale, 26-28 maggio 2005), a cura di Fauzia Farneti, Deanna Lenzi. Firenze : Alinea, 2006, pp. 307-312

 

Cesareni [1885] 1915

Francesco Cesareni, Relazione sulla capacità della Botte alle Tresse sottopassante il nuovo Brenta a scaricare, oltreché le acque dei tre Consorzi Foresto, Fossa Paltana, Fossa Monselesana: Chioggia li 27 gennaio 1885 (nuova ed. Venezia: C. Ferrari, 1915)

 

Chiesi 1900

Gustavo Chiesi, Provincia di Bologna,  La patria : geografia dell’Italia”.  Torino : Unione Tipografico-Editrice, 1900

 

Commissione 1893

Commissione per la Fabbrica di San Francesco, Chiesa di San Francesco e tombe dei Glossatori in Bologna: Restauri e progetti. Bologna: s.e. 1893, esemplare unico dedicato “Alla Maestà di Margherita Regina d’Italia”

 

Congresso degli ingegneri 1883

Atti del quarto Congresso degli ingegneri ed architetti italiani : radunato in Roma nel gennaio del 1883. Roma: Tip. Fratelli Centenari, 1884

 

Cova 1986a

Massimo Cova, Pietro Poppi e la fotografia d’architettura a Bologna nella seconda meta dell’Ottocento. Tesi di laurea, Istituto universitario di architettura di Venezia, Corso di laurea in architettura, relatore Italo Zannier, a.a. 1985-1986

 

Cova 1986b

Massimo Cova, L’arte in Italia: Fotografia Poppi, Bologna, “Fotologia”, 1986, n. 6, dicembre, pp. 48-49

 

Cova 1987a

Massimo Cova, Emilio Anriot: dieci anni di fotografia a Bologna (1861-1870), “Fotologia”, 1987, n. 7, maggio, pp. 18-25

 

Cova 1987b

Massimo Cova, Fotografie e restauro architettonico, “Fotologia”, 1987, n. 8, autunno-inverno, pp. 24-30

 

Cova 1988

Massimo Cova, La fotografia a Bologna nel 1888, “Saecularia Nona: Università di Bologna 1088-1988”, 7 (1988). Casalecchio di Reno : Grafis, 1988, pp. 68-71

 

Cova 1989

Massimo Cova, Due professionisti dell’epoca del collodio: Pietro Poppi e Giorgio Sommer,  in  Alle origini della fotografia: Un itinerario toscano: 1839-1880, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Vecchio, Sala d’Arme, 28 settembre-26 novembre 1989), a cura di Michele Falzone del Barbarò, Monica Maffioli, Emanuela Sesti.  Firenze: Alinari, 1989, pp. 145-147

 

Cozzi 1987

Mauro Cozzi, L’abbecedario dei Coppedè, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 3 (1987), n.5,  giugno, pp. 22-31

 

Cresti 1987

Carlo Cresti, Fondo Coppedè: Eclettismo come stile di vita, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 3 (1987), n.5,  giugno, pp. 13-21

 

Cristofori 1992a

r.c. [Roberta Cristofori], Anriot, Emilio (1826 – ?), in Benassati,  Tromellini 1992, p. 270

 

Cristofori 1992b

r.c. [Roberta Cristofori], Bertelli, Luigi (1832 – 1916); Fotografia dell’Emilia (attiva 1865 – 1940), in Benassati,  Tromellini 1992, sch. I/14, I/15, pp. 118-119

 

Cristofori 1992c

r.c. [Roberta Cristofori], Poppi, Pietro (1833-1914), in Benassati,  Tromellini 1992, pp.  276-277

 

Cristofori, Roversi 1980

Le collezioni d’arte della Cassa di Risparmio in Bologna: Le fotografie, 1 : Pietro Poppi e la Fotografia dell’Emilia, a cura di Franco Cristofori, Giancarlo Roversi.  Bologna: Cassa di Risparmio di Bologna, 1980

 

Dall’Armi 1915

Gian Carlo dall’Armi, Il Barocco Piemontese. Torino: Dall’Armi, s.d. [1915]

 

Emiliani, Zannier 1993

Andrea Emiliani, Italo Zannier, a cura di, Il Tempo dell’Immagine: Fotografi e Società a Bologna: 1880-1980.  Torino: SEAT, 1993

 

Expo Bologna 1888  2015

Expo Bologna 1888: l’Esposizione Emiliana nei documenti delle Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, catalogo della mostra (Bologna, San Giorgio in Poggiale, 8 aprile – 8 giugno 2015), a cura di Benedetta Basevi, Mirko Natoli, “Quaderni della Biblioteca di San Giorgio in Poggiale”, 1. Bologna: Bononia University Press, 2015

 

Fanelli, Mazza 2003

Giovanni Fanelli, Barbara Mazza, Lucca: Iconografia fotografica della città, con la collab. di Gilberto Bedini, 2 voll. Lucca: Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca; Maria Pacini Fazzi Editore,  2003

 

Fanelli, Mazza 2012

Giovanni Fanelli, Barbara Mazza, Alphonse Bernoud. Firenze: Mauro Pagliai Editore, 2012

 

Ferretti 1980

Massimo Ferretti, Memoria dei luoghi e luoghi della memoria nelle riproduzioni d’arte. In: L’Immagine della regione: Fotografie degli archivi Alinari in Emilia e in Romagna, catalogo della mostra (Modena, Fondazione del Collegio San Carlo, 20 novembre-20 dicembre 1980). Modena – Firenze: Istituto per i Beni Artistici Culturali Naturali della Regione Emilia-Romagna, Comune di Modena –  Istituto Alinari, 1980, pp. 37-51;  ora in Fotologia”, n. 23-24, 2003, pp. 2-11, con minime varianti al testo

 

Fotografia Italiana 1979

Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti, ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980), a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier.  Milano; Firenze: Electa Editrice;  Edizioni Alinari, 1979

 

Fotografia pittorica 1979

Fotografia pittorica 1889/1911, catalogo della mostra (Venezia, Ala Napoleonica, ottobre-dicembre 1979; Firenze, Palazzo Pitti, gennaio-marzo 1980), a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano; Firenze: Electa Editrice;  Edizioni Alinari, 1979

 

Frisoni 1998

Cinzia Frisoni, Pietro Poppi e la Mostra d’Arte sacra in San Francesco: recupero di una documentazione fotografica, “Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande”, 5, 1998, pp. 35-41

 

Frisoni 2008

Cinzia Frisoni, Leggere, interpretare, formalizzare: esempi di morfologie delle schede, “Acta Photographica”, 3 (2008), n. 1, gennaio-giugno, pp. 63-69

 

Gaetano Chierici 1986

Gaetano Chierici: 1838-1920, catalogo della mostra ( Reggio Emilia, Palazzo Magnani, 15 Febbraio – 31 Marzo 1986), a cura di Elio Monducci. Reggio Emilia: Tipolitografia, 1986

 

Giovanni Battista Quadrone  2014

Giovanni Battista Quadrone: un iperrealista nella pittura piemontese dell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Fondazione Accorsi-Ometto, 19 settembre 2014 – 11 gennaio 2015), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Torino: Adarte, 2014

 

Grandi 1983

Renzo Grandi, Pietro Poppi, in Dall’Accademia al vero: La pittura a Bologna prima e dopo l’Unità, catalogo della mostra (Bologna, Galleria d’Arte Moderna, gennaio-aprile 1983), a cura di Renzo Grandi. Bologna: Grafis, 1983, pp. 212-213

 

Gray 1992

Michael Gray, Il reverendo Calvert Jones in Italia, in Benassati,  Tromellini 1992, p. 69

 

Guidotti 1996

Paolo Guidotti, Gli stemmi del Palazzo dei capitani della montagna a Vergato: una memoria visiva di secoli di storia dell’Alto bolognese (restauro 1992-1994);  “Accademia Clementina di Bologna: Saggi studi ricerche”. Bologna: CLUEB, 1996

 

Hanlon 1997

David R. Hanlon, Inventory of the Sturgis Photographic Collection: a complete listing of mounted photographs, loose prints and the contents of travel albums collected by Russell Sturgis at Washington University.  St. Louis, Mo. : [Washington University], 1997

 

Hildebrandsson, Köppen,  Von Neumayer 1890

Hugo Hildebrandt, Wladimir Köppen, Georg Balthasar von Neumayer, Wolken-Atlas – Atlas des nuages – Cloud-Atlas – Moln-Atlas. Hamburg: G. W. Seitz, 1890

 

Hildebrandsson, Osti 1879

Hugo Hildebrandt Hildebrandsson, Henri Osti, Sur la classification des nuages employée à l’observatoire météorologique d’Upsala.  Upsala: Berling, 1879

 

Inchiesta 1873

Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Atti del Comitato dell’inchiesta industriale, III, Deposizioni scritte. Cat. 13, § 2, incisione, Litografia e Fotografia. Roma : Stamperia Reale, 1873

 

L’insistenza dello sguardo 1989

L’insistenza dello sguardo: Fotografie italiane 1839-1989, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Fortuny, 25 marzo-2 luglio 1989),  a cura di Paolo Costantini, Silvio Fuso, Sandro Mescola, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1989

 

Laudisa 1995

Ilderosa Laudisa, Ritratto di una città: Storia della fotografia leccese dell’Ottocento. Lecce: Edizioni Del Grifo, 1995

 

Le Polley Fonteny 2003

Monique Le Polley Fonteny, Alinari e Giraudon: una storia parallela, in  Maffioli,  Quintavalle 2003, pp. 71-86

 

Lebart 1996

Luce Lebart,  Les archives du ciel, “Études photographiques”, 1 (1996) n. 1,  novembre, pp.56-72

 

Lotze 1984

Lotze: Lo studio fotografico 1852-1909, catalogo della mostra (Verona, Museo di Castelvecchio, 26 luglio-30 settembre 1984), a cura di Pierpaolo Brugnoli, Sergio Marinelli, Alberto Prandi. Verona: Comune di Verona – Museo di Castelvecchio, 1984

 

Luigi Sacchi 1998

Luigi Sacchi: Un artista dell’Ottocento nell’Europa dei fotografi, catalogo della mostra (Torino, Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte, 8-28 maggio 1998), a cura di Roberto Cassanelli. Torino: Provincia di Torino, 1998

 

Maffioli 1996

Monica Maffioli, Il BelVedere: Fotografi e architetti nell’Italia dell’Ottocento. Torino, S.E.I., 1996

 

Maffioli,  Quintavalle 2003

Monica Maffioli, Arturo Carlo Quintavalle, a cura di, Fratelli Alinari fotografi in Firenze: 150 anni che illustrarono il mondo 1852-2002, pubblicato in occasione della mostra omonima (Firenze, Palazzo Strozzi, 2 febbraio-2 giugno 2003).  Firenze: Alinari, 2003

 

Malaguzzi Valeri 1893

Francesco Malaguzzi Valeri, La chiesa della Madonna di Galliera in Bologna, “Archivio storico dell’arte”, 6 (1893) n. 1, estratto

 

Malaguzzi Valeri 1894

Francesco Malaguzzi Valeri, La chiesa e il portico di San Giacomo in Bologna, “Archivio storico dell’arte”, 7 (1894) n. 5, estratto

 

Malaguzzi Valeri 1895

Francesco Malaguzzi Valeri, La chiesa e il convento di S. Michele in Bosco. Bologna : Tipografia Fava e Garagnani, 1895

 

Malaguzzi Valeri 1896

Francesco Malaguzzi Valeri, La Chiesa della Santa a Bologna, “Archivio storico dell’arte”, serie II, 2 (1896), n. 1-2

 

Malaguzzi Valeri 1899

Francesco Malaguzzi Valeri, L’architettura a Bologna nel Rinascimento. Rocca S. Casciano: Licinio Cappelli Editore, 1899

 

Malaguzzi Valeri 1928

Francesco Malaguzzi Valeri, Il palazzo Zacchia-Rondinini Reggiani, “Cronache d’Arte”, 4 (1928) n. 3, pp. 45-64

 

Marangoni 1999

Fabio Marangoni, Pietro Poppi (1833-1914) fotografo bolognese dell’Ottocento. Tesi di laurea in Storia dell’Arte Contemporanea, Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in D.A.M.S., relatore Stefano Susinno, a.a. 1998-1999

 

Marangoni 2001

Fabio Marangoni, L’Album delle fotografie della Repubblica di San Marino e regesto dei cataloghi della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi, “Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande”, 7 (2001), febbraio, pp. 38-47

 

Mario Gabinio 1996

Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996

 

Martelli 1867

Diego Martelli, Esposizione triennale di Belle Arti in Bologna,  “Gazzettino delle Arti del Disegno”, 1 (1867), nn. 39, 40, 4, 17 novembre, pp. 306-307, 316-317

 

Matarazzo 2004

Carmela Matarazzo, Le testimonianze del quadraturismo bolognese nelle campagne fotografiche di Poppi, Croci, Alinari e Villani, Tesi di laurea, Corso di laurea in D.A.M.S., indirizzo Arte, relatore Marinella Pigozzi, a.a. 2003-2004

 

McCauley 1994

Elizabeth Anne McCauley, Industrial Madness. Commercial photography in Paris, 1848-1871. New Haven, London: Yale University Press, 1994

 

Melani 1907

Alfredo Melani, L’Arte nell’industria: lavori di legno e pastiglia, lavori di metallo, lavori di pietra, marmo. Milano: Vallardi, 1907-1911.

 

Moggi, Maffioli, Sesti 1994

Guido Moggi, Monica Maffioli, Emanula Sesti, a cura di, Fotografia e botanica tra ottocento e novecento. Firenze: Alinari, 1994

 

Mormorio 2000

Diego Mormorio, Vedute e paesaggi italiani dell’Ottocento. Milano: Federico Motta Editore, 2000

 

Mozzo 2004

Marco Mozzo, Note sulla documentazione fotografica in Italia nella seconda metà dell’Ottocento tra tutela, restauro e catalogazione, in Enrico Castelnuovo, Giuseppe Sergi, a cura di, Arti e storia nel Medioevo, 4: Il Medioevo al passato e al presente. Torino: Einaudi, 2004, pp. 847-870

 

Novara 2006

Paola Novara, L’ attività di Luigi Ricci attraverso i cataloghi del suo laboratorio. Ravenna : Fernandel scientifica, 2006

 

Paoli 2000

Silvia Paoli , Pietro Poppi, in 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, Palazzo di Brera, Sala della Passione, 17 febbraio-25 aprile 2000) a cura di Matteo Ceriana, Marina Miraglia.  Milano: Electa, 2000, p. 164-165

 

Papone 1999

Elisabetta Papone, Il mare di vetro: Genova e le Riviere tra veduta e documentazione nell’archivio di Alfred Noack, in  Scoperta del mare: Pittori lombardi in Liguria tra’800 e ‘900, catalogo della mostra (Genova, Palazzo Ducale, 9 luglio-24 ottobre 1999) a cura di Giovanna Ginex, Sergio Rebora. Milano: Mazzotta, 1999, pp. 199-213

 

Pedrini 1929

Augusto Pedrini, Il ferro battuto sbalzato e cesellato nell’arte italiana : dal secolo undicesimo al secolo diciottesimo.  Milano: Ulrico Hoepli, 1929

 

Pettina 1905

Giuseppe Pettina, Vicenza. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1905

 

Poppi 1871

Catalogo della Fotografia dell’Emilia/ Bologna/ Palazzo Rodriguez, via S. Mamolo N. 101 primo. S.l. : s.n. [Bologna: Tip. Fava e Garagnani], s..d. [1871]

 

Poppi 1879

Catalogue de la Photographie de l’Emilia (…) de Pietro Poppi (…). Bologne : Imprimerie Fava et Garagnani, 1879

 

Poppi 1883

Catalogue de la Photographie de l’Emilia (…) de Pietro Poppi (…). Bologne (Italie): Établissement Typographique successori Monti, 1883

 

Poppi 1888

Catalogo generale della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi (…). Bologna: Tipografia Fava e Garagnani, s.d. [1888]

 

Poppi 1890

Appendice I al Catalogo generale della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi. Bologna : Tipografia Fava e Garagnani, 1890

 

Poppi 1896

Appendice 2a al Catalogo generale della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi (…). Bologna : Premiata Tip. L. Andreoli, 1896

 

Quintavalle 2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Recine 2006

Francesca Recine, La documentazione fotografica dell’arte in Italia dagli albori all’epoca moderna. Napoli: Scriptaweb, 2006

 

Ricci 1903

Corrado Ricci, La Repubblica di San Marino. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1903

 

Ricci, Poppi 1888

Corrado Ricci, Pietro Poppi, Monumenti sepolcrali di lettori dello Studio Bolognese nei secoli XIII, XIV e XV. Bologna: Tipografia Fava e Garagnani, 1888

 

Roncuzzi Roversi-Monaco 1992

Valeria Roncuzzi Roversi-Monaco, Il ritratto della città, in Benassati,  Tromellini 1992,, pp. 83-87

 

Rubbi 2010

Valeria Rubbi, L’ architettura del Rinascimento a Bologna: passione e filologia nello studio di Francesco Malaguzzi Valeri.  Bologna: Editrice Compositori, 2010

 

Rubbiani 1886

Alfonso Rubbiani, La Chiesa di S. Francesco in Bologna; con atlante di nove tavole. Bologna: Nicola Zanichelli, 1886

 

Rubbiani 1887

Alfonso Rubbiani, Le tombe di Accursio, di Odofredo e di Rolandino de’ Romanzi glossatori nel secolo XII. Bologna: Nicola Zanichelli, 1887

 

Rubbiani 1899

Alfonso Rubbiani, La Chiesa di San Francesco e le tombe dei Glossatori in Bologna: Ristauri dall’anno 1896 al 1899. Note storiche ed illustrative di A.R. Bologna: Tip. Zamorani e Albertazzi, 1899

 

Ruskin 1985

John Ruskin, Viaggi in Italia (1840-1845), a cura e con prefazione di Attilio Brilli. Firenze: Passigli, 1985

 

Schutz 1885

Alexander Schutz, Die Renaissance in Italien. Eine Sammlung der werthvollsten erhaltenen Monumente in chronologischer Folge geordnet. Hamburg: Strumper & C., 1885

 

Secchiari 1997

Simonetta Secchiari, a cura di, Corrispondenti di Corrado Ricci: Indice inventario. Ravenna: Società di Studi Ravennati, 1997

 

Seferović 2009

Abdulah Seferović, Photographia Iadertina: od dagerotipije do digitalne slike. Zagreb: Kapitol, 2009

 

Sella, Vallino 1890

Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: G. Amosso, 1890 (nuova ed. Ivrea : Priuli e Verlucca, 1983

 

Sesti 1993

Emanuela Sesti, I cataloghi dei Fratelli Alinari a Bologna fra Ottocento e Novecento. in  Emiliani,  Zannier 1993, pp. 89-92

 

Tomassini 2003

Luigi Tomassini, L’Italia nei cataloghi Alinari dell’Ottocento: gerarchie della rappresentazione del “bel paese” fra cultura e mercato, in Maffioli,  Quintavalle 2003, pp. 147-216

 

Tromellini, Cecchini 2003

Venga a prendere un caffè da noi: dal mitico caffè chantant “Eden” ai moderni bar della città: 1861-1969, in Bologna d’archivio: 150 antiche fotografie della Cineteca, (catalogo della mostra, Bologna, Cineteca Comunale, 16 marzo 2003),  a cura di Angela Tromellini e Margherita Cecchini. Bologna: Cineteca, 2003

 

Tromellini, Spocci 1992a

a.t./ r.s. [Angela Tromellini, Roberto Spocci], Calvert Jones, Richard (att. 1840-1846),  in Benassati,  Tromellini 1992, sch. II/44-II/47,  pp. 192-193

 

Tromellini, Spocci 1992b

a.t./ r.s. [Angela Tromellini, Roberto Spocci], Fotografia dell’Emilia (att. 1865-1940), attr. Piazza e Chiesa di S. Stefano in Bologna, in Benassati,  Tromellini 1992,  pp. 188-189

 

Vanzella 1997

Giuseppe Vanzella, a cura di, Padova: I fotografi e la fotografia nell’Ottocento. Campodarsego: Gruppo Carraro, 1997

 

Varignana 1985

Franca Varignana, Pietro Poppi: fotografia della città, “Fotologia”, 1985, n. 3, luglio, pp. 40-51

 

Varignana 1993

Franca Varignana, Pietro Poppi “peintre-photographe”, in Emiliani, Zannier 1993

  1. 55-85

Varni 2011

Angelo Varni, a cura di, Palazzo Caprara Montpensier: sede della Prefettura di Bologna. Bologna : Bononia University Press, 2011

 

Vetruzzini 2007

Barbara Vetruzzini, Fotografi e fotografia a Pisa: Il Grand Tour e la rappresentazione della città, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 23 (2007), n. 45, giugno, pp.40-53

 

Viljoen 1971

Helen Gill Viljoen, ed.,  The Brantwood Diary of John Ruskin: together with selected related letters and sketches of persons mentioned.  New Haven : Yale University Press, 1971

 

Viollet-Le-Duc 1860

Eugène Viollet-Le-Duc,  Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siècle, VIII. Paris : Librairies-Imprimeries Réunies, s.d. [1860]

 

Voir l’Italie 2009

Voir l’Italie et mourir: Photographie et peinture dans l’Italie du XIXe siècle, catalogo della mostra (Paris, Musée D’Orsay, 7 aprile-19 luglio 2009), Guy Cogeval, Ulrich Pohlmann, dir. Paris: Skira Flammarion, 2009

 

Wilhelm von Gloeden 2000

Wilhelm von Gloeden: Fotografie ritrovate dell’Istituto Statale d’Arte di Firenze: 1899-1902, catalogo della mostra (Firenze, San Pancrazio, marzo-aprile 2000), a cura Annarita Caputo. Firenze: Pagliai Polistampa, 2000

 

Zannier 1980

Italo Zannier, Il grande catalogo di Pietro Poppi, in  Cristofori, Roversi 1980, pp. 41-49

 

Zannier 2008

Wilhelm von Gloeden: Fotografie: nudi paesaggi scene di genere, catalogo della mostra (Milano, Palazzo della Ragione, 24 gennaio-24 marzo 2008), a cura di Italo Zannier. Firenze: Alinari 24 ore, 2008

 

Zucchini 1914

Guido Zucchini, Bologna. Bergamo: Istituto italiano d’arti grafiche, 1914

 

 

 

 

La variante Sommer (2011)

in Dal Vesuvio alle Alpi. Giorgio Sommer: fotografie d’Italia, Svizzera e Tirolo, catalogo della mostra (Napoli Castel dell’Ovo – Museo di Etnopreistoria, 27 marzo -30 aprile 2011; Torino, Museo nazionale della montagna 25 novembre 2011 – 20 aprile 2012).  Torino: Museo nazionale della montagna, 2011, pp. 6-19

 

Ho sempre visto tutto in forma di figura,

anche le parole.

Claudio Parmiggiani

 

“Ci sono poche prove che possono essere portate della grande diffusione del nuovo mezzo, e dei differenti modi della sua ricezione [quanto il fatto che] mentre la nostra Regina ha inviato un apparato fotografico completo per uso del Re del Siam, il solo Re di Napoli, in tutto il mondo civilizzato, ha vietato la pratica delle opere della luce nei propri domini!”[1]  Questo scriveva Lady Elizabeth Eastlake, in quello che è forse il primo resoconto critico della letteratura fotografica, nello stesso 1857 in cui Sommer apriva a Napoli il proprio studio[2], negli anni fervidi del passaggio dalla prima fase pionieristica a quella che si sarebbe poi detta età del collodio, nella quale – abbandonata la carta – il negativo su supporto in vetro avrebbe aperto l’era dei grandi studi fotografici e della sistematica commercializzazione.

Questo giudizio derivato dalla disillusione postromantica per il nostro paese era certo ingeneroso, ma soprattutto infondato[3], sebbene resti un sintomo significativo di quale fosse la percezione delle condizioni culturali e politiche del Regno borbonico, e forse italiane nell’Inghilterra intorno alla metà del XIX secolo. Va rilevato invece l’artificio retorico e implicitamente razzista (del resto ampiamente diffuso anche oggi) di collocare spregiativamente il reo a un livello inferiore a quello attribuito a persone e paesi che si consideravano modelli di arretratezza.  La Napoli di Ferdinando II (1830 – 1848), certo attenta alle suggestioni e ai simboli della modernità (si pensi alla ferrovia Napoli – Portici), fu invece uno dei centri italiani in cui  più precoce e qualificata era stata l’attenzione per le nuove, meravigliose invenzioni di Daguerre e Talbot:  la prima anticipata da Raffaele Liberatore sulle pagine de “Il Lucifero” già il 6 febbraio 1839; l’altra patrocinata dallo scienziato Michele Tenore, Direttore dell’Orto Botanico di Napoli e da più di un quindicennio in contatto con Talbot, che il 27 settembre dello stesso anno scriveva al Direttore di quel giornale per annunciare di aver ricevuto direttamente dallo studioso inglese alcuni “disegni fotogenici eseguiti da lui medesimo.”[4]  Insomma, dopo quel giovedì 28 novembre in cui il signor Raffaele Gargiulo “restò meravigliosamente dagherrotipato” ad opera di Gaetano Fazzini durante il “primo  sperimento”condotto a Napoli”[5], le vicende locali della fotografia dovettero avere sviluppo e attenzione ben più ampie di quelle supposte dalla Eastlake, specialmente per merito delle rilevanti presenze straniere in una città che costituiva una delle principali tappe del Gran Tour. “Amena più che ogni altra (…) per pittoresche circostanze – era infatti descritta questa città – [essa] darebbe all’artista o all’amatore che ne avesse genio l’agio di riprodurre per mezzo del Daguerre, le più belle vedute che la matita o il pennello de’ paesisti abbia mai tracciato sulla carta e sulla tela.”[6]

Le prime vedute al dagherrotipo di Napoli, e dei siti archeologici, entrarono molto presto, già nel 1840-1841,a far parte delle serie editoriali di Alexander John Ellis come di Noël Marie Paymal  Lerebours o dell’italiano Ferdinando Artaria e per tutto il quindicennio successivo – cioè fino a che tale tecnica non venne abbandonata – furono almeno una decina i dagherrotipisti in transito o presenti in città per periodi più o meno lunghi, mentre Francesco Gibertini pare essere stato il solo professionista locale.[7] Ancor più nutrita, e qualificata fu la frequentazione dei luoghi da parte dei calotipisti, a partire almeno dal 1846, con le presenze di Amélie Guillot-Saguez e di Richard Calvert-Jones, che a Santa Lucia si provò con una veduta urbana in due parti, dedicandosi anche a Pompei e Baja[8], ma soprattutto di Stefano Lecchi che, nella testimonianza del Reverendo George Wilson Bridges, era a Napoli per realizzare fotografie di Pompei proprio su incarico di Ferdinando II.[9]  Altri seguirono nei primissimi anni Cinquanta: Alfred-Nicolas Normand, Firmin Eugéne Le Dien, Paul Jeuffrain, Alphonse Davanne, i napoletani Arena e Pellegrino e il milanese Luigi Sacchi che verso il  1853 fotografò Pompei e Paestum,  ma anche una Veduta del Golfo di Napoli con Castel dell’Ovo poi non compresa nelle serie di Monumenti, vedute e costumi d’Italia pubblicata  nel 1852-1855.[10] Come si vede la scelta dei soggetti non presenta novità di rilievo. Pompei e Paestum, Mergellina e Santa Lucia, Ischia e Ravello: sono le mete che consigliava anche l’Handbook for travellers in Southern Italy, che Octavian Blewitt scrisse nel 1853 per la serie edita a Londra da John Murray, distribuita a Napoli da Detken, presso il quale sarebbero state poste in vendita negli anni successivi anche le stampe di Sommer.[11]

Dopo una prima, forse breve sosta a Roma nel mese di settembre, Giorgio Sommer aveva aperto il proprio studio napoletano nell’inverno 1857-1858. Poco sappiamo di quel suo avvio di attività; nulla a proposito delle tecniche adottate in quei primissimi anni, anche se pare verosimile ritenere che fin da subito adottasse l’innovativo negativo su vetro, come del resto avevano fatto gli Alinari solo pochi anni prima[12], magari utilizzando dapprima, al posto del collodio, un’emulsione all’albumina che consentiva una migliore resa dell’immagine pur scontando maggiori tempi di esposizione. Ciò che conosciamo  almeno un poco meglio è la sua capacità immediata di adeguarsi alle richieste di mercato avviando, accanto alle prime vedute in diversi formati, una ricca produzione di stereoscopie, e dedicandosi contemporaneamente al ritratto, una pratica che pare aver progressivamente abbandonato nei decenni successivi.[13] Risale a questo stesso periodo anche la collaborazione con Edmond Behles, che tanti problemi attributivi ancora pone agli studiosi[14], ma che qui vogliamo richiamare solo per quanto significa in merito alla questione della concezione autoriale del lavoro fotografico nel contesto della pratica professionale italiana dopo la metà del XIX secolo. Non si tratta tanto di richiamarsi alla questione del diritto d’autore riconosciuto alla fotografia, ancora di là da venire in quegli anni nel nostro paese, ma di considerare quale fosse il significato e il valore in termini di responsabilità intellettuale sotteso a una pratica di scambio di immagini che molti indizi ci dicono diffusa, anche se ancora poco nota e pochissimo studiata, ma che pare avesse implicazioni quasi esclusivamente commerciali.[15]  In questa prospettiva è ancora utile richiamarsi alle riflessioni di Rosalind Krauss che ha auspicato “la necessità di abbandonare, o almeno di sottoporre a una seria critica, categorie derivate dall’estetica come quelle di autore, opera e genere (come nel caso del paesaggio), [per]  cercare di mantenere la fotografia antica nel suo statuto di archivio e di chiedere che si esamini questo archivio in modo archeologico, come Foucault ce ne ha fornito insieme la teoria e l’esempio.”[16]

Un altro elemento problematico relativo ai primi anni della sua attività, riguarda la precoce circolazione delle sue immagini, che derivava credo dalla conquista di un’autorevolezza ben presto riconosciuta se già nel 1859 Domenico Benedetto Gravina, credo per il tramite dello stabilimento litografico Richter di Napoli, a lui si rivolgeva per l’illustrazione del suo Il Duomo di Monreale, certo una delle più rilevanti imprese della prima editoria fotografica italiana.[17] È una collaborazione questa che ci interroga anche sui tempi e sui modi della formazione di Sommer, sul farsi della sua prima cultura visiva come della sua maestria tecnica, per le quali non sembra sufficiente il riferimento all’apprendistato presso lo studio Andreas und Sohn di Francoforte. Certo avranno avuto un qualche rilievo le suggestioni che gli poterono derivare dalla frequentazione di alcuni membri dell’eterogenea colonia tedesca ben radicata a Roma negli anni della sua presenza in città, ma credo vada almeno presa in considerazione la possibilità che in quello stesso periodo abbia avuto contatti coi principali esponenti della Scuola fotografica romana, ancora molto attivi e presenti anche a Napoli, come si è detto, o – almeno – che abbia avuto occasione di conoscere e studiare le loro opere, di buona circolazione quando non addirittura predisposte per la diffusione seriale, come nel caso delle Vedute di Roma e dei contorni in fotografia pubblicate da Giacomo Caneva nel 1855. Sono domande a cui non siamo per ora in grado di rispondere, ma non per questo meno necessarie, nella convinzione che sia difficile attribuire il suo rapido percorso di formazione al contesto napoletano in cui, a prescindere dal valore discontinuo dei diversi operatori presenti, lui pare essersi proposto da subito quale professionista qualificato, non come un autore in fieri. Non solo: la qualità del lavoro che andava conducendo a Pompei almeno dal 1860, quando il 25 settembre fotografò Garibaldi in visita agli scavi[18], lo propose da subito quale interlocutore privilegiato del neo nominato Direttore del Museo Nazionale Giuseppe Fiorelli, cui si deve la prima applicazione a Pompei dei metodi dell’archeologia moderna, a scavo stratigrafico, e l’utilizzo del metodo della colatura di gesso nelle forme vuote lasciate dai corpi nella lava, di cui Sommer fotografò uno dei primi esiti nel febbraio del 1863[19].

Impronta di un’impronta. Matrice di una matrice sono questi negativi in cui la forma del vuoto lasciato dai corpi annientati dal calore della lava è l’immagine latente che il calco ha rivelato, in un processo concettualmente analogo a quello fotografico. Immagine di un’immagine quindi, ma in modo incommensurabilmente diverso dalla riproduzione di un dipinto, di una scultura o di un reperto. Il calco ha una diversa relazione col tempo; non è il reale che ritorna, ma una sua manifestazione seconda, differita, cui riconosciamo lo statuto di figura, ma che appartiene in maniera radicale e netta al regime dell’impronta, non dell’icona: come le sagome lasciate sui muri dal “vento-lampo della bomba”[20] atomica. Figure non tracciate da mano umana. “Ciò che rappresenta un ostacolo per lo sguardo si ricollega alla  (…) questione dell’impronta: non c’è nulla da guardare perché non c’è invenzione formale, e non c’è invenzione formale perché l’oggetto non è che un prelievo, una riproduzione, una semplice impronta della realtà. Non c’è nulla da guardare perché non c’è abilità, non c’è lavoro artistico, e non c’è lavoro artistico perché c’è solo un calco, un’impronta meccanicamente riproducibile della realtà. Non c’è nulla da guardare, come opera d’arte, perché c’è solo impronta: la non opera per eccellenza”[21], che era appunto ciò che si diceva, l’accusa che era mossa alla fotografia al tempo della sua comparsa e negli anni di Sommer, ancora.

Non considerando i lavori su commissione, l’archeologia – tra Roma e Napoli – sembra essere stata la sua prima area di interesse, cui si aggiunsero ben presto le vedute urbane, pur se non unanimemente apprezzate[22]. Roma, Napoli, di cui realizzò anche un panorama in cinque parti verso il 1865, poi Firenze, Milano (entro il 1869). E Torino, la prima capitale. Insolito soggetto per quegli anni, in cui la città sabauda era descritta quasi solo dai fotografi residenti, se si esclude la luminosa eccezione di Charles Marville[23], e di cui Sommer ci ha offerto una veduta stereoscopica della Contrada di Po e di Via della Zecca che restituisce le qualità prospettiche di questo spazio urbano che poi si sarebbe detto metafisico in maniera tanto più magistrale della già eccellente ripresa contenuta in Turin ancien et moderne, edito da Henri Le Lieure nel 1867. Sono anni questi in cui il suo catalogo si accresce rapidamente e, per la sua parte più connotata e consistente, si trasforma in repertorio iconografico napoletano: archeologia, veduta urbana e “tipi napoletani”, disponibili anche in versione colorata, nel formato carte de visite, destinati a soddisfare la diffusa richiesta del mercato turistico, specialmente nordeuropeo e che proprio per questo si ritrovano con minime variazioni e riprese al limite del plagio anche nel repertorio di altri fotografi attivi  a Napoli, come Giorgio Conrad, Achille Mauri e poi Gustavo Eugenio Chauffourier, in un andirivieni continuo tra grafica e fotografia, con forti influenze della tradizione tutta napoletana delle figurine da presepe. E il Vesuvio allora? Giustamente famosa è la sequenza relativa all’eruzione del 1872, sistematicamente ripresa a intervalli di mezz’ora, adottando una forma narrativa che suggerisce la durata piuttosto che sottolineare l’istantaneità della posa. Un trattamento antipittoresco, che segna uno scarto rispetto alle opere antecedenti relative allo stesso soggetto. La prima immagine nota [2204], in piccolo formato, in una copia firmata Edmond Behles, si riferisce all’eruzione del 1861, ma non è ancora una “vera fotografia”. Si tratta infatti della riproduzione di una stampa, analogamente a quanto accade per la pseudostereoscopia Scesa dal Vesuvio [753], questa firmata “Sommer e Behles Napoli & Roma”, che essendo formata da una coppia di riproduzioni necessariamente identiche mai avrebbe potuto sortire alcun effetto tridimensionale. “Lava con figure” potrebbe essere classificato il soggetto, comune anche a una ripresa stereoscopica [293] e ad altre fotografie successive [2546], così come alle immagini di altri autori, ancora Chauffourier e Mauri[24], che mostrano anche un’analoga se non perfettamente coincidente attrazione per le forme fantastiche, quella stessa che in Sommer accomuna le prime riprese in cui la lava è sontuosamente posta in primo piano [298] a quelle più tarde dei ghiacciai alpini [13307], entrambe forse debitrici della Colata di lava che James Graham fotografò intorno al 1860, utilizzando ancora il negativo di carta.[25]

Catalogo di fotografie d’Italia recita il suo primo titolo, pubblicato nel 1870, dove la geografia dei luoghi progressivamente si amplia, secondo percorsi e movimenti che sarebbe interessante poter seguire nel dettaglio, in particolare per quanto riguarda la Sicilia e altri importanti centri dell’Italia meridionale, soggetti che in parte contribuiranno all’apparato iconografico delle dispense relative agli Studi sui monumenti della Italia meridionale dal IV al XIII secolo che Demetrio Salazar pubblicò a Napoli, presso Richter & C. nel 1871 – 1877. La figura dello studioso risulta importante anche per il ruolo svolto nella fondazione del Museo Artistico Industriale, nel 1882,  con Gaetano Filangieri  e la collaborazione di Domenico Morelli, Filippo Palizzi, che ne fu Direttore,  e Giovanni Tesorone. Prendendo a modello come in altre realizzazioni italiane  il South Kensington Museum, lo scopo della nuova istituzione era quello di divulgare e sviluppare la cultura delle arti applicate nell’Italia meridionale, avviando, accanto al Museo, le Scuole-Officine in cui i giovani potessero ricevere un insegnamento tecnico specializzato nei settori della ceramica come della lavorazione dei metalli e simili. Questo progetto è da porre in relazione anche con la produzione e col fiorente mercato di oggetti artistici e copie cui a diverso titolo si dedicavano molti fotografi napoletani quali Achille Mauri (che vendeva “ceramiche artistiche, collezioni di bronzi e terrecotte, copie del Museo e dei Costumi di Napoli)[26], la Fotografia Pompeiana di Giacomo Luzzati, che realizzava copie di busti e statue in scagliola col metodo della “scultofotografia”[27] e specialmente Giorgio Sommer, il quale a partire almeno dal Catalogo del 1873 si definiva  “Artiste fabricant de vases etrusques de l’Abruzzi et terre-cuites” reclamizzando “le sue copie di statue, di vetri Riton, di lampade, candelabri, allegorie e ancora vasi fra i più belli conservati al Museo Nazionale di Napoli.”[28]  Questa nuova pubblicazione, nell’anno in cui fu tra i premiati all’Esposizione di Vienna, ma a breve distanza dalla prima edizione, deve essere messa in relazione non solo con l’accresciuto numero di soggetti disponibili, ma anche con la comparsa di temi napoletani nel catalogo Alinari dello stesso anno[29]. La novità dichiarata sin dal titolo era la presenza di immagini di Malta[30], una delle mete più frequentate dai viaggiatori inglesi, ma anche il repertorio italiano si era nel frattempo esteso sino a comprendere i laghi di Como e Maggiore, più un’appendice luganese, con stampe destinate a circolare nella forma dei fogli sciolti o raccolte in album[31]. Napoli è il semplice titolo di quello dedicato “Alla Sezione centrale di Torino [dal]la Sezione di Napoli in occasione del VII Congresso del Club Alpino Italiano”, che si aprì  a Torino il  9 agosto 1874. Dopo l’orgogliosa antiporta con l’ostensione delle “Grandi Medaglie d’Oro” ricevute negli anni precedenti, il frontespizio con la grande “N” ornata di figure costituisce una sintesi iconica e una dichiarazione programmatica a un tempo, con quella barocca iniziale che si staglia su uno sfondo di vegetazione lussureggiante da cui emerge un pino marittimo (La Pina) sullo sfondo del Golfo con Castel dell’Ovo e il Vesuvio fumante[32]. La sequenza dei soggetti, il sommario diremmo, è canonica e la si può ritrovare in altri e successivi esemplari[33]. Apertura con panorama. Il primo è dal Vomero: verso nord, poi a sud. Quindi dalla Certosa di San Martino e – in controcampo, secondo una soluzione cui ricorreva sistematicamente  – dal molo della Stazione marittima. Segue una serie – qui di quattro immagini – dedicata al chiostro e all’interno della chiesa della Certosa, il primo monumento incontrato in questo percorso visuale e quasi materiale di avvicinamento alla città. Di fatto anche l’unico; la sola architettura a essere indagata in quanto tale e non nella sua presenza urbana. Poi si inoltra in città: Piazza del Plebiscito, Marinella, Santa Lucia (ancora campo e controcampo), la Villa Nazionale, Piazza del Municipio, Posillipo e le altre località dei dintorni da Baja a Caserta. La composizione ricorre spesso a un impianto in diagonale, che è un modo per restituire una maggiore profondità prospettica.  Nel leggere il paesaggio dei dintorni di Napoli  Sommer  si richiamava senza soluzioni di continuità – anzi, quasi citando – all’iconografia immediatamente precedente, ma ricorrendo di volta in volta a modelli e fonti differenti, a seconda del tema svolto, secondo il soggetto. Direi che è una modalità comune all’operare di molti grandi studi fotografici: non la definizione spasmodica di uno stile, forse ancora culturalmente inconcepibile,  ma la sapienza e la strategia visiva necessarie per adottare di volta in volta le soluzioni più adatte a inserire la propria produzione in una precisa tradizione iconografica,  giungendo alla formulazione di un discorso qualificato e riconoscibile a un tempo, in cui sovente l’effetto prospettico è accentuato collocando “un oggetto ombrato che facesse da primo piano”[34] ovvero un gruppo di figure, sovente posizionate a sinistra,  figure nel paesaggio che arricchiscono il pittoresco della veduta.  Anche il Vesuvio, certo. Proposto però in modo niente affatto romantico, privo di ogni pur lontana eco di sublime, mostrato anzi in tutta la terribilità della sua forza distruttrice, con le Ruine di San Sebastiano causate dall’eruzione del 1872, seguite da un’immagine tratta dalla ben nota sequenza. Poi: le ceneri che ne rimasero. Un’illustrazione che si potrebbe dire esauriente se non completa, da cui però risulta clamorosamente assente ogni riferimento ai pittoreschi stereotipi delle figure popolane cui tanta attenzione aveva dedicato nel decennio precedente, mentre ancora manca qualsiasi ripresa ‘dal vero’ della varia umanità che animava le strade di Napoli. Solo, al fondo, unica concessione a un pittoresco ormai in crisi come argomento e modalità di racconto, la riproduzione di una popolare litografia raffigurante il Calesse per Resina e la riproposizione dell’icona fotografica dei Mangiamaccheroni: quasi un atto dovuto. Singolare l’immagine dedicata all’interno del Teatro San Carlo, palese riproduzione di una grafica, forse una litografia, certo neppure tratta a sua volta da una ripresa fotografica, come dimostra non tanto la presenza della folla degli spettatori quanto l’incerta resa prospettica dello spazio[35]. Analoga soluzione era adottata per raffigurare altri interni ‘difficili’ come la Grotta di Pozzuoli  e la Grotta Azzurra , riproducendo un repertorio di figure cui negli stessi anni facevano ricorso anche altri fotografi come Chauffourier (Pozzuoli) e Mauri (Teatro San Carlo)[36]. L’insieme raccolto in questo album, ben rappresentativo del suo repertorio, mi pare sia l’ulteriore conferma di come sia quasi una forzatura collocare Sommer tra i fotografi di architettura o di riproduzione di opere d’arte, mentre invece i suo generi preferiti erano la veduta urbana, il paesaggio e in misura minore il costume, in ciò distinguendosi dalla linea Alinari, Anderson e simili.

La visita al suo studio in quello stesso anno da parte di Edward Livingston Wilson, fondatore e editore di “The Philadelphia Photographer”[37], il solo periodico fotografico professionale pubblicato all’epoca negli Stati Uniti,  certifica la notorietà del fotografo in una città che conta ormai quasi cento studi attivi, confermata anche dalla frequente pubblicazione di sue immagini su periodici internazionali, sebbene ancora nella forma del disegno o dell’incisione “d’apres une photographie”.[38]  A questa ormai consolidata posizione di prestigio si deve forse la commessa da parte della Società La Ferrovia Funicolare del Vesuvio  per la realizzazione di una ricca documentazione del nuovo impianto, pubblicata nel 1881 in “un piccolo ma raffinatissimo volumetto”[39], cui certo fece seguito una campagna autonoma realizzata nel 1886 dopo la sostituzione delle due prime vetture con un nuovo modello a fiancate aperte, puntualmente registrata nel catalogo edito in quello stesso anno. Questo incarico, con le relazioni che sottende e lascia intuire, potrebbe aver costituito un punto nodale per lo sviluppo di alcuni progetti successivi, in particolare quelli legati alla documentazione di alcune strade ferrate svizzere di diversa rilevanza ma di analoga notorietà turistica internazionale, quali la ferrovia del Gottardo e le due brevi linee che dai dintorni di Lucerna portavano al Monte Rigi e al Monte Pilatus. L’impresa della Funicolare vedeva infatti coinvolte figure ben inserite in una rete complessa di rapporti internazionali di tipo finanziario e industriale, come l’imprenditore Ernesto Emanuele Oblieght, azionista di numerose società di costruzioni ferro-tranviarie presenti ad esempio anche in Lombardia, ed Enrico Treiber, progettista e direttore dei lavori, in relazione per il tramite della sorella Clara, a sua volta parente del segretario generale di una compagnia ferroviaria tedesca,  con la famiglia Pallme[40], attiva a Napoli nel commercio e nella produzione di vetri intagliati e ceramiche. Nulla più che una suggestione per ora. Come escludere però che questa possa essere stata la via che portò Sommer a divenire socio della Mittelschweizerischen Geographisch Commerciellen Gesellschaft [Società Geografico Commerciale della Svizzera centrale] di Aarau, fondata nel 1884, che aveva tra i propri scopi statutari quello di istituire un vero e proprio “Museo fotografico.  Fotografie di paesaggi,  città, porti, villaggi, templi, palazzi, case, monumenti, opere d’arte, statue, dipinti. Immagini di tipi e costumi, queste ultime possibilmente colorate. Vegetazione, frutta e immagini di animali. Navi, veicoli e macchinari di ogni tipo. Fotografie stereoscopiche. Grafica pubblicitaria e oggetti etnografici. Chiediamo che tutte le fotografie,  se possibile, non siano montate, così come tutte le singole immagini di grande formato. Sono benvenute anche incisioni su acciaio e rame, fototipie e cromolitografie, xilografie e litografie.”[41]

All’iniziativa di questo sodalizio potrebbe riferirsi la serie fotografica relativa alla ferrovia del Gottardo, realizzata certo dopo la conclusione dei lavori e immediatamente resa nota nel catalogo del 1886[42], mentre fu lo studio Adolphe Braun & C.ie di Dornach[43] a documentare il cantiere sino alla messa in esercizio della linea il primo giugno 1882, illustrando con grande attenzione non solo le opere strutturali (ponti e gallerie) ma anche i macchinari utilizzati e gli impianti di servizio. Il confronto tra le due serie fotografiche mostra, al di là delle differenti intenzioni, il riproporsi di scelte che paiono obbligate: non solo i luoghi sono necessariamente gli stessi (gli stessi anche delle innumerevoli guide che seguiranno[44]), ma sovente coincidevano anche i punti di vista, quelli che consentivano non di distinguersi rispetto al lavoro di altri Studi ma di mostrare nella maniera più efficace lo stupefacente andamento della linea ferroviaria, le sue andate e ritorni, le gallerie. Ma Sommer non li descrive per sé. Non gli interessa l’ingegneria civile dei ponti e dei viadotti,  ma il loro inserimento quasi naturale nel paesaggio alpino, cui si aggiunge così un di più di meraviglia.  L’andamento delle immagini raccolte nell’album Souvenir de la Suisse è strutturato secondo il percorso della ferrovia, con una direzione certo non casuale da nord a sud (quasi un invito), in cui accanto ai punti più significativi o spettacolari del tracciato si illustrano le strutture ricettive più importanti, come l’Hotel Bellevue di Andermatt, ripreso anche da Braun, secondo la consuetudine di molta fotografia alpina della seconda metà del XIX secolo.[45] La documentazione di questa ferrovia costituì per Sommer una prima occasione per fotografare non solo Lucerna e il Lago dei Quattro Cantoni, che ne costituivano la destinazione svizzera, ma anche le montagne del Vallese e dell’Oberland Bernese[46]; luoghi in cui sarebbe tornato ancora negli anni successivi e per almeno un decennio per arricchire il catalogo di nuovi soggetti, come quelli dedicati alla Pilatusbahn [n. 13535] e alla Wengeralpbahn [n. 14300], aggiornando in molti casi riprese già presenti in catalogo, regolarmente ripetute confermando punto di vista e angolo di ripresa, secondo una modalità operativa ormai ampiamente consolidata.

Rispetto alla sua produzione antecedente, la novità di queste fotografie svizzere sta più nei soggetti che nei modi: mentre per Napoli e dintorni l’adesione alla richiesta culturale, e quindi commerciale, si traduceva in una generale accentuazione del pittoresco, qui l’attenzione era rivolta al paesaggio trasformato dalla modernità. Fedele ai modelli narrativi utilizzati per circa trent’anni, la veduta, lo sguardo d’insieme prevalgono sulla ripresa propriamente architettonica. Anzi, proprio la volontà di sottolineare le relazioni tra i diversi elementi costituenti la scena urbana, di segnalare visualmente le connessioni tra emergenze e tessuto, e questo e quelle col paesaggio e l’orografia sembra essere l’elemento caratterizzante del suo lavoro, cui si aggiunge una costante sistematicità. Nella progressione ottica delle riprese, dal generale al particolare, come nella scansione spaziale di avvicinamento al soggetto che suggeriscono (o consentono di ricostruire) un percorso di avvicinamento, lo spazio e il tempo di un viaggio. Si veda la bella serie realizzata intorno al Vierwaldstättersee in cui il segno luminoso del campanile di Fluelen emerge progressivamente dal fondo della veduta come un’epifania, sino a collocarsi in asse perfetto con la cima del Bristenstock sullo sfondo; poi, con uno scarto netto, l’attracco del traghetto al molo della stessa località, con un’immagine che Bruno Munari avrebbe potuto scegliere per le sue Fotocronache.[47] È nelle possibilità di questo impianto narrativo che mi pare di poter leggere la novità, importante, di queste realizzazioni, non,  ad esempio, nella scelta del punto di vista e nel taglio dell’inquadratura, che molte volte ripropongono schemi consolidati, citando quasi letteralmente esempi antecedenti, come accade proprio con alcune immagini di Lucerna e dintorni, in cui è evidente il richiamo alle fotografia dei bernesi Fratelli Charnaux, che avevano ampia circolazione anche in cartolina.

Le riprese relative alla Svizzera formano due serie distinte, la cui numerazione, almeno in questo caso[48] riflette una cronologia. La prima, numerata intorno al 12100-12500, è  coeva alle riprese del Gottardo,  cioè databile agli anni 1882-1885, mentre la successiva (nn. 13100-13700) data almeno al 1889.[49] L’occasione per il ritorno credo possa essere individuata nella conclusione dei lavori della ferrovia del Monte Pilatus (1889), che costituiva – accanto a quella del Rigi – una grande attrazione turistica[50], come confermano i soggetti offerti dal Diorama Meyer, a Lucerna in Zürichstrasse. Lo spettacolo offriva quattro vedute: il panorama dalla sommità del Rigi,  la veduta della ferrovia del Rigi e i panorami dal Pilatus e dal Gornergrat con “rappresentazioni degli effetti luminosi di mattina e sera. Somiglianza perfetta di grandi proporzioni. Ogni rappresentazione di 25-40 metri ca. è il miglior risarcimento per i turisti in caso di tempo cattivo e il miglior ricordo delle vedute alpine.”[51] Con un buon secolo di anticipo lo spettatore si ritrovava inconsapevolmente immerso nella condizione postmoderna della società del simulacro: “I Baedeker prima, e le cartoline illustrate poi, gli uni per un verso, le altre per un altro, hanno ai dì nostri tolto al viaggio ogni impreveduto, ogni poesia. I paesi, grazie a questi due portati della civiltà odierna, perdono ogni pregio di novità: tutto quanto v’è di stupefacente, di ammirevole è in anticipazione descritto, misurato, calcolato, pesato, fotografato! E addio impressioni vergini! Addio rivelazioni improvvise di paesaggi e di cieli! Addio punti di esclamazione sgorgati spontaneamente davanti a luoghi ignoti ed ignorati! Tutto quanto si vede è già cosi conosciuto! già così saputo! già così veduto!”[52]

Sono quelli gli anni in cui il figlio Edmondo iniziava a collaborare col padre, sino alla costituzione di una vera e propria società nel gennaio del 1889, e certo si dovrà tenere conto nell’attribuzione delle fotografie realizzate dopo questa data delle condizioni stabilite dal contratto, che prevedeva che il figlio dovesse “viaggiare per smaltire i prodotti dell’azienda e per formare le collezioni di vedute.”[53] Il successo internazionale della Ditta Giorgio Sommer e Figlio venne ribadito dall’assegnazione del Grand Prix all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno 1900 e dalla crescente diffusione di loro fotografie su pubblicazioni locali e internazionali[54], mentre i cataloghi di vendita, ancora nel 1914 distinguevano tra “Grand Etablissement Photographique/ sous la direction de Mr. Giorgio Sommer” e  “Grande Fonderie Artistique en Bronze (…) sous la direction du Chev. Edmondo Sommer”: una complessa attività che si muoveva sul crinale sottile che distingue produzione e riproduzione e che ancora attende di essere compiutamente indagata.

 

Note

[1] “These are but a few of the proofs  that could be brought  forward of the wide dissemination of the new agent, and of the various modes of its reception (…) for while our Queen has sent out a complete photographic apparatus for the use of the King of Siam, the King of Naples alone, of the whole civilised world, has forbidden the practice of the works of light in his dominions!”. L’articolo Photography, comparve anonimo in “The London Quarterly review”, 101 (1857), January – April, pp. 241-255 (243) per essere successivamente attribuito a Elisabeth Rigby Eastlake (1809-1893), in più occasioni fotografata da Hill & Adamson,  moglie di Charles Eastlake, Direttore della National Gallery e primo presidente della Photographic Society of London (ora Royal Photographic Society of Great Britain). Il saggio venne riproposto anche in Beamont Newhall, ed.,  Photography: Essays and Images,. London: Secker &  Warburg, 1980, pp. pp. 81-95 (84), ma citando in modo impreciso la fonte, oggi consultabile integralmente mediante il browser Google Books. Per il dibattito napoletano intorno alle nuove scoperte si veda Giovanni Fiorentino, Tanta di luce meraviglia arcana. Origini della fotografia a Napoli. Sorrento: Franco Di Mauro Editore, 1992, che rappresenta un indispensabile riferimento per la ricostruzione del contesto delle origini della fotografia in questa città. Rilievo ben maggiore ebbe la Relazione intorno al dagherrotipo presentata da Macedonio  Melloni alla Regia Accademia delle Scienze nella seduta del 12 novembre 1839 e più volte ristampata nei mesi successivi a Napoli, a Parma, a Roma e persino a Parigi, con traduzione di Alfred Donné; cfr. Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Antologia di testi sulla fotografia 1839/ 1949. Milano: Franco Angeli, 1985, pp. 88-89. La Relazione è stata ripubblicata integralmente in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia”, Annali, 2. Torino: Einaudi, 1979, pp. 212-232.

[2] Cfr. Marina Miraglia, Giorgio Sommer, un tedesco in Italia, in M. Miraglia, Ulrich Pohlmann, Un viaggio fra mito e realtà: Giorgio Sommer fotografo in Italia, 1857-1891. Roma: Carte Segrete, 1992, pp. 11-32, a cui si rimanda anche per la definizione del quadro generale della biografia, non solo professionale del fotografo. Si veda anche Giovanni Fanelli, L’ Italia virata all’oro  attraverso le fotografie di Giorgio Sommer.  Firenze: Pagliai Polistampa, 2007.

[3] Ancora in anni recenti si è affermato che “benché le prime tecniche di riproduzione fotografica (…) fossero state recepite immediatamente dagli ambienti scientifici napoletani, ciò non ha riscontro in una corrispondente attività di professionisti o dilettanti locali.”, Daniela del Pesco, Fotografia e scena urbana fra artigianato e industria culturale, in Giuseppe Galasso, Mariantonietta Picone Petrusa, D. del Pesco, Napoli nelle collezioni Alinari e nei fotografi napoletani fra ottocento e novecento. Napoli: Gaetano Macchiaroli Editore, 1981, pp. 65-107 (67).

[4] Già Ugo di Pace aveva ritrovato al Museo di San Martino una lettera di Talbot a Tenore datata 29 gennaio 1840, Cfr. U. di Pace, …E Napoli scoprì la foto, “Paese Sera”, Napoli, 3 dicembre 1982, p. 15. La corrispondenza di Talbot è stata digitalizzata e trascritta nell’ambito del progetto The Correspondence of William Henry Fox Talbot (d’ora in poi TCP), consultabile all’indirizzo http://foxtalbot.dmu.ac.uk/letters/letters.html [25-01-2011].

[5] “Il Lucifero”, 2 (1839), n. 43, 4 dicembre, p. 443, citato in Fiorentino 1992, p. 43 passim.

[6] A. De. L., Nuovo metodo per la pittura fotogenica, “Salvator Rosa”, 1 (1839),  n. 20, 24 marzo, pp. 154-155, citato in Fiorentino 1992, p. 31, che ha identificato l’autore in Achille de Lauzières, il quale mostrava così una precoce comprensione di quella linea che avrebbe collocato il dagherrotipo, e poi la fotografia nella consolidata tradizione di quel paesaggismo napoletano che proprio sull’oleografia dei luoghi e dei costumi avrebbe fondato la propria fortuna ancora per almeno due secoli a venire.

[7] Giovanni Fiorentino, Napoli e il Regno delle Due Sicilie, in L’Italia d’argento. 1839/ 1859 Storia del dagherrotipo in Italia, catalogo della mostra (Firenze – Roma, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli. Firenze: Alinari, 2003, pp. 252-255.

[8] Per la ricostruzione delle presenza napoletane di fotografi calotipisti si rimanda ai saggi e alle opere pubblicate in Éloge du negatif. Les débuts de la photographie sur papier en Italie (1846-1862), catalogo della mostra (Parigi – Firenze, 2010). Paris: Paris Musées, 2010. Per l’attività di Calvert Jones cfr. la lettera di Bridges a Talbot del 23 aprile 1846, in TCP n. 5632.

[9] Maria Francesca Bonetti, Talbot et l’introduction du calotype en Italie, in Éloge du negatif 2010, pp. 25-35 (35, nota 45) in cui ricorda un calotipo di Lecchi relativo alla Casa del Fornaio di Pompei, firmato e datato 1846, che costituisce a oggi il più antico calotipo noto di autore italiano.  G.W. Bridges scriveva a Talbot:  “In Naples I met with a Sig. Lechie [sic], a Milanese – who is teaching the art at 600 francs – one only lesson: – a poor Optician in Toledo, paid that sum – & by some means obtained the whole process in writing: – from him I have it & have seen some very superior negative & possitives worked by it: – but have yet been too ill to try it myself. I give you the copy overleaf (…) Lechie’s skies are perfect – & he succeeds on paper of very inferior quality – no spots seeming to appear, or injure the process. (…) Certainly some few of his specimens are more perfect in detail than any I have seen – He is employed now by the King of Naples in copying at Pompeii – but I have some 4 or 5 taken there equal to his. – His advantage seems to be that he makes use of any inferior paper, & is more certain of good productions. – I saw him take 14 one morning at Pompeii without one failure.” (28 Aug 1847 , TCP n. 5985). Lo stesso Bridges si riprometteva di realizzare “a few [copies] which I shall take to the King of Naples, (of Pompeii) – who is infinitely pleased even with the negatives – especially those of the frescoes lately discovered” (lettera del 23 maggio 1847, TCP n. 5951).  Il nome di Lecchi era già noto a Talbot per il tramite di  Calvert Jones: “At Lyons, Avignon, and Marseilles I saw some Photographs which the Shopkeepers at the houses where they were exposed, represented as being paper Dags, but which, from certain identical stains on different copies, I discovered to be a kind of Talbotype; they appeared to be quickly done, as several figures appeared. They were done by an Italian, named Leuchi, who is prepared to reveal his method whenever a certain number (how many I know not) of persons shall have agreed to give him 100 francs each: I did not see him, but all the Photographers I have met with are delighted with my paper specimens.” (lettera del 1 dicembre 1845 , TCP n. 05453).

[10] Roberto Cassanelli, a cura di, Luigi Sacchi. Un artista dell’Ottocento nell’Europa dei fotografi, “Quaderni della Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte”, 2. Torino: Provincia di Torino, 1998, cat. 41. Ben oltre gli anni in cui si iniziava a utilizzare il negativo di vetro Gustave de Beaucorps, realizzò ancora una serie di vedute al calotipo del Golfo di Napoli, una di Ischia e una di Ravello, datate  1859, cfr. Éloge du negatif 2010, pp. 40-41, 171, 173.

[11] Miraglia 1992, p. 18.

[12] Cfr. lettera di Leopoldo Alinari a Ernest Becker del 15 giugno 1858, in Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003, p. 129.

[13] Sino al 1862 avrebbe realizzato più di 1.000 ritratti, vale a dire una media di circa 200 ritratti l’anno, dato che può indicare non solo la sua riconosciuta abilità nel genere, ma anche la scarsità di alternative professionali locali. Per quanto riguarda la definizione dell’arco cronologico in cui Sommer si sarebbe dedicato a questo genere, che molti propendono a considerare conchiuso proprio nei primi anni Sessanta,  ricordiamo che il suo ben noto n. 11601 – Bersagliere, pubblicato in Miraglia 1992, p. 17 è datato “post 1873”, sebbene proprio la titolazione faccia propendere per una sua interpretazione come figura piuttosto che come ritratto, come conferma anche Fanelli 2007, p. 35, che ricorda come Il Bersagliere fosse compreso nella sezione “Costumi” del Catalogo del 1886. Quanto alle stereoscopie, la cui produzione secondo alcuni fu limitata allo stesso periodo,  si può affermare sulla base delle immagini note che proseguì almeno sino al 1880, data di realizzazione della serie dedicata alla Funicolare vesuviana.

[14] Pur senza pretendere di dirimere le questioni relative alla cronologia della collaborazione tra Sommer e Behles (questo fu, quasi sempre, l’ordine di citazione sui cartoni di supporto) proviamo a riordinare i dati sino ad ora resi disponibili dalle fonti bibliografiche: l’avvio del loro rapporto professionale, che Miraglia 1992 pone al 1857, andrà forse spostato al 1860, anno in cui Behles giunse a Roma (Piero Becchetti, La fotografia a Roma dalle origini al 1915. Roma: Editore Carlo Colombo, 1983,  ad vocem), se non addirittura oltre, considerando che una richiesta avanzata ai Musei vaticani per fotografare alcune sculture, datata 2 luglio 1863, venne firmata dal solo Sommer, mentre la successiva, datata 20 settembre 1864, fu sottoscritta da entrambi; si veda a questo proposito l’attenta ricostruzione fatta da Maria Francesca Bonetti, Giorgio Sommer – Edmondo Behles, Laocoonte, 1863-1867 , in Laocoonte: alle origini dei Musei Vaticani, catalogo della mostra (Città del Vaticano, 2006-2007). Roma: L’Erma di Bretschneider, 2006, sch. n. 87, pp. 190-191. Ancora nel 1867 i due fotografi firmarono congiuntamente un’analoga domanda, mentre furono premiati separatamente all’Esposizione Universale di Parigi dello stesso anno (Miraglia 1992, p.31, nota 84.) Pare quindi ragionevole sostenere che la separazione dovette compiersi in quel periodo, e comunque prima del 1870, anno in cui Sommer pubblicò il suo primo catalogo. A ulteriore conferma si ricorda che nel 1871 fu il solo Behles, con cui i rapporti dovettero restare ottimi se Sommer chiamerà il figlio Edmondo, a inoltrare una nuova richiesta di autorizzazione per fotografare nei Musei Vaticani (Bonetti 2006).

[15] Già Miraglia 1992 aveva segnalato i rapporti commerciali di Sommer con Celestino Degoix a Genova e  Carlo Ponti a Venezia, ma vogliamo qui ricordare almeno la proposta ben più tarda (a suo tempo ricordata dalla stessa studiosa) avanzata da Achille Mauri sulle pagine de “La Camera Oscura” nel 1883 in cui chiedeva “ai vedutisti italiani (…) di scambiare vedute, paesaggi e monumenti formato 21×27 con sue di Napoli, dintorni, Pompei, Museo Nazionale”,  Mariantonietta Picone Petrusa, Linguaggio fotografico e «generi» pittorici, in Galasso, Picone Petrusa, Del Pesco, 1981, pp. 21-63 (60, nota 175). Altra invece la questione delle copie illecite e delle contraffazioni, di cui pure è ricca la vicenda professionale di  Sommer e di altri fotografi napoletani, per la quale si rimanda alla stessa fonte.

[16] Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia. Milano: Bruno Mondatori, 1996, p.48. Va inoltre immediatamente posta una questione che qui non possiamo che limitarci a formulare: si dice Sommer come si direbbe Alinari o Brogi, proponendo un’indicazione di responsabilità che non sempre e necessariamente può aver coinciso con l’effettivo operatore, ma che deve semmai essere intesa quale adesione a una linea interpretativa e produttiva che costituiva l’identità del marchio. Ancora troppo poco sappiamo dell’organizzazione del lavoro degli studi fotografici di medie e grandi dimensioni per procedere oltre in questo percorso, che dovrà prima o poi essere avviato, pena l’incomprensione critica non solo dell’effettiva cultura fotografica di questi operatori ma anche delle modalità della costituzione di quell’iconografia dei luoghi che ha determinato l’immaginario del Bel Paese.

[17] Domenico Benedetto Gravina, Il duomo di Monreale  illustrato e riportato in tavole cromo litografiche. Palermo: Stab. tipogr. di F. Lao, 1859-1869; nuova edizione con riproduzione integrale dell’originale del 1869: Caltanissetta: Lussografica, 2007.

[18]  Del Pesco 1981, p. 74.

[19] Stephen L. Dyson, In pursuit of ancient pasts: a history of classical archaeology in the nineteenth and twentieth centuries. New Haven, CT:  Yale University Press, 2006, p. 48.

[20] Jean-Christophe Bailly, L’istante e la sua ombra,. Milano: Bruno Mondadori, 2010, p. 121.

[21] Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta. Torino: Bollati Boringhieri, 2009, pp. 17-18, che costituisce la riedizione in forma di saggio  del catalogo della mostra L’empreinte, curata dallo stesso Didi-Huberman nel 1997 presso il Centre Pompidou di Parigi. Particolarmente ricca di suggestioni è la lettura in parallelo dei saggi di Bailly e Didi-Huberman.

[22] Secondo la “Photographische Correspondenz”, 1865, p. 306 queste erano considerate “eccessivamente dure e tecnicamente al limite dell’errore”, citata in Miraglia, 1992 n.54 p. 29.

[23] Charles Marville, Vedute di Torino. Turin: Maggi, [s.d.], in Fotografi del Piemonte 1852-1899, catalogo della mostra, Torino, giugno-luglio 1977, a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp. 37-38, con una datazione proposta al 1865-1870 che Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi, 1990, p. 334 aveva già anticipato al 1861-62, ma che sarà più corretto attribuire al 1858-59, quando “Charles François Bossu, dit Marville artiste photographe”, era in Italia e in Grecia con Charles Cordier per realizzare l’impresa dedicata alla Sculpture Ethnographique, commissionata dal governo francese nel 1850 (vale a dire prima della ben più nota Mission Héliographique) e quindi pubblicata in fascicoli successivi. Un esemplare dell’opera venne dedicato “A S.M. Victor Emmanuel Roi d’Italie” ed è oggi conservato presso la Biblioteca Reale di Torino. L’occasione per la realizzazione di queste riprese di Marville potrebbe essere individuata nella campagna fotografica di riproduzione dei disegni della stessa Biblioteca Reale e della Biblioteca Ambrosiana, che faceva seguito all’impegno analogo per le collezioni del Louvre, pubblicate pochi anni prima e certamente note anche a Torino, come testimoniano i fogli oggi conservati all’Accademia Albertina di Belle Arti. La datazione delle riprese torinesi potrebbe essere ulteriormente anticipata alla metà del decennio considerando che Marville  si qualificava come “Photographe du Musée Imperial du Louvre”, dicitura che ritroviamo sui cartoni di queste stampe, solo fino al 1855, anno di chiusura della stamperia di Blanquart-Evrard a Lille, di cui fu uno dei più assidui collaboratori. La rivelazione del vero nome di Marville si deve a Sarah Kennel, conservatrice presso la National Gallery di Washington, che sta preparando una mostra monografica a lui dedicata.

[24] Picone Petrusa, 1981, tavv. 237, 245; Achille Mauri fotografo di Sua Maestà, catalogo della mostra (Bari,  2009–2010),  a cura di Clara Gelao. Firenze: Alinari 24 Ore, 2009, tav. 190.

[25] James Graham, Vesuvius. Lava of 1858-60 near the Observatory,  albumina, pubblicata in  Éloge du negatif, p. 195.

[26] Sergio Leonardi, Achille Mauri fotografo, in Achille Mauri fotografo 2009, pp. 19-31. (p. 30 nota 35).

[27] Del Pesco, 1981, p. 98 n. 44.

[28] Daniela Palazzoli, a cura di, Giorgio Sommer fotografo a Napoli. Milano: Electa, 1981, p. V. Le relazioni tra le diverse attività di Sommer sono ancora, mi pare, tutte da datare con precisione e soprattutto da studiare, ponendo in relazione l’accrescimento del catalogo di fotografie con la produzione di bronzetti e simili che avrebbe avuto “un eccezionale incremento fra il 1879 e il 1886, tanto è vero che nel catalogo a stampa di quell’anno Sommer faceva precedere l’elenco delle proprie fotografie da un soggettario di ben 245 bronzi.” Miraglia 1992 p. 28 nota 52. Dal Catalogo del 1914 (Del Pesco 1981, p. 73) si ricava come oltre alla vendita di fotografie (anche al carbone, al platino e colorate) e diapositive, la ditta forniva cromolitografie di propria edizione, acquarelli, guache e dipinti a olio di Napoli, Pompei e dintorni. Veniva inoltre offerto un servizio completo di sviluppo e stampa di lastre e pellicole Kodak, di cui era rivenditore. Se a queste si aggiungono le attività della fonderia, dell’atelier di scultura, dei calchi in gesso, delle copie in argento e delle terrecotte, si ha un’immagine ben definita di un’azienda di medie dimensioni con una produzione molto diversificata, le cui diverse attività pare difficile poter separare. Una selezione di opere della Fonderia Sommer è visibile all’indirizzo  http://www.annona.de/alben/Sommer%20Bronze/ (8-2-2011).

[29] Catalogo generale delle riproduzioni fotografiche pubblicate per cura dei Fratelli Alinari. Firenze: Barbera, 1873.

[30] Giorgio Sommer, Casa fondata nell’anno 1857, Catalogo di fotografie d’Italia e Malta.  Napoli: Rocco, 1873, che risulta essere il solo catalogo di uno stabilimento fotografico registrato nel repertorio di  Attilio Pagliaini, Catalogo generale della libreria italiana dall’anno 1847 a tutto il 1899. Milano: Associazione tipografico-libraria italiana, 1901-1905, ad vocem.

[31] L’enorme diffusione delle stampe Sommer è confermata ancora oggi dalla presenza di numerosissimi esemplari non solo in collezioni pubbliche e private, ma anche dalla frequenza di presentazione in asta di fogli singoli e di album. Alla fine del decennio è databile, ad esempio, il bellissimo album Italia, con 130 albumine nel formato 21×27, presente nelle collezioni della Biblioteca Storica della Provincia di Torino, che apre proprio con Lugano e il Lago Maggiore, poi Como e Milano, Pavia e Torino (con veduta da Villa della Regina ante 1863), Genova, Verona, Venezia, Bologna, Firenze (ante 1876), Pisa, Siena, Orvieto, Assisi, Tivoli, Roma, Napoli, Baja, Amalfi, Caserta, Paestum, i Mangiamaccheroni, Pompei, un calco datato 1873 (n. 1279), Palermo, Monreale, Messina, Taormina, Siracusa, mentre la chiusa è affidata al tempio della Concordia di Agrigento. Un album di viaggio per stranieri, tedeschi e svizzeri direi: che apre coi laghi e chiude con l’archeologia siciliana.

[32] L’esame delle litografie che ornavano al verso i cartoni di supporto e che venivano riprodotte fotograficamente nei frontespizi dei diversi album mostra  quale fosse la varietà delle soluzioni grafiche di volta in volta utilizzate.

[33] Si veda ad esempio l’album Napoli conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, realizzato tra 1880 e 1887, che consente di esprimere alcune considerazioni rispetto ai modi operativi di Sommer, in particolare per quanto riguarda le varianti di ripresa, rispetto alle quali, oltre all’ovvia peculiarità delle riprese stereoscopiche, si nota come la posizione del punto di ripresa restasse identica nel passaggio da un formato all’altro; solo da alcuni mutamenti nella scena, solo dalle diversità del referente si comprende la distanza, per quanto minima di tempo intercorso tra uno scatto e l’altro: quello necessario a sostituire gli apparecchi sull’immobile cavalletto (cfr. Ischia, 1880 ca, n. 1187 nel 20/25, n. 5232 nel 10/15), mentre le focali dovevano essere diverse, con un angolo di ripresa più ampio per il formato minore (cfr. Funicolare del Vesuvio n. 5231 nel 10/15, n. 8120 nel 20/25). Anche nella consueta pratica dell’aggiornamento delle riprese (non del repertorio), ritornando a distanza di tempo sullo stesso soggetto, i modi  restano immutati, nella fedeltà a un canone che pare indiscutibile e stabilito da tempo. Si considerino due versioni di una delle più note immagini della serie dedicata al Grand Hotel di Amalfi, già convento dei Cappuccini, dove la seconda (n. 2996, post 1891) ricalca pedissequamente  la prima (n. 2013, 1870 ca.) conservando identici i dati di ripresa (punto di vista, focale, ora e periodo dell’anno, come si evince dallo studio delle ombre portate)  con la sola variante dei due ospiti al tavolino, mentre è inevitabilmente cresciuta la yucca in secondo piano. Della versione, in verticale, appartenente all’album 1874, si ricorderanno gli Alinari (n. 11480, ante 1896) collocando però una graziosa popolana al posto del frate (Quintavalle 2003, p. 300). Analogo discorso può essere fatto per 1202 Foro civile (Pompei), 1881 ante, di cui è nota  una variante con inquadratura da un punto un poco più elevato e lievemente spostata a sinistra, con aggiunta del pennacchio al vulcano, ma di cui esiste anche una ripresa precedente, 1870 ca, effettuata dallo stesso punto e con le stesse condizioni di luce, che si distingue solo per la presenza di un uomo in cilindro poggiato al basamento. A proposito di questa pratica, comune del resto a tutti i grandi studi fotografici coevi,  è stato giustamente notato che “si determina una griglia che è sempre adattabile a nuovi eventi e quindi costantemente aperta. Insomma è come se dentro lo schema (…) si potessero sempre inserire nuove edizioni, diciamo così, del loro simbolico documento archeologico per immagini, e anche per questo forse, la necessità di cambiare gli scatti che si sono fatti in passato con scatti nuovi viene considerata come un dato di fatto normale.” Quintavalle 2003, p. 212.

[34] Luigi Delàtre, Le fotografie dei fratelli Alinari, “Monitore Toscano”, 8 (1855), 30 marzo, citato in Quintavalle 2003, p. 98.

[35] Soluzione analoga a quella adottata alcuni anni prima per la stereoscopia n. 876 dedicata al  Teatro della Scala – Milano, datata al verso 1869.

[36] Per Achille Mauri 19 – Interno del Teatro San Carlo, cfr. Achille Mauri fotografo 2009, p. 33 in basso. Non può però essere questa l’immagine che fu oggetto del processo intentato da Mauri nel 1903 alla ditta Richter di Napoli e al fotografo Giorgio Sternfeld di Venezia per la contraffazione della sua ripresa (poi ritoccata) del 1894, come si afferma in Leonardi 2009, p. 28. Per la ricostruzione degli elementi salienti della vicenda cfr. Elvira Puorto, Fotografia fra arte e storia: il Bullettino della Società fotografica italiana (1889 -1914). Napoli: A. Guida, 1996, pp. 69-71. Della Grotta Azzurra di Sommer sono note, oltre a una variante colorata a mano (n. 2217) una pseudostereoscopia (n. 243) firmata ancora Sommer & Behles.

[37] “A Napoli il maggior produttore (di fotografie) è il Sig. Sommer [che] ha delle sale di vendita molto vaste in una delle principali strade, in cui è realizzata un’esposizione molto bella. [Il suo stabilimento] è fornito di tutti i requisiti necessari a ottenere risultati ottimi in ogni quantità.”. Il testo, reso noto per la prima volta da Van Deren Coke, Giorgio Sommer, “Bulletin of the University Art Museum”, n. 9 (1975-1976). Albuquerque: University of New Mexico, è stato a suo tempo ripreso da Palazzoli 1981, p. VI, che qualificava però Wilson come un generico “viaggiatore americano”.  Di questo autorevole encomio mi piace sottolineare quel richiamo alla “quantità” che ben sintetizza l’orizzonte produttivo e commerciale in cui si collocava l’attività della Casa Sommer.

[38]Pres de Sorrente. – Dessin de A. de Bar, d’apres une photographie de Giorgio Sommer”, “Magazin Pictoresque”, 42 (1878) tratto dalla stampa n. 1153 – Vallate di Sorrento.

[39] Miraglia 1992 p. 29 nota 60.

[40] Roberto, figlio di Clara Treiber e Franz Josef Pallme, è stato un grande appassionato ed esperto di cinema muto. La sua collezione è oggi conservata alla George Eastman House – International Museum of Photography and Film di Rochester, mentre la raccolta di proiettori cinematografici, radio e strumenti scientifici costituisce il Fondo Roberto Pallme presso la  Fondazione Micheletti di Brescia.

[41] Cfr. Statuten der Mittelschweizerischen Geographisch-Commerciellen Gesellschaft, „Fernschau“,  1 (1886), pp. XV-XVI. La Società Geografico-Commerciale della Svizzera centrale, fu attiva dal 1884 al 1905. Per la ricostruzione delle vicende di questa collezione si rimanda a Fernschau: global: ein Fotomuseum erklärt die Welt (1885–1905), catalogo della mostra (Aarau, Forum Schlossplatz, 2006), Markus Schürpf, hrg. Baden: Hier + jetzt Verlag für Kultur und Geschichte, 2006, e più in particolare al saggio di Ricabeth Steiger, Fotografieren als Geschäft: die Reportagen und Reisebilder von Giorgio Sommer, ivi, pp. 72-79. L’iniziativa di questa Società va inquadrata nel più ampio dibattito tardo ottocentesco sulle funzioni dei Musei fotografici documentari che interessava in quegli anni tutti i paesi europei, Confederazione Elvetica compresa, oltre agli Stati Uniti.

[42] Giorgio Sommer, fotografo di S.M. il Re d’Italia, Largo Vittoria, Napoli, Palazzo Sommer, Catalogo di fotografie d’Italia, Malta e Ferrovie del Gottardo. Napoli: Tipografia A. Trani, 1886.

[43] Cfr. Maureen C. O’ Brien, Mary Bergstein, eds., Image et Enterprise. The Photographs of Adolphe Braun. London: Thames & Hudson, 2000 oltre che, nello specifico, Kurt Zurfluh, Gotthard: als die Bahn gebaut wurde. Zürich: Offizin, 2003, in cui è pubblicata parte della campagna fotografica della Ditta Adolphe Braun, certamente non realizzata dal titolare, morto nel 1877, conservata presso la Collezione Walter Reinert di Lucerna. Le riprese vennero utilizzate per la pubblicazione delle Photographische Ansichten der Gottardbahn, Photographien von Ad. Braun & Cie. Dornach im Elsass, 1882 ca., di cui sono note diverse edizioni con un numero di tavole compreso tra 44 e 77, tra le quali un panorama in quattro parti.

[44] La funzione di attrazione turistica della nuova infrastruttura è confermata dalle innumerevoli guide pubblicate negli anni immediatamente successivi alla sua apertura, non di rado illustrate con incisioni tratte da fotografie, anche di Sommer: Woldemar Kaden, La ferrovia del Gottardo ed i suoi dintorni. Bellinzona: C. Salvoni, s.d. [1882 post]; Jakob Hardmeyer,  Die Gotthardbahn, mit 48 Illustrationen von J. Weber. Zurich: Orell Fussli & co, s.d.[1886 ca]; Guide-album illustrée du chemin de fer du Gothard. Milano: Administration de Guide-Album du Gothard, s.d. [1890]; George L. Catlin, A travers les Alpes par le chemin de fer du Saint-Gothard. Zurich: Art Institut Orell Fussli, 1900; Edmondo Brusoni, Da Milano a Lucerna: guida itinerario descrittiva della ferrovia del Gottardo, dei Tre Laghi, del Lago dei Quattro Cantoni e del Canton Ticino.  Bellinzona: Colombi e C. editori, 1901. A titolo esemplificativo segnaliamo come la ripresa n. 12130 – Amsteg, venne ripresa in Catlin p. 21 e Guide-album p. 27, la n.12164 – Bellinzona è stata la fonte per Catlin p. 34 e Guide-album p. 45, in cui vennero pubblicate anche n. 12127 – Fluelen p. 21, n. 12242 – Goeschenen  p. 33 e n. 12291 – Hospenthal  p. 68, mentre a p. 15 è pubblicata Arth Goldau di Braun. Il confronto tra le diverse immagini costituenti l’apparato illustrativo di queste guide, tutte incisioni tratte alternativamente da fotografie (pubblicate rigorosamente anonime) e da schizzi dal vero, mostra come ai due media originari corrisponda una diversa intenzione narrativa: l’adozione di una impaginazione verticale per le immagini disegnate risulta più efficace nella  restituzione del contesto “orrido e sublime”, mentre  sia Braun che Sommer escludevano il cielo e i profili delle montagne per concentrarsi il più possibile sulla presenza dei manufatti nel paesaggio in campo medio. Un vivace resoconto, certo debitore dell’immaginario romanzesco di Jules Verne, così descriveva un viaggio notturno su questa linea: “ed il cielo è nero, o, piuttosto, il cielo non c’è più : si ha l’impressione, traverso infinite gallerie, di pozzi interminabili, rivestiti di ferro, di scendere, scendere, scendere verso il centro della terra. Le stazioni, davanti a cui si fanno brevi soste, al bagliore scialbo delle file di lampade che le illuminano, paiono vacillare come cose riflesse in un’acqua, ed hanno nomi stravaganti ed ostili.  Poi, a tratti, sopra il frastuono, il rombo metallico del treno, giunge all’orecchio, misterioso, uno scroscio di cascate, di acque vorticose, di torrenti precipitanti da chi sa quale balza ignota….. Un tremolio incerto, indistinto, infine, rompe l’oscurità. Giù in  fondo ad una vallata, che sembra spalancarsi come un’enorme mascella, sotto un cielo accigliato e torbido d’autunno, non ancora svegliato dall’alba, appare il Vierwaldstättersee, il lago dei Quattro cantoni, il paese leggendario di Guglielmo Tell.”, Ernesto Ragazzoni, Istantanee svizzere, “La Stampa”, 8 (1902), n. 213, 3 agosto, pp. 1-2 (1).

[45] Aldo Audisio, P. Cavanna, Emanuela De Rege di Donato, Fotografie delle montagne. Ivrea: Priuli & Verlucca, 2009.

[46] Le montagne e i ghiacciai della regione furono oggetto di una prima campagna fotografica realizzata dai Fratelli Bisson,  presentata con grande successo all’Esposizione di Parigi del 1855; cfr. Les Frères Bisson photographes. De flèche en cime 1840-1870, catalogo della mostra (Parigi – Essen, 1999), Milan Chlumsky, Ute Eskildsen, Bernard Marbot, dir. Paris – Essen: Bibliothèque Nationale de France – Museum Folkwang, 1999; Infinitamente al di là di ogni sogno. Alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo nazionale della Montagna, 2004. Una nuova campagna fotografica venne realizzata alcuni anni più tardi e pubblicata in H[ereford] B[rooke] George, The Oberland and its glaciers explored and illustrated with ice axe and camera. London: Alfred W. Bennet, 1866, illustrato con ventotto stampe all’albumina di Ernest Edwards, autore anche di una interessante serie di Notes of the Photographer,  pubblicate in appendice, in cui descrive con grande chiarezza ed efficacia gli scopi, gli accorgimenti tecnici e le difficoltà dell’impresa.

[47] Bruno Munari, Fotocronache: dall’isola dei tartufi al qui pro quo. Milano: Editoriale Domus, 1944 (nuova ed. Milano: Verbaq edizioni, 1980; Mantova: Corraini, 1997).

[48] Risulta purtroppo difficile e quasi impossibile ricorrere alla progressione numerica dei soggetti per determinare la cronologia delle riprese. Analizzando le opere pubblicate nella non ricca bibliografia dedicata a Sommer, quelle presenti nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna di Torino e quelle, numerosissime, disponibili in rete sembrerebbe possibile in prima approssimazione individuare  una certa progressione cronologica nella numerazione dei soggetti (n.1000 ca. per Roma, 1857-65; n.1100 ca. per Napoli 1860-1865), un nucleo dai nn. 1900 al 1990 ca. che riguarda Milano, Genova e Torino (1863 – 1873 ante), ma allo stesso periodo apparterrebbe anche la serie di Venezia, che ha una numerazione intorno al 3500 e quella su Como con numeri intorno al 7000 nel formato 21/27 (7100 formato album; 7200 stereo; 7300 carte de visite). Questa costruzione del codice di catalogo che pone in relazione soggetto e formato si ritrova anche in altri esempi (Torino, chiesa della Gran Madre, nn. 973, 1973, 3973), ma non rappresenta purtroppo una costante, né pare avere un andamento cronologicamente coerente, anche in conseguenza della sostituzione di nuove riprese dello stesso soggetto realizzate a distanza di tempo, ma entrate in catalogo con lo stesso numero, consuetudine del resto comune ad altri studi fotografici. Per analoghe considerazioni ed esempi si rimanda a Palazzoli 1981, Nota alle opere e alle analitiche schede delle immagini pubblicate in Miraglia, Pohlmann 1992.

[49] Se possiamo suggerire il 1889 come termine post quem, il 1894 è certamente quello ante quem della loro realizzazione. Presso l’Harry Ransom Center ad Austin è conservata una stampa di Sommer, Rigi Railway, Vitznau, Schnurtobelbrucke  (n. 964:0728:000), che porta la data June 8, 1894 analoga a quella apposta in calce, sul supporto secondario della stampa relativa al Maloja del Museo Nazionale della Montagna di Torino, datata “September 14 1894”. Poiché si deve pur presumere che le stampe per raggiungere l’acquirente dovevano essere immesse in un preciso circuito produttivo e distributivo, è ragionevole supporre che la loro data di pubblicazione, e ancor più di ripresa possa essere anticipata almeno di qualche mese. Superfluo a questo punto ricordare che questi soggetti risultano compresi in G. Sommer & Figlio fotografi di S.M. il Re d’Italia, Casa fondata nell’anno 1857, Catalogo di fotografie Svizzera e Tirolo. Napoli: Tipografia Scarpati, 1899.

[50] I due tronchi della Ferrovia del Rigi furono inaugurati rispettivamente nel 1869-70 per la parte da Vitznau e nel 1875 per la tratta da Arth-Goldau. Si calcola che negli anni ’70 la meta fosse frequentata da circa 80.000 persone l’anno, cfr. Kaden 1882 post, p. 27. Si segnala che recentemente, presso la Galerie Fischer Auktionen di Lucerna, è stato presentato in asta un album di Giorgio Sommer dedicato proprio al Pilatus, datato 1890 ca., con  23 stampe all’albumina relative al Monte e alla sua ferrovia.

[51] In Guide-album 1890, p.n.n.

[52] Ragazzoni 1902, p. 1.

[53] Miraglia 1992  p.21

[54] Loro immagini vennero pubblicate nei primi numeri di “Napoli nobilissima” illustrati da fotografie (1892), cfr. Picone Petrusa 1981 p. 57 n. 68. Si segnalano inoltre le fotografie dell’Oberland Bernese firmate G. Sommer & Figlio pubblicate in “The Graphic”, 54 (1896), cfr. Anton Gattlen, L’estampe topographique du Valais.  Martigny – Brig: Éditions Gravures, Éditions Pillets – Rotten verlag AG, 1987-1992, II, p. 313; il volume di Jakob Christoph Heer, Der Vierwaldstätter See und die Urkantone. Zürich: J. A. Preuss 1898 (ed. francese e inglese: Zürich: Th. Schroeter, 1900), corredato da 800 illustrazioni in photogravure e xilografiche, con immagini di Sommer, dei Fratelli Wehrli, di Schroeder e dei fotoamatori  Hans Brun, J. Muheim, L. Zimmermann, A. Soldenhof, H. Felder; Hippolyt Haas. Neapel seine Umgebung und Sizilien. Bielefeld und Leipzig: Verlag von Velhagen & Klafing, 1904, riccamente illustrato da fotografie firmate Sommer & Figlio e Alinari; Augustus J. C. Hare. Cities of Southern Italy. New York: Dutton and Company, 1911, per il quale “The Editor takes this opportunity of thanking Messrs. G. Sommer, of Naples, and Signor R. Moscioni, of Rome, for permission to use certain of their photographs for the illustration of this work.” Anche alcune delle illustrazioni pubblicate in Gustavo Strafforello, La Patria: Geografia dell’Italia: Provincia di Napoli. Milano – Roma – Napoli: Unione Tipografico Editrice, 1896 erano tratte da Fotografie Sommer.

 

Vita breve di un pittore a macchina (2010)

in P. Cavanna, a cura di, Ferdinando Fino fotografo: le valli di Lanzo a colori all’inizio del Novecento. Lanzo Torinese: Società storica delle valli di Lanzo, 2010, pp. 45-62

 

“L’Esposizione fotografica indetta dalla Società Unione Escursionisti[1] ha avuto un ottimo successo”,  scriveva nel 1906 un redattore de “La Fotografia Artistica”; “Fino e Mattei riproducono scene e soggetti alpini, ricavandone dei veri quadretti.”[2] Questa citazione rappresenta l’avvio documentato delle vicende più significative della breve vita fotografica[3] di Ferdinando Fino, ma a ben guardare, e come non di rado accade, pone più questioni di quante non ne risolva. Mi riferisco qui non solo alla sua vicenda personale  quanto alla mutazione del ruolo del dilettante fotografo, categoria di cui Fino costituiva certo un esponente paradigmatico e che in quegli anni di consolidamento definitivo nell’uso delle lastre rapide alla gelatina e delle prime pellicole si stava trasformando quasi per gemmazione in due distinte figure: il raffinato amateur, erede della sofisticata tradizione ottocentesca, e il dilettante vero e proprio, il neofita che si avvicinava alla fotografia considerandola non più che un nuovo, grazioso giocattolo dagli impensati usi sociali. È certo in questa seconda accezione che va intesa la partecipazione al suo primo concorso, in anni in cui il suo interesse prevalente era rivolto al dipingere. L’iniziativa del concorso e della relativa esposizione era stata assunta dall’assemblea dell’Unione Escursionisti del 15 dicembre 1905 con un’immediata finalità pratica, quella di accrescere la collezione di fotografie dell’Unione stessa, la cui consistenza risultava inversamente proporzionale alla pratica fotografica dei soci. Per favorire la partecipazione dei “dilettanti propriamente detti” vennero esclusi i professionisti e i soci “specialisti in materia”, mentre i soggetti proposti riguardavano esplicitamente le gite sociali e in particolare i “Gruppi di Signore in gita sociale”; uno solo, il terzo, era dedicata al tema ‘artistico’  de “Il lago alpino”. I “veri quadretti” di Fino gli valsero una medaglia, ancora amorevolmente conservata dai nipoti, ma non pare che questo primo, inedito successo abbia influito su di una pratica fotografica allora certo episodica e quasi ovvia per un giovane della borghesia torinese, impiegato nell’azienda familiare di concimi e gelatine[4], con una solida formazione tecnica e un interesse non episodico per la pittura. Un vero dilettante insomma, anche prestando fede alla tassonomia semiseria proposta da G. Ferrari circa gli stessi anni: la “grande famiglia” dei fotografi  “come ogni altra dei tre regni della natura, si divide e suddivide in classi, generi, specie, gruppi ed individui (…). Le due classi principali sono: i dilettanti ed i professionisti. La prima si divide e suddivide all’infinito. Vi sono i semplici, i quali non domandano altro che di premere il bottone (…). Poi vi sono quelli che portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi (…) da collezionare. Più in su troviamo i dilettanti più diligenti, i quali sono molto stimati dai negozianti di generi fotografici. Più in su ancora troviamo gli appassionati, gl’ingegni matematici, per quali la fotografia è una risultante di varie piccole trovate (…). Da questa schiera di dilettanti escono poi i tecnici, gli industriali, i fabbricanti brevettati, gli applicatori.  Ma vi ha un altro genere di dilettanti, coloro che sentono e vedono il bello, e solo perché è tale lo riproducono sulla gelatina; essi non sono veramente artisti, ma temperamenti sensibili, intelletti accessibili all’arte. Vi sono poi i dilettanti, i quali non scelgono che quei determinati soggetti estetici che rispondono al loro temperamento (…) Costoro sono sensibili, raffinati, e si approssimano assai più all’arte. Finalmente ci sono i dilettanti artisti, i quali, seguendo un’ispirazione, compongono scene e oggetti, li dispongono in modo che la fotografia li faccia valere, e non si servono dell’obiettivo che per copiare il quadro che hanno immaginato e compiuto. Questi sono i veri artisti. Vengono quindi gli applicatori della fotografia alla scienza e all’industria (…). Infine abbiamo i professionisti, per i quali la fotografia, più che riflettere il loro temperamento, riflette il gusto del pubblico che servono (…)”[5]. Difficile dire se la sua pratica iniziale lo ponesse tra coloro che “portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi” ovvero tra “coloro che sentono e vedono il bello”. Troppo scarna per consentire un giudizio meditato la sua produzione superstite di stereoscopie monocrome, che pure già rivela in non pochi esemplari – forse più tardi – un uso virtuosistico della luce e un’attenta composizione. Nessuna stampa si è conservata per poter esprimere un parere, anche solo ipoteticamente fondato sulla qualità delle sue prime prove, ma le immagini presentate alla mostra del 1906 non dovettero essere considerate particolarmente significative se nessuna di queste entrò a far parte della ricca collezione di Agostino Ferrari, anch’egli membro dell’Unione Escursionisti, che comprendeva molte fotografie di dilettanti che frequentavano le Valli di Lanzo nei primi anni del Novecento.[6] Quando Fino partecipa e si segnala alla mostra del 1906 è quindi uno sconosciuto, che ancora non aveva trovato posto in quella mappa della pratica fotografica amatoriale costituita dall’apparato illustrativo del volume che il CAI aveva dedicato nel 1904 a questi luoghi e che conteneva tra gli altri un contributo dello zio Vincenzo.[7] Qui, accanto a nomi di noti professionisti come Edoardo Balbo Bertone di Sambuy o grandi amateur  come Mario Gabinio, Secondo Pia e Guido Rey comparivano dilettanti di rango quali Guido e Luigi Cibrario, Edoardo Garrone, Andrea Luino e altri di cui oggi risulta difficile ricostruire le tracce dell’attività fotografica, ma la cui presenza conferma il precoce commento di Carlo Ratti: “Pittori e fotografi molte di queste bellezze han già riprodotto  [mentre] brigate di alpinisti e di escursionisti percorrono in ogni stagione dell’anno quei pittoreschi monti che in breve spazio racchiudono tanta varietà di bellezze da compendiare tutto il sublime delle Alpi.”[8]  Difficile dire a quali nomi di fotografi potesse pensare Ratti, poiché il repertorio sinora più completo relativo all’iconografia fotografica delle Valli di Lanzo[9] segnala per gli anni Ottanta del XIX secolo solo pochi operatori locali (O. Bignami, Gayda e Bersanino) mentre prevalgono quelli attivi a Torino (Fotografia Roma, Ippolito Leonardi, Giuseppe Marinoni, Gaetano Songi) e si segnala la presenza del biellese Giuseppe Varale. A questi pochi altri possono aggiungersi, quali Cesare della Matta, forse un amateur, attivo a Ceres intorno al 1860, e  Pietro Bruneri, o Brunero, professionista con sede a Torino che aprì una succursale a Mezzenile dopo il 1870. Alcune sue immagini relative alle Valli di Lanzo erano comprese nell’album che il Club Alpino Italiano presentò alla Mostra Nazionale Alpina del 1884, a cui presero parte con immagini di analogo tema anche il dilettante Paolo Palestrino e Francesco Casanova, libraio, editore e valente fotografo, mentre nel giugno del 1887 il musicista Leone Sinigaglia riportava “a Torino più di 50 fotografie prese in questi bei giorni nei dintorni di Balme” e altre ne realizzò l’anno successivo per presentarle sotto il titolo di Villaggi e montagne della Val d’Ala alla Esposizione Fotografica Alpina che il CAI organizzò nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti nel 1893.[10]

Il nome di Ferdinando Fino va ora ad aggiungersi alla schiera ben più ampia dei fotografi che frequentarono le Valli nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo, quando la realizzazione del nuovo tronco ferroviario sino a Lanzo[11] diede nuovo impulso alla già consolidata frequentazione turistica dei luoghi da parte della borghesia e della nobiltà  torinesi, aprendosi più comodamente anche ai viaggiatori stranieri, come Samuel Butler, che descrisse in un breve efficacissimo passo la sua esperienza: “da Torino andai a Lanzo da solo, con un viaggio in ferrovia (…) di un’ora e mezza circa. (…) [A Lanzo] Vicino alla scuola c’è un campo, sul pendio del colle, da cui si domina la pianura. C’era una donna che falciava e per dire qualcosa di cordiale osservai che il panorama era bellissimo. «Sì – rispose – si possono vedere tutti i treni».”[12]  Era la modernità della macchina, a vapore non meno che fotografica, che apriva le Valli allo sguardo degli altri; che portava l’immagine dei luoghi oltre i confini della Stura, specialmente grazie alla fotografia amatoriale dei villeggianti e dei più occasionali escursionisti, che per compilare i loro appunti di viaggio non di rado ricorrevano alla stereoscopia,[13] la più diffusa forma spettacolare per immagini antecedente alla nascita ed al primo sviluppo del cinema. Era l’avvento dell’istantanea, favorita dall’accoppiamento tra le nuove emulsioni rapide alla gelatina e il piccolo formato delle lastre, che consentiva ridottissimi tempi di posa offrendo la possibilità di rivivere poi, nella quiete ovattata del salotto di casa, le piccole emozioni e gli incontri con realtà vicine e tanto distanti dal quotidiano scenario urbano, a cui la visione tridimensionale restituiva un affascinante rilievo, emotivo non meno che spaziale. Osservando le  superstiti stereoscopie di Fino emerge chiaro anche in lui il piacere della notazione aneddotica, tra costume e memorie familiari; la loro funzione principale era diaristica, per nulla espressiva, come se a questa fotografia (senza e prima del colore) non fosse concesso altro statuto che quello della testimonianza, cui corrispondevano però una maggiore libertà di ripresa e meno preoccupazioni compositive. Non considerando le consuete, inevitabili riprese di soggetto familiare, analoghe a quelle che negli stessi anni andavano a riempire centinaia di album, tra loro simili e quasi indistinguibili se non per i diretti interessati, e solo per l’arco breve di poche generazioni a venire, le sue immagini di genere sono assimilabili alle Scene di vita e di lavoro che tanto successo avevano nei periodici amatoriali dei primi anni del secolo. Ne “Il Progresso Fotografico”, in particolare, dove vennero pubblicate sotto questo comune  titolo fotografie di autori tra loro diversissimi quali Wilhelm Von Gloeden e Andrea Tarchetti[14], lontane nella loro impostazione bozzettistica dall’attenzione propriamente etnografica che autori come Vittorio Sella e Domenico Vallino dedicavano alle valli biellesi e valdostane[15].  L’attenzione di Fino non era sistematica, non lascia intuire un progetto documentario, ma non si applicava neppure alla descrizione di eventi eccezionali, destinati a nutrire l’immaginario piuttosto che a coltivare il ricordo. Le sue sono sì cronache, ma familiari, dove l’attenzione si esercita sui piccoli fatti non memorabili, su occasioni quasi quotidiane, destinate a trasformare ogni più minuto evento in piccolo spettacolo salottiero piuttosto che a offrire alle generazioni prossime le memorie visive della propria famiglia. Erano, queste fotografie, un’altra forma di affabulazione, dove lo spiccato effetto di realtà della visione stereoscopica, il realismo sorprendente della loro tridimensionalità virtuale offriva una vividezza più prossima alla trasmissione orale del racconto che all’ufficialità dei ritratti di studio. Obbedivano a una logica inversa alla sintesi propria dell’immagine simbolica, dell’icona in grado di racchiudere in sé l’essenza della persona. O dell’evento. Questa intenzione, occasionale e privata, ben corrispondeva allo spirito del concorso del 1906 in cui per la prima volta si era segnalato. E al silenzio successivo.

Il nome di Fino non compare infatti fra gli iscritti al Club d’Arte, fondato a Torino nello stesso anno,  che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi, ma neppure nelle diverse esposizioni promosse negli anni successivi da “La Fotografia Artistica” (1907[16]) o dalla Società Fotografica Subalpina (1907, 1908), dal Photo-Club (1909, con una piccola sezione dedicata alle autocromie), dal Circolo Principe Eugenio e simili. In assenza di qualsivoglia documentazione, nulla ci è dato sapere delle ragioni che lo tennero lontano dalla vita fotografica dopo una prima occasione certo non insoddisfacente. Possiamo solo prenderne atto; segnalare il momento della ripresa, subito di notevole rilievo: per le sue autocromie stereoscopiche Ferdinando Fino venne premiato con Medaglia d’argento della Società Artistica e Patriottica[17] nell’ambito del Concorso nazionale di Fotografia collegato all’Esposizione Nazionale d’Arte e d’Industria Fotografica di Milano.  “Nelle prove a colori  (autocromie) chi si è fatto grande onore è Ferdinando Fino di Torino con venti stereoscopie autocromiche 6×13 che potevano dirsi d’effetto meraviglioso”[18],  commentava in quell’occasione il redattore de “Il Progresso Fotografico”, in una recensione insolitamente molto critica nei confronti del livello medio delle opere in mostra, nella quale ad esempio  non era riservata più che una citazione per Luigi Pellerano, certo allora il nome più noto tra gli autocromisti italiani e di lì a poco autore di un fondamentale testo in materia[19], il quale a proposito della stessa mostra affermava che “Coloro che hanno osservato allo stereoscopio delle autocromie come quelle del Signor Fino all’Esposizione di Milano di quest’anno non hanno potuto impedirsi di gridare «Ma è la verità assoluta!».”[20] Nella sua nuova stagione fotografica Fino confermava l’uso della stereoscopia, ma si misurava con la novità dirompente, assoluta, oggi incommensurabile del colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel (Gabriel Lippman, 1908). La nuova tecnica dell’autocromia[21], che forniva la prima soluzione praticabile su larga scala al problema della fotografia a colori, doveva rappresentare per Fino non tanto una curiosa novità tecnologica quanto il riconoscimento della possibilità di esprimersi al meglio proprio attraverso l’uso della gamma cromatica,  trait d’union con la sua passione di pittore dilettante e con gli amici pittori [22].  Con l’utilizzo del colore il riferimento non poteva che essere costituito dall’universo culturale e dal patrimonio iconografico della Pittura, non solo pieno di suggestioni per definizione nobili, ma che gli era già prossimo per le sue passioni personali e, forse, per le sue frequentazioni. È qui, in questo ambito e in questa pratica che Fino riconobbe e si concesse quelle possibilità di espressione che sembravano assenti e certo meno urgenti nella produzione in bianco e nero. Come per molti amateur suoi contemporanei l’intenzione fotografica era non solo molteplice, ma distinta e quasi separata:  una vera e propria ‘distanza’ tra ambiti solo apparentemente contigui.

La prima presentazione del procedimento autocromico era stata fatta nel 1904 dai Fratelli Lumière nel corso della XII sessione dell’Unione Internazionale di Fotografia[23], cui fece seguito una ben orchestrata campagna pubblicitaria internazionale, che coinvolse le più influenti testate, i maggiori notisti di fotografia e gli stessi inventori in prima persona[24]. Se ancora nel giugno 1905 un critico come Léon Vidal parlava in modo misterioso dei primi risultati, annunciando di essere “alla vigilia del più notevole dei progressi compiuti dalla fotografia”[25], già in luglio sulle pagine dello stesso periodico[26] Armando Gandolfi avrebbe citato il nome degli inventori e spiegato il procedimento nei suoi dettagli, mentre nel 1907, anno della sua commercializzazione, la presentazione italiana del nuovo processo, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica promossa da “La Fotografia Artistica”, venne affidata all’ingegner Ernesto Mancini, Segretario dell’Accademia dei Lincei, con una conferenza dedicata a La photographie aux plaques autochromes des Frerés Lumière, poi pubblicata integralmente.[27] La nuova tecnologia, e il nuovo prodotto, suscitarono immediatamente grandissimo interesse e attenzione da parte della stampa più qualificata: oltre al già citato “La Fotografia Artistica”, anche il prestigioso periodico inglese “The Studio”, ad esempio, dedicò nell’estate del 1908 un numero speciale alla fotografia a colori, di fatto incentrato tutto sulla novità delle autocromie, con immagini tra gli altri, di J. Craig Annan, Alvin Langdon Coburn, Baron A. De Meyer, Franck Eugene, Heinrich Kühn e George Bernard Shaw.[28]  L’elemento di attrazione era costituito non solo dal fascino divisionista (e quindi eminentemente moderno, in quegli anni) della grana colorata di queste immagini, ma anche e soprattutto dalle possibilità offerte di affrontare con strumenti linguistici nuovi il tema del  paesaggio con cui la fotografia artistica si era a lungo misurata e che continuava ad essere considerato centrale anche nei primi decenni del Novecento. Per queste ragioni si sviluppava e si definiva progressivamente,  attraverso numerosi contributi, una precisa estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico col pittorialismo, ora  si misurava e provava a  fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche, espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico. Così nella prefazione al già citato Colour Photography, 1908, contro la tendenza quasi ovvia di instaurare un confronto con la pittura, il curatore riteneva che fosse “del massimo interesse per la fotografia di essere considerata di per sé, e che qualsiasi successo artistico potesse essere raggiunto sarebbe stato giudicato più opportunamente per i propri meriti piuttosto che secondo gli standard stabiliti dal pittore o dall’incisore. I tentativi di riprodurre gli effetti ottenuti da questi artisti sono in sé stessi opposti allo spirito della vera fotografia, e mostrano una mancanza di apprezzamento delle possibilità dell’apparecchio fotografico, e delle possibilità che offre per il raggiungimento di effetti originali”. [29] Gli faceva eco nello stesso anno Edoardo Bertone di Sambuy sollecitando i fotografi autocromisti a “arrivare a formare un solo essere col proprio apparecchio. Bisogna che il nostro occhio, nell’osservare il soggetto, lo possa vedere così come sarà riprodotto sulla lastra autocroma”[30], aprendo così la strada a una concezione puramente fotografica, al pensare fotograficamente non il soggetto ma il soggetto fotografato. Più in particolare ciò che veniva immediatamente riconosciuto e apprezzato, ma anche sentito come vincolo, era l’assoluta esattezza di queste immagini, “fedeli alla natura più di quanto la Natura sia fedele a sé stessa, così implacabilmente precise da costituire in effetti un’alterazione”, imponendo al critico di “scoprire quale modalità di struttura estetica fosse possibile erigere su questa base.”[31] Ciò era particolarmente urgente proprio per la fotografia di paesaggio, nella quale la distanza tra l’osservazione dal vero (dove la purezza dei singoli colori è mediata dalla percezione) e la visione dell’autocromia (dove i colori sono registrati distintamente, sulla base delle loro specifiche caratteristiche fisiche) era maggiore e quasi incolmabile, tanto da “provocare un acuto senso di shock (…) poiché non vi è nulla di più fragile della bellezza di un colore.”  In anni in cui la battaglia pittorialista aveva fatto coincidere le possibilità artistiche della fotografia con le manipolazioni operate dall’autore, questa impossibilità d’intervento era vista come un limite insormontabile, arrivando a dire che “la strada della tecnica resta preclusa al fotografo autocromista per raggiungere l’Arte, poiché, per le caratteristiche stesse del processo, viene automaticamente escluso da ogni possibile intervento, da ogni eventuale manipolazione, perdendo di fatto la propria libertà, il proprio arbitrio, così che anche l’intervento  una delle altre due strade con cui il fotografo può sperare di raggiungere la vetta della Collina Sacra risulta rigidamente sbarrata”.[32]  Restava – secondo Dixon Scott – solo quella forma di artisticità fotografica, di espressione del temperamento che definiva “creazione per isolamento”, corrispondente cioè alla scelta del soggetto e soprattutto al taglio operato dall’inquadratura. In questa poetica del frammento risiedevano le possibilità estetiche dell’autocromia, così come la fotografia di genere, il ritratto e la natura morta erano ritenuti i soli ambiti espressivi in cui il fotografo, nel chiuso del proprio studio, poteva ritornare a essere il deus ex machina, lasciando all’apparecchio il solo compito di registrare la scena accuratamente composta e cromaticamente accordata. Analoghi limiti nella resa del colore e, in apparente contraddizione, di immodificabile precisione erano individuati anche dal critico Robert de la Sizeranne[33], ma puntualmente contestati da un noto autocromista come Antonin Personnaz, che rifiutando le distinzioni tra soggetti e generi diversi individuava le possibilità espressive del fotografo nel momento della scelta del motivo e della sua restituzione sulla lastra, prestando particolare attenzione alla scelta degli obiettivi e all’illuminazione del soggetto, imparando dai grandi maestri ad utilizzare i più opportuni accostamenti cromatici: “Corot gli mostrerà che la sola cuffia rossa di una contadina basta a esaltare il verde di un paesaggio.” [34] Il colto richiamo pittorico di questo compagno di strada degli impressionisti forse non sfuggì a Fino, che popolava le sue autocromie di analoghe soluzioni, ma questa pratica di armonizzazione preventiva del soggetto doveva costituire la regola per chi si misurava con quelle prime immagini a colori: “L’autocromista paesista – consigliava Pellerano nel suo manuale – nella macchina, con le lastre, ha dei fazzoletti di seta e di cotone, berretti da contadini, sciarpe, veli rossi, verdi, violetti, d’ogni tono e d’ogni colore. (…) Questo bazar ambulante, come si può pensare, serve a compensare quel che talvolta la natura non dà, a dipingere la stessa natura con cose colorate e magari con lo stesso pennello, imbellettato all’occorrenza, ma sempre con perfetta maestria d’arte. (…) Egli metterà un rosso (un fazzoletto al collo, in testa a una contadina, un velo) dove gli piace; là un giallo pallido (distendendo magari delle stoffe) oppure un tendaggio damascato.”[35]

Quasi una sintesi descrittiva della produzione di Fino, per come è testimoniata dalle autocromie che qui presentiamo e suggerita dai titoli di quelle offerte ai suoi corrispondenti. Dopo il buon risultato ottenuto all’esposizione milanese del 1909 non pare abbia preso parte ad altre occasioni espositive sino al 1911, quando nell’ambito delle celebrazioni per il cinquantenario della proclamazione del Regno d’Italia si tenne a Torino l’Esposizione internazionale delle industrie e del lavoro, che comprendeva anche un Concorso Internazionale di Fotografia.[36]  Tra le “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti” [37] nel Palazzo delle Feste, si segnalavano ancora una volta le autocromie stereoscopiche di Fino, “ottime sia come scelta di soggetti che come freschezza di colore (…), fra cui ricordiamo specialmente. La ‘Rosa delle Alpi’, la ‘Pineta’, ‘Sulle Alpi Graie’, ‘Prato alpino’, ‘Alba grigia’.”[38] La partecipazione e il successo ottenuto consentirono a Fino anche di avviare una proficua serie di rapporti professionali, documentata dall’unico suo copialettere fortunosamente superstite[39], che puntualmente li registra almeno per gli anni dal 1912 al 1916, lasciando però intuire rapporti antecedenti.[40] Questa fonte risulta particolarmente interessante per quanto ci consente di comprendere, se non delle sue intenzioni artistiche, almeno del suo modo di operare; di questa passione cui riusciva a dedicare solo “le domeniche libere” per “aggiornare il mio lavoro per poterle mandare delle fotografie di montagna, con grande dovizia di neve.”[41] E ancora: “In febbraio marzo aprile andai otto volte in montagna e su otto, sette domeniche presi neve, tramontana, senza poter far nulla (…) mentre una volta sola fui fortunato e potei prendere qualche veduta. Da domenica a ieri (giovedì) andai nei dintorni di Rapallo per prendere vedute di mare. Devo ancora svilupparle, però il mare mosso e il vento sugli alberi mi furono contrari[42] e non so a cosa avrò approdato nei miei tentativi. Appena avrò una piccola collezione (spero fra una ventina di giorni) glie la spedirò, e lei sceglierà. Intanto viene giugno e allora sono certo di poter preparare e ripetere quelle che avevo all’Esposizione per mandargliele.  Creda però che non potendo trar copie dalle fotografie a colori[43], per quanto il prezzo di £. 20 possa parer caro, alla fine di tutti i conti, le spese e le fatiche, non sono compensate dal guadagno materiale. Utile certo per me è quello di soddisfare con minor spesa alle mie aspirazioni di far passeggiate, di gustare le meraviglie della natura, ammirandole e procurandomene qualche ricordo fotografico quando la fortuna mi permette di prendere due volte la stessa veduta. (…) Noti poi che, quando le lastre sono nei telai, e che per due tre settimane non sono usate (come successe a me nel cattivo tempo) devono essere buttate via perché diventano inservibili.”[44] Il procurarsi “qualche ricordo fotografico” delle “meraviglie della natura” risulta quindi il solo scopo dichiarato della sua pratica fotografica, nulla più che “un’arte di diletto (…) il vaso di umili fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini”[45], sebbene non trascurasse l’occasione di ottenere un qualche piccolo introito, sempre meno occasionale e benvenuto “tanto più che, colle prospettive poco rosee che la nostra industria mi riserva, qualche po’ di guadagno extra non mi riesce certo inopportuno.”[46] Non fosse che per questo Fino si impegnava con Italo Carboni, certo il suo committente più importante, proponendo vere e proprie campagne documentarie per soddisfare richieste che andavano ben oltre la produzione ‘artistica’ presentata all’Esposizione del 1911. “Qui in Piemonte abbiamo qualche bella chiesa di puro stile del 1000 – e del 1500, come l’Abbazia di Vezzolano presso Albugnano d’Asti – o la chiesa di Sant’Antonio di Ranverso in Val di Susa presso Avigliana; degni di fotografia sono pure tutti i castelli della Valle d’Aosta, pei quali gli sfondi di Alpi con neve non mancano di rendere attrattivissime le vedute. Ma la Val d’Aosta è così mal servita da treni ferroviari, che dovrei aspettare che le strade diventassero buone” gli scriveva nel febbraio del 1912[47], e certo la proposta dovette essere accolta, avviando una serie di commesse di cui allo stato attuale delle nostre conoscenze non siamo in grado di comprendere le ragioni, restando indefinita la figura e l’attività del committente.[48] La richiesta più impegnativa riguardava gli ambienti del Palazzo Reale di Torino, per i quali era necessario superare difficoltà di ordine burocratico quanto tecnologico: occorsero infatti ben nove mesi per ottenere l’autorizzazione dell’ Amministrazione della Real Casa,  ma “finalmente – nel giugno 1913 –  dopo mille rigiri per avere il permesso di fotografare la camera di Re Umberto questo mi fu negato, come a tutti è negato, potrei però eseguire quelle dello scalone, salone degli svizzeri, sala da ballo, pranzo ecc. per le quali ebbi il permesso.”[49] La realizzazione si presentò poi tanto difficoltosa quanto scarsamente remunerativa: “in omaggio alla deferenza che Ella ebbe sempre per me, scriveva a Carboni nell’agosto del 1913[50] – ho mantenuto il prezzo di £ 20 caduna, quantunque, specialmente per gli interni del Palazzo Reale, io finisca per rimetterci, essendoché per ogni veduta, come già le accennai, dovetti farne tre per la RR. Casa, e per avere una veduta buona, senza macchie, graffiature ecc, dovetti farne diecine per ogni soggetto! In compenso, tanto più che i risultati per la maggior parte d’esse sono eccellenti, mi fido perfettamente della di Lei correttezza, ed oso sperare non me ne rifiuterà alcuna del Palazzo Reale onde compensarmi in parte di un mese di lavoro! Noti che in quegli interni ho dovuto dare pose di 1-2 e più ore[51], ed il pubblico che visitava, passando, non di rado mi rovinò l’opera mia! (…) Dimenticavo di dirle che per la disposizione infelice della luce e per l’ampiezza dell’angolo visuale che le attuali macchine fotogr[afiche] stereoscopiche non possono abbracciare, o [sic] dovuto scartare lo scalone d’onore ed il Salone degli Svizzeri, viceversa mi sono barcamenato in modo da darle una collezione dei punti migliori e decentemente fotografabili a colori del ns. Palazzo Reale.” Il committente, che pare conoscesse piuttosto bene le stesse Valli di Lanzo,  non dovette però ritenersi soddisfatto: “Quanto al Salone degli Svizzeri ed allo Scalone d’onore, ritenterò la prova – gli comunicava Fino una settimana più tardi – tanto per dimostrarle che cerco di contentarla, ma siccome mi sarebbe passiva la fattura di 4 lastre per qualità, come mi fu passiva per le 10 mandatele, userò l’astuzia di dire all’Amministraz.  della R.C. che non mi sono riuscite, e così farò a meno di ripetere pose di 3-4 ore! (…) La veduta N.15 (se non erro dove sul sentiero è ferma una donna colla gerla) è realmente la perinera, ed il campanile non ha nulla a che vedere con quello della Cappella di Benot, al quale assomiglia però, data la comunanza del tipo architettonico contemporaneo delle chiese delle vallate di Lanzo. Per l’interno della cappella, credo che non ci sia interesse, ad ogni modo se sarà fotografabile e degna di nota, ad una mia eventuale gita colà lo tenterò per lei.”[52] Negli anni immediatamente successivi all’ Esposizione del 1911 le occasioni di lavoro fotografico sembrano moltiplicarsi, nei più diversi settori: dalla documentazione d’arte, con la riproduzione di dipinti di Vittorio Avondo su richiesta di Emanuele Celanza[53], alla realizzazione di alcuni interessanti studi di nudo, forse realizzati su richiesta di Alfredo Canova, residente a Lima ma conosciuto a Torino proprio nel 1911[54]. Il tema non era certo inconsueto neppure per la fotografia, che sin dai primi dagherrotipi aveva offerto un’ampia produzione di nudi, specialmente femminili, in una gamma estesa di trattamenti che andava dallo ‘studio artistico’ all’immagine licenziosa o esplicitamente pornografica, affidandosi non di rado all’iperrealismo della resa stereoscopica per ottenere un di più di sollecitazione sensoriale, certo accentuato dal vincolo di una visione che non poteva che essere individuale ed esclusiva: privata. Questo sembra essere stato l’ambito di maggior diffusione, la destinazione privilegiata, tanto che il tema scorre quasi sotterraneo e certo non risulta essere stato tra quelli qualificanti delle prime ricerche, esplicitamente artistiche, come quelle poste in essere dai fotografi pittorialisti, nel cui ambito sono rari gli autori che lo hanno affrontato sistematicamente. Nessun nudo venne presentato alla grande Esposizione internazionale di Fotografia Artistica che si svolse a Torino nel 1902; nessun nudo integrale comparve mai sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, a riconferma di uno scarso interesse degli autori italiani per il tema, ma anche la più autorevole “Camera Work” ospitò quasi solo i corpi simbolisti, immersi nella natura di Anne W. Brigman. Non era quindi alla cultura fotografica che Fino poteva guardare per concepire le proprie immagini, ma all’iconografia pittorica, specialmente accademica, sebbene alla predilezione di molti per Ingres quale modello[55] egli doveva preferire Delacroix (Linda, I), o per meglio dire le fotografie che Eugène Durieux aveva realizzato sotto l’attenta regia del pittore circa mezzo secolo prima[56]. Riferimento fotografico difficile da ipotizzare con verosimiglianza, quasi impossibile. Più criticamente plausibile una mediazione iconica, per la relativa buona circolazione dei modelli sotto forma di riproduzioni con diverse tecniche, non ultima proprio quella fotografica, e per le relazioni forti con l’ambiente artistico torinese di cui costituiscono più che un indizio alcune immagini e alcuni documenti. Michelina (modella nello studio del comm. Grosso), dichiara sin dal titolo il luogo della sua realizzazione e si presenta come un’interpretazione fotografica del notissimo dipinto del 1896, mentre (Linda, II), si ispira a sua volta a una delle tante varianti realizzate dal pittore dopo lo scalpore e il successo de La nuda[57]. Ribaltando una consuetudine propria di tutto il XIX secolo e oltre, Fino non realizzava fotografie per i pittori, ma ne utilizzava le risorse (studi, modelle, opere) per scopi personali. Qui l’atelier  non è neppure più pretesto per mostrare il corpo nudo, è semplice scenografia, ambientazione tra le tante possibili, facilmente sostituibile da quei “tendaggi damascati” che suggeriva il manuale di Pellerano o addirittura da un contesto ambientale quasi domestico, sebbene ingombro di piccoli quadri, tenuto in ombra e un poco fuori fuoco come nel bel Busto di giovinetta, certo il meno convenzionale, il più moderno dei suoi nudi, dei quali merita però sottolineare come fossero, tutti, esercizi di grande virtuosismo tecnico, per le lunghissime pose necessarie per le riprese in interni, rispetto alle quali certo risultava fondamentale la capacità professionale delle modelle coinvolte, sebbene non dovesse essere questa qualità ad attrarre i suoi possibili acquirenti.

Il rapporto diretto con alcuni esponenti del mondo artistico piemontese, tra Accademia Albertina e soggiorni a Viù, favorito forse anche da alcuni legami parentali, dalla sua primaria passione per la pratica pittorica, testimoniato da queste immagini e da alcune lettere[58], è confermato proprio dalle fotografie a colori di Ferdinando Fino, che nella scelte compositive e di trattamento dei soggetti mostrano una consuetudine con il paesismo piemontese e con certa pittura coeva che si traduce immediatamente in adesione stilistica, tradotta nelle nuove forme espressive consentite e – di più – suggerite dalle particolarità tecniche dell’autocromia. “Non si può immaginare, se non si osserva, l’effetto eminentemente suggestivo che danno le autocromie stereoscopiche – scriveva Rodolfo Namias[59] – Congiungere colori naturali e brillanti coll’effetto di rilievo e di forma costituisce per l’occhio un godimento che niente può superare.” La pubblicazione di queste immagini, così come la loro esposizione sotto forma di stampa a immagine singola, certo priva l’osservatore odierno di questa affascinante esperienza, rendendo meno evidenti le intenzioni del fotografo, poiché la visione monoculare conserva certo gli elementi cromatici e la struttura compositiva, ma annulla  quell’effetto di profondità spaziale che ne costituiva il tratto distintivo, e a cui Fino prestava particolare attenzione specialmente nelle riprese di paesaggio, in cui questa era risolta non solo mediante la scelta di un opportuno punto di vista, che consentisse una graduale distribuzione dei volumi o sottolineando opportunamente il punto di fuga (si noti l’alberello posto al centro di Paesaggio), ma anche giocando sulle diverse luminosità della scena, collocando le ombre più profonde in primo piano (Alba sul Monte Civrari). Luce e colore, un colore iperrealistico e vivo nella mutevole osservazione per trasparenza[60], erano il vero tema di molte riprese, giocate sulla variazione quasi monocromatica: dalla penombra fredda, quasi vespertina del sottobosco (Lo stagno), argomento di diverse riprese, una delle quali (Poesia autunnale) facilmente accostabile a Nel bosco, di Petiti[61], datato 1914,  alla saturazione piena dei rossi aranciati (Nel regno dei larici) e dei verdi (Mulattiera presso Usseglio?), alle infinite combinazioni intermedie (Bosco in collina, Alberi in autunno). L’ambiente è alpino, quasi sempre, o campestre: non gli interessava la città né la vita che vi si svolgeva. Anche le sue figure sono ambientate tra prati e boschi. Alcune non sono nulla più che versioni a colori delle consuete immagini escursionistiche (Borgata Porcili presso LemieViù: Versino), ma la maggior parte di quelle rimaste mostra con quanta sensibile attenzione Fino guardasse alla produzione piemontese di derivazione fontanesiana, senza per questo escludere suggestioni diverse e di differente ispirazione, sino a produrre quasi un repertorio fotografico di soluzioni pittoriche nelle quali la figura gioca un ruolo importante, pur senza essere fondamentale. Sono scene di genere, con pastorelle e valligiane che paiono attendere ai loro lavori, ma non si tratta di istantanee. Nulla di più estraneo all’operare di Fino di ogni intenzione etnografica. Non gli apparteneva la volontà di superare “i prodotti del pennello in fedeltà e verità nel ricordarci la vita vissuta, palpitante di movimento, producendo una freschezza di impressioni che difficilmente sono a portata della paletta” [62]. Le sue scelte erano frutto del convergere di due intenzioni: la volontà di produrre immagini di valore artistico e la necessità di  “trovare i tipi che realmente posino con arte e naturalezza: ma in campagna si troveranno sempre, e sono i contadini, mentre non è facile trovare negli abitanti della città espressioni tanto naturali.”[63]  Quando neppure i villici soccorrevano alla bisogna, poteva essere la moglie a prestarsi come modella per arricchire una scena agreste (Sull’altipiano di Benot, la figura a sinistra) o realizzare efficaci composizioni sul tema della figura nel paesaggio (Meditando; Alla sorgente), accordate cromaticamente nello scrupoloso rispetto dei canoni espressi dalla pubblicistica coeva, senza mai far mancare quella cuffia rossa che sembra essere stata il marchio distintivo di quel sereno mondo color pastello raccontato dalle autocromie amatoriali. Quello che la Grande guerra si sarebbe premurata, di lì a poco, di cancellare.

 

 

Note

 

[1] L’Unione Escursionisti Torinesi (U.E.T.) venne fondata nel settembre del 1892 per iniziativa di Silvestro Fiori e Luigi Ardizzoia, allo scopo di “curare lo sviluppo dell’amore per l’escursionismo; promuovere, organizzare e dirigere comitive per gite in montagna ed in pianura alla visita dei luoghi che presentano maggiore interesse per attraenza di bellezze naturali e per ricordi storici od artistici; incoraggiare ed aiutare gli studiosi alle ricerche istruttive.”, cfr.  “L’Escursionista”, 4 (1902), n.8, 7 agosto, p.4. Erano soci negli anni immediatamente successivi alla fondazione architetti come Mario Ceradini, Gottardo Gussoni e Cesare Bertea, studiosi come Ercole Bonardi ed Edoardo Barraja, l’avvocato Carlo Reynaudi, autore ed editore di una fortunata serie di Guide turistiche, fotografi come Emanuele Elia Treves (collaboratore della “Gazzetta del Popolo”, tra i fondatori della Società Fotografica Subalpina), Mario Gabinio, Giancarlo Dall’Armi, lo scultore Tancredi Pozzi, gli  editori  Francesco Casanova e Simone Lattes. L’attività dell’associazione era sostenuta da altre collaborazioni prestigiose come quella di Riccardo Brayda, dal 1898 fino alla morte, di Giovanni Vacchetta e di Federico Sacco, ma la rete di relazioni intessuta tra i diversi gruppi a livello regionale è tale che scorrendo le pagine del  “L’Escursionista” si  incontrano altri nomi di esponenti di spicco della cultura e della fotografia piemontesi come Francesco Negri e Pietro Masoero.

[2] A.T., Notizie fotografiche, in “La Fotografia Artistica”, 3 (1906), n. 12, dicembre, p. 204. Ricordo che l’Unione Escursionisti aveva partecipato anche all’Esposizione di Fotografia di Torino del marzo 1900. In quell’occasione  “La Valle di Viù fu illustrata assai bene da Federico Filippi, il quale lascia molto bene sperare di sé per le sue vedute in formato 9×12.”, Ugolino Fadilla, L’Esposizione fotografica a Torino,  “Gazzetta di Torino”, 5 marzo 1900, p.4. La mostra del 1906 ebbe tra i propri organizzatori Mario Gabinio, di cui era già relativamente noto il lavoro dedicato alle Valli di Lanzo, ma non paiono esservi state relazioni dirette o di amicizia tra i due: tra le 475 stampe originali  e le decine di lastre di sessanta autori diversi comprese nel Fondo Gabinio della Fondazione Torino Musei non compaiono immagini  di Fino, cfr. Mario Gabinio. Valli Piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, 2000), a cura di P. Cavanna. Torino: Edizioni GAM Galleria Civica d’Arte Moderna, 2000.

[3] Non solo per i limiti geografici stabiliti da questo progetto dedicato alle Valli di Lanzo, è bene avvertire che lo studio della sua figura di fotografo, e della sua produzione, è inevitabilmente condotto su quanto di lui si conosce allo stato attuale, cioè sulle immagini superstiti: non più di un migliaio di fototipi tra lastre monocrome e autocromie, tutte stereoscopiche, ma nessuna stampa. Questo patrimonio consente certo di valutare opportunamente la sua produzione in bianco e nero, meno le più interessanti autocromie che – come dimostra il copialettere – venivano regolarmente vendute almeno a partire dai mesi successivi all’Esposizione del 1911 e sono quindi disperse (semmai superstiti) in archivi di famiglia italiani e stranieri, in fondi non ancora indagati di pittori torinesi, e delle quali ci restano soltanto – in non pochi casi – i titoli originali.

[4] Non è questa la sede per ripercorrere le vicende della storia della fotografia in Piemonte nel XIX secolo, ma credo sia utile richiamarne alcuni caratteri salienti, in particolare la pratica amatoriale svolta ad altissimo livello e sovente con esiti pionieristici.  Si pensi ad esempio ai numerosi rappresentanti della borghesia imprenditoriale come Giuseppe Venanzio Sella, Emilio Gallo o Cesare Schiaparelli, nei quali si associavano competenze tecnologiche e imprenditoriali, tanto da poter quasi dire di una fotografia dell’età industriale, dove industriale è per la prima volta la produzione e quasi solo industriali (sebbene per poco) furono molti dei suoi cultori. A questi si aggiunsero i rappresentanti delle professioni: i medici, i farmacisti (ritorna, ancora, inevitabilmente la dimestichezza con la chimica), gli ingegneri ma soprattutto gli avvocati, come Secondo Pia. Tra questi va ricordato, di poco più giovane di Fino, almeno Domenico Riccardo Peretti Griva (Coassolo 1882 – Torino 1962) che fu uno dei dilettanti appartenenti alla storica Scuola Piemontese di Fotografia Artistica (così denominata da Schiaparelli), che insieme ad Achille Bologna, Stefano Bricarelli, Carlo Baravalle, Mario Gabinio  Cesare Giulio, Italo Bertoglio e pochi altri segnarono la modernità della fotografia italiana tra le due guerre mondiali.

[5] G[uglielmo] Ferrari, Esposizione fotografica. La fotografia artistica, in “La Stampa”, 34 (1900), n. 67, 8 marzo, p. 3.

[6] Agostino Ferrari, Catalogue de Photographies de la Châine des Alpes, des Appennins, des Pyrenées, du Caucase, de l’Himalaya, etc., 1902 e 1902-1907, dattiloscritto, Torino, Museo nazionale della Montagna, Centro di Documentazione. A conferma di questo dato ricordiamo che nessuna immagine di Fino venne utilizzata dallo stesso Ferrari per il volume La Valle di Viù. Torino: Lattes, 1912.

[7] Vincenzo Fino, Notizie mineralogiche sulle Valli di Lanzo, in Club Alpino Italiano, sezione di Torino, Le valli di Lanzo: Alpi Graie. Torino: G. B. Paravia e C., 1904, pp. 491-507. Per la preparazione della monografia il CAI aveva indetto un concorso fotografico e una successiva mostra alla quale avevano preso parte tredici autori con ben seicento fotografie.

[8]Carlo Ratti, Da Torino a Lanzo e per le Valli della Stura. Torino: F. Casanova, 1883, pp. 6-7. Nonostante il richiamo all’attività dei fotografi, il volume è però illustrato da sole riproduzioni di disegni.

[9] Aldo Audisio, Bruno Guglielmotto Ravet,  Valli di Lanzo ritrovate fra Ottocento e Novecento: 1860-1930.  Ivrea: Priuli & Verlucca, 1981.

[10] Cfr. Giuseppe Garimoldi, Alle origini dell’alpinismo torinese. Montanari e villeggianti nelle valli di Lanzo. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1988. p.55; Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990; Pierluigi Manzone, a cura di, Un repertorio dei fotografi piemontesi 1839-1915, in Id., a cura di, Fotografi e fotografia di provincia: Studi e ricerche sulla fotografia nel Cuneese. Cuneo: Biblioteca Civica di Cuneo, 2008, pp.11-119.  Segnalo qui che ancora nel 1911, all’Esposizione di fotografia, Zeno Flamia di Vinovo, presentava un Album di vedute della Valle di Lanzo e della Valle di Viù, cfr. Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia,  Torino, aprile-ottobre 1911. Torino: G. Momo, 1911, p.10, n.22.

[11] Per le vicende costruttive della ferrovia rimando a Cristina Boido, Chiara Ronchetta, Luca Vivanti, a cura di, Torino – Ceres e la Canavesana. Itinerari ferroviari piemontesi. Torino: Celid, 1995.

[12]Citato in Rinaldo Rinaldi, a cura di, Un inglese nelle Valli di Lanzo. Dalle note di viaggio di Samuel Butler. Lanzo: Società Storica delle Valli di Lanzo, xlviii, 1995, p.8 passim.  Butler era allora in Italia su incarico del proprio editore che gli aveva offerto 100 sterline per la realizzazione di un libro illustrato sul nostro paese, poi rifiutato e pubblicato a spese dell’autore: Alps and Sanctuaries. London: David Bogue, 1882. Sull’uso della fotografia da parte dello scrittore inglese si vedano: Elinor S. Shaffer, Erewhons of the eye : Samuel Butler as painter, photographer, and art critic. London: Reaktion Books, 1988; Samuel Butler, the way of all flesh : photographs, paintings watercolours and drawings by Samuel Butler (1835-1902),  catalogo della mostra (Bolton, 1989). Bolton:  Bolton Museum and Art Gallery, 1989.

[13] Inventata nel 1832 da sir Charles Wheatstone, ma  messa a punto fotograficamente solo nel 1849 da sir David Brewster (già inventore del caleidoscopio) ed enormemente diffusa dopo l’Esposizione Universale di Londra del 1851, la visione stereoscopica aveva molto precocemente attratto l’attenzione dei pittori; si veda a titolo esemplificativo Alessandro Guardasoni, Della pittura, della stereoscopia e di alcuni precetti di Leonardo  da Vinci: pensieri. Bologna:  Soc. tip. Azzoguidi, 1880. L’attenzione per la pratica fotografica – sebbene quasi clandestina –  non era estranea all’ambiente dell’Accademia torinese, come dimostra la presenza nella Biblioteca dell’Albertina del volume di H.P. Robinson, De l’effet artistique en photographie: conseils aux photographes sur l’art de la composition et du clair-obscur, traduction française de la 2.e éd. anglaise par Hector Colard. Paris: Gauthier-Villars, 1885; più consueto invece il ricorso alle stampe fotografiche quali modelli di studio, non estraneo neppure a Fontanesi, ma praticato in particolare da Luigi Belli, cui si devono gli esemplari più importanti, specialmente di autori francesi, ancora attualmente conservati nel Fondo fotografico storico di questa istituzione.

[14]  Cfr. Andrea Tarchetti, notaio: Fotografie 1904 – 1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna, Mimmo Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli 1990; Miraglia 1990, p.75. Un analogo approccio bozzettistico è rintracciabile anche nelle fotografie coeve di Mario Gabinio, e nelle immagini di altri frequentatori delle Valli di Lanzo, cfr. Audisio, Guglielmotto Ravet 1981, nn. 42,43,65,94. Tra queste si segnala una ripresa realizzata a Benot da Guido Cibrario verso il 1913 (n. 137) che è analoga, quasi sovrapponibile alla veduta realizzata da Fino circa gli stessi anni (26881). Un’attenzione diversa, non bozzettistica ma empatica, per il mondo contadino delle valli piemontesi è invece quella testimoniata con grande anticipo,  per la generazione precedente, dai numerosi album di Vedute delle Valli Valdesi realizzati dal pastore David Jean Jaques Peyrot (Luserna San Giovanni, Torino, 1854 – 1915), tra i più rilevanti esempi di produzione fotografica di tutto l’Ottocento piemontese, in parte conservati presso l’Archivio Fotografico Storico del Centro Culturale Valdese di Torre Pellice.

[15] Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, s.d. [1890], (reprint Ivrea: Priuli & Verlucca Editori, 1983). Per una presentazione critica dell’Album realizzato da Sella e Vallino rimando a P. Cavanna, Album di un alpinista fotografo,  “Alp”, 11 (1995) n.122, giugno, pp.124-127; Id.,  La montagna abitata di Domenico Vallino, “Rivista Biellese”, 3 (1999), n.1, gennaio, pp.51-58.

[16] Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica. Catalogo. Torino: Grafica Editoriale Politecnica [La Fotografia Artistica], 1907.

[17] Red., Il Concorso fotografico di Milano, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 8, agosto, pp. III-IV.

[18] Red., Una Rassegna della Mostra Fotografica Nazionale di Milano,  “Il Progresso Fotografico”, 16 (1909), pp.217-221 (219). Tra i pochissimi autori a praticare il colore, Fino era il solo a lavorare in stereoscopia mentre Luigi Pellerano era il solo che risulti ancora attualmente noto.

[19] Luigi Pellerano, L’autocromista e la pratica elementare della fotografia a colori. Milano: U. Hoepli, 1914.

[20]Luigi Pellerano, L’Autochromie et ses applications artistiques, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 8, agosto,  p.128, nota 1.

[21] Autocromia (sintesi tricromica diretta – sintesi additiva): sistema messo a punto dai Fratelli Lumière nel 1904 (commercializzato dal 1907) sulla scia delle intuizioni di Ducos du Hauron (1869) e delle sperimentazioni di Joly (1894), è reso possibile dalla scoperta del procedimento di sbianca di Rodolfo Namias. La luce impressiona una lastra b/n pancromatica rivestita da un filtro a mosaico a struttura casuale costituito da granelli di fecola, colorato nei colori primari blu, verde, rosso. La lastra, dopo sviluppo e inversione, viene osservata per trasparenza o per proiezione. Lo schermo tricromo in fecola di patata attirò da subito numerosi fotografi piemontesi, di diverse generazioni, tra i quali merita almeno ricordare  Italo Mario Angeloni, Giuseppe Gallino, Franco Manassero, Felice Masino, Pietro Masoero, Francesco Negri, il già citato Pellerano, anch’egli  membro dell’Unione Escursionisti, Secondo Pia, autore di poco meno di trecento autocromie,  Adriano Tournon, Giovanni Battista Vercellone e C. Schiaparelli, oltre a Anny Wild, unica donna a godere di una certa notorietà,  le cui fotografie vennero pubblicate ne “La Fotografia Artistica”  a partire dal luglio 1910. A conferma di un fenomeno ancora tutto da studiare nelle sue dimensioni effettive e nei suoi esiti, per la gran parte sconosciuti o dimenticati, mi limito a segnalare tra gli altri autori di cui resta memoria nei cataloghi delle esposizioni o negli archivi degli eredi quello di Francesco Ernesto Penna, a sua volta in relazione con Pia; cfr. Marco Albera, Francesco Ernesto Penna: un fotografo torinese alla Sacra di San Michele (1913), estratto da Italo Ruffino, Maria Luisa Reviglio della Veneria, a cura di, Il Millenio Composito di San Michele della Chiusa: Documenti e studi interdisciplinari per la conoscenza della vita monastica clusina, V. Borgone Susa: Melli, 2003. Sulla produzione di Pia si rimanda a Giuseppe Pia, Nota storica sull’Archivio di Secondo Pia, in Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, pp.73-77, mentre l’attività di autocromista di Schiaparelli pare non aver lasciato traccia materiale, almeno per quanto risulta dalla monografia curata da Gian Paolo Chiorino, Cesare Schiaparelli fotografo paesaggista. Occhieppo Superiore: Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2003. La stessa Società Fotografica Subalpina organizzò conferenze e proiezioni per presentare questo nuovo metodo e i fratelli Lumière vennero nominati soci onorari dall’Assemblea del 30 aprile 1908.

[22] La possibilità di riprodurre le proprie opere a colori, dapprima col metodo della tricromia, aveva affascinato ad esempio già Segantini, che in un lettera a  Grubicy de Dragon del 1893 (n. 383) scriveva: “Caro Alberto, come ti ho già detto, a me pare che il sistema trovato dal Mora [cioè la tricromia] di riprodurre fach simile i quadri ad oglio [sic] è scoperta meravigliosa. ed io sono pronto a sostenerla, non solo moralmente, ma intendo di fare dei quadretti appositamente, di effetto afferrabile a tutti, e di sentimento intimo, onde abbiano con la delicatezza e serietà dell’arte (…) che seduce e affascina le anime buone, onde divolgare il gusto dell’arte (…) vera.” E ancora, a fine settembre 1897 (n.622): “Pei quadretti da riprodursi in Eleografia sistema Mora, bisognerà intendersi meglio per non fare un inutile lavoro.” Infine nel luglio 1899 (n.762): “Caro Alberto (…) Nell’ultima tua lettera ho trovato dentro dei campioni di riproduzioni a colori, per far questo bisognerebbe che avessi il tempo di starci dietro di persona.” Cfr. Annie-Paule Quinsac, a cura di, Segantini. Trent’anni di vita artistica europea nei carteggi inediti dell’artista e dei suoi mecenati. Oggiono – Lecco: Cattaneo Editore, 1985. Altrettanto, e forse più noto è il caso di Michetti che rivolgendosi a Carlo Tridenti, ch’era andato a fargli visita a Francavilla [1920ca], e stava guardando un gruppo di schizzi dal vero gli diceva: “«Lascia stare quelle porcherie e vieni qua se vuoi vedere la natura e il vero colore». E gli mostrava decine di angoli di prati in fiore, e di campi di zucche mature, fotografati da lui con lastre a colori, e proclamava che valevano molto più dei suoi quadri.”, citato in Silvio Negro, Album Romano. Roma: Casini, 1956, p. 16. L’episodio fa il paio con quello ricordato nei Taccuini di Ugo Ujetti: “Lino Pesaro [il gallerista] mi parla di Michetti. L’ha veduto giorni fa al convento di Francavilla. Che cosa ha di pronto Senatore? Quanti quadri vuole! Me li mostri, e Michetti lo conduce davanti ad uno schedario con diecimila schede grandi di cartone (…) in un angolo  un numero” che rimanda allo schedario delle fotografie “Come vede, qui lei ha 10.000 quadri. Perché non li fa? Ma per me sono fatti. E per il pubblico? Non me ne importa niente. Dovrei eseguirli. Facile ma noioso. Io, li vedo perfetti.”, citato in Marina Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, in Francesco Paolo Michetti. Il cenacolo delle arti tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma – Francavilla al Mare, 1999). Napoli: Fondazione Michetti – Electa Napoli, 1999, p. 15. Anche Rodolfo Namias, La Fotografia in Colori. L’Autocromia. I Processi Fotomeccanici in Colori. La Cinematografia in Colori. Milano: Edizioni “Il Progresso Fotografico”, 1930 (V ediz.), p. 201 ricordava di “aver inteso lui stesso dalla bocca di uno dei più eminenti artisti italiani, il compianto pittore F.P. Michetti [1851 – 1929], esaltare l’utilità delle lastre autocrome. Egli, dopo aver applicato largamente l’ordinaria fotografia come ausiliario utilissimo, trovò nelle lastre autocrome un ausiliario ben più prezioso.”   E così proseguiva: “oggi colle lastre autocrome l’artista può ottenere una riproduzione fedele del soggetto in pochi secondi, e può poi studiare l’immagine a colori con maggiore comodità e in modo più preciso che nella natura stessa. Si può dire che la prova autocroma insegna a vedere i colori e dovrebbe essere considerata come mezzo efficacissimo di preparazione artistica.” (Ivi, p. 20, che in realtà si appropriava  – senza citarlo – di intere frasi di Luigi Pellerano, L’autochrome, cit., pp.127-129). Di diversa opinione fu certamente Giuseppe Pellizza, nel cui Fondo fotografico non sono state ritrovate autocromie, cfr. Aurora Scotti, a cura di, Pellizza e la Fotografia: il fondo fotografico. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2007.

[23] Svoltasi in concomitanza col XIII Congresso delle Società fotografiche francesi a Nancy, dal 18 al 25 luglio, cfr. Pietro Masoero, Pro Annuario, in “Annuario della Fotografia Italiana”, 1905, VII, p. 191. Il processo di fabbricazione delle lastre era ovviamente coperto da segreto, tanto che anche un tecnico esperto come Namias ancora nell’edizione del 1930 del suo manuale si trovava costretto a fare abbondante uso di termini condizionali (“presumibilmente (…) sarebbe (…) Tale scelta è fatta con processo meccanico non noto, ma forse…”, Namias 1930, passim.

[24] Il nuovo procedimento era stato presentato in Italia dagli stessi Auguste e Louis Lumière, Sopra un nuovo metodo d’ottenere la fotografia dei colori,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 1904, pp. 287-289.

[25] Leon Vidal, L’Art de peindre avec la photographie, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 6, giugno, pp.1-2.

[26] Armando Gandolfi, La fotografia dei colori, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 7, luglio, pp.13-15. Un atteggiamento diverso fu quello della rivista milanese “Il Progresso Fotografico”, che ancora nel 1908 e oltre pubblicava molte tricromie e insomma non parteggiava per i Lumière come i torinesi, forse influenzati (oltre che da legami di lunga data con la Francia) dalla presenza in città del concessionario per l’Italia del nuovo processo: la ditta Momigliano e Calcina, con sede in Via Bogino, 19 bis.

[27] “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n. 8, agosto, pp.122-128. L’attenzione di Mancini per la fotografia è testimoniata anche dalla sua relazione dedicata alla Fotografia stereoscopica, metodo Estenave, presentata al III Congresso fotografico italiano di Roma del 1911.

[28] Charles Holme, a cura di, Colour Photography and other recent developments of the Art of the Camera. London –  Paris – New York: “The Studio”, 1908.

[29] Charles Holme, Prefatory Note, Ivi,  p. A2. Anche in Italia c’era chi, da tempo, era convinto che “l’arte fotografica  deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro”,  Pietro Masoero, Studi e critiche: Arte fotografica, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 10 (1898), pp. 161-171 (p. 170).  Queste posizioni lo indussero a  prendere le distanze dalla “esagerazione della ricerca” degli esponenti del gruppo americano selezionato da Alfred Stieglitz per l’Esposizione torinese del 1902, mentre nella stessa occasione espresse apprezzamento per le opere di Giacomo Grosso, Guido Rey e Cesare Schiaparelli.

[30] Edoardo Bertone di Sambuy, Notes sur l’usage des plaques autochromes, “La Fotografia Artistica”, 5 (1908),, n. 1, gennaio, pp.7-9.

[31] Dixon Scott, Colour Photography, in Holme 1908, pp. 1-10; salvo diversa indicazione, sono tratte da questo testo tutte le citazioni seguenti.

[32] Ibidem, sottolineatura dell’autore. Lo stesso Pellerano, nel descrivere il tipo di fotografo cui era destinato il suo testo così si esprimeva: “In questo manuale noi battezziamo l’autocromista col titolo di pittore a macchina, ed a lui affidiamo l’ufficio di ritrarre dal vero, con le sue linee, colori e tonalità infinite, con senso d’arte per quanto permette la tecnica autocromatica, infondendo un po’ di sentimento suo individuale nel soggetto scelto, oppur composto. Che l’opera sua serva di documento sempre, cercando di emulare, ma superare mai la vera arte, ché almeno per ora l’affermare il contrario, ripetiamolo sempre, equivarrebbe a bestemmiare nel tempo dell’arte stessa.”, Pellerano1914, p. 399, sottolineatura mia.  Le parole non ingannino: nulla di più errato che attribuire a un’eco futurista questa definizione, che invece riproponeva in modo apodittico, con sintesi efficace e felice, il giudizio limitativo proprio di tutta la cultura ottocentesca e dal quale aveva tentato (e ancora stava tentando) di liberarsi il pittorialismo fotografico. Ben altro significato avrebbe avuto l’affermazione di Tristan Tzara nel 1922: “Io conosco un tale che fa dei bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica.”, La photographie à l’envers,  in Man Ray, Les champs délicieux, Paris, Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T. Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie. Torino: Einaudi, 1975, pp.73-75.

[33] Citato da Ernest Coustet, L’exactitude du coloris en autochromie, “La Fotografia Artistica” 9 (1912), n. 7, luglio, pp. 105-107, che imputa questa insufficienza all’imperfetto ortocromatismo dell’emulsione utilizzata.

[34] Antonin Personnaz, L’Esthetique de la plaque autochrome, relazione presentata al Congresso internazionale di fotografia di Bruxelles del 1910, pubblicata in “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n. 10, ottobre, pp. 161-162. Personnaz (Bayonne, 1854-1936) fu amico di numerosi impressionisti e loro precoce collezionista. Alla sua morte la collezione passò per legato al Museo del Louvre ed è ora conservata al Museo d’Orsay di Parigi, cfr. Anne Clark James, Antonin Personnaz: Art Collector and Autochrome Pioneer, “History of Photography”, 18 (1994), n.2, Summer, pp.147-150.  Alcune delle sue autocromie, donate dalla vedova alla Societé Française de Photographie, sono state presentate nella mostra Georges Seurat, Paul Signac e i neoimpressionisti, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 10 ottobre 2008 – 25 gennaio 2009), a cura di Marina Ferretti Bocquillon. Milano: Skira, 2008.

[35] Pellerano 1914, p. 432. Il ricorso al fazzoletto rosso quale richiamo cromatico si ritrova anche in Secondo Pia, come mostra l’autocromia Donna tra le ortensie, recentemente presentata alla mostra Secondo Pia fotografo della Sindone e del Piemonte, Torino, Palazzo Barolo, aprile 2009, a cura di Erica Bassignana. In altra parte del testo di Pellerano si fa esplicito il richiamo alla tradizione impressionista, i cui “criteri stabiliti non solo per felice intuito del vero, ma per profonda analisi di questo, hanno aperto una nuova via alla pittura contemporanea. La fotografia dei colori è venuta a formare la prova sperimentale (se pure occorreva) della giustezza di quei criteri [mostrando] tutto ciò che è sanzionato dai dogmi dell’impressionismo.” (Ivi, p. 390, sottolineatura dell’autore). L’apprezzamento per la pittura “contemporanea” espresso in questa occasione dalla cultura fotografica era ben lontano dalle condanne senza appello di un critico autorevole come Enrico Thovez, attivo anche in ambito fotografico come collaboratore del londinese “The Studio”, che proprio a proposito di pittura impressionista dichiarava che “l’arte di queste tele non solo è scesa mille miglia al disotto della fotografia, ma ha toccato i gradi più bassi dell’abbiezione del gusto e della degenerazione estetica.”, E. Thovez, L’arte di dipinger male, “La Stampa”, 7 gennaio 1909, parzialmente riprodotto in Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895-1920.  Milano: Unicredit, 2003, p.232.

[36] Premiato con diploma di medaglia d’oro per il Gruppo III – Classe 17 “La Fotografia nelle sue applicazioni – Fotografie stereoscopiche”, che comprendeva al suo interno anche il tema della “Riproduzione dei colori mediante la fotografia”, significativamente escluso dalla Classe 16 “Fotografia artistica”. Vinse anche il Gran Premio più L. 400 nell’ambito del Concorso Internazionale di Fotografia,  cfr. Esposizione internazionale di Torino 1911, Elenco generale ufficiale delle premiazioni conferite dalle Giurie internazionali. Torino, 1912. A conferma di una per noi incomprensibile scarsa propensione a cimentarsi pubblicamente nonostante i lusinghieri risultati ottenuti, segnaliamo che Fino non prese parte all’Esposizione internazionale di Fotografia artistica di Roma dello stesso anno.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili.”, Brand., Inaugurazione della Mostra fotografica,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99.

[38] Brand., La fotografia all’Esposizione di Torino,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 12, dicembre, pp.167-171 (167). Fino non venne segnalato da Gino Bellotti, La Fotografa artistica all’Esposizione di Torino, “Il Progresso Fotografico”, 18 (1911), pp. 307-311, testo già pubblicato dal “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, n. 9. Da altra fonte si ricava un elenco più dettagliato delle sue opere esposte nella sala III, (n°202): “Meditando, Nel parco, La rosa delle Alpi, Sull’altipiano, Ritratto di Signora, La pineta, Bosco in collina, Nell’Ungheria, Sotto i faggi, Dopo la tormenta, Sulle Alpi Graie, Ritratto di Signora, Nel regno dei larici, Tramonto, Lo stagno, Prato alpino, Ritratto del pittore Giacomo Grosso, L’alpe, Roccie muschiose, Alba grigia, Poesia autunnale, Felici alpigiani, Ritratto di Signorina, ecc.”,  Esposizione internazionale Torino 1911  p.15. Tra gli autocromisti, tra cui Pellerano, Vittorio Marchis e Michele Polito di Torino, Fino era il solo a presentare stereocromie, mentre qualcuno (come Giuseppe Battistini,  sempre di Torino) presentava già “fotografie a colori su carta ottenute con lastra autocroma.” Come si ricava dalla lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26, buona parte delle immagini esposte in quell’occasione potrebbero non far più parte del Fondo Fino conservato dagli eredi, sebbene la mancanza di titolazione autografa sulle lastre superstiti impedisca un riscontro puntuale. Scriveva Fino:  “le ho spedito N° 40 autocrome stereoscopiche (così precisamente si chiamano le fotografie di cui Ella vide qualche saggio a Torino) (…) La avverto che fra le 40 vedute, i N: 1-2-5-6-7-9-13-19-23-30-37-38 facevano parte della collezione che vinse alla ns esposizione di Torino il concorso internazionale di fotografia a colori e il Grand Prix.” Dall’elenco allegato si ricavano i titolo seguenti: 01, Stagno nel parco Nigra Torino;  02, Lago di Viano (particolare) Val di Viù;  05, Sull’altipiano di Benot (Val d’Usseglio) (la contadina è mia moglie) ; 06, Pantano al Pian della Mussa; 07,Lago Campagna presso Ivrea; 09, Rosa delle Alpi (presso Piazzetta di Usseglio); 13, Tonio al Benot Val di Viù; 19, Campo di cavoli (Ivrea); 23, Piano della Mussa (panorama) ; 30, Pilone presso Margone (val di Lanzo); 37, Prato alpino (Praly) Val Germanasca  Pinerolo; 38,Tonio e Giacomin al Benot.

[39] Ferdinando Fino, Copialettere con rubrica.  500 fogli, di cui 69 compilati dal 2 settembre 1912 al 14 giugno 1916. Manoscritto sino al 30 novembre 1915, quindi dattiloscritto. Rubrica muta; Torino, Archivio Fino.

[40] Il 10 maggio 1912, ad esempio, scriveva, in francese, ad Alfred Krolopp, di Budapest (forse identificabile col botanico docente alla Scuola reale di agricoltura di Magyar-Ovar), scusandosi per non avergli  ancora spedite le copie monocrome di alcune autocromie, e per farsi perdonare gli inviava nove diapositive “che può darsi non corrisponderanno ai vostri desideri poiché ho perso la nota che mi avete fatta di quelle che vi interessavano.”, Copialettere, p.4.

[41] Lettera a Italo Carboni del 9 febbraio 1912, Copialettere, pp. 1-2.

[42] Le difficoltà derivanti dai lunghissimi tempi di posa, analoghi e forse superiori a quelli della fotografia delle origini, erano ribaditi anche in una successiva occasione: “Una collezione quale io avevo all’Esposizione [del 1911], frutto di una scelta fra centinaia di prove, infatti essendo esse tutte a lunga posa, il minimo soffio di vento impedisce la riuscita, nei ritratti il movimento minimo della persona, l’atteggiamento duro o non naturale dato dall’obbligo dell’immobilità, o se si è all’aria aperta il cambiamento d’un ombra per lo spostamento d’una nube (…) congiurano contro il povero fotografo che talvolta fa una dozzina e più di vedute senza avere neppure una che lo soddisfi! E senza la possibilità di trarre una copia d’una prova riuscita!” Lettera a Italo Carboni del 30 maggio 1912, Copialettere, p.  8. Secondo le indicazioni fornite da Pellerano1914, la realizzazione di un ritratto in esterni (ma con lastra 18×24) richiedeva ben 6 minuti.

[43] Evidentemente Fino non era a conoscenza del metodo messo a punto dagli stessi Lumière, e ampiamente utilizzato dagli studi professionali, di riprodurre le autocromie utilizzando altre lastre autocrome.

[44] Lettera a Italo Carboni del 17 maggio 1912, Copialettere, pp. 5-6.

[45] Guido Rey, Fotografia inutile, 1908, ora in Paolo Costantini, Italo Zannier, a cura di Luci ed Ombre.  Gli annuari della fotografia artistica italiana  1923-1934. Firenze: Alinari, 1987, pp.64-65.

[46] Lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26.

[47] Lettera a Carboni del 9 febbraio 1912, Copialettere, pp. 1-2. La lettera contiene anche interessanti istruzioni relative alle modalità di osservazione delle autocromie: “le lastre devono essere viste colla parte grigia verso il suo occhio e colla parte nera dall’altra parte, al fine di vedere la veduta dalla sua giusta parte. Però a parer mio, quando si tratta di paesaggi non tipici, pei quali non muta vederli a rovescio, come piacevoli particolari di boschi, fiori ecc., i colori sono più brillanti guardandoli dall’opposto lato.”

[48] “Ho speranza di presto mandarle qualche cosa di bello (…) Potrebbe darsi che certe vedute di montagna che le manderò, abbiano ad interessarla, intanto farò il possibile di prepararle delle vedute di chiese.” Lettera a Carboni del 14  giugno 1912, Copialettere, p. 10.

[49] Lettera a Carboni del 26 giugno 1913, Copialettere, p. 28. Le prime pratiche erano state avviate nel settembre dell’anno precedente. Il 16 luglio dello stesso anno gli era stato concesso il permesso di fotografare anche l’Armeria Reale, cfr. Visite e permessiPermessi,  fascicolo n. 865, n. prot. 4197; n. d’ordine 2339, 16/07/1913, Permesso a Ferdinando Fino di fotografare l’Armeria, consultabile all’indirizzo http:// www.artito.arti.beniculturali.it /Armeria%20Reale/ 6SALA/ ArchivioStorico.asp? PageNo=1369&Mv=Avanti (06-04-10).

[50] Lettera a Carboni del 14 agosto 1913, Copialettere, pp. 31-33. Le riprese effettuate da Fino sono tra le rare testimonianze fotografiche degli interni dei Palazzo Reale all’inizio del XX secolo e certo, almeno per quanto sinora noto, le prime realizzate a colori, cfr. Cesare Enrico Bertana, Palazzo Reale com’era … 1900-1920. Torino: Associazione Amici di Palazzo Reale, 2002.

[51] Secondo gli studi tecnici riportati in Namias 1930 p.165, “La lastra [autocroma] lascia passare circa 1/10 della luce che la colpisce.” Quindi aumenta in misura esponenziale il tempo di posa necessario per la sua corretta esposizione, calcolato in circa 80 -100 volte quello di una lastra monocroma rapida, valore che si approssima a 200 lavorando in ambienti chiusi. A dimostrazione di quanto una ripresa di questi soggetti costituisse un risultato virtuosistico altamente apprezzabile, lo stesso Pellerano pubblicava tra le tavole f.t. del suo manuale un’analoga ripresa della Galleria Beaumont dell’Armeria Reale, dichiarando un tempo di posa di 90 minuti, cfr. Pellerano1914, p. 462 f.t. Di quali fossero le effettive difficoltà di esecuzione delle riprese in Armeria anche con le ben più rapide lastre alla gelatina ci rimane testimonianza nelle parole di Giovanni Assale, direttore dello stabilimento Berra “Fotografia Subalpina” cui era stato affidato il compito di realizzare le fotografie per l’edizione dei tre volumi Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino, Milano, Eliotipia Calzolari e Ferrario [1898], con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna. Nel gennaio del 1897 Assale comunicava ad esempio che “Sarà cura del sottoscritto di non lasciar trascorrere inutilmente la futura propizia occasione di una nevicata per la esecuzione delle negative degli interni della Galleria e della Rotonda”. A queste si aggiunsero le prescrizioni dello stesso Avogadro di Quaregna che – su indicazione del fotografo –  annoverava tra le difficoltà da superare per la realizzazione del progetto “anche quella della difettosa illuminazione interna (…) che per scarsità di luce e per i molti riflessi non si addice alle riproduzioni fotografiche. Onde eliminare sì fatto inconveniente si dovette addivenire alla costruzione di una forte impalcatura provvisoria nell’interno dello scalone ove la luce è più abbondante e propizia”,  oltre a disporre una tenda di percalle bianco al “gran finestrone nello scalone” e una “tenda oscura per la finestra attigua alla galleria della Prefettura per impedirne la luce”, mettendo a disposizione del fotografo il “personale di fatica occorrente al trasporto dei monumenti equestri sopra l’impalcata dello scalone e rimettere nella galleria dopo la loro riproduzione fotografica.”  Per la ricostruzione analitica delle diverse campagne di documentazione fotografica dell’Armeria Reale di Torino rimando a P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Paolo Venturoli, a cura di, Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898. Torino: U. Allemandi & C., 2003, pp. 79-98.

[52] Lettera a Carboni del 21 agosto 1913, Copialettere, p. 34.

[53] La lettera indirizzata a Emanuele Celanza del 16 marzo 1912 contiene una nota spese per “n° 12 autocromie 13×18 riproduzioni quadri Avondo £ 4 cadauna”, Copialettere, p. 11. Le autocromie, sinora non reperite, devono certamente essere messe in relazione con la pubblicazione presso lo stesso editore del saggio di Enrico Thovez, L’opera pittorica di Vittorio Avondo. Torino: Celanza, 1912, illustrato però da riproduzioni monocrome. Secondo i dati forniti da Pellerano 1914, p. 226, 4 lastre 13×18 costavano L.7.

[54] “sempre in attesa di ric[evere] vs. commissioni, mi sono messo all’opera [per] studi artistici di nudi. La stagione piovosa mi ha impedito di dedicarmi a paesaggi (…).”, Lettera a Canova del 4 marzo 1912, Copialettere, p. 3.

[55] Si veda ad esempio il Nudo nel bagno di Leon Gimpel, in Il colore della Belle Époque: i primi processi fotografici diapositivi, catalogo della mostra (Venezia, 1982), a cura di Silvio Fuso, Sandro Mescola. Venezia: Comune di Venezia, s.d., [1982], t. 6.

[56] Si veda L’Art du nu au XIX siècle: le photographe et son modèle, catalogo della mostra (Parigi, Bibliothèque nationale de France 1997-1998). Paris: Hazan, 1997. Resta un’affascinante eccezione nella fotografia di nudo tra XIX e XX secolo, la naturalezza con cui Pierre Bonnard fotografava la sua compagna e modella, cfr. Françoise Heilbrun, Philippe Néagu, Pierre Bonnard Photographe. Firenze: Alinari, 1988.

[57] Si veda Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 1990- 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Milano: Fabbri, 1990. Non solo le date dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio che le autocromie non possono che derivare dai dipinti di Grosso, più che buon fotografo egli stesso che quindi mai avrebbe avuto bisogno di ausili esterni. Le prime notizie relative alla sua attività fotografica risalgono al 1894, quando presentò all’Esposizione Internazionale di Fotografia promossa dal Circolo Fotografico Lombardo di Milano, riproduzioni di “quadri e statue” oltre a “ritratti ai sali di platino di buona fattura”, quindi all’ Esposizione torinese del 1902, che lo vide tra gli autori più considerati, specialmente quale ritrattista. (Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso 1990, pp. 21-24. Le sue fotografie di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi, furono tanto apprezzate da Schiapparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea.”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909, I parte,  “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nel suo studio, sottolineando come il pittore “nei suoi ritratti fotografici segue la via tracciata dall’artista che lui ama così profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno.”, Enrico  Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, a cura di, Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London, 1905, pp. I.3-I.8, come confermano sia il ritratto di Cesare Reduzzi pubblicato nelle stesse pagine sia quello di Celestino Gilardi pubblicato ne “La Fotografia Artistica” a corredo del suo necrologio. Risulta perciò difficile accostare a queste prove gli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino e a suo tempo pubblicati da Miraglia 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute. Anche Pietro Masoero, come si è accennato, recensì entusiasticamente le opere di Grosso presentate all’Esposizione del 1902, cfr. Paolo Costantini, Giacomo Grosso, in Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994, scheda n. 61.

[58] “Riguardo al quadro che Ella desidera (Veduta n°11) – gli scrisse Petiti da Roma – credo che le ho domandato un prezzo da amico per una esposizione anche in quella misura 76 ½ x 55 non sarebbe meno di 600 lire perché il soggetto è difficilino e molto complicato e richiederebbe un certo tempo per farlo, impossibile essendo di dipingerlo alla prima. Le modificazioni da lei desiderate per trasportare il soggetto da destra a sinistra si possono fare per primo perché all’artista non mancano mai le risorse e qualche volta anche le licenze poetiche. Insomma io spererei che il quadretto riescisse tutto di suo gradimento … ma … Però siccome intendo ancora una volta dimostrarle la mia gratitudine glie lo farò per 200 lire (…) Potrò ancora tenere presso di me tutte le sue lastre? (…) Questa sgrammaticata lettera è talmente scritta male che dovrei rifarla ma non ne ho il tempo né la voglia. Mi perdoni.”, Lettera di Filiberto Petiti del 9 aprile 1916, Archivio Fino, Torino. Impossibile identificare il dipinto in questione, ma tra le opere di Petiti possedute da Fino ritroviamo un Monte Lera (Usseglio) che risulta essere la trasposizione dell’autocromia Sui pendii di Usseglio [26886]. Un altro cenno, purtroppo ancora generico, era già contenuto in una lettera di Fino del 1913:“Se Ella dovesse recarsi a Torino mi faccia il favore d’una sua visita e le farò vedere qualche lastra che certo però non venderei avendo servito a pittori celebri come documento per quadri che stan facendo.”, (Lettera a Carboni del 21 agosto 1913, Copialettere, p. 34). I legami e le suggestioni reciproche tra cultura pittorica e fotografica in ambito torinese nei primi decenni del Novecento, per larga parte ancora da studiare analiticamente, sono ben testimoniati dalle pagine di un periodico autorevole quale “La Fotografia Artistica”, che mantenendo fede al proprio impegno programmatico non di rado pubblicava riproduzioni a colori di dipinti sotto forma di tavole fuori testo (nel luglio 1906, ad esempio, Un torrente, proprio di Petiti; a settembre dello stesso anno una Pastorella di Michetti). Lo stesso periodico dedicò ben cinque numeri, di fatto monografici, alle opere esposte alla II Esposizione Quadriennale di Belle Arti – Torino 1908, con testo critico di Ernesto Ferrettini, critico d’arte de “La Gazzetta del Popolo”, poi de “La Stampa”, già autore del saggio Artisti nelle Valli di Lanzo, compreso nel volume edito dal Club Alpino Italiano  nel 1904.

[59] Namias 1930, p. 202.

[60] “Noti che bisognerà guardare le vedute in uno stereoscopio di centimetri 6×13, che tale è il formato delle fotografie e i veri colori naturali appariranno colla più grande verità quando si guardi la veduta avendo di rimpetto a noi o delle nuvole bianche o un muro o un lenzuolo bianco su cui batta il sole. Contro il cielo sereno avremo una diffusione di azzurro , e contro pareti in ombra un eccesso di grigio e deficienza di illuminazione.”, Lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26.

[61] Filiberto Petiti, Nel bosco, 1914 ca, olio su tela, Roma, Accademia Nazionale di San Luca.

[62] Ernesto Baum, Il «genere» in fotografia, “La Fotografia Artistica”, 10 (1913), n.1, gennaio,pp. 12-14.  Questo testo dovette costituire un riferimento importante per Stefano Bricarelli, che avviava le sue considerazioni critiche a partire dalla constatazione che in Italia la maggior parte dei dilettanti “che meritano veramente questo nome” non si dedicano alle “scene animate” sebbene “in nessun altro paese il pittoresco è stato sparso così a piene mani [e] non si conosce in niun altro luogo una vita così varia e pittoricamente interessante (…). Ma – proseguiva – una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…) Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata.” Per “fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  di un quadro (…) Scelto rapidamente il motivo (…) occorrerà procedere ad una coraggiosa opera di selezione e di eliminazione. (…) In un istante, con gli elementi che avrà riconosciuto necessari ed opportuni, la mente costituirà, organizzerà per così dire, idealmente il quadro, determinandone il taglio, fissando l’importanza relativa delle masse, equilibrando il gioco delle luci e delle ombre; sarà allora di grande aiuto per fare immediatamente avvertire ogni squilibrio e ogni deficienza dell’insieme e porvi rimedio quel senso quasi istintivo della composizione, che molto si acquista osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative.”, Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 8, agosto, pp. 225-2260, sottolineature dell’autore.

[63] Pellerano 1914, p. 432.

Di un Viaggio in Italia, passando per il Piemonte  (2008)

in Sabina Canobbio, Tullio Telmon, a cura di, Paul Scheuermeier. Il Piemonte dei contadini 1921-1932,  II, Le province di Alessandria, Asti, Biella, Cuneo, Novara, Verbania, Vercelli. Ivrea: Priuli & Verlucca, 2008, pp.  319-331

 

L’immagine è semplice: al muro di fondo, basso, coronato di fogliame, con belle pietre squadrate all’angolo destro (il solo visibile) sono poggiati in bell’ordine alcuni oggetti: una scopa di saggina, una vanga, una forca a tre rebbi sul filo dello spigolo. A terra, un poco sulla destra, un annaffiatoio in metallo. Nessuna presenza ulteriore, nessun indizio che consenta di definire meglio il contesto, sebbene la disposizione niente affatto casuale degli attrezzi lasci intendere una certa cura, se non proprio un’ intenzione estetica a orientare le capacità descrittive proprie della tecnica fotografica.  Questo “angolo di muro soleggiato con attrezzi da giardino”, come lo descrisse John Herschel, porta la data del 2 maggio 1840 e la firma prestigiosa di William Henry Fox Talbot[1]. “Wall in Melon Ground, come l’autore identificava il proprio negativo, realizzato ancora con la tecnica del disegno fotogenico, è il primo esempio noto di natura morta fotografica con oggetti quotidiani, poi ripreso dallo stesso autore in The Open Door, 1844,  per la quale Larry J. Schaaf ha parlato di influenza evidente della pittura olandese del Seicento. Insieme costituiscono il prototipo se non proprio il modello, da ricercarsi semmai nella storia della pittura, di una vasta genealogia di immagini, e di modi di vedere, di cui è agevole ritrovare traccia ancora nelle fotografie di Paul Scheuermeier, e oltre.  

Nella produzione degli autori che hanno utilizzato il negativo di carta[2], e ancora in Talbot, si trovano anche i primi esempi del genere poi ampiamente frequentato delle scene di lavoro. Penso a Carpenters at Lacock Estate, del 1842-1845 (Bernard 1981, t. 1), ma anche a The Woodcutters – Nicole and Pullen Sawing and Cleaving, circa degli stessi anni (Schaaf 2000, p. 226), con la posa che mostra strumenti e gesti, con declinazioni e variazioni sul tema che dipendono e riflettono l’insieme complesso e ogni volta diverso costituito dai nessi tra il contesto di realizzazione, le ragioni e la cultura non solo visiva di ciascun autore. Sin dalle origini della fotografia infatti si ritrova “una miriade di esempi di significative convergenze tra l’occhio e i suoi prolungamenti e le teorie e le pratiche antropologiche”  (Faeta 2006, p. 11), che nello stesso periodo andavano definendo compiutamente le loro metodiche, anche mediante il ricorso sempre più consapevole e strutturato all’uso della fotografia[3].  Per gran parte del XIX secolo fu però un’intenzione che chiameremo genericamente ‘artistica’ a orientare l’attenzione dei fotografi verso temi e soggetti di carattere popolare, producendo immagini da vendersi a pittori e incisori, come agli epigoni del Grand Tour.  Per limitarsi all’Italia basti ricordare le opere di professionisti come Celestino Degoix a Genova, di Caneva e altri della Scuola romana, di Bernoud, Conrad  e Sommer a Napoli (anche nelle successive riproduzioni romane di Cesare Vasari), di Incorpora a Palermo[4]. In questa prima fase, che perdura per tutta la cosiddetta età del collodio, almeno sino al penultimo decennio dell’Ottocento, l’ambito resta quello della fotografia di genere, in relazione di mutua dipendenza con molta produzione pittorica coeva. Con una forte inclinazione per lo stereotipo e per il bozzetto pittoresco quindi, ma pure con una sua certa sistematicità e con l’inevitabile capacità intrinseca di restituirci almeno qualcosa, una qualche traccia di mondi e di modi di essere altrimenti inconoscibili.

Ben più complessa è stata la trama dei rapporti tra cultura fotografica e demologia[5] nei decenni che chiudono l’Ottocento, quando molta fotografia amatoriale rivolse la propria attenzione al mondo popolare, specialmente contadino, mentre la produzione dei grandi studi persisteva in una produzione di accattivante maniera;  valga per tutti l’esempio degli Alinari che nella serie di riprese napoletane del 1896-1897 rischiarono “di trasformare la realtà di una crisi sociale in un sistema di bozzetti di singoli mestieri.” (Quintavalle 2003, p. 410)  Le nuove possibilità offerte dalle emulsioni sensibili alla gelatina bromuro d’argento e il conseguente smisurato ampliarsi della pratica fotografica amatoriale tra la borghesia, per quanto piccola, e la nobiltà terriera inducevano e consentivano una produzione nuova, attenta all’intorno, alle figure del quotidiano e dei mestieri, che si distingueva in modo sempre più marcato (e sovente esplicito) dalla precedente fotografia professionale  di genere. Si sarebbe tentati di dire che con gli amateur la costruzione dell’icona passava in secondo piano, resa semmai implicita a favore di una narrazione della tranche de vie  che comportava di rivolgere l’apparecchio, e  lo sguardo prima verso quel mondo popolare con cui per ragioni e con ruoli diversi ciascun nobile, o borghese persino non poteva non entrare in contatto. Tutti incontravano qualche donna con la gerla, una qualche (bella) lavanderina[6]; tutti conoscevano un vecchio pescatore col corpo segnato dalla fatica e dalla salsedine; un massaro, un pastore  almeno.  Tutti li fotografavano anche senza chieder loro una posa: osti, elettricisti, falegnami e farmacisti, i molti sacerdoti attivi in tante piccole comunità del nord, ma anche i rappresentanti della più colta e letteraria “fotografia signorile”[7], meridionale e non solo. Quasi etnografi loro malgrado, in una singolare concordanza di tempi, che non può essere coincidenza, con quanto la cultura antropologica italiana, specialmente nell’ambito della cosiddetta “scuola fiorentina”, andava elaborando a proposito di uso documentario della fotografia.

Enrico Morselli, commissario per la Sezione di Antropologia dell’Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884,  raccomandava  di usare la fotografia “dal punto di vista antropologico” innanzitutto per ritrarre l’uomo “di faccia e di profilo” con intenti antropometrici, quelli stessi che accomunavano Bertillon e Lombroso, riconoscendo però che “alle fotografie scientifiche sarà utile aggiungere ancora quelle artistiche, prese cioè coll’atteggiamento naturale e libero degli individui ritratti e possibilmente nei loro costumi o fra strumenti ed utensili caratteristici della loro regione e della loro classe sociale”[8]. Era  proprio in questa seconda accezione, lontana dalla crudele e metodica scientificità di cui gli studiosi si riservavano – almeno in questa prima fase[9] – l’appannaggio,  che la cultura dell’epoca coglieva una possibilità di dialogo, un possibile ruolo da assegnare ai dilettanti, esplicitamente invitati da Giulio Fano a rilevare nelle varie regioni di appartenenza quei tratti caratteristici della cultura e delle manifestazioni popolari che erano a rischio di estinzione per la forza “livellatrice” della “civiltà di fine di secolo (…) sotto l’influenza imperiosa, eminentemente  suggestiva della moda”[10].  La questione venne ripresa e precisata da Lamberto Loria, anch’egli membro della Società Fotografica Italiana, che raccomandava non solo che  le immagini fossero ottenute “per quanto possibile di sorpresa (…) perché nelle persone fotografate non abbiano a mostrarsi (…) atteggiamenti intenzionali”, ma anche che esse venissero integrate “di quelle indicazioni di luogo, di tempo e di misura che sono indispensabili a dare all’oggetto illustrato il suo vero carattere.”[11]  Sul rifiuto della  posa convenivano negli stessi anni anche alcuni fautori della fotografia artistica (in una delle molte accezioni che il termine assunse a cavallo tra Otto e Novecento). Così sulle pagine del “Progresso Fotografico”, nel 1906, si stigmatizzava l’opera di un amateur  “gran fautore dell’istantanea colla quale cerca di cogliere le più interessanti scene della vita cittadina e campestre. Ma anche a lui non riesce talvolta d’evitare che gli attori della scena assumano pose che guastano l’effetto” (Redazionale 1906),  e pochi anni più tardi  Stefano Bricarelli riconosceva a proposito della buona riuscita di scene animate che “una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…). Condizione questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata” (Bricarelli 1913). A questa convergenza di modi, pur con ragioni sottilmente diverse, corrispondeva anche un’unità di intenti che diremmo di conservazione contraddittoriamente nostalgica delle tracce di quel “mondo umile ma pur tanto artistico [i cui] costumi agonizzano sotto i colpi dell’industrialismo dominante”[12], che aveva caratterizzato sin dal periodo post unitario i programmi  e l’opera di organismi quali il Club Alpino Italiano (1863) e poi il Touring Club Italiano (1894), così come di molte altre forme minori di associazionismo ricreativo e culturale.

In questo contesto va collocata e compresa anche la serie fotografica dedicata ai Villaggi e montagne della Val d’Ala che il musicista Leone Sinigaglia, di cui è nota l’attenzione per i canti popolari piemontesi[13],  aveva presentato all’Esposizione di Fotografia Alpina[14] organizzata dal CAI nel 1893 a Torino, ma l’esempio più illustre e compiuto di questa etnografia ideologica, di questa demologia, è il volume che Vittorio Sella e Domenico Vallino[15] dedicarono al Monte Rosa e Gressoney, pubblicato nel luglio 1890 con un ricco apparato di  tavole fuori testo da fotografie di Sella ed immagini nel testo dovute ad entrambi gli autori. “Il traffico più attivo – si legge nell’introduzione all’Album – cancellerà la fisionomia pastorale, la semplicità di costumi, la foggia particolare di vestire, il dialetto svizzero-tedesco, l’esclusività dell’elemento locale nelle famiglie; porterà un livello medio di civiltà, percorrendo il cammino che il filosofo chiama evoluzione naturale, che l’artista deplora, per la monotonia che ne deriva al quadro della vita umana” (Monte Rosa 1890, p.5). Erano quelli i caratteri che i due autori indagavano e descrivevano con affettuosa attenzione, ripercorrendone le vicende storiche e le forme culturali, esemplificate nella rappresentazione di ambienti e strumenti di lavoro. A questo accompagnando la registrazione delle forme dialettali  attraverso la raccolta dei termini relativi agli strumenti di lavoro, ma anche con la trascrizione di “alcune delle ultime canzoni cantate dalla gioventù, le quali forse non lo saranno più alla fine del secolo [poiché] l’afa che sale dalla pianura, con le maggiori facilitazioni di traffico, non tarderà ad intisichire anche questo fiore presso le sorgenti del Lys” (Monte Rosa 1890, p.53). Il corredo di immagini rivela però intenti più incerti, mostra oscillazioni continue tra il preteso rigore analitico della descrizione e le concessioni al pittoresco dei “quadretti graziosi” e delle “figurine moventesi nel paesaggio verdeggiante”, non senza ricorrere alla pratica del fotomontaggio per risolvere compositivamente un’immagine solo apparentemente documentaria, per rendere più efficace la messa in pagina di una sequenza narrativa. (Dragone 2000, pp.274-275).

Si producevano così testimonianze a futura memoria, quasi un’archeologia del presente, segnate però da quella tensione irrisolta tra razionalità e pittoresco che ritroviamo in molta della fotografia ‘artistica’ di soggetto popolare dei successivi decenni. Non è difficile infatti cogliere in molta di quella etnografia pittorialista un tono passatista: per molti di questi autori non si trattava di comprendere analiticamente una cultura in radicale e definitiva trasformazione, ma di illustrare, celebrare e magari conservare in effigie i reperti di un’arcadia in dissoluzione, proprio negli anni dei primi significativi conflitti sociali. L’attenzione non era ancora rivolta al territorio in mutazione, alle nuove strutture produttive, industriali o agricole, alla città che sale della modernità nascente, ma a ciò che resisteva al cambiamento, residuale e tradizionale, primitivo quasi. “L’etnografia generale – nelle parole pronunciate da Loria in apertura del I Congresso di Etnografia italiana del 1911 – può e deve servire allo studio del nostro popolo perché come il selvaggio ha analogie con l’uomo primitivo, così le nostre classi meno evolute, rimaste indietro nel cammino della civiltà, conservano ancora, nascosti e sopiti, taluni degli istinti e dei caratteri delle genti selvagge”[16].  Era questo il terreno insicuro su cui si muovevano negli stessi anni le pratiche della fotografia artistica e di quella documentaria o scientifica, con confini non immediatamente tracciabili e per molti versi inesistenti, che rappresentano piuttosto l’esito di una storiografia che ha postulato una dicotomia allora non chiaramente percepita né unanimemente condivisa. Se Rodolfo Namias lamentava quanto “l’odierna esaltazione per la fotografia artistica [avesse] sviato molti dilettanti dalle raccolte fotografiche documentarie [tanto che] nelle esposizioni tale genere di fotografia si fa sempre più raro con danno della cultu­ra” (Namias 1907), per il  francese Alfred Liégard,  promotore della costituzione degli Archivi Fotografici Nazionali, “l’art et le document peuvent, et même doivent, s’entendre sur le terrain de la photographie (…). Le photographe artiste devra-t-il donc négliger le document? Pour ma part je ne crois pas. Il ne lui est nullement défendu de traiter artistiquement le document (…).  Il me semble qu’ à notre époque, avec ce merveilleux instrument que nous avons qui s’appelle l’appareil photographique, c’est un devoir pour tous de ne pas laisser périr entièrement, sans même en conserver l’image puisque nous le pouvons, tout ce qui fait partie à un titre quelconque de l’histoire du pays où nous vivons.” (Liégard 1905). Nessuna contrapposizione allora, ma la consapevolezza pur non criticamente attrezzata delle possibilità inscritte nello statuto della fotografia, della sua capacità di mostrare al di là delle intenzioni e dello sguardo dell’operatore, di costruire immagini disponibili a diverse interpretazioni e letture: dal realismo al  simbolismo[17]. Era questa scrittura fecondamente ambigua che aveva attratto Verga, Capuana e De Roberto, quella con cui aveva signorilmente giocato Giuseppe Primoli; quella a cui si era dedicato Francesco Paolo Michetti nel più generale richiamo ideale alla semplicità del sentire proprio di molta cultura ottocentesca, alla sua diffidenza  e resistenza, quando non al rifiuto dell’industrialesimo. È quanto abbiamo già potuto riconoscere nel progetto di Sella e Vallino; è uno degli elementi che nutriva il neoclassicismo, per alcuni metafisico,  di molti autori della scuola di Taormina e di Wilhelm von Gloeden in particolare, di cui intorno al 1900 venivano pubblicate immagini di soggetto popolare sulle pagine de “Il Progresso Fotografico” e quindi sul “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, tra 1909 e 1914[18]. Erano queste, insieme alla torinese “La Fotografia Artistica”, le testate che  divulgavano e attraverso cui si confrontava la produzione fotografica italiana, e internazionale in parte, che in modi diversi si richiamava alla fotografia pittorialista con più o meno esplicite attenzioni per il mondo popolare, senza dimenticare il rilevante ruolo svolto dagli editori di cartoline. Penso a Cesare Schiaparelli[19] e ad altri autori minori biellesi come Franco Bogge; penso a Luciano Morpurgo, che nel 1917-1923 realizzò una importante serie dedicata al pellegrinaggio al Santuario della Trinità a Vallepietra, nella Valle dell’Aniene, attratto negli anni precedenti da soluzioni marcatamente pittorialiste[20], ma specialmente ad Andrea Tarchetti,  notaio vercellese le cui Scene di vita e di lavoro ebbero ampia diffusione sulle pagine di quelle riviste[21]. Anche la sua descrizione della vita rurale mostra un approccio sempre in biblico tra bozzettismo e documentazione:  il documento si mescola alla scena di genere e a volte ne emerge con fatica, quasi solo per l’incapacità strutturale della fotografia a escludere il reale, in un processo che direi inverso a quello di molta fotografia etnografica, inevitabilmente segnata dalla cultura visiva del suo tempo. Le fotografie di Tarchetti, segnalate ai lettori quale esempio di eccellenza, venivano pubblicate da “Il Progresso Fotografico” come tavole fuori testo, dal 1904 stampate dallo Stabilimento eliografico Brunner & Co. di Como, avviato proprio in quell’anno da Jacques Brunner come filiale della Brunner & Co. Kunstanstalt di Zurigo, da anni tra i più qualificati stampatori europei, a cui si era rivolto nel 1890 anche Vittorio Sella per la realizzazione dell’album dedicato al Monte Rosa.

Lo stabilimento Brunner, noto editore anche di cartoline, era quindi uno dei luoghi in cui si concentrava e transitava molta della produzione fotografica italiana ed europea destinata alla pubblicazione; una delle sedi in cui migliore era la possibilità di conoscerla. Non è necessario abbandonarsi ad un rigido meccanicismo per immaginare quanto possa aver contato per il giovane Scheuermeier, nel formarsi una propria cultura visiva, lo stretto e duraturo legame con i cugini Brunner, per i quali – come è noto – lavorava sin dal 1895 come fotografo il fratello Willy, che Paul accompagnerà in un memorabile viaggio in Italia nel 1909 “Da Como fino in Sicilia secondo i desideri dei clienti e le necessità dell’azienda” (Scheuermeier 1969, p. 335). Se lo scopo del viaggio fu quello di “reperire nuovi soggetti” allora possiamo veramente riconoscerlo come l’asse portante del suo percorso di formazione fotografica, non solo e non tanto per l’acquisizione sul campo dei necessari rudimenti tecnici, quanto per l’assimilazione dei canoni di rappresentazione che comportava l’assistere alla scelta dei soggetti e delle vedute destinate all’edizione in cartolina. In assenza di specifiche indicazioni di prima mano credo che l’orizzonte entro cui può essersi formata la cultura visiva che si rivela nei modi e nelle scelte compositive delle sue immagini[22], sia da individuarsi nel contesto qui sommariamente delineato per l’ambito italiano; certo non troppo dissimile da quello europeo quale ci viene restituito dai periodici fotografici e dai cataloghi delle esposizioni coeve.

A questi possiamo aggiungere i modelli forniti dalle organizzazioni tassonomiche di oggetti tipiche dei cataloghi illustrati delle grandi collezioni museali come dei campionari industriali e artigianali,  ma soprattutto – credo – il riferimento costituito dalle riprese del suo maestro Jaberg, che già aveva fatto uso di fotografie nel corso delle sue ricerche in Piemonte (Gentili 1997, p. 19) e che fu suo costante punto di riferimento anche metodologico nel corso dei lunghi anni di peregrinazioni per la preparazione dell’AIS.

Quando attraversava la frontiera con l’Italia nei “primi drammatici giorni” del luglio 1920,  dopo le rilevazioni nel Cantone dei Grigioni, Scheuermeier possedeva certo la preparazione tecnica e il supporto logistico[23] necessari a condurre al meglio la campagna fotografica prevista a corredo e supporto dell’indagine linguistica. Possedeva anche una sua propria cultura visiva, mentre gli scopi e il metodo si sarebbero precisati e affinati nel corso del lavoro[24].

Inattese forse, e solo in parte dovute al clima incerto di quegli anni di primissimo dopoguerra,  furono invece le reazioni alla sua presenza di “straniero con la macchina fotografica”, impreparato  “ad avere sulla [sua] scia la voce sussurrata che [fosse] una ‘spia’ ” (Scheuermeier 1969, p. 342), obbligato quindi a rivolgersi al viceconsole svizzero a Como al fine di ottenere per suo tramite i permessi necessari a superare le prescrizioni di polizia[25].

Stupisce al contrario la grande disponibilità delle persone ad accondiscendere alle imposizioni registiche di Scheuermeier, tranne rare eccezioni:  “A Bagolino non mi è stato possibile fotografare un uomo in calzoni corti (…)  – scrive a Jaberg nel dicembre 1920 – tutti se ne scappavano, non ho potuto metterne neanche uno davanti alla macchina fotografica.” (in Caltagirone, Sordi 2001, p. 22) e ancora:  “con estrema difficoltà e solo grazie alle esortazioni dell’informatore mi è stato possibile portare delle ragazze davanti all’apparecchio fotografico. Tutte scappavano per timore che se ne facessero cartoline.” (ibidem). Scrivendo poi a Jud da Cuneo nel settembre del 1922, a proposito di una veduta di Via Roma con persone in posa in primo piano: “Un altro fotografo sfortunato: la gente fa attenzione alla sua posizione.” (Canobbio, Telmon 2007, p. 48).

Questa sintetica notazione, quasi di sfuggita, individua il nodo problematico della relazione tra operatore e soggetto, tra fotografo e fotografato e, più in generale,  richiama tutte le implicazioni poste dalla scelta tra messa in posa e istantanea, tra osservazione partecipata e “immagine rubata”, riflettendosi anche sul rapporto complesso tra rappresentazione e autorappresentazione. Cosa poteva significare per quei ‘contadini’ la richiesta portata da quell’estraneo, straniero e colto che era Scheuermeier? Che funzione poteva svolgere nel loro sistema sociale e simbolico? Che ruolo era consentito loro di assumere (o di recitare) al momento della ripresa? Non ci è dato saperlo, se non provando a misurarci – non qui, non ora – con l’esercizio poetico dell’interrogazione a distanza di quelle decine di sguardi rivolti all’operatore.

Mettere in posa equivale a mettere in scena, a ricostruire una rappresentazione formalizzata dell’azione e del gesto collocandola in un contesto strutturato di indagine, con evidenti corrispondenze con l’uso del questionario.  Non esistevano infatti a quella data ragioni tecniche per escludere l’uso dell’istantanea, ma la  posa gli consentiva di riunire sinteticamente la maggiore quantità di informazioni possibili; soprattutto svincolava il tempo della ripresa dal tempo del lavoro, dalla stagione e dal calendario, recuperando infine gesti e strumenti ormai fuori dal tempo: inutilizzati. Sebbene restasse memoria del suono del loro nome.[26]

In questa scelta Scheuermeier ha rivelato una sorprendente modernità, ormai dimentica delle concezioni tardo ottocentesche. Se “l’istantanea riconduce al quadro critico dell’osservazione non esplicitata o dichiarata [poiché] le istantanee sono immagini che rinviano al loro autore, e segnalano un intento di esclusione dell’oggetto rappresentato dal procedimento creativo” (Faeta 2003, p. 114), mettere in posa vuole dire dichiarare il proprio esserci. Solo così è possibile porsi quale “presenza sociale in quel mondo” (Counihan 1980, p. 28), se non proprio agire da osservatore partecipante, come andava facendo circa gli stessi anni (1915 – 1918) Bronisław Malinowski, che ricorreva alle fotografie non solo come strumento di controllo e verifica delle note di lavoro ma anche quale mezzo di comunicazione non verbale con l’altro, come sarebbe stato in parte per Scheuermeier e soprattutto per Ugo Pellis[27]. Una relazione comunicativa in cui l’immagine genera la parola, anticipando per certi versi  la pratica recente della photo-elicitation.

La fotografia indica, la parola nomina: “ogni fotografia è dotata di un foglio di accompagnamento, che contiene una descrizione e la terminologia dialettale dell’oggetto rappresentato e dell’attività in questione.” (AIS-Introduzione,  p. 254). Esattamente: questo e non altro; ma è su questa relazione che si fonda la possibilità del discorso etnografico. La nota di accompagnamento, poi la didascalia, identifica e nomina, mette cioè in relazione quell’immagine, esito del taglio operato nel continuum spazio temporale, quindi anche geografico e culturale, col proprio contesto d’origine, espresso dalla testimonianza linguistica. Non sempre però questo processo si svolge in modo piano. In alcuni casi l’immagine sembra perdere la propria capacità referenziale o – meglio – non viene riconosciuta come icona, poiché l’informatore mostra scarsa “comprensione di figure e foto, che spesso, stranamente, coglie con difficoltà o non riconosce” (Sanga 2007, p. 38). Questo tipo di reazione, ben nota anche agli antropologi  (Lanternari 1981, p. 749) ha costituito per un certo tempo uno degli elementi a sostegno della definizione della fotografia quale messaggio codificato, su cui altri  studiosi[28] hanno poi ironizzato dimostrando la maggiore complessità del problema e richiamando l’attenzione sulla rilevanza determinante del contesto culturale. Al di là delle questioni ontologiche è infatti questo a consentire di definire la fotografia quale “segno di ricezione”, il cui riconoscimento è condizionato dalla competenza del recettore. Per comprenderla in quanto tale è fondamentale “il sapere dell’arché: una fotografia funziona come immagine indicale a condizione che si sappia che si tratta di una fotografia, e cosa questo fatto implica” ha chiarito Jean-Marie Schaeffer[29], sebbene poi questa conoscenza non abbia “affatto bisogno di essere un sapere scientifico in senso stretto. È sufficiente che sia in grado di mettere in moto una ricezione che riferisca le forme analogiche a impressioni reali, anziché a una libera raffigurazione.”

È proprio nel rapporto dialettico tra i differenti reciproci saperi che si definiva lo spazio di relazione di Scheuermeier con i suoi informatori, l’ambito di sviluppo del suo crescente interesse per la cultura materiale,  per le tecnologie e per l’uso di attrezzi e utensili. Fondamentali anche in questo le sollecitazioni di Jaberg che in una lettera del novembre 1920, dopo essersi complimentato per la qualità delle fotografie (“Davvero molto abili gli scatti con cui ha fissato il trasporto di legname a Borno”) lo invitava a concentrare la sua attenzione sulla “diffusione di singoli tipi (per esempio tipo ‘gerla’, tipo ‘cestone’). Sono mol­to istruttive anche le immagini della raccolta delle castagne. Allora, se si presenta l’occasione, ritrag­ga un po’ più in grande anche i vari attrezzi.” (in La Lombardia dei contadini 2007, p. 364). E ancora, nel gennaio successivo: “In questi ultimi giorni mi sono occupato degli at­trezzi per la trebbiatura. A questo riguardo le sue osservazioni ai margini  e le sue fotografie sono state preziosissime. Anche se dovesse perdere del tempo con queste osservazioni di cultura materiale ne vale veramente la pena; non vorremmo rinunciarvi per via della fretta. At­tendo con ansia la prossima spedizione delle sue fotografie (…). Vorrei anche rielaborare i materiali sulla sedia. Su questo punto si trovano specie per i Grigioni osservazioni preziose e anche due foto; in Italia, al contrario, mancano quasi del tutto le riprese d’interno che potrebbero documentare anche altri tipi di mobilio (letto, armadio ecc.), oppure dei gruppi di sedie, sgabelli, ecc. Non vorrebbe verificare se la macchina fotografica e la luce invernale lo consentono? Noi siamo intenzionati a redigere al più presto un inventario delle foto che permetterà a noi e a Lei di vedere meglio dove ancora dobbiamo rivolgere  l’obiettivo avido di sapere. D’altronde il solo materiale fotografico fino ad ora prodotto costituisce già di per sé una collezione unica in area romanza”[30].

Nell’arco di pochi mesi l’entità e la qualità della produzione fotografica di Scheuermeier erano già tali da costituire una raccolta eccezionale, in grado quasi di riorientare e condizionare  gli obiettivi e l’andamento di tutto il progetto. Prima di colmare “il buchetto piemontese” tra Ticino e Sesia (ma con una curiosa incursione a Pettinengo, nel Biellese) riprendeva il dialogo necessario col suo maestro in una lunga lettera datata Como, il 17 gennaio 1921: “Mi rallegra che Lei possa utilizzare anche le mie osservazioni, sia quelle di carattere etnografico, sia quelle di carattere generale. Mi rendo conto benissimo che nella concitazione della rilevazione queste possano risultare non proprio sistematiche ed equilibrate. (…) Per questo motivo accompagno sempre le fotografie con una spie­gazione il più possibile comprensibile. Nelle descri­zioni delle foto mi affido in gran parte alla mia esperienza diretta, mentre per le osservazioni al margine dei questionari mi attengo spesso alle sole affermazioni dell’informatore  (…).  La mia posizione al momento è quindi la seguente: nella rilevazione assumere obiettivamente ciò che viene spontaneamente dall’informatore, secon­do il suo carattere, e ciò che posso cogliere con lo sguardo veloce passando in gran fretta, per lo più di notte. Nel resto limitare alle foto gli studi approfonditi sulla cultura materiale con descrizione. In queste [foto] tutto dovrà essere registrato in maniera sistematica e io non posso far altro che rallegrarmi del nuovo indice per argomenti delle riprese fotogra­fiche come aiuto graditissimo per evitare delle man­canze. Finora ho fotografato soprattutto ciò che era nuovo e particolare e che non avevo ancora visto altrove.  (…) È d’accordo, insieme con Jud, sul mio modo di procedere? È sufficiente la quantità delle osser­vazioni etnografiche alla quale mi sono finora atte­nuto? Nel caso non fosse d’accordo in qualche punto, La prego di segnalarmelo al più presto; altrimenti devo presumere di poter proseguire come ho fatto finora” (in Gentili 1997, pp. 21-22). La procedura si precisa empiricamente, lasciando intravedere – mi pare – l’emergere di due pratiche ancora distinte, cui corrisponde la netta separazione degli strumenti della ricerca: il questionario per l’indagine linguistica, la fotografia per l’indagine etnografica sulla cultura materiale, sebbene Scheuermeier si mostrasse ancora poco consapevole di un suo possibile uso comparativo. Jaberg rispose a stretto giro di posta, il successivo 23 gennaio: “Credo che in linea di principio abbia ragione anche nella scelta delle fotografie; io mi comporterei in modo un po’ diverso, nel senso che non attenderei sempre nuove forme di cultura materiale o qualcosa di assolutamente sorprendente, ma fotograferei a grandi intervalli anche cose che mi sembrano identiche con altre viste in precedenza. Piccole differenze non vengono spesso rilevate, non si riesce a tenere ben separato ciò che è importante da ciò che non lo è, specialmente se si vive troppo vicino agli oggetti; e, inoltre, ci si inganna anche nel ricordarli. Quali fruitori del materiale dell’Atlante e di quello iconografico, si è contenti di ricevere esplicite conferme anche di cose identiche. Neanche qui sono completamente affidabili le conclusioni ex silentio” (in Sanga 2007, p. 33). Con tutta la cortesia necessaria e il rispetto dovuto all’immane lavoro sul campo che si stava conducendo, Jaberg precisava e modificava nettamente gli indirizzi operativi proprio alla vigilia del periodo in cui Scheuermeier si apprestava a percorrere tutta l’Italia settentrionale, dalla Liguria all’Istria, per giungere infine in Piemonte solo l’anno successivo. Fu quello il momento in cui si chiariva l’esigenza di evitare il ricorso soggettivo alla documentazione fotografica a favore di una rilevazione più sistematica, certo connessa al “rilievo crescente che veniva assumendo l’indagine sulla cultura materiale” (Gentili 1997, p.20), allentando anche la relazione di stretta interdipendenza col questionario.  Questo atteggiamento nuovo comportava, letteralmente, un allargamento di campo, ulteriormente evidente nelle campagne degli anni Trenta, quando la presenza di Paul Boesch lo sciolse dal vincolo della descrizione degli oggetti, ma provocò anche un certo disorientamento. Era lo stesso modo di procedere che mutava.

Ancora nell’ ottobre del 1921 Scheuermeier appariva quasi fotografo suo malgrado, tanto da proporre una riduzione del tempo dedicato alle riprese, così obbligando nuovamente Jaberg a prendere posizione:  “La Sua minaccia di rallentare la documentazione fotografica a favore della ricerca linguistica, mi amareggia. D’altra parte mi rendo conto che il tutto Le richieda molto tempo e che Lei sia ansioso di procedere con il lavoro.” (in Gentili 1997 p. 24) Quando nel 1931 si sarebbe soffermato a riflettere sulla prima parte di quell’esperienza, il quadro di riferimento era ormai radicalmente mutato e la prevalenza dell’approccio visuale risultava chiara: “Nessun questionario (…) potrà servire dappertutto. Il miglior metodo sarà sempre di andare sul posto a vedere gli oggetti e i lavori e di fissarne l’immagine in fotografie e schizzi accompagnati da descrizioni particolareggiate.” (Scheuermeier 1932, p. 97). In modo ancora più esplicito avrebbe descritto il procedere nella conferenza berlinese del 1934:  “Nel frattempo [che Paul Boesch disegnava] io con il mio informatore percorrevo, casa e stalla, cucina e cantina, villaggio e campagna, e fissavo in immagini fotografiche che venivano tutte fornite di una descrizione tutto ciò che mi appariva interessante. (…) D’altra parte il mio dovere più importante, quello di raccogliere le risposte al mio questionario sistematico, finiva per dover essere svolto nelle pause tra tutte queste attività, e soprattutto nel tempo in cui gli impegni relativi al disegnatore e alle fotografie non mi distraevano più.”  (Scheuermeier 1936,  cit. in  Caltagirone, Sordi 2001, p.29)

Parafrasando una sua notissima affermazione si può dire che “l’acchiappadialetti” partì linguista e ritornò fotografo, accogliendo serenamente la contraddizione interna tra rilevamento linguistico, concepito e restituito in uno spazio bidimensionale e sincronico, dove la variabile temporale se non proprio esclusa non era esplicitamente considerata, e ripresa fotografica, indissolubilmente legata al qui ed ora dello scatto. Solo con la messa in scena, destinata a restituire un tempo ‘altro’, a produrre una “autenticità rappresentata” (Marano 2007, p. 107) le due forme di rappresentazione sarebbero tornate per quanto possibile ad avvicinarsi.

Sono proprio le fotografie in cui sono presenti figure che maneggiano oggetti a costituire la maggior parte delle riprese. Tutte – salvo rarissime eccezioni – frutto di una posa ricercata e accurata, certo non attribuibile a presunte limitazioni tecniche. In questo grande insieme è però necessario distinguere due categorie diverse: nella prima le persone erano chiamate a mostrare più che a mostrarsi: esponevano gli oggetti, essendo a volte attorniate da altri con simili caratteristiche tipologiche o funzionali. Nella seconda ne veniva mostrato l’uso, accennando il gesto corrispondente, come nella migliore tradizione delle scene di lavoro. Il carattere più rappresentativo che descrittivo di queste immagini è però rivelato da alcuni elementi indiziari: si pensi allo sguardo in macchina dei soggetti ripresi, che rende esplicito l’artificio. Anche i gesti presentano lo stesso carattere. Essendo stabiliti e letteralmente fissati prima dello scatto non definiscono un istante, rimandando semmai all’azione del lavoro in un senso molto lato, evocativo. Per questo riesce difficile concordare con Scheuermeier quando afferma che “le fotografie possono mostrarci  l’uomo al lavoro”[31]. Non è qui in questione il valore della fotografia come documento quanto la corretta determinazione del contenuto documentario di ciò che lui fotografa, poiché nell’accezione e nell’uso consueto che ne ha fatto l’immagine fotografica funziona piuttosto da tableau vivant: è la parola che dà movimento, che racconta l’azione, nominandola. Non è l’iconografia, né il suo trattamento ciò che distingue la produzione fotografica di Scheuermeier: è la relazione col testo, col progetto che questo uso significa e a cui dà corpo; poiché infine erano le parole e le cose a interessarlo, non i gesti[32].

Quelle cose con cui costruiva le sue misurate nature morte di oggetti, morbidamente illuminati per essere pienamente leggibili in ogni dettaglio[33], solo a volte ripresi un poco da lontano e di scorcio, con scarsa attenzione per ciò che accadeva ai margini dell’inquadratura[34]. Nella maggioranza dei casi la ripresa è invece frontale, gli oggetti ordinatamente disposti secondo le consuetudini dei cataloghi illustrati. Lo si vede nelle immagini realizzate a Ronco[35] e a Vico Canavese[36] nell’ottobre del 1923, o nella serie più tarda di Montanaro del 1932[37], dove c’è ancora una luce di gusto pittorialista a illuminare gli interni[38]. Questa è però un’eccezione: in quegli ultimi anni le riprese si fanno in certa misura più complesse e articolate, prive di un unico centro di interesse e (quindi) di un ‘fuoco’ compositivo[39]. Sono meno costruite, più immediatamente referenziali; a volte il campo si allarga sino a far scomparire il soggetto dichiarato: “l’informatore dà da mangiare alle mucche”[40]  dice il testo, ma l’informatore non si vede, sta ormai oltre la soglia della stalla, mentre una ragazza si affaccia a guardare, imprevista.

Nella produzione di Scheuermeier sono complessivamente pochi i ritratti veri e propri, quelli in cui la persona si mostra doppiamente consapevole: di essere fotografata, certo, ma anche di costituire il solo elemento di attenzione del fotografo, di essere cioè compiutamente soggetto. Nascono sempre da legami personali. Sono alcuni informatori, a volte con le loro famiglie, ritratti nei modi propri di molta fotografia locale ancora in quegli anni: in esterni, con un fondale magari bianco[41] a isolarli dal contesto quotidiano o per proiettarli in un ambito più letterario e alto. Anche stereotipato però, com’è per quella “sposa lombarda”, la “classica «Lucia» (…) figlia dell’informatrice di Galliate” che costituisce il soggetto della cartolina inviata a Jakob Jud nel febbraio del 1921[42], e a cui Scheuermeier dedicò una particolare attenzione[43]. Sono i suoi diversi assistenti (a loro volta fotografi[44]) ripresi sul campo, comunque in posa, a volte mettendo argutamente in scena il dialogo tra le due culture, come nell’efficace ripresa realizzata a Borgomanero nel 1928 in cui “lo studente Walser di Zurigo (…) parla con il marito dell’informatrice”[45]. In altri casi la figura perde la propria identità di persona, ma non per questo diventa semplice elemento della scena: è il caso ad esempio della donna di Vico Canavese col suo carico di steli di granturco, incorniciata dall’arco in pietra[46], o del vecchio con la pipa seduto in controluce accanto al vano della porta, sempre a Vico[47]; proprio la sua presenza non necessaria, che anzi nasconde alla vista parte degli attrezzi fotografati, rivela l’intenzione estetica di Scheuermeier.  Questa raggiunge a volte sorprendenti effetti espressivi, come nel fienile di Rochemolles, dove la luce sottolinea il comune profilo nodoso dell’attrezzo e del contadino[48].

Un cenno a parte meritano i ritratti legati all’amorevole histoire romancée dell’incontro con la signorina Nicolet, tutti scalati negli ultimissimi giorni dell’agosto 1923 in valle Antrona. Le fotografie si rivelano come non mai catalizzatore e memoria di sguardi, e di sentimenti[49]: alla  “immagine riflessa” di lui viene fatta corrispondere “l’altra immagine riflessa” di Nellie che interroga lo specchio della lanca come un candido Narciso, mentre l’aspro fondale alpino è tenuto sapientemente fuori fuoco, secondo la migliore sintassi pittorialista. In questo felice momento della sua vita Scheuermeier si consentiva di intrecciare il rigore analitico dell’indagine con la tensione che nasce dal desiderio: “Sguardo nella stalla attraverso la porta (…) Dietro la kasínα dla zónt, dove ci si intrattiene nelle sere d’inverno per lavorare e chiacchierare. Un uomo sulla bánca che corre tutto intorno alle pareti. (…) dietro [biancovestita a illuminare il buio del fondo] la signorina Nicolet; dietro di lei un letto vuoto”[50]. Questa fotografia, come altre ma certo per ragioni più nette, non venne pubblicata nel Bauernwerk, per il quale non solo venne utilizzata una porzione ristretta dell’intera produzione di Scheuermeier, ma le stesse immagini selezionate furono a volte modificate per essere più pertinenti al testo, più funzionali all’uso comparativo previsto dal progetto finale[51].

Diverse sono le ragioni e gli esiti dell’attuale riedizione, che ripristina invece  nella loro interezza e articolazione le primitive sequenze di realizzazione, rivelandone i nessi non solo tematici con le specificità di ciascun punto di indagine. Vengono così recuperati e resi comprensibili  l’originario ritmo e tono narrativo, a quella data destinati ai suoi soli lettori privilegiati.  Jakob e Jud naturalmente, ma ancor prima gli informatori di Scheuermeier, che potevano misurarsi con la memoria di quell’incontro, con gli esiti delle loro strategie di autorappresentazione, quasi sempre implicite, ma soprattutto con le ragioni e il possibile senso dello sguardo portato dall’altro, dall’estraneo, “colpiti forse dall’onore che un signore sconosciuto veniva a fare alle loro povere cose.” (Scheuermeier 1963, p. 295).

Anche per Scheuermeier la rielaborazione dell’esperienza ha costituito il nucleo centrale e problematico del progetto. In particolare la traduzione, l’adattamento e (certo in parte) la reinvenzione del gesto e dell’oralità in scrittura verbale e iconica, sia nella fase interlocutoria del questionario, sia – specialmente – nella sistematizzazione successiva, a sua volta scandita in almeno due fasi distinte. Mentre nella redazione della singola didascalia testo e immagine funzionavano come due voci dello stesso coro, di cui l’etnografo era il maestro concertatore, nella messa in pagina editoriale l’operazione comportava un ulteriore distanziamento dal contesto di riferimento e di produzione; l’immissione in un nuovo e diverso sistema significante, in una nuova narrazione, in un ulteriore contesto d’uso che presumeva a sua volta una gamma solo parzialmente definibile a priori di contesti di ricezione[52]. A maggior ragione ciò accade nelle attuali edizioni sistematiche per serie locali o regionali.  Al determinante recupero delle inedite sequenze documentarie originarie  corrisponde un mutamento di posizione, della distanza critica da cui possono essere nuovamente studiate e osservate. Muta la nostra comprensione del procedere di Scheuermeier sul campo.

 

Note

[1] Schaaf 2000, pp.82-83. Nessuna immagine di lavoro venne invece inclusa in The Pencil of Nature, per la cui approfondita analisi si veda Signorini 2007.

[2] Il confronto qui si pone, ovviamente, con la coeva produzione di dagherrotipi, che avevano più rigidi parametri d’uso e un ambito di applicazione mediamente più descrittivo che narrativo: dal ritratto alla veduta urbana. Tra i non molti esempi di pose di lavoro si possono segnalare Terrasse de Lerebours, eccezionale dagherrotipo panoramico coi lavoranti della stamperia omonima realizzato da Noël-Marie Paymal Lerebours verso il 1845 (Bajac e De Font-Réaulx 2003, pp. 168-169) dove argomento e schema iconografico sono analoghi al coevo Il Laboratorio di Reading, di Talbot e Nicolaas Henneman, 1846 ca, carta salata da negativo (Gernsheim 1981, p. 186),  e il bellissimo dagherrotipo colorato di anonimo autore americano, 1850ca, con il fabbro e l’assistente al lavoro all’interno della fucina (Bernard 1981, p. 24). Non si conoscono invece dagherrotipi italiani di ‘lavoro’, cfr. Italia d’argento 2003.

[3] Antoine étienne Renaud Augustin Serres, famoso docente di anatomia comparata, propose ad esempio sin dal 1844 – 1845 di realizzare collezioni di fotografie antropologiche, ma anche la realizzazione di un Musée Photographique des Races Humaines, a Parigi. (Faeta 2006, p. 10) Quelle iniziative si collocavano esemplarmente nel clima di entusiastica accettazione delle potenzialità documentarie del nuovo mezzo appena inventato (1839), analogamente a quanto accadeva in altri ambiti di studio: dalla botanica alla documentazione del patrimonio artistico e architettonico, dando immediatamente corpo alle previsioni espressa da Arago nel corso della sua presentazione del dagherrotipo nel luglio del 1839 (Arago 1839).

[4] La bibliografia di confronto è sterminata, rimando qui ad alcuni testi e ai loro apparati, utili per un primo confronto: Auer 2003; Cavanna 2003; Michetti 1999; Miraglia 1985; Miraglia, Pohlmann 1992; Morello 2000; Roma 1840 – 1870 2008.

[5] Sulle differenze profonde tra atteggiamento demologico ed etnografico ha richiamato l’attenzione Faeta 2006, p. 18, cui rimando.

[6] Il solo Francesco Negri [Lavandaie, 1905 ca] si distinse per la scelta inconsueta del punto di vista, che anticipava di molto, ma certo occasionalmente, la futura sintassi modernista con una eccezionale ripresa dall’alto in diagonale (Negri 2006, p. 103).

[7] La felice definizione è tratta da Sguardo e memoria 1988. Per orientarsi metodologicamente nell’ormai sterminata bibliografia italiana di riscoperta, non sempre ideologicamente limpida e  scientificamente attrezzata, di fondi fotografici e autori locali di interesse etnografico sono imprescindibili le indicazioni contenute in  Faeta e Ricci 1997, da leggersi in parallelo al più recente Faeta 2006.

[8] Morselli 1882, p. 7 che riprendeva e ampliava le Istruzioni di  Giglioli, Zannetti, 1880,  che si rifacevano a loro volta alle suggestioni di Paolo Mantegazza. La distinzione introdotta da Morselli, ma non era il solo, mi pare significativa non tanto per l’ovvia contrapposizione tra misurabile/ non misurabile, vale a dire tra metodo ed empiria, ma anche per la consapevolezza di quante fotografie di contenuto potenzialmente etnografico fossero prodotte proprio nell’ambito della nascente fotografia artistica. Analoga attenzione per i due opposti modi della descrizione – anche se in ambito testuale e non visuale – si ritrova ancora nella tesi di dottorato di Gregory Bateson del 1936. (Bateson 1988, p.7)

[9] I modi della ripresa artistica, attenta alla restituzione del contesto, saranno poi di fatto prevalenti, per un mutato statuto della ricerca antropologia ed etnografica, recuperando la scientificità attraverso la sua applicazione metodologicamente avvertita e definita. (Faeta, Ricci 1997; Marano 2007).

[10] Fano 1901, p. 88. Il Direttore del Laboratorio di Fisiologia del Regio Istituto di Studi Superiori di Firenze aveva avanzato questa proposta sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana”  sin dal 1898, riproponendola quindi nel corso del  II Congresso Fotografico Italiano di Firenze (1899),  dove invitava la Presidenza a nominare un’apposita commissione di studi, proponendo anche l’istituzione di un’apposita rubrica sullo stesso “Bullettino”,  il tutto in collaborazione con la Società Italiana di Antropologia, Etnologia e Psicologia Comparata, anch’essa con sede a Firenze, ma l’iniziativa ebbe scarso successo (Panerai 1991). Riprendendo un’intuizione di Ruskin 1880, la possibilità di utilizzare l’opera della crescente ‘armata’ di fotografi dilettanti, che non potevano non aver realizzato “quelque chose d’intéressant à un point de vue quelconque, une épreuve qui venant s’ajouter à d’autres, apportera un élément utile à une collection”, venne sostenuta anche da G. Moreau in occasione del Congresso internazionale di fotografia di Parigi del 1900  (Moreau 1901). Qui alla fiducia positivista nella obiettività del mezzo si accompagnava la chiara percezione della funzione sociale della fotografia e la possibilità che ne derivava di utilizzarla quale fonte, per le proprie valenze quantitative di serie potenzialmente infinita piuttosto che qualitative di singolo elemento documentario, secondo una impostazione metodologica che venne ripresa da Corrado Ricci nel 1904 con la proposta istituzione di un Archivio Fotografico Italiano da realizzarsi agli Uffizi, mentre Loria avrebbe aperto nel 1906 – sempre a Firenze – un primo piccolo Museo di Etnografia Italiana, finanziato dal conte Giovanangelo Bastoni.

[11] Loria 1900; Loria 1912. Il dibattito intorno alla fotografia documentaria procedeva anche in altri ambiti come dimostra la relazione presentata da Carlo Errera nel 1908. Ancora nel 1911 il III Congresso Fotografico Italiano ospitava una sessione internazionale specificamente dedicata alla documentazione fotografica.

[12] Favari 1899. Per un approfondimento su alcune figure della scena milanese si veda ora Paoli 2007.

[13] Sulla scia degli studi pionieristici di Costantino Nigra, Sinigaglia trascrisse a partire dal 1901 una grande quantità di Vecchie canzoni popolari del Piemonte, poi in parte trascritte  per canto e pianoforte tra il 1914 e il 1927 (Leydi 1998; Sinigaglia 2003).

[14] In queste occasioni  erano frequentemente esposte immagini di argomento demologico: ancora nel 1895 all’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino il biellese Giovanni Varale, partecipava con “impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, mentre negli anni e decenni immediatamente successivi altri autori piemontesi rivolgevano la propria attenzione ad analoghi soggetti, specialmente nelle prime fasi della loro produzione. Penso ad alcune immagini di Mario Gabinio tra 1900 e 1910 (Gabinio 1996; Gabinio 2000) o a quelle di Cesare Giulio prima del 1920 (Giulio 2005),  mentre nelle prove di poco più tarde di Stefano Bricarelli o di Domenico Riccardo Peretti Griva il tema del lavoro dei contadini diventa puro motivo, se non mero pretesto per esercizi di stile tardo pittorialisti.

[15] Sulla figura di Vittorio Sella, tra i più importanti fotografi della seconda metà del XIX secolo rimando a Sella 2006 e alla bibliografia ivi citata. Per quanto riguarda il meno noto Domenico Vallino, autore a sua volta di due Album di un alpinista (1877, 1878) dedicati rispettivamente alle valli di Andorno e Gressoney e alla Valsesia, rimando a Cavanna 1995. Sarà proprio la valenza etnografica di queste immagini a spingere Alessandro Roccavilla a rivolgersi a Vallino quando nel 1911 viene chiamato da Loria a collaborare alla realizzazione dell’Esposizione di Etnografia Italiana di Roma (Albera, Ottaviano 1989; Bellardone, Cavatore 1991) proponendo anche un diorama dedicato all’antica cerimonia del Battesimo in alta Valle Cervo (Roccavilla 1922). Segnalo qui che alcune immagini della serie dei Costumi biellesi , in parte pubblicate ne Il Biellese 1898, vennero riutilizzate con attribuzione e titolazione errate nel numero autunnale della rivista “The Studio” del 1913 interamente dedicato a L’art rustique en Italie, a corredo del contributo fornito da Roccavilla. Con una disinvolta operazione di dislocazione geografica, quelli che erano I piccoli Valìt (Valle di Andorno) nel 1898 (p.71)  divennero così Peasants butter-making, Aosta, Piedmont (Art rustique 1913, n.28), mentre il soggetto secondario della ripresa relativa a Miagliano, Case operaie Poma (Il Biellese 1898, p.130) assunse sulla rivista il ruolo di protagonista: Peasant women washing clothes, Aosta, Piedmont (Art rustique 1913, n.17; entrambi interessanti esempi dei problemi posti dall’uso delle fonti secondarie.

[16] Loria  1912, in Puccini 2005, p. 33.

[17] Come ha chiarito lucidamente Faeta (1988, p. 12) sintetizzando una lunga serie di riflessioni sulla fotografia (da Benjamin a Vaccari e Barthes passando attraverso Bourdieu) “In particolare rispetto all’ideologia mi sembra che la fotografia offra informazioni insostituibili. Essa è infatti strumento di formazione e trasmissione di forme simboliche, ma è essa stessa forma simbolica della realtà, costruita attraverso procedimenti sofisticati di codificazione.”

[18] Le sue Scene di vita e di lavoro, allora  notissime e certo pubblicabili senza problemi di censura o autocensura sono state poi quasi dimenticate, a favore della più nota e intrigante serie di nudi maschili; si vedano  Faeta 1988; Gloeden 2008.

[19] Schiaparelli 2003; anche la cartolina spedita da Galliate nel febbraio del 1921, Pascolo Biellese. Sulla via del ritorno, edita da Bonda a Biella, (Canobbio, Telmon 2007, p. 40) mostra quanto il gusto di Scheuermeier fosse prossimo a questa declinazione piemontese del paesaggismo pittorialista.

[20] Palestina 1927  2001. Di Morpurgo, a sua volta editore di cartoline, ricordo qui – a testimonianza di una lunga vicenda di intrecci ancora da studiare compiutamente – la sua Proposta per una più vasta raccolta delle nostre tradizioni popolari, da realizzarsi mediante la raccolta di documentazione visiva, presentata nel 1930 al I Congresso di Arti e Tradizioni Popolari di Trento (Di Castro 2001, p.47).

[21] Tarchetti 1990; le sue immagini venivano edite in cartolina dall’editore vercellese Larizzate presso il quale Scheuermeier acquistò nel marzo del  1921, Nelle risaie vercellesi. Mondatura del riso, con l’iscrizione al verso “ho sbrigato il questionario 65 Desana in un nido di riso.” (Canobbio, Telmon 2007, p. 41) Come rivelano le didascalie, solo il cattivo andamento della stagione precedente consentì a Scheuermeier di documentare almeno la pulitura, la sola fase della coltivazione del riso ad essere descritta. Neppure a livello locale le donne e gli uomini della risaia avevano allora il loro cantore, nessuno che li celebrasse se non occasionalmente in quella stagione della fotografia che si colloca tra pittorialismo e prima etnografia, come accadeva ad esempio con le immagini partecipate dell’Agro Romano che  in quegli stessi anni realizzavano  Luciano Morpurgo e  Arrigo Ravaioli e – un poco più tardi – Adolfo Porry Pastorel.  Le testimonianze fotografiche delle genti di risaia dei primi anni Venti si limitano alle  foto di gruppo, che conservano intatto lo schema compositivo e prossemico della tradizione ottocentesca del genere, fornendo al più indicazioni sull’abbigliamento da lavoro.

[22] Le prime riflessioni sulla cultura visiva di Scheuermeier, con la proposta individuazione di analogie con autori coevi si devono a Marina Miraglia (Scheuermeier 1981) poi riprese e ampliate in Silvestrini 1997 e 2001. Per la loro discussione critica, sostanzialmente condivisibile, si rimanda a Roda 1999 e Scianna 2007.

[23] Come noto la sede Brunner di Como svolse il doppio compito di supporto tecnico logistico per tutto il corso delle rilevazioni sia fornendo a Scheuermeier i nominativi dei propri clienti, a cui ricorrere quali “punti d’appoggio” nelle diverse località, sia nel processo di sviluppo e stampa delle fotografie. I negativi erano infatti spediti alla Ditta per lo sviluppo e per la stampa dei positivi. Questi erano restituiti a Scheuermeier  per il successivo riordino e per la descrizione, sempre corredata dei dati tecnici di ripresa (tempo e diaframma, secondo una consuetudine ampiamente diffusa all’epoca specialmente tra i dilettanti), ma anche – almeno in parte – per essere poi inviate agli informatori in segno di ringraziamento, come accadde la sera del 16 ottobre, a Ivrea, passata a preparare le “fotografie per gl’informatori di Val Vogna, Ronco, Borgosesia” (in Canobbio, Telmon 2007, p.62) dove era stato nelle settimane precedenti. Questa pratica consolidata, che vedeva Brunner anche nelle implicite vesti di mecenate, se è vero che i prezzi delle copie erano appena sufficienti a coprire le spese  (Lettera a Jaberg del 24 settembre 1921, in Gentili 1997, p. 24), dovette avere alcune singolari eccezioni, come mostra la fotografia che venne scattata al nostro “Explorator nella nebbia” alla Capanna Milano in Val Zebrù nel settembre 1920, (dove era in vacanza col cugino Rudy Wiss), poi edita come cartolina da U. Trinca di Sondrio (n. 1495), a sua volta cliente di Brunner. (Gentili 1999,  nn. 15, 42)

[24]  La produzione fotografica di Scheuermeier è consultabile all’indirizzo http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, conducendo la ricerca nella sezione “Immagini”, ricercabili per numero del fototipo, località, autore o data.

[25] Erano le limitazioni ‘militari’  relative alle cosiddette “zone di guerra” in cui si trovavano postazioni o fortificazioni. Il Ministero della Pubblica Istruzione rispose l’11 di agosto del 1920 senza far cenno esplicito alle fotografie, ma con una raccomandazione diretta a Provveditori e Direttori di istituto che sostanzialmente gli consentiva libertà di azione.  “Più che dai delinquenti, ebbi delle seccature da parte dei tutori dell’ordine” ricorderà con amara ironia ormai a molti anni di distanza dall’esperienza sul campo (Scheuermeier 1969, p.338), raccontando le tragicomiche vicissitudini occorsegli con brigadieri, cardinali e pubblici ufficiali, oltre che con i primi fascisti locali.

[26] Si veda http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 339, ripresa a Galliate il 27 febbraio 1921: “Questo tipo di zangola qui è da tempo in disuso e la donna è dovuta andare fuori a procurarsela. Lei stessa non ha più idea alcuna della lavorazione del latte. (…) Anche il setaccio (…) poggiato sul secchio, viene usato ancora solo raramente per colare il latte: tutte cose vecchie.” E ancora, per la ripresa successiva, a proposito di un costume “scomparso da circa 40 anni”: “Ciascun indumento ha una provenienza diversa ed è stato scovato dopo una lunga ricerca per poter fare la fotografia.”

[27] La procedura d’indagine utilizzata da Pellis prevedeva di affiancare al questionario una raccolta di ben 2500 immagini da mostrare contestualmente (Pellis 1926, in Ellero 1999, p. 13). Non è questa la sede per affrontare sistematicamente la questione, ma va almeno ricordato il differente modo di intendere la fotografia tra Scheuermeier e Pellis, certo meno attento alle qualità compositive delle riprese e più propenso all’uso libero dell’istantanea.

[28] “è qui che entra in scena il famoso melanesiano: egli costituisce l’ossessione della letteratura semiologica  e deve reggere da solo tutto il peso dell’alterità radicale – il che mi pare troppo per un solo uomo.”, Schaeffer [1987] 2006 , pp. 48 passim. Il fatto che, in un determinato contesto di ricezione, non sia riconosciuto il contenuto referenziale di un’immagine fotografica  comporta che questa possa perdere il suo specifico statuto di segno (non è più significante) oppure che ne sia mutato il valore (da icona a simbolo, ad esempio), ma ciò può accadere  senza la perdita della sua primaria natura indicale. Non è la comprensione del ricevente che stabilisce la natura della cosa.

[29] Ibidem.

[30] Gentili 1997, p. 20-21, corsivo di chi scrive. L’affermazione mostra bene quale fosse a quella data l’interesse quasi esclusivo, oltre che dichiarato dell’indagine. La lettera è stata ripubblicata in La Lombardia dei contadini 2007, pp. 370-371 con significative varianti di traduzione.

[31] Scheuermeier 1936, p. 357, traduzione di Carla Gentili che ringrazio per la cortesia e la disponibilità a discutere  un passaggio particolarmente delicato delle riflessioni metodologiche di Scheuermeier.

[32] Per questa ragione, credo, non gli importava che a compierli fossero semplici figuranti, coinvolti per ragioni diverse: a Montanaro nel 1932, ad esempio: “la scena si è svolta pressappoco così, quasi naturalmente” (http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6119, corsivo dell’autore; Canobbio,  Telmon 2007, pp. 228 passim), ma si veda  anche  http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 325, Galliate, 1921: “Tutte queste operazioni vengono eseguite per lo più da pettinatori professionisti. (…) Il nipote e la nipote [dell’informatrice] si sono messi al loro posto durante la pausa di mezzogiorno.” Anche a Sauze, nel 1922 a versare il grano nel ventolatoio non era un contadino ma “lo studente Hobi di Zurigo” (Canobbio, Telmon 2007, p.97) uno dei molti inviati da Jaberg e Jud  durante tutto il tempo della ricerca.

[33] Basti notare con quanta cura disponeva un panno bianco a terra per rendere meglio leggibile il fuso nella ripresa realizzata a  Villafalletto nel 1922: http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 837.

[34] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 808.

[35] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 1241.

[36] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagini nn. 1245 – 1251.

[37] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagini nn. 612, 6120.

[38] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6123.

[39] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6093.

[40] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6095.

[41] “Uno sfondo bianco permette ai soggetti di diventare simboli di sé stessi” avrebbe detto Richard Avedon nel 1987 (in Livingstone 1994, p. 59), ma questo solo espediente non è certo sufficiente e non può prescindere dalla duplice intenzione, non necessariamente convergente, tra soggetto fotografante e soggetto fotografato.

[42] Canobbio, Telmon 2007, p. 42. L’immagine venne pubblicata anche in Scheuermeier [1943-1956] 1980, II, F. 495), ma con inversione sinistra/ destra.

[43] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagini n. 330, 340 a, b.

[44] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 833, Villafaletto, settembre 1922, nella quale compare lo stesso Scheuermeier.

[45] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 2170. Nel Bauernwerk (I, 1943, F. 53) l’assistente, certo non un testimone della cultura contadina, scomparve dall’immagine a seguito di un accuratissimo intervento di ritocco, mentre nell’edizione italiana (Scheuermeier [1943-1956] 1980, I, F. 53) venne fatto, discutibilmente, ricomparire. Anche la figura a fronte (F.54) è il risultato di una elaborazione: il taglio in stampa della ripresa http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1173 realizzata a Borgone nell’agosto del 1923, di cui costituisce la parte destra, pubblicata nella sua interezza nel vol II, F. 150 con l’indicazione “Ceppomorelli (Piemonte)”.

[46] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1247.

[47] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1248.

[48] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 813.

[49] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagini nn. 1180-1182.

[50] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1187.

[51] Cfr. la nota 44.

[52] Per le definizioni di contesto d’uso e di contesto di ricezione formulate da Heintze 1990 si veda Marano 2007, pp. 44-46.

 

 

 

Bibliografia

 

AIS-Introduzione

Karl Jaberg,  Jakob Jud, Der Sprachatlas als Forschungsinstrument. Kritische Grundlgung und Finftihrung in den Sprachund Sachatlas Italiens und der Sidschweiz. Halle (Saale): Max Niemeyer Verlag, 1928 ( Edizione italiana, a cura di Glauco Sanga. Milano: Unicopli, 1987)

 

Albera, Ottaviano 1989

Dionigi Albera, Chiara Ottaviano, Un percorso biografico e un itinerario di ricerca: a proposito di Alessandro Roccavilla e dell’esposizione romana del 1911. Torino:  Regione Piemonte, 1898

 

Antropologia visiva 1980

Antropologia visiva: La fotografia, a cura di Sandro Spini, “La ricerca folklorica”, 2 (1980), ottobre

 

Arago 1839

François Jean Dominique Arago, Rapport de M. Arago sur le Daguerréotype, lu à la séance de la Chambre des Députés le 3 juillet 1839 et à L’Académie des Sciences. Séance du 19 août.  Paris:  Bachelier, 1839 (trad. it. con testo a fronte a cura di Gianfranco  Arciero. Roma: Arnica, 1979)

 

Art rustique 1913

L’art rustique en Italie, “The Studio», numero d’automne. Paris: Editions du “Studio”, 1913

 

Auer 2003

Collection M.+ M. Auer. Une histoire de la photographie, catalogo della mostra (Nice – Genève, 2004), a cura di Michel Auer, Michèle Auer.  Hermance: Editions M+M, 2003

 

Bajac, De Font-Réaulx 2003

Quentin Bajac, Dominique de Font-Réaulx, dir., Le Daguerréotype français. Un objet photographique, catalogo della mostra (Parigi, Musée d’Orsay, 2003). Paris: Réunion des Musées Nationaux, 2003

 

Bateson 1988

George Bateson, Naven. Torino: Einaudi, 1988

 

Bellardone, Cavatore 1991

Patrizia Bellardone, Giuseppe Cavatore, a cura di, Alessandro Roccavilla e “La Rivista Biellese”.  Biella: Edizioni leri e Oggi, 1991

 

Bernard 1981

Bruce Bernard, Photodiscovery. Milano: Garzanti, 1981

 

Il  Biellese 1898

Club Alpino Italiano, Il Biellese. Milano: Turati, 1898

 

Bricarelli 1913

Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), 8, agosto, pp. 2255-2260

 

Caltagirone, Sordi 2001

Fabrizio  Caltagirone,  Italo Sordi, Gli “approfondimenti etnografici” e la cultura materiale negli inediti di Paul Scheuermeier, in Lombardia dei contadini  2001, pp.27-32

 

Canobbio ,Telmon 2007

Sabina Canobbio, Tullio Telmon, Introduzione, in Il Piemonte dei contadini 2007,  pp. 13-20

 

Cavanna 1995

  1. Cavanna, Gli “Album di un alpinista”, “ALP”, 11 (1995), n. 122, pp. 124-127

 

Cavanna 2003

  1. Cavanna, Mostrare paesaggi, in L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra ( Modena, 2003 – 2004), a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Milano: Silvana Editoriale, pp. 40-116

 

Counihan 1980

Carole M. Counihan,  La fotografia come metodo antropologico, in Antropologia visiva 1980, pp. 27-32

 

Di Castro 2001

Daniela di Castro, Luciano Morpurgo (1886 – 1971), fotografo, scrittore, editore, in Palestina 1927, pp. 43-58

 

Dragone 2000

Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895.  Torino:  Banca CRT, 2002

 

Ellero 1999

Gianfranco Ellero, Due linguisti fotografi: Paul Scheuermeier e Ugo Pellis, in Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999, pp. 117-130

 

Ellero, Michelutti 1994

Gianfranco Ellero, Manlio Michelutti, Ugo Pellis fotografo della parola. Udine : Società Filologica friulana, 1994

 

Ellero, Zannier 1999

Gianfranco Ellero, Italo Zannier, a cura di,Voci e immagini: Ugo Pellis linguista e fotografo. Milano – Spilimbergo: Federico Motta Editore – CRAF,  1999

 

Errera 1908

Carlo Errera,  Sulla convenienza di ordinare un Archivio fotografico della regione italiana in servizio degli studi geografici,  “Atti del Sesto Congresso Geografico Italiano”(Venezia, 26-31 maggio 1907), I. Venezia : Premiate officine grafiche C. Ferrari 1908, pp. 40-47

 

Faeta 1988

Francesco Faeta, Wilhelm von Gloeden: per una lettura antropologica delle immagini, “Fotologia”, 9, 1988, maggio, pp. 88-104

 

Faeta 2003

Francesco Faeta, Strategie dell’occhio: saggi di etnografia visiva. Milano: Franco Angeli, 2003

 

Faeta 2006

Francesco Faeta, Fotografi e fotografie: Uno sguardo antropologico.  Milano: Franco Angeli, 2006

 

Faeta, Ricci 1997

Francesco Faeta, Antonello Ricci, a cura di, Lo specchio infedele. Materiali per lo studio della fotografia etnografica in Italia, ” Documenti e ricerche”. Roma: Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari, 1997

 

Falzone del Barbarò 1981

Michele Falzone del Barbarò, Paul Scheuermeier ricercatore e studioso, in Scheuermeier 1981, pp.24-31

 

Fano 1901

Giulio Fano, Sull’applicazione della fotografia agli studi etnografici, in “Atti del Secondo Congresso Fotografico Italiano” (Firenze, 1899).  Firenze:  Ricci, 1901, pp.87-90

 

Favari 1899

Pietro Favari, L’Illustrazione fotografica dell’Italia per il T.C.I.,  “Il Dilettante di Fotografia”, 10 (1899),  n.15, novembre, p. 896

 

Gabinio 1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra ( Torino, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Gabinio 2000

Mario Gabinio. Valli Piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, Villa Remmert, 2000-2001), a cura di P. Cavanna. Torino: Galleria Civica d’Arte Moderna, 2000

 

Gentili 1997

Carla Gentili, Scheuermeier nel Trentino, dalla linguistica all’etnografia, in Il Trentino dei contadini, 1997, pp. 15-25

 

Gentili 1999

Carla Gentili, Dall’Italia per l’Atlante. Le cartoline di Paul Scheuermeier a Jacob Jud: 1920-1928, in Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999, pp. 171-220

 

Gernsheim 1981

Helmut  Gernsheim, Le origini della fotografia. Milano: Electa, 1981

 

Giglioli, Zannetti 1880

Enrico Hillyer Giglioli, Arturo Zannetti, Istruzioni per fare osservazioni antropologiche ed etnologiche.  Roma: Tip. Eredi Botta, 1880

 

Giulio 2005

Sul limite dell’ombra: Cesare Giulio fotografo, catalogo della mostra (Torino, 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo nazionale della Montagna,  2005

 

Gloeden 2008

Wilhelm von Gloeden. Fotografie: Nudi Paesaggi Scene di genere, catalogo della mostra (Milano, 2008), a cura di Italo Zannier. Firenze: Alinari 24 Ore, 2008

 

Heintze 1990

Beatrix Heintze, In Pursuit of a Chameleon: Early Ethnographic Photography from Angola in Context, “History in Africa: A Journal of Method”, 17 (1990), pp.131-156

 

L’Italia d’argento 2003

L’Italia d’argento 1839-1859: Storia del dagherrotipo in Italia, catalogo della mostra (Firenze – Roma, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli.  Firenze:  Alinari, 2003

 

Lanternari 1981

Vittorio Lanternari, Sensi, “Enciclopedia”, vol.12.  Torino: Einaudi, 1981 , pp.730-765

 

Leydi 1998

Roberto  Leydi, a cura di, Canzoni popolari del Piemonte: la raccolta inedita di Leone Sinigaglia.  Vigevano : Diakronia, 1998

 

Liégard 1905

Alfred Liégard, Le document et l’art, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 1, gennaio, pp. 8-10

 

Livingstone 1994

Jane Livingstone, L’arte di Richard Avedon, in Mary  Shanahan, a cura di, Evidence 1944-1994 : Richard Avedon.  Milano: Leonardo Editore – Eastman Kodak, 1994 , pp. 11-102

 

La Lombardia dei contadini 2001

Paul  Scheuermeier:  La Lombardia dei contadini. 1920 – 1932, I,  Lombardia orientale. Le province di Brescia e Bergamo, a cura di  Giovanni  Bonfadini, Fabrizio Caltagirone, Italo Sordi. Brescia: Grafo, 2001

 

La Lombardia dei contadini 2007

Paul  Scheuermeier:  La Lombardia dei contadini. 1920 – 1932, III,  Lombardia occidentale, a cura di  Fabrizio Caltagirone, Glauco Sanga, Italo Sordi. Brescia: Grafo, 2007

 

Loria 1900

Lamberto Loria, Relazione sulla proposta pubblicazione fotografica: tipi, usi e costumi del popolo italiano, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), n. 1, pp. 19-22

 

Loria 1912

Lamberto Loria, Il primo Congresso di etnografia italiana: Parole dette nella Seduta inaugurale. Perugia: Unione Tipografica Cooperativa, 1912

 

Marano 2007

Francesco Marano, Camera etnografica. Storie e teorie di antropologia visuale. Milano: Franco Angeli, 2007

 

Michetti 1999

Francesco Paolo Michetti. Il cenacolo delle arti tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma – Francavilla al Mare, 1999). Napoli: Electa, 1999

 

Miraglia 1985

Marina Miraglia, Cesare Vasari e il  ‘genere’ nella fotografia napoletana dell’Ottocento, “Bollettino d’Arte”, 70 (1985), serie VI, nn. 33-34, settembre-dicembre, pp. 199-206

 

Miraglia, Pohlmann 1992

Marina Miraglia, Ulrich  Pohlmann, a cura di, Un viaggio fra mito e realtà: Giorgio Sommer fotografo in Italia. Roma: Carte Segrete, 1992

 

Mirisola, Vanzella 2004

Vincenzo Mirisola, Giuseppe Vanzella, Sicilia Mitica Arcadia: Von Gloeden e la ‘Scuola’  di Taormina.  Palermo:  Edizioni Gente di Fotografia, 2004

 

Moreau 1901

Georges Moreau, Douzième Question: Veu à émettre pour qu’il soient créé des dépôts d’archives photographiques, in Exposition Universelle de 1900. Congres International de Photographie.  Paris:  Gauthier-Villars, 1901, pp. 132-135

 

Morello 2000

Paolo Morello, Gli Incorpora, 1860-1940.  Palermo – Firenze:  Istituto superiore per la storia della fotografia – Alinari, 2000

 

Morselli 1882

Enrico Morselli, Programma speciale della sezione di Antropologia, in Esposizione Generale Italiana în Torino 1884. Programmi.  Torino: Stamperia Reale Paravia, 1882

 

Namias 1907

Rodolfo Namias, L’Esposizione fotografica di Torino, “Il Progresso Fotografico”, 14 (1907), n.  2, febbraio, p. 30

 

Negri 2006

Francesco Negri fotografo 1841-1924,  a cura di Barbara Bergaglio, P. Cavanna.  Cinisello Balsamo:  Silvana Editoriale, 2006

 

Palestina 1927  2001

Palestina 1927 nelle fotografie di Luciano Morpurgo, catalogo della mostra (Gerusalemme,  The Israel Museum, marzo – giugno 2001), a cura di Gabriele Borghini, Simonetta Della Seta, Daniela Di Castro. Roma: U. Bozzi, 2001

 

Panerai 1991

Cristina Panerai, Fotografia e antropologia nel «Bullettino della Società Fotografica Italiana»: una promessa disattesa, “AFT”,  7 (1991), n. 13, pp. 64-69

 

Paoli 1991

Silvia Paoli, Le tematiche sociali nella fotografia milanese dell’Ottocento, in “AFT”, 7 (1991), n. 13, pp. 55-63

 

Paoli 2007

Silvia Paoli, «Ora l’istantaneo è reso duraturo, perpetuo, una macchinetta vince il tempo. ..». La fotografia istantanea a Milano tra Otto e Novecento: Giuseppe Beltrami, Luca Comerio, Italo Pacchioni, in Elena Degrada, Elena Mosconi,  Silvia Paoli, a cura di, Moltiplicare l’istante: Beltrami, Comerio e Pacchioni tra fotografia e cinema, “Quaderni Fondazione Cineteca Italiana”. Milano: Il Castoro, 2007, pp. 23-35

 

Pellis 1926

Ugo Pellis, La prima messe, “Rivista della Società Filologica Friulana”, 1926, p. 99

 

Il Piemonte dei contadini 2007

Paul Scheuermeier: Il Piemonte dei contadini 1921-1932, I, La provincia di Torino, a cura di Sabina Canobbio,  Tullio Telmon.  Ivrea: Priuli & Verlucca, 2007

 

Puccini 2005

Sandra Puccini, L’itala gente dalle molte vite. Lamberto Loria e la Mostra di Etnografia italiana del 1911.  Roma: Meltemi, 2005

 

Quintavalle 2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari.  Firenze: Alinari, 2003

 

Redazionale 1906

Redazionale, “Il Progresso Fotografico”, 13 (1906), n. 10, ottobre, p. 145

 

Ricci 2004

Antonello Ricci, a cura di, Malinowski e la fotografia.  Roma:  Aracne, 2004

 

Ricci 2004

Antonello Ricci, a cura di, Bateson & Mead e la fotografia.  Roma:  Aracne, 2006

 

Roccavilla 1922

Alessandro Roccavilla, Il battesimo nell’Alta Valle del Cervo, “La Rivista Biellese”  2 (1922), nn. 7-8, pp. 21-22

 

Roda 1999

Roberto Roda, Il contadino fotografato: da Scheuermeier ad Avedon e oltre, in Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999, pp. 131-145

 

Roma 1840 – 1870   2008

Roma 1840-1870. La fotografia, il collezionista e lo storico, catalogo della mostra ( Roma – Modena, 2008), a cura di Maria Francesca Bonetti. Roma: Peliti Associati, 2008

 

Ruskin 1880

John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture.  Orpington (Kent): G. Allen, 1880

 

Sanga 2007

Glauco Sanga, Gli interlocutori di Scheuermeier, in La Lombardia dei contadini  2007, pp. 27-44

 

Schaaf 2000

Larry  J. Schaaf, The Photographic Art of William Henry Fox Talbot. Princeton and Oxford: Princeton University Press, 2000

 

Schaeffer [1987] 2006

Jean-Marie Schaeffer, L’image précaire.  Paris: Editions du Seuil, 1987 (traduzione italiana a cura di Marco Andreani, Roberto Signorini. Bologna: CLUEB, 2006

 

Scheuermeier 1932

Paul Scheuermeier, Observations et expériences personnelles faites au cours de mon enquête pour l’atlas linguistique et ethnographique de l’Italie et de la Suisse méridionale, “Bulletin de la Société de Linguistique”, 33 (1932), n. 1, pp. 93-110

                                                                               

Scheuermeier 1936

Paul Scheuermeier, Methoden der Sachforschung. Zur sachkundlichen Materialsammlung für den Sprach-und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, “Vox Romanica”,  I, (1936), pp. 334-369 

 

Scheuermeier [1943-1956] 1980

Paul  Scheuermeier, Il lavoro dei contadini. Cultura materiale e artigianato rurale in Italia e nella Svizzera italiana e retoromanza, a cura di Michele Dean e Giorio Pedrocco, 2 voll. Milano: Longanesi, 1980 (ed. originale, Bauernwerk in Italien der italienischen und ritoromanischen Schweiz, Vol. I.   Erlenbach – Zürich:  Eugen Rentsch Verlag, 1943; Vol II.  Bern: Stimpfli & Cie, 1956)

 

Scheuermeier 1963

Paul Scheuermeier, Regioni ergologiche della vita agricola italiana, in Il mondo agrario tradizionale nella Valle Padana, “Atti del convegno di studi sul folklore padano” (Modena, 17-19 marzo 1962).  Modena:  Enal, Università del tempo libero, 1963, pp. 291-307

 

Scheuermeier 1969

Paul  Scheuermeier, Della buona stella sul nostro Atlante, 1969, traduzione di Carla Gentili in Il Trentino dei contadini 1997, pp. 329-346

 

Scheuermeier 1981

Paul Scheuermeier: fotografie e ricerche sul lavoro contadino in Italia: 1919-1935, catalogo della mostra (Roma, 20  maggio -20 giugno 1981), a cura di Marina Miraglia. Milano: Longanesi, 1981

 

Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999

Scheuermeier le Alpi e dintorni, “Atti del Seminario permanente di Etnografia Alpina”, 4° ciclo (SPEA 4, 1997), a cura di Carla Gentili, Giovanni Kezich, Glauco Sanga,  “Annali di San Michele”, 12 (1999)

 

Schiaparelli 2003

Cesare Schiaparelli fotografo paesaggista, catalogo della mostra (Occhieppo Superiore – Torino, 2003), a cura di Gian Paolo Chorino. Occhieppo Superiore: Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2003

 

Scianna 2007

Ferdinando Scianna, Il film muto di Scheuermeier, in Lombardia dei contadini  2007, pp. 45-47

 

Šebesta 1980

Giuseppe Šebesta, Fotografia e disegno nella ricerca etnografica, in Antropologia visiva 1980, pp. 37-44

 

Sella  2006

Paesaggi verticali. La fotografia di Vittorio Sella 1879-1943, catalogo della mostra (Torino, 2006), a cura di Lodovico Sella.  Torino: Fondazione Torino Musei – GAM,  2006

 

Sella, Vallino 1890

Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, s.d. [1890]; (reprint, Ivrea: Priuli & Verlucca, 1983)

 

Sguardo e memoria  1988

Sguardo e memoria: Alfonso Lombardi Satriani e la fotografia signorile nella Calabria del primo Novecento, catalogo della mostra (Roma, 1988-1989), a cura di Francesco Faeta,  Marina Miraglia.  Milano – Roma:  Arnoldo Mondadori – De Luca Edizioni d’Arte, 1988

 

Signorini 2007

Roberto Signorini, Alle origini del fotografico. Lettura di  The Pencil of nature di William Henry Fox Talbot.  Bologna: CLUEB, 2007

 

Silvestrini 1981

Elisabetta Silvestrini, Cultura materiale tra linguistica ed etnografia, in Scheuermeier 1981, pp. 16-23

 

Silvestrini 1997

Elisabetta Silvestrini, La fotografia di argomento demologico in area svizzera , in Il Trentino dei contadini 1997, pp. 42-48

 

Silvestrini 2001

Elisabetta Silvestrini, Paul Scheuermeier: Itinerario fotografico nella Lombardia orientale, in La Lombardia dei contadini 2001,  pp. 23-26

 

Sinigaglia 2003

Leone  Sinigaglia, La raccolta inedita di 104 canzoni popolari piemontesi con accompagnamento per pianoforte, revisione a cura di Andrea  Lanza.  Torino: Giancarlo Zedde, 2003

 

Tarchetti  1990

Andrea Tarchetti notaio. Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna e Mimmo Vetrò.  Vercelli:  Comune di Vercelli – Assessorato alla Cultura, 1990

 

Il Trentino dei contadini 1997

Paul Scheuermeier:  Il Trentino dei contadini : 1921-1931, a cura di Giovanni Kezich,  Carla Gentili, Antonella Mott. San Michele all’Adige: Museo degli usi e costumi della gente trentina, 1997

 

 

Ieri – Immagini di un territorio storico (2007)

in Giorgio G. Negri, a cura di, Il riso: territorio, cultura, lavoro, Novara – Reggio Emilia, Promoriso – Diabasis, 2007, pp. 26-33

 

 

 “Lungo la strada non incontro nulla di diverso

da tutto ciò che può incontrare una persona qualsiasi

lungo una strada qualsiasi. (…)  è  tutto, tutto qui.”

Robert Walser, Il Greifensee, 1914

 

 

 

Ho vissuto per anni ai margini settentrionali della pianura del riso, oltre la sponda sinistra del Canale Cavour, questa linea d’acqua che ne segna, forse ne segnava i confini: al di qua i primi boschi, il frumento, il granturco e scarsi prati, di là il riso. Una sola grande risaia, continua e asimmetrica sino alle sponde del Po. Più volte l’anno ne attraversavo lunghi tratti, ricondotto bambino all’Emilia dei miei genitori: Vercelli, Mortara, Pavia; poi Broni, Casteggio, Voghera no, certo, dove arrivava invece Paolo Conte. Stradella sì, però, e  le sue fisarmoniche che salivano l’Appennino per le feste da ballo nelle piccole sale sgombrate delle osterie.

Non ne sapevo nulla allora di questi luoghi, consueti e non per questo meno ignoti, ma il loro fascino era insinuante e certo grande, complesso. Nutrito di occasioni di gioco nelle brume dei mesi di scuola come del racconto dei grandi, non ancora vecchi, che nella loro giovinezza per me allora impensabile avevano fatto all’inverso quello stesso viaggio, con un tempo lento ben diverso dal mio, con un’attenzione ai luoghi obbligata dal camminare, dal pedalare, al più dal ritmo lento del biroccio. E tornavano i nomi: Mortara, Vercelli, Lignana, Saletta, Trino; e la cascina Isola, la Colombara, il Torrione, Castelmerlino, e le strade secondarie percorse tante volte, e i piloni al bivio. Non che me ne importasse molto di quei nomi, di cui non mi poteva interessare l’origine, il senso. Io che ci abitavo non ne sapevo nulla, o quasi. Passata l’epoca dei giochi, quella campagna, risicola o asciutta che fosse era qualcosa che non mi riguardava. Non vi accadeva nulla; nulla che mi interessasse, almeno. Sì, certo, l’acqua nelle risaie ad aprile, specialmente con la luna. Ma erano così rare le occasioni per vederla. E il resto dell’anno il nulla: il susseguirsi sempre uguale del ciclo delle coltivazioni.

Sarebbero state delle immagini a sollecitarmi a capire, a interrogarmi per poi interrogare i luoghi. Sarebbero stati gli splendidi cabrei settecenteschi dell’Abbazia di Lucedio disegnati da Vincenzo Scapitta, parente del più noto Giovanni Battista, il raffinato architetto di Palazzo Treville e della chiesa di Santa Caterina a Casale Monferrato, ma anche l’autore del progetto di eleganti tettoie, quasi neoclassiche, “per poter ricoverare, battere e trescare gli risi al coperto ne’ tempi piovosi”, anno 1714.

Quei bellissimi disegni, con le sintetiche e un poco ingenue assonometrie dei nuclei abitati che io mi sforzavo di riconoscere, costituirono per me la rivelazione della Storia. Non che non mi fossi accorto prima delle architetture, dei monumenti; a questi ero preparato, li consideravo delle presenze quasi ovvie. Quelle carte disegnate mi rivelavano improvvisamente che anche la piccola strada poderale, quasi sommersa dalle erbe aveva una storia e la testimoniava. Insieme ai filari, alle rogge, alle costruzioni rustiche, ai resti abbaziali in stato di semiabbandono, quasi usati con intenzione distruttiva. Esito di un modo immediatamente utilitaristico di intendere il patrimonio storico, senza prospettiva e senza memoria.

Fu allora che incominciai a capire che il territorio è un luogo. Materiale e immateriale, fatto di cose e di memoria delle cose, condivisa. Esito di una ininterrotta sedimentazione di scienze e di sapienze, di gesti e di comportamenti (imparare a “camminare nel fango di risaia e non cadere” ad esempio, come ricorda qui Antonio Tinarelli), di un lessico nascosto dentro i dialetti, di culture non sempre e non solo trasformate in oggetti, sebbene ogni cosa presente ne sia contemporaneamente testimonianza e segno. E poi  una letteratura, prevalentemente orale, che ha prodotto ben più del canzoniere che tutti conosciamo.

Da allora ho provato ogni volta a guardare, a cercare di vedere, accorgendomi che il fascino di questi luoghi cresceva con la loro conoscenza, ritrovando le tracce della loro storia sedimentate e sovrapposte come in un palinsesto. Evocazioni toponomastiche, le pievi e le abbazie, la rete minuta e fittissima dei castelli di pianura, e il Bosco della Partecipanza, medievale nelle sue origini e nelle regole che ne governano la conduzione; alcune  sparse testimonianze auliche,  come Robella e Saletta, resti del sogno grandioso e illuminista di Tommaso Mossi, il funzionalismo lucidamente razionale delle grandi cascine a corte. La fitta trama della rete irrigua, dalle rogge tardomedievali al grande sistema dei canali ottocenteschi: Cavour, Depretis, Lanza, Sella; quasi un olimpo politico. Intorno e dentro la grande pianura, con i suoi coltivi, i piccoli centri una volta rurali, le corti oggi quasi vuote, costruite per coltivare  centinaia di ettari, per ospitare centinaia di lavoranti stagionali.

La modernizzazione della risicoltura, di cui la razionalizzazione della rete irrigua fu uno dei momenti più forti  insieme alla ricostruzione dei nuclei rurali, fu avviata tra Po e Ticino negli anni intorno all’Unità, che furono anche quelli della prima, diffusa maturità della fotografia, della sua definitiva uscita dalla fase pionieristica. Dobbiamo ancora conoscere molto, indagare raccolte e archivi per ricostruire un quadro compiuto della documentazione fotografica storica della pianura risicola, ma certo alcune testimonianze preziose si sono aggiunte negli anni alle cartografie settecentesche e poi napoleoniche, ai rilevamenti minutamente analitici delle tavolette dell’Istituto Geografico Militare.

Fu il territorio o meglio il suo uso a costituire il soggetto della prima campagna fotografica nota. Erano gli anni 1864-1866 quelli in cui Alberto Luigi Vialardi e Cesare Bernieri descrivevano la costruzione del Canale Cavour aderendo, si direbbe ideologicamente, al trionfo ingegneristico dell’opera durante il suo farsi, riflettendone  il senso progettuale, le macchine e il lavoro, sino a trasformare l’enorme cantiere in grandioso apparato scenografico nel quale agivano visitatori di rango, preludio alle immagini della cerimonia di inaugurazione. Lo scarto con la produzione vedutistica precedente era enorme e per queste loro caratteristiche quelle immagini vennero immediatamente adottate per una precisa sebbene non nuova (si pensi a Carlo Bossoli) strategia di comunicazione, divenendo ben presto – in particolare quelle di Vialardi – l’iconografia ufficiale della grande opera, diffuse sotto forma di piccole vedute, assemblate in un unico cartone, con corredo di tavola topografica esplicativa[1]. A queste fecero seguito le Riproduzioni fotografiche e disegni delle opere più importanti dei Canali derivati dal Po, dalla Dora Baltea e dal Sesia, che  Oreste Canavotto, impiegato dell’Amministrazione dei Canali Demaniali, realizzò nel 1884[2],  e poi ancora altre, anonime, alcuni decenni più tardi, forse in occasione  della mostra Vercelli e la sua Provincia dalla Romanità al Fascismo, realizzata nel 1939 a Vercelli nelle sale del Museo Leone appositamente riallestito da Augusto Cavallari Murat, per la cura di Vittorio Viale, direttore dei Musei Civici di Torino ma di origine trinese e già direttore dei musei vercellesi[3].

È in questa serie storica che possiamo collocare le fotografie realizzate oggi da Mario Finotti, con la loro piana e ordinata restituzione dei manufatti come dei più complessi edifici della rete irrigua, insinuando la tentazione, la necessità quasi di un catalogo tipologico: gli edifici di presa, le chiuse, le centrali, i salti d’acqua, i ponti, le riserie e i mulini, i diramatori, gli scolmatori, le vasche, le pompe, l’asta liquida, la superficie sempre liscia, piana e specchiante delle acque dei canali.

Un paesaggio efficiente, un meccanismo complesso e intelligente pazientemente messo a punto nel tempo lungo che origina dalle prime bonifiche medievali, ma che ha subito una forte accelerazione negli ultimi centocinquant’anni. Destinato a durare. Finché ci sarà acqua, almeno. Finché le ombre minacciose delle mutazioni climatiche non si trasformeranno in urgenza ancor più concreta, prospettando un futuro privo di consapevolezza e memoria, quasi un oblio. Come è quello che testimonia e ricorda, quasi beffardamente celebra l’inquietante  nume acefalo della statua di Camillo Cavour in quello che fu il salotto buono di Leri, là dove prese forma il progetto del paesaggio odierno, la prima rivoluzione industriale della risaia italiana.

Solo tra Otto e Novecento, nella stagione che la storiografia fotografica definisce pittorialista,  si manifestò per la prima volta l’attenzione per questo  paesaggio, per  le valenze estetiche di questa pianura, da poco scoperta da certo divisionismo attento senza patetismi alle questioni sociali, come in Morbelli e Pellizza da Volpedo o dal verismo di Clemente Pugliese Levi. Il mondo della risaia,  non più malarico e infetto, non riusciva però a costituire tema di esercitazioni bucoliche, né letterarie né iconografiche: privo del tradizionale richiamo georgico della campagna asciutta come del fascino dei paesaggi alpini popolati di greggi e pastorelle, tanto cari all’iconografia pittorica tra Otto e Novecento. Ciò non impedì di organizzare a Vercelli,  nel 1912, in occasione dell’Esposizione Internazionale di risicoltura,  una “Mostra d’arte della campagna irrigua” destinata a celebrarne gli “aspetti poetici”, accostando alle opere di Morbelli, Follini e Reycend le autocromie di Adriano Tournon, futuro presidente dell’Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia, credo non troppo dissimili se non nelle intenzioni da quelle realizzate dallo stesso Morbelli o dal suo amico casalese Francesco Negri, ma specialmente le stampe fotografiche di Andrea Tarchetti, certo in quegli anni l’autore più attento ai gesti e al mondo della pianura irrigua[4]. Le sue Scene di vita e di lavoro si liberavano  dal bozzettismo per mettere a frutto almeno in parte le nuove possibilità di narrazione offerte dallo strumento fotografico, senza rinunciare alle suggestioni dei più noti (e ingombranti)  modelli pittorici, come fu per le tre istantanee dedicate al corteo di donne in occasione dello Sciopero per le otto ore che si tenne a Vercelli il primo giugno del 1906, in cui forte è l’influsso del modello costituito dal Quarto Stato di Pellizza da Volpedo (1901).

Il lavoro di risaia si stava solo allora avviando a produrre una propria cultura, materiale e linguistica.  Pur nella sua conduzione arcaica, ancora quasi completamente manuale, era un lavoro moderno. In quegli anni  non aveva una tradizione che non fosse di lotte:  forse per questo risulta il grande assente dall’imponente repertorio raccolto e ordinato da Paul Scheuermeier nel 1919 -1925.[5] Negli anni tra le due guerre mondiali l’immagine del territorio, della cultura, del lavoro di risaia si riduceva alle due opposte forme delle foto di gruppo, che conservavano intatto lo schema compositivo e prossemico della tradizione ottocentesca del genere[6],  e della propaganda di Regime, fondata su “l’aureo assioma del Duce, che: nel problema granario italiano il riso è frumento”[7]. Così,  “nel suo slancio verso il popolo, e con particolare simpatia verso il popolo dei rurali, [organizzava] treni confortevoli (…) posti di ristoro nelle stazioni di partenza, di transito e di smistamento (…) appositi modernissimi edifici costruiti dall’Ente Risi [che ospitavano] in lieti refettori, ed in ampie e comode camerate, le squadre.”[8] Tra le piccole provvidenze offerte da questo “vigile amore” anche la fornitura dei grandi cappelli di paglia, avviata con successo nel 1938.

Negli anni del secondo dopoguerra furono le nuove istanze neorealiste, eredi culturali del socialismo  divisionista, ad affrontare il racconto della risaia. Fu Riso amaro (1949), col suo singolare connubio di istanze politiche e neorealiste amalgamate da una forte  “carica di carnalità e di erotismo” (Giuseppe De Santis), che insieme al successivo La risaia di Raffaello Matarazzo (1955) contribuì a porre al centro dell’attenzione la mondina come oggetto del desiderio,  protagonista assoluta e simbolo di tutto il mondo, di tutta la cultura popolare della risaia. Prese così avvio una cospicua produzione fotografica nella  quale accorto mestiere del fotografo e gratificazione della modella occasionale si incontravano sul piano di un blando erotismo ruspante, assumendo l’arcadico mondo rurale nella nascente cultura del fotoromanzo, mentre la descrizione  del ciclo colturale e delle innovazioni tecnologiche restava relegata alle pubblicazioni di settore o negli Atti dei convegni scientifici,  dove si pubblicavano le immagini strazianti delle patologie dermatologiche che colpivano le mondariso, duro contraltare all’iconografia corrente. Nei primi anni Cinquanta le condizioni di vita e di lavoro in molti centri e cascine non si discostavano di molto dalla realtà dell’anteguerra e – per certi versi – addirittura di inizio secolo, mentre iniziava a diffondersi l’uso dei diserbanti, dapprima visto come efficace ausilio alla diminuzione del carico di lavoro, ma ben presto individuato come minaccia e causa ultima di un progressivo e radicale calo occupazionale, tanto che le Federazioni sindacali si ritrovarono a combattere una battaglia di retroguardia, lamentando – ormai nel 1964 – che “buoi e cavalli sono stati sostituiti da trattori e mietitrebbie.”[9]

I gruppi di donne curve nell’acqua melmosa scomparvero rapidamente dai campi e dall’iconografia; ne rimasero solo alcune tracce relitte nella più vieta produzione fotoamatoriale e in certa pubblicistica sindacale.  La pianura irrigua era ormai diventata la fabbrica del riso: “L’elicottero è la mondina degli anni Sessanta”[10] recitava uno slogan di quegli anni.

Da tempo ormai anche il cielo è vuoto, vuota è la scena della risaia.  Vuote le grandi corti e le cascine, apparentemente inutili. Testimonianze imponenti di una storia centenaria, millenaria a volte. Non resti da cancellare però, ingombrati residui di cui disfarsi impunemente con fastidio più che con indifferenza. Invece    presenze che attendono ancora di essere riconosciute come monumenti, espressione compiuta e tangibile di un intrecciarsi di storie, culture, economie che ha dato forma e identità a questi luoghi disseminandoli di tracce che è indispensabile conoscere di nuovo, di cui riscoprire le ragioni e la necessità attuale, non fosse che quella della memoria. Molto di questo, di questo sentimento dei luoghi anche, mi pare di aver ritrovato nelle fotografie che qui si pubblicano.

Che molte di queste immagini siano racconto e non puro documento lo dichiarano le intenzioni del progetto e la prima, esplicita fotografia della serie realizzata da Vittore Fossati, con la sua figura proiettata sul tappeto della risaia fitta di piante, giusto al limite dell’ombra. Il fotografo esce allo scoperto, esce – letteralmente – dall’ombra e dichiara la propria determinante presenza di autore, il proprio volerci essere in ciascuna delle immagini che presenta. La scena è paradigmatica: cieli alti, orizzonte piatto, appena mosso da gruppi lontani di alberi. E riso, riso tutt’intorno. Sono i principali elementi costitutivi di questi luoghi, che Fossati individua in modo sistematico: i corsi d’acqua, naturali e artificiali; le strade, apparentemente rettilinee, che sembrano inseguire l’infinito, come i canali; gli insediamenti e le architetture, come sintesi di storia; e la risaia, certo, nelle sue differenti apparenze stagionali, da laguna a brughiera a campo, lasciando ampio spazio alla teatralità cangiante delle nuvole. Il riconoscimento può apparire ovvio, ma il racconto delle  stagioni non è così comune nella tradizione iconografica del paesaggio, solitamente mostrato in uno solo dei suoi infiniti e ciclici stati, mentre qui la variazione entra più volte a far parte dell’indagine, sino alla sintesi estrema della coppia di riprese fatte a Larizzate, che traducono il dato temporale in composizione  concretamente astratta. Altri sono poi gli elementi strutturali che assumono valore di figura, penso ai canali, per la specchiante simmetria che offrono, ma anche per la silenziosità dello scorrere delle loro acque, così adeguata ai ritmi lunghi della pianura. Penso alle opere idrauliche che li governano, cui ha dedicato la propria attenzione anche Finotti, qui trasformate in occasioni per implacabili collimazioni ottiche che dichiarano tutta l’inevitabile artificiosità della ripresa, gli infiniti rimandi su cui Fossati  costruisce il proprio sguardo. Quello del lettore, dopo: indotto a muovere la propria attenzione lungo linee illusorie, che congiungono spazi a volte solo apparentemente contigui, sempre  tra loro prossimi: tutti appartenenti all’uniforme mondo della risaia. Allineamenti prospettici da immagine a immagine, da figura a figura a ribadire l’invenzione della rappresentazione, la sua natura di racconto precisamente congegnato. Simmetrie minime, tenui (e teneri) congiungimenti che invano ci illuderemmo di ritrovare percorrendo quei luoghi. Paesaggi che nascono dall’uso virtuoso della visione monoculare e statica della fotografia, capace di riconoscere e restituire geometricamente intervalli misurabili, accordi spaziali tra elementi distinti, che solo per questo, solo qui sono così nitidamente posti in relazione tra loro, suggerendo l’esistenza di più profondi nessi, ma anche – più semplicemente – inducendo lo sguardo a vedere. Per molta fotografia l’operazione dell’inquadrare è l’inevitabile modo di coniugare un dentro e un fuori, di suggerire la presenza di ciò che il taglio esclude. Non qui. Per Fossati solo il dentro ha ragione d’essere, solo la rete di relazioni che lui comprende, quelle che fondano la necessità dell’immagine che ci offre. Nelle sue fotografie quasi non ha peso ciò che resta escluso, ciò che sappiamo essere fuori, nel mondo. Lievi spostamenti del punto di vista, che ne celebrano contemporaneamente l’insistenza e le invenzioni, mostrando come basti poco, anche meno di un passo a svelare una nuova immagine, che lo scatto fisserà trasformando in stabile il mutevole, anche non effimero. E poi: provare a voltarsi, chiedersi cosa mai accada esattamente (è indispensabile che sia così) alle spalle di ciò che vediamo e scoprire, qui, forse solo qui, proprio in questo paesaggio, che la scena si ripropone uguale, col solo variare della saturazione dei toni. Una notazione in punta di penna, quasi distratta. Ma tutt’altro che irrilevante. Bell’esempio della sapienza di un narrare che accoglie le suggestioni che la memoria vivente delle immagini offre, non solo quale espressione di coerenza poetica, ma come variazione su un tema già affrontato, quasi ai limiti dell’autocitazione. Penso all’arcobaleno sul Sesia, rievocazione simmetrica di quello che apriva le pagine di Viaggio in Italia (1984), come alla presenza quasi metafisica della pompa di benzina addossata alla muraglia del castello di Montonero, oggetto che compariva  già in uno dei suoi primi Appunti per una fotografia di paesaggio  (1983).  Immagini di immagini. Da leggere ben oltre la loro semplice, quasi spontanea naturalezza, oltre la scala ben temperata dei colori.

Anche Francesco Radino lavora sulla memoria delle immagini, sebbene in modi e per ragioni profondamente differenti: sovrapposizioni, accumuli, figure della sedimentazione che hanno costruito l’immaginario di questi luoghi.  Scomparso il lavoro corporale, a nutrire il ricordo, a certificare l’assenza restano la memoria e il mito, la mondina e la Mangano: due icone.  La descrizione procede per accumulo, per accostamento di frammenti cui la successione fornisce significati nuovi e possibili. Ancora immagini di immagini, ma utilizzate in altri registri narrativi, in un diverso orizzonte di riferimenti che guarda semmai alla grafica e ancor più alla pittura. Mentre certi mossi contengono la memoria lunga delle prime sperimentazioni di Munari e Veronesi, altre riprese, alcune di dettaglio, interrogano le superfici e ne scoprono le fascinazioni materiche, quasi grumi di paste terrose, gli impasti e le luci. Le tensioni superficiali.

Nulla però che abbia a che vedere con le emulazioni sovente ingenue della pittura informale care a certa fotografia dopo gli anni Cinquanta. Questa è invece una lucida strategia di restituzione di porzioni di mondo, condotta accogliendo tutto il patrimonio di scoperte e di esiti che la nostra cultura visiva ha prodotto, particolarmente prossimo e caro a un autore come Radino, figlio di pittori. Qui si mostra come la produzione contemporanea viva in un inevitabile stato osmotico, dove ogni sguardo – anche quello inconsapevole – è intriso di suggestioni infinite, dove il guardare – specie quello d’autore – non può che darsi come azione fortemente strutturata, gesto profondamente cólto ben più che inevitabilmente culturale. Mostrare per suggerire nessi e ragioni che avvicinino alla conoscenza. In questo suo fare il fotografo, diversamente dallo scrittore, si vede letteralmente costretto a misurarsi fisicamente con la realtà delle cose se vuole “produrre il suo miele”, come diceva Lucien Febvre a proposito degli storici. Lavora intorno alla contingenza per  trasformarla in elemento generatore di senso proprio superando la soglia della pura descrittività. Da qui nasce l’urgenza di adottare chiare strategie narrative, insieme interne ed esterne alla singola immagine: dalle scelte compositive alla messa in pagina delle sequenze. Entro i confini dell’inquadratura, poi dell’intero lavoro, entrano in gioco tanto  più sottilmente quanto più consapevoli e controllati, i rimandi e le evocazioni, nella convinzione che la propria opinione sul mondo sia meglio espressa attraverso un processo di mediazione che si nutre di immagini di immagini, di convenzioni rappresentative, discorsive quindi. Radino racconta un lavoro quasi senza figure. Nessun volto, nessun ritratto: solo alcuni gesti primari. Nessuna storia individuale a riassumere in emblema le vicende di molti. Nessuna tradizione.

In un’agricoltura sempre più meccanizzata, in una campagna quasi spopolata, profondamente trasformata nei modi della produzione, delle trascorse presenze (quasi antiche) sopravvivono solo immagini mitiche e incerte, tra loro sovrapposte, già in origine irreali. Il mondo delle mondariso, i gesti, la fatica, le malattie e i canti, le rivendicazioni personali e politiche, le risicate libertà e gli amori non hanno lasciato segni visibili. Nessuno qui che si sia preoccupato di raccogliere e conservare le trame, sparse ma certo fittissime di una collettiva memoria per immagini. I dormitori e le mense giacciono abbandonati, i muri sfarinandosi in muffe che sono l’esito ultimo dell’entropia di quel mondo. L’oggi è – fortunatamente – risaia e macchina, questa raccontata attraverso le superfici dure dei metalli, nelle funzionalità delle forme, sebbene quasi scultoree, nella rapidità dei movimenti che generano altre figure, accessibili solo all’ottica, mentre la trasformazione tecnologica delle piste ha determinato salti di scala e perdite di funzione che mutano le vecchie costruzioni in architetture della memoria, quasi teatrali, dove giacciono immobili gli attrezzi passati, tra l’abbandono e il piccolo, privato altare votivo. Per raccontarli Radino scegli tempi diversi, significanti. Tra le presenze immobili appare un corpo, la camicia fresca di stiratura, la mano che scende al bastone sottile e nodoso:  la figura acefala del signor padrone.

Note

[1] All’Album Vialardi, conservato presso l’Associazione Irrigazione Ovest Sesia (AIOS) di Vercelli devono infatti essere affiancate le immagini dei Fratelli Bernieri di Torino e del fotografo novarese Tarantola conservate presso l’Archivio Storico dei Canali Cavour di Novara (ASCC) e in alcune collezioni private. Undici di queste immagini vennero inviate all’Esposizione di Dublino del 1865, cfr. ASCC, Novara, Libro Mastro A, f.170, 27 aprile 1865.

[2] L’album, intestato alla Amministrazione dei canali Demaniali d’irrigazione Canale Cavour, è conservato presso l’Associazione Irrigazione Est Sesia (AIES), a Novara.

[3] ASCC, Novara.

[4] Andrea Tarchetti, notaio. Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna,  Mimmo Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli, Assessorato alla Cultura, 1990. Le interpretazioni del paesaggio di risaia sono poi ulteriormente mediate – in caso di pubblicazione – dai titoli redazionali  assegnati: così una stessa immagine del 1909 compare come Quiete campestre sulle pagine del milanese “Il Progresso Fotografico” per assumere quello più rarefatto e astratto di Nuages et rizières nella torinese e aristocratica “La Fotografia Artistica”.

[5] Cfr. Paul Scheuermeier, Bauernwerk in Italien der italienischen und rätoromanischen Schwiez. Erlenbach – Zürich: Eugen Rentsch Verlag, 1943; trad it. Il lavoro dei contadini. Milano: Longanesi, 1980; Marina Miraglia, a cura di, Fotografia e ricerca sul lavoro contadino in Italia 1919-1935. Milano: Longanesi, 1981.  Nella  fondamentale disamina di Scheuermeier il ciclo di coltivazione del riso non è preso in considerazione, neppure nel capitolo dedicato all’irrigazione.  Non è stato possibile in questa occasione consultare l’importante archivio di immagini realizzate da Ugo Pellis, a sua volta in contatto con lo studioso svizzero, realizzate nel 1925-1942 nel corso delle inchieste per la realizzazione dell’Atlante Linguistico Italiano, cfr. Voci e immagini. Ugo Pellis linguista e fotografo, catalogo della mostra (Spilimbergo, 1999), a cura di Gianfranco Ellero, Italo Zannier. Milano – Spilimbergo: Federico Motta – CRAF, 1999.

[6]Guardare la storia. Immagini di Pavia e della sua provincia 1915/1945, in “Annali di storia pavese”, n.12-13, giugno 1986: 210, n.5: Anonimo, Cascina Boragno Lomello (Valle Lomellina), Mondine di Mantova che lavorano nelle risaie lomelline, 1920.

[7] Vercelli e la sua provincia dalla romanità al fascismo, catalogo della mostra (Vercelli, 1939), a cura di Vittorio Viale. Vercelli: Federazione dei Fasci di Combattimento, 1939, p. 92.

[8]Vercelli 1939, pp. 96-97.

[9]Federbraccianti Provinciale di Vercelli, Documento n.1. Vercelli: Stamperia Vercellese, 1964, p. 7.

[10]Federbraccianti Provinciale di Vercelli, Documento n.4.  Vercelli: Stamperia Vercellese, 1967, copertina; Id., Documento n.1, p. 6.

Di bianchi e di ombre  (2007)

in Sul limite dell’ombra: Cesare Giulio fotografo, catalogo della mostra (Torino, Museo nazionale della montagna, 17 maggio – 7 ottobre 2007), a cura di P. Cavanna. Duca degli Abruzzi – CAI Torino, 2007, pp. 10-29

 

“noi moderni

siamo stufi

delle panoramiche”

Italo Mario Angeloni, 1934

 

“Senza l’intervento energico di mia madre (…) a 12 anni mi sarei fatto fotografo”[1]  ricordava Cesare Giulio nel 1934, imbastendo la sua propria mitografia per le pagine di “Galleria”, allora la sola rivista fotografica italiana di respiro internazionale. Così non fu: divenne impiegato contabile, e invece di fare il fotografo fece fotografie.

Anche la scelta dell’età indicata non pare casuale. Per lui, nato nel 1890, corrispondeva all’imponente evento torinese dell’Esposizione di Arte Decorativa e Moderna, dove la fondamentale sezione fotografica offriva la più ampia occasione di confronto con gli autori più affermati del pittorialismo internazionale.  Inverosimile credere che quella mostra potesse interessare un ragazzino, e del resto Giulio non ne fa cenno, ma questa corrispondenza  a posteriori appare significativa.

Le sue prime prove datate risalgono al 1911, intorno ai vent’anni quindi, e sono le tipiche immagini dei fotoamatori torinesi amanti della montagna: vedute alpine e gruppi, molti gruppi. Com’era stato anche per la generazione precedente: quella di Mario Gabinio.[2]  Non solo quelli però: tra le sue primissime[3] riprese anche un Sentiero brinato che sembra essere ben più di una pura evocazione dell’analogo soggetto di Demachy pubblicato nel 1906[4]; un vero e proprio esercizio di stile, una precoce verifica delle proprie capacità condotta misurandosi con un tema e un trattamento stilistico allora considerati come raffinati  modelli.

Nulla sappiamo della sua formazione, nulla che ci sia rimasto della sua biblioteca (se mai è esistita), ma non doveva essere difficile costruirsi una cultura fotografica,  necessariamente autodidatta, nella Torino degli anni de “La Fotografia Artistica” e della piena maturità del gruppo di autori che si riuniva sotto l’egida della Società Fotografica Subalpina, le cui esposizioni costituivano un importante occasione di diffusione del gusto pittorialista. Proprio al magistero riconosciuto di uno degli esponenti più in vista della SFS, Cesare Schiaparelli, sembra aver guardato Giulio nelle sue prime prove come Pecore al pascolo, 1922, in cui anche l’impaginazione centinata dell’immagine richiama i modelli pittorici da quello utilizzati, mentre negli anni successivi si tratterà piuttosto di prestiti reciproci, a testimonianza della comune appartenenza a una scena fotografica allora molto solida e connotata.[5]

I fogli dei primi album di Giulio, accuratamente composti e impaginati, a volte da lui decorati con certa ingenua maestria, confermano la consuetudine della fotografia diaristica, l’abitudine di tutto un gruppo di amici che “ad ogni ora, quasi ad ogni mutar di paesaggio, facevano scattare, obbligandoci a posare per il gruppo, sul sentiero, innanzi a casolari, sulle vette, sul prato, ovunque insomma.”[6] Ancora quasi vittima delle circostanze si direbbe, ma alcuni indizi lasciano intendere come le sue intenzioni potessero già allora, forse ancora confusamente essere un poco diverse, oltre le apparenze e le poche testimonianze rimaste: penso all’uso di più formati (dal 4,5×6 al 9×12) ma soprattutto all’accuratezza compositiva di certe immagini di quegli anni.

Le fotografie del primo anteguerra sono esplicitamente debitrici del repertorio offerto dalle riviste italiane dell’epoca, aggiungendo tra i riferimenti oltre a Schiaparelli anche il nome di Andrea Tarchetti[7], alle cui Scene di vita e di lavoro sembrano avvicinarlo non solo i modi compositivi e di trattamento, ma anche una più generale, non occasionale attenzione per quel mondo popolare, rurale e alpino, cui la cultura fotografica piemontese aveva dedicato una certa attenzione almeno a partire dalla pubblicazione, nel 1890[8], del volume di Vittorio Sella e Domenico Vallino.  La resa del soggetto appare in quei primi anni ancora in bilico tra la convenzionalità retorica del ritratto della Zia Paolina, 1911, e la potenza realistica della giovane valligiana ripresa in interni (Tipi: Valle dell’Orco, 1914). Entrambe le figure emergono dal nero del fondo, ma con esiti e significati differenti: se nella prima questo cancella ogni connotazione di luogo e di tempo, nella seconda identifica l’incombente condizione di vita della ragazza. Nelle opere di poco successive, forse meno sentite, l’iniziale attenzione per il mondo popolare, tra etnografia ingenua e attrazione per il pittoresco, progressivamente si stemperava avvicinandosi al bozzettismo dichiaratamente  ‘artistico’ di Peretti Griva e di Bricarelli[9], stilisticamente marcato dall’uso di obiettivi a fuoco morbido (Costume, 1919), dove l’uso del flou rappresentava la più immediata strategia di distanziamento dalla ripudiata  referenzialità documentaria.

Ancor meno sappiamo della biografia di un uomo che ha lasciato quasi solo tracce fotografiche della sua esistenza, ma l’analisi cronologica della sua accurata, ma non sempre ordinata sequenza di numerazione dei negativi mostra una significativa soluzione di continuità: le prime serie, già molto lacunose sino al secondo migliaio per ragioni non note, si interrompono all’equinozio di primavera del 1915 per riprendere solo nel  1919[10], dopo un lungo silenzio di immagini. Degli anni della grande guerra, di un suo eventuale coinvolgimento, di una sua reazione affidata alle immagini nulla ci rimane.

Con la ripresa postbellica la sua intenzione si fece più esplicita. Non bastandogli più quella “stomachevole collezione [di] scipite fotografie che riproducevano il paesaggio soltanto”, si propose infatti di realizzare “qualcosa di più alpino, di più commovente al cuore dello scalatore, quando non solo narrasse ma che piuttosto cantasse.” (Giulio 1934, p. 7). È di quell’anno la realizzazione di un album dedicato al Monte Rutor, organizzato come un vero e proprio racconto fotografico: quasi tutti paesaggi di dettaglio, corredati di brevi testi ‘poetici’ siglati da un non meglio identificato G.R. Tra le molte spicca un’immagine della cascata, terribile e incombente sulle minuscole figure di due alpinisti in controluce: “Formazione Cascata Rutor con negativo n° 1546 e personaggi n° 1544” recita l’iscrizione sulla busta del negativo, confermando l’impressione netta che si tratti di un fotomontaggio;  per accrescere l’efficacia narrativa dell’immagine Giulio aveva aggiunto le due sagome, adottando una pratica che era stata già di Vittorio Sella[11]. Superato di netto ogni vincolo documentaristico l’autore si concedeva all’invenzione e usava ogni mezzo per costruire il proprio racconto per immagini, come gli accadde più volte di fare nei decenni successivi, come aveva già fatto in una delle sue prime prove (Alpe Cruvin, 1912), imbastendo la regia di una fulminante e ironica commedia in un solo atto e in una sola scena, poi accuratamente montata su supporti diversamente colorati per sottolinearne l’intento esplicitamente artistico.

Tra i soggetti obbligati di quegli anni il paesaggio, non ancora quello alpino e invernale però, poco adatto alle sperimentazioni cromatiche e materiche dei viraggi, delle colorazioni, delle stampe ai pigmenti con cui si doveva misurare chi volesse mettere a punto i propri strumenti espressivi nel confronto coi modelli più noti e celebrati. Molte le riprese in controluce, tutte costruite sul contrasto nettissimo ed efficace tra la pura bidimensionalità del nero del soggetto principale, solo identificabile dal profilo, e la massa cangiante delle amate nuvole, quelle che costituirono i suoi “primi tentativi estetici” , il suo “tema favorito.  (…) La nube, ora leggera, vaporosa, ora cavalcante attraverso i cieli in un maestoso cumulo, aralda di tempesta, è sempre stata a me cara come ai sognatori romantici di un tempo” (Giulio 1934, p. 7), quasi vivente di vita propria, pronta a migrare da immagine a immagine (Le belle fotografie di Torino, 1928; Minaccia di nubi, 1928).

Sono quei primi paesaggi (1913-1915 ca) a essere virati in toni antinaturalistici, forzati e teatrali sebbene ancora propriamente fotografici  (Quattro paesaggi in controluce, 1913 ca; La valle della Dora Baltea nei pressi di Ussell, 1914), mentre le più marcate manipolazioni proprie delle stampe in ozobromia (Annecy, 1927; La Dora Baltea, 1927-1928; Villaggio alpino, 1928; Lago Maggiore – S. Caterina del Sasso, 1929 ca); condotte a volte sino alle coloriture a pastello di dubbio esito, datano alla fine degli anni Venti, sorprendentemente coeve delle prime e già molto apprezzate immagini di sci, espressivamente così distanti: tutte affidate ai virtuosismi della grafia e della modulazione monocroma. Ciò che accomunava questi opposti esiti, quelle che a noi appaiono poco comprensibili oscillazioni del gusto era forse la convinzione che “in realtà la fotografia è tutt’altro che una fedele immagine del vero”, come aveva scritto già nel 1898 Enrico Thovez e come sostenevano gli esponenti del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica, nato in seno alla Società Fotografica Subalpina nell’inverno del 1921. Le loro divergenti direzioni espressive, tra ispirazione pittorialista e sintesi modernista, proseguirono ben dentro quel decennio, a documentare una fase della cultura fotografica – non solo italiana – che troppe volte una storiografia  approssimativa ci ha restituito come un procedere lineare e quasi deterministico. Giulio praticò le manipolazioni fotochimiche sino al 1929 circa, quando  lasciarono definitivamente il posto al lavoro sull’inquadratura, sovente condotto in fase di stampa, di riconsiderazione critica del negativo: taglio su taglio (Val Gimont: sciatori, 1925-1926; Dormillouse presso Colle Chabaud, 1931-1932). Ciò su cui interveniva non era più il continuum spazio-temporale del mondo, ma una porzione d’immagine, ponendo in essere una riscrittura, una revisione del testo iconico che allontanava l’esito fotografico dalla sua natura di traccia, favorendone l’efficacia comunicativa di icona. Non per  questo era scisso il legame con la contingenza originaria, che la fotografia manteneva inevitabilmente e (qui) volutamente in ogni suo frammento, affinché “il piccolo quadrato della positiva [potesse esprimere] quanto non solo aveva visto ma quanto aveva sentito” l’autore (Giulio 1934, p. 7).  “Entro questo rettangolino – proseguiva – io scopro interamente il quadro con somma facilità e con tutti i suoi essenziali elementi, sicché quando scatto io vedo già innanzi agli occhi il negativo. Io non so se questo sentire è di tutti! Intuire, conoscere già il risultato del negativo, nell’inquadratura, nella posa, come stampa e infine come prova finale ingrandita. Mai forse, posso dire, di avere scattato a caso, senza sapere ciò che volevo cogliere dal soggetto che mi interessava.” (Giulio 1934, p. 9)

La legittimità della rielaborazione anche compositiva del negativo, certo la più importante eredità culturale della stagione pittorialista, veniva riconosciuta ed esaltata in quegli anni anche dai critici italiani più avveduti: “il fotografo artista può sempre trovar modo, coll’ingrandimento, di operare un sapiente lavoro di analisi e di scelta, il quale (…) può approdare a vere e proprie scoperte. O, meglio, riscoperte. Ecco un esercizio, un senso, tipicamente – perché insostituibilmente – fotografici. Ecco una sintesi di secondo grado, sulla lastra che approfondisce di infinite prospettive linee, ombre e piani, al modo che gli armonici di una nota le prestabiliscono intorno un ronzio metafisico, cui l’orecchio del musicista soltanto sa carpire l’armonia contemporanea del basso d’accompagnamento, o la cadenza successiva della melodia.” (Pellice 1932, p. XI)

Era il 1920 quando Giulio, ormai alla soglia dei trent’anni, ebbe occasione di partecipare alla sua prima esposizione quale membro della Società Unione Giovani Escursionisti; un evento in tono minore, certo, ma forse non senza conseguenze se alcune stampe di quegli anni riportano la scritta “vietata la riproduzione”; se il negativo n.3262 risulta “ceduto a Brunner”, cioè ad uno dei massimi editori di cartoline. Ben più rilevante fu la partecipazione, con ben cinque opere, alla “Prima esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia” che si tenne sempre a Torino nel 1923[12], e il diploma di medaglia d’argento che ricevette.  Credo però che l’elemento per lui più significativo – ben più che il confronto inconcepibile con alcuni esponenti delle avanguardie europee presenti in quell’occasione, come Rodchenko o Drtikol – sia stato il riconoscersi per la prima volta parte di una ben definita scena artistica se non ancora di un vero e proprio gruppo.  Pochi anni dopo la novità della sua presenza, già autorevole,  sarebbe stata prontamente segnalata da Italo Mario Angeloni, che nella recensione alla  mostra sociale 1925 della SFS parlava di Giulio come di  “uno dei migliori fotografi delle profonde visioni alpine”, autore di  “alcune superbe istantanee rapite alle altitudini supreme” (Angeloni 1925), una delle quali (Armonie invernali)  venne pubblicata sulle pagine del “Corriere Fotografico”.  La partecipazione, nel dicembre dello stesso anno, al Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale, promosso dal Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e dalla Società Fotografica Subalpina, gli frutterà inoltre la pubblicazione sul successivo annuario di Luci ed Ombre. “Nel bel quadro invernale Le Alpi del Prà di Cesare Giulio – scrisse Guido Lorenzo Brezzo in quell’occasione – i morbidi toni e le delicate trasparenze s’accordano per esprimerne il senso fondamentale: l’incubo dell’ombra che discende. Fissate la grande massa grigia, e vi parrà di vederla calare e allargarsi, invadere il piano e sommergerlo, e sentirete entrarvi nelle carni qualcosa come l’orrore della tenebra e il brivido del gelo.” (Brezzo 1926, p. 15) A  questa fobica lettura si sarebbe affiancata l’interpretazione di Angeloni che parlava invece di  “frigidi raccoglimenti che placano nella visione il nostro spasimo cittadino” (Angeloni 1927), dimostrando entrambi, sebbene implicitamente, l’assoluta irrilevanza del dato referenziale e il prevalere di un’intenzione, autoriale e poi critica, potenzialmente simbolica, che avrebbe ben presto portato al riconoscimento dell’autonomia del significante, della forma. “è un nuovo mondo che si traduce in sintesi più intime e complesse; si comincia a sentire che in arte contano gli elementi essenziali, che alla nostra anima moderna bastano pochi ma decisi lineamenti per produrre in essa la gioia etica ed estetica della visione.” (Angeloni 1925b, p. 68)

Quasi un manifesto di queste posizioni estetiche fu La scia, presentata al Circolo degli Artisti nel maggio 1927 alla seconda mostra del Fotogruppo Alpino.  Questa “pittoresca visione di neve soffice segnata da un arabesco tracciato da un audace sciatore, puntino nero nella bianca immensità” (Zanzi 1927), questa “fulminea sensazione di velocità” (Bernardi 1927, p. 17) già riprodotta sulle pagine di Luci ed Ombre (1927, p. VII), venne poi pubblicata in Modern Photography, il prestigioso annuario della rivista londinese “The Studio” del 1931, vera summa della fotografia modernista, accanto a immagini di Florence Henri, André Kertesz, Germaine Krull, Man Ray, Lazlo Moholy-Nagy e Tina Modotti  tra gli altri, oltre agli italiani Achille Bologna e Stefano Bricarelli[13], costituendo per Giulio la vera consacrazione internazionale.

Piero Ghiglione, gran viaggiatore e alpinista[14], ne fece uso per illustrare il proprio volume dedicato a Lo sci e la tecnica moderna (1928) affrontando in quell’occasione una questione che certo accomunava le due pratiche e a cui Giulio non doveva essere insensibile: “Il vero stile. È stile il principiare le curve proseguendo con altre. (…) è vera arte, in malvagia neve o dirupato pendio, cogliere l’attimo opportuno per disegnare  curve prestigiose: il provetto, che vuol far dello stile, trova sempre la soluzione adatta ed estetica dei più difficili problemi.” (Ghiglione 1928, p. 257). Quasi una descrizione letterale di un’intera famiglia di immagini di Giulio e non solo, ma ciò che più preme sottolineare sono le conseguenze di un dato apparentemente secondario: la differente titolazione di queste fotografie.  La scia venne pubblicata col titolo didascalico e puramente referenziale di Presso la Punta Gimont  (t.10), coerente col diverso contesto e uso. Questa sola mutazione ne determinava la trasformazione radicale dello statuto; da opera tornava ad essere documento, da icona disponibile per una lettura simbolica si riduceva nuovamente a traccia, senza nulla mutare delle proprie apparenze formali. Risulta chiaro allora come la perdita di rilevanza del referente a favore della interpretazione autoriale fosse indotta  proprio dalla variazione del titolo, elemento fondante – per la sua funzione connotativa –  della costituzione dell’opera, come avrebbe riconosciuto Mario Bellavista nel diciottesimo dei suoi Concetti per fotografi moderni: “Il titolo fa parte dell’immagine. Anzitutto perché costituisce un’interpretazione dell’immagine fotografica; in secondo luogo perché facilita la lettura e quindi la comprensione dell’immagine da parte dell’osservatore.”[15]  Anche per questa fotografia il confronto col provino conferma l’adozione di un sapientissimo taglio in fase di stampa, una reinterpretazione della ripresa originale in cui l’autore aveva riconosciuto “qualche buon effetto di luce e caratteristiche di modernità per quanto spontanee” (Giulio 1934, p. 7), dove aveva ritrovato “la semplicità del motivo [che considerava] sempre il maggior valore dell’opera.” (Giulio 1936, p.3)

Un’altra delle sue più note immagini di quegli anni, Audax, 1928, è invece frutto di un taglio (da Fra rupi e ghiacci – Monte Bianco, 1928) e di un fotomontaggio (dal neg.  3793), integrati da sapienti interventi manuali a tempera e pastello. Di queste virtuosistiche manipolazioni che ne contraddicevano l’aspetto di magistrale istantanea, non  parvero accorgersi i generosi commentatori coevi che parlavano di  “an impressive rendering of snow and sunshine” (Mortimer 1928, p. 24), di “spettacolo troppo vasto e invincibile dell’orizzonte senza confini. [Dove] le sue figure dominano vittoriose la scena.” (Boggeri 1929 b, p. 15)   Ancora alcuni anni più tardi si sarebbe parlato a proposito di un suo lavoro (Linee, 1930)  come di “un buon esempio di una verità ormai largamente intesa nel mondo fotografico più attento: essere cioè assai più vicina all’arte, più suggestiva, una immagine ottenuta come questa con puri mezzi fotografici, che non un’altra ottenuta attraverso manipolazioni varie per darle, precisamente, un aspetto ‘artistico’.” (Rossi 1933, p. XV)  Del resto lui stesso avrebbe dichiarato di detestare “l’artificio come illusione”, intendendo con questo riferirsi – credo – non tanto alla legittimità delle manipolazioni, praticate lungo tutta la sua carriera, ma al loro scopo e finalità: la sua invenzione era realistica, non fantastica, destinata a rafforzare l’effetto di realtà, magari spettacolarizzandola. Come aveva ben detto Brezzo “Guardando il superbo Audax di Cesare Giulio, mi viene in mente che invece di indire, come si fa per amore di novità ad ogni costo, concorsi fotografici a soggetto essenzialmente moderno, assai meglio sarebbe richiedere trattazioni essenzialmente personali di soggetti ordinari. Sarebbe facile allora distinguere i vuoti cervelli balzani dai veri artisti. Ma per questo bisognerebbe ricordare che in arte ciò che importa non è il nuovo, che del resto sarà vecchio fra una settimana, ma la personalità.” (Brezzo 1929, p. 778) Questa distinzione risulta importante per comprendere la cultura fotografica torinese e italiana di quegli anni, per collocare correttamente la presenza di Giulio, il suo raffinato minimalismo. Non possiamo dire che sia stato un modernista, categoria allora sospetta e quasi rifiutata, quasi quanto quella denigratoria e generica di astrattista se non addirittura di futurista[16], nonostante la presenza torinese di Fillia[17]. Egli fu piuttosto uno dei massimi esponenti, con Bricarelli e Baravalle almeno, di quella importante fase di transizione e di maturazione che per pura necessità classificatoria potremmo provvisoriamente chiamare secondo pittorialismo e che costituì il necessario antecedente e tramite con le ricerche formaliste del secondo dopoguerra[18]. Significativa in tal senso mi pare l’elezione di Giulio nel 1927 a membro del Consiglio direttivo del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica, ricostituito sulla base della riconosciuta “opportunità ed anzi la necessità di dare al movimento fotografico artistico un preciso indirizzo, seguendo l’azione dei gruppi pictorialists inglesi ed americani, secondo concetti tecnici ed estetici ben chiari e definiti”[19], identificabili in “quella tendenza verso la sintesi, l’unità, la semplificazione, la linearità, la regola, onde – dall’architettura alla pittura, dalla decorazione alla scultura e direi quasi alla poesia – sembra oggi improntarsi l’arte tutta quanta”[20], sebbene poi ciò si traducesse nell’assenza di un confronto, nel rifiuto quasi  dei precetti e dei modelli proposti dalle più avanzate esperienze europee.

Il suo impegno militante si esprimeva in quegli anni anche come membro e attivo organizzatore del Fotogruppo Alpino, di cui sarà Presidente dopo Adolfo Hess (1929), mentre si avviavano le sue prime esperienze internazionali con la partecipazione nel 1928  al Salon di Parigi. Questa attività  ebbe nell’anno successivo  uno sviluppo esponenziale[21]: Boston, Edimburgo, Goteborg, Parigi, Elboeuf, Saragozza, Barcellona e Londra, al cui Salone ottenne il quinto premio assoluto. “Le scene alpine e di nevi di Giulio Cesare – scrisse un anonimo recensore in quell’occasione[22] – appartengono alle cose migliori del genere esposte finora in questo paese. La loro finezza e la delicatezza delle ombre sulle nevi, e l’inclusione delle figure, sono meritevoli di alta considerazione”. Che la fotografia italiana, torinese in particolare, fosse in quegli anni sottoposta a un processo di aggiornamento orientato dal ‘gusto europeo’ venne riconosciuto pur con giudizi diversi da numerosi osservatori che ne comprendevano “la volontà di fare con la fotografia un’arte di pura rappresentazione impersonale, un’arte oggettiva” (Rossi 1933, p. XIV), ma anche “il tormento del moderno, la ricerca della originalità qualche volta spinta fino all’eccesso.” (Angeloni 1933, p. 252), svelando contemporaneamente il conflitto critico tra chi si nutriva, magari superficialmente, delle suggestioni delle nuove poetiche europee e i sospettosi esponenti della tradizione pittorialista.

Qui, ancora una volta, l’opera di Giulio si rivela paradigmatica.  La sua economia di mezzi, la riduzione dei segni e dei toni costituivano l’aggiornamento piuttosto che il superamento del pittorialismo imperante, esito della scelta di altri modelli di riferimento, di altre suggestioni, non ultima la grafica giapponese.[23] L’eliminazione del volume prospettico in favore dell’esaltazione della superficie, l’adozione del tono alto inducevano a fondare il proprio bagaglio espressivo sulle pure potenzialità delle modulazioni tonali, intrecciando il proprio con altri percorsi coevi sebbene distanti: basti qui ricordare l’opera di  Moholy-Nagy, che aveva utilizzato sequenze di sciatori e scie tratte dal testo Wunder des Schneeschuhs di Arnold Fank[24].  La sua cultura fotografica era quella dei Salon, di Luci ed Ombre. Ai suoi livelli più alti, certo, ma anche con tutti i limiti che la caratterizzavano; una specie di autarchia culturale che le limitazioni imposte dal regime fascista non sembrano sufficienti a giustificare; una sostanziale prudenza espressiva, lontana ad esempio dai rischi delle ultime prove di  Gabinio[25], mediate dalla conoscenza delle immagini diffuse dalle riviste di architettura come “La Casa Bella” e  “Domus”, che furono il vero strumento di aggiornamento visuale della cultura fotografica nostrana.  Quella di Giulio era una  cultura che rifiutava le proposte ‘futuriste’ – pur adottandone non raramente le soluzioni formali – così come rifiutava la macchina e tutto l’universo della produzione industriale che già allora caratterizzavano monoliticamente Torino[26].

Questa che noi leggiamo come una contraddizione interna, questa tensione irrisolta tra tradizione e innovazione narrativa e linguistica, era la condizione comune a gran parte della fotografia italiana tra le due guerre (Stefano Bricarelli, Giulio Parisio o il più giovane Riccardo Moncalvo  tra gli altri). Degli autori come dei critici loro compagni di strada.  Oggi – scriveva “Il Corriere Fotografico” nel 1933 – la veduta fotografica si prende in ogni senso: dall’alto, dal basso, dritta, inclinata […] oggi tutto vuol essere semplice […] l’esagerazione di una parte del soggetto può concorrere alla messa in valore od all’equilibrio delle altre parti […] Nel nuovo anno la Rivista sarà larga di ospitalità alle moderne manifestazioni dell’arte fotografica italiana e straniera senza un sistematico quanto ingiustificato ostracismo, ma pur senza una deplorevole e non meno esiziale indulgenza. In arte c’è chi tutto riceve dall’esterno, riservandosi, al massimo, la libertà di una visione propria, più o meno geniale, del soggetto; altri invece rivendica e si arroga il diritto di nulla accettare di quanto pretende essere segnato dal marchio dell’arte, ma di modificare nel senso della sua impressione il freddo decalco che l’occhio di cristallo, la lente, ha raccolto. La prima è percezione, apercezione la seconda, quella rivela e testimonia, questa traduce ed esprime.” (De Albroit, 1933) Che i due piani potessero sovrapporsi sino a coincidere pare non fosse neppure concepibile, tanto che nello stesso testo, mentre si sottolineavano le forti qualità compositive di una fotografia di Giulio, date dalla “visione dall’alto di cinque Barche a riposo  che si staccano bianche sul fondo nero delle acque”, non si sapeva  rinunciare alla facile analogia narrativa della chiusa: “par che attendano, dopo breve sosta, l’usata fatica.”

Questo era il contesto in cui si esprimeva ed era accolto Cesare Giulio, autore di un’opera (Armonia bianca Candori, 1934) modernamente interpretata come “un cielo senza cielo: cielo silenzioso di neve immacolata e intatta, con abeti sottili e ombre diafane d’abeti per nuvole” (Brezzo 1934, p.  XIV), ma anche come la restituzione di uno scenario “donde romantici atteggiamenti di conifere levano un ritmo di melanconia.” (Angeloni 1934). Le riserve antimoderniste erano esplicitamente espresse dall’editoriale di Luci ed Ombre del 1934, che scetticamente enumerava i caratteri del nuovo: “Modernità di cifra, vale a dire quella scheletricità geometrica di linea[27] congiunta spesso ad uniformità di superfici luminose, che, sorta dalla natura del soggetto macchina, viene spesso usata per assimilare a quello qualsiasi altra specie di soggetto. (…) modernità di prospettiva e di taglio, ché il taglio non è se non una prospettiva artificiale. Le aberrazioni in questo campo sono senza numero né misura. I futuristi le giustificano appellandosi, legittimamente fino a un certo punto, alla nuova esperienza della navigazione aerea[28], ma dimenticando che, anche quando ogni cittadino che si rispetta possederà un proprio aeroplano, rimarrà pur sempre l’importuno senso della gravità ad avvertirci che tutte le prospettive che s’allontanano dalla perpendicolare sono anormali, e che per non  essere assurde debbono trovare una ragione fisica od estetica.” (Brezzo 1934, pp. XI- XIV)

In questo ambiente certo non particolarmente stimolante Giulio riuscì però a realizzare opere di grande rilevanza e interesse, nuove e compiute, adottando nei confronti dei suoi prediletti soggetti alpini strategie diverse, una varietà di toni che muoveva dalla celebrazione del virtuosismo de La scia, 1927 o Audax, 1928, al divertissement ironico di Topolino sciatore, 1932; dal fascino delle riprese in panning (Sciatori provetti, 1938) che sarebbe stato poi di Gasperl, Mollino e Moncalvo[29],  all’astrazione del gesto elegante di Kristiania, 1931, dove il progressivo lavoro di sottrazione condotto in ripresa e poi sul negativo si traduce in esiti puramente e modernamente fotografici, sino all’estremo limite della scomparsa della figura in controluce:  “in modo che la sbuffata della neve originata dal telemark o dal cristiania strappato, resti come un vapore nel raggio del sole.” (Giulio 1936, p. 4) Solo comune denominatore la levità delle forme e dei gesti: nel mondo di Cesare Giulio non c’è dramma né fatica; anche i paesaggi vivono sospesi in un tempo di commossa contemplazione. Il fotografo scava intorno al tema, si muove per affinamenti progressivi sino a lasciare fuori campo il soggetto comunemente inteso, il corpo, l’albero, mentre altri elementi apparentemente secondari conquistano la scena. Penso alle ombre, a quelle tracce che furono il segno distintivo di un’intera generazione di fotografi e che qui progressivamente si trasformano in pura rappresentazione materica di una superficie, sebbene non rinunciando ad una interpretazione metaforica (Progresso, 1936); sono realizzazioni concrete per quanto involontarie di quel “dramma degli oggetti”, di quel “dramma delle ombre (…) isolate dagli oggetti stessi” che aveva invocato il Manifesto della Fotografia Futurista.  Allo stesso ambito, certo nutrito da più ampi riferimenti internazionali, vanno poi condotte opere come  Palestra bianca[30], 1936, e Formiche[31], 1937, che proprio nell’efficace novità del punto di vista, delle possibilità compositive offerte dalla nuova visione scorciata dall’alto trovavano le ragioni della loro realizzazione e del loro immediato successo.

Questa diversità di approcci e di soluzioni narrative e stilistiche la ritroviamo anche negli altri temi e soggetti che il ricco archivio di Giulio ci offre, consentendoci di affrontare un altro dei nodi critici significativi di questa vicenda espressiva, come di quella stagione culturale. Mi riferisco alla fitta  rete di rimandi, suggestioni e prestiti che lega l’opera di Giulio a quella di altri autori coevi, non solo torinesi. Già in altre occasioni[32] mi è accaduto di suggerire  quasi la figura di un ‘autore collettivo’,  a indicare la rilevanza del fenomeno. Le infinite variazioni sul tema della grafia delle tracce, delle modulazioni del bianco costituiscono il comune denominatore di molta della produzione  – non solo italiana, a dire il vero – del periodo tra le due guerre mondiali, con esiti portati al limite della citazione  reciproca, quasi del plagio. Opere che nascevano dalla convinzione che il paesaggio potesse funzionare come un pre-testo, un materiale da rielaborare per  scrollarsi di dosso il gravame della referenzialità; fotografie che negli esiti migliori la critica coeva riconosceva come estranee al genere, al di là delle apparenze.[33] Per questi autori lo scenario alpino non era semplicemente una pagina bianca disponibile a nuove scritture, era di più: un soggetto evanescente e quasi immateriale, individuato con naturalezza quale ovvia conseguenza di antiche passioni e frequentazioni. Ma non era il solo; né il confronto si riduceva ai modi di trattamento del soggetto. Anche altri elementi dell’opera, come il titolo, erano messi in gioco e collettivamente ripresi, in un flusso continuo di scambi tra autori e opere che si tradusse nell’elaborazione collettiva del linguaggio della modernità fotografica italiana, quello che sarebbe stato illustrato e certificato quasi dall’annuario di Domus del 1943[34].

Già alcuni esercizi di stile di Giulio della fine degli anni Venti, quali i grappoli d’uva, tra  le rare nature morte da lui tentate, sono assimilabili alle analoghe prove coeve di Bologna e Gabinio e certo numerose furono per le occasioni di incrociare i propri passi con quelli del più anziano e appartato collega,  almeno in occasione di importanti eventi pubblici quali le cerimonie per la beatificazione di Don Bosco o per l’ostensione della Sindone del 1931, che entrambi fotografarono, o durante il lungo e complesso cantiere della ricostruzione di Via Roma. Sebbene non sia documentata alcuna conoscenza diretta, nonostante la comune appartenenza al CAI, alcune opere restano a testimoniare un dialogo: penso ad esempio alla ripresa delle acque del Po alla diga a valle del ponte Vittorio a Torino (1928) realizzata da Giulio  nel 1928, di cui non è nota alcuna stampa, in strettissima relazione  con Po che Gabinio espose a Torino, alla I Esposizione fotografica sociale dell’ALA del 1935, con Giulio membro della giuria di accettazione.[35]  Ben più stretti e documentati furono i rapporti con Stefano Bricarelli, con cui condivise la partecipazione a diversi Salon e Mostre come l’appartenenza al Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e al Fotogruppo Alpino. Questa consuetudine lasciò tracce evidenti sia in alcune prove degli inizi di Giulio come Costume del 1919, o nella più tarda San Fruttuoso, 1932, e in genere nei paesaggi non alpini, mentre la freccia dei debiti cambiava direzione nelle elaborazioni bianco su bianco, come le Tracce o i Ricordi di Sestrière di Bricarelli[36].

Il luogo, ideale e materiale a un tempo di questi confronti era certo la biblioteca del Club Alpino Italiano, ricchissima di volumi illustrati dedicati alla montagna e allo sci, ma specialmente gli uffici del “Corriere Fotografico”,  sede anche del Gruppo Piemontese, dove  erano “a disposizione dei Membri residenti in Torino e di quelli di passaggio una estesa biblioteca artistico-fotografica e tutte le Riviste di fotografia che si pubblicano nel mondo.” La dispersione di questo preziosissimo materiale può consentirci solo di immaginare la varietà e la ricchezza delle fonti disponibili, in piccola parte ricostruibili come corpus a partire dai fondi e dalle donazioni fatte alla Biblioteca del Museo Nazionale del Cinema di Torino da alcuni dei protagonisti di quella stagione come Italo Bertoglio e Carlo Matis[37]. Tutta la ricca vita associativa torinese era però occasione di scambi e  confronti.   Un altro dei suoi interlocutori era Mario Bellavista, fotografo, critico militante, consulente tecnico dell’ALA e rappresentante della società Gevaert, con cui era in contatto almeno dalla fine degli anni Venti[38] anche per la comune partecipazione a mostre, a partire da quella di Monza del 1927. Al “dramma delle ombre” che costituiva il tema di una delle sue immagini più note ed efficaci, Imbarco, pubblicata in Luci ed Ombre del 1933 (t. XX) possiamo allora legittimamente accostare Genova. La partenza del “Città di Livorno”  di Giulio, che è del 1932, cioè verosimilmente coeva, mentre altre suggestioni nascono dall’analisi delle pubblicazioni dell’epoca. Si confronti Elettricità/ Nubi  del 1936 con Alta tensione di Bruno Stefani (1931-1932),  un autore cui lo accomunano anche certi modi di resa dei paesaggi italiani e l’insistita ricerca sul tema dei fiori e (ancora) delle ombre[39]: è quanto accade in Fiori di campo e Dalia , entrambe del 1932, certamente da porre in relazione col concorso fotografico dedicato alla “Fotografia di un fiore” indetto nel giugno di quell’anno  da “Natura”, con cui collaboravano sia Giulio che Stefani,  con la casa di prodotti fotografici Tensi[40].

Altri esempi potrebbero succedersi, innumerevoli. Dalle più immediate consonanze col lavoro dei Fratelli Pedrotti e di molti torinesi come Carlo Matis, Piero Oneglio, Ettore Santi[41], alle non occasionali reminiscenze che si ritrovano in Federico Vender e in Giuseppe Cavalli, di cui Giulio non anticipa solo l’adozione sistematica e coerente del tono alto, ma anche l’attenzione per certi soggetti specifici, come i panni stesi al sole, occasione di verificare contemporaneamente la tenuta della composizione e la rapidità dell’istantanea.[42]

Un sentire comune, una virtuale comunità di fotografi estesa ben oltre la stretta appartenenza ai gruppi e poi ai circoli, indifferente forse anche alle conoscenze dirette, personali, di cui ancora troppo poco sappiamo.  Un’attività che si nutriva di reciproci prestiti,  sollecitata dalle suggestioni di ciascuno, dalla volontà – e dal piacere, credo – di sottoporre a verifica i problemi posti dagli altri, di sondarne l’efficacia espressiva delle soluzioni sino a farle proprie, in modi non troppo diversi dall’oggi.

Mi chiedo infine quali fossero i rapporti di Giulio con lo schivo Ferruccio Leiss: Torino, Milano e poi Venezia. Non sappiamo se ci fu mai l’occasione di un incontro, di una riflessione condivisa, di una stimata amicizia nata dalle numerose partecipazioni comuni alle mostre del periodo 1930-1936.  Nel 1935 però, a Vipiteno, misurandosi con temi per lui lontani e inconsueti come gli interni e le luci artificiali Giulio realizzò una serie di riprese da cui trasse Arabeschi, palese rielaborazione della notissima immagine di Leiss pubblicata in Luci ed Ombre del 1933 (t. IV). Il titolo attribuitogli da Leiss, Pioggia d’ombre, ricalcava a sua volta quello di un’immagine di Giulio pubblicata sullo stesso annuario solo due anni prima (t. XI) e presentata al VII International Kerst Salon di Anversa del 1933, cui prese parte lo stesso fotografo (da poco) veneziano. Questa stessa fotografia venne scelta nel 1946, anno della morte di Giulio, da Mario Finazzi, che per la collana “Immagini” da lui diretta per l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo,  pubblicava  Montagne, “dedicato ai poeti, agli alpinisti, ed a coloro che – come i primi e i secondi -travalicano la realtà per attingere al sogno”[43].

Una continua intersezione di tracce, ancora tutte da seguire.

 

Note

[1] Giulio 1934, che così proseguiva: “Avevo allora concluso con un mio compagno di scuola un colossale baratto, a base di figurine Liebig e francobolli con una certa scatoletta di cartone contenente nientemeno che un completo armamentario fotografico.”

[2] Gabinio 1996.

[3] La n. 49 del suo archivio negativi, numerato con progressione cronologica quasi sempre coerente. Per la formazione e la consistenza del fondo fotografico rimando al testo in catalogo di Emanuele de Rege, che voglio qui ringraziare per la sua costante disponibilità e per il confronto continuo e attento sulle questioni relative alla corretta comprensione dell’opera di Giulio.

[4] Demachy, Puyo 1906,  f.t. Il volume era certamente noto a Torino dove era in vendita da Lattes, una delle più importanti librerie editrici dell’epoca.

[5] Penso a La zia Paolina di Giulio, 1911 ca, che appartiene alla stessa tradizione iconografica del più tardo Ritratto di vecchia di Schiaparelli, 1930 ca, cfr. Chiorino 2003, p. 52. Lo stesso Schiaparelli utilizzò immagini di Giulio a corredo della propria conferenza tenuta nel salone della Società Patriottica e degli Artisti di Milano, il 15 giugno 1928; cfr. Schiaparelli 1928, p. 292.

[6] Giulio 1934, p. 7.

[7] Tarchetti  1990. Dal1908 al 1912 ben settantotto sue fotografie vennero pubblicate ne “Il Progresso Fotografico” e in parte diffuse in cartolina, mentre dal 1909 al 1912 ne comparvero dodici ne “La Fotografia Artistica”. Tra le Scene comuni ai due autori, e quasi coeve, anche quelle dedicate alla trebbiatura del grano. Segnalo che parte della sua produzione fotografica è consultabile all’indirizzo https://caisidoc.cai.it/risultati-della-ricerca/advancedsearch  (09 12 2022).

[8] Sella, Vallino1890; Cavanna 1995.

[9] Si confronti ad esempio Costume, 1919 di Giulio con Processione a Oulx  di Bricarelli, del 1912 (Bricarelli  2005, p. 45)

[10] Nello specifico, alcune inspiegabili incongruenze di numerazione non consentono una maggiore precisione: i nn. 1492-1500 portano la data del settembre 1918, ma i nn. 1394-1398 sono datati maggio 1919.

[11] Cfr. Sella 1982;  Paesaggi verticali 2006.

[12] L’arte della fotografia 1924, p.35.

[13] Aurora Umbrarum Victrix di Bricarelli (t.22) e La spiaggia di Achille Bologna (t.76), mentre La scia  di Giulio venne pubblicata alla t.81. Nessun italiano era stato accolto nella fondamentale raccolta antologica del numero 16 di “Arts et Metiers Graphiques”, Photographie, 1930, dedicato alla fotografia; gli inglesi di “The Studio” si dimostravano in questo meno selettivi,  più sensibili anche alla produzione amatoriale di livello alto. Questi volumi erano noti in Italia almeno attraverso le segnalazioni e recensioni che comparvero in alcuni periodici, sebbene non fotografici. “La Casa Bella”, 4 (1931) n.10, ottobre, pp. 58-59, riportava parte del testo introduttivo di Philippe Soupault al secondo numero dell’annuario francese, dove l’autore si premurava di “sottolineare con maggior forza che una fotografia è prima di tutto un ‘documento’ e che bisogna considerarla tale (…) I fotografi ormai devono scordare l’arte per orientare la loro attività in una direzione che si dimostrerà infinitamente più feconda.” (citato in Paoli 1998, p.106 nota 27). Sulle stesse pagine Edoardo Persico avrebbe successivamente recensito i due annuari di “The Studio” (1931, n.11:, p.  54; 1932, n.10, pp. 58-59) traendone l’occasione per riflettere sullo statuto della fotografia “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole” (1931, p. 54), mentre per l’anonimo collega di “Domus”, 4 (1931), n. 47, p. 67, si trattava  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici.” Numerose segnalazioni comparvero anche su “Natura”, che aveva tra i propri collaboratori Antonio Boggeri, allora alle dipendenze della  Alfieri & Lacroix (Monguzzi 1981, p. 2), che editava il periodico. Nello stesso numero dell’ottobre 1932 ad esempio si susseguirono un redazionale di presentazione di Photographie (pp. 58-59)  e una interessante recensione di Modern Photography (pp. 78-79), da attribuirsi forse a Luigi Poli, direttore responsabile della rivista e  curatore del supplemento illustrato de “Il Popolo d’Italia”. Il breve testo dedicato al nuovo annuario di Photographie dopo averne rilevato “la presentazione tipografica di rara eleganza e di spiccata modernità”  prendeva le distanze dal saggio di apertura, firmato da André Bacler, il quale delineava “l’evoluzione più recente della fotografia, volendo dimostrare come dopo un periodo di confuse ricerche e di stravaganti effetti essa sia per ritornare alla sua vera funzione di indagine tecnica e documentazione scientifica. Con questa conclusione non s’accordano però i cento e più esempi fotografici riportati dal volume, così diversi l’uno dall’altro da smentire agevolmente l’affermazione che la fotografia sia anzitutto un mestiere. C’è in alcuni, anzi nei migliori, una così fervida fantasia, in altri ancora, sempre ammirevoli, una così delicata ispirazione  poetica da giustificare, al di là di ogni sottigliezza verbale, il nome di arte.” Anche a proposito di Modern Photography si sottolineava con qualche perplessità l’opinione espressa nella prefazione “che la fotografia va oggi considerata soprattutto come documento, qualunque sia la forma e il mezzo scelto per esprimersi. La macchina fotografica è quindi, secondo l’autore, sempre e soltanto uno strumento sia pure governato dall’intelligenza e dal gusto di chi lo usa, e cade in errore chi voglia assegnarle qualità metafisiche o poetiche, le quali saranno sempre privilegio dell’artista. Quanto alla personalità, deduciamo da tali premesse, s’immagina che un fotografo possa imprimerla alle sue prese attraverso la scelta del soggetto, al modo di vederlo, di presentarlo, di farlo suo.” La cultura italiana dell’epoca, anche la più avveduta, pareva non essere ancora in grado di accogliere l’autonomia estetica e poetica della fotografia pura e diretta, prodotto dalla nuova ‘oggettività’ modernista, vincolata da un idealismo tra l’ottocentesco e il crociano.

[14] Alpinisti 2002, p. 46, scheda di Roberto Mantovani.

[15] Bellavista 1934, p. 11. Anche per altri commentatori Giulio era “tra i rari compositori che si impongono il valore del titolo come forza collaboratrice della forma. (…) Ecco qui in questo Sul limite dell’ombra l’artista ha segnato il dramma eterno della luce.” (Angeloni 1939).

[16] “Cesare Giulio ne I piccioni di San Marco serve alla moda facendo della prospettiva futurista, ma non lo condanno; anzi, tutt’altro, molto lo lodo, non perché abbia fatto una cosa alla moda, ma semplicemente perché ha fatto una cosa bella, che la mancanza di spazio m’impedisce d’analizzare come meriterebbe.”, Brezzo 1930, p. 777. Lo stesso critico, nel testo di apertura di Luci ed Ombre dell’anno successivo e  facendosi evidentemente portavoce delle opinioni del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica, dichiarava che “l’artista vero è sempre naturalmente moderno (…) il pseudo-artista vuole essere moderno, vuole essere futurista, perché non può essere artista.” (Brezzo 1931) Lo sforzo di omologazione era strenuo e non conosceva ostacoli:  “l’astrattismo di Bricarelli, alla Tav. 17 [di Luci ed Ombre: Tracce], è documentario pur non parendo. Era tuttavia meglio che paresse… Qui se il pericolo non c’è, lo rasentiamo.” (Pellice 1932, p. XVI). Nello stesso annuario del 1930 comparve un’immagine di Bricarelli con la Basilica di san Marco ripresa dall’alto, ed anche Federico Vender si sarebbe prodotto in una veduta dall’alto di Piazza San Marco a Venezia, 1936, cfr. Menapace 2003.

[17] Fillia (Luigi Colombo) avvicinatosi alla fotografia per il tramite di Maggiorino Gramaglia (Lista 2001, p. 266) non fu però tra i promotori né tra i partecipanti  alla Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista che si tenne a Torino nel 1931, nel cui catalogo del resto non si faceva cenno al Manifesto redatto da Marinetti e Tato l’anno precedente, da lui invece pubblicato nel suo Il futurismo: Ideologie, realizzazioni e polemiche del Movimento futurista italiano. Milano: Sonzogno, 1932, con l’aggiunta di un suo testo dedicato alla fotografia,  non segnalato in Lista 2001.

[18] Cfr. Miraglia 2001, p. 18; Bianco su bianco 2005.

[19] Il corriere fotografico, 24 (1927), n. 3, marzo.

[20] Bernardi 1928, pp.641- 642. Come è noto lo stesso concetto venne ripreso alcuni anni più tardi da  Mario Bellavista in quello che è unanimemente considerato uno dei testi chiave dell’estetica fotografica modernista italiana: nel primo dei suoi quarantaquattro Concetti per fotografi moderni invitava infatti a “Fare la sintesi e non l’analisi dei soggetti da riprodurre. È più intelligente, più abile, più moderno.”, Bellavista 1934, p. 10.

[21] Ancora maggiore risulterà nel decennio successivo quando, sotto l’egida della Associazione Fotografica ALA (“Ad Lucis Artem”, aderente all’Istituto Fascista di Cultura, che si trasformerà successivamente in AFI, Associazione Fotografica Italiana) Giulio parteciperà a più di sessanta esposizioni: 10 salon (32 opere) nel 1930-31; 9 salon (20 opere) nel 1931-32; 8 salon (24 opere) nel 1932-33; 3 Salon (15 opere) nel 1933-34;  2 Salon (8 opere) nel 1934-35; 8 Salon (26 opere) nel 1935-36; 9 Salon (17 opere) nel 1936-37; 15 Salon (31 opere) nel 1937-38. Cfr. “Pagine fotografiche ALA”, settembre 1938, p. 57, che rimanda a sua volta a “The American Annual of Photography”. Boston: Tennant and Ward, 1938.

[22] “Amateur Photographer” 1929.

[23] “Gli Abeti in inverno del Giulio, un bianco-nero finissimo, un pezzo di paese che, vero com’è, pare, tanto è bello e fantastico, un perfetto disegno di qualche maestro giapponese” aveva scritto  Emilio Zanzi nella  “Gazzetta del Popolo” dell’ 8 maggio 1927, recensendo “Montagne – La II mostra del Fotogruppo Alpino” (Zanzi 1927). A proposito di un’opera di Riccardo Moncalvo altri avrebbero detto che “disegna con sottile malia giapponese un arazzo di brine e di vette.”, Angeloni, 1934a, p. 591.

[24]Le stelle 2004, p. 127. Analoghe soluzioni, pur con campi ampi e quasi panoramici, furono adottate da Emanuel Gyger circa negli stessi anni, cfr. Audisio, Cavanna 2003, pp. 100 passim. Questa genealogia del bianco che poneva in relazione diretta il Bergfilm tedesco con le sperimentazioni dei fotografi italiani era già stata individuata e nettamente tracciata da Nico Ferrini, che sulle pagine di “Natura” aveva accostato a Kristiania di Giulio proprio alcuni fotogrammi dei film di Arnold Fank. (Ferrini 1932) Anche la manualistica italiana dedicata allo sci contemplava la pubblicazione di intere pagine di fotogrammi da filmati tecnici (cfr. Ghiglione 1928), ma ciò che ricercava era la chiarezza didascalica della sequenza dei gesti  e dei comportamenti, non l’efficacia comunicativa della resa espressionista (ben più che futurista) dell’ebbrezza bianca.

[25] Gabinio 1996.

[26] In parte diverso il caso di Bricarelli, che nel novembre del 1926 aveva fondato “Motor Italia” con un piccolo gruppo di soci. La destinazione funzionale di molte delle proprie immagini  lo spingeva ad  abbandonare ogni intenzione semplicemente “artistica”, a rinunciare all’autonomia salonistica  delle singole opere preferendo agire per serie. Avendo in mente la carta stampata,  metteva in pratica un’idea di fotogiornalismo in cui l’accuratezza descrittiva non dimenticava però la necessità di realizzare immagini formalmente risolte, quindi anche comunicativamente efficaci; si veda Bricarelli 2005.

[27] L’anno successivo concetti analoghi vennero espressi da Alberto Savinio che avrebbe parlato, a proposito della nuova fotografia di soggetti ridotti a uno “schemati­smo edificante, tra i quali dominò la strada solitaria e i suoi selci visti dall’ alto.” (Savinio 1935)

[28] Il riferimento polemico è al Commento di Antonio Boggeri che apriva l’annuario del 1929: “Circa il modo di fotografare, crediamo dover risalire alla fotografia aerea per spiegare la rivoluzione avvenuta repentinamente nella scelta del così detto punto di vista. Senza dubbio le prime fotografie prese dall’aeroplano rivelarono prospettive meravigliosamente nuove”, Boggeri 1929a.

[29] Gasperl 1939, prefazione di Gianni Alberini, con 77 fotografie originali e una tavola fuori testo di Carlo Mollino 1950, con 212 disegni originali dell’autore e 200 fotografie; Moncalvo 1976 tav.  XXIII.

[30] Di quest’ultima  – trovandosi nell’identica condizione – si sarebbe certamente ricordato Riccardo Moncalvo per il suo Grafismo nevoso, 1947, ma anche altre sue opere come Ritmo di larici, dello stesso anno, derivano immediatamente dalle più note fotografie di Giulio, certo uno dei punti di riferimento per il più giovane figlio d’arte, che aveva precocemente dimostrato una analoga sensibilità di trattamento dei soggetti alpini (Nella tormenta – Verso il Breithorn, 1937), cfr. Moncalvo 1976, tavv. LXXV, LXXXII, XCIII.

[31] Quale ennesima testimonianza della fittissima rete di suggestioni e scambi segnalo come il titolo fosse ricalcato su quello scelto da Bricarelli (Formiche della neve) per una sua immagine pubblicata in Luci ed Ombre del 1924 (tav. XL).

[32] Bianco su bianco  2005.

[33] Per Marziano Bernardi (1927, p. 11), “Non sono paesaggi né le nevi dell’Oneglio e del Giulio né i particolari luministici del Baravalle.”

[34] Fotografia  1943; Paoli 1998.  Per ragioni critiche poco comprensibili, Peretti Griva era qui il solo rappresentante del gruppo di torinesi vicini al “Corriere Fotografico”.  Cesare Giulio risultava assente, sebbene la fotografia a tono alto, di cui era stato certo l’esponente più qualificato nel periodo tra le due guerre, fosse rappresentata da un altro torinese come Enrico Giorello (tav. 39), e dai trentini Enrico e Aldo Pedrotti (tavv.56, 80), cui Giuseppe Turroni avrebbe riconosciuto di aver fornito “la grammatica d’esordio di Fulvio Roiter”[34] [quando] rielabora i moduli astratti (…) i toni sono cioè sempre candidi  [e]  la sintesi calligrafica è ancora il suo campo sperimentale.” (Turroni 1959, pp. 17, 53).  Non escluderei invece che  Roiter  potesse aver meditato proprio su Giulio, di cui ebbe modo di vedere alcune opere (Purità, Un nulla, Audax, Assolo) nella piccola sezione postuma che gli venne dedicata nel 1949  all’interno della Sezione fotografica della “Mostra internazionale Scambi Occidente” organizzata dalla Società Fotografica Subalpina e dal Gruppo Fotografi FIAT, cui partecipò lo stesso Roiter con due opere (Allegretto con brio, Spasimi 210-211), insieme a  Paolo Monti (Inverno ad Anzola, Trasparenze 175-176), cfr. Scambi Occidente 1949. 

[35] Cfr. Gabinio 1996,  tav.190. Entrambi gli autori si erano già misurati, intorno al 1930, col soggetto della diga Michelotti sul Po.

[36] Per Tracce si veda Luci ed Ombre, 1932, tav. XXV. La pagina di album che contiene le diverse prove dei Ricordi di Sestrière dimostra quanto fosse rilevante in quegli anni l’influenza di Giulio, cfr. Bricarelli  2005, p. 86.

[37] Una prima ricostruzione di questo corpus è costituita dagli apparati messi a punto da Veronica Lisino, che ringrazio per l’acribia con cui ha condotto le ricerche bibliografiche e la dedizione con cui ha partecipato al lavoro redazionale.

[38] “Dune di neve/ senza il colle/ da rifare (inviata a Bellavista)”, recita la scritta al verso della stampa n. 5192, del 1930.

[39] Alta tensione fu pubblicata in Luci ed Ombre, 1932, tav. X.

[40] L’esito del concorso, pubblicato nel numero di maggio del 1933, vedeva al primo posto Italo Bertoglio, con un’immagine  che svela la forte influenza dei toni alti delle fotografie di fiori di Imogene Cunningham, che proprio il “Corriere Fotografico” aveva pubblicato nel 1931; al secondo posto si collocò Stefani, mentre di Giulio,  non citato, non è nota la partecipazione effettiva.

[41] Per un confronto analitico con le opere di questi autori si rimanda a Bianco su bianco 2005.

[42] Si confronti ad esempio Chioggia canale [della] Vena  di Giulio, del 1929, con le più tarde Armonia di Vender e Per la via di Cavalli, entrambe del 1948, in Bianco su bianco 2005, pp. 114-115.

[43] Cfr. Finazzi 1946. Di Giulio vennero pubblicate – ad aprire il fascicolo – Scendendo dal M. te Bianco, Sciatori, Sommità, Solennità, Pioggia d’ombre, Palestra Bianca. Gli altri autori selezionati furono Antonio Piccardi (alpinista, primo sindaco di Dalmine dopo la Liberazione), Carlo Matis, Ada Niggeler, Riccardo Moncalvo e lo stesso Finazzi.

 

 

 

Bibliografia

 

 

Afi 1937a

200 Foto scelte dalla Terza Esposizione Italiana A.F.I. “A.L.A.”, catalogo della mostra (Bordighera, 1937). Torino:  Tipografia Alfredo Kluc, 1937

 

Afi 1937b

Terza Esposizione Italiana d’Arte Fotografica: A.F.I. “A.L.A”, catalogo della mostra (Torino, 1937). Torino:  Tipografia Alfredo Kluc, 1937

 

Afi 1938a

Quarta Esposizione Italiana d’Arte Fotografica A.F.I., catalogo della mostra (Torino, 1938). Tipografia Alfredo Kluc, 1938

 

Afi 1938b

Prima Mostra Circolante Italia di Propaganda Artistica Fotografica promossa dall’A.F.I.-1938 e tratta dalla 4. [Esposizione] Italiana d’Arte Fotografica, dal giugno 1938 al marzo 1939, catalogo della mostra (Brescia, Messina, Bergamo ecc., 1938-1939). Torino:  Tipografia Alfredo Kluc, 1938

 

Afi 1939

Quinta Esposizione Italiana d’Arte Fotografica A.F.I., catalogo della mostra (Torino, 1939). Torino: Tipografia M. Anesi, 1939

 

Afi 1940

  1. Mostra Annuale Sociale di Fotografia Artistica, catalogo della mostra (Torino, 1940). Torino: La Stampa, 1940

Ala 1936

Seconda Esposizione [Sociale Nazionale] Fotografica A.L.A., catalogo della mostra (Torino, Sanremo, 1936). Torino: M. Anesi, 1936

 

Alpi Occidentali 1927-1930

Alpi Occidentali: bollettino della sezione di Torino del Club alpino italiano. Torino:  CAI, 1927-1930

 

Alpinismo 1932-1935

Alpinismo”: rassegna mensile di alpinismo e turismo di montagna, 4-7 (1932-1935). Torino, Tipografia Anfossi

 

Alpinisti 2002

Museo Nazionale della Montagna, a cura di, Catalogo Bolaffi dei grandi alpinisti piemontesi e valdostani. Torino: Giulio Bolaffi Editore, 2002

 

Amateur Photographer1929

The Amateur Photographer,  “Alpi Occidentali”, 9 (1929),  n. 12, dicembre, p. 12

 

American Annual 1937

“The American Annual of Photography”,  “Pagine fotografiche ALA”, 4 (1937), settembre

 

American Photography 1930

Come la stampa fotografica internazionale giudica Luci ed Ombre 1929, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),   n. 4, aprile, pp. 253-254, tratto da “American Photography”, 23 (1930), n. 3, marzo. Boston: American Photographic Publishing Company

 

Amsterdam 1938

Vierde Internationale Focus Fotosalon, catalogo della mostra (Amsterdam, 1938). Amsterdam: Focus, 1938

 

Amsterdam 1939

Vijfde Internationale Focus Fotosalon, catalogo della mostra (Amsterdam, 1939). Amsterdam: Focus, 1939

 

Amsterdam 1947

Zevende Nationale Salon van Fotografische Kunst: de herdenking van het 25-jarig bestaan, catalogo della mostra (Amsterdam, 1947). [S.l., s.n.], 1947

 

Andreis 1937

Luigi Andreis, Gli artisti italiani al V Salone Internazionale di Torino,  “Galleria”, 5 (1937), n. 5, maggio, pp. 10-11

 

Andreis 1938

Luigi Andreis, Un commento di Luigi Andreis alle tavole di questo numero,  “Galleria”, 6 (1938), n. 1, gennaio, pp. 10-11

 

Angeloni 1923

Italo Mario Angeloni, La Fotografia Artistica alla Prima Esposizione Internazionale Torino – Maggio-Giugno 1923, in L’arte nella fotografia 1923, pp.39-50

 

Angeloni 1925a

Italo Mario angeloni, Commenti e documenti estetici del Primo Salon Italiano. Gli amici d’oltralpe e d’oltre mare, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n. 11, novembre, pp. 179-181

 

Angeloni 1925b

Italo Mario angeloni, La Mostra sociale 1925 alla “Società Fotografica Subalpina” – Recenti manifestazioni dell’attività fotografica in Italia, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 67-68

 

Angeloni 1926

Italo Mario Angeloni, Arte Consolatrice. Contemplando “Luci ed Ombre” 1926, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926),  n. 11, novembre, pp. 241-243

 

Angeloni 1928

Italo Mario Angeloni, Volti e aspetti del mondo al II° Salon Italiano di Fotografia, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 11, novembre, pp.  719-721

 

Angeloni 1933a

Italo Mario Angeloni, Nell’imminenza del IV “Salon” torinese, “Il Corriere Fotografico”, 30 (1933), n. 4, aprile, pp. 189-190

 

Angeloni 1933b

Italo Mario Angeloni, La partecipazione dei dilettanti italiani al “IV Salone Internazionale” di Torino, “Il Corriere Fotografico”, 30 (1933), n. 5, maggio, pp. 251-255

 

Angeloni 1934

Italo Mario Angeloni, “Luci ed Ombre” 1934,  “Il Corriere Fotografico”, 31 (1934), n. 11, novembre, pp. 591-592

 

Angeloni 1939

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 36 (1939), n. 12, dicembre, p. 270

 

Annuario 1926

Annuario  1926. Torino: CAI, 1926

 

Antwerpen 1934

Catalogus Van Het 7. Internationaal Kerstsalon, ingericht door de Fotografische Kring Iris, catalogo della mostra (Anversa, 1933-1934). Antwerpen: Borgerhout, 1934

 

L’arte nella fotografia 1923

L’arte nella fotografia: Prima Esposizione Internazionale di Fotografia, Ottica e Cinematografia, catalogo della mostra (Torino 1923. Roma: Bestetti & Tuminelli

 

Audisio, Cavanna 2003

Aldo Audisio, P. Cavanna, a cura di, L’Archivio fotografico del Museo Nazionale della Montagna. Novara: De Agostini, 2003

 

Barcelona 1929

Catalogo de las obras expuestas en el Primer Salon Internacional de Fotografia: Barcelona 1929, catalogo della mostra (Barcellona, 1929). Barcelona: Delta, 1929

 

Bellavista 1934-1936

Mario Bellavista,Tre concetti per fotografi moderni,  “Galleria”, gennaio 1934 – novembre 1936

 

Berlin 1941

Ausstellung Italienische Fotografische Kunst: Verastaltet von der Unione Societa Italiane Art Fotografica in Rom …, catalogo della mostra (Berlino,1941). Berlin: O. Meusel, 1941

 

Bernardi 1927  

Marziano bernardi, Commento, in Luci ed Ombre 1927 , pp. IX-IXX

 

Bernardi 1928a

Marziano Bernardi, Fotografi artisti, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 1, gennaio: 2-3, tratto da “La Stampa”, 62 (1928),  21 gennaio

 

Bernardi 1928b

Marziano Bernardi, L’arte della fotografia al “Salon”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 10, ottobre, , pp. 641-643

 

Bernardi 1928c

Marziano Bernardi, Commento, in Luci ed Ombre 1928, pp. XI-XVI

 

Bianco su Bianco 2005

Bianco su bianco. Percorsi della fotografia italiana dagli anni Venti agli anni Cinquanta, catalogo della mostra (Aosta, 2005), a cura di P. Cavanna. Firenze: Alinari , 2005

 

Biennale 1939

  1. Mostra Biennale Internazionale di Fotografia Artistica, catalogo della mostra (Torino, 1939). Torino: Stamperia Artistica Nazionale, 1939

 

Birmingham 1931

Birmingham Photographic Society: 40th Annual Exhibition, catalogo della mostr (Birmingham, 1931). Birmingham: Stanford & Mann, 1931

 

Boggeri  1929a

Antonio Boggeri, Commento,  in Luci ed Ombre 1929, pp. 14-16

 

Boggeri  1929b

Antonio Boggeri, Fotografia moderna, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 8, agosto, pp. 557- 564

 

Boggeri 1930

Antonio Boggeri, Caratteri della moderna estetica fotografica, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 8, agosto, p. 546,  tratto da “Natura”, 3 (1930), n. 7, luglio

 

Boggeri 1932

Antonio Boggeri, La fotografia alla Fiera di Milano,  “Natura”, 5 (1932),  n. 5 maggio, pp. 43-48

 

Bologna 1935

Achille Bologna, Come si fotografa oggi. Milano: Hoepli, 1935

 

Bombay 1935

  1. Indian Salon Of Photographic Art (First International) promoted by Camera Pictorialists of Bombay, catalogo della mostra (Bombay, 1935). Bombay: The Times of India Press, 1935

Bombay 1939

Third Indian International Salon, catalogo della mostra (Bombay, 1939). Bombay: The Times of India, 1939

 

Boston 1935

Catalog of the Fourth International Salon, catalogo della mostra (Boston, 1935). [Boston?, s.n.], 1935

 

Brezzo  1926a

Guido Lorenzo Brezzo, Commenti al Primo Salon Italiano. II. Paesisti di tutto il mondo, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926),  n. 1, gennaio, pp. 4-7

 

Brezzo 1926b

Guido Lorenzo Brezzo, La fotografia di montagna alla Prima Esposizione del Fotogruppo Alpino, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926),  n. 5, maggio, pp. 105-107

 

Brezzo 1926c

Guido Lorenzo Brezzo, Commento, in Luci ed Ombre 1926, pp. 11-19

 

Brezzo 1927  

Guido Lorenzo Brezzo, “Luci ed Ombre” 1927, “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 11, novembre, pp.  201-204

 

Brezzo 1928

Guido Lorenzo Brezzo, “Luci ed Ombre” 1928, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 11, novembre, pp. 717-719

 

Brezzo 1929

Guido Lorenzo Brezzo, Luci ed Ombre 1929,  “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 11, novembre, pp. 777-780

 

Brezzo 1930a

Guido Lorenzo Brezzo, “Luci ed Ombre 1930”  “Il Corriere Fotografico”,  27 (1930),  n. 11, novembre, pp. 774-778

 

Brezzo 1930b

Guido Lorenzo Brezzo, Il “III Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale” , “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),  n. 12, dicembre, pp. 843-846

 

Brezzo  1931a

Guido Lorenzo  Brezzo, Commento, in Luci ed Ombre 1931, pp. XI-XV

 

Brezzo  1931b

Guido Lorenzo  Brezzo, La Mostra Fotografica Internazionale alla Fiera di Milano, “Il Corriere Fotografico”, 28 (1931),  n. 5, maggio, pp. 307-309

 

Brezzo 1934

Guido Lorenzo Brezzo, La Messe del 1934, in Luci ed Ombre 1934, pp. IX-XVI

 

Bricarelli 1924

s.b. [Stefano Bricarelli], Il fotografo in montagna. Gli sports invernali, “Il Corriere Fotografico”, 21 (1924), n. 1, gennaio, pp. 5-6

 

Bricarelli  2005

Stefano Bricarelli: fotografie, catalogo della mostra (Torino,  2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005

 

Budapest 1936

  1. Nemzetközi Művészi Fényképkiállitás, catalogo della mostra (Budapest, 1936). Budapest: Hungaria Nyomda, 1936

 

Cai 1922-1948

Rivista mensile del Club Alpino Italiano. Torino, 1922-1948

 

Cai 1930

Quarta Esposizione di Fotografia di Montagna del Fotogruppo Alpino, catalogo della mostra (Torino, 1930). Torino:  Arti Grafiche Italiane, 1930

 

Cai 1932

  1. Esposizione Fotografia di Montagna al Circolo degli Artisti, catalogo della mostra (Torino, 1932). Torino: Foa, 1932

Cai 1934

  1. Esposizione Fotografia di Montagna al Circolo degli Artisti, catalogo della mostra (Torino, 1934). [S.l., s.n.], 1934

Cai 1940

  1. Esposizione di Fotografia Alpina, catalogo della mostra (Torino, 1940).Torino, S.P.E., 1940

Capetown 1936

Cape of Good Hope International Salon of Photography 1936, catalogo della mostra (CapeTown, 1936). [CapeTown?, s.n.], 1936

 

Casale 1930

Prima Esposizione Regionale di Fotografia di Montagna indetta dal Fotogruppo Alpino, catalogo della mostra (Casale Monferrato, 1930). Casale Monferrato: Tarditi, 1930

 

Casale 1942

I  Mostra di Fotografia Artistica … , catalogo della mostra (Casale Monferrato, 1942). [S.l., s.n.], 1942

 

Cavanna 1995

P. Cavanna, Gli Album di un alpinista. La montagna abitata di Domenico Vallino, “ALP”, 11 (1995), n. 122, pp. 124-127

Cavanna 2003

P. Cavanna, Mostrare paesaggi, in L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, 2003), a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2003, pp. 40-116

Charleroi 1934

Catalogue du I Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Charleroi, 1934). Charleroi: R. Denuit, 1934

 

Chicago 1933

The International Salon of Photography in the Graphic Arts Building, catalogo della mostra (Chicago, 1933). [Chicago?: Chicago Camera Club], 1933

 

Chicago 1937

Eighth Chicago International Salon of Photography, catalogo della mostra (Chicago, 1937). [Chicago?: Chicago Camera Club], 1937

 

Chiorino

Gian Paolo Chiorino, a cura di, Cesare Schiaparelli fotografo paesaggista, Occhieppo Superiore: Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2003

 

Concorso 1925

I Concorso trimestrale del “Corriere Fotografico” – “Paesaggi d’inverno” , “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925),  n. 3, marzo

 

Concorso 1927  

Il I° Concorso trimestrale 1927 del “Corriere Fotografico” “Neve e brina”, “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 5, maggio, p.  88

 

Concorso Annuale 1929

Il Concorso Annuale 1929 del “Corriere Fotografico”, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 2, febbraio, p. 33

 

Concorso Annuale 1930

Il Concorso Annuale 1929 del “Corriere Fotografico”, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),  n. 2, febbraio, p. 33

 

Cornoldi 1950

Antonio Cornoldi, a cura di, 60 canti della montagna. Roma: Edizioni Dalmatia di Luciano Morpurgo, 1950

 

Corriere Fotografico 1924-1934

“Il Corriere Fotografico”, Torino,Tipografia Lorenzo Rattero, 1924-1934

 

Corso 1935

Corso Superiore di Cultura Fotografica: 29 novembre 1934-XII/15 giugno 1935-XII, promosso dalla Società Fotografica Subalpina. [S.l., s.n.], 1935

 

Costantini, Zannier, 1987

Paolo Costantini, Italo Zannier, Luci ed Ombre. Gli annuari della fotografia artistica italiana 1923-1934. Firenze: Alinari, 1987

 

De Albroit 1930a

Comirias  de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),  n. 1, gennaio, p. 9

 

De Albroit 1930b

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),  n. 8, agosto, p. 555

 

De Albroit 1932

Comirias de Albroit, La XX Esposizione Sociale d’Arte alla Società Fotografica Subalpina, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 5, maggio, pp. 257-258

 

De Albroit 1933

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 30 (1933), n. 1, gennaio, p. 33

 

Debrecen 1939

  1. Nemzetközi Művészi Fényképkiállitás Debrecen, catalogo della mostra (Debrecen, 1939). [Debrecen?, s.n.] 1939

Debrecen 1940

Négy Nemzet Kiállítása 1940: Olaszország Jugoslávia Svájc es Magyarország … , catalogo della mostra (Debrecen, Sopron, Budapest, Zurigo, 1940) [Debrecen?, s.n.], 1940

 

Demachy, Puyo 1906

Robert Demachy, Constant Puyo, Les procedés d’art en photographie. Paris: Photo-Club de Paris, 1906

 

Douai 1929

Catalogue des oeuvres exposées au Salon International d’Art Photographique, organisé par la Société photographique du nord de la France, Douai, catalogo della mostra (Douai, 1929). Douai: Laivre, 1929

 

Dublin 1931

Irish Salon of Photography: catalogue of the Third Salon, catalogo della mostra (Dublino, 1931). Dublin: Corrigan and Wilson, 1931

 

Elbeuf 1929

Catalogue des oevres exposées au Salon International d’Art Photographique organisé par le Cercle photographique elbeuvien, catalogo della mostra ( Elbeuf, 1929). Elbeuf: Allain, 1929

 

Ferrini 1932

Nico Ferrini, La vittoria dello sci, “Natura”, 5 (1932),  n. 1, gennaio, pp. 57-60

 

Fillia 1932

Fillia, Il Futurismo: ideologie, realizzazioni e polemiche del Movimento futurista italiano. Milano: Sonzogno, 1932

 

Finazzi 1946

Mario Finazzi, a cura di, Montagne, “Immagini”, 3. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1946

 

Firenze 1934

  1. Mostra Nazionale di Strumenti Ottici: Catalogo della mostra fotografica, catalogo della mostra (Firenze, 1934). Firenze: Tipocalcografia Classica, 1934

Foto Annuario 1936

Foto Annuario Italiano A.L.A. Torino:  Associazione Fotografica Italiana, 1936

 

Foto Annuario 1937

Foto Annuario Italiano A.L.A. Torino:  Associazione Fotografica Italiana, 1937

 

Fotografia 1943

Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, a cura di Ermanno F. Scopinich. Milano: Editoriale Domus, 1943

 

Fusco, Laeng 1952

Enzo Fusco, Gualtiero Laeng, Sci e sport della neve. Brescia: La Scuola, 1952

 

Gabinio 1996

Mario Gabinio: dal paesaggio alla forma: fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino:  Allemandi, 1996

 

Gasperl 1939

Leo[ne] Gasperl, Scuola di sci: discesismo. Milano: Hoepli, 1939

 

Genève 1939

  1. Exposition Italienne d’Art Photographique (“Associazione Fotografica Italiana”, Turin): organisé par la Société Genevoise de Photographie, catalogo della mostra (Ginevra,1939). Genève: A. Excoffier, 1939

Ghiglione 1928

Piero Ghiglione, Lo sci e la tecnica moderna, Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1928

 

Giordano 1930

Giuseppe  Giordano, Un diffusore a sacco per luce-lampo, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 1, gennaio, p. 10-12

 

Giulio 1934

Cesare Giulio, Fotografie alpine, “Galleria”, 2 (1934),  n. 6, giugno, pp. 7-9

 

Giulio 1936

Cesare Giulio, Fotografia e sci,  “Galleria”, 4 (1936), n. 3, marzo, pp. 3-4

 

Göteborg 1929

Internationella fotografiutställningen i Göteborg, catalogo della mostra (Göteborg, 1929). [Göteborg?, s.n.] 1929

 

Gruppo  Fotografico 1926

Gruppo Fotografico Alpino, in “Rivista mensile del CAI”, 45 (1926),  pp.  15, 31

 

Gruppo Piemontese 1927  

La ricostituzione del “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica” , “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 3, marzo, pp. 49-50

 

Gruppo Piemontese 1928

Prima Mostra d’Arte Fotografica del “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica” e Mostre personali di Leonard Misonne, José Ortiz-Echagüe e Marcus Adams, catalogo della mostra (Torino, 1928). Torino:  Tipografia Lorenzo Rattero, 1928

 

Lista 2001

Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001

 

London 1931

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1931, catalogo della mostra (Londra, 1931). [London?, s.n.], 1931

 

London 1932

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1932, catalogo della mostra (Londra, 1932). [London?, s.n.], 1932

 

London 1935

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1935, catalogo della mostra (Londra, 1935). [London?, s.n.], 1935

 

London 1936

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1936, catalogo della mostra (Londra, 1936). [London?, s.n.], 1936

 

London 1937

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1937, catalogo della mostra (Londra, 1937). [London?, s.n.], 1937

 

London 1938

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1938, catalogo della mostra (Londra, 1938). [London?, s.n.], 1938

 

London 1939

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1939, catalogo della mostra (Londra, 1939). [London?, s.n.], 1939

 

Luci ed Ombre 1923

Luci ed Ombre. Raccolta annuale di fotografie artistiche italiane. Torino:  Edizioni d’arte E. Celanza, 1923

 

Luci ed Ombre 1923-1934

Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana. Torino:  Il Corriere Fotografico, 1923-1934

 

Luzern 1932

I  Internationale Ausstellung für Künstlerische Photographie, catalogo della mostra (Lucerna, 1932). Luzern: C. J. Bucher, 1932

 

Maggini 1934

Renzo Maggini, II Mostra di strumenti ottici ed Esposizione Nazionale di Fotografia,  “Galleria”, 2 (1934),  n. 6, giugno, pp. 18-19

 

Meano 1930

Cesare  Meano, Commento, in Luci ed Ombre 1930, pp. XIII-XV

 

Melbourne 1931

Catalogue of an Exhibition of International Camera Pictures, catalogo della mostra (Melbourne, 1931). [Melbourne?, s.n.], 1931

 

Milano 1931

Catalogo Mostra Fotografica Internazionale: 12. Fiera di Milano, catalogo della mostra (Milano, 1931). Milano: Azimonti, 1931

 

Milano 1936

Guida alla Mostra di Fotografia d’Arte, catalogo della mostra (Milano,1936). [Milano?, s.n.], 1936

 

Miraglia 2001

Marina Miraglia, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione De Fornaris – Hopelfulmonster, 2001

 

Modern Photography 1931

Modern Photography: The Studio Annual.  London: The Studio, 1931

 

Mollino 1950

Carlo Mollino, Introduzione al discesismo: tecnica e stili, agonismo, discesa e slalom, storia, didattica, equipaggiamento. Roma: Casa Ed. Mediterranea, 1950

 

Moncalvo 1976

La fotografia di Riccardo Moncalvo. Torino:  Tipografia Torinese Editrice, 1976

 

Mondo Fotografico 1929

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 5, maggio, pp. 342, 243 tratto da “Natura”, 2 (1929),  n. 5, maggio

 

Mondo Fotografico 1930a

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 9, settembre, pp. 649-650

 

Mondo Fotografico  1930b

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 11, novembre, pp. 797-798

 

Mondo Fotografico 1932a

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 6, giugno, pp. 326-328

 

Mondo Fotografico 1932b

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 8, agosto, pp. 439-450

 

Mondo Fotografico 1932c

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 12, dicembre, pp. 661-662

 

Monguzzi 1981

Bruno Monguzzi, Lo Studio Boggeri 1933-1981. Milano: Electa, 1981

 

Monte  Carlo 1937

Premier Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Monte Carlo, 1937).

Monte Carlo: Imprimerie Monegasque, 1937

 

Monza 1927  

L’arte della fotografia alla Terza Mostra Internazionale delle Arti Decorative, catalogo della mostra (Monza 1927. Milano: Edizione A. Rizzoli, 1927

 

Mostra Annuale 1933

  1. Y., La XXI Mostra annuale della Società Fotografica Subalpina, “Il Corriere Fotografico”, 30 (1933), n. 5, maggio, p. 256

Mulhouse 1938

Catalogue des oeuvres exposées au Salon International d’Art Photographique organisé par le Photo-Club “Amical” – Mulhouse avec la collaboration du “Photo-Club de Mulhouse” a l’occasion de la 37. Session de l’Union National des Sociétés Photographiques de France, catalogo della mostra (Mulhouse, 1938). Mulhouse:  J. Iltegen, 1938

 

München 1939

Internationale Fotografisćhe Ausstellung (IFA) und Bundesausstellung des Reichsbundes Deutscher Amateur-Fotografen (RDAF), catalogo della mostra (München, 1939). Berlin:  Ala Anzeigen-Aktiengesellschaft, 1939

 

Notiziario Cai 1939-1941

“Notiziario  CAI”,  10-12 (1939-1941). Torino: CAI, 1939-1941

 

Notizie 1934

Notizie,   “Galleria”, 2 (1934),  n. 4, aprile, p. 13

 

Ottawa 1936

Third Canadian International Salon of Photographic Art, catalogo della mostra (Ottawa, 1936). Ottawa: The National Gallery of Canada, 1936

 

Paesaggi Verticali  2006

Paesaggi verticali. La fotografia di Vittorio Sella 1879-1943, catalogo della mostra (Torino, 2006), a cura di Lodovico Sella. Torino:  GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 2006

 

Paoli 1998

Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini. Fotografia e raccolte fotografiche, I, Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali, VIII: 1998, pp.99-128

 

Paris 1928

XXIII  Salon International d’Art Photographique de Paris, Société Française de Photographie. Paris: catalogo della mostra (Parigi, 1928). Paris: Braun & Cie, 1928

 

Paris 1929a

Catalogue des oeuvres exposées au Vingtquatrieme Salon International d’Art Photographique, organisé par la Société Française de Photographie et le Photo-club de Paris, catalogo della mostra (Parigi, 1929). Paris: J. Engelman, 1929

 

Paris 1929b

  1. Salon International d’Art Photographique de Paris, catalogo della mostra (Parigi, 1929). Paris: Braun & Cie , 1929

Paris 1930a

XXV Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi 1930. Paris: J. Engelman, 1930

 

Paris 1930b

XXV Salon International d’Art Photographique de Paris, catalogo della mostra (Parigi 1930. Paris: Braun & Cie1930

 

Paris 1931

XXVI Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi, 1931). Paris: J. Engelman, 1931

 

Paris 1932

XXVII Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi, 1932). Paris: J. Engelman, 1932

 

Paris 1935

  1. Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi, 1935). Paris: J. Engelman

Paris 1937

XXXII Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi, 1937). Paris: J. Engelman, 1937

 

Paris 1938

  1. Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi, 1938). Paris: J. Engelman, 1938

Pavia 1926

  1. P. [Ugo Pavia], Il “Salon” Fotografico di Torino. Gli espositori stranieri, “La Stampa”, 60 (1926), n. 9, 10 gennaio, p. 5

Pellice 1932

Donato Pellice, La fotografia artistica in Italia nel 1932, in Luci ed Ombre 1932, pp. VII-XVIII

 

Photograms 1928

Photograms of the Year 1929, Francis James Mortimer editor.London, Iliffe & Sons, 1928

 

Photographie 1930

Photographie, “Arts et métiers Graphiques”, 1930, n. 15 (ristampa in facsimile Neuchâtel, Imprimerie Paul Attinger, 1980)

 

Piemonte 1930

Piemonte,  “Attraverso l’Italia”, I. Milano: Touring Club Italiano, 1930

 

Pittsburg 1936

The Foreign Invitational Salon sponsored by the Photographic Society of America, catalogo della mostra (Pittsburgh, 1936). Pittsburg: Photographic  Society of America, 1936

 

Pittsburgh 1937

  1. Annual Pittsburgh Salon of Photographic Art, catalogo della mostra (Pittsburgh, 1937). [S.l., s.n.], 1937

Praj 1950

[Guido?] Praj, a cura di, Luci e Ombre. Torino:  s.n., [1950  ca]

 

Primo Salon Italiano 1925a

Primo Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale, catalogo della mostra (Torino 1925-1926. Torino:  Celanza & C., 1925

 

Primo Salon Italiano 1925b

Il Primo Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925),  n. 3, marzo, p. 33

 

Primo Salon Italiano 1925c

I Salons (sic) d’arte fotografica, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925),  n. 4, aprile, pp. 52-54

 

Ravelli 2001

Il Laboratorio dell’alpinismo. Francesco Ravelli e la fotografia di montagna, catalogo della mostra (Torino, 2001), a cura di Giuseppe Garimoldi, Alessandra Ravelli. Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 2001

 

Ravenna 1939

  1. Mostra Annuale di Fotografia Artistica, catalogo della mostra (Ravenna, 1939). Ravenna: Arti Grafiche, 1939

Redazionale 1928

Il trionfale successo della “Prima Mostra d’arte fotografica” organizzata dal “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 1, gennaio, pp. 1-3

 

Rochester 1931

Third Rochester International Salon of Photography, catalogo della mostra (Rochester, 1931). [Rochester?, s.n.] , 1931

 

Rossi 1933

Alberto Rossi, Fotografia come arte, in Luci ed Ombre 1933 , pp. IX-XVIII

 

San Diego 1931

Catalogue of the First Annual International Salon of Photography, catalogo della mostra (San Diego, 1931). [S.l., s.n.], 1931

 

San Diego 1932

Catalogue of the Second Annual International Salon of Photography, catalogo della mostra (San Diego, 1932). San Diego: Frye & Smith, 1932

 

Sansoni 1932

Gino E. Sansoni, La I Mostra di Arte Fotografica del Paesaggio e dei Monumenti di Aosta e Provincia, in “Aosta”, 4 (1932),  nn. 9-12, pp. 515-530

 

Savinio 1935

Alberto Savinio, Fasti e nefasti della fotografia,  “Rivista Fotografica Italiana”, 20 (1935), n. 7 luglio, pp. 128-134

 

Scambi Occidente 1949

Mostra Internazionale Scambi Occidente: 10-26 settembre 1946: sezione fotografica, a cura della Società Fotografica Subalpina e del Gruppo Fotografi Fiat, catalogo della mostra (Torino, 1949). Torino:  [s.n.], 1949

 

Schiaparelli 1928

Cesare Schiaparelli, La Fotografia nelle sue varie estrinsecazioni artistiche. Conferenza, “Il Progresso Fotografico”, 25 (1928), n. 9, settembre, pp. 289-298

 

Schiaparelli 1930

Cesare Schiaparelli, Il III° Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),  n. 10, ottobre, pp. 697-698

 

Schmithals 1926

Hans Schmithals, Les Alpes. Zürich: Fretz Frères, 1926

 

Sella 1982

Vittorio Sella. Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, 1982), a cura di Claudio Fontana. Torino-Ivrea, Museo Nazionale della Montagna – Priuli & Verlucca Editori, 1982

 

Sella, Vallino 1890

Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, [1890], (reprint Ivrea: Priuli & Verlucca Editori, 1983)

 

Sfs 1931

Società Fotografica Subalpina, Esposizione Sociale Annuale d’Arte Fotografica, catalogo della mostra (Torino, 1931). Torino:  La salute, 1931

 

Sfs 1932

Società Fotografica Subalpina, 20. Esposizione Sociale d’Arte Fotografica indetta dalla Società Fotografica Subalpina, catalogo della mostra (Torino, 1932). [Torino?, s.n.], 1932

 

Sfs 1933

Società Fotografica Subalpina, 21. Esposizione Sociale d’Arte Fotografica, catalogo della mostra (Torino, 1933). [Torino?, s.n.], 1933

 

Sfs 1935

Società Fotografica Subalpina, 23. Esposizione Sociale d’Arte Fotografica, catalogo della mostra (Torino, 1935). Torino: Tipografia Artigianelli, 1935

 

Sfs 1936

Società Fotografica Subalpina, 24. Esposizione Sociale, catalogo della mostra (Torino, 1936). Torino: Tipografia Artigianelli, 1936

 

Ski & Sci 1991

Ski & Sci. Storia mito e tradizione, catalogo della mostra (Torino, 1991), a cura di Aldo Audisio. Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 1991

 

Sopron 1936

Katalógusa: Gyüjteményes Kiállításanak, catalogo della mostra (Sopron, 1936). Sopron: Rottig-Romwalter Nyomda, 1936

 

Stelle  2004

Le “stelle” parlano al vostro cuore. La fotografia nel cinema delle montagne, catalogo della mostra (Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 2004

 

Stockholm 1930

Internationell fotografiutställning i Skånska Gruvan å Skansen: Stockholm, catalogo della mostra (Stoccolma, 1930). Stockholm: Nordisk Rotogravyr, 1930

 

Tarchetti 1990

Andrea Tarchetti, notaio. Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna, Mimmo Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli, 1990

 

Terzo Corso 1935

  1. Corso Superiore di Cultura Fotografica: 19 dicembre 1935-XIV/30 maggio 1936-XIV, promosso dalla Società Fotografica Subalpina. [S.l., s.n.], 1935

 Torino 1928a

Il Secondo “Salon” Italiano d’Arte Fotografica Internazionale, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 3, marzo, p. 130

 

Torino 1928b

Secondo Salon italiano d’arte fotografica internazionale, catalogo della mostra (Torino, 1928). Torino:  Tipografia Lorenzo Rattero, 1928

 

Torino 1930

Terzo “Salon” Italiano d’Arte Fotografica Internazionale, catalogo della mostra (Torino, 1930-1931). [S.l.,s.n]

 

Torino 1933

Quarto Salon Internazionale di Fotografia Artistica fra Dilettanti, catalogo della mostra (Torino, 1933). Torino:  Soc. Ind. Graf. Fedetto e C. , 1933

 

Torino 1937a

Quinto Salone Internazionale di Fotografia Artistica fra Dilettanti, catalogo della mostra (Torino,) 1937. Torino:  Ajani & Canale, 1937

 

Torino 1937b

VI (sic) Salone Internazionale di Fotografia Artistica fra Dilettanti.Torino 1937,  “Torino”, 17 (1937), n. 5, maggio, pp. 37-38

 

Torino 1941

I Mostra Intersociale Italiana d’Arte Fotografica, catalogo della mostra (Torino, 1941). Torino:  Satet, 1941

 

Toronto 1931

Catalogue Scottish paintings, water colours and sculpture, British paintings, water colours …: Canadian National Exhibition Toronto, catalogo della mostra (Toronto, 1931). Toronto: T. H. Best Printing, 1931

 

Trondhjem 1930

  1. Internationale Fotografiutstilling i Norge: Trondelagsutstillingen, hall E, Trondhjem, catalogo della mostra (Trondhjem, 1930). [S.l.]: Trondhjems Kamera Klub, 1930

Turroni 1959

Giuseppe Turroni, Nuova fotografia italiana. Milano: Schwarz Editore, 1959

 

Vender

Federico Vender. Gli esordi: 1930-1937, catalogo della mostra (Arco – Trento, 2003), a cura di Floriano Menapace, Italo Zannier. Arco – Trento:  Comune di Arco, Provincia Autonoma di Trento, 2003

 

Wilno 1930

Czwarty Miȩdzynarodowy Salon Fotografiki w Polsce, catalogo della mostra (Vilnius, 1930). Wilno, [s.n.], 1930

 

Zagbreb 1937

Katalog 5. Medunarodna Izložba Umjetničke Fotografije, catalogo della mostra (Zagabria, 1937). Zagreb: Tipografija D. D., 1937

 

Zannier 1979

Italo Zannier, a cura di, Ferruccio Leiss fotografo a Venezia. Milano: Electa, 1979

 

Zanzi 1927  

Emilio Zanzi, Montagne – La II mostra del fotogruppo alpino della sezione di Torino del C.A.I., “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 5, maggio, p. 87, tratto da “La Gazzetta del Popolo”, n. LXXIX, 8 maggio

 

Zanzi 1928

Emilio Zanzi, Fotografi di tutto il mondo a Torino, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928),  n. 10, ottobre, pp. 643-647

 

Zaragoza 1930

  1. Salón Internacional de Fotografía de Zaragoza, catalogo della mostra (Saragozza, 1930). [Zaragoza, s.n.], 1930

 

Quoi? La Photographie  ovvero  La carriera di un dilettante fotografo (2006)

in Barbara Bergaglio, P. Cavanna, a cura di, Francesco Negri fotografo: (1841-1924).  Cinisello Balsamo: Silvana, 2006, pp. 14-29;  La biblioteca del fotografo, estratto da Francesco Negri e la Biblioteca civica di Casale Monferrato, “AFT – Rivista di Storia e Fotografia”, 6 (1991), n.14, pp. 61-63

 

La lastra fotografica è la vera retina dello studioso

Jules César Jansen, 1888

 

 

Cappello e soprabito sull’attaccapanni, forse appena appesi, come se fosse rientrato da poco in questo angusto spazio ricolmo di carte che fu il suo studio. Una fotografia disposta con noncuranza apparente sulla stufa in ceramica, una stampa di paesaggio se la nitidezza della ripresa non ci tradisce, ci consente di datare questa  stereoscopia all’ultimo decennio dell’Ottocento, quasi certamente dopo il 1896, quando la consuetudine di Negri con la fotografia datava ormai da almeno un trentennio e la fase delle applicazioni e sperimentazioni più strettamente scientifiche poteva ormai dirsi conclusa.

Per quanto è possibile desumere dallo studio dei documenti fotografici e archivistici rimasti a costituire il fondo Negri della Biblioteca civica di Casale Monferrato, ambito necessariamente ristretto su cui è stata condotta la ricerca, possiamo far risalire  al luglio del 1862 il primo indizio certo del suo interesse per la fotografia.[1]  In quei giorni il giovane Negri, poco più che ventenne e appena trasferitosi a Casale, poneva un’annotazione a matita sulle pagine del volume di Eugène Disderi, L’art de la photographie[2], uno dei manuali più autorevoli dell’età del collodio, attento alle questioni poste dal ritratto fotografico, ad un esito di rassomiglianza che andasse oltre la pura resa fisiognomica, quella cui pure l’autore doveva la propria notorietà di inventore del ritratto in formato carte-de-visite.

Conosciamo ancora troppo poco la storia della fotografia a Casale Monferrato[3] per sapere se Negri avesse potuto trovare localmente suggestioni e sostegno alla propria passione nascente o se questi non gli provenissero invece dal soggiorno torinese, dove si era laureato in giurisprudenza nel 1861, ambiente in cui era stata precocemente praticata la fotografia sin dal fatidico 1839, divenuta ben presto attività fiorente e diffusa per la presenza di numerosi e qualificati studi professionali come di amatori colti[4], nobili o borghesi che fossero, coi quali certamente non possiamo escludere possibili relazioni legate all’ambiente universitario.

Ciò che risulta però chiaro è come l’attenzione fosse da subito sistematica e precisamente orientata se già nel 1864  il novello sposo[5] risultava abbonato non solo alla prima rivista italiana di settore, “La Camera Oscura. Rivista periodica universale dei progressi della fotografia” diretta a Milano da G. Ottavio Baratti”, ma anche a prestigiosi periodici internazionali come “The Philadelphia Photographer”, mentre la sua biblioteca si arricchiva di  preziosi manuali[6].

Risaliva ai primi di settembre dell’anno precedente la sua più antica ripresa datata, una lastra al collodio[7]  che oltre all’indicazione del giorno (“1863 5 sett.”)  e alla sigla “N.F.” porta inciso il numero d’ordine «44», ad inaugurare una consuetudine tipica di molti fotografi coevi cui Negri restò fedele sino agli ultimi anni di attività[8]. È  l’immagine di tre figure in esterni, due donne e un uomo seduti, tutti con fucili da caccia, realizzata forse a Ramezzana, una delle grange dell’abbazia di Lucedio (Trino)[9]. Non si tratta quindi di un ritratto vero e proprio, anzi si potrebbe quasi parlare di un’istantanea ante litteram, ma per noi costituisce la testimonianza di come il suo primo interesse fosse rivolto alla figura umana, colta inevitabilmente nella  cerchia di relazioni personali, come fu per molti dei fotografi amatori delle origini.

Sebbene non datati, sono da collocarsi nello stesso periodo di tempo gli splendidi ritratti eseguiti in interni, fortemente influenzati dai coevi modelli professionali e in particolare fedeli alle istruzioni del già citato testo di Disderi,  che indicava come “la prima cosa che deve fare il fotografo che desidera ottenere  un buon ritratto, sia di penetrare (…) il tipo reale e il vero carattere dell’individuo; lo si deve studiare e conoscere [si deve] comporre il ritratto, in una parola. Comporre un ritratto, per noi, vuol dire scegliere le modalità di rappresentazione più adatte al modello e combinare tutti gli elementi visibili in maniera unica.”[10]

Questa ascendenza è ancor più evidente nelle riprese a figura intera, col soggetto disposto di tre quarti, in pose rigorose e ferme e un uso degli arredi che ricalca la disposizione tipica delle carte-de-visite del francese, con un tendaggio collocato come quinta di chiusura a sinistra, mentre in altri casi l’utilizzazione di elementi tipici quali la balaustra posticcia, farebbe pensare alla collaborazione di un professionista casalese per ora non individuato, lo stesso che potrebbe averlo istruito nella sua prima fase di formazione.

Non mancano neppure le riprese in esterni, forse di poco antecedenti, per le quali Negri ricorreva a un’improvvisata scenografia fatta di pochi elementi (un fondale uniforme appena mosso da un tendaggio poggiato, un tappeto, l’immancabile poltrona)[11], mentre altre  ne sono completamente prive e tutta l’attenzione è rivolta all’efficace rappresentazione della persona, traducendo in figura il rapporto di colloquialità che lo legava al soggetto, analogo a quello che emerge – seppure in maniera più sottile – dalla bellissima serie di ritratti in interni in cui la non convenzionalità della rappresentazione è testimoniata più che dalla posa dalla presenza di arredi non stereotipati, certamente appartenenti all’ambiente quotidiano del fotografo.

Sono ritratti che sembrano dar corpo ai più alti esiti attesi dal nuovo realismo del mezzo fotografico, a quella “ricerca di assoluto verismo” di cui ha parlato Carlo Bertelli[12]. Sono indizi certi di una fiducia tutta positiva nelle sue capacità di descrizione analitica, di traccia del reale, ma alcuni indizi ci orientano verso una convinzione più incerta. Penso alla coppia costituita dall’Autoritratto con lo stereoscopio  e dal Ritratto della moglie  con una rivista fotografica in grembo, che assumono un’evidente connotazione allegorica, ma soprattutto ai due autoritratti multipli come ‘fantasma’, che rivelano tutta la gioiosa sorpresa, il primitivo stupore per le possibilità narrative della nuova tecnica che avremmo ritrovato in Lumière e Méliès agli albori del cinematografo. La burlesca messa in scena  spiritista non solo rivela il giudizio sarcastico dell’uomo di scienza[13] su di un fenomeno allora in voga, ma costituisce una precoce, immediata intelligenza dell’illusoria obiettività e verosimiglianza della ripresa fotografica.  Se questa può mostrare ciò che non esiste, allora il suo stesso statuto di verosimiglianza documentaria – pur ampiamente fondato e giustificato – deve essere accolto criticamente, ma contemporaneamente usato per stupire. In questa latente contraddizione continua risiede il fascino fecondo dell’immagine fotografica, ribadito da Negri in modi ed occasioni diverse lungo tutto l’arco della sua produzione.

“La fotografia – ha notato George Didi-Huberman[14] – nasce in un tempo che considera sé stesso del sapere assoluto. La fotografia è certo uno strumento d’obiettività straordinariamente fecondo, [ma] è innanzitutto uno strumento di sperimentazione, cioè mette in evidenza la variabilità o la relatività dei fenomeni visibili, non la loro stretta ‘positività’ .” In particolare consente di fissare l’immagine di ciò che non appare: perché troppo piccino o troppo distante, o rapido come il momento di un gesto. Se mostrare l’invisibile (il ‘non visibile’) è una delle virtù riconosciute alla fotografia, allora Negri con questa messa in scena spiritista segna simbolicamente la propria adesione a questo credo positivista in modo affatto paradossale, proprio mentre si ingegna ad applicarlo in forme più canoniche,  dedicandosi in particolare all’esplorazione dell’universo dell’infinitamente piccolo.

Porta la data del 1866[15] la  Prima Prova Micrografica/ Gamba di Ragno, di poco successiva alla produzione dei pionieri italiani in questo settore, come Antonio Roncalli di Bergamo e Luigi Arcangioli di Arezzo che all’Esposizione di Firenze del 1861 avevano presentato “studi micrografici” e “fotografie rappresentanti oggetti al microscopio”, mentre due anni più tardi all’Esposizione provinciale di Reggio Emilia del 1863 anche il conte Luigi Scapinelli esponeva immagini di insetti ingranditi al microscopio[16]. Le sperimentazioni fotomicrografiche[17] di Negri proseguirono sporadicamente negli anni successivi, segnati però principalmente da significativi studi di fitopatologia, tali da renderlo immediatamente noto a livello nazionale.[18] L’estensione progressiva dei propri interessi alla fotomicrografia batteriologica è testimoniato da una serie di articoli comparsi sul fiorentino “Lo Sperimentale” a partire dall’agosto del 1882[19], uno dei quali – la Contribuzione allo studio dei bacilli speciali della tubercolosi – costituì l’occasione di un primo contatto con Robert Koch, lo scienziato tedesco che nel marzo dello stesso anno aveva presentato la propria scoperta alla Società Fisiologica di Berlino.   A queste prime significative applicazioni fece seguito nei tre anni successivi un’intensa sperimentazione rivolta alla messa a punto di opportune metodiche di colorazione dei preparati destinati ad essere fotografati, in molti casi “espressamente inviati al Negri” dallo studioso torinese Edoardo Perroncito[20], mentre in altre occasioni  – come il bacillo del colera fotografato nel 1884 – egli si era avvalso di campioni raccolti durante l’epidemia che colpì i due piccoli centri casalesi di Pontestura e Vialarda nell’autunno di quell’anno, guadagnandosi nel 1885 una medaglia d’argento concessa dal Ministero della Sanità, anche per le attività profilattiche poste in essere in qualità di  sindaco.[21]

Il riconoscimento ufficiale veniva a coronare vent’anni di studi e ricerche scientifiche e di fotografia applicata all’indagine microscopica, ma per Negri ciò non costituì motivo di ulteriore impegno, anzi dopo questa data la sua attività in questo settore si interruppe bruscamente  con la realizzazione nel 1885 di un’ultima bella serie di ingrandimenti di Diatomee, con inquadrature che a volte si rifanno esplicitamente alle tavole pubblicate nel 1866 da Albert Moitessier nel suo manuale –  posseduto da Negri – dedicato a La photographie appliquée aux recherches micrographiques.  Qui accanto all’interesse strettamente documentario emerge una palese attenzione compositiva, del resto non estranea anche ad analoghe produzioni di altri autori, ciò che impedisce di condividere le troppo categoriche affermazioni di Carlo Bertelli secondo il quale “l’aspirazione della fotografia era allora la rimozione di qualunque intento estetico, la ricerca di assoluto verismo.”[22]

Non diverso dovette essere il suo modo di procedere nel nuovo e per lui inedito ambito di indagine, quello della storia dell’arte. Henry Festing Jones, amico e biografo di Samuel Butler ricordava come la consuetudine tra lo scrittore inglese e Negri datasse al 1888, anno della pubblicazione di Ex-Voto[23], e proprio il convergere di interessi intorno all’opera di Jean de Wespin e più in generale sul Santuario di  Crea fosse stato il fondamento di un’amicizia intellettuale e di una frequentazione che si protrassero sino alla morte di Butler nel 1902[24].  In Negri, membro della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti d’Arte e d’Antichità per la Provincia di Alessandria dal 1890, doveva certamente essere viva già da qualche tempo l’attenzione per il Santuario negli anni successivi ai grandi lavori intrapresi per iniziativa del vescovo di Casale  Monsignor Calabiana[25], ma non può essere senza significato che le sue prime riprese datate risalgano al 1891 – da luglio a settembre[26] – cioè esattamente allo stesso periodo, agli stessi giorni quasi cui datano anche le poche immagini realizzate da Butler, poi inviate a Giulio Arienta il 31 ottobre successivo con una lettera in cui esprimeva tutta la propria stima per lo studioso casalese: “Quel prete Don Minina ed il cav. Avv. Francesco Negri sono i più attivi, e cercano dappertutto con zelo molto forte e molto intelligente (…) so d’ogni modo che l’avvocato Negri è uomo di ottimo giudizio in questi affari.”[27]

Fu proprio la cappella del Martirio di Sant’Eusebio, che Butler aveva definito“la più importante” di Crea, e di cui Negri denunciò la grave condizione di degrado ancora all’inizio del Novecento, a costituire il primo e principale soggetto delle sue riprese, sebbene il principale  argomento di ricerca fosse volto in quel tempo alla ricostruzione delle figure di Martino Spanzotti e di Guglielmo Caccia.[28]

La costante attenzione per la statuaria di quella cappella consentì a Negri di realizzare nel corso degli anni una serie di immagini che varia dalla ripresa d’insieme ai particolari, intesi qui come descrizione analitica dell’opera quanto della scena, evento restituito dalla doppia mediazione dei due linguaggi, con l’intenzione esplicita di celebrare quel “realismo così sano e spontaneo” che tanto lo affascinava nelle opere di Giovanni Tabacchetti.  Attuava così quel rispecchiamento tra gesto del plasticatore  e gesto fotografico[29], entrambi impegnati a mettere in scena la memoria di una realtà, che riconosciamo anche nel modo di disporre le figure all’interno dell’inquadratura di una delle riprese relative alla cappella della Concezione della Vergine dove, ancora, l’interesse appare rivolto principalmente alla restituzione fotografica del dialogo fra le figure. Era questo un modo di  declinare l’intenzione documentaria propria della fotografia di riproduzione d’arte secondo una più sottile intenzione, che reinterpretava  e stravolgeva la pratica consolidata dei grandi studi quali Alinari o Braun (verso i quali in quegli stessi anni si appuntavano le incisive osservazioni di Wölfflin) accogliendo le suggestioni della nuova sintassi visiva introdotta  dalla pratica dell’istantanea fotografica, quel tentativo di rendere l’illusione della vita corrispondendo alla teatralizzazione  del gesto che apparteneva alla logica di rappresentazione del plasticatore.[30]

“How about your Tabacchetti?”  chiedeva Butler a Negri in una lettera datata 5 novembre 1900[31], con allegata copia della sua traduzione dell’Odissea e l’annuncio di aver iniziato la redazione di Erewhon Revisited,  a riconferma di una solida consuetudine e stima,  che si sarebbe concretizzata due anni più tardi coll’accollarsi le spese di pubblicazione dell’apparato illustrativo  (“i fototipi per le illustrazioni che ornano queste notizie”)  del lungo saggio da Negri dedicato a Il Santuario di Crea in Monferrato, summa degli  studi dello studioso e fotografo casalese[32] che sulla “Rivista di Storia, Arte, Archeologia della provincia di Alessandria”, aveva già pubblicato gli esiti delle proprie ricerche dedicate a Giorgio Alberini e a Guglielmo Caccia[33], occasione per avviare rapporti con altri studiosi come Carlo dell’Acqua[34], Gustavo Frizzoni[35]  e Diego Sant’Ambrogio, che il 27 giugno 1904 gli segnalava l’importante ritrovamento del trittico realizzato da Macrino d’Alba per l’abbazia di Santa Maria di Lucedio (Trino)[36].

Proprio il patrimonio artistico di questa importante abbazia cistercense costituì l’argomento delle sue ultime ricerche di storia dell’arte, estese al patrimonio pittorico del vicino centro di Trino, pubblicate nel 1914 in un volume firmato coi religiosi Evasio Colli ed Alessandro Rastelli, autore quest’ultimo del ricco apparato fotografico a corredo.[37] Non è questa la sede per valutare nel merito gli esiti delle ricerche di Negri, ma risulta semplice riconoscere come numerose sue conclusioni non abbiano retto alla prova del tempo e siano state radicalmente modificate dagli studi più recenti[38]. Sarebbe però ingiusto disconoscere la sua capacità di aprire gli interessi della cultura locale alla storiografia artistica su base documentale, seguendo percorsi che si discostavano significativamente dal prevalente interesse per la cultura tardomedievale espresso negli stessi anni dagli storici torinesi, mentre nel Piemonte settentrionale, dopo gli studi di Edoardo Arborio Mella l’attenzione era piuttosto rivolta alle scuole artistiche di matrice lombarda e alla produzione cinquecentesca in genere.

Nel ripercorrere questa diversa geografia culturale l’attività di Negri mostra notevoli analogie con quanto andava facendo nello stesso periodo l’amico fotografo vercellese Pietro Masoero[39], impegnato nella documentazione delle opere della Scuola pittorica vercellese, sebbene il suo progetto culturale  avesse una più precisa intenzione politica, orientata alla divulgazione,  all’istruzione delle classi popolari piuttosto che alla produzione storiografica. E diversa ancora era l’intenzione di Secondo Pia[40], cui lo legavano rapporti di conoscenza anche nell’ambito della Società Fotografica Subalpina, certo in quel periodo l’autore più sistematicamente impegnato nella formazione del catalogo visivo del patrimonio artistico e architettonico piemontese.[41] Pia si era recato a Crea il 15 settembre del 1885, ma in quella prima occasione aveva rivolto la propria attenzione al solo aspetto paesaggistico, risolto in un panorama in due parti ripreso da sud, secondo il punto di vista canonico[42], la più antica documentazione fotografica di questi luoghi a noi nota, realizzata da Vittorio Ecclesia nel  1878-1880, che aveva escluso le cappelle e il loro patrimonio statuario, allora in fase di profonda trasformazione, per rivolgersi alla sola facciata e all’interno del Santuario offrendo però una Veduta generale del Sacro Monte ripresa dal colmo della chiesa  che costituisce una delle più affascinanti invenzioni iconografiche del fotografo e di tutto il repertorio relativo a questi luoghi.[43]

“Per godere di queste sensazioni [questo] misantropo così squisitamente sensibile (…) partiva da Casale a piedi (…) Sempre solo, poiché non aveva l’amico il cui spirito vibrasse all’unisono col suo; sempre taciturno, ma beato per gli spirituali conversari che lo intrattenevano (…) con le umili pianticelle che andava raccogliendo nel bosco. (…) Lo rivedo ancora nella buia cappella di S. Margherita, a rivelarmi le bellezze in essa rinchiuse mediante il lampo di magnesio che portava sempre con sé.”[44] Le parole del necrologio redatto da Luigi Gabotto confermano come Crea sia stata per molti versi il laboratorio di Negri, ma non convincono sino in fondo, fanno emergere nel lettore il sospetto delle stereotipo. Soprattutto non corrispondono all’impressione generale che le fotografie di Negri lasciano in chi le osserva.

Certo Crea fu luogo privilegiato di meditazioni e studi, ma non il solo. Le note autografe apposte alle lastre registrano le località di Pozzengo, Torcello, San Germano, Camino, Quargnento, Bosco Marengo, Fubine disegnando una mappa di destinazioni facilmente raggiungibili dall’amatissima Casale, cui dobbiamo aggiungere la Val Sesia con Riva Valdobbia e alcune località della Valle d’Aosta, Courmayeur in particolare. Sono le mete accessibili nel tempo concesso dagli impegni pubblici e professionali, sono i luoghi delle villeggiature. Scontati e pienamente comprensibili per l’attività di un amateur photographer, per quanto selettiva e qualificata. Così come non ci sorprende il calendario delle riprese, tutte scalate – tranne rare eccezioni – da maggio a ottobre, quando la luce è più calda e intensa, in grado di migliorare ancora le prestazioni delle già rapide emulsioni alla gelatina-bromuro d’argento.

Né mi convince quell’accenno a una misantropica solitudine, a una subìta separatezza, radicalmente smentita dalla collezione  di sguardi che vediamo intrecciarsi nelle sue lastre, dal piacere giocoso e tutto dilettantesco della curiosità tecnologica[45], che lo portava a usare apparecchi “nascosti”.

La rivoluzione delle emulsioni alla gelatina  ebbe conseguenze enormi anche nel costituirsi della fotografia come pratica sociale. Il fotografo non professionista non fu più – o non solo – l’irregolare di rango, ma,  per onde socialmente sempre più ampie, omnicomprensive divenne dapprima dilettante e poi fotoamatore, ruolo culturale inedito, produttore e consumatore di quella che ormai molto avanti nel Novecento Pierre Bourdieu avrebbe chiamato “arte media”, o semplice praticante occasionale colonizzato dalle strategie dell’industria dell’immagine.

In questa traiettoria la figura di Negri si pone in maniera affatto singolare per la sua capacità di utilizzare la fotografia senza preconcetti, in grado di ricorrere alle migliori  e più aggiornate soluzioni applicative come di usarne quale strumento e testimonianza di relazioni sociale e affettive.

Anche per Negri la lastra fotografica era “la vera retina dello scienziato, che vede tutto, che analizza tutto e che addiziona le impressioni, senza fatica, senza parzialità, senza preconcetti”[46], sebbene questo  approccio positivista e analitico non gli impedisse poi usi diversi, privati e narrativi, spingendosi se del caso ben oltre i legittimi limiti della verosimiglianza per giocare con le esposizioni multiple sulla stessa lastra, dove – abbandonato il grottesco sarcasmo delle prime prove ‘spiritiste’ – l’espediente era destinato a inventare mondi possibili, verosimilmente fantastici,  abitati non a caso da bambini.[47]

L’accoppiamento tra nuove emulsioni e apparecchi gli consentì soprattutto di orientare diversamente il proprio sguardo, affiancando alle precedenti applicazioni strumentali – tra ricerca scientifica e storiografia artistica – il piacere di cogliere la realtà “nella verità della sua apparizione” (Gunthert 2001, p. 65), di collezionare ricordi istantanei senza alcuna premeditazione.

In questa nuova stagione, e inedita, un ruolo determinante giocò l’uso dagli apparecchi stereoscopici, dove grande maneggevolezza e rapidità di posa arricchivano l’affascinante promessa della futura visione tridimensionale e privata  così come accadeva con le detective camera.  Il loro uso letteralmente sorprendente dava corpo e immagine per la prima volta alla versione fotografica del voyeur[48], ormai dotato di un apparecchio[49] nascosto sotto al panciotto, con l’obiettivo sporgente da un’asola, che consentiva di ottenere su ciascuna delle lastre circolari di cui era dotato, sei immagini circolari di 40 mm di diametro e che Negri usò a partire dal 1888.

Paradosso della situazione: nel momento di più esplicito voyeurismo il fotografo nuovo delegava alla macchina buona parte delle proprie funzioni autoriali e posticipava il piacere del vedere riservandolo allo spazio sacrale della camera oscura. Si limitava a scegliere l’occasione e il momento. Affidandosi all’apparecchio per strutturare l’articolazione dello spazio e la composizione dell’inquadratura abdicava alla propria funzione di autore aprendo inconsapevolmente la strada alle estetiche del Novecento.

Anche in termini iconografici con questa possibilità nuova, nativa, offerta dall’istantanea[50], la fotografia si rendeva autonoma da ogni debito con la tradizione pittorica, giungendo progressivamente a definire un genere costituito da immagini articolate secondo sintassi inedite[51], che in Italia sarebbero poi state lucidamente individuate da Stefano Bricarelli, che per la buona riuscita delle “scene animate”  avrebbe indicato quale “condizione indispensabile (…) che il soggetto sia inconscio (…). Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata. [Per] fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  di un quadro.”[52]

Le scene di strada erano un soggetto privilegiato e ampiamente frequentato già dalla prima maturità della pratica stereoscopica, intorno agli  anni ’70 del XIX secolo.  A questa si devono anzi i primi esempi di ripresa istantanea, ancora ai tempi del collodio, ma fu la pratica dilettantistica consentita dai nuovi dispositivi fotografici a determinare la vera e definitiva scoperta della scena urbana, a mutarne il senso della rappresentazione, che ora diviene piuttosto la registrazione di un’esperienza, la traccia del rapporto individuale tra il fotografo e la città, testimonianza del suo esserci in quanto componente della scena stessa.

La semplicità d’uso consentiva ormai di rivolgere l’attenzione alle banalità (più raramente all’eccezionalità)  del quotidiano; erano  proprio le nuove possibilità operative a consentire e definire nuovi soggetti, irriducibili ai canoni dell’artisticità, incommensurabili. Contemporaneamente si accresceva il valore testimoniale di traccia della fotografia, poiché l’apparente casualità dell’inquadratura certificava la veridicità di una ripresa non posata e simulata, “rendendo più profondo il nesso tra informalità e verità fotografica.”[53] È l’istantaneità che inventa i propri soggetti collocandoli in un diverso orizzonte espressivo e di valore, che si caratterizza  per la sua elevata autoreferenzialità[54]. Prende così progressivamente forma un modello di consapevolezza espressiva fondato sui nuovi elementi discorsivi apportati da questa pratica, ciò che consente per la prima volta di “piegare la rappresentazione al proprio ordine, di imporre al visibile la griglia della tecnica, di trasformare il soggetto della pittura nell’oggetto della fotografia”[55], di più ancora, come abbiamo visto nel caso di alcune riprese relative a Crea: di cercare l’istantaneità del gesto anche nella lettura delle statue di Tabacchetti.

Nell’opera di Francesco Negri questa libertà nuova ha assunto forme diverse, che riguardano aspetti compositivi non meno che narrativi, così come la scelta di specifici soggetti.

Quanto all’accogliere le suggestioni di nuove possibilità sintattiche, basti pensare a certe vedute urbane[56],  ai modi di orchestrare le figure nello spazio, congiunte da intervalli così silenziosi da far emergere a volte un sentimento di desolata solitudine, quasi disperata. Si produceva così un tempo che appare sospeso, immoto, il più lontano dal fermo immagine  proprio dell’istantanea comunemente intesa. In altri casi è la rimessa in discussione del punto di vista a costituire il centro di interesse, come nella bella ripresa delle lavandaie dall’alto, o la scomposizione – affidata alle ombre – dell’inquadratura di una scena di strada altrimenti al limite del bozzetto folklorico. In entrambe un soggetto ampiamente frequentato e ormai consunto venne  rivitalizzato in modi che anticipano soluzioni che saranno poi programmaticamente perseguite dai fautori della “nuova visione”.

Negri non escludeva alcun uso della fotografia. Non temeva la banalità del quotidiano, poiché la fotografia (gli) consentiva anche questo: di raccontare un gesto qualsiasi, cui si è legati anche solo da un fuggevole sentimento momentaneo, con grande e risolutiva economia di mezzi. Per questo – credo – non temeva neppure di misurarsi con qualcosa che noi oggi possiamo forse chiamare il qualunquismo delle ricorrenti pose goliardiche, dei piccoli gesti di pessimo gusto, di intere serie di “foto col colombo in man”. Non solo desiderava misurarsi con la fotografia, ma anche sottoporne a verifica le potenzialità, affidandosi al piacere sorprendente di estrarre il singolo gesto fugace dal flusso continuo dell’azione. Mi riferisco al velleitario tentativo di dimostrare come fosse possibile la “Abolizione della film (…) vantaggiosamente sostituita dalle comuni lastre sensibili”, condotto utilizzando il bizzarro apparecchio Olikos[57], ma ancor più alle due opposte serie delle scene di ballo e della brevissima, sorprendente sequenza del tuffo nelle acque del fiume, altro “soggetto istantaneo” praticato da molti fotografi il cui successo non era immune, secondo alcuni, da più o meno esplicite suggestioni della cultura omosessuale.[58]

Questa sindrome dell’istantanea fu immediatamente individuata e precisamente descritta da Albert Londe, direttore del servizio fotografico al cronicario parigino  della Salpêtriére col grande psichiatra Jean-Martin Charcot,  che nel suo saggio dedicato alla Photographie instantanée notava come “molti fotoamatori da quando possiedono un otturatore non sognano altro che di fotografare dei cavalli in corsa o dei treni espressi” , sebbene questo si rivelasse ben preso un compito ingrato, poiché “se la ripresa ottenuta è nitida il treno appare irrimediabilmente fermo e solo la dichiarazione del fotografo, ancor più del pennacchio di fumo che volteggia, garantisce l’istantaneità della posa.”[59]

Ciononostante l’attrazione per questo soggetto – in Negri come in altre decine di pittori e fotografi europei e statunitensi, ben prima delle celebrazioni futuriste – fu irresistibile, poiché la locomotiva rappresentava  la materializzazione di una velocità inumana, sino a prima inimmaginabile. Era e rimane per questo il simbolo più efficace e pieno della modernità della prima rivoluzione industriale, ma costituiva anche il banco di prova dell’istantaneità fotografica: velocità contro velocità, otturatore vs motore. Senza poter impedire che sfuggisse però – irresistibile – una scenografica massa cangiante di fumo e vapore bianco, come di nuvole fatte a macchina.

I diversi ambiti della sua attività, così come si sono  andati delineando ci consentono un’affermazione che può apparire sorprendente: sino agli anni Novanta Negri non fu un amateur photographer, ma uno studioso che usava in modo molto accorto e appropriato la fotografia, trovando in questo campo di applicazione specialmente motivi di interesse tecnologico. Basti pensare alla progettazione del teleobiettivo, che costituiva in quegli anni un rilevante problema ottico meccanico, già affrontato da Thomas Rudolphus Dallmeyer a Londra e da  Adolf Miete a Berlino sin dal  1891, quindi da Giorgio Roster e Innocenzo Golfarelli in Italia, e che lui risolse operativamente per primo nell’arco di poco più di quattro anni, a partire dalle sperimentazioni avviate nell’aprile 1892 sino alla messa in produzione da parte della ditta milanese Francesco Koristka nel 1896.[60]

Il profilo architettonico della città, insieme alle montagne lontane, era ciò che lo attirava per primo nella sperimentazione del nuovo strumento ottico, la possibilità di incidere nella veduta panoramica un percorso visivo di avvicinamento estremo, sino alla scala del singolo edificio o tenendosi un poco più largo per rivelarne le aguzze emergenze che lo distinguono, le più antiche torri e le ciminiere dei cementifici, mantenute significativamente in primo piano anche in un’altra ripresa in cui notava l’adagiarsi calmo della città nell’ansa ampia del fiume. Poco sembrano interessarlo invece le singole emergenze architettoniche. Non rientrava tra i suoi scopi la formazione di un repertorio visivo del patrimonio storico urbano; attento semmai agli spazi da vivere, tra le piazze, i giardini e il lungofiume. Poi le infrastrutture, forse anche in virtù della sua stessa funzione di amministratore pubblico. La sua è una città che appare scarsamente popolata, sebbene alcune tra le primissime riprese, ancora su lastra al collodio, fossero dedicate all’imprendibile animazione di piazza Mazzini in un giorno di festa, e ancora anni dopo avesse generosamente impiegato il proprio apparecchio stereoscopico per raccontare l’animazione di piazza Castello in occasione di qualche fiera, tra padiglioni e giostre.[61]

La città che sembra attirarlo di più è quella degli spazi vuoti, non di rado marginali, quella che appare  nelle giornate uggiose, con scarsi passanti, nell’elegante griglia dei giardini innevati, deserti.

Anche del fiume ciò che maggiormente costituiva per lui richiamo non era la vita sulle sue sponde, pur non esclusa, ma la sua relazione inscindibile con la città e col paesaggio che la circonda, letteralmente nato per erosione e accumulo, tra bordi collinari e pianura. Raccontare il fiume voleva dire per Negri reinventarne fotograficamente la maestosa ampiezza, minacciosa a volte; alzare panoramicamente il proprio  sguardo sino a cogliere il dialogo con la geografia dell’intorno o ridursi al breve orizzonte chiuso dagli argini, estendendo il proprio sguardo a tutti i paesaggi d’acque che circondano la città, sino alle più prossime risaie, fotografate forse per l’amico Angelo Morbelli.[62]

Quasi si potrebbe dire che solo nell’ultimo decennio del secolo Negri divenne un dilettante, aprendosi liberamente al piacere dell’istantanea, ma rivelandosi soprattutto un ritrattista di gran livello, così come sarebbe accaduto per un altro amateur della generazione successiva come Enrico Del Torso (Trieste 1876 – Udine 1955)[63]. È proprio in questa serie di figure che risulta dal dialogo serrato coi soggetti fotografati, tutti palesemente in relazione di stretta conoscenza, di familiarità col fotografo che emerge per la prima volta un esplicito impegno espressivo, scalato in una ricca serie di soluzioni linguistiche, frutto di uno sguardo innovativo e scarsamente condizionato dai modelli della fotografia pittorialista; immagini  destinate alla pura  fruizione privata. Come aveva già notato Marina Miraglia[64], Negri fu “tra i pochi fotografi amatori piemontesi che oltre all’immagine del territorio indagò, in toccanti istantanee, la propria quotidianità familiare”, riuscendo però a trascendere ampiamente questi angusti limiti sino a restituire l’identità visiva della borghesia casalese tra Otto e Novecento, a offrire esiti innovativi all’ormai lunga consuetudine del genere.

Dopo una pausa di circa un trentennio l’archivio di Negri si popola nuovamente di persone, spesso inseguite e colte nella relativa libertà del gesto quotidiano, in modi mantenuti volutamente lontani dalla prestabilita compostezza della ripresa in studio, a meno che ciò non costituisca quasi un esercizio di citazione. Gli sfondi, appena fuori fuoco, sono di interni borghesi, ma non mancano certo gli esterni, che anzi tendono a prevalere col procedere degli anni. L’attenzione è per la figura (non sono ritratti ambientati) anzi, ancor più, è concentrata sul volto e in questo sullo sguardo, che a volte emerge dall’ombra, con una modernità priva di inquietudine. Oppure si rivolge diretto alla macchina, al fotografo quindi, in segno di manifesta confidenza, o si ritrae pudico per analoghe ragioni. Anche qui ritroviamo esempi di sperimentazione linguistica condotti al limite della citazione, ma sempre con la levità quasi innocente del dilettante. Penso alla figura stante, di profilo, con lunga tunica bianca, in cui le suggestioni tra preraffaelitte e simboliste piuttosto che sublimare l’identità concreta e storica della persona ritratta – come accadeva circa gli stessi anni nelle fotografie di Guido Rey – contribuiscono a marcarne la connotazione. Penso anche alle due ieratiche figure di netto profilo, forse una coppia, di ancora più antiche ascendenze pittoriche ma certo di scarsa applicazione nella ritrattistica coeva: ad esclusione della segnaletica, certo.

I modi oscillano continuamente tra gli estremi opposti delle silhouette prefotografiche, alcune provate virtuosisticamente in esterni, e la vivezza dell’istantanea, in cui uno sguardo colto quasi al volo, un gesto rivelano improvvisamente qualcosa della persona ritratta, aprendo la strada che poi sarebbe stata ampiamente frequentata dalla fotografia degli anni della modernità.

Anche il tema del paesaggio – secondo le date autografe apposte alle lastre – non venne sistematicamente affrontato prima della fine degli anni Ottanta, quando però si trattava ancora, il più delle volte, di vedute di  località, non di paesaggi veri e propri[65]. Tra i primi soggetti con cui si misurava vi era la montagna, certo una nobile tradizione per la fotografia piemontese e per lui legata ai soggiorni in alta Val Sesia (Alagna e soprattutto Riva Valdobbia, dal 1888) e poi in Valle d’Aosta (Courmayeur, Châtillon, la Valtournenche tra 1897 e 1899). Sono prevalentemente vedute di ampio respiro, che restituiscono l’insieme del contesto alpino o si soffermano sui piccoli insediamenti di fondovalle. Negri non era un alpinista, solo di rado il suo sguardo veniva attratto dalle catene montuose o dai fronti di ghiacciaio, memore delle favolose immagini dei primi grandi fotografi di montagna, non più di trent’anni prima[66]. Non per questo però la qualità della sua produzione fu meno nota e apprezzata se Vittorio Sella[67], forse il più grande fotografo alpinista del XIX secolo, scelse alcune sue riprese per una mostra aostana dedicata proprio a questo genere, realizzandone in proprio una nuova stampa delle eccezionali dimensioni di 53,5×218,5 centimetri. Più interessanti ci sembrano oggi i paesaggi veri e propri, per quella sua capacità di sorprenderci con piccoli scarti improvvisi, inattesi; per la scelta di soggetti inconsueti e quasi marginali che gli consentono però di orchestrare l’inquadratura in modo dinamico, con la ricorrente presenza di elementi in primo piano con funzione di quinta e di scomposizione dell’inquadratura, oppure ricorrendo per analoghe ragioni alle amatissime ombre portate di elementi fuori scena.

La più costante attenzione fu però rivolta alla vegetazione nelle sue diverse forme, alle specie spontanee riprese in stereoscopia ancora nel 1899 con lo sguardo del naturalista e specialmente alle masse alberate che chiudono l’orizzonte dei campi, che segnano il margine delle lanche, al folto dei boschi. Tutti soggetti che ben si prestavano ad essere trattati col metodo della tricromia.

Paesaggio e colore in un qualche modo si sovrapponevano, e neppure la montagna faceva eccezione,  esito di una mediazione che era pittorica e tecnologica insieme. Com’era per l’istantanea, anche la tricromia[68] imponeva i propri soggetti, non solo per l’ovvio prevalere d’interesse della gamma cromatica sulle modulazioni tonali, ma anche e forse soprattutto perché la realizzazione distinta dei tre negativi di selezione imponeva la scelta di soggetti sostanzialmente immobili, la cui forma permanesse immutata per il tempo necessariamente lungo delle tre distinte pose.

Dopo le prime prove del 1890 (una ripresa di fiori in vaso, con filtro rosso, datata 8 luglio) Negri si dedicò con costanza a queste esperienze a partire dall’ottobre del 1899 (“Quando cominciai nel dicembre 1899 a tentare la tricromia..”  ricordava nel 1906, sbagliando di poco), forse sollecitato dalla pubblicazione dell’importante testo di Carlo Bonacini La fotografia dei colori (1897) e da quello di Alcide Ducos du Hauron, fratello del più noto Louis, La triplice photographique des couleurs et l’imprimerie che l’editore parigino Gauthier-Villars aveva pubblicato nello stesso anno.  L’interesse per il tema era però di molto precedente come dimostra la presenza nella sua biblioteca del testo fondamentale di Hermann Wilhelm Vogel, La photographie des objects colorés avec leurs valeurs réelles (1887), e confermata dalla presenza di periodici specializzati quali “La Photographie des Couleurs” e del più tardo volume di Ernst König,  Natural-color photography, del 1906.

L’attenzione non episodica per questo tema è oggi testimoniata dalle sessanta tricromie presenti nel Fondo[69], “sintesi di un lungo e paziente lavoro, il quale lascia dietro di sé un enorme sciupio di lastre, pellicole e colori”; poi aggiungeva:  “di schermi ne ho fatti molte decine, di colori ne ho passati in rassegna più di un centinaio.”[70]

Gli esiti di questa metodica applicazione furono immediatamente noti e apprezzati, tanto da determinare la partecipazione nel 1902 alla grande Esposizione di Arte decorativa moderna e contemporanea che si tenne a Torino,[71] chiamato a rappresentare l’Italia nella sezione dedicata alla fotografia[72]. L’invito doveva certo essere giunto dallo stesso Presidente del Comitato promotore dell’Esposizione internazionale di fotografia artistica Edoardo di Sambuy, che Negri aveva conosciuto in occasione dei due primi congressi italiani di fotografia a Torino (1898) e Firenze (1899). La condivisione dell’iniziativa con autori quali Guido Rey, Cesare Schiaparelli, Giacomo Grosso e Vittorio Sella, solo per citare i maggiori, consacrava Negri come uno dei più significativi autori a livello nazionale, sebbene il suo modo di intendere e praticare la fotografia poco avesse da condividere con le pratiche ‘artistiche’ allora dominanti, analogamente a quanto accadeva del resto anche per Vittorio Sella.

Pietro Masoero, commentando l’Esposizione sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana” segnalava le “magnifiche tricromie su pellicola di Francesco Negri di Casale, destanti l’ammirazione generale. E questa volta il pubblico giudicava bene. I saggi presentati dal Negri erano perfetti sotto ogni rapporto e per il primo credo, dalla natura morta osò riprodurre a colori la natura aperta come un’aiuola di viole del pensiero e un canale del Po con effetto di tramonto.”[73]

L’ammirazione del pubblico era certo favorita dalla semplicità di queste composizioni, lontane dalle “inusitate forme” e dalla “esagerazione della ricerca” della più avanzata produzione straniera di gusto pittorialista, specialmente statunitense. La novità dirompente, assoluta, per noi oggi incommensurabile era però il colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel al francese Gabriel Lippmann nel 1908, per la messa a punto del metodo interferenziale diretto di fotografia a colori; quello  che i fratelli Lumière, grandi sperimentatori e recenti inventori dell’autocromia, molto sottilmente definivano come “una meravigliosa esperienza di laboratorio e una elegante conferma della teoria fisica della luce”, priva però di qualsiasi utilità pratica.

Come si è detto, non che Negri non avesse mai affrontato il tema del paesaggio prima di misurarsi con la difficoltà tecnica delle tricromie, ma qui – appunto – il senso e le ragioni della scelta risiedevano nei vincoli imposti dal procedimento e l’interesse per il genere assumeva una vitalità nuova. La scelta del tema ma anche quella del luogo, quel paesaggio fluviale e collinare che segna i dintorni della città e che tante volte aveva  già descritto e studiato, forse non estraneo all’intenzione tutta positiva di annodare le fila delle trame che costituiscono un territorio, in anni in cui si avviavano in Italia le prime riflessioni in merito alla tutela del paesaggio[74]. Il soggetto (insieme, non a caso, alla natura morta) risultava quindi in certa misura imposto, quasi  ineluttabile, ma non per questo nella determinazione dell’inquadratura e nella costruzione generale dell’immagine non è possibile riconoscere suggestioni, stimoli visivi e culturali precisi  esito di sguardi educati a vedere secondo canoni determinati, non casuali.  Mentre il trattamento dominante del paesaggio negli anni della “Fotografia Artistica” prediligeva i toni bassi e brumosi (fontanesiani quasi), qui insieme al colore entrava in gioco la luce, meglio ancora la luminosità densa dei tre strati policromi, restituita in tutte le sue gradazioni al momento della visione per trasparenza.

Accanto ai paesaggi le sobrie nature morte,  eleganti studi condotti nella calma racchiusa del proprio studio.

Nella messa a punto di questi set di ripresa Negri  mostra un’attenzione e una sapienza nel trattare la luce che invano cercheremmo nelle altre fotografie. Il soggetto, perfettamente centrato, ripreso frontalmente, quasi affiora dal piano posteriore cromaticamente intonato oppure si stacca, netto, dal fondale scuro e indistinto, da cui i colori pastosi delle gelatine emergono con evidenza materica.

L’accuratezza di queste composizioni testimonia da sola le sue potenzialità, ma conferma anche il suo scarso interesse generale per le questioni estetiche, qui sollecitate dalla sfida della più efficace, spettacolare resa del colore e risolta applicando modelli compositivi direttamente desunti da analoghi  esempi pubblicati dalle riviste dell’epoca sotto forma di tavole fuori testo[75]  o comunque di ampia circolazione come gli Etudes de Feuilles di Charles Aubry, del 1864, ma ancor più la serie dei Fleurs photographiées realizzata da Adolphe Braun nel decennio precedente (1854-1856), che costituì a sua volta modello per innumerevoli autori successivi, tra fotografia e pittura.

La sua attività fotografica proseguì ancora per circa dieci anni,  le ultime annotazioni autografe datano le immagini al maggio 1915, ma certo l’incontro con le opere dei maggiori protagonisti della stagione pittorialista avvenuto a Torino non produsse in Negri alcuna velleità di confronto, alcuna suggestione.  Quando nel 1906 pubblicò sul “Bullettino della Società Fotografica Italiana” e quindi ne “Il Progresso Fotografico” i suoi Appunti sulla tricromia, apparentemente l’unico suo testo dedicato alla fotografia, le notazioni erano esclusivamente di carattere tecnico[76];  invano si cercherebbe un cenno alla poetica o anche solo alle ragioni del fotografare a colori.

Il suo operare fu continuamente delimitato da  orizzonti puntualmente definiti e temporalmente circoscritti, dove la maestria nell’individuare di volta in volta i parametri applicativi più adatti alla più efficace soluzione del problema si coniugava e si confondeva col desiderio, con la necessità di un continuo confronto tecnologico propria dell’autodidatta, del fotografo dilettante che agli albori della modernità si appresta a divenire fotoamatore. Anche la sua connotazione di autore ‘locale’ sembrerebbe muovere il giudizio in tal senso, ma è indispensabile distinguere. Certo la scelta dei soggetti, la delimitazione geografica della sua area di lavoro fu fortemente radicata nel territorio casalese, luogo in cui si fondavano e si svolgevano le ragioni e le trame che legavano i suoi molteplici interessi. Ma la sua cultura, le ragioni i modi e gli esiti della sua pratica fotografica rivelarono, già ai contemporanei il suo valore sovralocale, la sua singolare figura di fotografo tra i più rilevanti degli ultimi decenni del XIX secolo in Italia, impossibile a ridursi a una tipologia che non sia quella di uomo del suo tempo, enciclopedico ed eclettico. Indifferente alle gerarchie di valore lui accoglieva e usava tutta la fotografia; ne coglieva e apprezzava l’infinito spettro di possibilità indifferenziate di puro e affascinante strumento, in grado all’occasione di divenire gioco raffinato o elegante problema da risolvere. Mezzo d’espressione cui concedere poco però, da cui lasciar trasparire quasi nulla di sé. Per questo non credo che Francesco Negri si sentisse ‘autore’, non almeno nel significato trasmesso dalla tradizione artistica e ancora oggi troppe volte accolto e usato senza cautele. La sua presenza più definita e personale riusciamo a trovarla, a leggerla con sufficiente chiarezza solo nella produzione più riservata e personale dei ritratti e delle istantanee, nascosta sino ad ora a sguardi che non fossero intimi. “Carattere complesso – lo ricordava il canonico Francesco Gasparolo nel 1925 –  davanti a cui (…) si rimane perplessi nel giudicare, se la difficoltà di misurare l’alto valore dell’uomo provenga dalla sua eccessiva modestia o da fierezza d’animo. Converrebbe probabilmente conchiudere che ambedue siano state le cause.”

 

 

Note

[1] È opportuno ricordare, e ribadire, che ciò che si mostra in questa occasione non è solo una inevitabile selezione, come necessariamente accade ogni volta che ci si propone di presentare criticamente l’intero ciclo operativo di un fotografo.

L’antologizzazione delle fotografie realizzate da Francesco Negri è, ancor prima, conseguenza di ciò che si è riusciti a mostrare, ma non rispecchia fedelmente l’insieme di ciò che si è conservato, per ragioni che credo indispensabile motivare almeno sinteticamente.

L’insieme dei materiali su cui abbiamo condotto le ricerche qui pubblicate, tutti conservati nel Fondo Negri della Biblioteca civica di Casale Monferrato, appartiene a quella porzione – crediamo prevalente – della sua produzione che è riuscita a superare il corso dei decenni sopravvivendo a dispersioni, vicende giudiziarie, incuria e non sempre opportuni e accorti interventi. In quasi totale assenza di stampe originali, forse disperse negli anni, la selezione  è stata condotta prevalentemente sui negativi, rinunciando comunque dolorosamente a presentare le lastre irrimediabilmente rigate, quelle la cui emulsione non si è negli anni gonfiata e parzialmente staccata, quelle su cui una mano tanto volonterosa quanto imprudente non ha incollato, solo pochi decenni orsono, micidiali etichette identificative. Come ha ben documentato Barbara Bergaglio, per troppo tempo il Fondo Negri è stato sfruttato come una risorsa di cui poco importava la conservazione nel tempo, ponendo in essere insufficienti cautele e attenzioni sia in termini di condizioni fisiche che di sicurezza. Non si spiega altrimenti l’attuale assenza di alcune immagini e documenti pubblicati nella monografia curata da Cesare Colombo nel 1969, ma anche di altri beni strumentali e immagini individuati da chi scrive alla fine degli anni ’80, confermati dalla schedatura condotta dalla Fondazione Italiana per la Fotografia e oggi non reperibili.

Per meglio identificare i forti limiti entro cui è stato costretto il presente lavoro è necessario ricordare che la committenza non ha ritenuto opportuno favorire l’ampliamento delle ricerche presso quelle istituzioni e collezioni private che notoriamente conservano immagini e documenti relativi all’attività di Negri. Non è stato così possibile, ad esempio, studiare e utilizzare la ricca e varia documentazione conservata presso il Sacro Monte di Crea, che fu l’amato laboratorio di una vita per Negri, né rendere note alcune eccezionali testimonianze della sua precoce fortuna critica, penso in particolare alle bellissime stampe fotografiche di panorami alpini che Vittorio Sella trasse da sue lastre negli anni Trenta del Novecento, i cui negativi sono oggi conservati presso la Fondazione Sella di Biella, mentre alcuni positivi in diversi formati, anche di grandissime dimensioni, sono conservati nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna di Torino e nei fondi Fotografici della Soprintendenza regionale della Valle d’Aosta.

Sono infine convinto che le collezioni private, specialmente casalesi, avrebbero potuto riservare interessanti sorprese, offrire significative testimonianze di una consuetudine, certo sua, a concedere ad amici ed estimatori i migliori esemplari della sua vasta e poliedrica produzione, oggi tanto più preziosi in conseguenza della scarsità di stampe originali conservate nel Fondo.

[2] Disderi 1862, nota a p.169, accanto alla formula del “collodion pour l’été”.

[3] Escludendo Padre Vittorio della Rovere (1811 – 1863 ?), di nascita casalese ma vissuto prevalentemente tra Torino e Roma, ben noto per le sue rare immagini e gli studi sulla stereoscopia (cfr. “Atti dell’Accademia dei Lincei”, 8, 1854) e ancor prima sulla  dagherrotipia, per cui si rimanda a L’Italia d’argento, 2003, p. 246, scheda siglata “mfb” [Maria Francesca Bonetti], e stando alle poche notizie certe, negli anni intorno al 1860 a Casale si registrava la sola presenza di Antoine Valentin, di evidente origine francese, della Fotografia Sociale, Via della Posta n.6, e di un  “V. Casazza \ Geom.tra Fot.fo \ Casale” non altrimenti noto, sebbene l’interesse per la nuova invenzione dovesse essere stato molto precoce, come indica la presenza nel Fondo Negri di Buron 1841, che porta al frontespizio il timbro ex-libris della biblioteca della famiglia Vitta, di cui sono note le relazioni con la Francia in relazione alla costituzione del Crédit Lyonnais.

Nei decenni successivi furono attivi Virgilio Tamburini, 1879 – 1905 ca, Via Sant’Ilario 18 poi via Garibaldi 6, cui subentrerà E. Camurati ai primi del ‘900; Carlo Giovara, 1880 ca, Via Vittorio Emanuele II (Palazzo Treville) e piazza dell’Addolorata, Casa Cerinola, con succursale a Chivasso; A. Manfredi, attivo dal 1883 a Torino, Via Lagrange 15, poi dal 1893 al 1895 in Piazza San Carlo 4, che possedeva anche una succursale a Casale, Piazza dell’Ospedale di Carità, 6  ove subentreranno prima del 1899 Giuseppe Menzio e F. Rota (presente al Congresso di Firenze del 1899) prima di aprire ciascuno studio proprio. E ancora: Premiata Fotografia (Fotografia e Pittura)   Angelo Bensi, 1890 ca, piazza Carlo Alberto 2, cui succederà  Ezio Bensi, titolare dello Stabilimento Fotografico Arte Moderna, 1908, Viale Regina Margherita 2 e Via Ricovero (casa Ing. Masazza), citato all’Esposizione del 1909 per “gli ingrandimenti degli autopastelli” [sic] di Leonardo Bistolfi e dell’Archinti” (Ettore Archinti, 1878 – 1944).

Altri studi e fotografi seguiranno nei decenni successivi come A. Armani, attivo dal 1920, Battaglieri, Goffredo Calvi, con notizie nel 1907,  Colombino, La Fotoelettra, Foto Lori, dal 1925,  Melotti, C. Migliore e L. Piantone, mentre ancora più incerto è l’universo degli amateur photographers come quell’E. Morbelli (sotto cui potrebbe celarsi un refuso) di cui si pubblica un “superbo gruppo di piante” ne “Il Progresso fotografico” dell’ottobre 1898 o altri casalesi presenti all’Esposizione del 1909 come l’avvocato Silvio Montalenti, Felice Deambosi, il dott. Emilio Iaffe . “Bisogna però convenire – ricordava il redattore – che Casale e provincia, per quanto non sia un gran centro, ha però un forte nucleo di dilettanti che è ben difficile trovare altrove.” (“Il Progresso Fotografico”, 1909, pp. 126)

[4] Per una puntuale ed esauriente presentazione critica dell’ambiente torinese si veda Miraglia 1990.

[5] Nel 1863 aveva sposato la novarese Giulia Ravizza, con cui abitava in via Benvenuto San Giorgio “nella casa che fu dei Della Rovere di Casale” (Mattirolo 1925, p.10, nota 3), poi demolita nel secondo dopoguerra. La moglie era la prima figlia dell’avvocato Giuseppe Ravizza (Novara 1811- Livorno 1885), erudito cultore di storia e archeologia in stretta relazione con Theodor Momsen con cui redasse il Catalogo primo del Museo Patrio di Suno ed Appendice alle Memorie storiche.  Novara: Tip. Merati,  1877, più noto come inventore della prima macchina da scrivere a tasti, il  “Cembalo scrivano” del 1855, i cui cimeli “posseduti e custoditi gelosamente” da Federico Negri vennero esposti nel padiglione Olivetti dell’Esposizione agricolo-zootecnica di Novara del 1926, cfr. Aliprandi 1931, da cui pervennero al Museo della Scienza di Milano, che conserva anche un ritratto di Giuseppe Ravizza con la moglie Ernesta  Brosio e la seconda figlia Elisa realizzato da Francesco Negri nel 1864,  donato al Museo proprio dal figlio Federico nel 1931. Colgo l’occasione per ringraziare Paola Mazzucchi, responsabile della Biblioteca del Museo per avermi cortesemente fornito alcuni dati in merito alla provenienza di questi oggetti.

[6] Cfr. qui La biblioteca del fotografo.

[7] Quale ulteriore testimonianza della prima pratica fotografica di Negri segnaliamo che nella lastra 10B144 compare una camera oscura portatile per la preparazione di lastre al collodio, non dissimile da quella usata circa negli stessi anni dal pastore valdese David Peyrot e oggi compresa nelle collezioni del Museo nazionale del Cinema di Torino.

[8] Dopo i primi esempi riferibili all’avvio della sua attività fotografica, la consuetudine di annotare ai bordi della lastra i dati di ripresa e sviluppo con più rare indicazioni relative al soggetto fu riavviata intorno al 1885 per proseguire ininterrotta sino alle ultime lastre, datate maggio 1915.

[9] Henry Festig Jones ricordava come il padre di Negri (gran cacciatore, morto per la puntura di una zanzara) abitasse proprio a Ramezzana, avendo sovente come ospiti  Cavour e il principe Dal Pozzo della Cisterna, ma anche Vittorio Emanuele II, che volentieri coccolava il piccolo Francesco; cfr. Jones 1919, p. 113.

[10] Disderi 1862, ora in Frizot, Ducros 1987, pp.  36- 47 (39).

[11] Si confronti ad esempio il ritratto di un giovane prelato in piedi, poggiato alla spalliera di una sedia tenuta in equilibrio, [9C138] con l’identica posa del [Ritratto della moglie] di Giuseppe Alinari, 1870 ca, in Quintavalle 2003, p. 273.

[12] Bertelli 1979, p. 76.

[13] Ricordiamo come a questa data fosse già in relazione col botanico Vincenzo Cesati (Milano 1806 – Vercelli 1883), che gli dedicò uno Xantium, che lo stesso Negri aveva trovato per primo a Castell’Apertole (Livorno Ferraris), cui  secondo Oreste Mattirolo 1925, p.7 lo legavano anche “aspirazioni patriottiche comuni”. Ancora alla relazione con Cesati si doveva la conoscenza con Antonio Stoppani (Lecco 1824 – Milano 1891) [che definì Negri “distinto botanico”] segnalata ancora da Mattirolo 1925, p. 8 e poi ripresa da tutti i commentatori successivi, che Negri accompagnò  alle cascate del Toce, redigendo quell’elenco “delle specie crescenti nell’Alta valle del Toce” che fu pubblicato ne Il Belpaese, 1875.  L’immutato interesse per la botanica è documentato fotograficamente da una serie di stereoscopie datate aprile 1899. (R0096654- R0096658)

[14] Didi-Huberman 1986, p. 71, corsivi dell’autore.

[15] Allo stesso anno risale Moitessier 1866, un trattato molto noto che ben documenta la fase di massimo successo in ambito fotografico di questo genere di immagini, che consentivano agli studiosi di colmare il vuoto filogenetico tra organismi inferiori (dai batteri alle alghe) e superiori (l’uomo) in maniera compatibile con il gradualismo evoluzionista delle nuove teorie darwiniane ( Jeffrey 1999, p. 38). Lo stesso editore  aveva pubblicato nel 1845 l’Atlas du Cours de Microscopie Donné e Foucault, considerata la più antica pubblicazione di fotomicrografia. Già il 17 febbraio del 1840 Alfred Donné (1801 – 1878) professore al College de France, aveva presentato all’Accademia delle Scienze di Parigi per il tramite di Jean-Baptiste Biot delle fotomicrografie su dagherrotipo ottenute alla luce ossidrica grazie ad un microscopio solare (Corcy 2003, p. 64). Quasi negli stessi giorni, il 4 marzo,  il medico e matematico viennese Andreas Ritter von Ettingshausen (1796 – 1878) aveva realizzato la fotomicrografia di una sezione di Clematis (Frizot 1994, p. 276; Marien 2002, p. 34), ma come è noto già tra gli esemplari fotografici di Talbot presentati da Michael Faraday alla Royal Institution il 25 gennaio 1839 si trovavano immagini di ingrandimenti, tra cui l’ala di un insetto (Frizot 1994, p. 276; Jeffrey 1999, p. 35).

[16] Zannier 1986, p. 171.

[17] Diversamente dall’uso ottocentesco, proprio anche di Francesco Negri, per le riprese fotografiche ottenute per il tramite del microscopio utilizziamo il termine “fotomicrografia” e non  “microfotografia” con cui più specificamente oggi si intendono i processi di miniaturizzazione delle immagini.

[18] Diresse il Gabinetto di crittogamia del “Giornale Vinicolo Italiano” dal 1869-1879 ed entrò in relazione di studio con importanti ricercatori internazionali come Felix von Thumen, che gli dedicò il micromicete Phoma Negriana . La sua produzione venne tempestivamente segnalata da Angelo De Gubernatis, che lo inserì nel proprio Dizionario del 1879 (II, pp. 1221-1222) come “scrittore piemontese, avvocato.”

[19] Negri, Pisolini 1882 Contribuzione allo studio dei bacilli speciali delle tubercolosi. Firenze: Tip. Cenniniana, 1882, estratto da “Lo sperimentale: giornale italiano di scienze mediche”, Agosto 1882.  Pisolini era il medico che gli fu vicino anche nel giorno della morte, il 21 dicembre 1924.

[20] Greco 1969, pp. 86-87, cui si rimanda per la descrizione analitica degli esiti fotomicrografici di Negri.

[21] Questa emergenza sanitaria costituì l’occasione per la pubblicazione di Negri, Cassone 1885.

[22] Bertelli 1979, p. 76; che considerazioni di ordine estetico potessero convivere con  intenzioni di accuratezza documentaria, non essendo di fatto in contraddizione tra loro è testimoniato non solo da buona parte della cultura ottocentesca, ma anche più in particolare da molta fotografia naturalistica e micrografica. Penso, per esemplificare,  ad un autore come Giorgio Roster, il cui percorso professionale e di ricerca ha più volte incrociato il cammino di Negri, per il quale rimando a Principe, Sensi, Casati 2004.

[23] Butler 1888, con 21 tavole f.t. da fotografie dell’autore, che proprio a questo scopo aveva preso lezioni in Inghilterra nell’inverno del 1887, cfr. Jones 1919, p. 109.  L’edizione italiana riveduta e ampliata, tradotta da Angelo Rizzetti, venne pubblicata a Novara nel 1894 dalla Tipo-Litografia dei Fratelli Miglio con una titolazione semplificata (Ex Voto. Studio artistico sulle opere d’arte del S.Monte di Varallo e di Crea) ma con un apparato iconografico lievemente ampliato. L’archivio fotografico di Butler, oggi conservato alla St John’s College Library dell’Università di Cambridge, è costituito da circa 1600 negativi su lastra (databili 1888 – 1898) e da cinque album contenenti complessivamente circa 1700 stampe con una cronologia compresa tra 1891 e 1898. Cfr. https://archiveshub.jisc.ac.uk/search/archives/516c6af9-031d-3239-b4db-668ec60a0dcd?component=0a2d1de2-378b-3bd7-b37e-e891b3c16d39  (dicembre 2022). La sua produzione fotografica è stata studiata da Shaffer 1988 e presentata in Butler 1989. Butler era andato a Casale già nel settembre del 1887, provenendo da Alagna dopo essere disceso a Gressoney attraverso il Col d’Olen, proprio per estendere le proprie ricerche su Tabacchetti, ma non pare che in quell’occasione avesse avuto modo di conoscere Negri.

[24] Mattirolo 1925, p.14 nota 1 ricorda che Negri scrisse il necrologio di Butler, non reperito in questa occasione né citato da altre fonti.

[25] Si vedano i diversi contributi pubblicati in Barbero, Spantigati 1998 e in particolare Maria Carla Visconti Cherasco, La nuova vita del Sacro Monte nell’ottocento fra ripristini e rinnovamento devozionale, pp.123-136.

[26] BCCM- Fondo Negri: Scat.42, 43.

[27]“Prendo l’occasione del nuovo anno per mandarle alcune fotografie prese a Crea mentre l’estate passato (sic). Lei vedrà subito che alcune sono cattivissimi restauri, furono fatti 30 anni fa da un certo padre Latini”, citato  in Durio 1940, p. 86. Le riprese si riferiscono  a un gruppo di pellegrini, alla cappella di sant’Eusebio (4 riprese di statue attribuite a Tabacchetti) e a quelle delle Nozze di Cana e della Natività, e portano tutte la data del 14 settembre 1891, mentre al giorno successivo risalgono un’immagine di bambini e il doppio ritratto di Don Minina e Francesco Negri, entrambe realizzate a Casale.

[28] Negri 1892  dedicato all’attività di Martino Spanzotti e della sua scuola, col corredo di due riproduzioni in fototipia delle vetrate (di cui si conservano i negativi), primo frutto delle sue ricerche di storia dell’arte condotte con rigoroso metodo di ricerca: “Da provetto legale quale egli era, applicò alle sue ricerche la severità delle regole procedurali, cercando di documentare ogni sua asserzione con riferimenti a contratti; a tavole testamentarie; a inventari, ecc. frugando negli archivi della sua regione per giungere a sbrigare le arruffate matasse che si riferivano alle biografie degli artisti casalesi”, Mattirolo 1925, p. 9.

[29] La possibilità di rendere efficacemente il gesto tradotto realisticamente da Tabacchetti venne affrontata da Negri anche in termini letterari nel saggio del 1902, in cui, dopo una notazione etico-politica sulla capacità del plasticatore di dare “al martirio l’impronta di una esecuzione capitale non tumultuosa e selvaggia, ma sebbene ordinata da un potere costituito su regole determinate  e regolari”, procedeva ad una interpretazione verista della scena, sottolineando “la movenza [del santo]  così naturale da spingere a dargli aiuto, a sostenerlo”,  come la “triste malvagità incosciente [della vecchia] che sia alza sulla punta dei piedi e allunga il collo fra due soldati per ben vedere.” (Negri 1902, p. 36).

[30]Per le suggestive relazioni tra scultura e fotografia cfr. Pygmalion Photographe 1985; Sculpter-Photographier 1991; Skulptur 1998.

Anche in altre occasioni lo sguardo di Negri procede oltre la pura documentazione per sottolineare la teatralità delle figure [740, Cappella del Paradiso] o cedere ad una bonaria ironia [361d, Cappella del Paradiso]. Diverso atteggiamento avrà nei confronti di opere bidimensionali come le vetrate o la grande Madonna col Bambino e Santi [48C] di Macrino d’Alba, ripresa più volte nella biblioteca del convento (?) forse anche per ottenerne una riproduzione in tricromia oggi non reperibile, ma che avrebbe potuto far parte delle “ben  riuscite proiezioni a colori del Cav. Avv. F. Negri” presentate da Pietro Masoero nel corso della sua conferenza Arte e fotografia tenuta in occasione dell’Esposizione di Lodi il 9 settembre 1901 (citato in “La Sesia”, 13 settembre 1901)

[31]Pubblicata in facsimile in Greco 1969 p. 24. Dopo la  morte di Butler (18-6-1902) gli esecutori testamentari H.F. Jones e R. A. Streatfeild  donarono a Negri uno schizzo a olio eseguito dallo scrittore nel 1871, in occasione del suo primo soggiorno a Varallo, “Preso dalla soglia della chiesa dell’Assunta” (Durio 1940, p. 22, nota 3).

[32] Negri 1902. Il casalese espresse a sua volta  “lode a Samuel Butler il quale, innamorato delle opere del Giovanni [Tabacchetti] ne scrisse a lungo nel suo Ex Voto non solo, ma nello intento di conoscerne il casato e l’origine si portò anche a Dinant” (Negri 1902, p. 65). Gli esiti delle sue ricerche avevano però portato alla  definitiva confutazione delle prime ipotesi formulate da Butler, tanto che al momento della riedizione dei suoi saggi, già comparsi in “The Universal Review”, il suo “esecutore letterario”  R. A. Streatfeild  decise di non ripubblicare la prima parte di A Sculptor and a Shrine. “Had Butler lived he would either have rewritten his essay in accordance with Cavaliere Negri’s discoveries, of which he fully recognized the value, or incorporated them into the revised edition of Ex Voto, which he intended to publish. As it stands, the essay requires so much revision that I have decided to omit it altogether.”, Richard Alexander Streatfeild, Introduction,  in Butler 1913. Per la prima volta nella storiografia artistica dedicata al Santuario, alle ricerche condotte direttamente sulle fonti  archivistiche e bibliografiche, corredate da una articolata  analisi storico-critica delle opere, faceva da riscontro la documentazione fotografica intesa quale ulteriore e specifico strumento d’indagine ma anche – sebbene in misura ridotta per esigenze di economia editoriale – di comunicazione, di illustrazione non subordinata al testo bensì a questo complementare, secondo il modello ancora una volta costituito dal saggio dell’amico Butler sugli Ex Voto, corredato da un apparato di illustrazioni che “The Spectator” aveva definito “strange and fascinating”. Tra 1891 e 1900 le prime riproduzioni fotografiche a comparire in volumi dedicati a Crea (Damonte 1891; Locarni 1900 ) si limitavano a una veduta generale e al prospetto della chiesa, sempre da riprese Negri, e ancora in Crea 1900, il numero unico pubblicato in occasione del pellegrinaggio diocesano al Santuario di Crea, con brevi scritti di F. Negri, G. Giorcelli, F. Valerani e altri, la sola cappella documentata era quella – da poco terminata – della Salita al Calvario, già da lui fotografata ma qui illustrata con fotografie attribuite a Giovanni Augusto De Amicis, cfr. Cavanna 1998.

[33] Gli studi sul Moncalvo (Negri 1895-1896) di cui nel 1893 fotografò gli affreschi nella chiesa di San Michele a Candia Lomellina, scat. 61,  figura ben più rilevante per la connotazione complessiva del complesso monumentale del Sacro Monte, confluirono in parte negli scritti dedicati a Crea, apparsi in forma definitiva nel 1902 ma sinteticamente anticipati in Crea 1900.

[34] Carlo Dell’Acqua (1834-1909), Direttore della Regia Biblioteca Universitaria di Pavia dal 1879 al 1883, gli inviava il numero de “Il Ticino”, del 1 marzo 1899 in cui era pubblicato il suo articolo Di Ambrogio Volpi da Casale insigne scultore ed architetto alla Certosa di Pavia (1567-1576) poi recensito da anonimo (Francesco Negri?) ne “L’Avvenire. Gazzetta del Monferrato” del 7 aprile 1899.

[35] Gustavo Frizioni (1840-1919), con cui Negri era in relazione almeno dal 1891, anno in cui gli aveva inviato alcune riproduzioni di dipinti chiedendogli pareri, gli scriveva da Milano il 20 febbraio 1904 “Mentre conservo gratissimo ricordo del capolavoro di Macrino a Crea Le sono riconoscentissimo della fotografia nuovamente mandatami. Mi serve di ottimo riscontro per una grande tavola che è certamente di lui, passata in America sotto il nome di Ghirlandaio.”,  BCCM – Fondo Negri, Corrispondenza.

[36] La relazione epistolare con lo studioso milanese, tra i promotori nel 1901 con Luca Beltrami, Luigi Cavenaghi, Francesco Malaguzzi Valeri, Gaetano Moretti, Corrado Ricci e altri della “Rassegna d’arte”, datava almeno dal 1901 e divenne progressivamente più confidenziale, sino a un colloquiale “tu” nel 1905. Dopo una prima segnalazione dello studioso milanese ne “La Lega Lombarda” del 1 luglio 1904 (cfr. Villata 2000, pp. 144-147) Diego Sant’Ambrogio dedicò a questo tema il saggio Il trittico di Macrino d’Alba nella cappella episcopale di Tortona, pubblicato nel “Bollettino della Società per gli studi di storia, d’economia e d’arte nel tortonese”, n. 5, 1906, poi riedito da A. Rossi, Tortona, 1906, cfr. Samek-Lodovici 1946.

[37] Colli, Negri, Rastelli [1914] 1996. Il Canonico Prof. Colli,  in relazione di studio anche con Luigi Gabotto, aveva da poco pubblicato il volume Crea, storia, cronologia, arte, culto, etc. Casale Monferrato: Tip. Editrice Ditta O. Pane, 1913, e ancora nel 1926 sarebbe tornato a percorrere la scia degli studi artistici di Negri con un saggio dedicato a Il Moncalvo, pubblicato dal Comitato per le Onoranze a Guglielmo Caccia. Nello stesso 1914 Colli e Negri collaborarono a De Amicis et al. 1914. Il sacerdote vercellese Alessandro Rastelli (1883 – 1960), viceparroco a Trino dal 1915, fu il fondatore dell’OFTAL (Opera Federativa Trasporto Ammalati a Lourdes). Le ventiquattro fotografie che costituiscono l’apparato iconografico del volume rappresentavano una novità significativa per l’editoria di soggetto trinese di quegli anni sia per la consistenza e la qualità complessiva sia per la figura dell’autore,  uno dei pochi sacerdoti a praticare la fotografia in quegli anni.  Sono prevalentemente immagini di architettura, complessivamente di buona qualità e tecnicamente ben eseguite, con inquadrature ordinate e precise, perfettamente in linea con i canoni della documentazione fotografica dell’architettura che si erano andati formando nel corso del XIX secolo. La loro precisa applicazione da parte di Rastelli lascia supporre un interesse ed una pratica non occasionali ed anzi ormai ben consolidati all’epoca della realizzazione del volume, e nella stessa direzione ci portano le nitide fotografie di interni, di ancor più difficile realizzazione. In assenza di dati precisi risulta quasi ovvio collocare la formazione fotografica di questo sacerdote proprio in quell’ambiente vercellese da cui proveniva, ricco di professionisti e dilettanti di buon livello quali Pietro Boeri, Pietro Masoero ed Andrea Tarchetti, ma evidentemente non è da escludere un ruolo di supporto e regia svolto dallo stesso Francesco Negri, cui Rastelli scriveva il 6 ottobre 1914, a poco meno di un mese dalla pubblicazione del volume,  per aggiornarlo sull’andamento della campagna documentaria: “Ho fatto invece quella del capitolo (interno) Non so però se potrà servire. Tutt’intorno sacchi e cesti di tagliarisi forestieri, e attorno alla colonna di mezzo trenta cent.[imetri] di paglia, il giaciglio dei medesimi”, ricordando che sarebbe andato “fra alcuni giorni” a fotografare il piccolo quadro dello Spanzotti a Trino, BCCM – Fondo Negri: Manoscritti, cartolina del 6 ottobre 1914. La foto dell’aula capitolare venne poi pubblicata (p.42) e costituisce ora un’importante testimonianza delle condizioni d’uso e soprattutto di vita nelle grange all’inizio del Novecento, mentre non venne utilizzata la riproduzione del “piccolo quadro”, cioè la Madonna col Bambino di Martino Spanzotti nella chiesa trinese di San Domenico, cfr. Cavanna 1996.

[38] Si veda a questo proposito quanto detto in Cavanna 1996, pp. XI- XII.

[39] Cavanna 1985.

[40] Nel Fondo sono conservate anche tre stampe all’albumina 18×24 ca di Secondo Pia, raccolte sotto il titolo Affreschi della Cappella di S. Margherita di Antiochia dell’Abbazia di Crea attribuiti a Cristoforo Moretti di Cremona.

[41] Cfr. Falzone del Barbarò, Borio 1989.

[42] Pia tornerà, come suo costume, più volte a Crea nei decenni successivi (1888-1919) realizzando complessivamente più di trenta riprese dedicate specialmente alle opere d’arte conservate nel santuario, alcune riprodotte eccezionalmente a colori con la tecnica dell’autocromia (1909-1910). Va qui notato  come la serie relativa alla statuaria delle cappelle, realizzata a partire dal 1902, sia  verosimilmente debitrice proprio della pubblicazione del saggio di Francesco Negri.

[43] Le immagini di Crea facevano parte di una serie dedicata alle Chiese della provincia di Alessandria, poi presentata alla Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884, cfr. Fotografi del Piemonte, 1977, pp. 29-30.

[44] Gabotto b  1925, p. 82, redatto poco dopo la solenne commemorazione di Negri tenuta a Crea da Oreste Mattirolo, con apposizione di una lapide commemorativa sulla facciata della chiesa. Un primo necrologio era già stato pubblicato nel febbraio dello stesso anno, Gabotto a, 1925.

[45] Come testimonia il pur impoverito Fondo fotografico, Negri ha utilizzato circa 20 formati negativi diversi, sovente corredati di notazioni autografe, dalle lastre 18×24 alle pellicole 17mm, ciò che fornisce indicazioni anche sulla ricchezza e varietà della strumentazione in dotazione, oggi presente nel Fondo in modo scarsamente significativo.

[46] Roster 1899, p. 25, che riprende in forma quasi letterale il concetto – del resto ampiamente condiviso da tutta la cultura di secondo Ottocento – espresso da Jansen dieci anni prima e posto in esergo a questo saggio.

[47] La quasi totale assenza di positivi impedisce – come già abbiamo notato – di valutare compiutamente gli esiti finali del lavoro fotografico di Negri, ciò che comporta l’assumersi il rischio di valutazioni a volte non documentalmente sostenute in modo soddisfacente, ma ci pare di poter ascrivere allo stesso piacere di reinvenzione del reale mostrato dalle esposizioni multiple anche il ricorrere di immagini stereoscopiche in cui la sovrapposizione dei bordi contigui dei due stereogrammi genera affascinanti paesaggi d’invenzione [8e16].

[48] Questo atteggiamento è efficacemente testimoniato dalla piccola serie di riprese ‘rubate’ col teleobiettivo [72A, 824B, 534].

[49] Brevettato nell’ottobre del 1886 dal tedesco Carl P. Stirn.

[50] È stata proprio la fotografia a contribuire a definire in senso moderno, visualizzandolo,  il concetto di istante. Quando nel 1886 Albert Londe – di cui Negri possedeva La photographie moderne, pratique et applications, 1888 – decise di intitolare il proprio volume Photographie instantanée, la comprensione di ciò che questo termine designasse era ancora incerta, tanto più la sua definizione, cfr. Gunthert 2001, p. 66.

[51] Alla definizione di questo nuovo genere che dapprima non prevedeva il riconoscimento di alcuno statuto, contribuirono non poco i milioni di immagini prodotte ad uso personale e destinate ad essere relegate nell’ambito della fruizione privata, da cui riusciranno a emergere e svincolarsi solo  in virtù  della loro natura essenzialmente quantitativa di fenomeno, giungendo poi a contribuire  significativamente all’accrescimento delle modalità linguistiche della fotografia del XX secolo.

[52] Bricarelli 1913, sottolineature dell’autore,  citato in Stefano Bricarelli 2005, p. 15, cui si rimanda per ulteriori riferimenti e citazioni.

[53] Marien 2002, p. 170.

[54] Penso allo Stieglitz newyorkese ad esempio, ma anche alle riprese di  Paul Martin a Londra, come alla sublime leggerezza di Jacques-Henri Lartigue.

[55] Gunthert 2001, p. 72, traduzione di chi scrive, corsivi dell’autore.

[56] Non mi pare che Negri intendesse invece raccontare i protagonisti della scena urbana, come faceva ad esempio Alessandro Perelli a Milano proprio nel 1910-1915, o più tardi Luciano Morpurgo, al di fuori della sua produzione più smaccatamente pittorialista.   Una familiare libertà presente in alcune immagini può semmai  avvicinarlo al Michetti delle foto al mare o all’operare di Giuseppe Michelini a Bologna.

[57] Si trattava di un “un apparecchio di cinematografia” messo in commercio in Italia a partire dal 1912, che consentiva di realizzare su ciascuna lastra  nel formato 9,5×9 84 fotogrammi cadenzati in sequenza a partire dall’alto secondo un ordine che potremmo definire bustrofedico e di cui si sono conservate nel Fondo 7 lastre negative e 40 positive.

[58] Secondo Rictor Norton ad esempio il successo di Bathing Boys, opera del pittore inglese Henry Scott Tuke (1858-1929) fu così folgorante che centinaia di amatori fotografi e pittori corsero a misurarsi con questo soggetto. Per questo due anni più tardi, nel 1890, la Amateur Swimming Association impose che tutti i concorrenti dovessero indossare i pantaloncini da bagno durante le gare,  cfr. Rictor Norton, The Beginnings of Beefcake, https://rictornorton.co.uk/beefcake.htm  (30 11 2022).

[59] Josef Maria Eder, Der Momentphotographie. Wien, 1884, pp.9-10, citato in Gunthert 2001, pp. 80, traduzione di chi scrive.

[60] È del 25 aprile 1892 la prima prova documentata, una veduta di Casale da Sant’Anna “m.1500 40 ist. 4 pom”, forse realizzata ancora con quel rudimentale dispositivo “formato di due tubi di cartone”  che venne poi  esposto all’ammirazione di tutti nella sezione storica della “Prima esposizione internazionale di fotografia, ottica e cinematografia” curata da Annibale Cominetti, come si ricava dalla sua lettera di condoglianze inviata al figlio Federico, citata in Gasparolo 1925, pp. 9-19. Nel maggio del 1894 proseguirono le sperimentazioni per il formato 18×24 adottando diverse combinazioni di lenti, successivamente indicate come “Tel. I”, quindi “Tel. II” (lastra 246, 1895), e infine “Tel. III”, con cui riprese nel 1896 un panorama in cinque lastre del Monte Rosa visto dalla cima dello Zebion in Val d’ Ayas,  successivamente stampato da Vittorio Sella intorno alla metà degli anni Trenta del Novecento. Due anni dopo la messa in produzione da parte di Koristka (Milano: via Revere 2, poi Piazza d’Armi Vecchia 59, angolo via Bersaglio 2) officina che produceva obiettivi su licenza Zeiss ed era la rappresentante italiana della ditta Haas di Francoforte (Contini 1990, p. 110), il nuovo teleobiettivo, “il primo in Italia, fra i primi nel mondo” (Masoero 1900), venne presentato dallo stesso Negri ai partecipanti al primo Congresso Fotografico Italiano, che si tenne a Torino nel 1898.

[61] Altre serie di immagini riguardano le esposizioni casalesi (1900) e torinesi (1898, 1902). Mentre alla locale esposizione vinicola documenta sistematicamente i padiglioni con i relativi addetti rigorosamente in posa, a Torino Negri si aggira liberamente tra quelle fantastiche e innovative architetture effimere. Qui è un visitatore anonimo, libero di orientare ovunque, inavvertito, la propria curiosità; là era l’avvocato Negri, già Sindaco, notoriamente fotografo.

[62] “Hai fatto la risaia andando a vederla presso Casale e ritornando poi a casa a lavorare il quadro a memoria hai condotto le figure servendoti di fotografie” rimproverava Giuseppe Pellizza da Volpedo all’amico a proposito della realizzazione del dipinto Per ottanta centesimi  in una lettera databile tra 1896 e 1897, citata da Luciano Caramel 1982. Non è escluso che quelle immagini fossero state realizzate dallo stesso pittore, dilettante fotografo, ma va almeno segnalata la presenza nel Fondo Negri, di cui sono note le relazioni di amicizia con Morbelli, di due immagini di risaia [573A, 575A] altrimenti inconsuete per la sua produzione, che potrebbero essere state realizzate proprio su richiesta dell’amico, di cui Negri documentò almeno tre opere: S’avanza (1896), Venduta (1897) e l’Autoritratto con modella (1900-1901). Chiunque ne sia stato l’autore, queste due riprese possono essere considerate le più antiche immagine di un gruppo di mondine al lavoro e costituiscono il primo momento di definizione tipologica del modello iconografico di rappresentazione del tema: le mondine al lavoro riprese di schiena, ricurve, immerse nell’orizzonte lungo dei campi allagati. Strumenti di lavoro ancor prima che persone, negate nella loro identità, cfr.  Cavanna 2000. I rapporti Morbelli – fotografia sono stati analizzati da  Marisa Vescovo 1982.  Va ricordato inoltre che il figlio di Morbelli, Alfredo, esercitò la professione di fotografo a Varese nel periodo 1920-1940 senza però avvicinarsi se non tangenzialmente ai temi di matrice verista affrontati dal padre; cfr. Morbelli & Morbelli, 1995.

[63] Toffoletti, Zannier 1990.

[64] Miraglia 1990, pp. 91 nota 124.

[65] “ ‘Veduta’ e ‘panorama’ (…) sono due generi elaborati dalla tradizione manuale della pittura (…) in epoche fra loro diverse e distanti, ma ambedue nati, almeno nelle intenzioni, con l’intento di rappresentare le cose come realmente sono”, mentre il ‘paesaggio’ va inteso “come espressione del sentimento” individuale dell’autore, cfr. Miraglia 2006, pp.15, 19.

[66] Infinitamente 2004.

[67] Sella 2006. È verosimile che tramite della loro conoscenza fosse il Club Alpino Italiano, che nel 1879 aveva designato Negri membro della Commissione di un non meglio specificato “concorso per lavori sulle montagne italiane”, Gasparolo 1925, p. 8.

La stampa, recentemente ritrovata e segnalatami da Daria Jorioz, capo del Servizio Attività Espositive della Regione Autonoma Valle d’Aosta, che qui ringrazio, è una ripresa panoramica in cinque parti del Monte Rosa dal Zerbion (St. Vincent–Ayas), datata 1896 e stampata da Vittorio Sella da “Telefoto Negri Avv. Francesco”.  La versione a contatto di questo stesso panorama compare in una stereoscopia dello studio di Negri [23e29].

[68] Tricromia (detta anche eliocromia indiretta o analitica), metodo indiretto per la realizzazione di immagini fotografiche a colori messo a punto indipendentemente da Charles Cros e Louis Ducos du Hauron tra 1867 e 1869, poi successivamente modificato. Di ciascun soggetto, di necessità statico, Negri realizzava su lastra tre negativi di selezione utilizzando ogni volta un filtro di colore primario: verde, rosso-arancio e bluvioletto, questo infine abbandonato “perché dannoso, producendo esso negative monotone anziché contrastate, quali occorrono per il monocromo giallo.” Ciascuna lastra veniva successivamente stampata a contatto su “pellicole rigide alla gelatina-bromuro della A.G.F.A. di Berlino, le uniche che non si alterano mai, stante la bontà della celluloide”, trattate con bicromato di potassio e quindi colorate nei tre colori complementari (rosso porpora/magenta, azzurro-verde/ciano e giallo). La sovrapposizione a registro delle tre gelatine colorate restituiva, per sintesi sottrattiva,  i colori del soggetto, perfettamente leggibili per trasparenza, cfr. Negri 1906.

[69] A queste vanno aggiunti gli esemplari conservati in collezione privata, ma le stesse vicende di costituzione del Fondo della Biblioteca Civica di Casale Monferrato lasciano intendere la possibilità di ulteriori futuri ritrovamenti, cfr. Cavanna 1991.

[70] Negri 1906. Il nove settembre 1901 alcune “ben  riuscite proiezioni a colori del Cav. Avv. F. Negri” vennero presentate da Pietro Masoero nel corso della conferenza dedicata ad “Arte e Fotografia”, tenuta in occasione dell’Esposizione di Lodi, cfr. “La Sesia”, 13 settembre 1901. Doveva trattarsi di riproduzioni di dipinti, di cui però oggi si conservano le sole riprese di selezione, non i risultati finali.  Per l’aspirazione al colore nella fotografia di documentazione d’arte cfr. Cavanna 1985.

[71] Cfr. Costantini 1994. Negri visitò l’Esposizione il giorno 23 maggio, realizzando con un apparecchio Vérascope una bella serie di vedute stereoscopiche destinate alla duplicazione in positivo su lastra (per proiezione quindi), cfr.  Cavanna 1994. Prima di questa occasione Negri aveva già preso parte  all’Esposizione Nazionale di Milano organizzata dal Circolo Fotografico Lombardo nel 1894, cui parteciparono anche Grosso, Sella e, tra i professionisti, Masoero e Pietro Santini. All’Esposizione Fotografica Internazionale tenutasi a Firenze in occasione del secondo Congresso Fotografico Italiano (1899) espose con Guido Rey nella sezione dilettanti,  presentando immagini scientifiche, per le quali  gli fu assegnato un “Diploma di medaglia d’argento” di III grado nella classe VI-VII (Scientifica). L’anno successivo prese parte all’Esposizione Fotografica Internazionale organizzata dalla neonata (1899) Società Fotografica Subalpina di Torino, presentando “telefotografie e microfotografie”, poste “accanto ai lavori esposti dall’Istituto geografico militare. (…) Presenta il gruppo del Gran Paradiso in 4 pezzi 18×24, senza alcun ritocco e di tale bellezza e nettezza da ritenerlo una veduta diretta; il Ruitor (…) con un ingrandimento di 15 diametri ed a 30 chilometri di distanza. Vi si ammira uno splendido effetto di ghiacciaio. Un gruppo del Monte Bianco ed il Monte Rosa da Riva Valdobbia pure bellissimi.”,  Masoero 1900, pp. 138-139. L’assenza in lui di qualsiasi velleità artistica sembra confermata dalla partecipazione  – nella categoria “B” riservata agli abbonati – alla IV Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica che si svolse a Torino nel 1907, promossa dalla rivista “La Fotografia Artistica”. Qui non presentò alcuna immagine a colori, ma espose vedute di castelli valdostani (Fènis, Ussel, Verrès, Montjovet) e temi valsesiani (Riva Valdobbia, un dipinto nella chiesa di Valdobbio) ma soprattutto  fotomicrografie batteriologiche (polmonite, tubercolosi, tetano, tifo e colera asiatico “da preparazione avuta direttamente dal dott. Koch”), per le quali gli fu assegnato un diploma di medaglia d’argento.  Solo nel 1909, all’Esposizione Nazionale di Fotografia che si tenne a Casale Monferrato  dal 16 al 23 marzo in occasione della Fiera di San Giuseppe, nei locali dell’Accademia Filarmonica Negri presentò  “nove quadretti di fotografie a colori tra cui furono trovati stupendi senza esagerazione, un cespo di rose e tre paesaggi montani.” Ormai a suggello del suo  lungo e qualificato impegno, in quell’occasione gli fu assegnato il “Gran diploma e medaglia d’argento del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio per il contributo da lui portato all’arte fotografica.”,  “Il Progresso Fotografico”, 1909, pp.62, 126.

[72] A causa dell’elevata deteriorabilità delle gelatine le tricromie vennero esposte a rotazione, ma ciò nonostante alcune risultarono danneggiate irreparabilmente, verosimilmente per un incidente occorso durante  l’esposizione stessa (3C114 = “Carbonizzata”; 5C114 “Esposizione di Torino 1902. Da giugno a novembre”).

[73] Masoero 1902. La sua maestria in questo settore venne opportunamente celebrata ancora vent’anni più tardi nei necrologi: “Fin dal 1863 il Negri praticò anche la fotografia, sia scientifica, che artistica, nonché di paesaggio: occupò molto tempo, e con mirabili risultati, nella fotografia a colori.”, Gasparolo 1925. “Fotografo valentissimo, tentò, durante gli albori della fotografia a colori, di emulare i professionisti. Eseguì fotografie policrome magnifiche di fiori, frutta e paesaggi che destarono la meraviglia di chi li vide; ma, come per tante altre sue creazioni, una volta congegnate e perfezionate per suo intimo diletto e per la gioia di riuscire, vennero abbandonate nei polverosi scaffali.”,  Gabotto c 1925.

[74] Falcone 1914.

[75] Nel Fondo Negri se ne conserva una ricca collezione, tutte purtroppo separate dai fascicoli originali, ormai perduti.

[76] “Se pubblico queste mie esperienze (…) lo faccio colla speranza di rendermi utile ai colleghi che desiderano occuparsi dell’arduo problema della tricromia.”,  Negri 1906, p. 44. Nella stessa occasione consegnava  alla SFI “anche una serie di belle tricromie” di cui si è persa ogni traccia.

 

 

Bibliografia

 

 

A corps et a raison 1995

A corps et a raison: photographies medicales: 1840-1920, catalogo della mostra (Parigi, 1995), Monique Sicard, Robert Pujade, Daniel Wallach, dir. Paris: Marval, 1995

 

Aliprandi 1931

Giuseppe Aliprandi, Giuseppe Ravizza inventore della macchina da scrivere. Novara: Stab. Tip. E. Cattaneo, 1931, estratto dal “Bollettino Storico per la Provincia di Novara”, 25 (1931),  fasc. IV

 

Angelo Morbelli 1982

Angelo Morbelli, catalogo della mostra (Alessandria, 1982), a cura di Luciano  Caramel. Milano: Mazzotta, 1982

 

Antonetto, Falzone del Barbarò 1980

Marco Antonetto, Michele Falzone del Barbarò, Apparecchi fotografici italiani 1839/1911. Milano: Electa, 1980

 

Barbero, Spantigati 1998

Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea. Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998

 

Bencivenni, Dalla Negra, Grifoni 1992

Mario Bencivenni, Riccardo dalla Negra, Paola Grifoni, Monumenti e istituzioni, II. Firenze: SBAA per le provincie di Firenze e Pistoia, 1992

 

Bertelli 1979

Carlo Bertelli, La fedeltà incostante. Schede per la fotografia nella storia d’Italia fino al 1945, in Bertelli, Bollati 1979, pp. 57-198

 

Bertelli, Bollati 1979

Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845 – 1945, “Storia d’Italia”, Annali, 2. Torino: Einaudi, 1979

 

Bricarelli 1913

Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n.8 agosto, pp.  2255-2260

 

Butler 1882

Samuel Butler, Alps and Sanctuaries.  London: David Bogue, 1882

 

Butler 1888

Samuel Butler, Ex voto. An account of the Sacro Monte or New Jerusalem at Varallo Sesia. With some notices of Tabacchetti’s remaining work at the Sanctuary of Crea. London: Trübner & Co., 1888

 

Butler 1913

Samuel Butler, The Humour of Homer and Other Essays.  London, Arthur C. Fifield, 1913

 

Butler  1989

Samuel Butler, the way of all flesh: photographs, paintings watercolours and drawings by Samuel Butler (1835-1902),  catalogo della mostra (Bolton, Bolton Museum and Art Gallery, 6 dicembre 1989-24 febbraio 1990; Nottingham, 2 ottobre – 6 novembre1990). Bolton: Bolton Museum and Art Gallery, 1989

 

Caramel 1982

Luciano Caramel, Angelo Morbelli: le ragioni del vero e quelle della pittura, in Angelo Morbelli 1982, pp.9-20

 

Cartier-Bresson 1984

Anne Cartier-Bresson, Les papiers sales: altération et restauration des premières photographies sur papier. Paris: Paris Audiovisuel, 1984

 

Casale Monferrato 1900

Casale Monferrato. Ricordo dell’Esposizione Industrie Monferrine e Fillosserica, maggio – giugno 1900. Casale Monferrato: Tipografia Editrice Giovanni Pane, 1900

 

Cavanna 1985

Pierangelo Cavanna,  Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in Paola Astrua, Giovanni Romano, a cura di, Bernardino Lanino. Milano: Electa, 1985, pp.150-154

 

Cavanna 1990

Pierangelo Cavanna,  Inventariazione e preschedatura del fondo fotografico Negri, dattiloscritto, 1990

 

Cavanna 1991

Pierangelo Cavanna, Francesco Negri e la Biblioteca Civica di Casale Monferrato, “AFT”, 7 (1991), n.14, dicembre, pp.57-63

 

Cavanna 1992

Pierangelo Cavanna, Il Fondo Fotografico  della Biblioteca Civica di Casale Monferrato ed una mostra, “Fotologia”, vol.14-15, primavera/estate 1992, pp. 46-53

 

Cavanna 1994

Pierangelo Cavanna, Francesco Negri e l’Esposizione d’Arte Decorativa Moderna in Torino del 1902. Torino: Agorà editrice, 1994

 

Cavanna 1996

Pierangelo Cavanna, Una storia di terre, beati e contadini. Con alcune note d’arte, in Colli, Negri, Rastelli [1914] 1996, pp. i-xiii

 

Cavanna 1997

Pierangelo Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauro. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77

 

Cavanna 1998

Pierangelo Cavanna, Cinquant’anni di sguardi. La fotografia scopre il Sacro Monte, in Barbero, Spantigati 1998, pp. 137-145

 

Cavanna 2000

Pierangelo Cavanna, Il trapianto del mito: acque, risaie, mondine nell’iconografia ottico-meccanica, “Studi di museologia agraria: notiziario dell’Associazione Museo dell’Agricoltura del Piemonte”, 17 (2000), n. 33, pp. 23-37 link

 

Colli 1913

Evasio Colli, Crea, storia, cronologia, arte, culto, etc. Casale Monferrato: Tip. Editrice Ditta O. Pane, 1913

 

Colli, Negri, Rastelli [1914] 1996

Evasio Colli, Francesco Negri, Alessandro Rastelli, Il B. Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio, [1914]. Trino: Circolo Culturale Trinese, 1996

 

Colombo 1969

Cesare Colombo, a cura di, Francesco Negri fotografo a Casale 1841/1924. Bergamo: Coop. Il Libro Fotografico, 1969

 

Contini 1990

Maria Teresa Contini, Strumenti fotografici 1845-1950. Roma: Gabinetto Fotografico Nazionale – NER, 1990

 

Corcy 2003

Marie-Sophie Corcy, Jean Bernard Léon Foucault, in Le daguerréotype français. Un objet photographique, catalogo della mostra (Parigi – New York, 2003-  2004), Quentin Bajac, Dominique Planchon-de Font Réaulx, dir. Paris: Réunion des Musées Nationaux, 2003, pp.364-365

 

Costantini 1990

Paolo Costantini, «La Fotografia Artistica» 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990

 

Costantini 1994

Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994, pp.95-179

 

Crea 1900 1900

Crea 1900, numero unico del «Corriere di Casale», 8-9-10 ottobre 1900

 

Darius 1984

Jon Darius,  Beyond Vision: One Hundred Historic Scientific Photographs. Oxford – New York: Oxford University Press, 1984

 

De Amicis et al. 1914

Giovanni Augusto De Amicis et al., Il Santuario di Crea. Casale Monferrato: Tipografia Ditta G. Pane,1914

 

De Feo, Ratti 2001

Claudia  de Feo, Guido Ratti, Indice centenario. La «Rivista di Storia Arte e Archeologia» dal 1892 al 1999. Alessandria: Edizioni dell’Orso, 2001

 

De Gubernatis 1879

Angelo de Gubernatis, Dizionario biografico degli scrittori contemporanei. Firenze: Successori Le Monnier, 1879

 

Didi-Huberman 1988

George  Didi-Huberman, La fotografia scientifica e pseudoscientifica, in Jean-Claude Lemagny, André Rouillée, a cura di, Storia della fotografia. Firenze: Sansoni, 1988, pp. 71-75

 

Donné, Foucault 1845

Alfred Donné, Léon Foucault, Atlas du Cours de Microscopie exécuté d’après nature au microscope daguerréotype.  Paris: J.B. Baillière 1845

 

 

Drudi Demby 1993

Lucia Drudi Demby, Introduzione, in Samule Butler, Erewhon. Milano: Adelphi, 1993

 

Durio 1940

Alberto Durio, Samuel Butler e la Valle Sesia. Da sue lettere inedite a Giulio Arienta, Federico Tonetti e a Pietro Calderini. Varallo Sesia: Tipografia Testa, 1940

 

Esposizione fotografica 1899

Catalogo della Esposizione fotografica in Firenze promossa dalla Società Fotografica Italiana, aprile-maggio 1899. Firenze:Tip. di G. Barbera, 1899

 

Esposizione Internazionale 1907

Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica. Catalogo. Torino: Grafica Editoriale Politecnica [La Fotografia Artistica], 1907

 

Falcone 1914

Nicola Angelo Falcone, Il paesaggio italico e la sua difesa: studio giuridico-estetico. Firenze: Alinari, 1914

 

Falzone del Barbarò 1979

M.F.B. [Michele Falzone del Barbarò], Negri Francesco, in Fotografia Italiana dell’Ottocento 1979, p. 168

 

Falzone del Barbarò, Borio 1989

Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989

 

Federico Negri s.d.

Associazione Ex-Allievi Liceo Ginnasio «Cesare Balbo», a cura di, Mostra retrospettiva dell’avv. Federico Negri. Casale Monferrato, s.d.

 

Fotografi del Piemonte 1977

Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Fotografia italiana 1979

Fotografia italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze – Venezia, 1979-1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979

 

Frizot 1994

Michel Frizot, La photomicrographie, in Id., dir., Nuovelle Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1994, pp. 275-277

 

Frizot, Ducros 1987

Michel Frizot, Françoise Ducros, Du bon usage de la photographie. Une anthologie de textes. Paris: Centre national de la Photographie, 1987

 

Gabotto 1925a

Luigi Gabotto, Francesco Negri, “La Madonna di Crea”, 16 (1925), n.2, febbraio, pp. 15-16

 

Gabotto 1925b

Luigi Gabotto, Francesco Negri, “La Madonna di Crea”, 16 (1925), n.7, luglio, pp. 81-83

 

Gabotto 1925c

Luigi Gabotto, Francesco Negri. Casale Monferrato: Stabilimento Tipografico Successori Cassone, 1925

 

Garimoldi 1966

Giuseppe Garimoldi , Montagna – Città: autoritratto di un fotografo, in Mario Gabinio 1996, pp.37-46

 

Gasparolo 1925

Francesco Gasparolo, Cav. Uff. Avv. Francesco Negri , “Rivista di Storia, Arte, Archeologia per la Provincia di Alessandria”, 9 [34] (1925),  fasc. 33, pp. 9-19

 

Gilardi 1969

Ando Gilardi, Francesco Negri fotografo a Casale, “Popular Photography Italiana”, 13 (1969), n. 144, ottobre,  p.55

 

Gilardi 1976

Ando Gilardi, Storia sociale della fotografia. Milano: Feltrinelli, 1976

 

Greco 1969

Enzo Greco, La figura e l’opera di Francesco Negri. Casale Monferrato: Lions Club, 1969

 

Greco, Serrafero 1973

Enzo Greco, Gabriele Serrafero, La documentazione microfotografica delle scoperte batteriologiche nell’opera del casalese Francesco Negri (1884-1885), in “Atti della VII Biennale della Marca e dello Studio Firmano”, (Fermo, 2-4 maggio 1967). Civitanova Marche: Grafiche Corsi, 1973

 

Gunthert 2001

André Gunthert, Esthétique de l’occasion. Naissance de la photographie instantanée comme genre, “études photographiques”, 6 (2001), n.9, mai, pp. 64-87

 

Holt 1989

Lee Elbert Holt,  Samuel Butler. Boston: Twayne Publishers,  1989

 

Infinitamente  2004

Infinitamente al di là di ogni sogno. Alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra (Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004

 

L’Italia d’argento  2003

L’Italia d’argento, catalogo della mostra (Firenze – Roma, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli. Firenze: Alinari, 2003

 

Jeffrey 1999

Ian Jeffrey, Revisions: an alternative history of photography. Bradford: National Museum of Photography, Film and Television, 1999

 

Johnson 1998

Geraldine A. Johnson, ed., Sculpture and photography: envisioning the third dimension. Cambridge:  Cambridge University Press, 1998

 

Jones 1918

Henry Festing Jones, ed., The note-books of Samuel Butler. London: Arthur C. Fifield, 1918

 

Jones 1919

Henry Festing Jones,  Samuel Butler, author of Erewhon (1835-1902) a memoir. London: Macmillan and Co., 1919

 

Mario Gabinio 1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Masoero 1900

Pietro Masoero,L’Esposizione fotografica di Torino – Note ed appunti, I parte, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), pp. 124-139

 

Masoero 1902

Pietro Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia di Torino. Relazione al Consiglio direttivo, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 14 (1902), pp. 465-479

 

Mattirolo 1925

Oreste Mattirolo, In Memoria dell’Avv. Francesco Negri. Commemorazione letta nella Adunanza del 1° marzo 1925 alla Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti dal Socio Presidente Mattirolo Oreste, estratto dal «Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti», 9 (1925), n.1-2. Torino: Tip. Anfossi, 1925

 

Miraglia 1981

Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839 – 1911), in “Storia dell’arte italiana”, 9**, Illustrazione e fotografia. Torino: Einaudi, 1981, pp. 423-543

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia 2006

Marina Miraglia, Veduta, panorama, paesaggio. Vittorio Sella e la fotografia delle vette, in Paesaggi verticali  2006, pp.11-21

 

Morbelli & Morbelli 1995

Morbelli & Morbelli, catalogo della mostra (Varese – Casale Monferrato, 1995), a cura di Giovanni Anzani, Filippo Maggia. Varese: Edizioni Lativa, 1995

 

Negri 1892

Francesco Negri, Una famiglia d’artisti casalesi dei secoli XV e XVI, “Rivista di storia arte e archeologia della provincia di Alessandria”, 1 (1892), n. 2, luglio-dicembre, pp. 160-161

 

Negri 1895

Francesco Negri, Giorgio Alberini. Pittore, “Rivista di storia arte e archeologia della provincia di Alessandria”, I, 4 (1895), n. 9, pp. 7-17; II, n. 11, pp. 179-194

 

Negri 1895-1896

Francesco Negri, Il Moncalvo. Notizie su documenti, “Rivista di storia arte e archeologia della provincia di Alessandria”, I, 4 (1895), n. 12, pp. 263-280; II,  5 (1896), n.13, pp. 103-129; III,  n. 14, pp. 207-225

 

Negri 1902

Francesco Negri, Il Santuario di Crea in Monferrato , “Rivista di Storia, Arte, Archeologia della provincia di Alessandria”, 11 (1902), n. 6,  (nuova serie), pp. 5-76

 

Negri 1906

Francesco Negri, Appunti sulla tricromia, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 18 (1906), pp. 42-44

 

Negri, Cassone 1885

Francesco Negri,  Giuseppe Cassone, Contribuzione allo studio della genesi e modo di diffusione del colera, “Lo sperimentale: giornale italiano di scienze mediche”, gennaio 1885, pp. 40-45

 

Negri, Pisolini 1882

Francesco Negri, Francesco Pisolini, Contribuzione allo studio dei bacilli speciali delle tubercolosi. Firenze: Tip. Cenniniana, 1882, estratto da “Lo sperimentale: giornale italiano di scienze mediche”, agosto 1882

 

O’Brien, Bergstein 2000

Maureen C. O’Brien, Mary Bergstein, eds., Image and Enterprise. The Photographs of Adolphe Braun. London: Thames & Hudson, 2000

 

Oddone 1925

Edoardo Oddone, Commemorazione di Francesco Negri, “Il Monferrato”, 25 (1925), n.1, 3 gennaio

 

Omezzoli 2003

Tullio Omezzoli, Come nasce la biblioteca di Aosta. Aosta: Le Château, 2003

 

Paesaggi verticali  2006

Paesaggi verticali. La fotografia di Vittorio Sella 1879 – 1943, catalogo della mostra (Torino, 2006), a cura di Lodovico Sella. Torino: Fondazione Torino Musei – GAM, 2006

 

Un paese unico  2000

Un paese unico. Italia fotografie 1900 – 2000, catalogo della mostra itinerante,  a cura di Cesare Colombo. Firenze: Alinari, 2000

 

Prima Esposizione  1924

Prima Esposizione Internazionale di fotografia, ottica e cinematografia. Milano – Roma: Bestetti e Tuminelli, 1924

 

Principe, Sensi, Casati 2004

Franca Principe, Nadia Sensi, Stefano Casati, Il Fondo Roster dell’Istituto e Museo di Storia delle Scienze di Firenze, “AFT”, 20 (2004), n.39/40, giugno/dicembre, pp. 3-20

 

Pygmalion Photographe  1985

Pygmalion Photographe. La sculpture devant la caméra 1844-1936, catalogo della mostra (Ginevra, 1985), Rainer Michael Mason, Hélène Pinet, dir. Genève: Cabinet des Estampes, Musée d’Art et d’Histoire, 1985

 

Quintavalle 2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Romano 1970

Giovanni Romano, Casalesi del Cinquecento. L’avvento del manierismo in una città padana. Torino: Einaudi, 1970

 

Saccardo 1895

Pier Andrea Saccardo, La Botanica in Italia. Venezia: Tipografia C. Ferrari, 1895

 

Sagne 1984

Jean Sagne,  L’atelier du photographe: 1840-1940. Paris: Presses de la Renaissance, 1984

 

Samek Lodovici 1946

Sergio Samek Lodovici, Storici, teorici e critici delle arti figurative in Italia dal 1800 al 1940. Roma: Tosi, 1946

 

Il Santuario di Crea 1908

Il Santuario di Crea. Cenni sulla conferenza dell’Avv. Cav. Francesco Negri. Torino: Unione Escursionisti – Tip. M. Massaro, 1908

 

Sculpter-Photographier  1991

Sculpter-Photographier. Photographie-Sculpture, atti del convegno (Parigi, Museo del Louvre,  22-23 novembre 1991), Michel Frizot, Domique Païni, dir. Paris: Musée du Louvre, 1991

 

Serrafero 1967

Gabriele Serrafero, Cronache casalesi dal quarantotto al novecento. Casale Monferrato: Tip. Milano e C., 1967

 

Settimelli 1969

Wladimiro Settimelli, Storia avventurosa della fotografia. Roma: Editrice Fotografare, 1969

 

Settimelli, Geiger 1968

Wladimiro Settimelli, Friedel Geiger, Francesco Negri scienziato fotografo, dattiloscritto, 1968

 

Shaffer 1988

Elinor S. Shaffer, Erewhons of the eye : Samuel Butler as painter, photographer, and art critic. London: Reaktion Books, 1988

 

Skulptur 1998

Skulptur in Licht der Fotografie, catalogo della mostra (Vienna, 1998), Erika Billeter, hrsg. Wien: Museum Moderner Kunst Stiftung Ludwig, 1998

 

Spanzotti  2004

“Di fino colorito”. Martino Spanzotti e altri casalesi, catalogo della mostra(Casale Monferrato, 2004), a cura di Giovanni Romano con Alessandra Guerrini e Germana Mazza. Casale Monferrato: Città di Casale Monferrato, 2004

 

Stefano Bricarelli 2005

Stefano Bricarelli. Fotografie, catalogo della mostra (Torino, 2005), a cura di Pierangelo Cavanna. Torino: Fondazione Torino Musei-GAM, 2005

 

Stoppani 1875

Antonio Stoppani, Il Bel Paese. Conversazioni sulle Bellezze Naturali. Milano: Tipografia e Libreria Editrice Giacomo Agnelli, 1875

 

C.T. 1912

C.T., L’ «Olikos», apparecchio cinematografico di presa e di proiezione, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), pp. IV-V

 

Tamburini, Falzone del Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981

 

Toffoletti, Zannier

Riccardo Toffoletti, Italo Zannier, a cura di, Enrico del Torso fotografo (1876 – 1955). Udine: Arti Grafiche Friulane, 1990

 

Valle 1925

P.G. [Padre Giovanni Valle], Crea nella fotografia, “La Madonna di Crea, periodico del Santuario di Crea”, 17 (1925), n.6, giugno, p. 69

 

Valle 1926

  1. Giovanni Valle, L’arte fotografica a Crea, in La Fiorita di Crea, a cura dei PP. Francescani del Santuario. Casale Monferrato: Tip. Succ. Cassone, 1926, pp.275-279

 

Vescovo 1982

Marisa Vescovo, Ombre e luci come grafia e mimesi del reale,  in Angelo Morbelli 1982, pp.21-32

 

Villata 2000

Edoardo Villata, Macrino d’Alba. Alba: Fondazione Ferrero, 2000

 

Warner Marien 2002

Mary Warner Marien, Photography: A Cultural History. London: Laurence King Publishing, 2002

 

Zannier 1979

Italo Zannier, La massificazione della fotografia (1880 – 1899), in Fotografia Italiana dell’Ottocento 1979, pp. 85-118

 

Zannier 1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

Zannier, Costantini 1985

Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Milano: Franco Angeli, 1985

 

 

 

La biblioteca del fotografo

 

Vengono qui repertoriate le pubblicazioni appartenute a Francesco Negri conservate presso la Biblioteca Civica di Casale Monferrato, sulla base di una ricognizione effettuata nel 1990-1991; a queste sono state aggiunte (segnalandole con un asterisco) tutte le pubblicazioni fotografiche conservate nella stessa sede edite prima del 1924, data di morte del fotografo, di provenienza diversa o di cui non è documentata l’appartenenza al Fondo Negri.

La consistenza complessiva risulta oggi essere di circa sessanta titoli e certamente non corrisponde pienamente allo stato originario della biblioteca di Francesco Negri non essendo ad oggi reperibili almeno due periodici ed un catalogo documentati da fonti diverse: “The Philadelphia Photographer” del 1869, che compare nel noto ritratto della moglie (FN, 12/B146), “Photographic News” del 1887 a cui Negri fa riferimento in un appunto citato da Fabrizio Celentano (in Colombo 1969, p.120), il catalogo di Joseph Bamfortp ricordato da Ando Gilardi nella stessa monografia ed ancora il fondamentale testo di Alcide Ducos du Hauron del 1869.

 

Anderson 1907

Domenico Anderson, Catalogo, III, Parte prima. Parte seconda.  Roma: Anderson,1907

 

Anderson 1911

Domenico Anderson, I.er supplement au Catalogue general. Première partie. Deuxième partie. Roma: Anderson, 1911

 

Apparecchio 1897

Apparecchio cronofotografico e Kinetoscopio Pasquarelli. Torino: Camilla e Bertolero, s.d.[1897?]

 

Association Belge 1884-1895

“Association Belge de Photographie: Bulletin”, II serie, 11(1884), 15 (1888) – 22 (1895)

 

Aubry 1903

Roger Aubry, dir., Annuaire Général et International de la photographie. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1903

 

Aubry 1907

Roger Aubry, dir., Annuaire Général et International de la photographie. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1907

 

Barreswil, Davanne 1854

[Charles Louis] Barreswil, [Alphonse] Davanne, Chimica fotografica; versione del Prof. Giuseppe Ravani. Milano: Libreria Ravani, 1854

 

Barreswil, Davanne 1861

[Charles Louis] Barreswil, [Alphonse] Davanne, Chimie photographique. Paris: Mallet-Bachelier, 1861

 

Blanquart-Evrard 1851

[Louis Désiré] Blanquart-Evrard, Traité de photographie sur papier. Paris: Roret, 1851

 

Bonacini 1897

Carlo Bonacini, La fotografia dei colori. Milano: Hoepli, 1897

 

Borlinetto 1868

Luigi Borlinetto, Trattato generale di fotografia. Padova: Stabilimento Nazionale di P. Prosperini, 1868

 

Bullettino SFI 1900-1911

“Bullettino della Società Fotografica Italiana”, Firenze, 12 (1900) – 18 (1906); 20 (1908) – 21(1911)

 

Buron 1841

[Noël François Joseph] Buron,  Description de nouveaux daguerréotypes perfectionnés et portatifs. Paris: Dondey-Dupré Imprimeurs, s.d. [1841]

 

Burton 1884

William Kinninmond Burton, A B C de la photographie moderne. Paris: Gauthier-Villars, 1884

 

Camera Oscura 1864-1865

“La Camera Oscura. Rivista periodica universale dei progressi della fotografia per G. Ottavio Baratti”. Milano: Tip. Giuseppe Redaelli, 2 (1864) – 3 (1865)

 

Camera Oscura 1865-1867

“Camera Oscura. Rivista universale dei progressi della fotografia per O. Baratti”, Milano, 3 (1865) – 5 (1866-1867)

 

Chapel d’Espinassoux 1890

Gabriel Chapel d’Espinassoux, Traité pratique de la détermination du temps de pose. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1890

 

Chevalier A. 1876

Arthur Chevalier, L’étudiant photographe. Traité pratique de photographie à l’usage des amateurs. Paris: Eugène Lacroix, s.d. [1876]

 

Chevalier C. 1846

Charles Chevalier, Nouveaux renseignements sur l’usage du daguerréotype. Paris: Chez l’auteur – Palais Royal, 1846

 

Clerc 1899

Louis-Philippe Clerc, La photographie des couleurs; prefazione di Gabriel Lippmann. Paris: Gauthier-Villars, Masson et C.ie, s.d. [1899]

 

Colson 1894

René Colson, La perspective en photographie. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1894

 

Corriere Fotografico 1920-1922

“Il Corriere Fotografico”, Milano, 17 (1920) – 19 (1922)

 

Coustet 1913

Ernest Coustet, La fotografia dell’infinitamente piccolo, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n.12, dicembre, pp.9-10

 

Daguerre 1839

[Louis J.M Daguerre], Description pratique du procédé nommé le daguerréotype. Gênes: A. Beuf, 1839; allegato: Description des procédés de peinture et d’éclairage inventés par Daguerre, et appliqués par lui aux tableaux du diorama; Projet de Loi

 

Despaquis 1866

Despaquis, Photographie au charbon. Paris: Leiber, 1866

 

Disderi 1862

André-Adolphe-Eugene Disderi, L’art de la photographie. Paris: Chez l’auteur, 1862

 

Ducos du Hauron 1897

Alcide Ducos du Hauron, La triplice photographique des couleurs et l’imprimerie. Paris: Gauthier-Villars, 1897

 

* Egasse 1888

Edouard Egasse, Manuel de photographie au gélatino-bromure d’argent. Paris: Octave Doin, 1888

 

Esposizione Internazionale  1907

Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica – Catalogo. Torino: La Fotografia Artistica, 1907

 

Fabre 1889-1902

Charles  Fabre, Traité encyclopédique de photographie. Paris, Gauthier-Villars et fils, 1889-1902, 7 voll.

 

                Matériel photographique, 1889

II                 Phototypes Négatifs, 1890

III                Phototypes positifs. Photocopies. Photocalques, Phototirages, 1890

IV                Agrandissements. Applications de la photographie,1890

A                 Premier Supplément, 1892

B                 Deuxième Supplément, 1897

C                 Troisième Supplément, 1902

 

 

La Fotografia 1902

La Fotografia e le sue applicazioni alle arti grafiche; supplemento artistico al “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 1 (1902), n.3/4, marzo-aprile

 

Il Fotografo 1922

“Il Fotografo”, Torino, 4 (1922), n. 11, Novembre

 

Fouque 1867

Victor Fouque, La vérité sur l’invention de la photographie. Nicéphore Niepce, sa vie, ses essais, ses travaux. Paris: Leiber, 1867

 

Girard 1870

Jules Girard, La Chambre Noire et le Microscope. Photomicrographie pratique. Paris: F. Savy, 1870

 

Girard 1872

Jules Girard, Photomicrographie en cent tableaux pour projection. Paris: Gauthier-Villars, 1872

 

Huberson 1879

Gabriel Huberson, Précis de Microphotographie. Paris: Gauthier-Villars, 1879

 

Klary 1888

  1. Klary, L’art de retoucher les négatifs photographique. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1888

 

König 1906

Ernst  König, Natural-color photography. London: Dawbarn & Ward Ltd., s.d. [1906]

 

La Blanchère 1862-1866

Henri de la Blanchère,  Répertoire encyclopédique de photographie: comprenant par ordre alphabétique tout ce qui a paru et paraît en France et à l’étranger depuis la découverte par Niepce et Daguerre de l’art d’imprimer au moyen de la lumière, I, II.  Paris: [Aymot],  s.d. [1862-1866]

 

Lefèvre 1888

Julien  Lefèvre, La photographie et ses applications aux sciences, aux arts et à l’industrie. Paris: Baillière et fils, 1888

 

Le Roux 1902

Marc Le Roux, dir., Annuaire Général et International de la photographie 1901-1902. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1902

 

* Liesegang  1864

Paul Liesegang, Manuale illustrato di fotografia; prima traduzione italiana dalla quinta tedesca di Antonio Mascazzini. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1864

 

Londe 1888

Albert  Londe, La photographie moderne: pratique et applications. Paris: G.Masson Éditeur, 1888

 

Lumière 1897

Augusto e Luigi  Lumière, Nozioni sul cinematografo. s. l. : s.n. [1897?]

 

Malley 1883

Abraham Cowley Malley, Micro-photography, including a description of the wet collodion and the gelatino-bromide process. London: H.K.Lewis, 1883

 

Meldola 1889

Raphael  Meldola, The chemistry of photography. London – New York: Macmillan and Co., 1889

 

Miethe 1896

Adolf Miethe, Optique photographique sans développements mathématiques a l’usage des photographes et des amateurs. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1896

 

Moitessier 1866

Albert Moitessier, La photographie appliquée aux recherches micrographiques. Paris: J.B. Baillière et fils, 1866

 

Monckhoven 1859

Désiré van Monckhoven, Répertoire général de photographie théorique et pratique. Planches. [Paris], [A. Gaudin et Frère], 1859

 

Monckhoven 1863

Désiré van Monckhoven, Traité général de photographie. Paris: Victor Masson, 1863

 

Monckhoven 1880

Désiré van Monckhoven, Traité général de photographie suivi d’un chapitre spécial sur le gélatino-bromure d’argent. Paris, G. Masson, 1880

 

Muffone 1887

Giovanni Muffone, Come il sole dipinge. Manuale di fotografia per i dilettanti. Milano: Hoepli, 1887

 

*Muffone 1892

Giovanni Muffone, Come il sole dipinge. Manuale di fotografia per i dilettanti, seconda edizione rifatta. Milano: Hoepli, 1892

 

*Muffone 1906

Giovanni Muffone, Come dipinge il sole. Fotografia per i dilettanti, sesta edizione riveduta e ampliata. Milano: Hoepli, 1906

 

*Namias 1912

Rodolfo Namias, Carte e viraggi per la fotografia artistica e la carta al pigmento o carbone.  Milano: Il Progresso Fotografico, 1912

 

Notizie Tensi 1913-1914

“Notizie della Società Anonima Tensi Milano”, 1 (1913), n.2;  2 (1914), n.1, suppl. al n.1

 

Paris Photographe 1891-1894

“Paris Photographe”, 1 (1891) 4 (1894)

 

Phipson 1864

Thomas Lamb Phipson, Le préparateur-photographe ou traité de chimie a l’usage des photographes.  Paris: Leiber, 1864

 

La Photographie 1908-1909

“La Photographie. La Photographie des Couleurs et la Revue des sciences photographiques et leurs applications réunies”, N.S., 1 (1908) – 2 (1909)

 

La Photographie des couleurs 1906-1907

“La Photographie des Couleurs: Revue Mensuelle”, 1 (1906), n.2, Août – 2 (1907), n.7, Juillet

 

Piquepé 1881

Paul Piquepé, Traité pratique de la retouche des clichés photographiques suivi d’une méthode très détaillée d’émaillage et de formules et procédés divers. Paris: Gauthier-Villars, 1881

 

Reichardt, Stürenburg 1868

Oscar Reichardt, Carl Stürenburg, Lehrbuch der Mikroskopischen Photographie. Leipzig: Quandt & Händel, 1868

 

Rivista Scientifico – Artistica 1893-1897

“Rivista Scientifico – Artistica di Fotografia”. Bollettino del Circolo Fotografico Lombardo, 1 (1893) – 6 (1897)

 

Roster 1893

Giorgio Roster, Note pratiche su la telefotografia. Firenze: Salvatore Landi, 1893

 

Roster 1899

Giorgio Roster, Le applicazioni della fotografia nella scienza. Conferenza, estratto dagli “Atti del Secondo Congresso Fotografico Italiano” (Firenze, 15-19 maggio 1899). Firenze: Tip. M. Ricci, 1899

 

Rouillé-Ladevèze 1894

Auguste Rouillé-Ladevèze, Sépia-photo et sanguine-photo. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1894

 

*Sassi 1897

Luigi Sassi, Le proiezioni. Materiale – Accessori – Vedute a movimento- Positive sul vetro- Proiezioni speciali policrome, stereoscopiche, panoramiche, didattiche, ecc. Milano: Hoepli, 1897

 

Sassi 1905

Luigi  Sassi, La fotografia senza obiettivo. Milano: Hoepli, 1905

 

* Sassi 1912

Luigi Sassi, Immagini fotografiche a colori. Ottenute con sviluppi e viraggi su carte all’argento e su diapositive. Milano: Hoepli, 1912

 

* Sassi 1917

Luigi Sassi, I primi passi in fotografia. Milano: Hoepli, 1917

 

*Sella 1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del fotografo. Trattato teorico-pratico di fotografia. Torino: Tip. G.B. Paravia e Comp., 1863

 

Spiller 1883

Arnold Spiller, Douze leçons élémentaires de chimie photographique. Paris: Gauthier-Villars, 1883

 

Sternberg 1883

George Miller Sternberg, Photo-Micrographs and how to make them. Boston: James R. Osgood and Company, 1883

 

*Thierry 1847

Jean Pierre Thierry, Daguerréotypie. Edition augmentée par l’auteur de la description rigoureuse duprocédé dit Americain et de son emploi facile avec sa composition d’iode. Paris: Lerebours et Secretan, 1847

 

*Valicourt 1851

Edmond de Valicourt, Nouveau manuel complet de photographie sur métal, sur papier et sur verre. Nouvelle édition. Paris: Roret, 1851

 

Vidal 1884

Léon Vidal, Calcul des temps de pose et tables photométriques. Paris: Gauthier-Villars, 1884

 

Vidal 1885

Léon  Vidal, Manuel du touriste photographe, I, II. Paris: Gauthier-Villars, 1885

 

Vogel 1887

Hermann Wilhelm Vogel, La photographie des objets colorés avec leurs valeurs réelles. Paris: Gauthier-Villars, 1887

 

 

Attraversare la fotografia (2005)

in Stefano Bricarelli Fotografie, catalogo della mostra (Torino, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, 15 luglio- 18 settembre 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Fondazione Torino Musei GAM. 2005, pp. 11-33

 

“L’avevo conosciuta nel 1904” – dirà Stefano Bricarelli ormai novantenne[1] parlandone come di un amore giovanile,  a proposito del suo primo incontro con la fotografia – “quando ero nella quinta classe del ginnasio all’Istituto Sociale di Torino.”  Una felice sintesi del contesto e dell’avvio di quella che sarebbe stata la sua passione più consapevole e forte. Mai una professione però, per scelta.

Il momento non avrebbe potuto essere più opportuno, e propizio.  Da appena due anni si era chiusa a Torino la fondamentale Esposizione internazionale di fotografia artistica, promossa e curata da Edoardo di Sambuy nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa e Moderna, occasione cruciale di crescita e confronto della cultura fotografica italiana e quindi torinese, portata a misurarsi con più di 1300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, dai pittorialisti francesi alla Photo-Secession americana promossa da Alfred Stieglitz, le cui opere suscitarono com’è noto reazioni contrastanti per l’ “esagerazione della ricerca.”[2]

Sulla scia delle riflessioni prodotte da quell’evento espositivo Annibale Cominetti, abbandonato il ruolo di Segretario della Società Fotografica Subalpina assunto sin dalla sua fondazione nel 1899, avviava nel dicembre di quello stesso 1904 la pubblicazione del periodico “La Fotografia Artistica”, dando concretezza all’augurio espresso dal Di Sambuy che la fotografia potesse avere un pubblico di “gente più evoluta, quali potrebbero essere i cultori più distinti dell’arte pura”.

Questa nuova “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33×24),  redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni e tavole f.t. realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa al bromuro alle fotoincisioni, alla similgravure), costituiva l’espressione più rilevante della cultura fotografica italiana di inizio ‘900, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la produzione artistica internazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” richiamato sin dal titolo, cui tendeva tutto il movimento pittorialista, e che qui prendeva forma nella composizione e nelle selezioni operate da una Commissione Artistica tutta formata di membri legati all’Accademia torinese: lo scultore Luigi Belli ed i pittori Pier Celestino Gilardi (sostituito poi da Andrea Tavernier), Paolo Gaidano e Luigi Onetti, autore anche della prima serie di copertine.

L’orientamento era evidente: mentre negli USA il ben più consapevole ma analogo progetto di “Camera Work” si apriva alle opere delle avanguardie europee, in Italia il confronto era cercato con la consolidata e tranquillizzante produzione accademica e il compito di esprimere il programma della rivista era affidato ad un critico come Ercole Bonardi, che aprì con L’arte nella fotografia il primo numero, in cui era ospitato anche l’intervento del francese Léon Vidal, tra i personaggi più noti del panorama internazionale, il quale sosteneva però che “évidemment il n’ya qu’un art, et peut-être est-ce a tort qu’on a fait l’usage des mots photographie artistique”.

Il più cauto Bonardi preferiva invece attenersi al motto che “Ogni arte ha un campo a sé ed anche la fotografia ha naturalmente il suo. Ma (…) essa non deve solo preoccuparsi della esattezza della riproduzione, della sua finitezza in tutte le parti (…) anzi a questo qualche volta dovrà non badare, anzi ancora talora dovrà anche evitare la perfezione materiale e la esattissima riproduzione del soggetto, visto nelle condizioni più normali.” (citato in Costantini, 1990, pp. 150 – 151). Non si trattava d’altro che di una tarda ripresa della cosiddetta teoria del sacrificio[3], qui usata per liberare la fotografia dal soffocante abbraccio del vincolo documentario, evitando nel contempo quell’impraticabile confronto diretto con la pittura che l’adozione letterale delle posizioni di Vidal avrebbe comportato.

L’adolescente Bricarelli (era nato nel 1889)  non poteva non essere attratto e convinto da queste manifestazioni nel momento in cui si avvicina alla fotografia, lui che già allora vedeva in Guido Rey qualcosa di più di un maestro, un modello quasi.

Stupisce semmai la consapevolezza delle sue prime realizzazioni: il semplice apparecchio a lastre che gli venne donato quale premio per gli studi non fu utilizzato – come sarebbe stato lecito attendersi – solo per avviare una spensierata pratica di piccola fotografia familiare, quella che lo avrebbe portato, nella bella definizione di Nico Orengo, a divenire “un collezionista di momenti festosi”[4], ma a ricorrere alle figure ed alle occasioni che l’ambiente familiare alto borghese gli offriva quali spunti per misurarsi con le possibilità espressive del mezzo.

Nella migliore tradizione degli amateur torinesi, anche le sue prime stampe significative si riferiscono a soggetti montani, se non proprio alpini. Sono due riprese dell’inverno del 1908 già ben connotate per qualità compositiva e capacità di sfuggire ai pericoli del bozzettismo insiti nella scelta del soggetto (A32/26). Una di queste ci è giunta nell’originaria versione alla gomma bicromatata (SB0035), forse stampata dal giovane fotografo con la collaborazione di Carlo Moncalvo[5], in anni in cui i diversi processi ai pigmenti costituivano palestra di prova per l’intera comunità internazionale degli “artisti fotografi”, già allora pericolosamente disposti a confondere risorse tecniche e qualità espressive delle proprie immagini.[6]

In questo contesto vanno intese le “otto impressioni di paesaggi piemontesi” con cui Bricarelli partecipò all’Esposizione internazionale di fotografia artistica tenutasi a Torino in occasione delle celebrazioni per il Cinquantenario dell’Unità, una delle quali ebbe l’onore della pubblicazione ne “La Fotografia Artistica”, sola collaborazione[7] col prestigioso periodico torinese cui sempre preferì (forse su suggerimento di Rey, anche lui assente da quelle pagine) il più modesto “Corriere Fotografico” milanese[8] o il prestigioso “The Amateur Photographer” di Londra[9].

A giudicare dalle immagini pubblicate in quegli anni, e dalle stampe rimaste, risulta difficile collocare nello stesso arco di tempo, nello stesso momento di gusto il bellissimo Profilo nella folla (A14/02) ripreso a Torino nel novembre del 1910 (Bricarelli, 1976, p.16), quasi troppo modernista per quella data, ma tutti i primi due decenni della sua produzione sono segnati – come vedremo – da improvvise accelerazioni e ritorni, qui documentati da una bella serie di piccole stampe dedicate agli alberi (tema anche di un concorso de “Il Corriere Fotografico” nel gennaio del 1913) in cui l’adozione di differenti processi di stampa costituisce lo strumento e l’esito di un’attenta verifica di coerenza tra soluzioni tecniche e possibilità linguistiche, in un confronto coi modelli stilistici e compositivi dei maggiori autori della generazione precedente, come Guglielmo Oliaro e specialmente Cesare Schiaparelli.[10]

L’Esposizione del 1911 fu anche la prima occasione per Bricarelli di misurarsi con il ruolo di critico, avviando una pratica sistematica di riflessione che lo renderà una delle figure centrali della cultura fotografica italiana nella prima metà del ‘900. è  un testo tutto centrato – come la coeva serie sugli alberi – intorno al rapporto per lui decisivo in quegli anni delle valenze espressive dei diversi processi interpretativi di stampa.

Così se considerava i paesaggi  di Thèophile Mahèo “troppo poco fotografici, più acquarelli che fotografie”, non mancava di manifestare il proprio apprezzamento per le “gomme Höcheimer” di Oliaro [tecnicamente identiche alle proprie] e per quelle di Ludovico Pachò, ma soprattutto per le  “prove ottenute col processo agli inchiostri grassi, all’olio [di Biagio Barberis, che] possono ben convincere della assoluta superiorità di questo sopra tutti i sistemi artistici di stampa.” (Bricarelli, 1912, p. 1792 passim).

La collaborazione del neolaureato avvocato con “Il Corriere Fotografico”, avviata in quell’anno con la pubblicazione delle prime immagini e di questo testo proseguì costante negli anni successivi, e nel 1913 comparve  Istantanee artistiche di scene animate, corredato di tre sue fotografie: Nella via maestraScene d’accampamento e Processione in montagna (SB0056) già pubblicata come Procession au Village, in “The Amateur Photographer” del 1912.

L’articolo prendeva avvio dalla constatazione che in Italia la maggior parte dei dilettanti “che meritano veramente questo nome” non si dedicano alle “scene animate” sebbene “in nessun altro paese il pittoresco è stato sparso così a piene mani [e] non si conosce in niun altro luogo una vita così varia e pittoricamente interessante (…). Ma –  proseguiva Bricarelli – una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…) Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata.” Per “fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  [sottolineature dell’autore] di un quadro (…) Scelto rapidamente il motivo (…) occorrerà procedere ad una coraggiosa opera di selezione e di eliminazione. (…) In un istante, con gli elementi che avrà riconosciuto necessari ed opportuni, la mente costituirà, organizzerà per così dire, idealmente il quadro, determinandone il taglio, fissando l’importanza relativa delle masse, equilibrando il gioco delle luci e delle ombre; sarà allora di grande aiuto per fare immediatamente avvertire ogni squilibrio e ogni deficienza dell’insieme e porvi rimedio quel senso quasi istintivo della composizione, che molto si acquista osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative.”[11]

Questo scritto si presta a diverse considerazioni, a partire proprio dal fatto che qui si tratta per la prima volta dell’esplicita disamina critica di un “genere” astrattamente trattato e non (come per il 1911) del commento ad una serie di opere esposte, sino all’esplicitazione di alcune indicazioni di metodo; si pensi a quella necessità irrinunciabile “che il soggetto sia inconscio” che richiama in un contesto diverso ma non estraneo le indicazioni formulate nel 1883 dal neuropsichiatria e antropologo Enrico Morselli (188, p. 7), secondo cui “alle fotografie scientifiche [era necessario] aggiungere ancora quelle artistiche, prese cioè coll’atteggiamento naturale e libero degli individui ritratti”, ma anche a quella definizione di composizione “in un istante” che non può non essere letta come una prima formulazione, di metodo e di poetica, delle dichiarazioni bressoniane di quasi mezzo secolo più tarde. Non ultimo poi quel richiamo alla cultura visiva da costruirsi  “osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative” che andava ben oltre i tentativi nobilitanti del più provinciale pittorialismo per sostenere la necessità – vitale per i fotografi – di non confondere dilettantismo e approssimazione; quasi un’anticipazione programmatica di tutta l’attività di editore e promotore che vide impegnato Bricarelli nei decenni successivi.

Il 1911 segnò anche l’avvio della partecipazione ai concorsi settimanali di “The Amateur Photographer”, che quell’anno vinse con The House in the Snow, cioè La Reale Casa di Ricovero del 1908 (SB0035),  e Chevaux à l’aubrevage, entrambe pubblicate, mentre al London Salon of Photography del 1915 furono esposte  Church by Moonlight (307) e Pour nos soldats / Chiesa a Cesana[12], del 1914 (A14/20), che F.C. Tilney, 1915, p. 15, definì “very reminiscent of certain painted pictures but full of feeling and quality of its own (…). Its great merit is the perfect and natural gradation due to the concentrated illumination, and the culmination of this upon the cap of the chief figure, whose face and figure present also the strongest accent of dark. The group behind are also most happily treated. Doubtless there is much control in Pour nos soldats, but there is no aggressive sign of it, for naturalism has never been sacrificed in any particular.” E questo “naturalism” doveva necessariamente corrispondere a quella “verità d’atteggiamenti” còlti su cui convergevano Morselli e Bricarelli a tre decenni di distanza, quella stessa che lo avrebbe portato a non seguire le mise en scéne di Rey, di cui invece fornivano leziose versioni popolaresche autori a lui vicini come Achille Bologna o Raffaele Menocchio[13], privilegiando semmai le riprese d’ambiente, con paesaggi e architetture solo raramente animati, ancora resi con una varietà di tecniche e intonazioni che ben restituisce il gusto dell’epoca e le più ovvie influenze del coevo paesismo pittorico piemontese, penso in particolare a Cesare Maggi, che sarà negli anni successivi particolarmente vicino a Bricarelli e compagni, con le trame delle gomme bicromatate a rievocare in monocromo il segno divisionista, più precisamente assimilabile invece alla trama delle autocromie Lumière, che Bricarelli però non utilizzò mai.

Nel 1917 venne inviato sul fronte del Piave come sottotenente della 18a Compagnia IV Reggimento Pontieri. 400 delle 500 lire che costituivano l’indennità di mobilitazione le impiegò – come lui stesso ebbe modo più volte di raccontare –  per acquistare una Kodak 6×9 pieghevole con pellicola in rullo, apparecchio che utilizzò durante la guerra e “per più anni dopo il ritorno della pace.” È questo un passaggio che si rivelerà decisivo, un primo punto di non ritorno che porterà a concepire e realizzare fotografie con una maggiore libertà compositiva, staccandosi progressivamente dalle più rigide regole di derivazione ottocentesca[14].

Come faranno molti per la prima volta in quegli anni, in quei tragici giorni, anche Bricarelli costruì visivamente un proprio personale racconto della guerra, della propria esperienza, da affiancare (e contrapporre a volte) alla già massiccia documentazione propagandistica ufficiale, destinata a contrastare “le decine di migliaia di immagini che circolavano dal fronte verso il paese” (Della Volpe, 1980, p. 26), che veniva promossa dai Comandi supremi, ma anche dai più diversi Comitati, come quello proposto già nel giugno del 1915 dal fondatore e direttore del “Progresso fotografico” Rodolfo Namias, che intendeva raccogliere e organizzare scientificamente “il lavoro fotografico dei militari e specialmente ufficiali”, per dare fattivo esito all’invito pubblicitario comparso anche su numerosi periodici illustrati italiani allo scoppio del conflitto: “Ogni ufficiale e soldato/ dovrebbe provvedersi dell’apparecchio fotografico/ Vest Pocket Kodak/ dato il suo piccolo formato e minimo peso può essere comodamente portato in una tasca della divisa senz’alcun disturbo.”

Anche nel nostro caso le foto erano destinate quasi naturalmente a confluire in un album, uno dei modi possibili per affrontare il dramma di questa esperienza incommensurabile e altrimenti indicibile[15], se non con le forme stranianti della retorica. Anche per Bricarelli si sarà trattato di nutrire – come fece in più occasioni e quasi sino alla soglia ultima della vita sua – il culto della memoria e di organizzare il ricordo, ma quando ciò accadde assunse una forma inattesa, in cui l’intento diaristico si alternava e confondeva col racconto di storia.

L’album delle Foto dal fronte, composto in una data non precisata ma certo ben oltre la conclusione del conflitto, si presenta infatti di contenuto eterogeneo, con esercitazioni pittorialiste di greggi, ruderi di castelli e specchi d’acqua, quasi a dar forma all’opinione dell’amico Emilio Zanzi (1924, p. 10) che la guerra avesse trovato “nei fotografi più che i suoi cronisti, i suoi storici precisi e i suoi commentatori lirici.” In queste pagine però le più tarde riprese di taglio quasi fototuristico, pronte per i volumi regionali del Touring,  si alternano  drammaticamente  alle immagini di morte: due cadaveri rappresi sul campo che rievocano l’iconografia più nota della guerra civile americana (A4(19a – b); le notazioni di costume  si susseguono ai ricordi della vita militare nelle retrovie. Nulla di troppo diverso (se non per la qualità delle immagini) dal contenuto di altre centinaia di album privati se non fosse per le due pagine poste quasi a chiusura, dedicate all’esecuzione di Cesare Battisti e Fabio Filzi al castello del Buonconsiglio di Trento, il 12 luglio 1916. Non si tratta solo di testimonianze in sé preziosissime, essendo fotografie “tolte ad un prigioniero austriaco al suo passaggio sul nostro ponte di Salettuol [Maserada] appena aperto al transito”, ma – per noi, qui – dell’impaginazione di un vero e proprio servizio giornalistico in forma pressoché definitiva, con esaustive didascalie tratte dall’Enciclopedia Treccani e diligentemente battute a macchina: un bell’esempio di quello stretto rapporto documentario e narrativo tra immagine e testo che Bricarelli utilizzerà ampiamente lungo tutta la sua lunga carriera giornalistica ed editoriale.

“Col ritorno della pace avevo ripreso i rapporti con gli ambienti fotografici esteri, che tenevo da prima della guerra –  ricorderà alcuni decenni dopo (Bricarelli, 1979, p. 12) – specie con quelli inglesi, partecipando regolarmente al molto esclusivo «London Salon of Photography» e contribuendo a «Photograms of the Year»”, ma in queste prestigiose sedi, né altrove del resto, presenterà mai quella che è una delle sue più affascinanti serie di immagini, i bellissimi ritratti di Giovani fanciulle in fiore che compose lungo tutto l’arco degli anni 1913 –1922, scegliendo come modelle alcune delle più affascinanti giovani donne dell’alta società torinese. Sono ritratti a figura intera, pose attentamente studiate e quasi sempre realizzate in esterni, rese con stampe al bromuro variamente intonate ed a volte preziosamente impaginate in ovale, in cui Bricarelli rivela progressivamente e contemporaneamente le proprie capacità di restituzione psicologica e la propria idea di femminilità, di donna. Per questo la serie può essere letta anche nella forma del tema con variazioni,  ispirate alternativamente alle suggestive morbidezze tonali di Rey, come nel ritratto di Maria Fiorenza Margotti, (SB0010) o – precocemente –  al gioco quasi modernista delle ombre come elementi generatori della composizione fotografica come nel caso di Francesca San Pietro (SB0012), che diverrà il motivo caratterizzante del più tardo ritratto di Gabriella Fracassi, del 1940 (A14/12),  passando per citazioni più o meno letterali di autori tanto diversi quanto Constant Puyo (SB0011) e il torinese Oreste Bertieri, i cui ritratti di attrici erano sovente ospitati sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, per approdare – ormai nei primi anni Venti – con quello di Léonie Pallavicino di Priola  ad un’opera in cui la frontalità, appena contraddetta da un’attesa, dello sguardo della giovane donna così come l’insieme degli elementi che costituiscono il décor  rimanda un’eco di modelli casoratiani, tra la Silvana Cenni ed il coevo ritratto di Cesarina Gualino, per non dire della fotografia che lo stesso Casorati fece nel proprio studio a Mariuccia Gandini (Lamberti, 2000, p. 32). Ne esce complessivamente, oltre ad  un insieme di opere tra le più risolte di quella stagione della fotografia italiana, un ritratto di società cui ben si adatta il titolo proustiano scelto dall’autore, forse (ci piace pensare) guidato dalle suggestioni del breve saggio che nel 1925 Giacomo Debenedetti aveva dedicato allo scrittore francese a tre anni dalla morte, sulle pagine del gobettiano “Il Baretti”.[16]

Col 1920 la collaborazione con “Photograms of the Year” assunse maggior impegno e Bricarelli firmò per alcuni anni la breve panoramica dedicata alla Pictorial Photography in Italy . In questo primo contributo, fortemente programmatico, il giudizio negativo espresso sulla situazione italiana d’anteguerra, formulato senza neppure  degnare d’una citazione “La Fotografia Artistica”, appare finalizzato a valorizzare l’iniziativa di Angelo Guido Dell’Acqua, l’editore milanese de “Il Corriere Fotografico”  che all’inizio di quell’anno aveva avviato la pubblicazione del primo Annuario della Fotografia Artistica (con 36 foto di 27 autori): una rassegna organica che consentiva di definire e identificare il meglio della produzione nazionale e che costituirà l’antecedente diretto dei successivi annuari torinesi “Luci ed ombre”.

Per quello stesso numero di “Photograms” il curatore aveva selezionato una singolare immagine di Bricarelli, Reti e barche (A33/6), riconoscibile oggi come uno dei primi esiti compiuti della ricerca di nuove formule narrative, con le reti in primo piano a velare la percezione dello sfondo ma – anche – a consentire la costruzione di una forma grafica autonoma, di ridotto peso referenziale, sebbene allora fossero stati altri gli elementi che maggiormente avevano colpito pubblico e critica: “S. Bricarelli has an eye for the fantastic. – affermava Tilney (1920, p. 33) presentandola –  The curious veil made by the hanging nets amused everyone who, at the Salon, remarked Nets and Boats”.

Sono anni di costanti oscillazioni del gusto: abbandonate definitivamente le stampe alla gomma bicromatata ed ai pigmenti, il trattamento pittorialista si traduce nell’uso del flou, in quella messa fuori fuoco del soggetto che costituiva la più classica delle tecniche di distanziamento dall’incombente referenzialità documentaria della fotografia, sovente accompagnata da intenti esplicitamente simbolisti, come ne Il gorgo (A3/42), esposto a Torino nel 1925 al Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale[17], a proposito del quale due autorevoli commentatori noteranno poco più tardi che “qui il protagonista è il vuoto, anzi l’incubo, l’attrazione del vuoto, sul quale Bricarelli si è attentamente fissato”  (Bernardi, 1927, p. 14), un’immagine che genera  “uno stato inquieto di ansia quasi penosa” (Brezzo 1927, p. 203), mentre per In alto (SB0055)[18] lo stesso critico aveva parlato di “senso dell’abisso nel cielo, entro cui, dall’estrema spiaggia del mondo, lo spirito si lancia pauroso come in un mare senza confini.” (Brezzo 1926, p. 14)

Nel Comitato di quel Primo Salon, aperto nella città lacerata dalle lotte sociali ed ancora sotto l’incubo della strage fascista del dicembre ‘22, si ritrovavano, oltre a Bricarelli anche Carlo Baravalle e Achille Bologna, vale a dire il nucleo promotore di quel Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica[19] che era nato in seno alla Società Fotografica Subalpina nell’inverno del 1921 con l’esplicita intenzione di essere “a new factor in pictorial photography in  Italy, and one likely to exercise a happy influence upon its development.” (Bricarelli, 1922, p. 31). Come è noto ( Luci ed Ombre, 1987)  tra i primi atti del Gruppo vi fu l’acquisto e il trasferimento a Torino del “Il Corriere Fotografico”, cui Bricarelli collaborava ormai da più di un decennio, e la messa a punto del relativo annuario, per poter dimostrare “coll’evidenza degli occhi addirittura, che l’obiettivo, la lastra e le carte fotografiche, nell’offrire all’uomo i loro servigi regolati dalle leggi infallibili della natura, lasciano però ampio campo all’opera di lui, alla sua industria, allo studio del vero, all’apprezzamento del bello, in una parola alle sue facoltà di artista” (Bricarelli, Brezzo 1923), posizione che costituiva un implicito richiamo di condivisione delle teorie espresse da Enrico Thovez in un breve testo del 1898, non a caso parzialmente riedito sullo stesso annuario nel 1926[20], a partire dalla consapevolezza che “in realtà la fotografia è tutt’altro che una fedele immagine del vero.”

Quando, nella presentare il secondo annuario Emilio Zanzi (1924, p. 17) si assunse il compito di commentare le immagini di Bricarelli ne riconobbe il ruolo innovatore di  “squisito interprete della realtà luminosa, liberata d’ogni elemento superfluo. Semplificatore e sintetista (…) cerca sempre di non tradire, coll’artificio di corrusche bengalerie da laboratorio, la luce solare che dà vita al creato.”  Anche un altro critico torinese nel recensire le sue opere presentate al Primo Salon aveva notato: “Altra tempra [rispetto a Schiaparelli], altra qualità di temi, altro metodo d’inquadratura e di diversa ricerca di effetti luminosi in Stefano Bricarelli; sul vetro smerigliato della sua reflex non si arrestano che motivi in cui vinca l’austerità di poche linee e la forza contrastante di larghe ali di luce, contro masse profonde di ombre; pochi sentono la sintesi di un tema come lui: c’è un suo bromuro in cui  non senti che l’ansa larga d’una strada valdostana, un fresco biondeggiar di grano, due ombrati fusti di pioppi; tutto qui, soffuso d’una larga ala di luce, fresco di vento che scende colla Dora dalle rocce di Prè-Saint Didier.” (Angeloni, 1925a, p.  68).

Al di là di un’ancora superficiale revisione della terminologia adottata, con quel ricorso comune al concetto di  “sintesi” come valore discriminante della  nuova cultura visiva modernista, l’insistere dei due interventi sul trattamento degli effetti luminosi lasciava emergere una sostanziale incomprensione dei più specifici problemi posti da quella nuova visione che andava prendendo forma nelle coeve ricerche europee, riflettendo di fatto le stesse incertezze di orientamento della migliore cultura fotografica italiana di quegli anni, Bricarelli compreso.

Erano tensioni ancora non risolte, messe a punto non ancora definite che si mescolavano, che si affiancavano alle ultime prove di esausto pittorialismo. Poiché Bricarelli, come altri della sua generazione non aveva mai del tutto rinunciato alla pratica della fotografia che altrove si sarebbe detta diretta e che qui era – più semplicemente – la prosecuzione della consolidata e autorevole tradizione piemontese della fotografia alpina: da Vittorio Sella ancora a Rey. Risulta così meglio comprensibile la data di realizzazione di un’immagine come Tramonto sulla Valle dell’Arc (A3/133) che è del 1908 – 1909, con l’inserimento elegantissimo e nuovo, al primo piano, dell’artificialità del palo telegrafico a tagliare la maestosa e altrimenti convenzionale veduta, mentre altre immagini di neve e sciatori – ormai negli anni Trenta – risultano così puntualmente assimilabili  a quelle di altri fotografi di quegli anni – penso ad Ettore Santi, ai fratelli Pedrotti ma soprattutto a Cesare Giulio – da risultare quasi coincidenti, da consentirci di parlare, di provare almeno a dire della figura di un autore che era collettivo, che elaborava infinite variazioni sul tema, muovendosi incerto e lieve, senza sforzo apparente nel tentativo di scrollarsi di dosso il peso della referenzialità fotografica.[21] Un autore che si dedicava alla realizzazione di immagini in cui lo scenario naturale  potesse funzionare come un pre-testo, un materiale da elaborare per realizzare fotografie di cui negli esiti migliori la critica coeva coerentemente riconosceva l’estraneità al genere del “paesaggio” se questo doveva essere inteso come  “una rappresentazione pittorica – o fotografica – di carattere eminentemente descrittivo e totalitario, nella quale l’insieme domini sul particolare [e] le figure – se figure vi sono – abbiano funzione complementare (…) l’architettura e in genere l’opera dell’uomo siano assoggettate dall’impero incontrastato della natura (…). Non sono paesaggi né le nevi dell’Oneglio e del Giulio né i particolari luministici del Baravalle” (Bernardi, 1927, pp.  10-11), così come per Bricarelli non lo sarebbero state le lievi, bellissime Tracce[22] sulla neve presentate nel 1932 al London Salon of Photography e pubblicate in “Luci ed Ombre” dello stesso anno, insieme a Parigi Grand Palais 1931 (A33/15).

Quando i temi sono diversi il percorso di allontanamento dalle convenzioni pittorialiste è ancora incerto sebbene irreversibile, come sembra significare anche la caduta – dal 1924 – dell’aggettivo “pictorial” nel titolo della consueta sintesi sullo stato della fotografia in Italia che Bricarelli redigeva per “Photograms of the Year”. Così se le cataste di legna[23] (SB0061) fotografate nel 1923 non portano ancora traccia alcuna del trattamento formale che ad un tema analogo sarebbe stato riservato in ambito Bauhaus, il lavoro insistito sul tema delle Vele (A33/5, SB0053) solo di poco più tardo, indica l’esigenza e il progressivo emergere di soluzioni nuove. La novità nella resa del soggetto, dove la fascinazione per la plastica maestosità delle forme rigidamente ingabbiata dai bordi dell’inquadratura convive con precise possibilità descrittive, venne immediatamente riconosciuta  da un critico vicino a  Bricarelli come Guido Lorenzo Brezzo (1931 p.  13) che ne parlava come di “un quadro in cui l’elemento scenografico novissimo incarna con tanta perfezione ed aderenza l’elemento immutato che l’opera potrebbe figurare in qualsiasi ardita mostra d’avanguardia, ed essere insieme usata a dimostrare le leggi della composizione nel più conservatore dei trattati”. A questi faceva eco il critico de “Il Corriere Fotografico”, che – a proposito della stessa fotografia – modernamente individuava la sequenza complessiva dell’atto fotografico quale elemento generatore della qualità dell’immagine:  “Anche nei soggetti più umili e comuni il fotografo torinese sa trovare motivo di grandezza. Il senso delle dimensioni è da lui magnificato con un’accorta disposizione dell’obiettivo nell’atto di presa e col taglio sapiente della prova fotografica. E tutto ciò è eminentemente moderno e suggestivo.” (De Albroit, 1931)

Fu proprio l’accorta e consapevole scelta dell’inquadratura che consentì la realizzazione, per molti versi inattesa, di quella che rimane una delle più note fotografie di Bricarelli, quella Rampa elicoidale alla Fiat (A13/72) che fu pubblicata sulle pagine di “Motor Italia” nel dicembre del 1927, lo stesso anno in cui – tra maggio e ottobre – aveva presentato alla Terza Mostra internazionale delle arti decorative di Monza Nei prati di Coumayeur (A32/29), esempio estremo di paesaggio pittorialista, in cui l’estenuazione del flou e della gamma tonale portavano quasi alla smaterializzazione del soggetto, svaporato come in una fata morgana. Nel servizio per “Motor Italia”, da lui fondata con un piccolo gruppo di soci nel novembre dell’anno precedente, gli esiti non avrebbero potuto essere più diversi, ma soprattutto le intenzioni. Qui, come sempre più di frequente accadrà nei decenni successivi, Bricarelli abbandonava ogni intenzione semplicemente “artistica”, rinunciava all’autonomia salonistica  delle singole immagini preferendo operare per serie, così come richiedeva la destinazione della carta stampata.  Era un’idea di fotogiornalismo in cui l’accuratezza descrittiva era destinata a tradursi in immagini formalmente risolte, comunicativamente efficaci.

Il servizio fotografico dedicato alla FIAT Automobili – Via Nizza, 250 – Torino (così recita il titolo dell’articolo) venne pubblicato a corredo del testo poi notissimo di Edoardo Persico, e non si può escludere che le suggestioni del giovane critico napoletano avessero contribuito al radicale mutamento di registro espressivo evidente in queste immagini, nonostante le note difficoltà di rapporti tra i due e la profonda disistima di Bricarelli[24].

Il testo di Persico offriva del Lingotto una lettura fortemente simbolica, ai limiti del misticismo; interpretava questa architettura come un percorso iniziatico: “le officine della Fiat innalzano la logica della loro architettura (…) da cui nasce un’impressione di bellezza per l’identità della cosa con la sua funzione (…) dove le combinazioni delle rette con le curve hanno sistemato un attimo dell’eternità. (…) Due strade ascendono a questo luogo di concentrazioni interiori, e lo reggono, invisibili, come un fatto spirituale. (…) Queste due eliche hanno un significato di obbedienza. (…) Queste due eliche sono veramente un modo della libertà umana. (…) L’obbedienza trova in alto, verso il cielo, la sua strada inevitabile, e ne ritorna santificata.” Come ha rilevato Angelo d’Orsi[25] il testo di Persico “coglie in qualche modo il significato ideologico dell’architettura [e] la disvela. Il Lingotto non era che il volto stesso del potere dell’uomo sull’uomo; la logica severa della sua linea architettonica esprimeva la logica stessa del potere”, mentre le immagini di Bricarelli sembrano coglierne più specificamente il derivato fascino razionalista, quella “bellezza per l’identità della cosa con la sua funzione (…) dove le combinazioni delle rette con le curve hanno sistemato un attimo dell’eternità.”

Le fotografie che ne risultarono, specialmente la Rampa elicoidale poi ripubblicata ne “Il Corriere Fotografico” ed in “Luci ed Ombre” del 1929 (t. VIII) costituivano una novità assoluta e disagevole per l’abituale lessico dei lettori della rivista, tanto da indurre Guido Lorenzo Brezzo (1929, pp. 778-779) a fornirne esplicite istruzioni per l’uso: “Una prima occhiata (…) può far credere che Stefano Bricarelli si sia dato al futurismo: ed abbia voluto semplicemente presentare un pattern strambo ed insolito. Ora questo nel quadro c’è certamente, ma c’è anche qualcosa di più, che lo giustifica e lo toglie dalla categoria delle cose che «piacciono per cinque minuti». Il lettore sostenga il libro in posizione orizzontale con le braccia tese in alto e  un po’ in avanti, e guardi la tavola rovesciando la testa indietro. Vedrà allora quale magnifico problema di prospettiva verticale l’autore si sia imposto e come magistralmente l’abbia risolto.” [26]

Credo sia sufficiente richiamare questa ricetta spicciola di ginnastica percettiva e intellettiva per intuire quale ne fosse la difficoltà di comprensione; meglio: quale diffidenza e disturbo ingenerasse una simile opera nelle tranquille e provinciali acque della cultura fotografica italiana e torinese di quegli anni, ormai alle soglie della consacrazione e divulgazione delle profonde revisioni imposte dalla nuova visione centroeuropea che si sarebbe attuata con l’esposizione Film und Foto di Stoccarda, nello stesso 1929.

Fu necessaria la più aggiornata e lucida consapevolezza di Antonio Boggeri per ribaltarne radicalmente l’interpretazione all’interno di una più complessiva riflessione sulla “Fotografia moderna”: nel Commento che apriva l’annuario di quell’anno identificava proprio in Una rampa elicoidale alla Fiat e nei Vasi di Achille Bologna “le due opere che si possono considerare i capisaldi di questa raccolta” e concludeva: “Se i nostri concetti enunciati sul principio hanno bisogno di esempi, vorremmo che soprattutto su di questi il lettore soffermasse l’attenzione. Nel primo, quel nuovo spirito di ricerca, quel rispetto delle leggi fondamentali della fotografia, quell’equilibrio fra concetto e estetica, tra l’eleganza del particolare e la serietà della composizione, creano un vero modello di questa scuola.” (Boggeri, 1929b, p. 16)

La battaglia del modernismo non poteva però ancora dirsi vinta se a proposito di Riva di San Fruttuoso (variante di stampa di SB0040)  si parlava ancora, sulle pagine de “Il Corriere Fotografico”, di  “fotografia documentaria [che] assurge a valore di quadro per una meravigliosa resa di piani” (De Albroit, 1930), mentre un critico come Italo Mario Angeloni notava più in generale che “la composizione è dettata non solo dalla natura delle cose e dall’anima del disegnatore, ma sì anche da un evidente signorile insegnamento dell’arte pittorica nazionale e più particolarmente di quella scuola che ha in Piemonte i suoi maestri negli Avondo, nei Bertea, nei Fontanesi, nei Follini.”[27]

Questi richiami non dovevano certo dispiacere ai membri del rinnovato Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica che proprio ad un pittore come Cesare Maggi, autore di paesaggi innevati che vivevano delle stesse suggestioni delle autocromie, avevano affidato la “fraterna cura” della sala in cui erano comprese le loro opere in occasione delle II Mostra del Fotogruppo Alpino[28] del CAI nel maggio 1927, ed a cui affideranno nel gennaio dell’anno successivo quella della loro Prima Mostra d’arte fotografica, condivisa con  i critici dei due maggiori quotidiani locali Marziano Bernardi (“La Stampa”) ed Emilio Zanzi (“La Gazzetta del Popolo”); mostra in cui oltre alle opere dei ventuno membri del gruppo erano presentate le personali di tre notissimi autori stranieri di scuola pittorialista: Marcus Adams, Leonard Misonne e José Hortiz-Hechagüe.

Dopo l’attivismo dei primi anni, segnato dalla redazione della rivista e del suo annuario come dalla partecipazione a tutte le più importanti manifestazioni espositive torinesi,  il Gruppo doveva aver perso di compattezza se col gennaio del 1927 aveva sentito la necessità di riconsiderare il proprio ruolo e la propria identità con una “più definita ed intensa attività [ricostituendosi], all’occorrenza, su nuove basi (…) seguendo l’azione dei gruppi di «pictorialists» inglesi ed americani, secondo concetti tecnici ed estetici ben chiari e definiti.” [29]

Proprio quest’ultimo richiamo programmatico sembra indicare uno stato di crisi, l’emergere di contraddizioni espressive che cercavano una verifica proprio nella Prima mostra del 1928, ma anche la necessità di dotarsi di strutture più adeguate al confronto con una scena fotografica in profonda mutazione, anche organizzativa, segnata dalla nascita di nuove strutture associative[30] sorte tra i lavoratori della grande industria, come il DAS (Dopolavoro Aziendale Sip) nel 1928 e il gruppo del Dopolavoro FIAT (1929), e  – non ultima – dalla forte attrazione ideologica esercitata dall’Istituto fascista di cultura.

Nel maggio del 1929 Carlo Baravalle, prossimo ad assumere la Direzione generale della Tensi, casa milanese di prodotti fotografici, lasciava opportunamente la direzione della rivista “desideroso di mantenere al  «Corriere Fotografico» il suo carattere di indipendenza da qualunque interesse diretto o indiretto”, ma questa dichiarazione di autonomia non contemplava un’analoga distanza dall’ideologia e dalla politica culturale del regime. Nel 1926 e 1927 gli annuari si erano aperti con due omaggi sabaudi, rispettivamente i ritratti di Ajmone di Savoia Aosta e di Umberto Principe di Piemonte, ma la prima tavola del 1927 riproduceva il ritratto di Benito Mussolini fatto da Eva Barret. Non solo:  i più autorevoli interventi critici, specialmente sulla rivista, erano affidati a figure come Emilio Zanzi, che fu tra i partecipanti al IV Congresso degli intellettuali fascisti del 1926, redattore di testate apertamente schierate come la  “Gazzetta del Popolo”,  diretta da Maffio Maffi che sarà capo Ufficio Stampa del Governo quindi da  Ermanno Amicucci, segretario del sindacato nazionale fascista dei giornalisti, ed il “Il Momento”, giornale cattolico filogovernativo dalle cui fila proveniva anche  Angeloni,  autore nell’ottobre del 1934 di un editoriale de “Il Corriere Fotografico” dall’esplicito titolo Sotto il segno del Littorio, in cui esaltava la funzione politico propagandistica della fotografia, che “ci comunica la Storia in azione nel giro di pochi secondi.” (in Reteuna, 2002, p. 22) Certo si trattava di ribadire la propria adesione, di più, la propria condivisione della politica culturale del regime forse anche allo scopo di arginare la presenza ingombrante del nuovo periodico fotografico che si pubblicava a Torino dal luglio del 1933. L’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, aveva infatti aperto con un editoriale in cui si definiva la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire”, quella stessa che  Luigi Andreis poco oltre  definiva “serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale. (…) Creare il clima, ritornare alla nobile e meravigliosa tradizione artistica italiana, interrotta sulla fine del secolo scorso dal trionfo del cattivo gusto borghese, anche attraverso a sconvolgimenti ed a travagli interni nell’animo dell’artista, intensi e talvolta dolorosi: fu il compito iniziale del fuoco vivificatore del fascismo. Così attraverso il ‘900, il futurismo, ecc. vennero fuori la poesia del motore, nuovo e meraviglioso per la sua sagoma audace e per  il suo ritmo sonoro, forte ed ardimentoso; il severo e rapido passo della vita nuova; la sinfonia della sanità morale; il canto della Roma dei Cesari.” (Andreis, 1933, p.  10)

La fotografia d’autore usciva dall’ambiente chiuso e ormai stantio dei Salon e si riconosceva un ruolo e un compito sociale e quindi politico, in linea con le direttive del regime e con l’uso efficace e spregiudicato che questo faceva di ogni forma di comunicazione di massa. “Documentare con la fotografia le realizzazioni della civiltà fascista che è la nostra civiltà” doveva essere l’imperativo di ogni fotografo moderno, “esaltarne l’infinita bellezza mediante la scelta felice delle immagini aderenti al nostro spirito (…) ecco la missione di cui è investito ogni fotografo italiano che della fotografia voglia fare, oltreché un diletto artistico per il proprio spirito, anche uno  strumento di educazione nazionale attraverso la glorificazione estetica dell’eccezionale periodo storico in cui abbiamo la fortuna di operare.” (Bellavista, 1934, p. 15)

Da qui anche  l’ampia attenzione per la vita fotografica nella Germania hitleriana dedicata da “Il Corriere Fotografico”  sottolineando ad esempio come “il Governo di Hitler sino dal suo avvento al potere si è valso della fotografia come mezzo di propaganda. Il volumetto [Willy Stiewe, Foto und Volk, 1933]  rispecchia assai bene questo nuovo spirito «nazionale» della fotografia tedesca. (…) Ecco un’opera che deve far meditare noi italiani: perché non seguiamo – almeno nel campo della fotografia – l’esempio che ci viene dalla risorta Germania, e magari cercare di far meglio?”[31]

Ancora Angeloni, nel già citato editoriale del 1934 ribadiva che “la stampa periodica politica e tecnica – della quale ultima il Corriere Fotografico si onora di far parte – i libri, la radio, la fotografia, la cinematografia sono tutti dei magnifici mezzi di propaganda, di lotta, di difesa e diffusione delle nuove idee e di conoscenza dei fatti realizzati. Tutti questi mezzi acquistano poi maggiore efficacia quando essi vengono raggruppati in un sol fascio di energie volte ad un unico fine e dirette da una chiara mente che sia sicura e fedele interprete della volontà e dei pensieri del Capo, del Duce.” (in Miraglia, 2001, p. 19)

In questo contesto va compresa l’ulteriore trasformazione del linguaggio fotografico e dell’attività di Bricarelli, che procedeva nel proprio personale percorso di revisione espressiva tanto da essere accolto sulle pagine di “Modern Photography”, il prestigioso annuario pubblicato dalla rivista londinese “The Studio” nel 1931, insieme ad autori come Herbert Bayer,  André Kertesz, Germaine Krull, Man Ray, Lazlo Moholy-Nagy ed altri.[32] Sono di questi anni alcune importanti immagini precisamente riferibili alla svolta modernista, come Nella cupola del parigino Gran Palais, 1931 (A33/15)  e Dal “Rex” nel porto di Genova, 1933 (A32/1), ma anche l’estensione della propria attività, seppure in modo apparentemente discontinuo, alla cinematografia documentaria[33]. Soprattutto però caratterizza questo periodo l’ulteriore e definitivo cambio di attrezzatura fotografica, col passaggio al piccolo formato e l’acquisto del primo apparecchio Leica, modello “C” a telemetro con obiettivi intercambiabili, di cui fu uno dei primi utilizzatori italiani.

L’adozione di questo nuovo strumento, con tutto quanto ciò doveva implicare i termini di modi operativi ed espressivi portò al definitivo abbandono dei residui stilemi pittorialisti spingendolo verso quella progressiva opera di “semplificazione” dell’immagine che era il concetto chiave intorno a cui ruotavano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni.

Se ne rese immediatamente conto Alberto Rossi che nel commento alle tavole di “Luci ed Ombre” del 1933 riconosceva che “fotografie come quelle di Bricarelli, di Pokorny, di Bologna, di Cesare Giulio, di Carlo Baravalle, di Guglielmo Alberti, mostravano come anche presso di noi un gusto europeo, vigile e avvertito, si stesse diffondendo anche nel mondo fotografico. Ora, in questa raccolta, lo stacco è ancor più deciso, la volontà di fare con la fotografia un’arte di pura rappresentazione impersonale, un’arte oggettiva, appare ancor più evidente [e] questa volta Bricarelli, che di solito si compiace di composizioni audaci e di angolazioni modernissime, ha avuto la civetteria di presentarsi con una fotografia estremamente tranquilla, di soggetto e di taglio, [Neve sui tetti /Hiver à Planpincieux, A32/19] come per far risaltare le sue qualità di puro fotografo.” (Rossi, 1933, p. XIV passim)

L’impegno di Bricarelli con il nuovo strumento divenne immediatamente esclusivo e verificato in importanti confronti quali il Concorso nazionale Leica indetto dall’Associazione fotografica Ligure nel 1935 (con Namias, Bologna e Andreis nella giuria) di cui vinse il primo premio nella categoria “A (opere e manifestazioni di regime)”, mentre la sua attività fotogiornalistica si estendeva alla moda, con collaborazioni diverse che andavano dal torinese “Bellezza” diretto da Lucio Ridenti, a “Donna” e  al “Secolo XX”, mostrando significative ricadute stilistiche anche sulla più riservata ritrattistica familiare, come mostra bene il doppio ritratto della moglie Gina con un’amica, riprese al Sestrière nel 1936 (SB0023).

Di ben maggiore fortuna e rilievo fu però il Concours de la meilleure Bobine Touristique Leica 1935 indetto dalla parigina Tiranty[34], che Bricarelli vinse guadagnandosi l’opportunità di un viaggio negli Stati Uniti a bordo del Normandie.

L’avventura americana è stata da lui stesso ampiamente ricostruita molti anni più tardi  in due gustosi ed esaustivi articoli (Bricarelli, 1975a,b) basati sulle annotazioni di un suo piccolo carnet di viaggio e costantemente richiamata da tutta la letteratura critica più recente. Durante quel viaggio, il 17 settembre 1936 incontrò a New York il grafico Paolo Garretto (Napoli 1903 – Montecarlo 1989) che lo presentò all’Agenzia fotografica Daniel, tramite delle collaborazioni con prestigiose testate americane quali “Harper’s Bazar” e “Ladies Home Journal”, per le quali realizzò intensi ritratti di giovani nobildonne italiane (A3/19, A4/12), ideale prosecuzione della serie delle Giovani fanciulle in fiore.   “Per varie ragioni” non poté accettare l’incarico di un reportage in Cecoslovacchia da parte del “National Geographic Magazine”, ma il contatto più prestigioso fu quello con la neonata  “Life”, che dopo avergli pubblicato a piena pagina in uno dei suoi primissimi numeri la notissima immagine delle Niagara Falls (A32/22), gli commissionò un reportage su Mussolini a Palazzo Venezia[35], poi realizzato il 16 gennaio del 1938 ed efficacemente risolto da Bricarelli  con una “concezione libera e moderna” (Miraglia, 2001, p. 21) che richiamava il primo notissimo modello dell’analogo servizio realizzato da Felix H. Man nel 1931 per la “Münchner Illustrierte Presse”.

L’esito non fu però apprezzato dal Duce, che di tutte approvò una sola immagine (SB0049), ma quell’incontro fruttò comunque a Bricarelli un periodo di assidua collaborazione con la “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, che utilizzò sue fotografie sia per il numero speciale della rivista dedicato alla visita italiana di Hitler, che Bricarelli fotograferà ancora al salone di Berlino dell’anno successivo[36],  sia nel giugno 1939 per celebrare la visita del  “Duce a Torino sabauda e fascistissima”, con bellissime immagini notturne di architetture torinesi, che si aggiungevano ad un repertorio tanto interessante quanto poco noto che in quel ristretto numero di anni avrebbe compreso anche le fotografie realizzate per documentare la Mostra dell’Autarchia di Torino e la Mostra Autarchica del Minerale Italiano di Roma.[37]

Il processo di aggiornamento avviato dieci anni prima con le riprese del Lingotto e definitivamente sottoposto a verifica nel corso del viaggio negli Stati Uniti era così compiuto: in queste immagini l’uso sapiente dell’illuminazione artificiale delle riprese notturne o in interni si coniugava con i più aggiornati e dinamici schemi compositivi, ormai ampiamente acquisiti e diffusi in una fase della vita nazionale in cui la pratica del consenso si sviluppava oltre che  con metodi coercitivi e violenti anche con un uso accorto e spregiudicato dei mezzi di comunicazione, non ultimo il massiccio ricorso ad enormi fotomosaici e fotomurali nell’allestimento delle grandi esposizioni, a partire da quella celebrativa del decennale della marcia su Roma, nel 1932. A testimonianza di un interesse non ancora condizionato dalla prospettiva bellica, anche la mussoliniana  “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” aveva pubblicato alcune delle sue bellissime fotografie del viaggio americano nel numero dell’ottobre 1938, a corredo di un articolo intitolato  Dollari, grattacieli, capogiri , ed altre erano state utilizzate nel 1940 sul mondadoriano “Tempo” a corredo dell’articolo Sbarcando a Nuova York (Zupàn, 1940), ma alcune di queste avevano già avuto la loro anteprima italiana al V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti che si era tenuto a Torino dal 29 maggio al 20 giugno 1937, aperto al Circolo  degli Artisti sotto la presidenza di Cesare De Vecchi di Val Cismon, già ministro dell’Educazione Nazionale. Qui Bricarelli aveva esposto, oltre ad un’immagine del Palazzo delle Poste di Napoli, le Niagara Falls, passate quasi inosservate e una ripresa dell’R.C.A. Building che Luigi  Andreis (1937, p. 10) aveva giudicato “modernissimo taglio di un grattacielo.”[38]

Con lo scoppio della guerra l’attività de “Il Corriere Fotografico” si fece difficile nonostante il sostegno economico – sotto forma di introiti pubblicitari – della Ferrania, che aveva nel frattempo acquisito anche il marchio Tensi e  dal 1935  era passata sotto il controllo dell’IFI, la finanziaria della famiglia Agnelli.

Nelle ristrettezze della guerra incombente e poi avviata e con un numero di pagine sempre più ridotto la testata dedicava i propri articoli quasi esclusivamente ad argomenti di carattere tecnico, e in particolare prestava la più costante attenzione all’ Avvenire e problemi della fotografia a colori, riflettendo così – quasi senza parere – uno dei maggiori sforzi prebellici nel settore fotografico, quello che aveva portato al confronto duro tra la statunitense Kodak (Kodachrome, 1935) e la tedesca Agfa, che commercializzò la pellicola per diapositive Agfacolor nel 1936, la sola disponibile in Italia sino al 1942- 43, quando dagli stabilimenti liguri uscirono le prime pellicole Ferraniacolor.

Le limitazioni imposte in regime di guerra portarono alla chiusura temporanea della testata, di cui all’inizio del 1944 era mutato anche l’assetto proprietario: la quota spettante ad Achille Bologna era stata infatti ceduta il 20 gennaio del 1944 ai coniugi Bricarelli, per passare venti giorni più tardi a Mario Carafòli “compresa la rivista al presente sospesa per disposizione del Ministero della Cultura Popolare”, i libri editi e gli arredi per un totale di Lire 40.000.[39]

Restava “Motor Italia” di cui Bricarelli conservava la direzione e la responsabilità quasi esclusiva della redazione e per la quale continuava a realizzare servizi fotografici sia di specifico carattere tecnico sia di informazione turistica e di varia cultura. Tra questi, a guerra ormai conclusa, anche il reportage dedicato a Bernard Berenson, fotografato nel 1947 ai Tatti, in compagnia di Clotilde Marghieri e di Guglielmo Alberti, amico di lunga data di Bricarelli, scrittore e assistente alla regia di Mario Soldati per Malombra, 1940, ma anche autore di interessanti fotografie pubblicate in “Luci ed Ombre” dal 1932 al 1934.[40]

Le immagini mostrano chiaramente quale fosse il suo modo di operare, descrivendo il personaggio attraverso una serie di riprese che lo colgono in momenti e luoghi diversi della sua giornata: dal giardino alle belle sale impreziosite di capolavori, in conversazione coi propri ospiti o solo a riposare sulla grande poltrona; la sequenza si chiudeva con il bel ritratto in primo piano (SB0091), col massimo punto di avvicinamento al soggetto, il centro del movimento di una spirale centripeta: un’immagine che ricorda per certi versi il ritratto che Henri Cartier-Bresson fece a Matisse, a Vence, nel 1944.

“Dopo quasi dieci anni di silenzio, sospesa prima dalle restrizioni della guerra e poi ostacolato dalle difficoltà post belliche” “Il Corriere Fotografico” riprese le pubblicazioni all’inizio del 1952, mentre Bricarelli estendeva la propria rete di collaborazioni ad altre testate come “Bellezze d’Italia” [41], con una ricca produzione di immagini di buon  livello prevalentemente dedicate a temi turistici,  a volte pubblicate con varianti anche su “Motor Italia”. Suggestioni della più diversa provenienza, dai grafismi di gusto Bauhaus alle forme più mature di composizione derivate dal pittoricismo, erano di volta in volta poste al servizio della risoluzione più efficace e formalmente soddisfacente del soggetto, analogamente a quanto accadeva negli stessi anni per un altro prolifico autore di poco più giovane come Bruno Stefani (1901 – 1978), collaboratore di lunga data del TCI per quella collana “Attraverso l’Italia” (cui contribuì anche Bricarelli) che tra il 1931 ed il 1955 aveva ridefinito  l’immagine del Belpaese pubblicando un repertorio di circa 10.500 immagini, distribuite in ventuno volumi.

Sebbene col 1954 Bricarelli fosse divenuto proprietario unico de “Il Corriere Fotografico”[42] la sua presenza sulle pagine della rivista era diminuita mentre lo stesso ruolo della rivista risultava progressivamente marginale in un contesto in cui, nonostante la presenza di Carlo Mollino, il “laboratorio” torinese aveva ormai perduto il proprio primato fotografico a favore del polo milanese, segnato anche dalla presenza di “Ferrania”, rivista che sin dai primi numeri era divenuta la sede privilegiata di confronto e dibattito dell’ultima generazione di fotografi che si stava affacciando sulla scena.

I primi evidenti segnali di questa mutata situazione si erano avuti già nel 1943. In quella che si definiva Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, curata da Ermanno F. Scopinich per l’Editoriale Domus in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner, Domenico Riccardo Peretti Griva era stato il solo rappresentante noto dei torinesi, cui anzi sembravano indirizzarsi gli strali più polemici di Scopinich e – ancor prima, nel 1941 –  di Alberto Lattuada[43]. Il volume, uscito a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di “Luci ed Ombre” (1934) – che ne costituiva di fatto il più autorevole precedente editoriale (ma non estetico) – rappresentava pur tra palesi contraddizioni la sintesi del dibattito italiano e della più generale svolta modernista, timidamente avviati proprio dal “Corriere Fotografico” ma poi proseguiti e affinati sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, e specialmente col contributo fondamentale delle riviste milanesi  dell’editore Gianni Mazzocchi. Neppure Carlo Mollino, che pure era stato gratificato di una copertina in uno degli ultimi numeri de “Il Corriere Fotografico”[44] d’anteguerra e doveva seguire con particolare passione un periodico tecnico come “Motor Italia”, si ricordò di Bricarelli nel suo Messaggio dalla camera oscura (1949), che pure ospitava Peretti Griva. La sospensione delle pubblicazioni della rivista per circa un decennio non pare sufficiente a giustificare un tale silenzio, quasi un ostracismo, ma è innegabile che la linea espressa dalla nuova serie del periodico si collocava ormai su posizioni esplicitamente conservatrici, sebbene arricchita da un’innovativa serie di articoli pionieristicamente dedicati a temi di storia della fotografia[45].

A restituire il clima basti qui citare a titolo esemplificativo il sarcasmo con cui  Maurizio Nèvola recensiva su quelle pagine la “Mostra della fotografia italiana 1953”, organizzata alla Galleria Vigna Nuova di Firenze da Giuseppe Cavalli,  giudicato uno che “per fare una foto, [“di una povertà desolante”] prima consulta il fotometro e poi Benedetto Croce”, per procedere poi a distribuire equamente i propri strali anche verso l’altro grande protagonista della nuova fotografia italiana, Paolo Monti, duramente attaccato per aver  “combinato – l’avreste mai creduto? – un «Fotogramma», cioè uno di quei vecchi giochetti talvolta gustosi, che però bisogna lasciar fare a Luigi Veronesi. Ha presentato il solito foglio nero, con le solite due o tre foglie d’albero macerate, e attorno dei pezzettini di materiale indefinibile disposti alla rinfusa. «Monti, sia buono, non ci dia più di questi dispiaceri».” (Nèvola, 1953)  Di tono non diverso appariva poi un successivo intervento di Guido Pellegrini, presidente del Circolo Fotografico Milanese,  in cui si individuava nel motto “Natura meno bellezza eguale astrattismo!” la formula magica della nuova fotografia soggettiva. (Pellegrini, 1954)

In questo clima conflittuale si collocava anche la poco entusiasta segnalazione del numero monografico di “Camera” dell’aprile 1956 dedicato all’Italia, dove erano riprodotte fuori testo “16 opere, alcune piuttosto discutibili, ma nella maggioranza assai belle” dovute ad un selezionato gruppo di autori della nuova generazione (con l’eccezione di Balocchi), tra i quali spiccava Fulvio Roiter, cui il prestigioso periodico svizzero dedicava anche la copertina, ed autore anche di uno dei due articoli di commento, essendo l’altro di Italo Zannier.

È proprio verso le opinioni espresse in quegli scritti che Bricarelli esprimeva tutto il suo disaccordo, specialmente quando sostenevano le qualità e i meriti del professionismo contro l’atteggiamento dilettantistico[46] degli amateur nostrani, “che concepiscono la fotografia come un «hobby», un passatempo che occupa le ore libere della settimana” (Roiter in Bricarelli, 1956a), attaccando conseguentemente, ma anche strumentalmente, il ruolo dei circoli fotografici  italiani per concludere che “la causa remota è da ricercarsi nell’assoluta mancanza di riviste specializzate e di editori che abbiano il coraggio di intraprendere un intelligente e razionale lavoro editoriale che abbia come base di sviluppo la fotografia.” (ibidem)

Il disappunto, e il dispiacere credo, non avrebbero potuto essere maggiori per chi, come Bricarelli, si era impegnato da sempre per la cultura e nell’editoria fotografica, difendendo come un punto d’onore[47] la propria qualifica di “dilettante”, più una categoria dello spirito che una condizione produttiva per lui, che aveva pubblicato e diretto riviste che si caratterizzavano proprio per l’innovativo ed ampio uso della fotografia.

Erano i termini duri di uno scontro generazionale che non consentiva mediazioni né comprensioni reciproche tra i giovani autori ed il più autorevole e ormai appartato esponente di una generazione che Zannier definiva dei “primitivi” che avevano praticato il “pittoricismo fotografico”.

Non che sulle pagine de “Il Corriere Fotografico” non ci fossero timide aperture ai nuovi autori internazionali:  lo dimostrano i brevi profili della rubrica Fotografi d’oggi  dedicati tra gli altri a Werner Bischof (1/1955), édouard Boubat (9/1956), Jean-Pierre Sudre (12/1956),  Renè Burri (5/1957) e Chargesheimer (5/56), di cui però si presentano solo i ritratti e non le ben più problematiche fotografie concrete,  mentre il numero di agosto del 1955 dedicava amplissimo spazio a Paul Strand , definito “fotografo illustratore americano di grande e non recente fama”, per presentare il volume einaudiano Un Paese, realizzato con Cesare Zavattini. Niente però che avesse a che vedere per qualità dell’approfondimento critico e rilevanza editoriale col puntuale ed  affettuoso ritratto dedicato a Guido Rey nel ventennale della scomparsa[48], corredato della riedizione del suo scritto del 1908 Fotografia inutile?, già comparso a suo tempo (1925) sulle pagine di “Luci ed Ombre”.

La vera novità di quegli anni nella produzione di Bricarelli era costituita dal ricorso sempre più frequente e sistematico all’uso del colore, sotto forma di diapositive nel formato 6×6, realizzate con la biottica Rolleiflex a partire dalla metà degli anni Cinquanta ed utilizzate sia in “Motor Italia” che per le copertine del “Il Corriere Fotografico” sin dalla ripresa delle pubblicazioni, sovente accompagnate dall’indicazione pubblicitaria “da Ferraniacolor”.[49] Nella novità del materiale fotografico a colori Bricarelli ritrovava l’opportunità di verificare e vivificare temi più volte affrontati quali le reti e le vele o l’infinita varietà dei paesaggi italiani, dimostrando una grande sensibilità per questa materia nuova, per le sue specifiche possibilità. Non era infatti un semplice adeguamento, una pura aggiunta cromatica a schemi compositivi predefiniti: il colore diventava l’elemento condizionante ed il vero soggetto dell’immagine, in tutte le sue sfumature, sino a sfiorare volutamente la soglia del monocromo. Negli anni in cui la nuova fotografia italiana e internazionale prediligeva l’uso drammatico del bianco/nero, l’anziano fotografo accoglieva le suggestioni non solo cromatiche delle coeve esperienze artistiche, dal Nouveau Réalisme alla Pop Art, ricercandone fotograficamente le involontarie tracce nella realtà delle cose del mondo. (A21/5_1, 2)

“Il Corriere Fotografico” chiuse definitivamente nel 1963, mentre Bricarelli mantenne la direzione di “Motor Italia” sino al 1976, assicurando ad essa “una costante unità di stile” dovuta al fatto che “durante il primo mezzo secolo di vita della Rivista gran parte delle foto in essa riprodotte erano state [da lui] riprese.” (Bricarelli, 1979, p. 14). Dopo quella data la conclusione della principale attività professionale gli offrì il tempo e l’opportunità di rimeditare la propria ingente produzione fotografica[50], distribuita lungo l’arco di almeno sessant’anni e di avviare una piccola serie di titoli che quasi senza parere la riassumevano.

Già nel 1968 aveva pubblicato L’auto è femmina, antologia di venti anni di fotografie dedicate alle carrozzerie torinesi, di fatto il suo primo libro fotografico, cui fece seguire nel 1976 – ormai quasi novantenne – la sua prima monografia antologica, segnata però da un significativo spostamento di accento:  in quel volume tutta la sua produzione veniva riproposta in termini documentari, con la descrittività a prevalere sull’interesse per il possibile valore e significato artistico. Queste fotografie entravano così a far parte di un differente discorso, ribaltando la consueta freccia direzionale di queste trasformazioni: non dall’archivio al museo, dal documento all’opera, ma viceversa. In questo mutamento di prospettiva anche il  pittoricismo delle prime prove era recuperato come documento etnografico semplicemente evidenziandone il contenuto referenziale, denotativo: Piemonte di ieri & Romantica valle d’Aosta  voleva essere nelle parole del suo autore “un album per rievocare la nostra regione qual’era quando la mia generazione aveva aperto gli occhi e quelle immediatamente antecedenti vi erano vissute” , e come tale venne letto dalla maggior parte dei commentatori.

Tra questi merita di essere ricordato Mario Soldati, che su “La Stampa” del 24 aprile 1976 chiedeva di prestare particolare attenzione ai testi a corredo delle immagini: “certo le fotografie sono fatte perché le vediamo: ma, e se, per capire queste sino in fondo, si dovesse cercare la chiave nelle didascalie?”

Indicazione niente affatto retorica o d’occasione, cui  sembrava corrispondere lo stesso Bricarelli quando nel 1979 poneva in apertura della sua seconda monografia, esplicitamente intitolata alla memoria, una puntuale citazione da Walter Benjamin: “La macchina fotografica diventa sempre più piccola e sempre più capace di afferrare immagini fuggevoli e segrete (…) A questo punto deve intervenire la didascalia, che include la fotografia nell’ambito della letterarizzazione di tutti i rapporti di vita, e senza la quale ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa. (…) La didascalia non diventerà per caso uno degli elementi essenziali dell’immagine fotografica?”[51]

Quasi un epitaffio scelto in vita per chi – come lui – aveva accompagnato fotografia e parola, da sempre.

Note

 

[1] Bricarelli, 1979, p.  9. La sua vicenda artistica e professionale è stata in più occasioni delineata dallo stesso Bricarelli, ma questo mio saggio e la mostra da cui origina non avrebbero mai potuto assumere la loro forma attuale senza il costante e competente sostegno della figlia Carla, cui vanno i miei più sentiti ringraziamenti non solo per la grande disponibilità dimostrata, ma anche (e specialmente) per la determinazione e l’affetto con cui ha sempre operato per la tutela e la migliore valorizzazione del patrimonio fotografico paterno.

[2] L’Esposizione del 1902 e le vicende strettamente connesse de “La Fotografia Artistica” sono state studiate da Costantini, 1990 e 1994 e recentemente riprese in Cavanna, 2000, cui si rimanda per eventuali approfondimenti. Dopo la chiusura della rivista (gennaio-febbraio 1917) Cominetti partecipò ancora alla vita fotografica torinese e italiana come membro di commissioni e di giurie della grande esposizione del 1923 dedicata a L’arte nella fotografia. Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia, aperta al Palazzo del Giornale al Valentino  su iniziativa della Camera di Commercio Torinese. Due anni più tardi gli venne affidata la direzione de “Il Fotografo”, rivista già diretta da Felice Baratelli, redattore Celeste Ferdinando Scavini, che aveva sede a Torino, in via Cernaia 18 (poi in via Accademia Albertina, 1) ed era verosimilmente finanziata dalla Bayer, come sembrano dimostrare i diversi e insistiti richiami ai prodotti dell’industria tedesca. Cominetti riassunse allora il ruolo di direttore di un periodico fotografico, ma senza ripetere il successo dell’impresa precedente. Così nel 1932 la sua morte non venne ricordata neppure sulle pagine del “Corriere Fotografico”, per molti versi solo erede di quel generoso e imperfetto tentativo di avviare una prima riflessione italiana sulla natura della fotografia.

[3] Il riferimento è alla teoria in onore tra pittori e fotografi francesi intorno alla metà del XIX secolo e che Delacroix, tra i più attenti ad un uso positivo della fotografia, aveva applicato al calotipo: “Les photographies qui saisissent davantage sont celles où l’imperfection même du procédé pour rendre de manière absolue, lasse certaines imperfections, certain repos pour l’œil qui lui permettent de ne se pas fixer que sur un petit nombre d’objets.” (dal “Journal”, 1859, citato in Challe, 1996, p. 24)

[4] Orengo, 1979, p.  6. Forse il termine più adatto sarebbe “spensierati”, con un riferimento non troppo implicito al quasi coetaneo Lartigue (1894 – 1986), richiamato anche in Racanicchi, 1994.

[5] La questione della paternità del trattamento dei materiali fotografici di Bricarelli è incerta e le stesse sue testimonianze contraddittorie: così se nel 1979, p.  12 dichiarava che “fin quando impiegai come materiale negativo le lastre le sviluppai sempre di persona”, nell’intervista rilasciata alla figlia Carla circa dieci anni più tardi ricordava che “le fotografie che scattavo nel corso di queste gite le portavo poi a sviluppare in un piccolo laboratorio.” (Bricarelli, 1988, p.  34) Per sapere quale potesse essere il laboratorio in questione è utile risalire ad un testo ampiamente antecedente dedicato alla Ditta Bietenholz & Bosio che aveva sede in Via Arcivescovado all’angolo con piazza Solferino “proprio sul percorso che facevo quattro volte al giorno per andare e tornare dal Ginnasio-Liceo dell’Istituto Sociale”, ditta trasferitasi poi in Corso Oporto presso Corso Re Umberto dove possedeva anche un proprio laboratorio fotografico diretto da Carlo Moncalvo, trasferitosi a Torino da Francavilla Bisio (AL) per fare l’operatore fotografico e cinematografico. Fu lui ad iniziare il giovane fotografo “al trattamento della carta al carbone Illingworth e di quella alla gomma bicromatata Höccheimer (entrambe introdotte in Italia dalla Bietenholz & Bosio), le quali davano modo di ottenere – soprattutto la seconda – quelle stampe cosiddette ‘interpretative’ allora tanto in favore ed ormai ben a ragione abbandonate.” (Bricarelli, 1956b, p.  37) Nacque così un rapporto di amicizia e collaborazione che, dopo la precoce scomparsa di Carlo nel 1935, proseguirà per tutta la vita col figlio Riccardo, a sua volta una delle più importanti figure della fotografia modernista torinese.

[6] Reduce dall’Esposizione di Dresda, Cesare Schiaparelli (1909, p. 46) esortava a ricordare che “nessun processo è migliore dell’altro, perché tanto sono perfette le gomme degli austriaci quanto i carboni degli inglesi, i platini di certi americani od i bromuri e gli höcheimer dei tedeschi, secondo i soggetti per i quali ogni sistema di stampa è specialmente indicato.”

[7] Luglio a Sauze d’Oulx, pubblicato ne “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 8-9, agosto – settembre, col titolo Julliet à Lanze d’Osilia (sic).

[8] Alla porta di casa (Costume di Val di Susa),  “Il Corriere Fotografico”, 8 (1911), n. 4 aprile, p. 1585.

Sul Monginevro e Cappella Alpina, “Il Corriere Fotografico”, 8 (1911), n. 12 dicembre, pp. 1767, 1776.

Due Studi di paese, “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 3 marzo, pp.  1857-1858.

Studio alpino,  “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 5 maggio, p. 1914.

Due paesaggi a corredo dell’articolo anonimo La Fotografia degli Alberi,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 1 gennaio, pp. 2086-2088.

Tre paesaggi, tra cui Giorno di febbraio sulle Alpi, a corredo dell’articolo anonimo Fotografie invernali,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 3 marzo, pp. 2134-2138.

Particolare della facciata di una chiesa in Val di Susa a corredo dell’articolo anonimo Fotografie d’Architettura,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 7 luglio, pp. 2230-2236.

Nella via maestra, Processione in montagna e Scene d’accampamento a corredo dell’articolo Istantanee artistiche, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 8 agosto, pp. 2255 – 2260.

Il Gran Paradiso da ovest nelle pagine dedicate al concorso per Fotografie Alpine,  “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 1 gennaio, p.  2382.

Il ritratto della Signorina M.M.C.B. nelle pagine dedicate al concorso per Ritratti femminili,  “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 3 marzo, p. 2439.

Cavalli al fiume. nelle pagine dedicate al concorso per Fotografie di animali, “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 7 luglio, p. 2570.

[9] Chevaux à l’aubrevage (1911), The House in the Snow (1911), Encampment Life (1912), Procession au village (1912), A Summer Impression (1912), Pour nos soldats (1914), The Far-off Village (1916), A l’ombre de l’église, s.d.,  The Harvester, s.d.  La consultazione in estratto delle sole tavole, con indicazioni cronologiche autografe, non ha consentito una più puntuale individuazione dei fascicoli.

Per un eventuale ulteriore approfondimento potrà essere utile il regesto delle opere presentate alle edizioni annuali del London Salon of Photography: 1915: Pour nos soldats, Church by Moonlight; 1916: Procession au Village; 1917: The Scout (A View of the War in the Alps); 1919: The far-off Village; 1925: Two Ages, Bard Vallée d’Aoste; 1926: The Edge of the Cliff, Ripples, The Abyss , The Mountain Past ; 1931: Sails Drying, Lumber; 1932: Domatori, Tracce.

[10] Sulla figura di Schiaparelli oltre agli studi generali dedicati alla cultura fotografica torinese di inizio Novecento (Costantini, 1990 e 1994; Miraglia, 1990) si vedano Sentieri di luce, 2002;  Schiaparelli, 2003.

[11] Bricarelli, 1913.  Il suo intervento e alcune sue immagini di quegli anni come Processione a Oulx, possono essere utilmente confrontati con quanto scrisse anni dopo lo zio Carlo (Bricarelli, 1924, pp.  6-7), gesuita con studi in architettura e poi in matematica, sulle pagine di “Luci e Ombre”: “Bisogna imparare a vedere: a vedere i crocchi de’ contadini sulla fiera, e ne’ profili, negli scorci, nelle stature, nelle complessioni, ne’ gesti, scorgere linee, intrecci, elementi di composizioni pittoriche: vedere nello sfilare d’una processione la varietà e l’armonia insieme di cappe, di cotte, di gonfaloni e di croci, linee frastagliate e gruppi e bozzetti, e atteggiamenti, e colori. Molto di nuovo e di bello si scoprirà scegliendo bene il punto di vista, e l’angolo giusto da rinchiudere in un quadro o una prospettiva.”

[12] Quest’immagine – forse la più nota del periodo pittorialista di Bricarelli venne ripubblicata in antiporta della terza  edizione del volume di Castruccio, Come riuscire in fotografia (1922) quindi ancora nel 1930, col titolo Light from Heaven, dallo stesso Tilney nel suo manuale The Principles of Photographic Pictorialism, testo ormai fuori tempo massimo in quell’anno, che si apriva con la solenne dichiarazione  “This book is not for the beginner in photography but for the beginner in art.” (p. I)

La tesi principale dell’autore che “The beginning of photography were pictorial” (5) corrispondeva alla prospettiva con cui Heinrich Schwarz leggeva negli stessi anni l’opera di Hill e Adamson (Costantini, 1992) e riconfermava i riferimenti fatti propri da una parte degli autori presenti alla grande esposizione di Stoccarda del 1929 Film und Foto, mentre l’affermazione contenuta poco oltre  “There is olny one « Art »: it is «universal»; it was, and still is and must always be” (p. 22) è quasi una traduzione letterale della già citata frase di Léon Vidal pubblicata nel 1904 nel primo numero de “La Fotografia Artistica”.

Va segnalato in ultimo che la foto di Bricarelli, conosciuta forse proprio per il tramite del volume di Tilney, ha costituito un riferimento preciso per un’immagine del ciclo The Church, 1991, di Andres Serrano (New York, 1950).

[13] Un’immagine di quest’ultimo, cui lo legavano stretti legami di parentela, pubblicata in “Luci ed Ombre” del 1924 (tav. XXIII) col titolo Botta e risposta, venne utilizzata da Bricarelli nel 1976, p. 67 senza segnalarne la diversa paternità, quindi esposta a suo nome nella bella mostra antologica al salone torinese de “la Stampa” del 1983, ristampata da Riccardo Moncalvo.

[14] Già nel 1915 Bricarelli aveva pubblicato Artiglieria da montagna  e Riposo  nelle pagine de “Il Corriere Fotografico” dedicate al concorso per Fotografie militari,  12 (1915), n. 1 gennaio, pp.  2683-2684, bandito prima dello scoppio della guerra “quando in Europa gli eserciti servivano a pacifiche parate, ed a far  schioppettare delle cartucce a salve”, mentre nel 1917 era stata esposta con il n. 327 al London Salon of Photography The Scout (A View of the War in the Alps), un’immagine molto efficace e forte poi pubblicata in Photograms of the Year, 1917-1918, p.  XLIII accompagnata da questo commento di W.R. Bland: “The paramount call of duty is poignantly sounded in The Scout, in which decoration is called in as if to alleviate, if only by a hair, this everyday aspect of the hardships of a soldier’s lot. The picture has a remarkable dramatic force and truth.” (Bland, 1918, p. 17)

[15] Avevo vent’anni quando sono andato al fronte – dirà André Kertész a proposito della sua esperienza durante il primo conflitto mondiale – Credo che la mia macchina fotografica mi abbia aiutato a sopravvivere.” (Citato in Borhan, 1998, p. 8).

[16] Poi ripubblicato come Proust 1925  in Giacomo Debenedetti, Rileggere Proust, Milano, Mondadori, 1982, pp. 90-91.

[17] L’esposizione si tenne dal 19 dicembre 1925 al  10 gennaio 1926 presso la Galleria centrale d’Arte, via Po 4 Torino, sotto gli auspici del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e della Società Fotografica Subalpina, gestita da un Comitato permanente presieduto da Teofilo Rossi di Montelera con Giuseppe Ratti vicepresidente, di cui  facevano parte anche Italo M. Angeloni, Alfredo Laezza, Guido  Rey e Cesare Schiaparelli, con Sem Benelli, Gino Pestelli, Edoardo Rubino ed Emilio Zanzi,.

Parteciparono 227 espositori di 22 nazioni diverse; tra gli italiani, oltre al gruppo compatto dei torinesi, si segnalarono Bragaglia, Sella e Wulz, mentre il panorama straniero spaziava da Drtikol a Mortensen, da Dubreuil, a Sudek, da Funke a Ortiz-Echagüe e Polak in un mescolarsi di tradizionalismo pittorialista e influenze del nuovo.  Risultava assente Guido Rey, che aveva scritto a Bricarelli per declinare l’invito ad esporre non avendo lavori nuovi da inviare e un poco intristito dalla giornata e dalla vecchiaia che avanza: “il fotografo pur sente più del consueto la neve che gli è caduta sul capo negli anni.”, lettera del 3 luglio 1925, in Archivio Bricarelli, Torino.

[18] A questa immagine, tra le più note realizzate da Bricarelli in quegli anni e immediatamente pubblicata anche in “Photograms of the Year”, 1926, tav. XLIV e “Luci ed Ombre”, 1926, tav. VIII, si richiamerà esplicitamente Carlo Matis con Mistica, presentata al V Salone del 1937 (377).

[19] Dal 15 gennaio 1924 il Gruppo ebbe la propria sede presso gli uffici torinesi del “Corriere Fotografico”, in via Stampatori 6, dove  erano “a disposizione dei Membri residenti in Torino e di quelli di passaggio una estesa biblioteca artistico-fotografica e tutte le Riviste di fotografia che si pubblicano nel mondo.”

[20] “Luci ed Ombre” 1926, pp. 7-9  in cui l’annosa disputa sul carattere stilistico della fotografia veniva “risolta in una nuova riflessione circa la sua presunta verità” (Costantini, 1990, p. 11).  Anche Rey era stato chiamato a far parte del Comitato promotore della rivista (“Caro Bricarelli, il compito che la sua amicizia m’impone non è facile, ma, se Ella mi aiuta, cercherò di adempiervi come meglio io sappia. (…) Sono lieto che la sua iniziativa sia per avere buon esito e Le do tutta la mia simpatia. Dev. Guido Rey”, lettera del 15 luglio 1922, Archivio Bricarelli, Torino) e la prima tavola del primo numero (1923) sarà proprio la sua L’attesa, mentre nel volume del 1925 venne riproposto il suo scritto Fotografia inutile? del 1908.  Se consideriamo ancora la parziale riedizione nel 1926 di un testo di Thovez del 1898 si può credere che il Gruppo volesse ancora poggiarsi all’autorevolezza dei maestri della generazione precedente, o – come sosteneva Costantini, 1987, p. 29 – che intendesse “ribadire la continuità della tradizione” torinese.

[21] Si vedano a questo proposito le immagini pubblicate in Bianco su bianco, 2005.

[22] “l’astrattismo di Bricarelli, alla tav. 17 [Tracce], è documentario pur non parendo. Era tuttavia meglio che paresse…Qui se il pericolo [dell’astrattismo] non c’è, lo rasentiamo.” (Pellice, 1932, p. XVI).

[23] “Umile soggetto, concepito ed eseguito in quella forma e tecnica singolarissima, che fa d’ogni bromuro dell’Artista torinese un’opera densa di pensiero e suggestiva all’anima. Altre volte abbiamo detto come il Bricarelli si compiaccia dei forti contrasti di linee e di piani, di ombre e di luci, dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande: contrasti che egli sa rendere sulla lastra e far accettare temperati ed addolciti da un’armonica connessione di parti. Minuscoli esseri umani in una vasta solitudine di nevi o di ghiacciai; il formidabile scafo d’una nave in un piccolo specchio d’acqua, l’immensa mole di cataste di legna sovrastante ad un breve primo piano suscitano potentemente nell’animo di chi osserva il senso della realtà.” (De Albroit, 1932)

[24] Angelo d’Orsi (1987) ha ricostruito nel dettaglio le brevi e difficili relazioni tra Bricarelli e Persico, che aveva “trovato un posticino” a “Motor Italia” forse per intercessione “dei pittori di Torino” –  come ricordava Bricarelli – o più verosimilmente di Emilio Zanzi, il critico della “Gazzetta del Popolo” da lunga data collaboratore anche del “Corriere Fotografico”.

“Per me è stato un fallimento completo – ricorderà Bricarelli, intervistato da D’Orsi nel novembre 1985 – Che fosse una persona geniale lo capivo: ma era uno sfaticato di prim’ordine. (…) Io gli davo uno stipendio modesto, ma, per quei tempi, non era disprezzabile: mille lire al mese. (…) Io ero ai primi anni della rivista e avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse [ma] il lavoro redazionale di Persico si è concentrato tutto in un articolo [in realtà furono tre]” (citato in D’Orsi, 1987, pp. 39-40). Tale situazione conflittuale è confermata anche da un’informativa della Prefettura di Torino dell’ottobre 1929: “Persico Edoardo (…) segnalato, in via confidenziale, a codesto on. Ministero, come elemento antinazionale (…) fu pure alle dipendenze della Rivista «Motor Italia» che lo esonerò dall’impiego per scarso rendimento.” (Ivi, p. 43)

[25] D’Orsi, 1987, p. 38. Una rassegna critica delle diverse letture del Lingotto è stata ordinata da Buffa, Ortoleva, 1994.

[26] Brezzo, 1929, pp.  778-779. Il senso dispregiativo assegnato all’aggettivo “futurista”, già utilizzato per denigrare la sala casoratiana “degli analfabeti” alla Quadriennale torinese del 1919, corrispondeva a quella “radicata avversione con cui (…) i più vasti strati del pubblico continuarono a guardare a tutto ciò che si fosse discostato dalla più tradizionale visualizzazione dell’oggetto” di cui ha parlato a suo tempo Angelo Dragone (1978, p. 192), ricordando il retroterra di “disinformazione e pregiudizio” di un ambiente artistico e culturale che aveva tra i propri punti di riferimento Enrico Thovez  (direttore della Galleria civica d’Arte Moderna dal 1913 al 1921), il critico che aveva accusato di “degenerazione artistica” le opere di Degas, Renoir e Manet ed aveva definito “terroristi della pittura” autori come Cézanne, Gauguin e Van Gogh. Lo stesso termine venne utilizzato dal critico de “La Stampa” Ugo Pavia per commentare alcune delle opere presentate nel dicembre 1925 al «Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale»:  rilevando la novità costituita dagli artisti russi e cechi, il “cubista Drtikol”, il suo discepolo Funke ed il polacco Dederko,  parlava infatti di “questi artisti-fotografi futuristi [che] anche se non persuadono, destano però molta curiosità nei visitatori.”  E ancora:  “Si rallegrino i futuristi: la teoria del “volume” e quella della “sintesi” è accettata anche dagli artefici dell’obiettivo” (Pavia, 1925)

Ancora nel 1931, quando a Torino si aprì la Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista l’uso del termine avrebbe presentato, su entrambi i fronti, alcune indecisioni: “Ecco oggi la “Fotografia Futurista”! – scriveva in catalogo Giuseppe Enrie (1931, p. 3) – Ultima, in ordine di tempo, essa non si accoda ma si lancia nel movimento totalitario che ha ormai investito tutta l’Arte e decisamente tenta le vie di una espressione nuova e generosa. (…) Ma non occorre diventare eccessivamente spregiudicati ed aconvenzionali, basterà rimanere liberi e sinceri per subire la suggestione di opere come quelle che figurano in questa prima Esposizione Sperimentale”.

Contro la Mostra si scagliò Guido Lorenzo Brezzo (1931, pp. 10-11) nel testo di apertura di “Luci ed Ombre” del 1931, facendosi evidentemente portavoce delle opinioni del gruppo redazionale. Il testo si basava sull’assunto che “l’artista vero è sempre naturalmente moderno (…) il pseudo-artista vuole essere moderno, vuole essere futurista, perché non può essere artista. (…) E d’altra parte che cos’è cotesta novissima modernità che si decanta come la sola, la definitiva perfezione dell’arte in genere e della fotografia in ispecie? [Essa ha] per soggetto fondamentale la macchina, realtà monofronte a solo aspetto pratico, essenzialmente limitato e temporaneo, sterile perciò di trascendenza e incapace, salvo rari casi e speciali, di servire d’oggetto all’atto d’intuizione estetica. Inoltre la frequenza del soggetto macchina ingenera negli operatori un’abitudine di visione meccanica, che viene trasferita a qualsivoglia soggetto sia di tipo naturale (figura o paesaggio) che artificiale (architettura).”

[27] Angeloni, 1926, p. 242. Anche un altro critico torinese parlerà di lì a poco di immagini  “che ci fanno pensare a Maggi, a Chiariva, a Pollonera ad Avondo e Calderini”, (Bernardi, 1927, p. 10).

[28] Nella sala del Gruppo Piemontese erano esposte opere di Francesco Agosti, Carlo Baravalle, Achille Bologna, Stefano Bricarelli, Placido Eydallin, Cesare Giulio, Piero Oneglio, Ugo Pasteris e Sergio Perdomi, mentre le altre ospitavano, tra gli altri,  i lavori di Adolfo Hess e Maurizio Reviglio.

[29] Il nuovo statuto fu redatto dal Presidente Baravalle avendo quali membri del Consiglio direttivo Agosti, Bologna, Bricarelli, Giulio, Corinaldi e Vittorio Ambrosio (“Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 3, marzo, p. 49).

[30] Su questi temi si veda Miraglia, 2001, pp. 13, 25 passim.

[31] Recensione al volume di Willy Stiewe, Foto und Volk. Halle-Saale: Wilhelm Knapp, 1933, “Il Corriere Fotografico” , 31 (1934), gennaio, p.  32. L’esaltazione del modello culturale nazista raggiungerà il proprio imbarazzante e inqualificabile apice nel 1938 quando, in un breve ritratto del fotografo personale di Hitler,  Federico Ferrero, che sarà redattore ancora nel dopoguerra, dichiarava che “Heinrich Hoffmann è qualcosa di più di un semplice fotografo o fotogiornalista: egli è l’amico intimo, il confidente di Adolfo Hitler, il quale per mezzo di Hoffmann sa valersi abilmente di quel potentissimo mezzo di propaganda che è l’obiettivo fotografico per diffondere non dico la propria immagine – ché Hitler è timido e rifugge dalla facile popolarità – ma soprattutto le gesta e le opere del regime Nazista, dalle più importanti alle meno salienti.” (Ferrero, 1938).

[32] Di Bricarelli venne pubblicata Aurora Umbrarum Victrix ( Modern Photography, 1931, p. 22), già molto apprezzata in Italia. Nel commento di  Guido Lorenzo Brezzo (1930, pp. 774-777) “Aurora umbrarum victrix di Stefano Bricarelli, fissata a lungo ad occhi semichiusi, porta la fantasia dell’osservatore in mezzo all’oceano dello spazio e lo fa assistere da un punto fuori del tempo all’erompere del primo giorno in mezzo alle tenebre del caos”, mentre per Cesare Meano (1930, p. 14) si trattava di “una composizione piena di audace ingegnosità e di strani effetti”. Le sole altre immagini di autori italiani pubblicate in questo annuario furono La scia di Cesare Giulio (81) e La spiaggia di Achille Bologna (876).

[33] Nel novembre del 1931 realizzò per la Cines-Pittaluga Bacini di carenaggio a Genova, un documentario di 9’ su testi di Emilio Cecchi, di cui fu regista e direttore della fotografia, mentre al 1936 risale la sua sola altra prova nota: Sulle orme di Dante esule per la regia di Teonesto Deabate e con la collaborazione di Onorato Castellino, già fondatore e direttore, con la moglie Francesca, di “Cuor d’oro” un periodico per ragazzi (1922-1927) con belle copertine disegnate dallo stesso Deabate, ma anche da Massimo Quaglino, Giulio Da Milano e da un giovanissimo Giulio Carlo Argan “ancora incerto sul proprio avvenire”, D’Orsi, 2000, p. 93.

Troppo scarse sono ancora le nostre conoscenze su Bricarelli regista e cineoperatore, ma non possiamo escludere che questo ampliamento di mezzi espressivi fosse in relazione con quella politica di  “lotta, di difesa e diffusione delle nuove idee” che – come abbiamo visto – “Il Corriere Fotografico” condivideva.

[34] La “Revue Leica”, 3 (1936), n. 15, mai, nel comunicare l’esito del concorso pubblicava l’intero rullo di immagini realizzate da Bricarelli (che per ragioni di opportunità era indicato come residente a Nizza) per adempiere alle condizioni del concorso, considerate dalla giuria “d’une qualité tout à fait exceptionelle. M. Bricarelli peut être fier, puisque sa bobine est assurément une des meilleures bobines Leica, que nous ayons vues jusqu’à ce jour.” Altre sue fotografie del sacrario dedicato a Cesare Battisti a Trento furono pubblicate in copertina e all’interno del n. 26, mars – avril 1938, della medesima rivista.

[35] In quell’occasione nacque – su proposta di Garretto accolta da Mussolini – l’idea di realizzare un servizio propagandistico sui confinati a Ponza, da proporre a “Life” per “sfatare il confronto del confino con la deportazione in Siberia” (Bricarelli, 1979, p. 34), ma la testata non pubblicò mai le immagini. In una lettera a Garretto del 7 settembre 1938 Wilson Hicks, il primo editor fotografico di “Life”, proveniente dall’Associated Press, accennava ad una plausibile spiegazione, forse diplomatica, delle ragioni per cui il giornale non avesse usato “the fine pictures you sold to it last winter. The editors saw and were greatly impressed with Mr. Bricarelli’s and yours sets of fine photographs showing Mussolini, various ministers and their ministries, the documentation of a labor appeal case, Il Confino (sic) and other valuable pictures which now are in our files. LIFE’s ways sometimes are hard for persons who are not familiar with our peculiar handling of pictures to understand.” (Archivio Bricarelli, Torino).

[36] Si veda “La Rivista illustrata”, 16 (1938), n.4, con altre fotografie dell’Istituto LUCE, della Regia Aeronautica, del tedesco F.F. Bauer (che aveva fotografato il Congresso nazista di Norimberga dello stesso anno), di Giulio Parisio, di B. Morgagni (forse in relazione col Direttore Manlio Morgagni), di Raimondo Niccolini e di Bruno Stefani. Il servizio sul salone di Berlino comparve invece in “La Rivista illustrata”, 1939, n.4, pp. 70-71. Alcune di queste fotografie vennero poi riedite in Italia Imperiale, edizione speciale della “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” pubblicata nel  1937 per la cura del suo condirettore Manlio Morgagni.

[37] Si vedano rispettivamente “La Rivista Illustrata”, 16 (1938), n. 11, pp. 97-104 e “La Rivista Illustrata”, 17 (1939), n.1, p. 90 passim.

Nella mostra fotografica Il volto e l’anima di Torino fascista che si era tenuta a Palazzo Lascaris nel febbraio del 1937 con un centinaio di fotografie di Bertoglio, Bellavista, Schiaparelli, Andreis, Zumaglino, Moncalvo, Fecia di Cossato e altri, Bricarelli non risultava presente, cfr. “Il Corriere Fotografico”, 34 (1937), n.3, marzo, p. 77.

[38] Andreis 1937, p. 10. Nella stessa occasione Angeloni aveva sottolineato che “il numero maggiore delle fotografie italiane qui esposte fu operato negli anni più tragici ed eroici del nostro dopoguerra; l’assedio economico, le barriere, le jugulazioni dirette dal capitalismo straniero contro il giovane Fascismo avrebbero dovuto deprimere ogni azione specialmente in campo artistico. Il V Salone dimostra invece il contrario. (…) gli Italiani hanno ben imparato il mussoliniano «saper fare da sè»” (Angeloni, 1937, p. 134).  Procedendo nella  rassegna delle più significative presenze straniere segnalava (ivi p. 161) “l’amore della cosa nuova, del taglio originale [che] occupa in tutte le sue espressioni l’arte di Renger Patzsch”: una presenza sorprendente e quasi inosservata.

[39] Copia dell’atto in Archivio Bricarelli, Torino. Carafòli, fotoamatore e redattore de “La Stampa”, sarà tra i collaboratori del “Corriere” ancora negli anni ’50, con articoli di forte opposizione ideologica alla fotografia neorealista:  “Ma ascolti solo sé stesso – scriverà rivolgendosi a Luciano Ferri – e diffidi della rivista e delle biblioteche comunali che – con i fondi della borghesia e le tasse di tutti i contribuenti – fanno della propaganda marxista.” (Carafòli, 1957).

[40] Si vedano Alberti, 1959; Bricarelli, 1979, pp. 68-69, 87. Dell’incontro non rimane purtroppo traccia nei diari pubblicati di Berenson, 1966.

[41] Nel 1951 questa collaborazione gli aveva fruttato “un segno di distinzione” al “Premio Torino di Giornalismo”, anche in riconoscimento “della sua nota attività di fotografo.” (Archivio Bricarelli, Torino).

[42] Nell’aprile del 1954 aveva rilevato per 500.000 lire la quota proprietaria di Carafòli, divenendo unico proprietario della testata. (Archivio Bricarelli, Torino).

[43] Scopinich, 1943. Anche Alberto Lattuada, aveva vivacemente polemizzato con gli epigoni torinesi del pittorialismo: “Credo inutile fare osservazioni sulla tecnica fotografica. Mi pare giusto dire soltanto questo: recentemente ho visto pubblicato su un quotidiano di Torino una fotografia dalla quale, con l’aiuto di filtri, velature, bagni chimici e altri accorgimenti, l’autore era riuscito a ricavare un quadro; si trattava di una scena fluviale in controluce, sfumatissima e la dicitura diceva che tale opera aveva vinto il concorso della più grande esposizione internazionale di fotografia.”,  citato in Berengo Gardin, 1982, p. 15.

[44] Scalpo d’oro, per il numero del settembre 1941.

[45] Già nel 1923 era stato pubblicato un articolo di Enrico Unterveger dedicato a L’opera di Niceforo Niepce, ed ancora nel 1938 si era celebrato il primo centenario dell’invenzione, mentre Lamberto Vitali su “Emporium” si occupava di Ritorno all’antica fotografia (1936), ma fu a partire dal 1954 che gli articoli si fecero più assidui e poi sistematici, con la rubrica dedicata Alle sorgenti della fotografia  affiancata da importanti recensioni, come quella dedicata nel numero 49  del 1957 all’Album romano pubblicato da Silvio Negro, corredata di numerose illustrazioni: ben nove pagine che citano ampiamente il testo di presentazione pubblicato su “La Stampa” da Paolo Monelli, nello stesso anno in cui si apriva alla  Triennale di Milano la fondamentale mostra sulla storia della fotografia realizzata da Lamberto Vitali, affiancando alle opere della collezione Gernsheim le prime eccezionali testimonianze raccolte nella sezione italiana, esposte tutte nella  speranza di poter creare a Milano un Museo di fotografia.

[46] Alcune fonti per la ricostruzione del vivace dibattito di quegli anni sono ora disponibili in Colombo, 2003.

[47] Tale caparbia definizione era continuamente ribadita anche dalla partecipazione a concorsi esplicitamente banditi per i dilettanti, come quello del periodico “Le Vie d’Italia”, da lui vinto nel dicembre del 1955. (Lettera di Cesare Chiodi, presidente TCI del 26-10-1955, Archivio Bricarelli, Torino).

[48] Bricarelli, 1955. Questo saggio, pubblicato nello stesso anno in cui furono edite da Viglongo le sue Opere complete, non è noto alla scarsa letteratura dedicata all’autore, ma costituisce di fatto il primo tentativo di comprensione critica dell’insieme dell’opera di Rey, in cui si pone come primo problema quello della discrepanza tra i due diversi e lontanissimi mondi fotografici da lui praticati della fotografia artistica e di quella alpinistica, analizzata questa chiarendo precisamente le differenze con Vittorio Sella. Per quanto riguarda la sua più nota produzione pittorialista, Bricarelli ne ricordava le doti di disegnatore e “intenditore di pittura antica e contemporanea” da cui derivavano le sue composizioni, eclettiche quanto ad ispirazione ma “tutte legate da uno stile comune, fatto di sobrio equilibrio, di sottile armonia, di antiretorica spontaneità [sic], che era quello innato dell’autore”, segnalandone infine il singolare carattere di “ricca e molto pittoresca iconografia familiare.”

[49] Già i numeri di dicembre delle due annate 1940 e 1941 presentavano fotografie a colori di Bricarelli, ma allora da Agfacolor.

[50] Il Fondo Bricarelli, donato dalla figlia Carla nel 1997, ha una consistenza di circa 40.000 fototipi, 35.000 dei quali negativi.

[51] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 55-78 (77), citato in Bricarelli, 1979, p.  18.

 

 

 

Bibliografia di riferimento

 

Alberti 1959

Guglielmo Alberti, Bernardo Berenson, “Motor Italia”, 34 (1959), n. 49, pp. 92 – 98

 

Andreis 1933

Luigi Andreis, L’arte sincera, “Galleria”, 1 (1933), n. 1, luglio, pp. 7 – 8

 

Andreis 1937

Luigi Andreis, Gli artisti italiani al V° Salone Internazionale di Torino, “Galleria”, 5 (1937), n. 5, maggio, pp. 10-11

 

Angeloni 1925a

Italo Mario Angeloni, Recenti manifestazioni dell’attività fotografica in Italia, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n. 5, maggio, pp.67-68

 

Angeloni 1925b

Italo Mario Angeloni, Luminosa vittoria (Per “Luci ed Ombre” del 1925), “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n. 11, novembre, pp. 169-171

 

Angeloni 1926

Italo Mario Angeloni, Arte consolatrice, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926), n. 11, novembre, pp. 241-243

 

Angeloni 1934a

Italo Mario Angeloni, “Luci ed Ombre” 1934, “Il Corriere Fotografico”, 31 (1934), n. 11, novembre, pp. 591-592

 

Angeloni 1934b

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 31 (1934), n. 11, novembre, p. 592

 

 

Angeloni 1935

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 32 (1935), n. 1, gennaio 1935, p. 14

 

Angeloni 1937

Italo Mario Angeloni, Il V Salone Internazionale di Fotografia Artistica, “Il Corriere Fotografico”, 34 (1937), n. 6, giugno, pp. 134-136; n. 7, luglio, pp. 159-161

 

Angeloni 1938

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 35 (1938), n. 1, gennaio, p. 14

 

Angeloni 1939

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 36 (1939), n. 12, dicembre, p. 270

 

Angeloni 1940

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 37 (1940), n. 1, gennaio, p. 10

 

Annuario 1921

Annuario della fotografia artistica 1921: Rivista annuale d’arte fotografica. Milano: Il Corriere Fotografico, 1920

 

Annuario 1922-23

Annuario della fotografia artistica 1922 – 23: Rivista annuale d’arte fotografica. Milano: Il Corriere Fotografico, 1921

 

Anonimo 1923

Anonimo, Un precursore italiano della stereoscopia,  “Il Corriere Fotografico”, 19 (1923), n. 12, dicembre

Arte della fotografia 1927

L’Arte della fotografia alla terza Mostra internazionale delle arti decorative, catalogo della mostra (Monza,  Villa Reale), maggio – ottobre 1927. Milano: A. Rizzoli & C., 1927

 

Arte nella fotografia 1923

L’arte nella fotografia : prima Esposizione internazionale di fotografia ottica e cinematografia, catalogo della mostra (Torino, Palazzo del Giornale al Valentino, primavera 1923). Milano – Roma : Bestetti & Tumminelli, 1923

 

Bellavista 1934-1936

Mario Bellavista, Tre concetti per fotografi moderni, “Galleria”, 2-4 (1934 – 1936)

 

Berengo Gardin 1982

Piero Berengo Gardin, a cura di, Alberto Lattuada fotografo. Dieci anni di “Occhio quadrato” 1938/1948. Firenze: Alinari, 1982

 

Berenson 1966

Bernard Berenson, Tramonto e crepuscolo. Ultimi diari 1947 – 1958, a cura di Emilio Cecch. Milano: Feltrinelli, 1966

 

Bernardi 1927

Marziano Bernardi, Commento, in Luci ed Ombre: Annuario della fotografia artistica italiana, VI annuale 1927. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1927, pp. IX-IXX

 

Bernardi 1928a

Marziano Bernardi, L’arte della fotografia al “Salon”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 10, ottobre, pp. 641 – 643

Bernardi 1928b

Marziano Bernardi, Commento, in Luci ed Ombre: Annuario della fotografia artistica italiana, 1928-VII annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1928, pp. XI-XVI

 

Bernardi 1954

Marziano Bernardi, Un po’ di Piemonte, Torino, S.E.I., 1954

Boggeri 1929a

Antonio Boggeri, Fotografia moderna, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n.8, agosto, pp.557- 564

Boggeri 1929b

Antonio Boggeri, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1929-VIII annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1929, pp. XIV-XVI

Bologna 1935

Achille Bologna, Come si fotografa oggi.  Milano: Hoepli, 1935

 

Borhan 1998

Pierre Borhan, André Kertész. Lo specchio di una vita. Milano: Federico Motta, 1998 (ed originale, André Kertész. La biographie d’une œuvre. Paris: Editions du Seuil, 1994)

 

Brezzo 1924

Guido Lorenzo Brezzo, Sfogliando “Luci ed Ombre” 1924. Impressioni di un profano, “Il Corriere Fotografico”, a21 (1924), n. 10, ottobre, p. 151

 

Brezzo 1926

Guido Lorenzo Brezzo, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1926-V annuale. Torino:  Edizioni del Corriere Fotografico, 1926, pp. XI-IXX

 

Brezzo 1927

Guido Lorenzo Brezzo, “Luci ed Ombre” 1927, “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 11, novembre, pp. 201-204

Brezzo 1929

Guido Lorenzo Brezzo, Luci ed Ombre 1929, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n.11, novembre, pp. 777- 780

 

Brezzo 1930

Guido Lorenzo Brezzo,, Luci ed Ombre 1930, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n.11, novembre, pp.774- 778

 

Brezzo 1931

Guido Lorenzo Brezzo, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1931-X annuale.  Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1931, pp. IX-XV

 

Brezzo 1934

Guido Lorenzo Brezzo, La Messe del 1934, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1934-XIII  annuale. Torino:Edizioni del Corriere Fotografico, 1934, pp. IX-XVI

 

Bricarelli 1988

Carla Bricarelli, Stefano Bricarelli, un’intervista, “Fotologia”, 5 (1988), vol.9, maggio, pp. 29-35

 

Bricarelli 1914

Carlo Bricarelli S.J., Ottica fisica e ottica artistica. Roma: Civiltà Cattolica, 1914

 

Bricarelli 1924

Carlo Bricarelli S.J., La fotografia è capace di estetica?, “Luci ed Ombre”, 1924, pp. 5-8

 

Bricarelli 1912

Stefano Bricarelli, La fotografia artistica all’Esposizione di Torino 1911, “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 1 gennaio, pp. 1791-1797

 

Bricarelli 1913

Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, a. X, n. 8 agosto 1913, pp. 172255 – 2260

 

Bricarelli 1920

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1920, pp. 26-27

 

Bricarelli 1921

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1921, pp. 30-31

 

Bricarelli 1922

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1922, pp. 31-32

 

Bricarelli 1923

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1923, pp. 22-23

 

Bricarelli 1924

Stefano Bricarelli, Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1924, pp. 19-20

 

Bricarelli 1925

Stefano Bricarelli, Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1925, pp. 20

 

Bricarelli 1954

Stefano Bricarelli, Foto Annuario Italiano 1954, “Il Corriere Fotografico”, 51 (1954). n. 18, marzo, pp. 25-28

 

Bricarelli 1955

Stefano Bricarelli, Guido Rey, “Il Corriere Fotografico”, 52 (1955), n. 29, aprile, pp. 22-29

 

Bricarelli 1956a

Stefano Bricarelli, Dilettantismo e professionismo fotografico in Italia, “Il Corriere Fotografico”, 53 (1956), n. 39, aprile, pp. 21-23

 

Bricarelli 1956b

Stefano Bricarelli, Storia di un Laboratorio, “Il Corriere Fotografico”, 53 (1956), n. 44, ottobre, pp. 37-41

 

Bricarelli 1958

Stefano Bricarelli, Visioni di Torino. Novara: Istituto Geografico De Agostini, 1958

 

Bricarelli 1968

Stefano Bricarelli, L’auto è femmina. Vent’anni di stile carrozziero a Torino nelle fotografie di Stefano Bricarelli. Torino: Motor Italia, 1968

 

Bricarelli 1975a

Stefano Bricarelli, Quando sugli oceani si andava navigando, “Motor Italia”, 75 (1975), n. 100,  pp. 82-90

 

Bricarelli 1975b

Stefano Bricarelli, Ritorno al 1936, qualche flash-back in U.S.A., “Motor Italia”, 75 (1975), n. 101, pp. 56-65

 

 

Bricarelli 1976

Stefano Bricarelli, Piemonte di ieri & Romantica valle d’Aosta. Ivrea: Priuli & Verlucca Editori, 1976

 

Bricarelli 1979

Stefano Bricarelli, Gli occhi della memoria. Milano: Automobilia, 1979

 

Bricarelli, Brezzo 1923

Stefano Bricarelli, Guido Lorenzo Brezzo, La nostra parte, in  Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1923- II annuale. Torino:  Edizioni del Corriere Fotografico 1923, pp. V-VII

 

Buffa, Ortoleva 1994

Cristiano Buffa, Peppino Ortoleva, Lingotto. Luogo. Simbolo, in Olmo 1994, pp. 151-192

 

Callari Nestri 1955

Febo Callari Nestri, La nuova fotografia industriale; fotografie di Stefano Bricarelli,  “Il Corriere Fotografico”, 52 (1955), n. 30, maggio, pp. 20-28

 

Campari 1976

Roberto Campari, a cura di, Bruno Stefani. Parma: Università di Parma, 1976

 

Caorsi 1982

Gigi Caorsi, Stefano Bricarelli fotografo e giornalista [intervista], “Piemonte vivo”, 16 (1982), n. 2, aprile, pp. 44-49

Carafòli 1957

Mario Carafòli, «Ciociaria 1956», Lettera aperta a un giovane, “Il Corriere Fotografico”,  54 (1957), n. 52, luglio, pp. 19 -21

 

Cartier-Bresson 1952

Henri Cartier-Bresson, Images à la Sauvette. Paris: Éditions Verve, 1952

 

Cartier-Bresson 1955

Henri Cartier-Bresson, Les Européens. Paris: Éditions Verve, 1955

 

Castruccio 1922

Giuseppe Castruccio, Come riuscire in fotografia. Milano: Il Corriere Fotografico, 1922

 

Cavanna 2003a

Pierangelo Cavanna, “La Fotografia Artistica”, in Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895 – 1920.  Milano: Unicredit, 2003, pp. 166-167

Cavanna 2003b

Pierangelo Cavanna, Mostrare paesaggi, in Modena per la fotografia. L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, 2003-2004), a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Milano: Silvana Editoriale, 2003, pp.40-116

 

Circolo Sciatori 1941

Circolo Sciatori Torino, Annuario 1941. Torino: Impronta, 1941

Colombo 2003

Cesare Colombo, a cura di, Lo sguardo critico. Cultura e fotografia in Italia 1943 – 1968. Torino: Agorà Editrice, 2003

Colombo 2004

Cesare Colombo, a cura di, Ferrania. Storie e figure di cinema & fotografia.  Novara: De Agostini, 2004

 

Costantini 1987

Paolo Costantini, Una “sana ed eclettica modernità”. L’esperienza di Luci ed Ombre tra conservazione e innovazione, in Luci ed Ombre, 1987, pp. 25-35

 

Costantini 1990

Paolo Costantini, «La Fotografia Artistica» 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990

 

Costantini 1992

Paolo Costantini, Introduzione, in Heirich Schwarz, Arte e fotografia. Precursori e influenze. Torino: Bollati Boringhieri, 1992

 

Costantini 1994

Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, catalogo della mostra (Torino  1994), a cura di Rossana Boscaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci, Milano, Fabbri Editori, 1994, pp. 94-179

D’Orsi 1987

Angelo d’Orsi, «Il doloroso inverno»,  l’esperienza torinese, in De Seta 1987, pp. 21-56

 

D’Orsi 2000

Angelo d’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre. Torino: Einaudi, 2000

 

De Albroit 1926

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926), n. 3, marzo, p. 60

 

De Albroit 1930

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 1, gennaio, p. 9

De Albroit 1930

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 3, marzo, p.213

 

De Albroit 1932

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 7, luglio, pp. 369

 

De Albroit 1931

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 28 (1931), n. 11, novembre, pp. 812

 

De La Sizeranne 1899

Robert De La Sizeranne, La Photographie est-elle un art?.  Paris: Hachette & C.ie, 1899

De Seta 1979

Cesare De Seta, a cura di, Giuseppe Pagano fotografo.  Milano: Electa, 1979

De Seta 1987

Cesare De Seta, a cura di, Edoardo Persico. Napoli: Electa Napoli, 1987

 

Deabate 1984

Teonesto Deabate tra pittura e architettura, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 3-29 aprile 1984). Torino:  Provincia di Torino, 1984

 

Della Volpe 1980

Nicola della Volpe, Fotografie militari. Roma: Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, 1980

 

Dragone 1978

Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino tra le due guerre, catalogo della mostra (Torino, marzo – giugno 1978). Torino, Musei Civici, 1979, pp. 188- 227

 

Enrie 1931

Giuseppe Enrie, La Fotografia contro il suo assoluto, in Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista, catalogo della mostra (Torino, 15 marzo – 6 aprile 1931).  Torino: Tip. Fedetto, 1931, pp. 3-6

Ferrero 1938

Federico Ferrero, Heinrich Hoffmahn, fotografo ufficiale del Reich, “Il Corriere Fotografico”, 35 (1938), n. 5, maggio, p. 110

 

Fotografia luce della modernità 1991

Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier, a cura di, Fotografia luce della modernità. Torino 1920/1950,

dal pittorialismo al modernismo. Firenze: Alinari, 1991

 

Gabinio 1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

Inaugurazione 1931

Anonimo, Inaugurazione della Mostra di fotografia futurista, “La Stampa”, 16 marzo 1931

 

Lamberti 2000

Maria Mimita Lamberti, a cura di, Lionello Venturi e la pittura a Torino 1919 – 1931. Torino: Fondazione CRT, 2000

 

Lista 2001

Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001

 

London salon 1915- 1932

Catalogue of the London Salon of Photography.  London: Women’s Printig Society Ltd., 1915-1918; 1919; 1925-1926; 1931- 1932

Luci ed Ombre 1987

Luci ed Ombre. Gli annuari della fotografia artistica italiana 1923 – 1934, catalogo della mostra (Firenze, 1987-1988), a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1987

 

Marescalchi 1936

Arturo Marescalchi, Il volto agricolo dell’Italia. Milano: TCI, 1936

 

Meano 1930

Cesare Meano, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, IX annuale 1930. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1930, pp. XIII-XV

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia 2001

Marina Miraglia, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione De Fornaris – Hopefulmonster, 2001

Modern Photography 1931

Modern Photography. London: The Studio, 1931

Mollino 1949

Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [1950]

 

Moncalvo 2001

Riccardo Moncalvo. Figure senza volto, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea,  2001), a cura di Italo Zannier. Torino: Edizioni GAM, 2001

 

Morgagni 1937

Manlio Morgagni, a cura di, Italia Imperiale. Milano: Rivista Illustrata del Popolo d’Italia, 1937

Morgan 1939

Claude Morgan, Neiges, “L’Illustration”, 4 fevrier 1939, n. 5005, pp. 133-143

 

Morselli 1883

Enrico  Morselli, Programma speciale della sezione di Antropologia. Torino: Stamperia Reale – Paravia, 1883

Mostra di fotografia futurista

Anonimo, La Mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “Gazzetta del Popolo”, 16 marzo 1931

Nèvola 1953

Maurizio Nèvola, Mostra della fotografia italiana 1953. La montagna e il topolino, “Il Corriere Fotografico”, 50 (1953), n. 12, settembre, pp. 27 -30

 

Olmo 1994

Carlo Olmo, a cura di, Il Lingotto 1915 – 1939, l’architettura, l’immagine, il lavoro. Torino: Umberto Allemandi & C., 1994

 

Orengo 1979

Nico Orengo, Come il cavalluccio di legno…, in Bricarelli 1979, pp. 5-7

Paoli 1998

Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  I,  Fotografia e raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, VIII, 1998,  pp. 99-128

Pellegrini 1954

Guido Pellegrini, L’astrattismo cos’è – Ritorna primavera, “Il Corriere Fotografico”, 51 (1954), n. 19, aprile, pp. 36-37

Pellice 1932

Donato Pellice, La fotografia artistica in Italia nel 1932, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana , 1932– XI annuale. Torino: Il Corriere Fotografico, 1932, pp. VII – XVIII

 

Persico 1927

Edoardo Persico, FIAT Automobili – Via Nizza, 250 – Torino, “Motor Italia”, 2 (1927),  dicembre, pp. 27-30; 64

 

Photograms 1915

Photograms of the Year 1915, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1915

Photograms  1928

Photograms of the Year 1929, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1928

Photograms  1939

Photograms of the Year 1940, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1939

Ponti 1932

Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n.53, maggio, pp.285-288

Primo Salon 1925

Primo «Salon» Italiano d’Arte fotografica Internazionale – Catalogo. Torino: Tipografia P. Celanza & C., 1925

 

V Esposizione 1932

V Esposizione Fotografica di Montagna – Catalogo. Torino: CAI, 1932

V Salone 1937

V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 29 maggio – 20 giugno). Torino: Stabilimento Tipografico Ajani & Canale, 1937

 

Racanicchi 1994

Piero Racanicchi, Cultura fotografica in Piemonte tra Ottocento e Novecento, in Accademie, salotti, Circoli nell’Arco Alpino Occidentale, atti del XVIII Colloqui franco-italien (Torre Pellice, 6-8 ottobre 1994). Torino: Centro Studi Piemontesi, 1994, estratto

 

Ratti 1961

Giuseppe Ratti, a cura di, Flor ’61. Esposizione internazionale Fiori del Mondo a Torino.Torino: Tipografia Editrice Torinese, 1961

 

Rebaudengo 1971

Dina Rebaudengo, Un uomo una città. Torino: Toso, 1971

 

Redazionale 1927

Red., Montagne: La II mostra del Fotogruppo Alpino della sezione di Torino del C.A.I., “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 5, maggio, pp. 87

 

Redazionale 1928

Red, Il trionfale successo della “Prima Mostra d’arte fotografica” organizzata dal “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 1, gennaio, pp. 1-3

Redazionale 1929

Red., Il contributo della microfotografia alle arti decorative, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 3, marzo, pp. 177 – 178

 

Redazionale 1931a

Red. Inaugurazione della mostra di fotografia futurista, “La Stampa”,  65 (1931), n. 64, 16 marzo, p. 2

 

Redazionale 1931b

Redazionale, La mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “La Gazzetta del Popolo”, anno 84 (1931), n. 64, 16 marzo, p. 2

 

Reteuna 2000

Dario Reteuna, Cinema di carta. Storia fotografica del cinema italiano. Alessandria: Edizioni Falsopiano, 2000

Rey 1925

Guido Rey, Fotografia inutile, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana,  1925- IV annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. V-X

 

Rossi 1933

Alberto Rossi, Fotografia come arte, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1933- XII annuale, Torino, Edizioni del Corriere Fotografico, 1933, pp. IX-XVIII

 

Royal Photographic Society 1919

Royal Photographic Society of Great Britain, Exhibition of Pictorial Photographs which have received awards in the Competition organised by “The Amateur Photographer and Photography”.  London:  Women’s Printig Society Ltd., 1919

Russo 1999

Antonella Russo, Il fascismo in mostra. Roma: Editori Riuniti, 1999

 

Schiaparelli 1909

Cesare Schiaparelli, L’Arte fotografica mondiale all’Esposizione di Dresda. Torino: Stabilimento Tipografico Guido Momo, 1909 [1910]

Scopinich 1943

Ermanno F. Scopinich, a cura di, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943

Sentieri di luce 2002

Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1930 al 1946, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 2002), a cura di Dario Reteuna. Torino – Firenze, Circolo degli Artisti – Alinari, 2002

Sentieri di luce 2004

Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1946 al 1970, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 2004), a cura di Dario Reteuna. Torino – Firenze, Circolo degli Artisti – Alinari, 2004

 

VI Esposizione 1934

VI Esposizione fotografica di montagna – Catalogo. Torino: CAI, 1934

 

VII Esposizione 1940

VII Esposizione fotografica alpina – Catalogo.  Torino: CAI, 1940

 

Tilney  1920

Frederick Colin Tilney, Some Pictures of the Year, “Photograms of the Year 1920”. London: Iliffe & Sons, 1920

 

Tilney 1930

Frederick Colin Tilney, The Principles of Photographic Pictorialism. Boston: American Photographing Publishing Co., 1930

 

TCI 1956

Touring Club Italiano, L’Italia in 300 immagini. Milano: TCI, 1956

 

Weaver 1925

John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n.3, marzo, p. 36

 

Wolff 1936a

Paul Wolff, Olimpiadi 1936. Milano: Bompiani, 1936

 

Wolff 1936b

Paul Wolff, Skikamerad Toni. Frankfurt am main: H. Bechhold Verlagsbuchandlung, 1936

Zannier 2004

Italo Zannier, “Ferrania” maestra di fotografia, in Colombo 2004, pp. 112 – 116.

 

Zanzi 1924

Emilio Zanzi, Arte, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1924-III annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1924, pp. IX-XX

 

Zanzi 1925

Emilio Zanzi, La raccolta del 1925, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1925-IV annuale.  Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. XI-XV

Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione (1986)

“Fotologia”, studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier, n.6, 1986, pp. 34 – 45

Ce ne sont que documents

Eugène Atget

 

Primo ottobre 1907 Mons. Teodoro dei Conti Valfrè di Bonzo “Arcivescovo di Vercelli e Conte” concede l’imprimatur al volume L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli, “Studio storico del Can. Dott. Romualdo Pasté / Studio artistico del Cav. Federico Arborio Mella illustrato da Pietro Masoero”[1]. I tre autori nella dedica che apre il volume dichiarano di aver voluto “radunare quanto è a noi pervenuto delle memorie della abbazia di S. Andrea e fissarne il ricordo storico illustrando il grandioso tempio che, salvato dalla ruina di mille altri monumenti, permane solenne ad attestare una grandezza passata” portando anche un “contributo al recente risveglio pel culto dell’arte sacra”.  Né questo rimando preciso deve essere semplicemente inteso quale richiamo d’occasione, né la dedica all’ Arcivescovo di Vercelli un semplice atto formale: l’arte sacra infatti aveva costituito per tutta la seconda metà del secolo XIX, ed in parte costituiva ancora, uno dei temi più interessanti del dibattito culturale del Piemonte cattolico, strettamente connesso alla rivalutazione della tradizione artistica locale e quindi anche al dibattito ed alle prime iniziative di tutela. Se Romualdo Pastè, autore della ricerca storica, corrispondente della Deputazione Subalpina di Storia Patria, canonico ed archivista capitolare svolge, per il suo stesso ruolo, una funzione di tramite, è certamente Federico Arborio Mella la figura centrale, erede di una tradizione familiare di grande prestigio che aveva avuto nel nonno Carlo Emanuele e nel padre Edoardo gli esponenti più noti, impegnati a fondo nel  dibattito e nell’attività architettonica e di tutela. A Carlo Emanuele Arborio Mella si devono infatti i primi interventi di restauro della basilica di S. Andrea, condotti tra il 1822 e 1825 in modo “aperto ed attento a questioni singolarmente precoci quali il concetto di monumento inteso come insostituibile fonte documentaria dello stesso, da cui gli deriva l’esigenza di riportare in puntuali relazioni quanto emerso o osservato nel corso dello studio diretto delle strutture antiche”[2] Queste osservazioni, raccolte nell’ opuscolo Cenni storici sulla chiesa ed abbazia di Sant’Andrea in Vercelli [3] pubblicato postumo nel 1856 a cura del figlio Edoardo, il quale a sua volta pubblicherà quasi a conclusione della sua lunga attività lo Studio delle proporzioni dell’antica chiesa di S. Andrea in Vercelli [4]; segnano l’inizio della ripresa di interesse per il monumento vercellese da parte di studiosi italiani e stranieri. Accanto all’attività di studio si collocavano le iniziative di promozione culturale: anche in questo caso il primo riferimento è costituito dall’attività di Carlo Emanuele che aveva fondato a Vercelli, nel 1841, la Società per l’insegnamento gratuito del disegno, trasformata venti anni più tardi, sotto la presidenza di Edoardo, in Istituto di Belle Arti, prevalentemente preposto alla formazione di corsi professionali ma che prevedeva esplicitamente all’art. 3 dello Statuto di “provvedere alla conservazione dei patrii monumenti o col farne acquisto od avvisando ai mezzi di impedirne il deterioramento”[5]. Il richiamo alla “conservazione dei patrii monumenti” rimanda in modo quasi letterale alle disposizioni contenute nel Regio Brevetto carloalbertino del 1832 col quale si istituiva la Giunta di Antichità e Belle Arti, destinata a censire e tutelare “reliquie degli antichi monumenti e capolavori delle arti belle”[6]; di questo organismo, che ebbe vita stentata almeno fino al 1853 per essere poi sostituito a partire dal 1860 dalla Consulta di Belle Arti, fecero parte gli esponenti più noti del mondo culturale sabaudo e tra essi merita ricordare almeno Domenico Promis conservatore della Biblioteca Reale di Torino, che Edoardo Arborio Mella conobbe nel 1855, ed il fratello di questi Carlo Promis, architetto e storico dell’architettura, nominato nel 1837 “Ispettore de’ monumenti di antichità esistenti ne’ Regi Stati”, che nel 1857 proporrà il Mella per i restauri del duomo di Casale Monferrato, segnando l’inizio della sua carriera di restauratore.

Attorno al Mella ed all’Istituto di Belle Arti ruota gran parte dell’ ambiente artistico vercellese: quando la scuola apre i battenti nel 1862 il corso di Ornato e Figura è diretto dal pittore Carlo Costa, il quale aveva frequentato giovanissimo lo studio del Mella e lo aveva quindi accompagnato durante il suo fondamentale viaggio in Germania, divenendo uno dei suoi più preziosi collaboratori. Il corso di Elementi era tenuto dal fratello di Carlo Costa, Giuseppe, il quale sarà chiamato nel 1868, sempre dal Mella, a realizzare le parti a figura durante i restauri della chiesa di S. Francesco a Vercelli.[7] Abbiamo qui uno dei numerosi esempi di rapporti strettissimi tra mondo accademico e fotografia: “Studio di Pittura e Fotografia di Costa Giuseppe/ Vercelli/ via Felice Monaco”[8] recita il verso di una sua carte de visite conservata presso le Civiche Raccolte Bertarelli di Milano,mostrando la compresenza di due attività complementari, sebbene le notizie a noi note facciano supporre che negli anni successivi egli si sia dedicato prevalentemente alla fotografia, documentando nel 1882 gli affreschi eseguiti dal fratello Carlo nella cupola di S. Eusebio, pubblicati dapprima in un album ricordo e quindi riediti nel 1898 nel numero monografico di “Arte Sacra” dedicato a Vercelli, in cui compaiono anche sue riproduzioni dei cartoni di Francesco Grandi per la cupola del Duomo ed una bella immagine della basilica di S. Andrea. La figura di Giuseppe Costa, finora poco nota, sembra collocarsi marginalmente nel panorama dei fotografi piemontesi della seconda metà dell’Ottocento interessati alla documentazione del patrimonio artistico, ma sarà necessario attendere il riordino in corso del fondo fotografico Mella[9],conservato presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli, per una verifica più puntuale della sua attività, soprattutto mettendola ancora una volta in relazione col ruolo e con le concezioni critiche espresse da Edoarado Arborio Mella.

Si avverte a Vercelli un certo ritardo rispetto ad altre situazioni regionali, ad altre figure di fotografi: già nel 1865 Vittorio Besso, allievo di Giuseppe Venanzio Sella, viene ricordato dalla locale “Gazzetta Biellese” come fotografo di “capolavori di pittura e d’architettura (che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario”)[10] e tra 1872 e 1877 a lui si deve l’accurata documentazione dei restauri condotti da Alfredo d’Andrade al Castello di Rivara per incarico di Carlo Pittara; immagini presentate dallo stesso D’Andrade alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880 ad illustrazione del suo primo intervento di restauro o meglio ­in questo caso – di reinvenzione.[11] Nel 1878 inizia la propria attività anche Secondo Pia che dodici anni più tardi, in occasione dell’Esposizione Italiana di  Architettura di Torino del 1890, riceverà una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi” riconoscimento offerto anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi”[12]. Torna in mente l’appello Ruskin: “the greatest service which can at present be rendered to architecture, is the careful delineation of details … by means of photography. I would particularly desire to direct the attention of amateur photographers to this task”[13],  ma ancora nel 1900 Masoero sottolineerà questo aspetto dell’attività di Pia che “dona alla storia tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case che riproducono per commerciare, ed  il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”[14]

Secondo Pia costituisce il termine di paragone di tutta una generazione di “amateur photographers” piemontesi che si dedicheranno con profonda attenzione e competenza alla scoperta ed alla documentazione del patrimonio artistico ed architettonico regionale che avrà poi in Francesco Negri uno degli esponenti di maggior rilievo. La situazione vercellese intorno agli anni Settanta sembra invece essere meno attenta alla produzione di fotografie di documentazione: lo studio fotografico di Pietro Mazzocca, uno dei primi aperti a Vercelli, nel 1863, pare occuparsi solo di ritratto[15]; Giuseppe Costa negli stessi anni è impegnato essenzialmente come insegnante di disegno o al più si limita a riprodurre le opere del fratello Carlo. Si dovrà attendere il 1873, con l’apertura dello studio di Federico Castellani, già titolare di un altro studio ad Alessandria, per avere una prima documentazione del patrimonio architettonico della città: nel giugno di quell’anno egli presenta infatti l’Album delle principali vedute edifizi e monumenti della città di Vercelli, costituito da 23 stampe. La distinzione fatta nel titolo tra vedute, edifizi e monumenti è indicativa del tipo di approccio di Castellani: l’intento documentario si stempera nell’illustrazione, alle architetture civili e religiose si affiancano la stazione ferroviaria ed il ponte sul Sesia, ed anche la ripresa del singolo monumento lo pone in un contesto più ampio, facendone il soggetto principale ma non unico dell’inquadratura.[16]

Diversamente da quanto era avvenuto ad esempio in Francia, in cui la scoperta della fotografia aveva coinciso con un periodo di rinnovato interesse per il patrimonio architettonico e con la creazione delle società di studi archeologici[17], a Vercelli la presenza di Edoardo Arborio Mella, chiamato a far parte nel 1870 della Commissione incaricata di istituire un primo elenco di monumenti nazionali, poi nominato “Ispettore degli scavi e monumenti di antichità di Vercelli”[18] e quella non meno importante del padre barnabita Luigi Bruzza, insigne archeologo, autore nel 1874 di uno studio dedicato alle  Iscrizioni antiche vercellesi   lodato da Theodor Momsen, che portò alla costituzione nel 1875 di un museo a lui dedicato, destinato a raccogliere “i cimeli lapidei della storia e delle vicende dell’ Agro vercellese”[19], non determinò attenzioni particolari per un uso documentario della fotografia.  Nel 1883 un altro padre barnabita, Giuseppe Colombo, utilizzando studi del Bruzza, pubblica a spese dell’Istituto di Belle Arti Documenti e notizie intorno agli artisti vercellesi; a questo studio farà riferimento nel 1886 il fotografo Pietro Boeri realizzando, con la firma dello studio Boeri-Valenzani, uno splendido album fotografico dedicato agli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli, primo e insuperato esempio a livello locale di documentazione e lettura critica di un ciclo pittorico. Non è per ora possibile sapere se l’album di Boeri nasca da una iniziativa personale o non sia piuttosto il prodotto di una collaborazione qualificata, ma ciò che preme sottolineare è che il primo esempio di documentazione fotografica prodotto localmente si rivolge al patrimonio artistico e non a quello architettonico od archeologico che pure godevano dell’attenzione di studiosi di grande levatura. Ciò è ancora più strano se si pensa che nel campo dell’architettura il ricorso all’immagine fotografica era da tempo codificato ed utilizzato sia per il restauro che per la documentazione storico-critica: la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri ed Architetti Italiani, tenuto si a Torino nel 1884, aveva auspicato la formazione di una “raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche degli edifici nazionali”[20], affidandone la realizzazione al Collegio torinese che presenterà  nel successivo congresso tenuto si a Venezia nel 1887  il Catalogo del Museo Regionale di Architettura, costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai  monumenti piemontesi, “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione … [quelle] degli altri paesi d’Italia”.  L’elenco delle fotografie esposte e quello dei donatori forniscono dati di grande interesse: la città di Vercelli non è documentata; tra i donatori (architetti, fotografi, ingegneri ecc.) non compare il Mella, mentre è presente il fotografo Castellani, che ha fornito un’immagine del duomo di Alessandria. L’assenza non sembra essere priva di significato. Se si pensa all’intensa attività di Edoardo Arborio Mella ed ai riconoscimenti ricevuti questa non può essere ascritta che alla particolare natura del museo che prevedeva appunto l’uso di riproduzioni fotografiche, cioè di una tecnica di documentazione e di analisi che, pur utilizzando, il Mella non aveva mai preso in seria considerazione, tanto che nella esposizione postuma  dedicata a tutto l’arco della sua attività, curata da G.G. Ferria su incarico di Federico Arborio Mella in occasione dell’Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884 – sezione Arte Contemporanea –[21] non compare neppure una fotografia.

Lo scarso interesse locale per la documentazione fotografica dell’architettura è confermato anche in una pubblicazione più tarda: nel 1898 si tiene, sempre a Torino, l’Esposizione Italiana di Arte Sacra; la serie di fascicoli editi in questa occasione presenta al n. 4, dedicato a Vercelli, immagini di diversi fotografi locali impegnati ad illustrare il patrimonio artistico ed architettonico della città: vi compaiono i nomi di Pietro Boeri, Secondo Gambarova, Giuseppe Costa e Pietro Masoero. La scelta dei soggetti privilegia soprattutto le opere della scuola pittorica vercellese, dedicando alla basilica di S. Andrea una sola immagine.[22] Compare nello stesso numero anche un breve articolo dedicato alla Madonna delle Grazie a S. Maria Maggiore  siglato P.M. (Pietro Masoero) che prelude al saggio più ampio dedicato a La scuola vercellese e i suoi maestri pubblicato dallo stesso autore nei n. 34 e 35, prima stesura del testo della conferenza accompagnata da proiezioni luminose che terrà nel 1901 ottenendo vasti riconoscimenti.[23] Ho cercato in una occasione precedente di ricostruire la nascita dell’interesse di Masoero per la scuola pittorica vercellese, basterà ricordare qui che può essere fatta risalire agli stretti rapporti che legavano Masoero ad un collezionista come Antonio Borgogna ma anche al ruolo svolto dall’Istituto di Belle Arti nell’opera di recupero e valorizzazione della “scuola pittorica vercellese”. Ciò che interessa sottolineare è però la scelta operata da Masoero, che dedica la propria attenzione di divulgatore al solo patrimonio pittorico; ancora una volta al monumento più importante  dell’architettura religiosa vercellese, la basilica di S. Andrea, non viene concessa che una semplice immagine; troppo recenti e troppo autorevoli erano gli studi sull’architettura di questo complesso perché qualcuno potesse pensare di affrontare nuovamente il problema.  Solo nel 1901 il canonico Pasté pubblicherà la Storia documentata dell’Abbazia di S. Andrea [24] integrando ed ampliando l’apparato documentario prodotto cinquanta anni prima da Carlo Emanuele Arborio Mella con contributi di altri studiosi e con nuove ricerche archivistiche. A questo saggio storico Pietro Masoero (con lo pseudonimo di Martin Pala) dedicherà una attenta recensione sul giornale “La Sesia”, inserendo quasi di sfuggita una breve annotazione relativa all’architettura, ma dovranno  passare altri sei anni perché l’analisi critica del monumento venga affrontata compiutamente.

Nel 1907 si pubblica il volume su S. Andrea frutto della collaborazione di Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella e Pietro Masoero. Le motivazioni che hanno portato a questa collaborazione, oltre ai temi di carattere generale ricordati in apertura, nascono dalla constatazione che “la nuda esposizione di fatti … da sola non risponderebbe alla dignità del soggetto, ma soprattutto, come ricorda esplicitamente Mella presentando la sezione da lui curata, perché “naturale complemento a quegli studi [deve] essere il racconto delle vicende edilizie dell’edificio stesso; essendo che l’arte è sempre l’espressione più veritiera, anche contrariamente alla volontà degli uomini, dei tempi nei quali ebbe vita.”[25] Ecco allora che “lo studio accurato dell’arte del nostro S. Andrea e del chiostro annesso, in rapporto coll’architettura religiosa del medioevo e nelle sue linee tecniche, parve conferire ad una illustrazione meno imperfetta e più accetta ai lettori. Perrocché è forse anche colpa nostra se le bellezze singolarissime di un monumento che ci è invidiato dai forestieri restarono finora note ad altri piuttosto che ai connazionali”. “Si volle per ultimo che la riproduzione fotografica di questo gioiello, sviluppata in una serie logica e possibilmente completa di parti armonizzanti col tutto, desse all’ opera un senso di realtà e di vita”. Queste dichiarazioni di intenti si concretizzarono in un apparato iconografico di circa centotrenta immagini (98 fotografie e 31 rilievi) che percorre tutto il testo ed anzi correda prevalentemente la parte dedicata alla ricostruzione delle vicende storiche della abbazia, istituendo una serie di percorsi  paralleli tra dato storico (temporale) ed elemento architettonico (spaziale). Se il saggio storico adotta una sequenza strettamente cronologica, il saggio iconografico adotta una sequenza spaziale che nasce dall’integrazione tra percorso logico-architettonico (planimetria, volumetria) e percorso percettivo, entrambi realizzati per confronto diretto tra rilievo grafico e fotografico: partendo dal prospetto principale la sequenza si sviluppa illustrando il fianco meridionale, l’abside e quindi l’esterno della cupola; la sezione longitudinale dell’edificio introduce quindi la documentazione dell’interno, molto attenta agli elementi strutturali ed all’apparato decorativo, passando poi – attraverso la sala capitolare ed il refettorio – ad illustrare il chiostro ed il lato settentrionale della basilica, che chiude il percorso visivo.

Le fotografie di Masoero, a volte ritoccate in stampa, sono accuratamente impaginate e sovente tagliate per sottolineare gli elementi salienti o per correggere le distorsioni  prospettiche particolarmente evidenti sui bordi della lastra. Per i soggetti più complessi si procede seguendo il criterio ormai consolidato dal generale al particolare, utilizzando diverse riprese a distanza sempre più ravvicinata, ma anche procedendo ad ingrandimenti selettivi della stessa lastra quando le caratteristiche del soggetto ripreso (campanili, cupola ecc.) non consentono di procedere altrimenti. Le riprese, generalmente frontali, adottano a volte un taglio più scorciato per mettere in evidenza il gioco dei volumi, utilizzando con grande accortezza ombre molto marcate, senza però indulgere all’immagine d’effetto, seguendo in questo le precise intenzioni espresse da Federico Arborio Mella, il quale,  presentando l’apparato iconografico, parla di “disegni condotti senza alcun lenocinio di arte, quindi più fedeli ed esatti” e di immagini fotografiche che “riproducono in modo mirabile, non svisato od alterato da alcun manierismo, la vera parvenza artistica o carattere stilistico”[26]  dell’ edificio.

Il volume, stampato in 600 esemplari, riscosse un buon successo di critica, e come ricordava la pubblicità redazionale contenuta nell’Archivio della Società Vercellese di Storia ed Arte del 1909 “Le 150 illustrazioni geometriche e fotografiche, a giudizio dei periti, non lasciano più nulla a desiderare: quelle completano l’analisi tecnica della basilica e del chiostro, queste danno la visione da terra di tutte le parti”[27],ma il coro di elogi non fu unanime: se “Civiltà Cattolica” definisce il volume illustrato “abbondantemente, anzi sovrabbondantemente, con vedute fotografiche generali e particolari, per ogni aspetto, ogni angolo, ogni minuzia”[28] mostrando di non comprendere la novità dell’impostazione complessiva, anche uno studioso avveduto  come Guido Marangoni, nel suo studio sulla basilica di S. Andrea pubblicato nel 1909, si limita a sottolineare che gli studi di Romualdo Pasté  “dal punto di vista artistico nessuna novella  luce hanno portato sull’interessante argomento. Ed anche Federico Arborio Mella, dedicandosi nello stesso libro allo studio artistico dell’Abbazia e  della Chiesa, si è limitato a raccogliere le varie e disparate opinioni degli autori precedenti, racchiudendosi in poche, timide ed eccessivamente modeste osservazioni personali”[29] senza rilevare il ruolo svolto dai rilievi grafici e fotografici e soprattutto senza ricordare l’opera di Pietro Masoero di cui lui stesso si era avvalso in questa ed altre  occasioni.

Quando viene pubblicata in “Rassegna d’Arte” la prima parte dell’articolo di Marangoni la stampa locale ne dà immediata notizia definendolo “articolo splendidamente illustrato con fotografie in gran parte inedite del nostro Masoero”[30]; l’affermazione non corrisponde al vero, poiché le fotografie che corredano il testo sono le stesse già utilizzate per il volume del 1907, ma dimostra con evidenza (oltre ad un tocco di campanilismo) quale peso avesse assunto la documentazione fotografica nell’economia complessiva dello studio, ciò di cui era del resto ben cosciente lo stesso Marangoni che nella ristampa del 1910 non mancherà di ringraziare Masoero: ” alla sua nota eccellenza di fotografo devo il materiale illustrativo onde questo studio si fregia, al suo  colto e consapevole entusiasmo per i tesori dell’arte autoctona, vado debitore di preziose notizie e di validissimo aiuto “. Per Marangoni era l’impostazione stessa dello studio di Arborio Mella a non essere soddisfacente poiché questi si limitava ad esporre le opinioni precedenti, indulgendo soprattutto, sulla scia degli studi del nonno Carlo Emanuele, all’ipotesi di una matrice inglese per l’architettura del S. Andrea, fermamente confutata da Marangoni, insieme a quelle che proponevano  derivazioni francesi o tedesche, a tutto favore di una rivendicazione dei caratteri sostanzialmente autoctoni dell’opera, basata soprattutto sull’analisi degli apparati decorativi. A questo tipo di analisi è strettamente connessa la scelta dell’apparato illustrativo: assenti i rilievi grafici, anche le viste d’insieme si riducono all’essenziale mentre invece abbondano immagini di capitelli, cornici, pinnacoli a sottolineare la matrice lombarda di questa architettura.

 

 

È questo un uso dell’immagine fotografica decisamente meno interessante di quello rilevato nel volume del 1907; la fotografia diviene semplice illustrazione, la sequenza perde di compattezza e si sfalda, ponendosi all’assoluto servizio del testo. La completezza e la complessità di articolazione della documentazione fotografica verranno invece riutilizzate in una pubblicazione di poco successiva: esce nel 1910 il n. 13 della serie “Italia Monumentale – Collezione di monografie sotto il patronato della «Dante Alighieri» e del Touring Club Italiano” dedicato a Vercelli, in cui un breve testo introduttivo di Francesco Picco accompagna una serie di fotografie di Pietro Masoero prevalentemente dedicate alla basilica di S. Andrea.[31] Qui sono le stesse caratteristiche editoriali della pubblicazione a far prevalere l’apparato iconografico, ancora una volta coincidente con quello utilizzato nel 1907 ma trattato con diversa attenzione: non solo l’ordine della sequenza abbandona la logica architettonica, disciplinare, a favore di un percorso schiettamente percettivo che passa dalla visione del prospetto principale all’interno, articolando poi sulla cupola – cioè sull’elemento anche visivamente emergente – il ritorno all’esterno, ma anche la singola immagine si presenta in modo diverso: scomparsi i tagli e l’ingrandimento selettivo la lastra viene utilizzata nella sua interezza, perdendo in parte l’efficacia dell’analisi a favore di un approccio più descrittivo, didascalico. Sembra quindi che la documentazione prodotta da Masoero non possa essere assimilata ad una vera e propria opera di rilievo, ma che abbia assunto questa veste solo sotto la guida attenta di Federico Arborio Mella. Si pone così il problema di individuare i tempi ed i modi della  realizzazione delle immagini fotografiche.

L’unica fonte a noi nota è costituita dal fondo Masoero conservato presso il Museo Borgogna di Vercelli, costituito da lastre, diapositive ed autocromie prevalentemente dedicate al patrimonio artistico ed architettonico vercellese;[32] il corpus di immagini relative a S. Andrea comprende un centinaio di lastre alla gelatina­bromuro in formati diversi dal 9/12 al 24/30 e due diapositive,  un esterno ed un dettaglio del portale principale, che sembrano costituire l’unico resto del materiale da proiezione utilizzato da Masoero nel corso della conferenza da lui tenuta a Novara la sera del 25 aprile 1909, dedicata alla basilica. Dal confronto tra le lastre e le immagini utilizzate nelle varie pubblicazioni emerge immediatamente un dato interessante: le fotografie pubblicate nella maggior parte dei casi non corrispondono alle lastre a noi pervenute che, anzi, si presentano in più di un caso come prove non perfettamente riuscite delle riprese poi utilizzate in sede di pubblicazione. Il dato pone interrogativi inquietanti, a cui peraltro non sono ancora in grado di rispondere, soprattutto ricordando che per esplicita volontà dello stesso Masoero, prima amministratore e poi presidente del Museo Borgogna, tutto il suo fondo fotografico era stato donato al museo stesso, come ricordano esplicitamente anche i necrologi pubblicati alla sua morte, nel 1934. Il materiale conservato presso il Museo, prescindendo dalla discontinua qualità delle singole immagini, fornisce comunque dati di rilevante interesse, soprattutto perché molte delle lastre sono accompagnate da annotazioni autografe con indicazioni relative a data e tempi di ripresa. L’11 gennaio del 1890 Masoero fotografa per la prima volta la navata centrale e la navata destra, proseguendo poi fino ai primi di marzo con una attenzione particolare per gli interni o per i singoli elementi quali il confessionale del XVII secolo, la tomba dell’abate Tommaso Gallo (sec. XIII) ed il monumento ad Edoardo Arborio Mella del 1889, escludendo quasi del tutto le riprese in esterno che comprendono solo una serie di tre immagini del transetto e di parte della navata ripresi dal chiostro, interessanti soprattutto per ricostruire il suo modo di impostare la documentazione per aggiustamenti progressivi. Fanno parte di questa prima serie di immagini anche alcuni interni con figure in cui la ripresa architettonica lascia il posto ad annotazioni di costume. Non si può quindi ancora parlare di una intenzione chiara e coerentemente sviluppata (almeno a giudicare dal materiale disponibile) ma, come abbiamo ricordato, in questi anni a Vercelli non esistono esempi di documentazione fotografica dell’architettura a cui fare riferimento, certamente non favoriti dalla presenza di uno studioso come Edoardo Arborio Mella.

Le prime riprese di Masoero, all’epoca ancora direttore dello Studio Castellani, nascono da una iniziativa personale, connessa all’interesse nascente per il patrimonio architettonico ed artistico della città in cui risiedeva, e forse anche alla progressiva conoscenza dell’ opera di altri fotografi piemontesi. L’esempio di Secondo Pia, premiato nel 1890 per la sua opera di documentazione, dovette certamente indurlo a proseguire l’opera di documentazione, impostandola con nuovi criteri di organicità e completezza: nel giugno del 1892 Masoero apre il proprio studio in via Caserma di  Cavalleria al n. 1, dedicandosi soprattutto al ritratto, e circa un anno dopo, dal 20 marzo al 19 aprile del 1893, fotografa la chiesa con lastre 18/24 rilevandone prospetti, interni e dettagli, ritornando sui soggetti fotografati tre anni prima. I dati di ripresa scrupolosamente annotati (pratica del resto comune ad altri) mostrano la preoccupazione di produrre immagini prospetticamente corrette che rendano compiutamente la volumetria dell’intero complesso, fotografato più volte con obiettivi diversi, impiegando il grandangolare solo in casi eccezionali, quando le condizioni di ripresa non consentono alternative. La campagna fotografica del 1893 risulta essere la più completa (altre immagini vennero realizzate ancora nel 1896 e nel 1899 in modo certamente più occasionale e saltuario)[33], ma rimarrà inutilizzata ancora per molti anni e probabilmente sconosciuta  anche in ambito locale se l’unica immagine di S. Andrea presente nel già ricordato fascicolo di “Arte Sacra” del 1898 si deve a Giuseppe Costa. L’attività fotografica di Masoero, che pure in quegli anni riceverà una significativa serie di riconoscimenti, era caratterizzata dalle sue note capacità di ritrattista e, in ambito più strettamente professionale, dalle iniziative sostenute a favore della costituzione di scuole di fotografia, mentre si andava consolidando la sua fama di divulgatore e di studioso della scuola pittorica vercellese. La documentazione dell’architettura della basilica di S. Andrea, che pure per quasi vent’anni costituirà uno dei temi ricorrenti del suo lavoro, viene lasciata in secondo piano, per essere ripresa solo nel 1907 quando, dietro lo stimolo di Federico Arborio Mella, Pietro Masoero tornerà per l’ultima volta  fotografare la chiesa, con lastre di grandi dimensioni (24/30), attento soprattutto ad “evitare un pericolo … di cadere nel manierato … Al vero, unicamente al vero deve l’arte fotografica attingere le sue ispirazioni … L’arte fotografica deve avere un’ispirazione, di diventare il documento inspiratore e coadiuvatore dell’arte, con le sue potenti verità”.[34]  Per Masoero, appassionato studioso della pittura vercellese, la fotografia di architettura non era che un documento.

 

Note

 

 

[1] Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, Pietro Masoero, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli. Vercelli: Gallardi e Ugo, 1907. In seguito citato come PMM.

 

[2] Daniela Biancolini,  Carlo Emanuele Arborio Mella (1783­1850), in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980,  voI. III, p. 1387.

 

[3] Carlo Emanuele Arborio Mella, Cenni storici sulla chiesa ed abbazia di Sant’Andrea in Vercelli. Torino: Lit. Giordana, 1856.

 

[4] Edoardo Arborio Mella, Studio delle proporzioni dell’antica chiesa di S. Andrea in Vercelli. Torino: Stamperia Reale di G.B. Paravia e C.,1881.

 

[5] Anna Maria Rosso, Il fondo disegni di Edoardo Arborio Mella conservato presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli,  in

Edoardo Arborio Mella (1808­-1884): Mostra commemorativa, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Camillo Leone, novembre 1985).  Vercelli: Istituto di Belle Arti  – Archivio di Stato di Vercelli, 1985, pp. 67-75.

 

[6] Lucetta Levi Momigliano, La Giunta di Antichità e Belle Arti,  in Cultura figurativa e architettonica 1980,  vol. 1, pp. 386-387.

 

[7] Camilla Barelli, Carlo Costa 1826-1897 in Edoardo Arborio Mella 1985  pp. 149­-158.

 

[8] Milano, Civica Raccolta Stampe A. Bertarelli, Pubblicità di fotografi. Il verso della carte de visite porta, oltre all’intestazione dello studio, una veduta della basilica di S. Andrea.

 

[9] Istituto di Belle Arti di Vercelli, Fondo Mella. Il fondo proviene dal lascito di Federico Arborio Mella: “Lascio pure al suddetto Istituto di Belle Arti tutta la raccolta di disegni del compianto mio padre, quella di riproduzioni fotografiche di monumenti, di quadri, di statue”,  cfr. A.M. Rosso, il fondo disegni, op. cit., p. 67.

 

[10] Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880. Roma: Quasar, 1978, p. 55. A Vittorio Besso si deve anche lo splendido Album artistico ossia raccolta di 326 disegni autografi di valenti artisti italiani” del 1868, conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, che gli valse una medaglia all’Esposizione di Vienna del 1873.

 

[11] P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura,  in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp. 107-123

 

[12] I Esposizione Italiana di Architettura: Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L. Roux e C., 1891, p. 49. Si veda anche Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza, 1981.

 

[13] Cfr. Paolo Costantini, Italo Zannier, a cura di, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale, 1986. Una più ampia traduzione del brano di Ruskin è riportata a p. 16.

 

[14] Pietro Masoero,  L’Esposizione fotografica di Torino Note e appunti , “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), p. 278. Non mancavano però le critiche rivolte all’uso indiscriminato della fotografia nella pratica architettonica. Si veda in proposito Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891, p. 18: ” non riuscì altrettanto di buon augurio il vedere come molti architetti, dilettanti fotografi, preferiscano servirsi di quest’arte nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano … Quello che riesce di maggiore giovamento all’ educazione artistica dell’architetto è il paziente e intelligente rilievo fatto sul sito”.

 

[15] Becchetti 1978, p. 126.

 

[16] Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra, apparato documentario a cura di Claudia Cassio. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977 p. 27, Tav. XXIV.

 

[17] Françoise Heilbrun, Charles Nègre et la photographie d’architecture,  “Monuments historiques, Photographie et Architecture”, 1980, n. 110, p. 18. Per ulteriori informazioni sui rapporti tra tutela e documentazione fotografica in Francia si veda Françoise Bercé,  Les premiers travaux de la Commission des Monuments historiques, 1837-1848. Paris: Picard, 1979.

 

[18] Liliana Pittarello: La posizione di Edoardo Arborio Mella all’interno del dibattito ottocentesco sul restauro , in Cultura figurativa e architettonica 1980, vol. 2, p. 768.

 

[19] Luigi Bruzza: storia, epigrafia, archeologia a Vercelli nell’Ottocento, Guida alla mostra. Vercelli: Cassa di Risparmio di Vercelli, 1984.

 

[20] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero,1887, p.1.

 

[21] Esposizione Genera1e Italiana di Torino 1884: Arte contemporanea Catalogo Ufficiale. Torino: Unione Tipografica Torinese, 1884, p. 114. L’ingegnere Giuseppe Gioacchino Ferria aveva presentato nel luglio del 1883 una memoria Sul rilevamento architettonico coll’uso della fotografia poi pubblicata in “Atti della Società degli Ingegneri e degli Industriali di Torino”, 17 (1883). Torino: Tip. Salesiana, 1884, pp. 43-48, che viene unanimemente considerato il primo studio italiano di fotogrammetria. Gli interessi di Ferria non sembrano aver influito sulle opinioni di Federico Arborio Mella relative all’uso della documentazione fotografica dell’architettura; un riferimento più concreto, forse un modello, potrebbe invece essere individuato nella monumentale opera dedicata alla Basilica di S. Marco edita da Ferdinando Ongania a Venezia, di cui l’Istituto di Belle Arti di Vercelli possedeva una copia.

 

[22] “Arte Sacra”, Torino, n. 4, 1898, numero monografico dedicato a Vercelli.  La basilica di S. Andrea era già compresa nel catalogo Alinari. Cfr. Liguria, Piemonte, Lombardia. Vedute, bassorilievi, statue, quadri, affreschi ecc. Riproduzioni fotografiche pubblicate per cura dei Fratelli Alinari.  Firenze: Tip. G. Barbera, 1899. Le immagini della basilica, nn. 15877-15881, comprendevano esterno, facciata, abside, interno, confessionale del XVII secolo.

 

[23] Antonio Taramelli, Per la diffusione della cultura artistica , “L’Arte”, 6 (1901), pp. 212-213: “Prima di lasciare il Piemonte debbo ricordare come alcuni studiosi abbiano cercato di aiutare la diffusione della cultura artistica col mezzo di conferenze illustrate da proiezioni di fotografie. Debbo ricordare a titolo d’onore, quella del sig. Masoero di Vercelli, che a Torino ed a Firenze, espose una brillante serie di sue fotografie illustranti la pittura de’ Vercellesi”. Si veda anche P. Cavanna: Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, 19895), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano, , Milano, Electa, 1985, pp. 150-154.

 

[24] Romualdo Pastè, Storia documentata dell’Abbazia di S. Andrea di Vercelli nel periodo medioevale 1219-1466, “Miscellanea di Storia Italiana”, Serie III, Tomo VII. Torino: Bocca, 1902, pp. 345-458. Questo studio era stato recensito da Masoero in “La Sesia” del 17 settembre 1901.

 

[25] Federico Arborio Mella in PMM 1907, p. 439. L’affermazione richiama il concetto di “Documento/Monumento” espresso da Jacques Le Goff in anni recenti.

 

[26] Ivi, p. 489, sottolineatura nostra. Sono ormai lontani i tempi in cui Pietro Selvatico pensava che la fotografia offrisse “le esatte apparenze della forma”. Pietro Masoero, sempre molto attento ai problemi posti da un uso corretto della strumentazione fotografica, aveva redatto uno studio relativo a La dilatazione dei supporti positivi, in “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 11 (1899), pp. 74-78.

 

[27] “Archivio della Società Vercellese di Storia e d’Arte”, 1 (1909), n. 3-4.

 

[28] “La Sesia”, 27 settembre 1908.

 

[29] Guido Marangoni, Il Sant’Andrea di Vercelli,  “Rassegna d’Arte”, 9 (1909), n. 7, pp. 122­126; n. 8/9, pp. 154-158; n. 11, pp. 180-186. I tre articoli vennero riediti in Guido Marangoni, Il bel Sant’Andrea di Vercelli Note ed appunti critici. Milano:  Alfieri & Lacroix, 1910. Il giudizio sul volume collettivo del 1907 è alla p. 12 di questa edizione. La volontà di compilare una semplice rassegna degli studi critici precedenti era stata palesemente espressa da Federico Arborio Mella: ” Mi asterrò nel mio scritto … da ogni giudizio mio personale; essendo unico mio scopo quello di mostrare il S. Andrea quale fu nei tempi passati e quale è oggi; illustrandolo coi giudizi e colle opinioni di quanti io conosco essersi proposto ad oggetto degli studi loro il nostro monumento” (Cfr., PMM, op. cit., p. 439). Ma in almeno un’occasione non può esimersi dal formulare la propria opinione, criticando proprio l’intervento del padre che nel 1850 aveva realizzato gli altari della cappella di S. Carlo e di S. Francesco di Sales “in uno stile archiacuto tedesco del secolo XIV” impiegando “un unico materiale bianco “. Ormai si sono fatta strada i nuovi concetti di restauro propugnati da Camillo Boito e da Alfredo d’Andrade e le teorie di Viollet-le-Duc sono state abbandonate. “Sarebbe stata certamente ottima cosa che il monumento ci fosse pervenuto integro anche in quelle parti, che dal punto di vista architettonico si possono ritenere accessorie … ” conclude amaramente Federico Arborio Mella (ivi, p. 487).

 

[30] “La Sesia”, 25 luglio 1909.

 

[31] Francesco Picco, Vercelli, con “Sessantaquattro illustrazioni fornite dallo Studio fotografico del Cav. Pietro Masoero/Vercelli”. Milano: E. Bonomi, 1910.

 

[32] Il fondo fotografico, pervenuto al Museo Borgogna per lascito dello stesso Masoero, giace per ora scarsamente utilizzato ed in precarie condizioni di conservazione. Le lastre sono in parte conservate nelle loro confezioni originali, corredate da annotazioni autografe, ma prive di protezioni contro luce, polvere ed umidità, tanto che in numerosi casi l’emulsione tende a staccarsi dal supporto, soprattutto ai bordi. Una prima parziale schedatura del fondo, relativa alle riproduzioni delle opere di Bernardino Lanino, è stata realizzata in occasione della mostra del 1985. Cfr.  Laura Berardi, P. Cavanna, Elenco ragionato delle fotografie di Pietro Masoero relative all’opera di Bernardino Lanino. Per ulteriori notizie sulla storia e sulle importanti collezioni del museo si veda Laura Berardi: Il Civico Museo Borgogna ­Vercelli.  Milano: Federico Garolla, 1985.

 

[33] Pietro Masoero,  Il sepolcro dell’abate Gallo in S. Andrea. 14 gennaio 1899 dalle 11.40 alle 12.30, Lastre Orto Cap. [Ortocromatiche Cappelli] da 2 mesi almeno nel chassis, diafr., temo posa (7) “. Vercelli, Museo Borgogna, Fondo Masoero, Scatola 14, lastra 18/24.

 

[34] Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171.