A proposito di Piero Becchetti (2021)
presentazione del volume I Quaderni Becchetti. Per la storia delle origini della fotografia in Italia, a cura di Maria Lucia Cavallo, Roma, ICCD, 7 luglio 2021
presentazione del volume I Quaderni Becchetti. Per la storia delle origini della fotografia in Italia, a cura di Maria Lucia Cavallo, Roma, ICCD, 7 luglio 2021
in Fotografare le Belle Arti : appunti per una mostra: un percorso all’interno dell’archivio fotografico della Direzione generale delle antichità e belle arti, Fondo MPI Ministero della pubblica istruzione 1860 – 1970, catalogo della mostra (Roma, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, 10 Maggio – 28 Giugno 2013). Roma: ICCD, 2013, pp. 77-80
Una lunga teoria per meglio dire, conservando le plurime accezioni del termine, tra materialità e concetto, per rendere ragione della ricchezza testimoniale e culturale restituita dalle centinaia di migliaia di stampe che costituiscono questo fondo fotografico e di cui si presentano alcuni esemplari: quasi degli indizi. Più di un secolo di sguardi portati alle Belle Arti con intenzioni e modi, con pensieri diversi. Già solo la varietà dei temi, considerata cronologicamente, ci descrive quale sia stato il progressivo estendersi delle categorie considerate tra i beni della nazione, a partire da quegli Elenchi “di edifici pubblici di qualsiasi forma, sacri o profani […] i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali” di cui scriveva Cesare Correnti nel 1870, sollecitandone la redazione ai Prefetti[1] . In continuità con quell’iniziativa si collocava la prima sistematica ricognizione fotografica a scala nazionale avviata a partire dal 1878, opera sempre di operatori locali altamente qualificati, ai quali dobbiamo, in quel torno di tempo e magari per iniziativa personale, la ricchissima documentazione dei nostri centri ‘minori’, quelli storicamente esclusi dal repertorio canonico del Grand Tour. Quando il Ministero concepirà una nuova campagna, quella che darà forma all’Apulia Monumentale di Romualdo Moscioni nel 1892, l’impianto della ricognizione sarà concettualmente diverso, privilegiando ora l’indagine analitica di un territorio, passando quasi dal concetto di emergenza monumentale alla restituzione del tessuto archeologico e architettonico (non ancora paesaggistico) di un’intera regione. Furono questi, per quel che ci è dato di sapere sinora, alcuni dei materiali che alimentarono quella “Collezione fotografica di Belle Arti” del Ministero di cui ci parlano certi timbri al verso delle stampe, ma certo non i soli, o i primi, poiché la presenza di riprese di più alta datazione (come quelle relative a Roma e Venezia) testimonia una fase antecedente e suggerisce occasioni diverse di raccolta che non siamo ancora in grado di definire compiutamente.
In quegli anni i modi della rappresentazione contemplavano l’alternanza di vedute d’insieme e dettagli architettonici o d’ornato, con rare figure: sempre in posa. La loro presenza assumeva ragioni funzionali di riferimento scalare ovvero simboliche, di romantica meditazione sul fascino dell’antico e delle rovine, mentre solo più tardi, ormai alle soglie del pittorialismo, l’architettura medievale sarà trasformata in scenario per le gesta di una figura d’armigero (come ad Aosta). Il ricorso alla fotografi a era entrato a far parte delle buone pratiche degli interventi di restauro ben prima delle messe a punto normative: memore delle indicazioni di Viollet-Le-Duc[2] piuttosto che di Ruskin, il progettista dell’intervento sul Cortile del castello dei Pio a Carpi richiese una doppia serie di riprese, metodologicamente rigorosa, che implicava la riproposizione esatta dello stesso punto di vista tanto quanto il rispetto del parallelismo tra i piani, qui ottenuto con i limitati mezzi di uno sconosciuto fotografo. Sono gli stessi anni, tra 1875 e 1877, in cui anche il Ministero raccomandava, in una circolare redatta da Cavalcaselle, di “far cavare una fotografi a prima del restauro” dei quadri più importanti, mentre un’analoga precauzione non sarebbe comparsa nel Regolamento ministeriale del 1879 in merito ai dipinti murali, alcuni dei quali furono oggetto nel decennio successivo di innovative letture fotografi che. Mentre la produzione dei grandi studi (da Alinari a Sommer) non offriva ancora esempi di ricognizione analitica dell’opera, semmai riprodotta limitandosi a seguire le scansioni interne dei cicli o alla ricerca del più accattivante motivo, nel lavoro di Pietro Boeri dedicato agli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo in Vercelli, del 1886, ci troviamo di fronte a una vera e propria lettura fotografica dell’opera e delle scene narrate. Le sessantaquattro immagini che costituiscono la serie restituiscono volti e gesti a un livello di dettaglio inattingibile dalla comune osservazione diretta, mentre danno conto dei modi e della tecnica del pittore, aprendo inedite possibilità d’indagine alla storiografia artistica come alle metodiche finalizzate al restauro, analogamente a quanto sarebbe accaduto con la campagna realizzata da Achille Ferrario sul Cenacolo leonardesco, riprodotto in scala 1:1 in una serie strabiliante di riprese di grande formato realizzate in previsione dell’intervento di Luigi Cavenaghi del 1907-1908, sviluppando la prima ricognizione condotta nel maggio 1895 per iniziativa dell’Ufficio Regionale lombardo. Resta aperta di fronte a queste produzioni la questione dell’autorialità: in quale misura essa debba essere riconosciuta al fotografo, alla sua sensibilità e accortezza professionale (e imprenditoriale) o se piuttosto non si debba (o almeno si possa) ipotizzare un suggeritore occulto, e magari un regista da ricercarsi necessariamente tra gli storici dell’arte (i primi in senso moderno, dopo la fotografia) o gli studiosi d’architettura. La questione non può che essere affrontata per singoli casi, attendendo la disponibilità di rilevanti messi di dati per provarsi a individuare tendenze: per ora ci sia sufficiente porre il problema. E aggiungerne un altro, forse più ovvio ma non più semplice, che riguardava (e riguarda ancora) la questione della riproduzione dei colori. Senza voler ripercorrere il dibattito ottocentesco sul tema, che in Italia data almeno da Macedonio Melloni (1839), ricordiamo come in questo ambito la presunta fedeltà riproduttiva del medium fotografico sia stata per tutto il XIX secolo (e oltre) ottenuta soprattutto facendo ricorso all’uso raffinatissimo del ritocco manuale, indispensabile per ovviare all’imperfetta resa tonale dei valori cromatici delle emulsioni fotografiche, progressivamente migliorata con l’aggiunta di sensibilizzatori ottici. Da qui le successive campagne di ripresa dei grandi atelier, che tornavano a distanza di anni a riprodurre le stesse opere con lastre e poi pellicole ortocromatiche e infine pancromatiche. In attesa del colore. Nei lunghi decenni della monocromia si perseguiva il miglioramento della resa tonale e della stabilità dell’immagine ricorrendo alle possibilità offerte dalle diverse tecniche di stampa (carta salata, albumina, carbone) o di intonazione (viraggio all’oro), accoppiate all’uso di lastre di grande o grandissimo formato, stampate sempre a contatto, mentre la spettacolare ripresa della volta di Santa Maria degli Scalzi a Venezia, venne realizzata intorno all’anno 1900 da Anderson con l’allora innovativa emulsione alla gelatina. Solo apparentemente più semplice si presentava il problema della rappresentazione della scultura: dopo gli entusiasmi antiaccademici e positivi di Ruskin, per il quale non si doveva avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni”[3] o – in Italia – di Biscarra, che nella fotografia riconosceva l’opera “integralmente tradotta come attraverso ad uno specchio”[4], le successive generazioni di studiosi, cresciuti con la fotografia, erano ormai in grado di valutarne criticamente gli esiti considerando in particolare l’incidenza del punto di vista (di ripresa) nella restituzione corretta (non: oggettiva) dell’opera. Wölfflin, certo, che nel 1896 si scagliava contro la “veduta ‘pittorica’ laterale” per privilegiare criticamente la ripresa dal “punto di vista principale”[5], inteso come quello stabilito dall’autore dell’opera. Solo pochi anni più tardi questa concezione ancora fiduciosamente neutrale del processo fotografico sarebbe stata corretta da uno specialista come Santoponte[6] , che richiamò l’attenzione sulla necessità di considerare criticamente la stessa strumentazione adottata, valutando in particolare l’ampiezza dell’angolo sotto il quale l’opera era ripresa, consapevole della necessità metodologica di far coincidere la “prospettiva geometrica” dell’obiettivo con la “prospettiva soggettiva” della percezione diretta. Resta per noi difficile comprendere se e in quale misura gli esempi di documentazione plastica qui presentati avrebbero potuto soddisfare le diverse sensibilità dei due studiosi. Forse entrambi avrebbero considerato con un qualche sospetto la magnificenza spettacolare della resa del gruppo dei Lottatori (Alinari) o del particolare michelangiolesco del capo di Giuliano de’ Medici (Brogi), sentendosi magari più prossimi alla semplice intenzione documentaria di Filippo Lais, che nascose con un’ampia e un poco sommaria mascheratura il contesto in cui era collocata la statua acefala di Afrodite. Il confronto tra queste realizzazioni, pur così diverse tra loro, e la ripresa fortemente scorciata del rosone del Duomo di Orvieto, morbidamente stampata alla gomma, fa emergere con lampante evidenza la distanza fotografica e culturale (registrata e certificata dalla cronologia) che separa queste produzioni. In quest’ultimo esempio la pura intenzione documentaria ha lasciato ormai posto all’interpretazione autoriale e si è ormai operato il ribaltamento: la fotografia (cioè la stampa) è l’opera mentre il soggetto arretra quasi a pretesto. Questa fotografia documenta (anche) altro: la concezione dell’immagine mostra la tensione irrisolta tra l’impostazione modernista della ripresa fortemente scorciata e una modalità espressiva ancora pittorialista, affidata alla stampa ai pigmenti. Nonostante il soggetto sia piegato e quasi sottomesso all’interpretazione autoriale, la fotografia mantiene però integro il proprio valore d’uso documentario, dice qualcosa a proposito dell’è stato della cosa fotografata. Una irriducibile referenzialità di cui dovevano essere ben consapevoli i fruitori coevi se l’accolsero tra i materiali dell’Archivio. Si muovono su questa linea fecondamente ambigua anche le immagini di paesaggio che chiudono cronologicamente questo breve excursus, testimoniando i nessi di una stagione della cultura e della storia italiane in cui la “questione del paesaggio”[7] , si affacciava come soggetto autonomo sia nella produzione fotografica divulgata dalle pagine de “La Fotografi a Artistica”, sia nel più ampio dibattito politico che avrebbe portato alla promulgazione della Legge 778 del 1922 sulla tutela delle “bellezze naturali”, comprese quelle “panoramiche”. Ancora una volta le immagini di quello che a buona ragione possiamo definire un genere ci interrogano sulla loro particolare natura di documento o – meglio – sulla complessità di questa accezione, in cui il puro referente non è che uno dei termini costitutivi, essendo l’altro rappresentato dalle forme culturali della sua manifestazione non meno che della sua ricezione, coeva e attuale. Così le pecore al pascolo che attraversano le paludi della tenuta di Coltano, che in quegli anni rappresentavano uno dei più forti e ricorrenti stilemi di quella fotografia “che sola merita il nome di Arte”[8] , sarebbero poi divenute oggetto degli strali della nuova generazione che si affacciava dalle pagine dell’annuario del 1943 di “Domus”, sospettosa certo anche nei confronti di una veduta come quella di Capo Miseno, costruita avendo ben chiari i modelli delle incisioni ottocentesche ma drammatizzata da un viraggio che accentuava il cielo corrusco di nubi, in un anticipo di tragedia.
[1] Lettera di Cesare Correnti al Presidente dell’Accademia Albertina di Torino, conte Marcello Panissera di Veglio, datata 6 maggio 1870. Nella successiva, del 12 agosto, indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti”, avrebbe precisato come fosse “mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa.”, Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”.
[2] L’opinione che “la photographie présente cet avantage de dresser des procès-verbaux irrécusables et des documents qu’on peut sans cesse consulter”, espressa da Eugene Viollet-Le-Duc nella voce Restauration del suo Dictionnaire Raisonné de l’Architecture Française du XI au XVI siècle, VIII. Paris:Librairies Imprimeries Réunies, [1860], pp. 33-34, doveva essere ben nota e condivisa dall’ing. Achille Sammarini, responsabile del restauro.
[3] John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, II edizione. Sunnyside – Orpington, Kent: George Allen, 1883, pp. 21-22.
[4] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica: Stabilimento Le Lieure in Torino, “L’Arte in Italia : rivista mensile di belle arti”,2 (1870), IV, p. 58.
[5] Heinrich Wölfflin, Fotografare la scultura, a cura di Benedetta Cestelli Guidi. Mantova: Tre Lune, 2008.
[6] Giovanni Santoponte, Sulle applicazioni della fotografia all’archeologia, comunicazione presentata al III Congresso archeologico internazionale di Roma, 1912, ora in Id., Annuario della fotografia e delle sue applicazioni. Roma: Casa Editrice Italiana, 1913, pp. 36-48 (38).
[7] “È lecito che il Parlamento rimanga insensibile e inerte, quasi non si accorga neppure che si sente e si agita anche in Italia, e più in Italia che dappertutto, una questione del paesaggio?”, Giovanni Rosadi, Per la difesa delle bellezze naturali, in Id., Difese d’arte. Firenze: Sansoni, s.d. [1921], pp. 51-61 (55).
[8] Mario Tamponi, La Fotografia Artistica, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 1, gennaio, pp. 4-5.
in Dal Vesuvio alle Alpi. Giorgio Sommer: fotografie d’Italia, Svizzera e Tirolo, catalogo della mostra (Napoli Castel dell’Ovo – Museo di Etnopreistoria, 27 marzo -30 aprile 2011; Torino, Museo nazionale della montagna 25 novembre 2011 – 20 aprile 2012). Torino: Museo nazionale della montagna, 2011, pp. 6-19
“Ho sempre visto tutto in forma di figura,
anche le parole.”
Claudio Parmiggiani
“Ci sono poche prove che possono essere portate della grande diffusione del nuovo mezzo, e dei differenti modi della sua ricezione [quanto il fatto che] mentre la nostra Regina ha inviato un apparato fotografico completo per uso del Re del Siam, il solo Re di Napoli, in tutto il mondo civilizzato, ha vietato la pratica delle opere della luce nei propri domini!”[1] Questo scriveva Lady Elizabeth Eastlake, in quello che è forse il primo resoconto critico della letteratura fotografica, nello stesso 1857 in cui Sommer apriva a Napoli il proprio studio[2], negli anni fervidi del passaggio dalla prima fase pionieristica a quella che si sarebbe poi detta età del collodio, nella quale – abbandonata la carta – il negativo su supporto in vetro avrebbe aperto l’era dei grandi studi fotografici e della sistematica commercializzazione.
Questo giudizio derivato dalla disillusione postromantica per il nostro paese era certo ingeneroso, ma soprattutto infondato[3], sebbene resti un sintomo significativo di quale fosse la percezione delle condizioni culturali e politiche del Regno borbonico, e forse italiane nell’Inghilterra intorno alla metà del XIX secolo. Va rilevato invece l’artificio retorico e implicitamente razzista (del resto ampiamente diffuso anche oggi) di collocare spregiativamente il reo a un livello inferiore a quello attribuito a persone e paesi che si consideravano modelli di arretratezza. La Napoli di Ferdinando II (1830 – 1848), certo attenta alle suggestioni e ai simboli della modernità (si pensi alla ferrovia Napoli – Portici), fu invece uno dei centri italiani in cui più precoce e qualificata era stata l’attenzione per le nuove, meravigliose invenzioni di Daguerre e Talbot: la prima anticipata da Raffaele Liberatore sulle pagine de “Il Lucifero” già il 6 febbraio 1839; l’altra patrocinata dallo scienziato Michele Tenore, Direttore dell’Orto Botanico di Napoli e da più di un quindicennio in contatto con Talbot, che il 27 settembre dello stesso anno scriveva al Direttore di quel giornale per annunciare di aver ricevuto direttamente dallo studioso inglese alcuni “disegni fotogenici eseguiti da lui medesimo.”[4] Insomma, dopo quel giovedì 28 novembre in cui il signor Raffaele Gargiulo “restò meravigliosamente dagherrotipato” ad opera di Gaetano Fazzini durante il “primo sperimento”condotto a Napoli”[5], le vicende locali della fotografia dovettero avere sviluppo e attenzione ben più ampie di quelle supposte dalla Eastlake, specialmente per merito delle rilevanti presenze straniere in una città che costituiva una delle principali tappe del Gran Tour. “Amena più che ogni altra (…) per pittoresche circostanze – era infatti descritta questa città – [essa] darebbe all’artista o all’amatore che ne avesse genio l’agio di riprodurre per mezzo del Daguerre, le più belle vedute che la matita o il pennello de’ paesisti abbia mai tracciato sulla carta e sulla tela.”[6]
Le prime vedute al dagherrotipo di Napoli, e dei siti archeologici, entrarono molto presto, già nel 1840-1841,a far parte delle serie editoriali di Alexander John Ellis come di Noël Marie Paymal Lerebours o dell’italiano Ferdinando Artaria e per tutto il quindicennio successivo – cioè fino a che tale tecnica non venne abbandonata – furono almeno una decina i dagherrotipisti in transito o presenti in città per periodi più o meno lunghi, mentre Francesco Gibertini pare essere stato il solo professionista locale.[7] Ancor più nutrita, e qualificata fu la frequentazione dei luoghi da parte dei calotipisti, a partire almeno dal 1846, con le presenze di Amélie Guillot-Saguez e di Richard Calvert-Jones, che a Santa Lucia si provò con una veduta urbana in due parti, dedicandosi anche a Pompei e Baja[8], ma soprattutto di Stefano Lecchi che, nella testimonianza del Reverendo George Wilson Bridges, era a Napoli per realizzare fotografie di Pompei proprio su incarico di Ferdinando II.[9] Altri seguirono nei primissimi anni Cinquanta: Alfred-Nicolas Normand, Firmin Eugéne Le Dien, Paul Jeuffrain, Alphonse Davanne, i napoletani Arena e Pellegrino e il milanese Luigi Sacchi che verso il 1853 fotografò Pompei e Paestum, ma anche una Veduta del Golfo di Napoli con Castel dell’Ovo poi non compresa nelle serie di Monumenti, vedute e costumi d’Italia pubblicata nel 1852-1855.[10] Come si vede la scelta dei soggetti non presenta novità di rilievo. Pompei e Paestum, Mergellina e Santa Lucia, Ischia e Ravello: sono le mete che consigliava anche l’Handbook for travellers in Southern Italy, che Octavian Blewitt scrisse nel 1853 per la serie edita a Londra da John Murray, distribuita a Napoli da Detken, presso il quale sarebbero state poste in vendita negli anni successivi anche le stampe di Sommer.[11]
Dopo una prima, forse breve sosta a Roma nel mese di settembre, Giorgio Sommer aveva aperto il proprio studio napoletano nell’inverno 1857-1858. Poco sappiamo di quel suo avvio di attività; nulla a proposito delle tecniche adottate in quei primissimi anni, anche se pare verosimile ritenere che fin da subito adottasse l’innovativo negativo su vetro, come del resto avevano fatto gli Alinari solo pochi anni prima[12], magari utilizzando dapprima, al posto del collodio, un’emulsione all’albumina che consentiva una migliore resa dell’immagine pur scontando maggiori tempi di esposizione. Ciò che conosciamo almeno un poco meglio è la sua capacità immediata di adeguarsi alle richieste di mercato avviando, accanto alle prime vedute in diversi formati, una ricca produzione di stereoscopie, e dedicandosi contemporaneamente al ritratto, una pratica che pare aver progressivamente abbandonato nei decenni successivi.[13] Risale a questo stesso periodo anche la collaborazione con Edmond Behles, che tanti problemi attributivi ancora pone agli studiosi[14], ma che qui vogliamo richiamare solo per quanto significa in merito alla questione della concezione autoriale del lavoro fotografico nel contesto della pratica professionale italiana dopo la metà del XIX secolo. Non si tratta tanto di richiamarsi alla questione del diritto d’autore riconosciuto alla fotografia, ancora di là da venire in quegli anni nel nostro paese, ma di considerare quale fosse il significato e il valore in termini di responsabilità intellettuale sotteso a una pratica di scambio di immagini che molti indizi ci dicono diffusa, anche se ancora poco nota e pochissimo studiata, ma che pare avesse implicazioni quasi esclusivamente commerciali.[15] In questa prospettiva è ancora utile richiamarsi alle riflessioni di Rosalind Krauss che ha auspicato “la necessità di abbandonare, o almeno di sottoporre a una seria critica, categorie derivate dall’estetica come quelle di autore, opera e genere (come nel caso del paesaggio), [per] cercare di mantenere la fotografia antica nel suo statuto di archivio e di chiedere che si esamini questo archivio in modo archeologico, come Foucault ce ne ha fornito insieme la teoria e l’esempio.”[16]
Un altro elemento problematico relativo ai primi anni della sua attività, riguarda la precoce circolazione delle sue immagini, che derivava credo dalla conquista di un’autorevolezza ben presto riconosciuta se già nel 1859 Domenico Benedetto Gravina, credo per il tramite dello stabilimento litografico Richter di Napoli, a lui si rivolgeva per l’illustrazione del suo Il Duomo di Monreale, certo una delle più rilevanti imprese della prima editoria fotografica italiana.[17] È una collaborazione questa che ci interroga anche sui tempi e sui modi della formazione di Sommer, sul farsi della sua prima cultura visiva come della sua maestria tecnica, per le quali non sembra sufficiente il riferimento all’apprendistato presso lo studio Andreas und Sohn di Francoforte. Certo avranno avuto un qualche rilievo le suggestioni che gli poterono derivare dalla frequentazione di alcuni membri dell’eterogenea colonia tedesca ben radicata a Roma negli anni della sua presenza in città, ma credo vada almeno presa in considerazione la possibilità che in quello stesso periodo abbia avuto contatti coi principali esponenti della Scuola fotografica romana, ancora molto attivi e presenti anche a Napoli, come si è detto, o – almeno – che abbia avuto occasione di conoscere e studiare le loro opere, di buona circolazione quando non addirittura predisposte per la diffusione seriale, come nel caso delle Vedute di Roma e dei contorni in fotografia pubblicate da Giacomo Caneva nel 1855. Sono domande a cui non siamo per ora in grado di rispondere, ma non per questo meno necessarie, nella convinzione che sia difficile attribuire il suo rapido percorso di formazione al contesto napoletano in cui, a prescindere dal valore discontinuo dei diversi operatori presenti, lui pare essersi proposto da subito quale professionista qualificato, non come un autore in fieri. Non solo: la qualità del lavoro che andava conducendo a Pompei almeno dal 1860, quando il 25 settembre fotografò Garibaldi in visita agli scavi[18], lo propose da subito quale interlocutore privilegiato del neo nominato Direttore del Museo Nazionale Giuseppe Fiorelli, cui si deve la prima applicazione a Pompei dei metodi dell’archeologia moderna, a scavo stratigrafico, e l’utilizzo del metodo della colatura di gesso nelle forme vuote lasciate dai corpi nella lava, di cui Sommer fotografò uno dei primi esiti nel febbraio del 1863[19].
Impronta di un’impronta. Matrice di una matrice sono questi negativi in cui la forma del vuoto lasciato dai corpi annientati dal calore della lava è l’immagine latente che il calco ha rivelato, in un processo concettualmente analogo a quello fotografico. Immagine di un’immagine quindi, ma in modo incommensurabilmente diverso dalla riproduzione di un dipinto, di una scultura o di un reperto. Il calco ha una diversa relazione col tempo; non è il reale che ritorna, ma una sua manifestazione seconda, differita, cui riconosciamo lo statuto di figura, ma che appartiene in maniera radicale e netta al regime dell’impronta, non dell’icona: come le sagome lasciate sui muri dal “vento-lampo della bomba”[20] atomica. Figure non tracciate da mano umana. “Ciò che rappresenta un ostacolo per lo sguardo si ricollega alla (…) questione dell’impronta: non c’è nulla da guardare perché non c’è invenzione formale, e non c’è invenzione formale perché l’oggetto non è che un prelievo, una riproduzione, una semplice impronta della realtà. Non c’è nulla da guardare perché non c’è abilità, non c’è lavoro artistico, e non c’è lavoro artistico perché c’è solo un calco, un’impronta meccanicamente riproducibile della realtà. Non c’è nulla da guardare, come opera d’arte, perché c’è solo impronta: la non opera per eccellenza”[21], che era appunto ciò che si diceva, l’accusa che era mossa alla fotografia al tempo della sua comparsa e negli anni di Sommer, ancora.
Non considerando i lavori su commissione, l’archeologia – tra Roma e Napoli – sembra essere stata la sua prima area di interesse, cui si aggiunsero ben presto le vedute urbane, pur se non unanimemente apprezzate[22]. Roma, Napoli, di cui realizzò anche un panorama in cinque parti verso il 1865, poi Firenze, Milano (entro il 1869). E Torino, la prima capitale. Insolito soggetto per quegli anni, in cui la città sabauda era descritta quasi solo dai fotografi residenti, se si esclude la luminosa eccezione di Charles Marville[23], e di cui Sommer ci ha offerto una veduta stereoscopica della Contrada di Po e di Via della Zecca che restituisce le qualità prospettiche di questo spazio urbano che poi si sarebbe detto metafisico in maniera tanto più magistrale della già eccellente ripresa contenuta in Turin ancien et moderne, edito da Henri Le Lieure nel 1867. Sono anni questi in cui il suo catalogo si accresce rapidamente e, per la sua parte più connotata e consistente, si trasforma in repertorio iconografico napoletano: archeologia, veduta urbana e “tipi napoletani”, disponibili anche in versione colorata, nel formato carte de visite, destinati a soddisfare la diffusa richiesta del mercato turistico, specialmente nordeuropeo e che proprio per questo si ritrovano con minime variazioni e riprese al limite del plagio anche nel repertorio di altri fotografi attivi a Napoli, come Giorgio Conrad, Achille Mauri e poi Gustavo Eugenio Chauffourier, in un andirivieni continuo tra grafica e fotografia, con forti influenze della tradizione tutta napoletana delle figurine da presepe. E il Vesuvio allora? Giustamente famosa è la sequenza relativa all’eruzione del 1872, sistematicamente ripresa a intervalli di mezz’ora, adottando una forma narrativa che suggerisce la durata piuttosto che sottolineare l’istantaneità della posa. Un trattamento antipittoresco, che segna uno scarto rispetto alle opere antecedenti relative allo stesso soggetto. La prima immagine nota [2204], in piccolo formato, in una copia firmata Edmond Behles, si riferisce all’eruzione del 1861, ma non è ancora una “vera fotografia”. Si tratta infatti della riproduzione di una stampa, analogamente a quanto accade per la pseudostereoscopia Scesa dal Vesuvio [753], questa firmata “Sommer e Behles Napoli & Roma”, che essendo formata da una coppia di riproduzioni necessariamente identiche mai avrebbe potuto sortire alcun effetto tridimensionale. “Lava con figure” potrebbe essere classificato il soggetto, comune anche a una ripresa stereoscopica [293] e ad altre fotografie successive [2546], così come alle immagini di altri autori, ancora Chauffourier e Mauri[24], che mostrano anche un’analoga se non perfettamente coincidente attrazione per le forme fantastiche, quella stessa che in Sommer accomuna le prime riprese in cui la lava è sontuosamente posta in primo piano [298] a quelle più tarde dei ghiacciai alpini [13307], entrambe forse debitrici della Colata di lava che James Graham fotografò intorno al 1860, utilizzando ancora il negativo di carta.[25]
Catalogo di fotografie d’Italia recita il suo primo titolo, pubblicato nel 1870, dove la geografia dei luoghi progressivamente si amplia, secondo percorsi e movimenti che sarebbe interessante poter seguire nel dettaglio, in particolare per quanto riguarda la Sicilia e altri importanti centri dell’Italia meridionale, soggetti che in parte contribuiranno all’apparato iconografico delle dispense relative agli Studi sui monumenti della Italia meridionale dal IV al XIII secolo che Demetrio Salazar pubblicò a Napoli, presso Richter & C. nel 1871 – 1877. La figura dello studioso risulta importante anche per il ruolo svolto nella fondazione del Museo Artistico Industriale, nel 1882, con Gaetano Filangieri e la collaborazione di Domenico Morelli, Filippo Palizzi, che ne fu Direttore, e Giovanni Tesorone. Prendendo a modello come in altre realizzazioni italiane il South Kensington Museum, lo scopo della nuova istituzione era quello di divulgare e sviluppare la cultura delle arti applicate nell’Italia meridionale, avviando, accanto al Museo, le Scuole-Officine in cui i giovani potessero ricevere un insegnamento tecnico specializzato nei settori della ceramica come della lavorazione dei metalli e simili. Questo progetto è da porre in relazione anche con la produzione e col fiorente mercato di oggetti artistici e copie cui a diverso titolo si dedicavano molti fotografi napoletani quali Achille Mauri (che vendeva “ceramiche artistiche, collezioni di bronzi e terrecotte, copie del Museo e dei Costumi di Napoli)[26], la Fotografia Pompeiana di Giacomo Luzzati, che realizzava copie di busti e statue in scagliola col metodo della “scultofotografia”[27] e specialmente Giorgio Sommer, il quale a partire almeno dal Catalogo del 1873 si definiva “Artiste fabricant de vases etrusques de l’Abruzzi et terre-cuites” reclamizzando “le sue copie di statue, di vetri Riton, di lampade, candelabri, allegorie e ancora vasi fra i più belli conservati al Museo Nazionale di Napoli.”[28] Questa nuova pubblicazione, nell’anno in cui fu tra i premiati all’Esposizione di Vienna, ma a breve distanza dalla prima edizione, deve essere messa in relazione non solo con l’accresciuto numero di soggetti disponibili, ma anche con la comparsa di temi napoletani nel catalogo Alinari dello stesso anno[29]. La novità dichiarata sin dal titolo era la presenza di immagini di Malta[30], una delle mete più frequentate dai viaggiatori inglesi, ma anche il repertorio italiano si era nel frattempo esteso sino a comprendere i laghi di Como e Maggiore, più un’appendice luganese, con stampe destinate a circolare nella forma dei fogli sciolti o raccolte in album[31]. Napoli è il semplice titolo di quello dedicato “Alla Sezione centrale di Torino [dal]la Sezione di Napoli in occasione del VII Congresso del Club Alpino Italiano”, che si aprì a Torino il 9 agosto 1874. Dopo l’orgogliosa antiporta con l’ostensione delle “Grandi Medaglie d’Oro” ricevute negli anni precedenti, il frontespizio con la grande “N” ornata di figure costituisce una sintesi iconica e una dichiarazione programmatica a un tempo, con quella barocca iniziale che si staglia su uno sfondo di vegetazione lussureggiante da cui emerge un pino marittimo (La Pina) sullo sfondo del Golfo con Castel dell’Ovo e il Vesuvio fumante[32]. La sequenza dei soggetti, il sommario diremmo, è canonica e la si può ritrovare in altri e successivi esemplari[33]. Apertura con panorama. Il primo è dal Vomero: verso nord, poi a sud. Quindi dalla Certosa di San Martino e – in controcampo, secondo una soluzione cui ricorreva sistematicamente – dal molo della Stazione marittima. Segue una serie – qui di quattro immagini – dedicata al chiostro e all’interno della chiesa della Certosa, il primo monumento incontrato in questo percorso visuale e quasi materiale di avvicinamento alla città. Di fatto anche l’unico; la sola architettura a essere indagata in quanto tale e non nella sua presenza urbana. Poi si inoltra in città: Piazza del Plebiscito, Marinella, Santa Lucia (ancora campo e controcampo), la Villa Nazionale, Piazza del Municipio, Posillipo e le altre località dei dintorni da Baja a Caserta. La composizione ricorre spesso a un impianto in diagonale, che è un modo per restituire una maggiore profondità prospettica. Nel leggere il paesaggio dei dintorni di Napoli Sommer si richiamava senza soluzioni di continuità – anzi, quasi citando – all’iconografia immediatamente precedente, ma ricorrendo di volta in volta a modelli e fonti differenti, a seconda del tema svolto, secondo il soggetto. Direi che è una modalità comune all’operare di molti grandi studi fotografici: non la definizione spasmodica di uno stile, forse ancora culturalmente inconcepibile, ma la sapienza e la strategia visiva necessarie per adottare di volta in volta le soluzioni più adatte a inserire la propria produzione in una precisa tradizione iconografica, giungendo alla formulazione di un discorso qualificato e riconoscibile a un tempo, in cui sovente l’effetto prospettico è accentuato collocando “un oggetto ombrato che facesse da primo piano”[34] ovvero un gruppo di figure, sovente posizionate a sinistra, figure nel paesaggio che arricchiscono il pittoresco della veduta. Anche il Vesuvio, certo. Proposto però in modo niente affatto romantico, privo di ogni pur lontana eco di sublime, mostrato anzi in tutta la terribilità della sua forza distruttrice, con le Ruine di San Sebastiano causate dall’eruzione del 1872, seguite da un’immagine tratta dalla ben nota sequenza. Poi: le ceneri che ne rimasero. Un’illustrazione che si potrebbe dire esauriente se non completa, da cui però risulta clamorosamente assente ogni riferimento ai pittoreschi stereotipi delle figure popolane cui tanta attenzione aveva dedicato nel decennio precedente, mentre ancora manca qualsiasi ripresa ‘dal vero’ della varia umanità che animava le strade di Napoli. Solo, al fondo, unica concessione a un pittoresco ormai in crisi come argomento e modalità di racconto, la riproduzione di una popolare litografia raffigurante il Calesse per Resina e la riproposizione dell’icona fotografica dei Mangiamaccheroni: quasi un atto dovuto. Singolare l’immagine dedicata all’interno del Teatro San Carlo, palese riproduzione di una grafica, forse una litografia, certo neppure tratta a sua volta da una ripresa fotografica, come dimostra non tanto la presenza della folla degli spettatori quanto l’incerta resa prospettica dello spazio[35]. Analoga soluzione era adottata per raffigurare altri interni ‘difficili’ come la Grotta di Pozzuoli e la Grotta Azzurra , riproducendo un repertorio di figure cui negli stessi anni facevano ricorso anche altri fotografi come Chauffourier (Pozzuoli) e Mauri (Teatro San Carlo)[36]. L’insieme raccolto in questo album, ben rappresentativo del suo repertorio, mi pare sia l’ulteriore conferma di come sia quasi una forzatura collocare Sommer tra i fotografi di architettura o di riproduzione di opere d’arte, mentre invece i suo generi preferiti erano la veduta urbana, il paesaggio e in misura minore il costume, in ciò distinguendosi dalla linea Alinari, Anderson e simili.
La visita al suo studio in quello stesso anno da parte di Edward Livingston Wilson, fondatore e editore di “The Philadelphia Photographer”[37], il solo periodico fotografico professionale pubblicato all’epoca negli Stati Uniti, certifica la notorietà del fotografo in una città che conta ormai quasi cento studi attivi, confermata anche dalla frequente pubblicazione di sue immagini su periodici internazionali, sebbene ancora nella forma del disegno o dell’incisione “d’apres une photographie”.[38] A questa ormai consolidata posizione di prestigio si deve forse la commessa da parte della Società La Ferrovia Funicolare del Vesuvio per la realizzazione di una ricca documentazione del nuovo impianto, pubblicata nel 1881 in “un piccolo ma raffinatissimo volumetto”[39], cui certo fece seguito una campagna autonoma realizzata nel 1886 dopo la sostituzione delle due prime vetture con un nuovo modello a fiancate aperte, puntualmente registrata nel catalogo edito in quello stesso anno. Questo incarico, con le relazioni che sottende e lascia intuire, potrebbe aver costituito un punto nodale per lo sviluppo di alcuni progetti successivi, in particolare quelli legati alla documentazione di alcune strade ferrate svizzere di diversa rilevanza ma di analoga notorietà turistica internazionale, quali la ferrovia del Gottardo e le due brevi linee che dai dintorni di Lucerna portavano al Monte Rigi e al Monte Pilatus. L’impresa della Funicolare vedeva infatti coinvolte figure ben inserite in una rete complessa di rapporti internazionali di tipo finanziario e industriale, come l’imprenditore Ernesto Emanuele Oblieght, azionista di numerose società di costruzioni ferro-tranviarie presenti ad esempio anche in Lombardia, ed Enrico Treiber, progettista e direttore dei lavori, in relazione per il tramite della sorella Clara, a sua volta parente del segretario generale di una compagnia ferroviaria tedesca, con la famiglia Pallme[40], attiva a Napoli nel commercio e nella produzione di vetri intagliati e ceramiche. Nulla più che una suggestione per ora. Come escludere però che questa possa essere stata la via che portò Sommer a divenire socio della Mittelschweizerischen Geographisch Commerciellen Gesellschaft [Società Geografico Commerciale della Svizzera centrale] di Aarau, fondata nel 1884, che aveva tra i propri scopi statutari quello di istituire un vero e proprio “Museo fotografico. Fotografie di paesaggi, città, porti, villaggi, templi, palazzi, case, monumenti, opere d’arte, statue, dipinti. Immagini di tipi e costumi, queste ultime possibilmente colorate. Vegetazione, frutta e immagini di animali. Navi, veicoli e macchinari di ogni tipo. Fotografie stereoscopiche. Grafica pubblicitaria e oggetti etnografici. Chiediamo che tutte le fotografie, se possibile, non siano montate, così come tutte le singole immagini di grande formato. Sono benvenute anche incisioni su acciaio e rame, fototipie e cromolitografie, xilografie e litografie.”[41]
All’iniziativa di questo sodalizio potrebbe riferirsi la serie fotografica relativa alla ferrovia del Gottardo, realizzata certo dopo la conclusione dei lavori e immediatamente resa nota nel catalogo del 1886[42], mentre fu lo studio Adolphe Braun & C.ie di Dornach[43] a documentare il cantiere sino alla messa in esercizio della linea il primo giugno 1882, illustrando con grande attenzione non solo le opere strutturali (ponti e gallerie) ma anche i macchinari utilizzati e gli impianti di servizio. Il confronto tra le due serie fotografiche mostra, al di là delle differenti intenzioni, il riproporsi di scelte che paiono obbligate: non solo i luoghi sono necessariamente gli stessi (gli stessi anche delle innumerevoli guide che seguiranno[44]), ma sovente coincidevano anche i punti di vista, quelli che consentivano non di distinguersi rispetto al lavoro di altri Studi ma di mostrare nella maniera più efficace lo stupefacente andamento della linea ferroviaria, le sue andate e ritorni, le gallerie. Ma Sommer non li descrive per sé. Non gli interessa l’ingegneria civile dei ponti e dei viadotti, ma il loro inserimento quasi naturale nel paesaggio alpino, cui si aggiunge così un di più di meraviglia. L’andamento delle immagini raccolte nell’album Souvenir de la Suisse è strutturato secondo il percorso della ferrovia, con una direzione certo non casuale da nord a sud (quasi un invito), in cui accanto ai punti più significativi o spettacolari del tracciato si illustrano le strutture ricettive più importanti, come l’Hotel Bellevue di Andermatt, ripreso anche da Braun, secondo la consuetudine di molta fotografia alpina della seconda metà del XIX secolo.[45] La documentazione di questa ferrovia costituì per Sommer una prima occasione per fotografare non solo Lucerna e il Lago dei Quattro Cantoni, che ne costituivano la destinazione svizzera, ma anche le montagne del Vallese e dell’Oberland Bernese[46]; luoghi in cui sarebbe tornato ancora negli anni successivi e per almeno un decennio per arricchire il catalogo di nuovi soggetti, come quelli dedicati alla Pilatusbahn [n. 13535] e alla Wengeralpbahn [n. 14300], aggiornando in molti casi riprese già presenti in catalogo, regolarmente ripetute confermando punto di vista e angolo di ripresa, secondo una modalità operativa ormai ampiamente consolidata.
Rispetto alla sua produzione antecedente, la novità di queste fotografie svizzere sta più nei soggetti che nei modi: mentre per Napoli e dintorni l’adesione alla richiesta culturale, e quindi commerciale, si traduceva in una generale accentuazione del pittoresco, qui l’attenzione era rivolta al paesaggio trasformato dalla modernità. Fedele ai modelli narrativi utilizzati per circa trent’anni, la veduta, lo sguardo d’insieme prevalgono sulla ripresa propriamente architettonica. Anzi, proprio la volontà di sottolineare le relazioni tra i diversi elementi costituenti la scena urbana, di segnalare visualmente le connessioni tra emergenze e tessuto, e questo e quelle col paesaggio e l’orografia sembra essere l’elemento caratterizzante del suo lavoro, cui si aggiunge una costante sistematicità. Nella progressione ottica delle riprese, dal generale al particolare, come nella scansione spaziale di avvicinamento al soggetto che suggeriscono (o consentono di ricostruire) un percorso di avvicinamento, lo spazio e il tempo di un viaggio. Si veda la bella serie realizzata intorno al Vierwaldstättersee in cui il segno luminoso del campanile di Fluelen emerge progressivamente dal fondo della veduta come un’epifania, sino a collocarsi in asse perfetto con la cima del Bristenstock sullo sfondo; poi, con uno scarto netto, l’attracco del traghetto al molo della stessa località, con un’immagine che Bruno Munari avrebbe potuto scegliere per le sue Fotocronache.[47] È nelle possibilità di questo impianto narrativo che mi pare di poter leggere la novità, importante, di queste realizzazioni, non, ad esempio, nella scelta del punto di vista e nel taglio dell’inquadratura, che molte volte ripropongono schemi consolidati, citando quasi letteralmente esempi antecedenti, come accade proprio con alcune immagini di Lucerna e dintorni, in cui è evidente il richiamo alle fotografia dei bernesi Fratelli Charnaux, che avevano ampia circolazione anche in cartolina.
Le riprese relative alla Svizzera formano due serie distinte, la cui numerazione, almeno in questo caso[48] riflette una cronologia. La prima, numerata intorno al 12100-12500, è coeva alle riprese del Gottardo, cioè databile agli anni 1882-1885, mentre la successiva (nn. 13100-13700) data almeno al 1889.[49] L’occasione per il ritorno credo possa essere individuata nella conclusione dei lavori della ferrovia del Monte Pilatus (1889), che costituiva – accanto a quella del Rigi – una grande attrazione turistica[50], come confermano i soggetti offerti dal Diorama Meyer, a Lucerna in Zürichstrasse. Lo spettacolo offriva quattro vedute: il panorama dalla sommità del Rigi, la veduta della ferrovia del Rigi e i panorami dal Pilatus e dal Gornergrat con “rappresentazioni degli effetti luminosi di mattina e sera. Somiglianza perfetta di grandi proporzioni. Ogni rappresentazione di 25-40 metri ca. è il miglior risarcimento per i turisti in caso di tempo cattivo e il miglior ricordo delle vedute alpine.”[51] Con un buon secolo di anticipo lo spettatore si ritrovava inconsapevolmente immerso nella condizione postmoderna della società del simulacro: “I Baedeker prima, e le cartoline illustrate poi, gli uni per un verso, le altre per un altro, hanno ai dì nostri tolto al viaggio ogni impreveduto, ogni poesia. I paesi, grazie a questi due portati della civiltà odierna, perdono ogni pregio di novità: tutto quanto v’è di stupefacente, di ammirevole è in anticipazione descritto, misurato, calcolato, pesato, fotografato! E addio impressioni vergini! Addio rivelazioni improvvise di paesaggi e di cieli! Addio punti di esclamazione sgorgati spontaneamente davanti a luoghi ignoti ed ignorati! Tutto quanto si vede è già cosi conosciuto! già così saputo! già così veduto!”[52]
Sono quelli gli anni in cui il figlio Edmondo iniziava a collaborare col padre, sino alla costituzione di una vera e propria società nel gennaio del 1889, e certo si dovrà tenere conto nell’attribuzione delle fotografie realizzate dopo questa data delle condizioni stabilite dal contratto, che prevedeva che il figlio dovesse “viaggiare per smaltire i prodotti dell’azienda e per formare le collezioni di vedute.”[53] Il successo internazionale della Ditta Giorgio Sommer e Figlio venne ribadito dall’assegnazione del Grand Prix all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno 1900 e dalla crescente diffusione di loro fotografie su pubblicazioni locali e internazionali[54], mentre i cataloghi di vendita, ancora nel 1914 distinguevano tra “Grand Etablissement Photographique/ sous la direction de Mr. Giorgio Sommer” e “Grande Fonderie Artistique en Bronze (…) sous la direction du Chev. Edmondo Sommer”: una complessa attività che si muoveva sul crinale sottile che distingue produzione e riproduzione e che ancora attende di essere compiutamente indagata.
Note
[1] “These are but a few of the proofs that could be brought forward of the wide dissemination of the new agent, and of the various modes of its reception (…) for while our Queen has sent out a complete photographic apparatus for the use of the King of Siam, the King of Naples alone, of the whole civilised world, has forbidden the practice of the works of light in his dominions!”. L’articolo Photography, comparve anonimo in “The London Quarterly review”, 101 (1857), January – April, pp. 241-255 (243) per essere successivamente attribuito a Elisabeth Rigby Eastlake (1809-1893), in più occasioni fotografata da Hill & Adamson, moglie di Charles Eastlake, Direttore della National Gallery e primo presidente della Photographic Society of London (ora Royal Photographic Society of Great Britain). Il saggio venne riproposto anche in Beamont Newhall, ed., Photography: Essays and Images,. London: Secker & Warburg, 1980, pp. pp. 81-95 (84), ma citando in modo impreciso la fonte, oggi consultabile integralmente mediante il browser Google Books. Per il dibattito napoletano intorno alle nuove scoperte si veda Giovanni Fiorentino, Tanta di luce meraviglia arcana. Origini della fotografia a Napoli. Sorrento: Franco Di Mauro Editore, 1992, che rappresenta un indispensabile riferimento per la ricostruzione del contesto delle origini della fotografia in questa città. Rilievo ben maggiore ebbe la Relazione intorno al dagherrotipo presentata da Macedonio Melloni alla Regia Accademia delle Scienze nella seduta del 12 novembre 1839 e più volte ristampata nei mesi successivi a Napoli, a Parma, a Roma e persino a Parigi, con traduzione di Alfred Donné; cfr. Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Antologia di testi sulla fotografia 1839/ 1949. Milano: Franco Angeli, 1985, pp. 88-89. La Relazione è stata ripubblicata integralmente in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia”, Annali, 2. Torino: Einaudi, 1979, pp. 212-232.
[2] Cfr. Marina Miraglia, Giorgio Sommer, un tedesco in Italia, in M. Miraglia, Ulrich Pohlmann, Un viaggio fra mito e realtà: Giorgio Sommer fotografo in Italia, 1857-1891. Roma: Carte Segrete, 1992, pp. 11-32, a cui si rimanda anche per la definizione del quadro generale della biografia, non solo professionale del fotografo. Si veda anche Giovanni Fanelli, L’ Italia virata all’oro attraverso le fotografie di Giorgio Sommer. Firenze: Pagliai Polistampa, 2007.
[3] Ancora in anni recenti si è affermato che “benché le prime tecniche di riproduzione fotografica (…) fossero state recepite immediatamente dagli ambienti scientifici napoletani, ciò non ha riscontro in una corrispondente attività di professionisti o dilettanti locali.”, Daniela del Pesco, Fotografia e scena urbana fra artigianato e industria culturale, in Giuseppe Galasso, Mariantonietta Picone Petrusa, D. del Pesco, Napoli nelle collezioni Alinari e nei fotografi napoletani fra ottocento e novecento. Napoli: Gaetano Macchiaroli Editore, 1981, pp. 65-107 (67).
[4] Già Ugo di Pace aveva ritrovato al Museo di San Martino una lettera di Talbot a Tenore datata 29 gennaio 1840, Cfr. U. di Pace, …E Napoli scoprì la foto, “Paese Sera”, Napoli, 3 dicembre 1982, p. 15. La corrispondenza di Talbot è stata digitalizzata e trascritta nell’ambito del progetto The Correspondence of William Henry Fox Talbot (d’ora in poi TCP), consultabile all’indirizzo http://foxtalbot.dmu.ac.uk/letters/letters.html [25-01-2011].
[5] “Il Lucifero”, 2 (1839), n. 43, 4 dicembre, p. 443, citato in Fiorentino 1992, p. 43 passim.
[6] A. De. L., Nuovo metodo per la pittura fotogenica, “Salvator Rosa”, 1 (1839), n. 20, 24 marzo, pp. 154-155, citato in Fiorentino 1992, p. 31, che ha identificato l’autore in Achille de Lauzières, il quale mostrava così una precoce comprensione di quella linea che avrebbe collocato il dagherrotipo, e poi la fotografia nella consolidata tradizione di quel paesaggismo napoletano che proprio sull’oleografia dei luoghi e dei costumi avrebbe fondato la propria fortuna ancora per almeno due secoli a venire.
[7] Giovanni Fiorentino, Napoli e il Regno delle Due Sicilie, in L’Italia d’argento. 1839/ 1859 Storia del dagherrotipo in Italia, catalogo della mostra (Firenze – Roma, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli. Firenze: Alinari, 2003, pp. 252-255.
[8] Per la ricostruzione delle presenza napoletane di fotografi calotipisti si rimanda ai saggi e alle opere pubblicate in Éloge du negatif. Les débuts de la photographie sur papier en Italie (1846-1862), catalogo della mostra (Parigi – Firenze, 2010). Paris: Paris Musées, 2010. Per l’attività di Calvert Jones cfr. la lettera di Bridges a Talbot del 23 aprile 1846, in TCP n. 5632.
[9] Maria Francesca Bonetti, Talbot et l’introduction du calotype en Italie, in Éloge du negatif 2010, pp. 25-35 (35, nota 45) in cui ricorda un calotipo di Lecchi relativo alla Casa del Fornaio di Pompei, firmato e datato 1846, che costituisce a oggi il più antico calotipo noto di autore italiano. G.W. Bridges scriveva a Talbot: “In Naples I met with a Sig. Lechie [sic], a Milanese – who is teaching the art at 600 francs – one only lesson: – a poor Optician in Toledo, paid that sum – & by some means obtained the whole process in writing: – from him I have it & have seen some very superior negative & possitives worked by it: – but have yet been too ill to try it myself. I give you the copy overleaf (…) Lechie’s skies are perfect – & he succeeds on paper of very inferior quality – no spots seeming to appear, or injure the process. (…) Certainly some few of his specimens are more perfect in detail than any I have seen – He is employed now by the King of Naples in copying at Pompeii – but I have some 4 or 5 taken there equal to his. – His advantage seems to be that he makes use of any inferior paper, & is more certain of good productions. – I saw him take 14 one morning at Pompeii without one failure.” (28 Aug 1847 , TCP n. 5985). Lo stesso Bridges si riprometteva di realizzare “a few [copies] which I shall take to the King of Naples, (of Pompeii) – who is infinitely pleased even with the negatives – especially those of the frescoes lately discovered” (lettera del 23 maggio 1847, TCP n. 5951). Il nome di Lecchi era già noto a Talbot per il tramite di Calvert Jones: “At Lyons, Avignon, and Marseilles I saw some Photographs which the Shopkeepers at the houses where they were exposed, represented as being paper Dags, but which, from certain identical stains on different copies, I discovered to be a kind of Talbotype; they appeared to be quickly done, as several figures appeared. They were done by an Italian, named Leuchi, who is prepared to reveal his method whenever a certain number (how many I know not) of persons shall have agreed to give him 100 francs each: I did not see him, but all the Photographers I have met with are delighted with my paper specimens.” (lettera del 1 dicembre 1845 , TCP n. 05453).
[10] Roberto Cassanelli, a cura di, Luigi Sacchi. Un artista dell’Ottocento nell’Europa dei fotografi, “Quaderni della Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte”, 2. Torino: Provincia di Torino, 1998, cat. 41. Ben oltre gli anni in cui si iniziava a utilizzare il negativo di vetro Gustave de Beaucorps, realizzò ancora una serie di vedute al calotipo del Golfo di Napoli, una di Ischia e una di Ravello, datate 1859, cfr. Éloge du negatif 2010, pp. 40-41, 171, 173.
[11] Miraglia 1992, p. 18.
[12] Cfr. lettera di Leopoldo Alinari a Ernest Becker del 15 giugno 1858, in Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003, p. 129.
[13] Sino al 1862 avrebbe realizzato più di 1.000 ritratti, vale a dire una media di circa 200 ritratti l’anno, dato che può indicare non solo la sua riconosciuta abilità nel genere, ma anche la scarsità di alternative professionali locali. Per quanto riguarda la definizione dell’arco cronologico in cui Sommer si sarebbe dedicato a questo genere, che molti propendono a considerare conchiuso proprio nei primi anni Sessanta, ricordiamo che il suo ben noto n. 11601 – Bersagliere, pubblicato in Miraglia 1992, p. 17 è datato “post 1873”, sebbene proprio la titolazione faccia propendere per una sua interpretazione come figura piuttosto che come ritratto, come conferma anche Fanelli 2007, p. 35, che ricorda come Il Bersagliere fosse compreso nella sezione “Costumi” del Catalogo del 1886. Quanto alle stereoscopie, la cui produzione secondo alcuni fu limitata allo stesso periodo, si può affermare sulla base delle immagini note che proseguì almeno sino al 1880, data di realizzazione della serie dedicata alla Funicolare vesuviana.
[14] Pur senza pretendere di dirimere le questioni relative alla cronologia della collaborazione tra Sommer e Behles (questo fu, quasi sempre, l’ordine di citazione sui cartoni di supporto) proviamo a riordinare i dati sino ad ora resi disponibili dalle fonti bibliografiche: l’avvio del loro rapporto professionale, che Miraglia 1992 pone al 1857, andrà forse spostato al 1860, anno in cui Behles giunse a Roma (Piero Becchetti, La fotografia a Roma dalle origini al 1915. Roma: Editore Carlo Colombo, 1983, ad vocem), se non addirittura oltre, considerando che una richiesta avanzata ai Musei vaticani per fotografare alcune sculture, datata 2 luglio 1863, venne firmata dal solo Sommer, mentre la successiva, datata 20 settembre 1864, fu sottoscritta da entrambi; si veda a questo proposito l’attenta ricostruzione fatta da Maria Francesca Bonetti, Giorgio Sommer – Edmondo Behles, Laocoonte, 1863-1867 , in Laocoonte: alle origini dei Musei Vaticani, catalogo della mostra (Città del Vaticano, 2006-2007). Roma: L’Erma di Bretschneider, 2006, sch. n. 87, pp. 190-191. Ancora nel 1867 i due fotografi firmarono congiuntamente un’analoga domanda, mentre furono premiati separatamente all’Esposizione Universale di Parigi dello stesso anno (Miraglia 1992, p.31, nota 84.) Pare quindi ragionevole sostenere che la separazione dovette compiersi in quel periodo, e comunque prima del 1870, anno in cui Sommer pubblicò il suo primo catalogo. A ulteriore conferma si ricorda che nel 1871 fu il solo Behles, con cui i rapporti dovettero restare ottimi se Sommer chiamerà il figlio Edmondo, a inoltrare una nuova richiesta di autorizzazione per fotografare nei Musei Vaticani (Bonetti 2006).
[15] Già Miraglia 1992 aveva segnalato i rapporti commerciali di Sommer con Celestino Degoix a Genova e Carlo Ponti a Venezia, ma vogliamo qui ricordare almeno la proposta ben più tarda (a suo tempo ricordata dalla stessa studiosa) avanzata da Achille Mauri sulle pagine de “La Camera Oscura” nel 1883 in cui chiedeva “ai vedutisti italiani (…) di scambiare vedute, paesaggi e monumenti formato 21×27 con sue di Napoli, dintorni, Pompei, Museo Nazionale”, Mariantonietta Picone Petrusa, Linguaggio fotografico e «generi» pittorici, in Galasso, Picone Petrusa, Del Pesco, 1981, pp. 21-63 (60, nota 175). Altra invece la questione delle copie illecite e delle contraffazioni, di cui pure è ricca la vicenda professionale di Sommer e di altri fotografi napoletani, per la quale si rimanda alla stessa fonte.
[16] Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia. Milano: Bruno Mondatori, 1996, p.48. Va inoltre immediatamente posta una questione che qui non possiamo che limitarci a formulare: si dice Sommer come si direbbe Alinari o Brogi, proponendo un’indicazione di responsabilità che non sempre e necessariamente può aver coinciso con l’effettivo operatore, ma che deve semmai essere intesa quale adesione a una linea interpretativa e produttiva che costituiva l’identità del marchio. Ancora troppo poco sappiamo dell’organizzazione del lavoro degli studi fotografici di medie e grandi dimensioni per procedere oltre in questo percorso, che dovrà prima o poi essere avviato, pena l’incomprensione critica non solo dell’effettiva cultura fotografica di questi operatori ma anche delle modalità della costituzione di quell’iconografia dei luoghi che ha determinato l’immaginario del Bel Paese.
[17] Domenico Benedetto Gravina, Il duomo di Monreale illustrato e riportato in tavole cromo litografiche. Palermo: Stab. tipogr. di F. Lao, 1859-1869; nuova edizione con riproduzione integrale dell’originale del 1869: Caltanissetta: Lussografica, 2007.
[18] Del Pesco 1981, p. 74.
[19] Stephen L. Dyson, In pursuit of ancient pasts: a history of classical archaeology in the nineteenth and twentieth centuries. New Haven, CT: Yale University Press, 2006, p. 48.
[20] Jean-Christophe Bailly, L’istante e la sua ombra,. Milano: Bruno Mondadori, 2010, p. 121.
[21] Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta. Torino: Bollati Boringhieri, 2009, pp. 17-18, che costituisce la riedizione in forma di saggio del catalogo della mostra L’empreinte, curata dallo stesso Didi-Huberman nel 1997 presso il Centre Pompidou di Parigi. Particolarmente ricca di suggestioni è la lettura in parallelo dei saggi di Bailly e Didi-Huberman.
[22] Secondo la “Photographische Correspondenz”, 1865, p. 306 queste erano considerate “eccessivamente dure e tecnicamente al limite dell’errore”, citata in Miraglia, 1992 n.54 p. 29.
[23] Charles Marville, Vedute di Torino. Turin: Maggi, [s.d.], in Fotografi del Piemonte 1852-1899, catalogo della mostra, Torino, giugno-luglio 1977, a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp. 37-38, con una datazione proposta al 1865-1870 che Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi, 1990, p. 334 aveva già anticipato al 1861-62, ma che sarà più corretto attribuire al 1858-59, quando “Charles François Bossu, dit Marville artiste photographe”, era in Italia e in Grecia con Charles Cordier per realizzare l’impresa dedicata alla Sculpture Ethnographique, commissionata dal governo francese nel 1850 (vale a dire prima della ben più nota Mission Héliographique) e quindi pubblicata in fascicoli successivi. Un esemplare dell’opera venne dedicato “A S.M. Victor Emmanuel Roi d’Italie” ed è oggi conservato presso la Biblioteca Reale di Torino. L’occasione per la realizzazione di queste riprese di Marville potrebbe essere individuata nella campagna fotografica di riproduzione dei disegni della stessa Biblioteca Reale e della Biblioteca Ambrosiana, che faceva seguito all’impegno analogo per le collezioni del Louvre, pubblicate pochi anni prima e certamente note anche a Torino, come testimoniano i fogli oggi conservati all’Accademia Albertina di Belle Arti. La datazione delle riprese torinesi potrebbe essere ulteriormente anticipata alla metà del decennio considerando che Marville si qualificava come “Photographe du Musée Imperial du Louvre”, dicitura che ritroviamo sui cartoni di queste stampe, solo fino al 1855, anno di chiusura della stamperia di Blanquart-Evrard a Lille, di cui fu uno dei più assidui collaboratori. La rivelazione del vero nome di Marville si deve a Sarah Kennel, conservatrice presso la National Gallery di Washington, che sta preparando una mostra monografica a lui dedicata.
[24] Picone Petrusa, 1981, tavv. 237, 245; Achille Mauri fotografo di Sua Maestà, catalogo della mostra (Bari, 2009–2010), a cura di Clara Gelao. Firenze: Alinari 24 Ore, 2009, tav. 190.
[25] James Graham, Vesuvius. Lava of 1858-60 near the Observatory, albumina, pubblicata in Éloge du negatif, p. 195.
[26] Sergio Leonardi, Achille Mauri fotografo, in Achille Mauri fotografo 2009, pp. 19-31. (p. 30 nota 35).
[27] Del Pesco, 1981, p. 98 n. 44.
[28] Daniela Palazzoli, a cura di, Giorgio Sommer fotografo a Napoli. Milano: Electa, 1981, p. V. Le relazioni tra le diverse attività di Sommer sono ancora, mi pare, tutte da datare con precisione e soprattutto da studiare, ponendo in relazione l’accrescimento del catalogo di fotografie con la produzione di bronzetti e simili che avrebbe avuto “un eccezionale incremento fra il 1879 e il 1886, tanto è vero che nel catalogo a stampa di quell’anno Sommer faceva precedere l’elenco delle proprie fotografie da un soggettario di ben 245 bronzi.” Miraglia 1992 p. 28 nota 52. Dal Catalogo del 1914 (Del Pesco 1981, p. 73) si ricava come oltre alla vendita di fotografie (anche al carbone, al platino e colorate) e diapositive, la ditta forniva cromolitografie di propria edizione, acquarelli, guache e dipinti a olio di Napoli, Pompei e dintorni. Veniva inoltre offerto un servizio completo di sviluppo e stampa di lastre e pellicole Kodak, di cui era rivenditore. Se a queste si aggiungono le attività della fonderia, dell’atelier di scultura, dei calchi in gesso, delle copie in argento e delle terrecotte, si ha un’immagine ben definita di un’azienda di medie dimensioni con una produzione molto diversificata, le cui diverse attività pare difficile poter separare. Una selezione di opere della Fonderia Sommer è visibile all’indirizzo http://www.annona.de/alben/Sommer%20Bronze/ (8-2-2011).
[29] Catalogo generale delle riproduzioni fotografiche pubblicate per cura dei Fratelli Alinari. Firenze: Barbera, 1873.
[30] Giorgio Sommer, Casa fondata nell’anno 1857, Catalogo di fotografie d’Italia e Malta. Napoli: Rocco, 1873, che risulta essere il solo catalogo di uno stabilimento fotografico registrato nel repertorio di Attilio Pagliaini, Catalogo generale della libreria italiana dall’anno 1847 a tutto il 1899. Milano: Associazione tipografico-libraria italiana, 1901-1905, ad vocem.
[31] L’enorme diffusione delle stampe Sommer è confermata ancora oggi dalla presenza di numerosissimi esemplari non solo in collezioni pubbliche e private, ma anche dalla frequenza di presentazione in asta di fogli singoli e di album. Alla fine del decennio è databile, ad esempio, il bellissimo album Italia, con 130 albumine nel formato 21×27, presente nelle collezioni della Biblioteca Storica della Provincia di Torino, che apre proprio con Lugano e il Lago Maggiore, poi Como e Milano, Pavia e Torino (con veduta da Villa della Regina ante 1863), Genova, Verona, Venezia, Bologna, Firenze (ante 1876), Pisa, Siena, Orvieto, Assisi, Tivoli, Roma, Napoli, Baja, Amalfi, Caserta, Paestum, i Mangiamaccheroni, Pompei, un calco datato 1873 (n. 1279), Palermo, Monreale, Messina, Taormina, Siracusa, mentre la chiusa è affidata al tempio della Concordia di Agrigento. Un album di viaggio per stranieri, tedeschi e svizzeri direi: che apre coi laghi e chiude con l’archeologia siciliana.
[32] L’esame delle litografie che ornavano al verso i cartoni di supporto e che venivano riprodotte fotograficamente nei frontespizi dei diversi album mostra quale fosse la varietà delle soluzioni grafiche di volta in volta utilizzate.
[33] Si veda ad esempio l’album Napoli conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, realizzato tra 1880 e 1887, che consente di esprimere alcune considerazioni rispetto ai modi operativi di Sommer, in particolare per quanto riguarda le varianti di ripresa, rispetto alle quali, oltre all’ovvia peculiarità delle riprese stereoscopiche, si nota come la posizione del punto di ripresa restasse identica nel passaggio da un formato all’altro; solo da alcuni mutamenti nella scena, solo dalle diversità del referente si comprende la distanza, per quanto minima di tempo intercorso tra uno scatto e l’altro: quello necessario a sostituire gli apparecchi sull’immobile cavalletto (cfr. Ischia, 1880 ca, n. 1187 nel 20/25, n. 5232 nel 10/15), mentre le focali dovevano essere diverse, con un angolo di ripresa più ampio per il formato minore (cfr. Funicolare del Vesuvio n. 5231 nel 10/15, n. 8120 nel 20/25). Anche nella consueta pratica dell’aggiornamento delle riprese (non del repertorio), ritornando a distanza di tempo sullo stesso soggetto, i modi restano immutati, nella fedeltà a un canone che pare indiscutibile e stabilito da tempo. Si considerino due versioni di una delle più note immagini della serie dedicata al Grand Hotel di Amalfi, già convento dei Cappuccini, dove la seconda (n. 2996, post 1891) ricalca pedissequamente la prima (n. 2013, 1870 ca.) conservando identici i dati di ripresa (punto di vista, focale, ora e periodo dell’anno, come si evince dallo studio delle ombre portate) con la sola variante dei due ospiti al tavolino, mentre è inevitabilmente cresciuta la yucca in secondo piano. Della versione, in verticale, appartenente all’album 1874, si ricorderanno gli Alinari (n. 11480, ante 1896) collocando però una graziosa popolana al posto del frate (Quintavalle 2003, p. 300). Analogo discorso può essere fatto per 1202 Foro civile (Pompei), 1881 ante, di cui è nota una variante con inquadratura da un punto un poco più elevato e lievemente spostata a sinistra, con aggiunta del pennacchio al vulcano, ma di cui esiste anche una ripresa precedente, 1870 ca, effettuata dallo stesso punto e con le stesse condizioni di luce, che si distingue solo per la presenza di un uomo in cilindro poggiato al basamento. A proposito di questa pratica, comune del resto a tutti i grandi studi fotografici coevi, è stato giustamente notato che “si determina una griglia che è sempre adattabile a nuovi eventi e quindi costantemente aperta. Insomma è come se dentro lo schema (…) si potessero sempre inserire nuove edizioni, diciamo così, del loro simbolico documento archeologico per immagini, e anche per questo forse, la necessità di cambiare gli scatti che si sono fatti in passato con scatti nuovi viene considerata come un dato di fatto normale.” Quintavalle 2003, p. 212.
[34] Luigi Delàtre, Le fotografie dei fratelli Alinari, “Monitore Toscano”, 8 (1855), 30 marzo, citato in Quintavalle 2003, p. 98.
[35] Soluzione analoga a quella adottata alcuni anni prima per la stereoscopia n. 876 dedicata al Teatro della Scala – Milano, datata al verso 1869.
[36] Per Achille Mauri 19 – Interno del Teatro San Carlo, cfr. Achille Mauri fotografo 2009, p. 33 in basso. Non può però essere questa l’immagine che fu oggetto del processo intentato da Mauri nel 1903 alla ditta Richter di Napoli e al fotografo Giorgio Sternfeld di Venezia per la contraffazione della sua ripresa (poi ritoccata) del 1894, come si afferma in Leonardi 2009, p. 28. Per la ricostruzione degli elementi salienti della vicenda cfr. Elvira Puorto, Fotografia fra arte e storia: il Bullettino della Società fotografica italiana (1889 -1914). Napoli: A. Guida, 1996, pp. 69-71. Della Grotta Azzurra di Sommer sono note, oltre a una variante colorata a mano (n. 2217) una pseudostereoscopia (n. 243) firmata ancora Sommer & Behles.
[37] “A Napoli il maggior produttore (di fotografie) è il Sig. Sommer [che] ha delle sale di vendita molto vaste in una delle principali strade, in cui è realizzata un’esposizione molto bella. [Il suo stabilimento] è fornito di tutti i requisiti necessari a ottenere risultati ottimi in ogni quantità.”. Il testo, reso noto per la prima volta da Van Deren Coke, Giorgio Sommer, “Bulletin of the University Art Museum”, n. 9 (1975-1976). Albuquerque: University of New Mexico, è stato a suo tempo ripreso da Palazzoli 1981, p. VI, che qualificava però Wilson come un generico “viaggiatore americano”. Di questo autorevole encomio mi piace sottolineare quel richiamo alla “quantità” che ben sintetizza l’orizzonte produttivo e commerciale in cui si collocava l’attività della Casa Sommer.
[38] “Pres de Sorrente. – Dessin de A. de Bar, d’apres une photographie de Giorgio Sommer”, “Magazin Pictoresque”, 42 (1878) tratto dalla stampa n. 1153 – Vallate di Sorrento.
[39] Miraglia 1992 p. 29 nota 60.
[40] Roberto, figlio di Clara Treiber e Franz Josef Pallme, è stato un grande appassionato ed esperto di cinema muto. La sua collezione è oggi conservata alla George Eastman House – International Museum of Photography and Film di Rochester, mentre la raccolta di proiettori cinematografici, radio e strumenti scientifici costituisce il Fondo Roberto Pallme presso la Fondazione Micheletti di Brescia.
[41] Cfr. Statuten der Mittelschweizerischen Geographisch-Commerciellen Gesellschaft, „Fernschau“, 1 (1886), pp. XV-XVI. La Società Geografico-Commerciale della Svizzera centrale, fu attiva dal 1884 al 1905. Per la ricostruzione delle vicende di questa collezione si rimanda a Fernschau: global: ein Fotomuseum erklärt die Welt (1885–1905), catalogo della mostra (Aarau, Forum Schlossplatz, 2006), Markus Schürpf, hrg. Baden: Hier + jetzt Verlag für Kultur und Geschichte, 2006, e più in particolare al saggio di Ricabeth Steiger, Fotografieren als Geschäft: die Reportagen und Reisebilder von Giorgio Sommer, ivi, pp. 72-79. L’iniziativa di questa Società va inquadrata nel più ampio dibattito tardo ottocentesco sulle funzioni dei Musei fotografici documentari che interessava in quegli anni tutti i paesi europei, Confederazione Elvetica compresa, oltre agli Stati Uniti.
[42] Giorgio Sommer, fotografo di S.M. il Re d’Italia, Largo Vittoria, Napoli, Palazzo Sommer, Catalogo di fotografie d’Italia, Malta e Ferrovie del Gottardo. Napoli: Tipografia A. Trani, 1886.
[43] Cfr. Maureen C. O’ Brien, Mary Bergstein, eds., Image et Enterprise. The Photographs of Adolphe Braun. London: Thames & Hudson, 2000 oltre che, nello specifico, Kurt Zurfluh, Gotthard: als die Bahn gebaut wurde. Zürich: Offizin, 2003, in cui è pubblicata parte della campagna fotografica della Ditta Adolphe Braun, certamente non realizzata dal titolare, morto nel 1877, conservata presso la Collezione Walter Reinert di Lucerna. Le riprese vennero utilizzate per la pubblicazione delle Photographische Ansichten der Gottardbahn, Photographien von Ad. Braun & Cie. Dornach im Elsass, 1882 ca., di cui sono note diverse edizioni con un numero di tavole compreso tra 44 e 77, tra le quali un panorama in quattro parti.
[44] La funzione di attrazione turistica della nuova infrastruttura è confermata dalle innumerevoli guide pubblicate negli anni immediatamente successivi alla sua apertura, non di rado illustrate con incisioni tratte da fotografie, anche di Sommer: Woldemar Kaden, La ferrovia del Gottardo ed i suoi dintorni. Bellinzona: C. Salvoni, s.d. [1882 post]; Jakob Hardmeyer, Die Gotthardbahn, mit 48 Illustrationen von J. Weber. Zurich: Orell Fussli & co, s.d.[1886 ca]; Guide-album illustrée du chemin de fer du Gothard. Milano: Administration de Guide-Album du Gothard, s.d. [1890]; George L. Catlin, A travers les Alpes par le chemin de fer du Saint-Gothard. Zurich: Art Institut Orell Fussli, 1900; Edmondo Brusoni, Da Milano a Lucerna: guida itinerario descrittiva della ferrovia del Gottardo, dei Tre Laghi, del Lago dei Quattro Cantoni e del Canton Ticino. Bellinzona: Colombi e C. editori, 1901. A titolo esemplificativo segnaliamo come la ripresa n. 12130 – Amsteg, venne ripresa in Catlin p. 21 e Guide-album p. 27, la n.12164 – Bellinzona è stata la fonte per Catlin p. 34 e Guide-album p. 45, in cui vennero pubblicate anche n. 12127 – Fluelen p. 21, n. 12242 – Goeschenen p. 33 e n. 12291 – Hospenthal p. 68, mentre a p. 15 è pubblicata Arth Goldau di Braun. Il confronto tra le diverse immagini costituenti l’apparato illustrativo di queste guide, tutte incisioni tratte alternativamente da fotografie (pubblicate rigorosamente anonime) e da schizzi dal vero, mostra come ai due media originari corrisponda una diversa intenzione narrativa: l’adozione di una impaginazione verticale per le immagini disegnate risulta più efficace nella restituzione del contesto “orrido e sublime”, mentre sia Braun che Sommer escludevano il cielo e i profili delle montagne per concentrarsi il più possibile sulla presenza dei manufatti nel paesaggio in campo medio. Un vivace resoconto, certo debitore dell’immaginario romanzesco di Jules Verne, così descriveva un viaggio notturno su questa linea: “ed il cielo è nero, o, piuttosto, il cielo non c’è più : si ha l’impressione, traverso infinite gallerie, di pozzi interminabili, rivestiti di ferro, di scendere, scendere, scendere verso il centro della terra. Le stazioni, davanti a cui si fanno brevi soste, al bagliore scialbo delle file di lampade che le illuminano, paiono vacillare come cose riflesse in un’acqua, ed hanno nomi stravaganti ed ostili. Poi, a tratti, sopra il frastuono, il rombo metallico del treno, giunge all’orecchio, misterioso, uno scroscio di cascate, di acque vorticose, di torrenti precipitanti da chi sa quale balza ignota….. Un tremolio incerto, indistinto, infine, rompe l’oscurità. Giù in fondo ad una vallata, che sembra spalancarsi come un’enorme mascella, sotto un cielo accigliato e torbido d’autunno, non ancora svegliato dall’alba, appare il Vierwaldstättersee, il lago dei Quattro cantoni, il paese leggendario di Guglielmo Tell.”, Ernesto Ragazzoni, Istantanee svizzere, “La Stampa”, 8 (1902), n. 213, 3 agosto, pp. 1-2 (1).
[45] Aldo Audisio, P. Cavanna, Emanuela De Rege di Donato, Fotografie delle montagne. Ivrea: Priuli & Verlucca, 2009.
[46] Le montagne e i ghiacciai della regione furono oggetto di una prima campagna fotografica realizzata dai Fratelli Bisson, presentata con grande successo all’Esposizione di Parigi del 1855; cfr. Les Frères Bisson photographes. De flèche en cime 1840-1870, catalogo della mostra (Parigi – Essen, 1999), Milan Chlumsky, Ute Eskildsen, Bernard Marbot, dir. Paris – Essen: Bibliothèque Nationale de France – Museum Folkwang, 1999; Infinitamente al di là di ogni sogno. Alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo nazionale della Montagna, 2004. Una nuova campagna fotografica venne realizzata alcuni anni più tardi e pubblicata in H[ereford] B[rooke] George, The Oberland and its glaciers explored and illustrated with ice axe and camera. London: Alfred W. Bennet, 1866, illustrato con ventotto stampe all’albumina di Ernest Edwards, autore anche di una interessante serie di Notes of the Photographer, pubblicate in appendice, in cui descrive con grande chiarezza ed efficacia gli scopi, gli accorgimenti tecnici e le difficoltà dell’impresa.
[47] Bruno Munari, Fotocronache: dall’isola dei tartufi al qui pro quo. Milano: Editoriale Domus, 1944 (nuova ed. Milano: Verbaq edizioni, 1980; Mantova: Corraini, 1997).
[48] Risulta purtroppo difficile e quasi impossibile ricorrere alla progressione numerica dei soggetti per determinare la cronologia delle riprese. Analizzando le opere pubblicate nella non ricca bibliografia dedicata a Sommer, quelle presenti nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna di Torino e quelle, numerosissime, disponibili in rete sembrerebbe possibile in prima approssimazione individuare una certa progressione cronologica nella numerazione dei soggetti (n.1000 ca. per Roma, 1857-65; n.1100 ca. per Napoli 1860-1865), un nucleo dai nn. 1900 al 1990 ca. che riguarda Milano, Genova e Torino (1863 – 1873 ante), ma allo stesso periodo apparterrebbe anche la serie di Venezia, che ha una numerazione intorno al 3500 e quella su Como con numeri intorno al 7000 nel formato 21/27 (7100 formato album; 7200 stereo; 7300 carte de visite). Questa costruzione del codice di catalogo che pone in relazione soggetto e formato si ritrova anche in altri esempi (Torino, chiesa della Gran Madre, nn. 973, 1973, 3973), ma non rappresenta purtroppo una costante, né pare avere un andamento cronologicamente coerente, anche in conseguenza della sostituzione di nuove riprese dello stesso soggetto realizzate a distanza di tempo, ma entrate in catalogo con lo stesso numero, consuetudine del resto comune ad altri studi fotografici. Per analoghe considerazioni ed esempi si rimanda a Palazzoli 1981, Nota alle opere e alle analitiche schede delle immagini pubblicate in Miraglia, Pohlmann 1992.
[49] Se possiamo suggerire il 1889 come termine post quem, il 1894 è certamente quello ante quem della loro realizzazione. Presso l’Harry Ransom Center ad Austin è conservata una stampa di Sommer, Rigi Railway, Vitznau, Schnurtobelbrucke (n. 964:0728:000), che porta la data June 8, 1894 analoga a quella apposta in calce, sul supporto secondario della stampa relativa al Maloja del Museo Nazionale della Montagna di Torino, datata “September 14 1894”. Poiché si deve pur presumere che le stampe per raggiungere l’acquirente dovevano essere immesse in un preciso circuito produttivo e distributivo, è ragionevole supporre che la loro data di pubblicazione, e ancor più di ripresa possa essere anticipata almeno di qualche mese. Superfluo a questo punto ricordare che questi soggetti risultano compresi in G. Sommer & Figlio fotografi di S.M. il Re d’Italia, Casa fondata nell’anno 1857, Catalogo di fotografie Svizzera e Tirolo. Napoli: Tipografia Scarpati, 1899.
[50] I due tronchi della Ferrovia del Rigi furono inaugurati rispettivamente nel 1869-70 per la parte da Vitznau e nel 1875 per la tratta da Arth-Goldau. Si calcola che negli anni ’70 la meta fosse frequentata da circa 80.000 persone l’anno, cfr. Kaden 1882 post, p. 27. Si segnala che recentemente, presso la Galerie Fischer Auktionen di Lucerna, è stato presentato in asta un album di Giorgio Sommer dedicato proprio al Pilatus, datato 1890 ca., con 23 stampe all’albumina relative al Monte e alla sua ferrovia.
[51] In Guide-album 1890, p.n.n.
[52] Ragazzoni 1902, p. 1.
[53] Miraglia 1992 p.21
[54] Loro immagini vennero pubblicate nei primi numeri di “Napoli nobilissima” illustrati da fotografie (1892), cfr. Picone Petrusa 1981 p. 57 n. 68. Si segnalano inoltre le fotografie dell’Oberland Bernese firmate G. Sommer & Figlio pubblicate in “The Graphic”, 54 (1896), cfr. Anton Gattlen, L’estampe topographique du Valais. Martigny – Brig: Éditions Gravures, Éditions Pillets – Rotten verlag AG, 1987-1992, II, p. 313; il volume di Jakob Christoph Heer, Der Vierwaldstätter See und die Urkantone. Zürich: J. A. Preuss 1898 (ed. francese e inglese: Zürich: Th. Schroeter, 1900), corredato da 800 illustrazioni in photogravure e xilografiche, con immagini di Sommer, dei Fratelli Wehrli, di Schroeder e dei fotoamatori Hans Brun, J. Muheim, L. Zimmermann, A. Soldenhof, H. Felder; Hippolyt Haas. Neapel seine Umgebung und Sizilien. Bielefeld und Leipzig: Verlag von Velhagen & Klafing, 1904, riccamente illustrato da fotografie firmate Sommer & Figlio e Alinari; Augustus J. C. Hare. Cities of Southern Italy. New York: Dutton and Company, 1911, per il quale “The Editor takes this opportunity of thanking Messrs. G. Sommer, of Naples, and Signor R. Moscioni, of Rome, for permission to use certain of their photographs for the illustration of this work.” Anche alcune delle illustrazioni pubblicate in Gustavo Strafforello, La Patria: Geografia dell’Italia: Provincia di Napoli. Milano – Roma – Napoli: Unione Tipografico Editrice, 1896 erano tratte da Fotografie Sommer.
Melfi: Libria, 2020
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07.3.6.1 – Torino e il Piemonte
07.3.6.2 – Milano e la Lombardia
07.3.6.3 – Bologna
07.3.6.4 – Roma
07.3.6.5 – Al Sud
07.3.8.1 – Protagonisti della calotipia in Italia
07.3.8.2 – Alcuni modelli storiografici per l’età del collodio
07.3.8.3 – Alinari 150
07.3.8.4 – Regolari e irregolari del Novecento
07.3.9.1 – Storie di archivi
07.3.9.2 – Manuali e norme di catalogazione
08.2.2.1 – La lista di discussione s-fotografie
08.2.2.2 – La Società Italiana per lo Studio della Fotografia
08.2.4.1 – Archivi, fonti, dispositivi e oggetti sociali
08.2.4.2 – Turn! Turn! Turn!: da singolare a plurale
08.2.4.3 – Fotografie nella rete
08.2.5.1 – Fotografia e scienze dell’uomo
08.2.5.2 – Arte, Storia dell’arte e fotografia
08.2.5.2.1 - Storie di storici dell’arte 08.2.5.2.2 - Biografie fotografiche: alcuni casi di studio 08.2.5.2.3 - Storia dell’arte, editoria, fotografia 08.2.5.2.4 - Produzione artistica e fotografia 08.2.5.2.5 - Fotografia e pratica artistica: Accademie, atelier, archivi
08.2.5.3 – Storia dell’architettura e fotografia
08.2.5.4 – Storia dell’archeologia e fotografia
08.2.5.5 – Letteratura e fotografia
08.2.5.6 – Immagini dai conflitti
08.2.5.6.1 - Temi e problemi risorgimentali 08.2.5.6.2 - Fotografie delle guerre 08.2.5.6.3 - Fotografie di protezioni antibelliche
08.2.5.7 – Fotografie e storie del lavoro e dell’industria
08.2.5.8 – Indagini a scala territoriale
08.2.5.8.1 - Territori, archivi, repertori 08.2.5.8.2 - Immagini dei luoghi 08.2.5.8.3- Immagini e identità: sguardi interni/ sguardi esterni
08.2.5.9 – Storie locali
08.2.5.9.1 - Storie illustrate 08.2.5.9.2 -Storie illustrate con fondi fotografici locali 08.2.5.9.3 -Storie della fotografia locale 08.2.5.9.4 -Immagini, mutazioni e catastrofi
08.2.5.10 –Monografie
08.2.5.10.1 -Gli evergreen 08.2.5.10.2 -Di alcune storie veneziane 08.2.5.10.3 -Oriente e orientalismi 08.2.5.10.4 -Cataloghi virtuali/ repertori virtuosi 08.2.5.10.5 -Intorno alla pratica del ritratto 08.2.5.10.6 -Di alcuni studi fotografici 08.2.5.10.7 -Fotografia amatoriale 08.2.5.10.8 -La scena torinese 08.2.5.10.9 -Figure di passaggio
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“Ma la perizia si accresce ereditando: e anche in senso limitativo,
ereditando la cognizione dell’errore.”
Carlo Emilio Gadda, 1939
Questo lavoro nasce da un incontro e da un incrocio. L’incontro è stato quello con Giovanni Fanelli, che ci ha portati in più occasioni a confrontarci sui modi e le ragioni del fare storia della fotografia; sul lavoro nostro e degli altri partendo da una medesima spinta a comprendere ma da posizioni non di rado diverse. Queste occasioni di confronto si sono poi incrociate con qualcosa di per me inatteso; qualcosa che certo viveva da qualche parte ma non aveva sino ad allora preso forma né nome ed era l’attrazione (e il fascino) per la riflessione storiografica. Qualcosa che poco alla volta, e ciononostante improvvisamente, mi chiariva le ragioni per cui nei miei scaffali e tra i miei libri si fossero accumulate negli anni così tante storie della fotografia: quelle generali intendo; quelle che narrano vicende a volte molto simili, magari coincidenti, in modi tra loro anche molto diversi. Quelle, appunto, che hanno perduto (per me) quasi ogni funzione informativa; che mi attraggono per le questioni che pongono le loro differenti impostazioni storiografiche e connotazioni narrative.
Il riferimento non narcisistico a sé vale anche e forse soprattutto per chiarire i limiti di questo lavoro, in cui l’accento autobiografico sottende anche (ma è una questione almeno generazionale) una formazione ancora sostanzialmente autodidattica. Così mi auguro che si possano comprendere se non proprio scusare le insufficienti conoscenze che possono emergere, che derivano anche da una forzata autarchia nell’accesso ai testi e ai documenti, reperibili sempre con difficoltà in un contesto in cui scarseggiano istituzioni dedicate alla fotografia e alla sua storia, così come mancano biblioteche specializzate. Quindi non solo nell’approntare il repertorio bibliografico ma specialmente nelle segnalazioni e nelle scelte si sono privilegiati quei testi che ebbero almeno il riconoscimento di una recensione, una buona o discreta circolazione, qui verificata sulla base della loro presenza in biblioteche pubbliche desunta da OPAC SBN, e naturalmente dalle citazioni nella letteratura specialistica. Questa condizione di difficoltà, infine, ha di necessità accentuato il ricorso alla rete come canale di accesso indiretto alle fonti bibliografiche, specie di quelle che per cronologia, occasione o sede di pubblicazione hanno goduto di minore circolazione materiale. Ciò che invece non ho incontrato, ma certo l’indagine non è stata sistematica, sono state produzioni significative di un fare storia della fotografia al tempo di internet, poiché pare che anche nei casi migliori e più precisamente orientati non si riesca ancora a sfruttare appieno tutte le potenzialità del nuovo medium e a mettere a punto strutture narrative innovative e paradigmaticamente diverse dai modelli cartacei.
In queste condizioni si sono sviluppati e hanno progressivamente preso forma (una forma in progress, mai chiusa) il testo che segue e la bibliografia che lo accompagna, cresciuti anche sotto lo stimolo rappresentato dal crescente interesse internazionale per la storiografia fotografica; un interesse che rappresenta uno dei frutti più succosi della svolta culturalista. Contrariamente a quanto avviene per le discipline artistiche, non esiste infatti una tradizione di studi che abbia affrontato sistematicamente l’analisi delle storie di storia della fotografia e non è certo un caso che il primo manifestarsi di interesse per il tema abbia corrisposto alla messa in discussione dei modelli storiografici novecenteschi e alla stessa ridefinizione del fare storia innescata dalla tecnologia digitale, a sua volta origine di una radicale ridefinizione del concetto stesso di fotografia. E allora il tentativo di delineare una possibile storia della storiografia italiana ha avuto per me anche lo scopo di raccogliere elementi e offrire l’occasione per riflettere sui criteri, sul senso, i significati e i modi dello scrivere possibili storie della fotografia oggi, in presenza di uno scenario tecnologico radicalmente mutato; di fronte alla marginalizzazione -almeno in termini tecnologici -dello stesso oggetto di studio della storiografia qui considerata.
Dati questi elementi il gioco risultava irrimediabilmente avviato
È solo dalla fine degli anni Settanta del Novecento che gli studiosi hanno incominciato a interrogarsi sistematicamente su cosa si dovesse intendere per Storia della fotografia e sulla necessità di riscriverla. La domanda si è poi fatta sempre più impellente a partire dal decennio successivo, specie in occasione delle celebrazioni del centocinquantenario, né ha cessato di essere riformulata sino ad oggi, assumendo di volta in volta posizioni e attese le più diverse, segnate da preoccupazioni di tipo teorico che sono giunte a considerare il fare storia della fotografia come possibile paradigma del lavoro storico tout court, ovvero hanno proposto nuovi approcci settoriali che ne hanno indagato e posto in questione la stessa identità disciplinare, proponendosi di volta in volta di intendere la storia della fotografia come “storia di una abiezione” o -all’opposto – come “storia di attese” successive Una storia che ha preso corpo in oggetti materiali “storicamente formati” coinvolti in una serie quasi infinita di pratiche, strategie e modalità di circolazione, ricezione e sedimentazione delle informazioni che li costituiscono. Lo studio di questa variegata produzione consente per intanto una prima considerazione: che le storie della fotografia (al singolare) dovrebbero essere (e raramente sono) storie dell’idea e delle teorie intorno alla fotografia, attente alle componenti concettuali e alle loro mutazioni storiche e culturali, distinguendosi così da quelle che chiameremmo piuttosto storie delle fotografie (ma comunemente dette della) che contemplano e contengono in sé in modi di volta in volta diversi, ponendole in relazione tra loro, le istanze concettuali, teoriche, estetiche con le pratiche e le opere che da quelle sono derivate, verificandone quindi il loro agire sociale e culturale storicamente dato in aree geografiche di diversa estensione. Non dissimili dal punto di vista strutturale ma circoscritte tematicamente sono poi le storie settoriali (della fotografia di architettura, di montagna o di quella pornografica, ad esempio) mentre negli ultimi decenni si sono sviluppati specifici settori di studio con più forti implicazioni teoriche e metodologiche nei quali si considerano i rapporti storicamente significativi della fotografia con altri ambiti e discipline quali la storia dell’arte, quella della psichiatria ma anche (e forse prima di altre) dell’etnografia, sulla base dell’acquisita consapevolezza di quanto la fotografia abbia influito storicamente sulle costellazioni metodologiche di quelle discipline; con arricchimenti reciproci che in più di un caso hanno inciso in modo significativo sulla storiografia fotografica. Infine non possiamo dimenticare, anche solo per un cenno, le ‘storie con’: trattazioni di diverso argomento e livello qualitativo e scientifico in cui il ricorso alla documentazione fotografica storica presenta forme d’uso estremamente variabili: dal mero utilizzo illustrativo e commemorativo, rischiosamente referenziale, alla rigorosa critica ed edizione delle fonti utilizzate, ciò che implica una consapevolezza delle culture fotografiche che le hanno prodotte.
Quale limite cronologico per l’argomento degli studi considerati è stato adottato il 1945, nella convinzione che il discrimine costituito dalla Seconda guerra mondiale sia stato di portata epocale anche in ambito fotografico sia a livello internazionale che in Italia, dove è col secondo dopoguerra che ha inizio la nostra contemporaneità. L’intenzione di ripercorrere le vicende della storiografia che ha eletto a proprio oggetto di studio il periodo compreso tra le origini della pratica fotografica in Italia e il 1945 si è da subito dovuta confrontare con un aspetto che rendeva problematico e discutibile quello stesso intento, poiché non si poteva non constatare come questa produzione nascesse e si fosse sviluppata in un più generale contesto di formazione di una cultura storica della fotografia, in un maturarsi cioè della considerazione stessa della fotografia come possibile oggetto di studio, anche storico. Un fenomeno sviluppatosi in tempi diversi ma che ha accomunato tutta la prima letteratura fotografica a livello internazionale. Per questa semplice ma fondamentale ragione è risultato indispensabile dare conto almeno dei principali di quei contributi prodotti nel nostro paese a cui (in modi diversi) possiamo riconoscere una prima attenzione (magari in nuce, magari strumentale o ingenua, ma presente) per temi di storia della fotografia, anche se non ancora rivolti allo scenario italiano. Ne è derivata la necessità di interrogarsi sulla progressiva definizione e sulle mutazioni di questa identità disciplinare, ciò che ha implicato di dar conto e riflettere su cosa si sia inteso e si intenda per “fare storia della fotografia”, verificando metodi, strumenti e modi che hanno determinato una successiva estensione di tipologie e confini; con un andamento (teorico e pratico) che mostra non poche analogie con quello di ben più ampia portata che ha riguardato la questione delle fonti per la storia in generale. Come in quella si è passati nel corso del Novecento dalla prevalenza della parola, del documento scritto, a un concetto di fonte sostanzialmente onnicomprensivo e determinato dalle scelte dello storico. Così la storia della fotografia ha impiegato circa un secolo per divenire storia di immagini e solo a partire da quel momento, tra post pittorialismo e istanze moderniste, si sono potuti sviluppare strumenti e metodi in grado di analizzare e rendere conto delle diverse e distinte dinamiche che hanno connotato funzioni e ruoli della fotografia nelle culture del proprio tempo; di studiarne quindi le dinamiche storiche proprie dei diversi contesti. Questi processi non hanno però avuto alcuna sincronicità geostorica: così in ciascuna area culturale non sono significativi solo i mutamenti di canone storiografico, da storie di tipo tecnologico (con più o meno rilevanti connotazioni nazionalistiche) ad altre di tipo iconografico (e surrettiziamente artistico) sino alle più attuali storie culturali, ma anche la loro cronologia e incidenza in relazione alla cultura dei paesi di produzione e d’influenza.
Il primo passaggio determinante, la prima svolta paradigmatica di questo accidentato percorso quasi bicentenario è stata la possibilità, favorita dal pittorialismo e fatta propria dal modernismo, di concepire una storia della fotografia come storia di fotografie, riconoscendo loro un valore autonomo, non semplicemente strumentale. Un ‘genere’ di storiografia che ha caratterizzato gran parte del Novecento, con progressivi arricchimenti e slittamenti, ancora in corso, che hanno visto solo recentemente un passaggio dall’immagine alla fotografia e alle fotografie per considerarne non solo i valori estetici e comunicativi ma anche le manifestazioni materiali, le valenze sociali e politiche delle diverse forme di sedimentazione e aggregazione. Non è allora difficile dire che oggi si può intendere la storia delle fotografia anche come storia della cultura fotografica; quella espressa dalla fotografia in tutte le sue forme di produzione e d’uso ma anche intorno alla fotografia, e delle diverse modalità con cui si è storicamente manifestata. Certo in tal senso la storiografia è una delle sue forme privilegiate, specie se possiamo intenderla in senso lato, riunendo sotto questa categoria tutte quelle produzioni e azioni che a diverso titolo e a diverso livello e intenzioni si sono rivolte al patrimonio fotografico storico: dalla ricerca al saggio e alla mostra; dalla catalogazione alla tutela.
Stabilito empiricamente l’areale d’indagine e gli elementi che ne sono compresi, si trattava di provarsi a individuare le fonti e i metodi da adottare per realizzarne una mappatura sufficientemente ampia; tale da consentire di tracciare alcuni degli elementi caratterizzanti del contesto culturale che progressivamente costituivano e del quale erano espressione più o meno compiuta.
Componente determinante di questo percorso, fonte privilegiata e oggetto storiografico a un tempo sono stati i testi a stampa nelle loro numerose varianti tipologiche (dal saggio in periodico a quello in volume, al catalogo di mostra, al volume illustrato), con una prima, inevitabile attenzione e predilezione per quei contributi che si qualificavano esplicitamente come di storia della fotografia, e senza ancora chiedermi cosa si intendesse con quella definizione. Nel raccogliere quei primi materiali, nel compilare le prime voci della bibliografia di riferimento e supporto, emergeva sempre più riconoscibile una condizione (di fatto) di storiografia come autobiografia; di un lavoro di ricostruzione e di analisi che ripercorreva (certo più sistematicamente) le tappe confuse e incerte della mia formazione: i libri letti e non letti; quelli letti male; le relazioni ascoltate e presentate ai convegni; le conversazioni a margine; le determinanti necessità di fare chiarezza per mettere a punto un ciclo di lezioni o di seminari. Ne risultava un bilancio di attenzioni e di studi che intersecava e toccava a volte molto da vicino quello personale. Un elemento, una caratteristica che ho accolto a sua volta come dato costitutivo progressivamente arricchito dalle esigenze che lo sviluppo del progetto poneva e definiva con maggiore chiarezza, prima delle quali è stata proprio la crescente necessità di considerare altri modi del fare storia della e con la fotografia che non fossero solo quelli delle pubblicazioni a stampa.
Il percorso che ne è risultato (uno dei possibili, quindi) sempre più diramato col procedere della cronologia e dell’avanzamento degli studi relativi al nostro paese, rappresenta l’esito (molto personale ma -mi auguro -non personalistico) di un processo di avvicinamento e di riconoscimento delle diverse storiografie che hanno riguardato la fotografie e le fotografie (non necessariamente in questo ordine o in perfetta sincronia). Nella tensione feconda tra autobiografia e metodo, l’intento è stato quello di considerare per primi tutti quegli autori e progetti che per opinione diffusa hanno svolto un ruolo significativo nella formazione e nelle trasformazioni della cultura italiana intorno alla storia della fotografia nel nostro paese, considerandoli quindi sotto il duplice aspetto dello specifico storiografico e della loro natura di “documento/monumento” della cultura che li ha prodotti. Non si è trattato quindi di individuare l’eventuale processo di formazione di un canone, che pure progressivamente emerge e muta, ma semmai di riconoscere indizi, aspetti ed elementi che abbiano contribuito nel tempo a definire una metodologia, consentendo di comprendere e valutare criticamente il livello di congruenza tra gli assunti (magari impliciti) e gli effettivi esiti storiografici. In molti casi si è trattato anche (e purtroppo) di sottoporre a verifica l’esistenza di un’attrezzatura conoscitiva minima, indispensabile per analizzare con cognizione di causa il sistema complesso della fotografia e delle fotografie a prescindere dai presupposti teorici e dai modelli metodologici con cui queste sono affrontate. Un set minimo di conoscenze che appare scontato possedere per qualsiasi altra disciplina ma che sembra ancora essere facoltativo se non superfluo quando si parla di storia della fotografia, dove capita ancora che qualcuno si permetta di discettare a proposito di “lastre di peltro imbevute di una soluzione di bitume”, o simili. Questa è la ragione per cui il differente spazio dedicato alle discussione delle singole produzioni (saggi, mostre) non implica necessariamente alcun giudizio di valore. Ciò che è stato considerato sono invece (e semmai) i testi e relativi sottotesti, non solo verbali. Ciò ha determinato due evidenti conseguenze: il ricorso sistematico ad ampie citazioni dirette, nella convinzione che non solo i concetti ma anche i modi e le formule con cui sono stati espressi costituiscano un elemento imprescindibile per la comprensione del dibattito e della cultura di un momento storico, e un più ampio spazio di attenzione critica a quelle opere che per la loro problematicità risultavano più discutibili.
Devo a quella frase di Carlo Emilio Gadda posta in esergo la comprensione delle ragioni profonde che hanno motivato questo lavoro, e non tanto nel senso (peraltro determinante) dell’accrescimento personale quanto piuttosto nell’intravvedere un’utile chiave di lettura storiografica da cui derivare (anche) la possibilità di riconoscere e tracciare un eventuale percorso identitario. Una genealogia nel senso più comune e pieno del termine, che potesse dar conto del successivo emergere di elementi e spunti (più metodologici che teorici, a dire il vero) dei quali riconoscere una necessità e un’efficacia attuali nell’affrontare dal punto di vista storico e storiografico la fotografia e il patrimonio di oggetti e culture che questa ha prodotto. E ancora, e nello stesso tempo, altrettanto necessariamente dare corpo al desiderio di mantenere traccia delle vicende, dei dibattiti, delle opere e insomma delle culture che in Italia si sono rivolti con intenzioni e in modi diversi
alla fotografie e alle fotografie in questo arco di tempo ormai non più breve. Questo ha voluto dire comprendere come sia stata di volta in volta intesa (sebbene non definita) la fotografia; quali siano stati gli aspetti e le caratteristiche considerate, e in quale orizzonte fossero poste. Si considerino a questo proposito le più precoci narrazioni, che nella loro impostazione prettamente tecnologica sottolineavano in particolare la ‘moltiplicabilità’ di questa nuova tipologia di immagini, guardando alla comunicazione e non all’opera, in una prospettiva che sarebbe stata ripresa e sviluppata solo a metà Novecento.
Il primo dato macroscopico che è emerso dalla questa ricostruzione è che l’Italia è arrivata tardi a produrre una storia generale della sua fotografia (Zannier 1984), poiché rari sono stati i momenti e le occasioni di formazione di una precisa cultura storica e storiografica nei decenni precedenti. Si può dire, con una schematizzazione a cui cercherò di porre rimedio nel corpo del saggio, che solo dalla fine degli anni Settanta del Novecento questi temi hanno goduto di una vera attenzione, che si è manifestata dapprima sotto forma di produzioni espositive, meritoriamente divulgative ma non sufficientemente supportate da precedenti studi e ricerche specialistiche. Il ritardo della cultura italiana nei confronti della fotografia si direbbe dovuto all’incidenza e al perdurare di un atteggiamento che semplicisticamente diremo ‘idealistico’, in un contesto segnato da un cronico ritardo nei processi di industrializzazione. Tra gli elementi che hanno variamente condizionato e determinato le caratteristiche della storiografia italiana un ruolo non secondario è stato però anche svolto dalle culture, dalle professioni e più ampiamente dalle ragioni di chi si è di volta in volta proposto come storico della fotografia, o di coloro che noi oggi identifichiamo come tali, così come dalla tipologia di lettore ‘ideale’ cui ciascuno si rivolgeva; un modello a sua volta mutevole e storicamente determinato. Basti anche qui considerare i primi resoconti relativi alle molteplici invenzioni della fotografia, provandosi a distinguere tra cronache, cronologie e prime ricostruzioni, ma anche tra le differenti sedi di pubblicazione. Così le notizie comparse sui periodici avevano il sapore netto della cronaca, per quanto imprecisa e magari fantasiosa, mentre le prime voci enciclopediche (Minotto 1839) si distinguevano da quelle per l’intento evidente di sistematizzare e ‘spiegare’ dati ed eventi, per quanto recenti. Un atteggiamento e un metodo che caratterizzarono tutta la successiva manualistica ottocentesca, a partire dagli esempi di Giacomo Caneva e di Venanzio Sella, adottando i canoni stabiliti dalle coeve storie della scienza e della tecnologia, fondate sulla convinzione che una migliore conoscenza del passato avrebbe consentito all’utilizzatore attuale di compiere meglio il proprio lavoro. Nei decenni successivi si ebbero ricostruzioni schematiche e celebrative; certo indizio interessante della volontà (magari implicita) di collocarsi dentro la storia ma di fatto manifestazioni di una forma esteriore di religione del passato; quella stessa che portò al ricorso alla documentazione fotografica storica in occasione delle prime celebrazioni risorgimentali. Dopo la stagione pittorialista e in anni di modernismo nascente l’accento mutava e l’attenzione per la storia assumeva il tono e il senso di un processo di legittimazione di un fare che si voleva sempre più autoriale, senza escludere più o meno forti accentuazioni nazionalistiche, perfettamente aderenti all’ideologia del Regime, mantenute però sottotono dalla mancata realizzazione di un storia di produzione italiana. Questa lacuna, che non ha interessato paesi quali la Francia, la Germania e gli USA, era verosimilmente dovuta a una scarsa considerazione culturale per la fotografia e alla quasi insormontabile difficoltà di ascriverne la scoperta tra le italiche glorie nazionali. I pochi contributi databili agli anni tra le due guerre mondiali riuscirono comunque a indicare possibili, e per certi versi divergenti direzioni di ricerca, tra storia sociale attenta alle pratiche professionali (Enrico Unterveger), e storia autoriale derivata da interessi storico artistici, rappresentata dai primi saggi di Lamberto Vitali, al quale è stata assegnata la titolarità di un paradigma (più simbolico che reale però) che sarebbe risultato dominante nei decenni successivi: un atteggiamento critico così attento agli aspetti iconografici e referenziali da porre in secondo piano la necessità di comprensione degli elementi tecnici; una caratteristica ampiamente diffusa tra le prime generazioni di storici anche quando provenivano dalla professione di fotografo e di cui era indizio non secondario (e certo complesso) la consuetudine di riferirsi nelle descrizioni dei materiali alle caratteristiche tecniche della matrice negativa e non del positivo studiato.
Un disinteresse (magari non formale) per le questioni tecniche che si può anche interpretare come residuo non elaborato di avversione a quel marchio culturale originario che attribuiva alla fotografia la natura di vile immagine meccanica e, contemporaneamente ma conseguentemente, la manifestazione del desiderio di distaccarsi dalla tradizione premodernista delle storie tecniche, ma senza poi procedere a elaborazioni nuove, metodologiche e storiografiche, per ridursi infine a una più o meno consapevole interpretazione idealistica delle fotografie e dei loro autori. Ciò che era mancato era proprio una riflessione sulla specificità ontologica della fotografia, sostituita da un’assunzione di posizioni e, in parte, di metodi derivati da discipline di più lunga e solida tradizione, dimostrando carenze di ordine teoretico e metodologico che favorivano o quanto meno consentivano da un lato quel basico utilizzo referenziale dell’immagine fotografica che per troppo tempo ha connotato l’attività degli storici contemporaneisti, e dall’altro un’assunzione implicita dell’artisticità come unico elemento valoriale, forzando la storia della fotografia negli spazi nobili ma angusti della storia dell’arte. Una cultura fotografica che per lungo e troppo tempo è stata e si è considerata marginale e subalterna, ponendosi sulla difensiva, e che – si direbbe – per quella sola ragione adottava meccanismi di valutazione critica di tipo rigorosamente autoriale, che si risolvevano puntualmente in esercizi di analogia con figure o canoni ritenuti ‘alti’, vale a dire già riconosciuti dalla letteratura internazionale, senza interrogarsi troppo sul fondamento e sul senso di tali operazioni. Per analoghe ragioni temi e figure della fotografia italiana si affacciarono timidamente solo a partire da alcune storie generali pubblicate negli anni Sessanta, anche da autori italiani (Enrie, Zannier, Settimelli), certo penalizzati nelle loro ricerche da quel “vuoto lasciato da collezioni e documenti scomparsi per motivi attribuibili all’incuria ed alla leggerezza” che lamentava Racanicchi nel 1961, mentre si avviavano riflessioni di ordine più ampiamente culturale dovute a figure di studiosi appartenenti a diversi e magari distanti ambiti disciplinari, da Mario Praz a Emilio Servadio, ospitate in un importante numero monografico de “I problemi di Ulisse” (1967).
Fu solo sul finire del decennio successivo che si coagularono una serie di contributi e realizzazioni che hanno costituito uno spartiacque con le produzioni antecedenti, tanto da poter dire –schematizzando ancora -che hanno segnato la nascita della storiografia italiana in senso proprio. Così accanto a importanti mostre come Fotografi del Piemonte, Gli Alinari fotografi a Firenze e Roma dei fotografi, tutte del 1977, la cultura (fotografica) italiana offriva titoli di grande rilievo come l’impeccabile monografia dedicata a Michetti da Miraglia (1975) o la Storia sociale di Gilardi (1976); una proposta storiografica per molti versi eccentrica che ebbe però il grande merito di spostare l’accento sui temi della produzione e del consumo di immagini, certo inconsueti per lo scenario italiano. Il decennio si chiuse con la serie di mostre e iniziative dedicate ad “Aspetti e immagini della cultura fotografica in Italia” che segnarono il passaggio da un uso strettamente referenziale della fonte fotografica, proprio di iniziative quali La famiglia italiana in 100 anni di fotografia (Macchieraldo 1968) o L’Italia nel cassetto (Berengo Gardin et al. 1978), a una indagine disciplinare rivolta a ricostruirne la storia (Fotografia Italiana dell’Ottocento; Fotografia pittorica 1889/1911) pur con un taglio ancora fortemente – e forse inevitabilmente – derivato dai tradizionali modelli storico artistici e in sostanziale assenza di chiare impostazioni metodologiche. Dal punto di vista editoriale la produzione più rilevante fu la pubblicazione nello stesso 1979 de L’immagine fotografica 1845-1945, il volume in due tomi curato da Carlo Bertelli e Giulio Bollati per gli “Annali della Storia d’Italia” Einaudi, che intendeva porre in relazione esplicita gli ambiti culturali e disciplinari della storia culturale e politica e della fotografia, con un’ipotesi storiografica – dovuta prevalentemente a Bollati – che leggeva le vicende fotografiche quali componenti dei processi di modernizzazione e di definizione dell’identità nazionale. La sede di pubblicazione produsse inoltre una specie di processo di legittimazione della fotografia in quanto campo di studi, favorendo inedite riflessioni critiche e metodologiche intorno alla questione della fotografia come fonte, ma su presupposti ancora metodologicamente incerti, poveri di riferimenti strutturati, così che anche i rimandi ai saggi di Benjamin e della Freund sembravano nella più parte dei casi poco più che rituali, mentre pochi raccolsero all’epoca le suggestioni psicanalitiche e ‘culturali’ del testo di Bollati. Pur tra molte contraddizioni si trattava però di un primo reale riconoscimento della fotografia, e delle fotografie, in quanto beni culturali, come titolava il convegno modenese dello stesso anno, segnando l’avvio di quel passaggio significativo che avrebbe portato a privilegiare il patrimonio e il tessuto connettivo rispetto alle ‘emergenze’, introducendo quindi i temi della catalogazione e dell’archivio; un argomento sul quale uno studioso come Quintavalle aveva da poco proposto le sue prime, mature riflessioni interrogandosi su quali dovessero essere i modelli storiografici adeguati per lo studio del fenomeno fotografia.
In anni in cui a livello internazionale emergeva una prima attenzione specifica per la storiografia di settore, derivata dalla necessità di riconsiderare i modelli canonici e di definire l’oggetto (teorico e storico) fotografia, il panorama italiano produceva importanti contributi come quelli di Miraglia e Gilardi per la “Storia dell’Arte” Einaudi (1981), dei quali interessa qui sottolineare non tanto l’incommensurabile distanza di impianto e di esiti ma la loro comune caratteristica di elaborazione autarchica; ciascuno per opposte ragioni dotato di un metodo ‘autocostruito’, solo empiricamente adeguato al proprio progetto di ricerca e apparentemente indifferente ai dibattiti teorici in corso. Così il contributo di Miraglia, che nasceva da una solida formazione accademica, risultava poi carente in termini di comprensione dei processi di produzione di questa “arte industriale”, magistralmente affrontati da Gilardi in un testo quasi orgogliosamente privo di metodo. Tentativi più circoscritti di ridefinizione e di approfondimento trovarono invece ospitalità e furono sollecitati dal fenomeno nuovo delle riviste di cultura fotografica che nel periodo 1980-1985 videro la nascita (ed anche la morte, in un caso) della “Rivista di storia e critica della fotografia” (1980-1984), di “Fotologia” (1984) e di “AFT” (1985). Erano segni di un processo di strutturazione del campo disciplinare necessario e determinante, che vide anche la progressiva estensione delle indagini a scala territoriale, a cui si accompagnarono iniziative di conservazione e tutela, e delle presentazioni monografiche: una letteratura da cui iniziavano ad emergere le figure di alcuni autori evergreen.
Superate senza iniziative degne di particolare rilievo le celebrazioni del centocinquantenario dell’invenzione, gli anni Novanta videro un primo consolidarsi dell’interesse internazionale per la storia della nostra fotografia, mentre in Italia il confronto teorico e metodologico era sostenuto specialmente dalle iniziative (convegni, seminari) promosse dall’Archivio Fotografico Toscano. La cultura storica e la riflessione metodologica che si erano andate faticosamente formando nel ventennio precedente si tradussero in una serie di progetti di ricerca ed iniziative espositive che adottavano un approccio storico filologico assumendo l’archivio quale base di studio e che si proponevano di definire un corretto standard di edizione. Certo una concezione di archivio ancora piuttosto strumentale e lontana dal più recente riconoscimento delle sue caratteristiche di “dispositivo” culturale e politico, ma che portò al consolidarsi dell’attenzione per il patrimonio fotografico al di là di ogni prospettiva riduttivamente autoriale o artistica; attenzione che si tradusse in una serie di convegni (Prato 1992, 2000), nei primi tentativi di censimento a scala nazionale e nella messa a punto e poi emanazione delle norme di catalogazione delle fotografie (1999), mentre anche gli storici contemporaneisti ribadivano la necessità di definire una “diplomatica del documento fotografico” (Pavone).
Nell’ultimo quindicennio una storiografia sempre (più) sicura di sé e ormai sufficientemente radicata anche in ambito accademico, ha espresso in modo sempre più chiaro l’opportunità se non proprio la necessità di dotarsi di spazi di aggregazione e di confronto come la lista s-fotografie, la Società Italiana per lo Studio della Fotografia e la rivista che questa esprime (“RSF”, dal 2015), mentre i sistemi di catalogazione si sono aperti progressivamente al web e si è finalmente avviato l’indispensabile censimento delle raccolte e degli archivi fotografici italiani, in anni in cui la riflessione teorica ne rimetteva in discussione la stessa definizione tradizionale e si affermava il concetto, fortemente influenzato dagli apporti antropologici, di fotografia come “oggetto sociale” dotato di una sua propria biografia. I contemporaneisti d’altro canto appaiono ancora incerti tra fonte e documento, tra indessicalità e connotazione culturale ma sono forse finalmente disposti ad accoglierle entrambe, a integrare tra le loro conoscenze le riflessioni intorno alla natura primaria dell’immagine fotografica ed alle culture specifiche che questa ha prodotto. Elementi indispensabili per una decifrazione delle immagini stesse, nella consapevolezza che un riconoscimento dell’attendibilità e della veridicità del contenuto referenziale da queste trasmesso, e delle culture che esprimono, non possano che fondarsi sulla capacità di discernere le forme e i modi della trascrizione del mondo in fotografia.
È stata proprio la svolta culturalista a connotare maggiormente la più recente produzione storiografica, offrendo una serie di contributi -non solo italiani -che si propongono di individuare e riflettere intorno ad alcune caratteristiche già a suo tempo riconosciute da Bollati e ora più precisamente indagate, quali il policentrismo come specificità del rapporto, specie alle origini, tra fotografia e identità culturale italiana, o quello – di fatto complementare – tra questa e la modernità, con declinazioni non di rado di carattere essenzialista, intese a stabilire e verificare i caratteri di una possibile (o presunta) italianità della fotografia, dell’esistenza di una specifica fotografia italiana. A questa possibile ricostruzione identitaria hanno contribuito in misura determinante e necessaria gli studi settoriali, indagando relazioni e ruoli svolti dalla fotografia nei più diversi ambiti, dalla storia dell’arte e dell’architettura alla letteratura e alla geografia; dalla guerra al lavoro e all’industria, mentre le ricognizioni a scala territoriale hanno determinato un accrescimento micrometrico e continuo, quasi frattale, delle nostre conoscenze, prestando particolare attenzione al contesto e alle pratiche piuttosto che alle emergenze e facendo nettamente emergere la necessità sempre più stringente dell’integrazione dei saperi e delle consapevolezze teoriche e metodologiche come uno dei nodi centrali di una storiografia che intenda muoversi nel territorio complesso della fotografia e delle pratiche fotografiche. Per queste ragioni sono convinto che le questioni poste dall’uso come dal riuso delle immagini, anche quale soggetto storiografico, siano un portato eminentemente culturale che si può provare a comprendere solo affidandosi alle risorse di un metodo storico che si nutra delle indicazioni e degli apporti di ogni altra procedura conoscitiva, tra le quali riveste importanza sempre maggiore l’antropologia a partire dalle riflessioni che questa ha condotto ed elaborato specialmente intorno alle immagini storiche, portando a riconsiderare più consapevolmente anche la loro natura di oggetti materiali e sociali dei quali, ad esempio, si dovranno incominciare a studiare sistematicamente le condizioni economiche e il contesto di produzione e ricezione, quindi anche le specifiche relazioni con l’immaginario collettivo contemporaneo e di come la fotografia vi abbia partecipato e lo abbia condizionato, contribuendo così a delineare un ampio orizzonte di problemi e di intersezioni che riguardano anche le modificazioni storiche dell’immaginare.
Ciò che infine è emerso con maggiore chiarezza è che nel corso del lungo periodo qui considerato non è mutata solo la definizione dell’oggetto di studio, delle tipologie e ambiti che si è ritenuto di volta in volta più necessario, opportuno o interessante considerare con attenzione (studiare, valorizzare, conservare) ma soprattutto la dotazione metodologica. Così, al di là delle valutazioni di merito, ciò che risulta evidente nel considerare le produzioni più recenti sono le marcate differenze di impianto con quelle prodotte nei decenni precedenti, determinate da una coerenza epistemologica di cui quelle risultavano in diversa misura carenti. Così insieme all’identità degli oggetti si definiscono le teorie e i metodi, prendendo progressivamente coscienza del fatto che per lo storico della fotografia (una figura in fieri, come la sua disciplina) fonte e oggetto di studio coincidono. I fototipi sono infatti oggetto di studio e fonte primaria di sé stessi, di cui è indispensabile conoscere e comprendere le condizioni storiche e culturali di produzione come di ricezione, utilizzando ove è il caso attrezzi che provengono dalla cassetta di altre discipline di più consolidata (e sottilmente qualificante) tradizione, in primis certo gli storici dell’arte e dopo, più recentemente e faticosamente, ma efficacemente, etnografi, antropologi e altri studiosi sociali. Una svolta ‘culturale’ da cui ci si può attendere molto se non si ridurrà all’applicazione schematica di formule né dimenticherà i meriti delle elaborazioni passate; di chi ad esempio già negli anni Settanta parlava di “funzione della cultura di immagine in differenti momenti” come oggetto di studio (Quintavalle 1977, p. 71). Così la crescente attenzione per la materialità dell’immagine che è stato uno dei frutti succosi del material turn e il corrispondente concetto di “biografia sociale” delle fotografie non possono far dimenticare il lungo percorso di elaborazione, molto raffinato (che altri potrebbero addirittura considerare estenuato ed estenuante) dei modelli di catalogazione dei fototipi che proveniva da differenti presupposti teorici e metodologici, frutto di una concezione del fare storia della fotografia che ha inteso lavorare per la tutela e la valorizzazione del patrimonio che si andava studiando.
A conclusione di questo lavoro non posso che ringraziare tutti quelli che si sono dedicati con passione a studiare e far conoscere la storia della fotografia in Italia, e quelli che continueranno a farlo.
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AVVERTENZE:
La bibliografia citata nel testo e nelle note, nella forma Cognome anno, è consultabile nel file relativo.
Per non appesantire il testo e l’apparato di note, il rimando bibliografico viene dato in occasione della prima citazione della fonte, intendendo che tutte le citazioni successive provengono da quella sino a diversa indicazione.
Tranne che dove esplicitamente indicato, le traduzioni sono di chi scrive
Acronimi
ACS: Archivio Centrale dello Stato, Roma
AFS: Archivio Fotografico Storico della Provincia di Treviso, ora FAST
AFT: Archivio Fotografico Toscano, Prato
“AFT”: “Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano – Rivista di Storia e Fotografia””
AIB: Associazione Italiana Biblioteche, Roma
AIM: Alinari Image Museum, Trieste
ALI: Atlante Linguistico Italiano, Torino
ANIMI: Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, Roma
ASMI: The Association for the Study of Modern Italy, London
AST: Archivio di Stato di Torino
ATAC: Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea, Torino
BREL: Bureau Regional Etnologie et Linguistique, Aosta
CAF: Civico Archivio Fotografico, Milano
CAMERA: Centro Italiano per la Fotografia, Torino
CIFe: Centro informazione Ferrania, Milano
CIHA: International Committee of the History of Art
CLN: Comitato di Liberazione Nazionale
CRA: Centro interdipartimentale di Ricerca Audiovisuale dell’Università di Napoli
CRAF: Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia, Spilimbergo
CRICD: Centro Regionale per l’inventario, la catalogazione e la documentazione dei beni culturali della Regione Siciliana, Palermo
CSAC: Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Parma
ECPA: European Commission on Preservation and Access, Amsterdam
ENEA: Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, Roma
ERPAC: Ente Regionale Patrimonio Culturale della Regione Friuli Venezia Giulia, Gorizia
ESHPh: The European Society for the History of Photography, Vienna
FAST: Foto Archivio Storico Trevigiano, Treviso, già AFS
FIAF: Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, Torino
FIF: Fondazione Italiana per la Fotografia, Torino
FINSIEL: Finanziaria per i Sistemi Informativi Elettronici, Roma
GFN: Gabinetto Fotografico Nazionale – ICCD, Roma
IBC: Istituto Per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna, Bologna
ICCD: Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma
ICCU: Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche, Roma
ICG: Istituto centrale per la grafica, Roma (dal 2014), già ING
IFLA: International Federation of Library Associations and Institutions, L’Aia
IGM: Istituto Geografico Militare, Firenze
ING: Istituto Nazionale per la Grafica, Roma, ora ICG
INGV: Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Roma
INSMLI: Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, Milano
IRE: Istituzioni di Ricovero e di Educazione, Venezia
ISBD (NBM): International Standard Bibliographic Description for Non-Book Materials
ISRE: Istituto Superiore Regionale Etnografico, Nuoro
ISRSC Bi-Vc: Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, Varallo
ISTORECO: Istituto per la storia della Resistenza e della Società Contemporanea, Reggio Emilia
ISUC: Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea, Perugia
IUAV: Istituto Universitario di Architettura di Venezia (dal 2001: Università Iuav)
KIF: Kunsthistorischen Institut in Florenz – Max- Planck- Institut, Firenze
MAST: Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia, Bologna
MiBAC: Ministero per i Beni e le Attività Culturali
MIUR: Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
MNAF: Museo Nazionale Alinari della Fotografia, Firenze
MUFOCO: Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo
OPAC SBN: Catalogo del Sistema Bibliotecario Nazionale
PRIN: Progetto di Ricerca di Rilevante Interesse Nazionale
REICAT: Regole italiane di catalogazione
RIBA: Royal Institute of British Architects, Londra
RICA: Regole Italiane di Catalogazione per Autori
RMFA: Raccolte Museali Fratelli Alinari, Firenze
“RSCF”: Rivista di storia e critica della fotografia
“RSF”: Rivista di studi di fotografia
SEPIA: Safeguarding European Photographic Images for Access
SGI: Società Geografica Italiana, Roma
SICOF: Salone Internazionale Cine, Foto, Ottica e Audiovisivi, Milano
SIGEC: Sistema Informativo Generale del Catalogo
SIRBEC: Sistema Informativo Regionale Beni Culturali della Regione Lombardia
SIRPaC: Sistema Informativo Regionale del Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia
SISSCO: Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea
SISF: Società Italiana per lo Studio della Fotografia
SPSAE: Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico
TCI: Touring Club Italiano
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Le opinioni sulla data in cui collocare le origini della fotografia possono legittimamente divergere ma l’avvio della sua storiografia è certo, e risale al 1839.
“Gli inventori della fotografia – ha scritto André Jammes[1] – non attesero gli storici per far rientrare le loro scoperte nell’ordine della storia scritta. Si incaricarono loro stessi di quel compito. Collocando quelle scoperte nell’evoluzione scientifica e tecnica, definirono una tradizione che avrebbe influito su tutte le successive narrazioni: la storia della fotografia sarebbe stata la storia della sua tecnica.” Da noi se ne era accorto per tempo Giuseppe Gioacchino Belli, rilevandone anche le connotazioni nazionalistiche: “a Parigi sostienesi che il trovato è cosa francese, a Berna che ell’è invenzione svizzera, in Germania ed in Inghilterra che essa è alemanna o britannica.”[2] Dopo le prime, necessariamente imprecise e fantasiose cronache comparse sui periodici italiani, un accurato resoconto dell’invenzione del dagherrotipo venne pubblicato sulle pagine de “Il Politecnico” già nel giugno[3] del 1839, ma la prima trattazione ‘storica’ dell’invenzione apparsa in Italia sullo scorcio di quello stesso anno fu la voce Fotografia redatta dal veneziano Giovanni Minotto, per il “Supplemento” al Nuovo Dizionario Universale Tecnologico[4]. Qui l’articolata presentazione delle vicende francesi e inglesi era arricchita da una aggiornatissima rassegna delle prime prove italiane, poi non considerata da altre opere enciclopediche, che adotteranno analoga impostazione ‘evoluzionistica’ delle voci, con un alternarsi significativo di omologazioni o distinguo tra i termini dagherrotipo e fotografia[5]. Si registrava qui – tra le prime – quella linearità genealogica che divenne ben presto canonica e si sarebbe poi ripetuta con scarse varianti sino alle grandi storie del Novecento; sino a Gernsheim e Newhall: Della Porta, Wedgwood e Davy, Niépce e Daguerre, con l’aggiunta di Talbot alla voce “fotografia”. Quella che la Nuova Enciclopedia popolare italiana pubblicata a Torino nel 1859 apriva segnalando – credo per prima in Italia[6] – lo strabiliante capitolo del Giphantie di Charles-François Tiphaigne de la Roche (1760) in cui quella era prefigurata, ma con un evidente refuso di datazione (“1670”). In perfetta aderenza alla natura di matrice moltiplicabile del nuovo procedimento, l’attenzione maggiore delle enciclopedie era però riservata a un’invenzione allora ritenuta di ben maggior avvenire quale l’eliografia (fotolitografia), oggetto di trattazioni ben più analitiche e di ampio respiro, che celebravano la possibilità per ciascuna immagine di “potersene con la stampa ottenere molte copie”[7]. Una prospettiva scarsamente frequentata poi dalla più parte degli storici del mezzo, ma che un secolo più tardi sarebbe stata cara all’Ando Gilardi della Storia sociale della fotografia.
Diverse erano invece le ragioni che imponevano di dedicare il capitolo di apertura dei primi manuali italiani a una sintetica narrazione delle vicende storiche: “La Fotografia è la successione pura del Dagherrotipo” dichiarava Giacomo Caneva in apertura del suo trattato del 1855[8], facendo seguire una breve disamina delle ragioni critiche su cui fondava quell’affermazione, con cui concludeva il paragrafo primo, da lui intitolato Origine e storia. Di ben altro tenore e impegno l’ampio manuale di Giuseppe Venanzio Sella, quel Plico del Fotografo edito a Torino l’anno successivo che si apriva con una ricca introduzione corredata di note, per complessive quarantanove pagine, in cui si ripercorrevano storia e ‘preistoria’ dell’invenzione: dalla camera oscura di Della Porta allo stereoscopio; dalle prime prove di Wedgwood alle lastre al collodio, con un’intenzione che oggi potremmo definire di consapevolezza critica del mezzo. “Da quello che precede – scriveva Sella – il lettore ha potuto conoscere in modo generale l’origine, ed i successivi progressi ed applicazioni della fotografia, ed avrà potuto convincersi che non basta una triviale conoscenza dei procedimenti pratici per possedere a fondo quest’arte incantevole.”[9] “Cenni storici sull’arte fotografica” sarebbero poi comparsi ciclicamente su periodici italiani anche non di settore, come “L’Alchimista friulano”[10] o la “Rivista periodica dei Lavori dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Padova”[11], a firma di Luigi Borlinetto, mentre “Il Dilettante di fotografia” di Luigi Gioppi ospitò una serie di “Appunti storici” sin dal suo primo numero del 1890[12] e, dato ancor più significativo, nella seduta inaugurale della SFI Società Fotografica Italiana[13], il 26 maggio 1889, il Consigliere Ing. Arnaldo Corsi teneva una prolusione dedicata alla Storia delle origini della fotografia[14], nel cinquantenario della sua invenzione.
Per quanto ci risulta non pare che in Italia quella ricorrenza fosse particolarmente considerata dall’editoria fotografica (nessun manuale pubblicato in quell’anno, neppure in traduzione) o dai quotidiani, né celebrata dalla comunità dei fotografi: oltre alla cerimonia di fondazione della SFI si ha notizia solo del banchetto torinese che si tenne il 28 febbraio per iniziativa di Felice Alman, presidente dell’Unione Fotografica Italiana, a cui presero parte quasi solo fotografi piemontesi.[15] Allo stesso episodico interesse possono essere attribuiti gli interventi di Luca Beltrami e di Luigi Gioppi sulle pagine della “Rivista scientifico-artistica di fotografia”, organo del Circolo Fotografico Lombardo, dedicati rispettivamente all’invenzione della camera oscura e alla triade degli inventori[16].
Più interessanti e mirate le scelte compiute nel 1898 in occasione della mostra realizzata per l’Esposizione nazionale di Firenze, dove la Società fotografica di Vienna espose nella prima sala la riproduzione del “contratto preliminare fra Daguerre e Niépce, stipulato nel 1829. (…) Così sappiamo subito a quali condizioni noi venimmo alla luce; o, meglio, a quali condizioni la luce venne a noi.” [17] Negli stessi locali Brogi mostrava “una vecchia tenda per sviluppare le lastre al collodione” accanto a una “collezione di primitive macchine Daguerre” e a fotografie ‘antiche’ con vedute di Firenze e Roma presentate da Alinari e Tuminelli [sic]. “In una parola, e per concludere – scriveva Augusto Novelli – una buona parte di questa prima sala è come un tempio dedicato alla religione del passato; religione che sentiamo tutti e le cui reliquie, se talvolta possono farci sorridere, hanno sempre diritto al nostro rispetto e alla nostra venerazione. Anzi, dirò di più; questa parte mi sembra così importante e così ben raccolta e conservata, che dovrebbe essere trasportata, fatta qualche ampliazione, alla mostra futura di Parigi. Messa colà essa direbbe chiaramente i primi cinquant’anni della vita fotografica italiana.”
Un altro “tempio”, quello del “Risorgimento Italiano” realizzato per l’Esposizione Generale Italiana di Torino nel 1884 aveva rappresentato invece l’occasione di un primo ricorso alla fotografia quale testimonianza storica, forse con valore simbolico e iconico più che documentario. In quella sede – tra gli altri cimeli – furono esposte “Fotografie a dagherrotipo delle rovine della campagna del 1848-49”[18], verosimilmente da identificarsi con la serie di calotipie di Stefano Lecchi pubblicate da Danesi nel 1849 come “tratte dal dagherrotipo”, da cui l’errata identificazione in catalogo. Quelle vedute vennero presentate anche all’Esposizione Romana per la storia del Risorgimento dello stesso anno, nella quale accanto a ritratti e gruppi diversi compariva anche una foto di “Prigionieri in Aspromonte, gruppo eseguito nel 6 ottobre 1864”[19]. Date queste prime realizzazioni non è difficile sostenere che il tema risorgimentale sia stato uno dei primi se non il primo a sollecitare una qualche forma di interesse per la fotografia storica (ma non per la storia della fotografia, ovvio). Di impianto più celebrativo che storico documentario fu invece la proposta di Aurelio Favara, fatta propria dalla Società Fotografica Italiana nella seduta del 13 aprile 1911, quindi presentata al III Congresso fotografico italiano di Roma nello stesso anno cinquantenario dell’Unità; l’intenzione non era più quella di raccogliere ed esporre cimeli storici bensì di dare “visione fotografica di paesaggi e città, di piazze e di edifici, di monti e di marine che furono teatro di avvenimenti e di eroismi”, da pubblicarsi in fascicoli che avrebbero dovuto costituire “il Museo fotografico di ogni scuola d’Italia”[20]; un’iniziativa che risentiva del dibattito ormai pluridecennale che accanto allo sviluppo del pittorialismo, e quasi in reazione a questo, aveva portato anche in Italia alla nascita di raccolte, archivi e musei documentari, accompagnati da un acceso dibattito metodologico e dalle prime acquisizioni di fondi storici, considerati però esclusivamente per il loro valore referenziale[21].
Fino al primo dopoguerra la cultura fotografica italiana era tutta rivolta alla contemporaneità e i pochi testi ‘storici’ pubblicati nel più importante periodico italiano dell’epoca, “La Fotografia Artistica”, “seguivano uno stesso filo conduttore. Il ritrovamento di un’idea di tradizione nella lettura evoluzionistica delle vicende fotografiche [che] si ancora saldamente al presente, fornendo certezze sugli aspetti tecnici come valori fondativi per un conseguente sviluppo del ‘sentimento estetico’ ” [22]; un’intenzione non così lontana da quella espressa da G. V. Sella esattamente mezzo secolo prima, che si tradusse qui in una serie di articoli intitolati alla Histoire de la Photographie curati dal direttore Annibale Cominetti e tratti da periodici inglesi[23], e in un più lungo saggio pubblicato in tre parti a firma di Fanny Dalmazzo[24]. Per disporre di un primo accenno di disegno storico critico relativo alle immagini si dovette attendere il resoconto della grande Esposizione di Dresda del 1909 pubblicato da Cesare Schiaparelli[25], nel quale il noto fotografo tracciava in apertura una sintesi dell’evoluzione artistica del mezzo a partire Hill e Adamson, recentemente riscoperti[26], e le testimonianze a stampa relative al primo periodo di quella storia presentate alla Mostra Retrospettiva di Fotografia che si tenne nell’ambito della Esposizione Internazionale di Torino del 1911[27], alcune delle quali appartenevano ad Adriano Tournon[28], ingegnere e autocromista en amateur, primo sintomo di un interesse collezionistico per i cimeli fotografici. Un’analoga retrospettiva si sarebbe tenuta ancora a Torino nel 1923, nell’ambito dell’importante Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia: L’Arte nella Fotografia, promossa dalla locale Camera di Commercio per onorare – con notevole ritardo – il terzo centenario della morte di Giovanni Battista Della Porta (1535-1615), una delle glorie italiche che ben poteva essere fatta propria dalla macchina propagandistica del fascismo nascente. Secondo Pia, che era stato presidente della Società Fotografica Subalpina, ed Annibale Cominetti furono chiamati a far parte della commissione di quella mostra, presieduta da Carlo Baravalle, che con gli amici Stefano Bricarelli e Achille Bologna aveva da poco costituito il Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e che proprio in quell’anno aveva acquisito la testata milanese “Il Corriere fotografico”, trasferendola a Torino. Anche in Italia si sentiva la necessità di riferirsi alla storia (e quindi di conoscerla) quale elemento fondamentale del processo di legittimazione culturale ricercato dalla ‘nuova fotografia’ (tra pittorialismo e modernismo), così come era già accaduto in altri paesi europei e negli USA.
Diversamente da quanto accadeva in altri paesi, dalla Francia agli Stati Uniti, la cultura italiana non si misurò con la redazione di una storia generale né nazionale ed oltre le poche opere e iniziative sopra citate, le prime prove di storiografia fotografica propriamente intesa erano rappresentate dagli scritti oggi quasi dimenticati di un fotografo come Enrico Unterveger, figlio di Giovanni Battista, che nel 1922 pubblicava sul periodico torinese “Vita fotografica italiana” un suo Contributo alla storia della fotografia in Italia con speciale riguardo al Trentino e all’ex Regno Lombardo -Veneto[29] mentre altre andavano cercate in ambiti contigui ed estremamente specialistici, come il contributo di Giuseppe Albertotti Disegni fotogenici comunicati da Fox Talbot a G.B. Amici, presentato nel 1925[30]. Ben più noti e ampiamente citati dalla successiva storiografia sono invece gli interventi che Lamberto Vitali pubblicò dal 1935 su “Emporium”, la rivista di cui fu direttore per un triennio sino al 1938[31], anno in cui fu costretto a lasciare a causa delle leggi razziali emanate dal governo fascista. Al primo articolo del 1935 dedicato a Federico Faruffini fotografo[32], fecero seguito l’anno successivo Ritorno all’antica fotografia e Un primitivo della fotografia: David Octavius Hill[33], testi da intendersi in quel contesto internazionale caratterizzato da una nuova attenzione per la storia del mezzo che segnò gli anni in prossimità del centenario dell’invenzione. Nella loro diversità quegli scritti suggerivano una prima distinzione tipologica: dalle ricerche d’archivo alle indagini a scala locale e territoriale, alla riflessione fenomenologica e alla monografia.
In quello dedicato alla “antica fotografia” i soli autori italiani (o attivi in Italia) citati da Vitali erano Bettini, Marzocchini, Alinari, Bernoud e Metzger, mentre la presentazione critica della figura di D.O. Hill derivava dalla recente fortuna internazionale di questo autore e dalla “fondamentale monografia” di Heinrich Schwarz[34], citata col dovuto rilievo insieme a numerosi altri titoli nella puntuale nota bibliografica che chiudeva l’articolo; testimonianza di un approccio metodologicamente fondato e corretto ma anche di quella sua raffinata passione collezionistica che già si era espressa in altri ambiti[35]. Hill apparteneva a quel ristretto gruppo di nomi entrati ormai a far parte di un primo empireo della storia europea della fotografia; riferimenti forse non consueti ma dati almeno per noti a un pubblico di cultura medio alta sebbene non settoriale: magari lettori come quelli di “Domus”, la rivista di Gio Ponti in cui il direttore aveva pubblicato il proprio Discorso sull’arte fotografica[36] e con la quale Vitali collaborava dal 1928. Riferimenti e attenzioni che era possibile ritrovare in altri periodici milanesi come “Fotografia” e “Natura” o nelle recensioni di Edoardo Persico su “La Casa Bella”, non senza puntuali letture critiche[37]. Era la stessa attenzione testimoniata dalle pagine scritte da Raffaele Carrieri per la “La Lettura”, la rivista mensile del “Corriere della Sera”, dedicate ai ritratti in carte-de visite, dove si trattava di quello stesso “ritorno” studiato da Vitali ma con mano più lieve: “Risorgono tutti gli album di famiglia. Prima gli antiquari compravano pendoli e porcellane, ora fotografie: Niépce, Daguerre e Talbot sono diventati già dei primitivi [con evidente richiamo, quasi ironico, alle categorie utilizzate da Vitali]. Davy è una specie di Giotto della fotografia. Si stabiliscono date, si identificano i maestri ignoti. La fotografia fa parte delle collezioni. In America, le fotografie delle guerre d’indipendenza costano un patrimonio. Non parliamo di un originale di David Octavius Hill, o di un Nadar firmato.”[38]
In una lettera a Zannier datata 15 dicembre 1988 e pubblicata nel n.11 di “Fotologia” (1989), non a caso concepito proprio in quell’anno In onore di Lamberto Vitali[39], il grande collezionista citava un poco disordinatamente la sua produzione bibliografica tra fotografia, incisione e pittura; in modo non esaustivo, quasi distratto però, fornendo (per tono e contenuto) una bella testimonianza, un interessante indizio della sua personalità come della sua figura di studioso, non separabile se non strumentalmente da quella di collezionista. Quale primo titolo poneva il Ritorno all’antica fotografia e non il testo su Federico Faruffini fotografo, sebbene fosse dell’anno precedente e affrontasse una questione difficile e nuova come quella del rapporto degli artisti del XIX secolo con la fotografia[40], alla quale avrebbe dedicato uno specifico contributo solo vent’anni più tardi[41]: quasi una noncuranza o forse il segno di una predilezione, di una tenuta nel tempo del testo più programmatico e ‘militante; più strettamente legato al modello interpretativo e storiografico assegnato alle distinte genealogie del dagherrotipo e del calotipo dai curatori di Film und Foto, l’importante rassegna di Stoccarda del 1929. L’idea di fotografia di Vitali si rivelava nell’apprezzamento per quegli autori che mostravano “espressioni appropriate al nuovo mezzo”, facendo emergere così la sua avversione radicale e radicata – tutta modernista, della Milano modernista direi – ai valori pittorici e ingenuamente simbolisti del tardo pittorialismo[42], assimilato impropriamente alla pittura di genere, ciò che ci aiuta a comprendere come fosse il tema del ‘vero’ e della sua rappresentazione a costituire il centro della sua valutazione; a giustificare una considerazione per la fotografia che fu per lungo tempo prevalentemente di tipo referenziale, documentario [43]. Fotografie come testimonianze disponibili a una lettura quasi archeologica, modernamente fondata sul loro specifico; ciò che più caratterizzava quei suoi contributi era però il loro impianto storico critico e il presupposto collezionistico inteso in termini di necessità di studio e di tutela di un patrimonio allora come ora sottoposto ai rischi della dispersione.
Il Ritorno cui si riferiva il titolo del 1936 registrava in realtà il fenomeno inedito dell’interesse – poi confermato da Carrieri – per le fotografie “antiche”, tanto che ancora poteva “sembrare a tutta prima cosa stranissima” il fatto che queste potessero essere “oggetto proprio di studi, di ricerche, perfino di analisi critiche”. Le ragioni che muovevano Vitali erano certamente quelle di soddisfare il “desiderio di fissare la fisionomia di una società scomparsa” ma accanto a queste emergeva, del tutto nuova, la “ragione estetica, perché veramente la fotografia fu un mezzo d’espressione per i primi maestri.” I principali riferimenti, piuttosto scontati già all’epoca, erano a Hill, Le Secq e Nadar, riuniti impropriamente nella definizione di fotografi “dei primi tempi”, quelli che con fortunata formula, poi ripresa anche da Negro, apparivano segnati da “castità di mestiere cui naturalmente s’associa l’affettuosa, profumata castità di visione”. Era stato proprio Nadar a parlare a sua volta di “primitifs de la photographie”[44], ma nella formulazione di Vitali emergeva una sensibilità prossima se non debitrice del venturiano “gusto dei primitivi”, che aveva preceduto le sue riflessioni di giusto un decennio[45], e ancora più di una eco di quella “innocence of the eye” di cui aveva parlato Ruskin[46], qui ben distinta dalla più modesta “onestà di mestiere”[47] riconosciuta ai “regolari” italiani; ulteriore e altrettanto fortunata categorizzazione, tutta compresa nell’orizzonte temporale del 1875, data che per Vitali chiudeva il “periodo aureo” della fotografia[48]. La novità di quel breve testo risiedeva, per l’Italia, proprio nella proposta di un inedito oggetto di indagine, l’antica fotografia per l’appunto, rivolta ad un pubblico probabilmente non “del tutto ignaro di vicende, termini e nomi finora sconosciuti”[49], ma certo poco avvezzo a considerare criticamente quelle immagini. Più che un abbozzo storico, l’articolo costituiva l’aggiornatissimo riconoscimento di un fenomeno culturale e storiografico (“la decisa prosperità di scritti dedicati ad un argomento in apparenza tanto profano”) letto attraverso il filtro delle posizioni critiche espresse dalla cultura modernista internazionale. Ciò risultava evidente anche nella bella chiusa in cui dichiarava che “la rinascita della fotografia poteva avvenire soltanto con un capovolgimento completo dei termini, [con] la ricerca di effetti quali soltanto l’obiettivo può dare. Ed appunto la scoperta delle facoltà visive della lente, diverse affatto da quelle dell’occhio umano, ha determinato, con l’invenzione di un nuovo mondo, la ripresa dell’ultimo tempo: ma questo è un altro discorso.”[50]
In Italia, a considerare la letteratura nota, non pare che la ricorrenza del centenario dell’invenzione avesse sollecitato studi specifici ma solo una serie di richiami giornalistici, tra i quali merita segnalare quelli precoci di chi (tra i più attenti e informati) individuava in Niépce l’origine del percorso definitivo, anticipando così le celebrazioni di quasi un ventennio. Accogliendo le tesi esposte da Georges Potonnièe sulle pagine del bollettino della Société Française de Photographie [51], “Il Corriere Fotografico” e “Il Fotografo” ospitarono nel 1922 due articoli dedicati a Niépce[52], uno dei quali a firma di Enrico Unterveger, mentre nel maggio del 1927 un altro illustre figlio di fotografo, e importante fotografo a sua volta come Carlo Wulz curava per il Civico Museo di Storia ed Arte una Mostra temporanea di fotografie di Trieste scomparsa, composta di circa trecento stampe realizzate dal padre Giuseppe e donate per l’occasione al Museo; antecedente tanto significativo quanto poco noto di iniziative culturali che prefiguravano la nascita delle fototeche civiche. In quello stesso anno si stavano avviando i lavori per la realizzazione della Prima Esposizione nazionale di Storia della scienza, prevista a Firenze nel 1928 ma inaugurata solo l’8 maggio 1929, destinata a dimostrare “come in quasi tutti i fondamentali rami dello scibile gli italiani siano stati grandi e geniali precursori.” A quello scopo il Commissario per la sezione fotografica Luigi Castellani diramò un invito, diffuso dalle riviste di settore, affinché chiunque possedesse “un qualche cimelio o altro materiale di importanza storica, inerente a lavori di italiani nel campo fotografico o fotomeccanico” lo volesse mettere a disposizione, e inoltre “se può darci informazioni su lavori, invenzioni, applicazioni di una certa importanza inerenti alla fotografia o alle sue applicazioni, eseguiti da Italiani, le saremmo gratissimi e di questa sua collaborazione terremo il massimo conto.”[53] I risultati furono inferiori alle aspettative e per quanto risulta[54] la mostra ospitò sì molte fotografie documentarie ma quasi nessun cimelio, se si esclude un “daguerrotipo (1856) – il primo eseguito a scopo scientifico” del Museo di Antropologia di Firenze, il fototeodolite progettato da Pio Paganini nel 1878 esposto nel padiglione dell’Istituto Geografico Militare e una “Mostra Alinari” con “fotografie di scienziati o di argomento scientifico, insieme ad altre di soggetto comune.”[55]
Negli anni successivi fu soprattutto l’edizione italiana di “Galleria” ad ospitare contributi storiografici di un certo rilievo, a partire da quello di Heinrich Schwarz sulla storia della camera oscura, pubblicato nel febbraio del 1933[56], che si proponeva anche come un erudito saggio di storiografia (quasi fuori luogo in quel periodico, che ne offriva una traduzione incerta) intorno alla questione della “spiritualità della scoperta” – e non dell’invenzione quindi – provandosi a definire come si fosse manifestato nei secoli quello che chiamava “il desiderio di fotografare”; prima elaborazione di quella prospettiva storico critica che avrebbe poi sviluppato compiutamente nei suoi più importanti saggi successivi. A partire dal marzo 1938 lo stesso periodico avviava la pubblicazione di una serie di testi storici con estratti dal Trattato pratico di fotografia di Marc Antoine Gaudin, pubblicato a Torino da Jest nel 1845[57], mentre nel marzo 1939 comparve una anonima e breve rassegna dei Punti capitali della Storia della Fotografia, seguita nei mesi successivi da una serie di contributi “alla storia della fotografia” firmati dal direttore Luigi Andreis e da alcune brevi schede monografiche (Hill, Schulze ma anche Misonne), comprese in un inserto staccabile destinato a formare l’ “Enciclopedia Galleria”. Anticipando di pochi mesi l’ufficialità della ricorrenza, anche l’altro periodico torinese “Il Corriere Fotografico” celebrava il centenario con un intervento di Federico Ferrero (1938) che conteneva una interessante presa di posizione storiografica: “per me come per altri storici della Fotografia, il 1839 rappresenta il vero anno d’inizio, l’inizio ufficiale per così dire [poiché] in quel giorno [7 gennaio] per la prima volta al mondo si parla pubblicamente di Fotografia: da quel giorno comincia veramente la storia della Fotografia.”[58] Dopo aver asserito – poco coerentemente – che “il vero fondatore del moderno processo fotografico non è Daguerre (…) ma Fox Talbot” il pubblicista ricordava “la fulminea diffusione” del fenomeno a scala mondiale, lamentando infine che nessuno in Italia avesse pensato a celebrare degnamente il centenario. Al redattore del “Corriere” rispose Enrico Unterveger[59] con una lunga lettera nella quale confermava che “pochi studi storico-fotografici se ne vedono pubblicati in Italia, ove manca anche una pubblicazione di valore sulla storia della fotografia”; aggiungeva poi alcune precisazioni di non secondo rilievo tratte da fonti in lingua tedesca, evidentemente sconosciute al redattore torinese che aveva infarcito il proprio testo di gravi imprecisioni, e chiudeva proponendo che proprio “a Torino ove più di tutte in Italia si tiene in debito conto l’arte fotografica, si potrebbe iniziare qualcosa.” Fu ancora Unterveger (1939a), il primo e misconosciuto storico della fotografia in Italia, a fornire ulteriori contributi e approfondimenti, come quello dedicato a L’invenzione della fotografia nella stampa trentina del tempo, con riproduzioni in facsimile delle prime notizie sulla dagherrotipia pubblicate nei periodici della regione[60], da porre in relazione con la progettata “Mostra retrospettiva” che si sarebbe inaugurata a Trento[61]. Qui dopo “una opportuna illustrazione del contributo dato dall’ingegno italiano alla grande invenzione (Leonardo, Della Porta, Beccaria) vennero esposti “pregevoli esempi (…) di procedimenti di fotografia tramontati e sorpassati”, dal collodio su vetro e su carta all’albumina, dai pigmenti al platino; alcuni esempi di tecniche fotomeccaniche (woodburytipia, fotolitografia, zincotipia), “apparati ed apparecchi dei già lontani tempi” e una sezione bibliografica che comprendeva “il primo manuale pubblicato in Italia (1856)”, cioè, verosimilmente il Plico del fotografo di G.V. Sella, e uno dei “primi periodici (1870)”, forse quella “Rivista fotografica universale” di Antonio Montagna a cui aveva collaborato anche il padre di Enrico, Giovanni Battista. Infine “dieci pubblicazioni di Enrico Unterveger su argomenti storico-fotografici.” Fu quella la sola iniziativa espositiva legata al centenario[62]; un evento a cui quasi non fecero cenno le principali testate di settore[63], con l’esclusione de “La Gazzetta della Fotografia” di Palermo sulla quale il direttore Arturo Valle scrisse un lungo articolo[64] nel quale accentuava fascisticamente il nazionalismo proprio di molta storiografia fotografica coeva. Considerando che “come tutte le grandi invenzioni anche quella della fotografia non avrebbe potuto vedere la luce senza che precedenti invenzioni e ricerche gliene avessero dato la possibilità” e inoltre essendo “indubitato che la invenzione della camera oscura è prodotto del genio italiano (…) in ultima analisi questo basta”, per rivendicare un ruolo determinante di Della Porta[65] e quindi dell’Italia in quel processo. A Torino fu l’edizione serale de “La Stampa” [66] a ricordare La prima fotografia eseguita a Torino, riportando ampi estratti dello storico articolo del direttore della “Gazzetta Piemontese” Felice Romani[67], pubblicato il 12 ottobre 1839, ma confondendo in parte i termini a proposito della corretta sequenza delle due riprese. Al di là di queste imprecisioni l’iniziativa meritava di essere segnalata anche per la scelta di celebrare il centenario ripubblicando ampi stralci di una fonte cronachistica importante, con ciò celebrando anche l’autorevolezza e la storia dello stesso periodico, essendo la “Gazzetta Piemontese” la testata da cui derivò “La Stampa” nel 1894. Di respiro internazionale e culturalmente complesso fu invece il contributo di Giuseppe Maria Lo Duca pubblicato in due parti su “Emporium”[68]; nella prima offriva un sintetico excursus con corredo di iconografia storica, tra camera obscura e lanterne magiche, individuando “nell’evoluzione dei mezzi tecnici (…) il rapporto che conduce alla nascita dell’arte fotografica”, ma soprattutto proponendo confronti iconografici per mostrare come esistesse uno “stile comune nella pittura di Ingres e nella fotografia di Nadar e dell’Anonimo” autore di uno dei ritratti proposti. Mostrando tutta l’aggiornata competenza che gli derivava dalla sua recente emigrazione in Francia Lo Duca indicava i “nomi più importanti di questa manifestazione estetica”: da Nadar a Pierson sino a Lotar, Tabard, Kérstez (di cui pubblicava una distorsione, messa in pagina accanto al notissimo ritratto della Contessa di Castiglione), Bragaglia; Bandy, Cahun, Kesting e Man Ray, all’epoca sostanzialmente sconosciuti in Italia, e chiudeva con la trascrizione di una sua (presunta) intervista a Paul Valéry fatta “in occasione del centenario di questa scoperta”[69], che si rivelava però una rielaborazione dell’importante discorso che il poeta aveva tenuto alla Sorbona il 7 gennaio 1939 su richiesta della Société Française de Photographie et de cinématographie[70].
Questa sostanziale assenza di manifestazioni di rilievo nazionale, contrariamente a quanto avvenne in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, consente ora di comprendere meglio (pur senza chiamare direttamente in causa l’estetica crociana, che pure vi ebbe un ruolo) le ragioni per cui le fotografie non fossero comprese tra le “cose d’interesse artistico o storico” tutelate dalla legge 1089 del 1939, sebbene un Regio Decreto dl 1927 avesse almeno previsto la possibilità che fossero descritte “in appositi cataloghi (…) sotto uno stesso numero (…) le fotografie, anche non riunite in volume, se costituiscono o possono costituire una serie organica sotto una stessa denominazione.”[71] Troppo lontana, addirittura estranea alla cultura accademica e della tutela l’idea che questa tipologia di immagini, che quegli oggetti potessero avere un interesse più che strumentale. Una concezione che pare aver influito nella lunga durata anche sulla stessa nostra genealogia storiografica, sulla costruzione di una tradizione che nell’indicare le proprie origini ha celebrato i contributi di uno studioso come Vitali (che nelle proprie pubblicazioni avrebbe privilegiato le funzioni documentarie e le produzioni “irregolari”, tra arte e cronaca) relegando nell’oblio quelli di un professionista come Unterveger, più attento alla storia della pratica fotografica.
Primo frutto maturo ed eccentrico di una concezione della storia della fotografia come storia di immagini fu da noi il prodotto di una aggiornatissima cultura visiva di livello internazionale con forti influenze francesi: Il messaggio dalla camera oscura, scritto da Carlo Mollino nel 1943 ma pubblicato solo nel dopoguerra[72], costituì la prima vera sintesi prodotta nel nostro paese, di impegno e prospettiva non commensurabili con le produzioni antecedenti sebbene escludesse ogni riferimento alle vicende italiane del XIX secolo. Come già in Film und Foto[73] il percorso tracciato era palesemente finalistico, orientato a collocare in una precisa genealogia quelle tendenze espressive a cui Mollino sentiva orgogliosamente di appartenere, come dimostrava inequivocabilmente la decisione di pubblicare ben sedici delle proprie immagini nello strabiliante repertorio iconografico che sostanziava il volume. La prima parte, che si apriva con “la più antica fotografia del mondo (Niépce 1822)” non essendo ancora nota la Veduta di Gras[74], era dedicata a una “Storia breve del gusto nella fotografia”, avendo come prima tavola fuori testo un ritratto femminile al dagherrotipo, splendidamente stampato su carta argentata da Vincenzo Bona, che era stato lo stampatore de “La Fotografia Artistica”, a conferma di una cura per la resa visuale e materiale delle immagini proposte che derivava da una chiara preoccupazione filologica; qualcosa a cui l’editoria fotografica non solo italiana si sarebbe dedicata solo alcuni decenni più tardi.
“Subito la fotografia cammina in parallelo con le componenti del gusto del tempo”, dichiarava Mollino analogamente a Lo Duca, definendo quale fosse la matrice della sua interpretazione storico critica, fondata sull’analisi stringente dei rapporti di quella con la cultura visiva e in particolare con la pittura, evidenziandone i reciproci debiti specialmente nel ricco apparato illustrativo. Coerentemente alle proprie posizioni estetiche influenzate dalle avanguardie e specialmente dal surrealismo[75], anche Mollino (come sarà per Gernsheim e Vitali) condannava come decadente la “fotografia d’arte”, quella in cui “il fotografo (…) si butta alla razionale simulazione del quadro e della pittura”[76], sebbene poi pubblicasse alcuni tardi bromolii di Peretti Griva, la cui presenza giustificava essendo quello “tra i pochissimi dove l’atmosfera avvolgente di questa pericolosa tecnica fotografico – pittorica, qui non gratuita, giunge all’evocazione di un autentico mondo di poesia.”
Fortemente legato a Vitali ma meno interessato alle questioni critiche era Silvio Negro, che nel 1942 pubblicava uno studio dedicato a I primi fotografi romani[77] poi posto in appendice a Seconda Roma 1850 – 1870[78] arricchito da “79 illustrazioni da documenti fotografici dell’epoca”, scelti con la collaborazione di Giovanni Scheiwiller e Lamberto Vitali[79], ma registrati senza alcuna datazione e con rare attribuzioni all’indice. La prima ricostruzione delle vicende romane[80], e la prima italiana di tale ampiezza, prendeva avvio dalla nota di Giuseppe Gioacchino Belli nel suo Zibaldone[81] e per individuare i nomi dei primi dagherrotipisti ricorreva a fonti quali i manifesti e i fogli pubblicitari oltre che a quanto veniva esposto nelle grandi mostre internazionali, come indicava il riferimento a due dagherrotipi anonimi, “rappresentanti rispettivamente il palazzo Vaticano e la fontana di Trevi”, e ad un calotipo del Colosseo erroneamente attribuito a Prevost[82], presentati “in una mostra di incunaboli della fotografia ordinata a Nuova York alcuni anni fa.”[83] La periodizzazione adottata, strettamente connessa allo sviluppo tecnologico come già in Vitali, portava con sé un giudizio di valore degli esiti che le era inversamente proporzionale: “i ritratti della loro epoca hanno ai nostri occhi una pulitezza e un potere evocativo che si perdono del tutto dopo il ’75. In questo tempo ci fu realmente uno scadimento, ed esso derivò proprio dal progresso della tecnica.” Sebbene richiamasse per primo l’attenzione per il lavoro dei fotografi che lavoravano per i pittori, per i quali “la necessità di tenersi al vero ha portato ad effetti sobri e consistenti”[84], in quel testo Negro non riservava neppure una fuggevole citazione a Caneva, che forse gli era ancora sconosciuto ma a cui avrebbe dedicato un breve saggio monografico l’anno successivo[85], né ad altri componenti di quella che sarebbe poi stata conosciuta come Scuola fotografica romana[86], facendo coincidere la nascita del professionismo in quella città con l’età del collodio e in particolare con Antonio d’Alessandri, titolare di uno specifico profilo biografico, mentre le notizie sui fotografi attivi nel campo della documentazione del patrimonio artistico (tra i quali segnalava gli Anderson) erano tratte essenzialmente dalle guide e dall’importante Elenco (…) degli oggetti spediti dal Governo pontificio all’Esposizione di Londra del 1862.
All’iniziativa di Carlo Pietrangeli ma alla competenza di Negro “che ne fu l’anima”, si doveva la successiva Mostra della fotografia a Roma dal 1840 al 1915 [87], allestita nel 1953 “con criteri topografici e romanistici”[88] un anno dopo il trasferimento del Museo di Roma nell’attuale sede di palazzo Braschi; prima organica occasione espositiva italiana fondata sull’uso della fotografia storica quale “fonte di informazione storica e di documentazione topografica e artistica.”[89] A quello scopo venne imbastita un’impresa di enormi dimensioni: 3689 pezzi esposti, di cui soltanto cinquantaquattro riprodotti in catalogo, ordinati per sezioni tematiche: Storia, Arti-Lettere-Scienze, Amministrazione Civile, Topografia, Usi e costumi, Corte e Società, Moda, Vaticano, tra le quali – come già in Seconda Roma – anche una specificamente dedicata alla Storia della fotografia a Roma[90]. Si trattava infatti di documentare le trasformazioni “che subisce ogni giorno la nostra città e la scomparsa di ambienti, di usi, di costumi e di modi di vita che si verifica continuamente sotto i nostri occhi e che ancor più avvenne nei tempi passati e specialmente nel periodo della trasformazione urbanistica e della febbre edilizia tra il 1870 e il 1885.” Roma nella fotografia quindi, più che la fotografia a Roma, con uno scarto allora forse non avvertibile e un atteggiamento analogo a quello che sarà del Vitali studioso delle immagini risorgimentali, nonostante il testo di Negro in catalogo[91], che costituiva sin dal titolo (I primi fotografi romani) una ripresa esplicita di quanto da lui pubblicato alcuni anni prima, con poche ma significative aggiunte. Tra queste la più rilevante era rappresentata dalla ‘scoperta’ delle prime opere di Caneva ( “il fotografo locale di cui si è trovata finora la più antica documentazione datata o databile […] un pittore”), però non ancora posta in relazione con quello sviluppo del genere “dei modelli vivi ed elementi di paesaggio da servire al pittore nello studio” già precocemente individuato come proprio della produzione romana nel saggio precedente. Il regesto delle opere in mostra indicava il titolo, cioè l’identificazione del soggetto, qualche volta l’autore e sempre la provenienza (alcuni enti pubblici e molte collezioni private), mentre solo raramente era riportata l’indicazione della tecnica e mai quella delle misure. Pur con questi che oggi riconosciamo come rilevanti limiti metodologici, certamente connessi anche all’intenzione – propria di Negro e dei suoi collaboratori – di fare storia con la fotografia piuttosto che una storia della stessa, la mostra e il catalogo costituivano la prima organica occasione di misurarsi con la fotografia considerandola almeno un prezioso documento storico. Nella misura in cui si interessavano anche agli autori di quei documenti e alle loro condizioni di lavoro essa rappresentava però anche un momento determinante nella formazione della storiografia fotografica italiana, soprattutto considerando che l’imponente insieme di opere esposte dimostrava che “l’Ottocento ha, fra i moltissimi suoi meriti, anche quello di aver creato un’estetica fotografica, una sua particolare ‘logica’ delle immagini meccanicamente riprodotte”, come rilevava il notista de “La Stampa”[92].
Il desiderio di illustrare più compiutamente le immagini utilizzate in quella occasione portò alla pubblicazione nel febbraio 1956 di Album romano[93], che di quella mostra fu il “catalogo postumo”. Il testo di Negro costituiva una ulteriore rielaborazione di quanto pubblicato nelle due occasioni precedenti; testimonianza di un inesauribile work in progress che ne riconfermava impianto e obiettivi, mirati prevalentemente alla ricostruzione per immagini del quadro storico (ciò che portava anche ad arbitrari tagli delle riprese originali, come nel caso di Primoli) ma con precisazioni e notazioni critiche che risultano oggi, e per ragioni diverse, sorprendenti. Mi riferisco al giudizio sprezzante riservato a “Jacopo Caneva (…) questo pittore (…) che ha fornito risultati senza rilievo anche colla camera oscura”, a cui preferiva gli anonimi calotipisti che “per nobiltà di taglio e capacità evocativa dell’ambiente si lasciano indietro di molte lunghezze il paesaggista veneto”[94] o – per converso – al precoce riconoscimento dell’opera di Giuseppe Primoli, che per lo studioso costituiva “la più vistosa eccezione [alla] scarsa vocazione locale per l’istantanea”, rendendolo “l’unico fotografo di alto livello che abbia mai avuto Roma”[95]. Un giudizio che appariva in lampante contraddizione con l’opinione, ribadita nelle stesse pagine, che “l’epoca dei mezzi e delle attrezzature rudimentali fosse anche l’epoca d’oro della camera oscura”; una valutazione critica che certo avrà pesato sulla successiva scelta di Vitali di accogliere il suggerimento di Giulio Bollati per aprire proprio con il volume dedicato a Primoli la sua collaborazione su temi fotografici con Einaudi, maturata negli stessi mesi in cui Lucilla Negro stava tentando di portare a termine il lavoro di riordino dell’archivio della Fondazione Primoli[96], interrotto nel 1959 dalla morte del marito. La pubblicazione dell’Album riscosse notevole successo così sui quotidiani come sulla stampa specializzata e il “Corriere Fotografico” gli dedicò un’ampia recensione, riproducendo ben otto fotografie, la metà essendo di Giuseppe Primoli, e segnalando come “il pittoresco quadro della vita di Roma”[97] che ne risultava oltre a costituire una “eloquente documentazione dei fasti e più ancora dei nefasti della trasformazione urbanistica subìta dalla Città Eterna dopo il 1870” fosse integrato dalle precise indicazioni descrittive a proposito di ciascuna delle immagini pubblicate[98]. Era anche quello il segno della diffusione, per quanto embrionale, di un fenomeno culturale che all’interesse per la fotografia storica e per la storia della fotografia come parte della storia di una città affiancava una consapevolezza nuova, che ne riconosceva il valore autonomo di formazione culturale, tanto che la necessità di una precisa coscienza e conoscenza storica dei fatti e delle culture fotografiche era in quegli anni fortemente sentita anche dai fotografi più attenti: si pensi al programma di iniziative del Centro per la cultura nella fotografia di Fermo, voluto da Luigi Crocenzi nel 1954 ma attivo dal 1956, che tra le “sezioni di studio” comprendeva “Storia della fotografia” e “studi storici”, ma anche “Letteratura e fotografia”, “Cinema e fotografia” e “Fotografia e arti figurative”[99]; il tutto destinato a favorire lo “studio approfondito della storia delle idee e delle poetiche che hanno condizionato la creazione di opere che sarebbe opportuno studiare per comprenderne i valori e per acquisirle come ‘classici’ della fotografia.”[100]
Il ruolo pionieristico svolto da Vitali[101] per il riconoscimento e la valorizzazione del patrimonio fotografico storico italiano divenne ancor più rilevante quando, nell’ambito della XI Triennale di Milano del 1957, promosse la mostra dedicata a Un secolo di fotografia dalla Collezione Gernsheim[102] a soli due anni dalla pubblicazione di The History of Photography[103], anche con la speranza di poter creare in città un Museo nazionale della fotografia presso la stessa sede[104]. Nella Prefazione al catalogo i coniugi Gernsheim riconoscevano criticamente un nesso significativo tra il nostro neorealismo e la storia della fotografia, ricordando come “negli ultimi anni la fotografia e la cinematografia italiane hanno riportato il mondo a una interpretazione realistica della vita, lontana dalle romanticherie e dalla finzione. In ciò può essere visto un ritorno alla documentazione onesta e immediata della metà dell’Ottocento che ebbe una breve rinascita nei reportages [sic] di alcuni fotografi tedeschi, francesi ed americani fra il 1920 e il 1940”[105]. Si auguravano perciò che l’iniziativa potesse servire anche a promuovere la conoscenza della storia della fotografia italiana, di cui citavano quale unico antecedente di rilievo la mostra romana del 1953[106], esponendo comunque alcuni esemplari di autori attivi in Italia nel corso del XIX secolo tratti dalla loro collezione: James Anderson, Luigi Bardi (ma Leopoldo Alinari), Robert Macpherson[107], Antonio Perini, Carlo Ponti e un “Ignoto” napoletano attivo intorno al 1865, accanto a alcune tavole della monumentale opera dedicata alla Basilica di San Marco dall’editore Ferdinando Ongania[108].
Accanto a questi comparivano gli autori compresi nell’inedita sezione dedicata alla Antica fotografia italiana curata da Vitali, “precoce conoscitore del patrimonio culturale della fotografia”[109] nel nostro paese, formata da circa ottanta fototipi provenienti da musei e collezioni private (Marino Parenti e Silvio Negro tra gli altri). L’occasione e il momento consentirono di delineare in prima approssimazione le caratteristiche di una storia della fotografia liberata da ogni vincolo referenziale, fondata sulla “minuziosa competenza e il rigore critico” del curatore quanto sulla consapevolezza che “la storia della fotografia italiana ancora deve essere scritta, né essa potrà esserlo se non quando saranno compiute quelle ricerche, che il passare del tempo e la dispersione e la distruzione di un materiale fragile e apparentemente di poco conto rendono purtroppo sempre più difficili.”[110] Nonostante questi dichiarati limiti conoscitivi, Vitali ritenne di poter esprimere un giudizio severo a proposito della vicenda italiana, che “non ebbe operatori dalla personalità, per esempio, dello stesso Hill o di Nadar (…) anche se in Italia si ripeté la vicenda di pittori scoraggiati (il Faruffini) o falliti (il Caneva), che nella fotografia cercarono una fonte di guadagno più sicuro, bisogna riconoscere che si trattò essenzialmente di un artigianato, che tuttavia diede frutti assai saporiti.” Il testo proseguiva specificando le motivazioni non tanto dell’iniziativa in sé (“doverosa appendice alla mostra della collezione Gernsheim”) quanto dell’impostazione e della selezione delle opere, certo condizionate dalle conoscenze e dalle disponibilità di collezioni pubbliche e private ma anche dalla capacità di individuare criticamente alcuni punti nodali di quella storia: “È naturale che in un Paese come il nostro, ricco di testimonianze preziose dell’antica arte, i professionisti (…) si dedicassero soprattutto, anche per ragioni di opportunità commerciale, alla documentazione di monumenti e opere d’arte [realizzando] serie notevolissime, oggi doppiamente preziose per le trasformazioni rabbiose subite dalle città italiane nel corso degli ultimi cent’anni. Naturalmente questa non fu la sola attività dei fotografi nostrani, non tutti professionisti (…) Accanto alla fotografia di paesaggi e di architetture, prosperò quella di ritratti, forse aiutata dagli entusiasmi per la riconquistata unità e per i suoi eroi (…). Ma accanto a vedute di città (…) si è voluto attirare l’attenzione su quelli che si possono definire gli incunaboli del reportage fotografico. In una civiltà come la nostra, nella quale l’elemento visivo acquista ogni giorno più peso, anche se a scapito di ben altri valori, simili esempi, oltre alla loro importanza di documenti storici, acquistano un particolare sapore. Ed il giorno, che speriamo non lontano, in cui la personalità dei fratelli conti Primoli, Giuseppe e Luigi, ma soprattutto di Giuseppe troverà il suo illustratore, ci si accorgerà quale ‘poeta della vita del popolo’ e quale ‘avvertitissimo fotografo giornalista’ – per ripetere le parole di Silvio Negro – fosse quest’ultimo: il fotografo forse più originale e più vivo che in cent’anni abbia dato l’Italia, certo quello più vicino al nostro gusto.” [111]
Un augurio che assume, letto oggi, il senso di un auspicio e di una promessa e che rendeva ragione delle molte immagini di tema risorgimentale e delle ricchissime sequenze (circa settanta fotografie) che componevano i reportage di Primoli, cui Vitali avrebbe dedicato la prima importante monografia nel 1968[112]. Questo brevissimo testo, che si riallacciava idealmente sin dal titolo (Antica fotografia italiana) al contributo del 1936, non poteva né voleva essere quella prima sintesi storiografica (delineata semmai dagli esemplari in mostra) di cui si sentiva ormai l’esigenza e che invece prese forma più articolata, per quanto ancora necessariamente sintetica nel testo redatto dallo stesso Vitali[113] per l’edizione italiana di The Picture History of Photography di Peter Pollack [114], tradotta tempestivamente da Garzanti sulla scia del successo della mostra alla XI Triennale. Una grande opera di oltre 600 pagine, dedicata “a Beaumont Newhall e Helmut Gernsheim”, strutturata in modo molto discutibile[115] sulla presentazione di un ristretto numero di “grandi autori” considerati quali figure emblematiche e qui arricchita di un capitolo dedicato alla Fotografia italiana dell’Ottocento, ricco di quarantasette riproduzioni in parte corrispondenti a quelle già utilizzate nel 1957. Qui lo studioso milanese ribadiva la propria interpretazione della “storia della fotografia italiana dell’Ottocento (…) soprattutto [come] la storia di un artigianato anziché quella di singoli artisti (…) Si aggiunga che in Italia il campo d’azione era in un certo senso già segnato e delimitato (…) così i fotografi ebbero la maggior fonte di guadagno proprio dai fogli di vedute e dalla riproduzione di opere d’arte (…) Ma si trattava di un compito che richiedeva una precisione obiettiva e scrupolosa senza permettere quasi un’interpretazione personale della realtà.” Nel tracciare il profilo delle vicende italiane inevitabili emergevano i debiti, e quindi i limiti di una ricostruzione ancora prevalentemente fondata su una rete di rapporti personali tra collezionisti[116], sebbene il quadro che ne risultava considerasse ormai – e per la prima volta – tutto il territorio nazionale: così tra le più antiche testimonianze comparivano Duroni e Stefano Stampa a Milano accanto ai dagherrotipi di Girault de Prangey (in collezione Gernsheim, di cui non pubblicava alcuna immagine); Giacomo Caneva, lo pseudo Augusto Agricola[117] e il vero Luigi Sacchi “un altro dei nomi che compare con onore fra i primitivi della fotografia italiana [che] ha lasciato una serie di grandissime fotografie (…) che sono fra le più belle che si conoscano, e perché è suo uno dei più vecchi nostri esempi di reportage fotografico, quello del ponte di Magenta dopo la battaglia del 1859.” Per i decenni successivi la ricostruzione storiografica adottava la ben nota distinzione tra “regolari”, tra i quali collocava i professionisti stranieri attivi in Italia, e “irregolari”, cioè “i dilettanti, non legati ad una formula destinata a rivelare presto la sua meccanica uniformità [che] ebbero certamente un’idea della fotografia che si avvicina alla nostra quando colsero aspetti apparentemente minori della vita del loro tempo con una schiettezza e talvolta un’audacia di visione e di tagli sconosciute ai professionisti.”[118] Che il giudizio fosse quello del critico piuttosto che dello storico lo rivelava proprio il richiamo a una sensibilità riconosciuta come moderna[119], quella stessa che gli faceva privilegiare la linea documentaristica del reportage che a partire da Lecchi conduceva a Giuseppe Primoli, “un uomo che nessuno aveva preso sul serio e che tutt’al più era tenuto con compatimento per maniaco”, a proposito del quale Vitali riproponeva letteralmente il giudizio encomiastico già espresso nel 1957. Quella posizione critica non poteva che implicare il rifiuto della “cosiddetta fotografia artistica”, tenuta ben distinta dalla fotografia dei pittori, a cui per primo aveva dedicato le sue cure col breve saggio su Faruffini del 1935 e qui ripresa a proposito dei rapporti tra De Gori e Signorini. L’avversione al pittorialismo e alla sua genealogia (analoga, credo, a quella per la pittura accademica e di storia), quella stessa che lo aveva portato nel 1957 a chiedere ai Gernsheim – senza successo – di escludere la Cameron ed Emerson dalla selezione per l’XI Triennale, individuava nei “nuovi procedimenti di stampa e [nella] pratica del detestabile ritocco” le caratteristiche principali di quella “disgraziata tendenza, che aveva tutti i favori dei sedicenti competenti, tanto la maniera dei ‘primitivi’ sembrava superata; gli esempi qui riprodotti del milanese Giovanni Battista Silo [ma H.P. Robinson[120]] e del piemontese Guido Rey (…) mostrano come ormai si fosse lontani dalle nettezze del dagherrotipo e dalle mediocri virtù della carte de visite, e quale eredità in questo clima provinciale si andasse preparando ai fotografi del secolo successivo.” Un giudizio che confermava la condivisione delle posizione critiche moderniste ancora a trent’anni di distanza[121], ma che contemporaneamente si distanziava e quasi si contrapponeva a quello di Heinrich Schwarz, a cui come sappiamo Vitali aveva guardato con grande interesse, che nella mostra da lui curata nel 1928, Die Kunst in der Photographie, aveva tracciato una genealogia che comprendeva anche Robinson. Oggi, quando a partire anche dal magistero di Vitali le nostre competenze storiche si sono fatte più ampie e strutturate, oltre a comprendere meglio quella sua avversione contestualizzandola, potremmo forse tornare a condividere in parte quel giudizio, ma per altre ragioni. Ora siamo consapevoli che la breve stagione pittorialista (e non la sua lunga, lentissima agonia salonistica e concorsuale, che ha avuto altre ragioni e significati) costituì uno snodo fondamentale per la formazione di una specifica cultura e produsse opere anche di altissimo livello, a cui corrispose però una sconfortante riflessione estetica, fatta di poco consapevole riproposizione di riflessioni, tesi e argomenti già ampiamente presenti negli anni intorno alla metà del XIX secolo e ormai consunti. Senza aggiungere elementi veramente significativi, senza sentirsi addosso l’alito incombente della tragedia e poi della modernità.
Per Vitali il 1960 fu l’anno de La fotografia e i pittori, pubblicato in estratto nella Biblioteca degli Eruditi e dei Bibliofili di Sansoni[122], anello cronologico di congiunzione tra quella Fotografia italiana dell’Ottocento compresa nella Storia di Pollack e la trilogia einaudiana. A partire dalle ricerche svolte per la pubblicazione del Diario di Delacroix[123], Vitali riprendeva – pur nella brevità del testo – alcuni temi già affrontati nel primo saggio dedicato a Faruffini per illustrare la funzione di ‘regista’ svolta da Telemaco Signorini nella realizzazione delle fotografie di Giulio de Gori e, più in generale, l’interesse anche strumentale dell’artista nei confronti della fotografia[124]. Nella lettura critica di questo breve intervento Paolo Costantini avrebbe poi riconosciuto il “ritorno a una questione grande, calata tutta nell’analisi del documento (…) Qui, ancora una volta, Vitali dimostra la volontà di rimanere vicino e aderente all’opera e insieme di muoversi con sicurezza in un terreno affatto indagato, intorno al quale non esisteva alcun comune consenso su cosa significasse fare critica, né su cosa si volesse prendere a oggetto di storia.”[125] Notazione affettuosa ma anche eccessivamente generosa, poiché se era vero che quei temi e quelle posizioni critiche erano ancora tabù per molta critica d’arte non solo nostrana, va ricordato che l’argomento era stato da poco affrontato da Jean Adhémar in una mostra da lui curata per il Cabinet des Estampes della Bibliothèque Nationale di Parigi, in cui veniva per la prima volta presentato “un insieme di opere molto varie, di epoche molto diverse che fa emergere i legami, le connessioni e le opposizioni fra la fotografia e la pittura”[126] e che sempre nel 1955 era comparso sulle pagine di “Fotografia” un articolo di Heinrich Schwarz[127] nel quale si sintetizzavano i contenuti di un suo importante intervento sui rapporti tra arte e fotografia[128]. Il tema sarebbe stato ripreso poco dopo in una lunga, importante intervista di Piero Racanicchi a Carlo Ludovico Ragghianti[129], al quale si doveva anche la riscoperta delle fotodinamiche dei Bragaglia, dovuta al fortuito ritrovamento nel catalogo della libreria antiquaria torinese Bottega d’Erasmo del numero de “La Fotografia Artistica” del maggio 1913 che ospitava l’articolo di Edoardo di Sambuy loro dedicato[130], da lui ampiamente chiosato nel proprio saggio per “sele arte”[131]; una fonte allora insostituibile essendo quasi “impossibile venire in possesso [dell’] introvabilissimo” volume originale di Fotodinamismo futurista prima della sua riedizione[132].
Il 1960 fu l’anno in cui venne dato alle stampe il primo tentativo italiano (quasi dimenticato) di redigere una ‘storia’ della fotografia di tipo manualistico o almeno, come modestamente ammetteva l’autore, un suo “facile compendio”. La Società Editrice Internazionale di Torino, di proprietà della Congregazione Salesiana, con forte indirizzo pedagogico e scolastico, pubblicava Il miracolo della fotografia di Giuseppe Enrie, fotografo ben noto almeno in Piemonte e più in generale in ambito religioso per essere stato il secondo in ordine di tempo a riprendere ufficialmente la Sindone in quello stesso 1931 in cui partecipava con alcune sue interessanti opere all’edizione torinese della Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista[133]. Quel testo, per il quale non ci sentiamo di condividere il giudizio di Zannier che lo ha considerato un “rigoroso manuale”[134], era caratterizzato da una narrazione prevalentemente tecnico aneddotica, forse redatta per larga parte ben prima della sua pubblicazione come sembrava suggerire la sistematica italianizzazione dei nomi stranieri e la mancata citazione di Pollack tra “gli autori stranieri che lo precedettero”, ai quali rendeva omaggio pur con qualche refuso e qualche dimenticanza: “al grande storico della fotografia Joseph Maria Eder, al Potonnié, a Raymond Lecuyer, a Erich Stenger, al Newhall, al Gernsheim ed agli italiani Gioppi, Bettini, Santoponte, Rodolfo Namias, Enrico Unterveger ed altri, dai cui scritti raccolsi come l’ape dai molti fiori.” Questi, di fatto, i soli nomi italiani citati nel compendio, che non comprendeva Vitali né Negro, mentre l’apparato illustrativo presentava opere di Alinari e di un buon numero di ritrattisti (Sorgato, Brogi, Schemboche, D’Alessandri, Bernieri, Bolletti e Verri, Montabone, Sebastianutti & Benque, Ecclesia) ma riproducendo solo il verso delle carte de visite: indizio certo di un embrione di collezionismo. Accanto a questi autori ottocenteschi comparivano due delle opere presentate alla Mostra Futurista, comprese nel capitolo dedicato a Trucchi e fotomontaggi, e una piccola antologia di immagini di Sella, Rey, Massaglia, Sommariva, Bertoglio, Bricarelli, Peretti Griva e del fratello Angelo Enrie, prevalentemente tratte (ma senza dichiararne l’origine) dalle pagine degli annuari “Luci ed Ombre”[135] editi tra il 1923 e il 1934. Nonostante questi limiti l’opera presentava più di un motivo di interesse quali la conferma ‘poetica’ della distinzione tra dagherrotipia e fotografia[136]; l’accenno a temi di sociologia della fotografia quali la diffusione delle carte de visite; le pratiche fotomeccaniche ed anche i rapporti fra fotografia e letteratura. Certo non era, e non voleva essere “uno storico trattato”, di cui non possedeva né l’impostazione né la cura filologica nella presentazione dei materiali e delle opere, ma certamente era l’indizio, anche editoriale, di una prima considerazione per questi temi in un ambito diverso da quello del pubblico colto e del collezionismo erudito. Un’opera per certi versi da collocare accanto a un’iniziativa di tutt’altro genere e risonanza (e chissà se maggiore) come la pubblicazione nel 1966 delle sei figurine Liebig dedicate alla Storia della Fotografia (La camera oscura; Gli esperimenti del dottor Schultze; Le Eliografie di Nicéphore Niépce; La stereoscopia; Una preziosa alleata del giornalismo; Le più recenti conquiste)[137], mentre sulle pagine del “Notiziario” del Museo nazionale del Cinema di Torino Maria Adriana Prolo avviava la pubblicazione di fonti per la storia della fotografia italiana, sistematizzando notizie e dati raccolti in un quarto di secolo di amorevoli ricerche sulla storia del cinema muto italiano[138].
Anche la traduzione italiana di A Concise History of Photography[139] dei coniugi Gernsheim venne pubblicata nel 1966 da Adelphi sotto il marchio Frassinelli; il volume conservava l’impostazione dell’opera maggiore, suddivisa in due parti ancora poco integrate tra loro: “L’evoluzione tecnica della fotografia” e “I risultati artistici della fotografia”. Intenzione evidente era quella di superare i modelli storiografici di impianto tecnologico senza spingersi però sino a proporre una autonoma storia delle immagini e dei loro usi, articolata per problemi, come aveva iniziato a fare Newhall. Quale fosse la ‘posizione’ dei curatori rispetto al fare storia risultava esplicitamente da un’intervista raccolta da Angelo Schwarz nel 1977 nella quale il grande collezionista affermava con orgoglio di non essere “stato guidato da una metodologia storica, assolutamente, non ne avevo bisogno. Quando uno ha tra le mani cento immagini della Cameron o i famosi tre album di Lewis Carrol, ha tra le mani la vita.”[140] Per Ando Gilardi quell’opera era “largamente derivata da quella meravigliosa di Eder (…). Di originale, nel libro dei Gernsheim, si trova specialmente quanto può essere vantaggioso per accrescere la loro collezione di fossili e cimeli della fotografia, non solo in quanto tali, ovvero oggetti curiosi, ma opere d’arte: la qual cosa accade inevitabilmente quando i ruderi sono delle immagini.”[141] Sebbene – come in Newhall – si potessero riscontrare un’eccessiva propensione per la produzione anglosassone[142] e certe posizioni critiche oggi discutibili come la condanna assoluta del fenomeno pittorialista, il ruolo svolto dall’opera dei Gernsheim è stato rilevante specialmente nei confronti del panorama italiano essendo rimasta per almeno un ventennio, sino alla traduzione einaudiana di quella di Newhall, l’opera più nota in Italia. Dopo la mostra milanese del 1957 e il volume di Pollack la storia della fotografia italiana si era conquistato un piccolo spazio nella narrazione generale delle sue vicende, ma nella Storia dei coniugi Gernsheim non si faceva che un cenno indiretto all’utilizzazione del dagherrotipo nell’ambito della ritrattistica[143], mentre più ampi erano i riferimenti alla documentazione architettonica: venivano ricordate le riprese italiane di Girault de Prangey e quelle realizzate per Alexander John Ellis da Achille Morelli e Lorenzo Suscipi, considerati autori delle “più antiche fotografie d’Italia giunte sino a noi”, e soprattutto la meraviglia di John Ruskin a Venezia, di cui si citavano ampi stralci della nota lettera al padre.[144] Ancora all’ambito della documentazione del patrimonio storico erano riferibili gli altri autori attivi in Italia citati nel volume: da Eugène Piot a Robert MacPherson[145], segnalato come “uno dei più importanti fotografi di architetture del diciannovesimo secolo”, mentre il solo “che poteva reggere il confronto” con questi era ritenuto James Anderson, non a caso ben rappresentato nella collezione dell’autore[146]. Brevi citazioni erano riservate anche a Luigi Sacchi, Antonio Perini, Carlo Ponti e naturalmente agli Alinari, sciogliendo implicitamente l’equivoco attributivo della mostra del 1957, determinato dal fatto che “tutte le loro fotografie più antiche e più belle del 1854-1855 (…) portano stampigliato il nome di Bardi, cosa questa che portò naturalmente ad attribuirle a lui.” A questi si aggiungevano Giacomo Caneva, membro del “piccolo circolo di fotografi animato dal conte Flacheron”, Vittorio Sella col padre Giuseppe [Venanzio], “autore tra l’altro, del primo manuale generale di fotografia pubblicato in Italia”. Di Giuseppe Primoli si proponeva invece un interessante accostamento a Jacques Henri Lartigue (poi accolto anche da Daniela Palazzoli nella sua monografia del 1979), entrambi compresi da Gernsheim nel novero di quelle centinaia di “fotografi dilettanti, totalmente indifferenti alle esposizioni e alle accademie, [che] si servirono della macchina fotografica per istinto come del mezzo più appropriato per rappresentare i vari aspetti della vita in modo diretto e obiettivo, senza sentire il bisogno di manifesti che illustrassero le finalità ultime della fotografia.”
Alle tempestive traduzioni dei volumi di Pollack e Gernsheim fecero seguito le prime proposte sistematiche di una nuova generazione di autori italiani, a volte fotografi essi stessi come Ando Gilardi e Italo Zannier, o Renzo Chini, che nel discutere questioni di linguaggio fotografico[147] forniva anche alcuni elementi di storia. In ambito fotografico Chini fu tra i primi in Italia a confrontarsi con le posizioni di Roland Barthes, da poco tradotto, in un contributo compreso nel sessantunesimo fascicolo monografico de “I problemi di Ulisse”, dedicato a Cento anni di fotografia[148], pubblicato nel novembre del 1967 in occasione del ventennale del periodico. Le ragioni della pubblicazione erano indicate nella premessa di Maria Luisa Astaldi, che riconosceva alla fotografia il ruolo di “progenitrice e base di ogni tipo di riproduzione, che ormai si estende dal giornale e dal libro al cinema e alla televisione”, ma anche “in considerazione del fatto che ricorrono oggi cento anni dacché fu scoperta”; affermazione di per sé incomprensibile e contraddetta dalla stessa precisa Cronologia essenziale posta in appendice al fascicolo. Prescindendo da questo, l’insieme dei brevi saggi costituiva certamente il primo autorevole contributo italiano a una riflessione complessiva sul ruolo della fotografia nella società e nella cultura contemporanee, sino ad allora oggetto di scarsi e scarni interventi giornalistici, qui affidato a intellettuali di grande levatura: da Mario Praz a Cesare Brandi, Gillo Dorfles, Emilio Servadio, Mario Spinella ed altri. Nel generale intento di considerare i diversi aspetti del fenomeno risiedeva forse la ragione della scarsa e un poco eccentrica presenza di studiosi provenienti dall’area fotografica vera e propria (Chini, Ando Gilardi, Piero Berengo Gardin)[149] e l’altrettanto ridotta presenza di storici italiani: assenti Negro e Vitali come i più giovani Bertelli, Racanicchi o Zannier, il saggio di apertura venne affidato proprio a Gernsheim, seguito da un contributo di Jean Keim, entrambi però circoscritti al tema delle possibilità artistiche della fotografia[150]. Le questioni storiche e storiografiche risultavano quindi nominalmente assenti da quella ricognizione ad ampio raggio, sebbene ampi e significativi riferimenti e riflessioni fossero comprese nella maggior parte dei saggi ed Emilio Servadio, all’epoca presidente della Società Psicoanalitica Italiana, affrontasse i comportamenti di chi fotografa[151] a partire dalle analogie utilizzate da Freud ne L’Interpretazione dei sogni; quelle stesse a cui avrebbe fatto ricorso circa dieci anni più tardi Giulio Bollati a proposito di “fotografia e storia”[152].
Si doveva invece a un “bravo giornalista e cronista di nera” come Wladimiro Settimelli – così lo avrebbe un poco velenosamente definito Angelo Schwarz – la Storia avventurosa della fotografia[153] pubblicata nel 1969 con un anno di ritardo rispetto ai programmi editoriali. L’autore ne proponeva una ricostruzione dichiaratamente soggettiva e parziale, con esplicita esclusione delle vicende italiane per le quali riteneva “necessario un ulteriore lavoro di ricerca”; ciò che avrebbe dato i suoi discutibili frutti alcuni anni dopo. Il lavoro, costruito avendo in mente il “modello di letteratura popolare: il feuilleton”[154], assunse l’andamento di una sequenza di avvenimenti piuttosto che di immagini, adottando il tono e i titoli propri dei rotocalchi “popolari” (“Daguerre il furbo scende per le strade”, “Carta all’albume: una strage di uova”, per citarne alcuni) nella convinzione – errata – di essere utilmente provocatorio e didascalico; volendo proporsi come popolare ma essendo invece populista, inanellando perciò una serie ininterrotta di colpi di scena che toglievano interesse anche alle parti più ricche ed innovative, quali il capitolo dedicato a “Guerra – Rivoluzioni e repressioni”, certamente una novità importante nell’ambito della storiografia disponibile in Italia. Quella Storia avventurosa fu il solo riferimento bibliografico italiano citato da Zannier (1974) nel dare alle stampe una versione notevolmente ampliata della sua Breve storia della fotografia del 1962, che era stata il suo primo contributo storiografico in volume. La versione ampliata confermava una definizione del mezzo quale “prodotto di due diverse esperienze scientifiche, l’una nel settore dell’ottica (…) l’altra in quello della chimica”, che avevano consentito alla luce di “disegnare” “l’apparenza delle cose”. Adottando un andamento cronologico che riprendeva il modello di Newhall, Zannier procedeva per temi caratterizzanti (“Nasce un’industria” ma anche – più interessante – “Nasce un linguaggio”) secondo una trama evoluzionistica che si svolgeva senza soluzioni di continuità dalla “Preistoria” alla “Panoramica contemporanea”, a partire dalla considerazione fondamentale che “la fotografia, con tutte le prerogative che questo linguaggio ha nella civiltà contemporanea, nasce in definitiva con Talbot.” Scorrendo quelle pagine si comprendeva bene come i sintetici cenni alle vicende italiane non potevano ancora essere l’esito di fondate considerazioni storico critiche ma, più empiricamente, il frutto di una insufficiente conoscenza generale del patrimonio fotografico complessivo e delle relative fonti primarie, surrogato dal ricorso sistematico a informazioni ricavate dalle poche storie generali allora disponibili (Lécuyer, Newhall, Gernsheim, Pollack, l’edizione americana di Eder), senza ricorrere agli studi di Unterveger o di Negro, pur brevemente richiamati nel testo. Così Alessandro Duroni risultava il solo dagherrotipista citato e poco più che elencate erano le “oleografiche astrazioni architettoniche” di Alinari e Brogi o le “romantiche vedute romane” di MacPherson e di Anderson, già molto apprezzate da Gernsheim. Escludendo Primoli, trattato sulla scorta degli interventi di Piero Racanicchi e della recente monografia di Vitali, il resto si riduceva a poco più che un’elencazioni di nomi, determinando accostamenti che apparivano motivati da superficiali analogie formali, come nel caso di Faruffini, Rey e Peretti Griva, mentre uno spazio ampio era dedicato alla fotografia futurista: dai Bragaglia al Manifesto di Marinetti e Tato, pubblicato integralmente, dimostrando una per noi rara considerazione per l’edizione delle fonti.
Ancor meno fortuna ebbero le vicende nostrane in un’altra Breve storia, quella di Jean-Alphonse Keim[155], che citava solo di sfuggita pochissimi nomi, tra i quali il solito Anton Giulio Bragaglia, presentato come “fotografo [che] tenta talvolta di servirsi dello sfocato [sic] per ottenere un effetto di velocità.” Quando venne pubblicata la traduzione della sua Histoire, Keim era noto da noi per la sua collaborazione a “I problemi di Ulisse”[156] e per la pubblicazione di un interessante contributo sulle pagine di “Popular Photography Italiana” in cui aveva posto, seppure in modo necessariamente poco articolato, alcune questioni nodali e inedite per il panorama italiano: “Che cosa si deve intendere con ‘storia della fotografia’? E come affrontarne un’elaborazione? (…) Due appunti si impongono immediatamente, che paiono evidenti agli storici di mestiere, ma che spesso sono stati dimenticati da autori di diversa formazione. Comunque si affronti la storia della fotografia, essa si è sviluppata nel quadro della storia generale, della quale fa parte pur se essa ne viene molto spesso esclusa. Essa non può dunque venir studiata utilmente che posta nel contesto del momento, dei movimenti politici, economici e sociali dell’epoca.” [157]
Considerazioni indiscutibili ma di fatto prive di conseguenze visibili in quella Breve storia, arricchita da un’appendice sulla fotografia italiana firmata da Settimelli con una soluzione analoga a quella adottata per il volume di Pollack di quasi vent’anni prima. Il testo, redatto in origine per una collana di divulgazione, apriva infatti con questa imbarazzante definizione: “La fotografia è essenzialmente un’immagine del mondo ottenuta senza che l’uomo vi svolga un’azione diretta” e chiudeva coerentemente (cento pagine dopo) ricordando che “la fotografia si è allargata: non vi è più soltanto la luce a riprodurre il reale. I raggi fuori dallo spettro visivo (…) impressionano nuove superfici sensibili.”[158] Nel mezzo, una narrazione per schemi canonici (dalla preistoria al colore) che ricalcava la struttura utilizzata da Gernsheim, adottandone a volte anche i titoli di capitolo o di paragrafo, e forniva una sintetica sequenza di figure e vicende da cui era escluso non solo ogni riferimento più che generico “alla storia generale” ma anche qualsivoglia presa di posizione critica da parte dell’autore, che tendeva così ad oggettivare il contenuto del proprio discorso.
Di ben diversa impostazione e impegno la Storia sociale della fotografia di Ando Gilardi[159] che Feltrinelli pubblicava nel 1976, della quale merita richiamare l’impatto che ebbe sulla cultura fotografica italiana, sebbene proprio le sue caratteristiche critiche e narrative (strutturali e testuali) la rendessero un prodotto culturale difficile da ‘maneggiare’, cioè da considerare e utilizzare secondo le consuete convenzioni della storiografia[160]. Il volume costituiva lo sviluppo e la sistematizzazione di ricerche già comparse su alcune riviste italiane come “Ferrania”, “Popular Photography Italiana” e in particolare “ Photo 13” ma – come ha ricordato l’autore nella premessa alla seconda edizione (2000) – l’opera venne scritta “nell’estate del 1976, pressato dall’Editore (…) appena in tempo per essere pubblicata come libro strenna per il Natale. Questo significò che non ebbi il tempo per modificarne due o tre volte la forma della scrittura, com’era mia nevrotica abitudine[161]. Com’era perché oggi so con assoluta certezza che quando viene riveduta e corretta la forma peggiora.” Pochi allora si accorsero che la sua copertina costituiva un’immagine a chiave e non una semplice figura antologica, essendo una citazione di quella del n. 140 di “Popular Photography Italiana” (maggio 1969), il più gilardiano dei numeri di quel periodico, dedicato al Calendimaggio della fotografia e al Primo Incontro Nazionale di Fotografia che si era tenuto a Verbania dal 31 maggio al 2 giugno di quello stesso anno[162]. Una inequivocabile scelta militante quindi; una presa di posizione fondata su di un assunto critico determinante e innovativo, e non solo per l’asfittico panorama italiano dell’epoca: “La fotografia (…) ha un secolo e mezzo, ma con essa da tempo si producono in un giorno qualunque più immagini di quante non ne sono state realizzate con tutti gli altri mezzi nella storia dell’uomo”; per questo la fotografia doveva essere considerata “l’ultimo dei procedimenti per fabbricare figure, il quale aggiunge alle proprie le possibilità di tutti gli altri”. Si trattava allora di affrontare le questioni poste dalla fotografia in quanto fenomeno di massa, considerandone gli aspetti quantitativi piuttosto che qualitativi per insistere sulla comunicazione piuttosto che sulla produzione, abbandonando di fatto ogni prospettiva autoriale e estetica -ma anche linguistica – per affrontare piuttosto i nodi inestricabili che avevano legato storicamente produzione e consumo di questa “polvere iconica indistinta” determinata dalla moltiplicazione fotomeccanica di cui lo stesso Gilardi fu appassionato cuoco bulimico. Posizione non inedita, anzi patrimonio comune di molta cultura di secondo Ottocento, riconoscibile in molte voci enciclopediche o negli scritti di autori quali Paolo Mantegazza e Domenico Vallino[163] per limitarsi all’Italia, ma qui declinata avendo ben presenti Mac Luhan (“la galassia Niépce”) e Benjamin, a cui dedicava una bella voce del Dizionario in appendice al volume (“Linke Melancholie”). Accanto a questi numi tutelari si poteva riconoscere qualcosa di più che una traccia, una consonanza politica e culturale neppure troppo sotterranea con l’antiautoritarismo del decennio che si stava amaramente chiudendo. L’attenzione per l’iconografia delle figure sociali e culturali marginali (per la cultura, non solo materiale delle classi popolari) ed emarginate (dal delinquente lombrosiano all’alienato) si legava alle riflessioni filosofiche e politiche nate dal lavoro sulle istituzioni totali (da Basaglia a Goffmann, Laing e Foucault) nell’interpretare quelle immagini e le pratiche da cui derivavano come espressione di una società classista che intendeva la fotografia anche come strumento di controllo sociale. Secondo quella interpretazione i processi fotomeccanici, e non la fotografia in quanto tale (come voleva il titolo) costituirono l’esito di un processo (per Gilardi un progresso) di affinamento delle tecniche di moltiplicazione dell’immagine che aveva portato alla comunicazione di massa.
Anche la struttura del testo risultava innovativa, con andamento tematico più che cronologico, dove il titolo di ciascun capitolo costituiva – come in Settimelli – una sintesi icastica del contenuto (“Quell’industria sognata da Niépce poi chiamata la fotomeccanica”; “Il foto ritratto: dall’atelier alla galera, dallo schedario al computer”) strutturato su tre narrazioni parallele (testo/ immagini/ ampie didascalie), che fornivano suggestioni e percorsi di lettura poco praticati allora e dopo. Si veda a titolo di esempio l’analisi della serie di Figurine Liebig già ricordate, corredate da una nota che mettendo a confronto disegno, fotografia e fotoincisione costituiva a sua volta una sineddoche dell’intero impianto storiografico. Il solo dato mancante in quella lunga, virtuosistica didascalia era proprio la data di emissione (1966), e anche questa assenza costituiva un elemento caratterizzante del lavoro di Gilardi. Non che le date fossero sistematicamente assenti, né che si potesse sostenere che solo sul loro trattamento si dovesse fondare la valutazione di quell’opera, ma questa lacuna era significativa e più che interessante. Ciò che mancava clamorosamente a quella Storia era proprio un metodo storico ovvero, ancor più semplicemente, l’adesione minima alle regole della correttezza delle informazioni fattuali e della verificabilità delle fonti mediata dalla citazione archivistica o bibliografica. Adottando la distinzione semantica della lingua inglese potremmo dire che qui si trattava di Story e non di History; quello che veniva proposto era un racconto fortemente personalizzato, una narrazione pura (ma non arbitraria né – quasi mai – d’invenzione)[164]. Riprendendo una sua stessa, recente definizione (cui si sarebbe di certo fieramente opposto) potremmo dire che Gilardi è stato un caso tipico di “storico borghese (…) uno scrittore che scrive romanzi, ma crede o vuol far credere di essere uno scienziato”[165]. Il suo interesse prevalente era rivolto ai processi e agli ambiti, agli uomini di scienza e di varia cultura, meno ai fotografi; poiché le immagini citate (e poveramente riprodotte) erano da intendersi come esempi e tipi e non come realizzazioni emblematiche: da qui il disinteresse quasi assoluto per i loro autori. Era proprio nel continuo richiamo al ruolo centrale delle tecniche, in particolare quelle fotomeccaniche, alla sociologia dell’industrializzazione dell’immagine in termini di produzione e, in misura minore, di ricezione che risiedevano la novità e l’interesse di quel lavoro, accanto alla considerazione, allora altrettanto inedita, per le pratiche ‘culturalmente’ marginali ma socialmente e politicamente più rilevanti: le schedature operate da medici legali, psichiatri e polizia[166], la fotografia pornografica e quella anonima; prestando sempre una grande attenzione (più affabulatoria che analitica) alle loro relazioni con l’immaginario e l’iconografia di tradizione ‘popolare’.
In quella prospettiva evoluzionistica e sociale in cui lo sguardo si spostava necessariamente dalla fotografia, intesa come forma specifica per quanto diversificata di raccontare il mondo, all’universo generale delle immagini, non mancavano prese di posizione critiche allora certo non comprese ovvero considerate bizzarre. Basti pensare alla determinante riflessione sui fondamenti tecnologici (“avevamo sempre sospettato – come dirlo? – che la prima fotografia doveva essere il primo negativo, e non gli strani oggetti corrosi dagli acidi e dalla ruggine che vengono abitualmente proposti come tale, e che nessuno si azzarda a definire positivo o negativo”[167]) o alla posizione controcorrente espressa in merito alla fotografia artistica: “Da inqualificabili storiografie e critiche fotografiche improvvisate e correnti, le immagini del genere sono catalogate come ‘pittorialiste’ e addirittura decadenti e sono considerate non il massimo sforzo di ricerca prima di tutto tecnica sperimentale, ma come libera scelta fra varie possibili soluzioni espressive (…) Incredibilmente le storie della fotografia parlano di quella dell’Ottocento dimenticando che è stata prodotta con macchine e materiali che erano essi stessi medesimi quasi sempre sperimentali e alla sperimentazione costringevano anche chi non voleva.” Ancor più rilevanti alcune proposte di studio, come quella su uno dei “maggiori consumi fotografici di massa del nostro paese (…) relativo all’uso che ha fatto il fascismo della fotografia per la promozione del consenso al regime”, a cui dedicava un’importante voce del suo Dizionario, con puntuali indicazioni di ricerca ancora oggi scarsamente frequentate, come quella sul “fotoamatorismo come attività organizzata del tempo libero” o “all’impiego dell’immagine meccanica per l’organizzazione e la promozione del consenso”, riconoscendone l’elevata qualità al di là di ogni preconcetto ideologico.
Il volume conteneva anche un imponente Dizionario degli antichi termini, miti e personaggi dell’immagine ottica, di ben cento pagine, che si rifaceva alla tipologia di lunga tradizione dei dizionari, glossari e prontuari tecnici presenti in ogni buon manuale ottocentesco, mutandone però radicalmente il senso proprio nella scelta dei lemmi così come nelle caratteristiche di una scrittura barbaramente immaginifica, che rinunciava volentieri – come in tutti i suoi scritti del resto – alla correttezza filologica o storica a favore della fascinazione affabulatoria (si veda l’esempio ricordato da Tempesti del lemma Acqua di Javelle al posto del più ordinario e comprensibile Candeggina). Completavano gli apparati una “Biblioteca del fotografo dell’Ottocento”, che si proponeva di integrare la ricca bibliografia prodotta da Buguet e Gioppi[168] nel 1892, estendendola sino all’anno 1900, e una più sintetica “Biblioteca moderna”.
Data la sua posizione critica e l’impostazione del volume che da quella coerentemente derivava, sarebbe stato difficile attendersi dalla Storia sociale di Gilardi, un riferimento sistematico alle vicende italiane e ai nostri autori, fossero questi Stefano Lecchi o l’amato Francesco Negri, alla cui prima monografia aveva pur collaborato nel 1969, ma di cui non si peritava di fornire dati tecnici errati in merito ad alcuni singolari materiali sensibili da quello utilizzati[169]. Lui era più interessato ai processi che agli autori; alle caratteristiche generali dei fenomeni piuttosto che alle loro manifestazioni nazionali o locali, ricordando semmai figure minori o minime (come Rebughi – Candiani e C. di Brescia o Arrighi di Portoferraio, sconosciuto allo stesso Becchetti[170]) ma funzionali al proprio discorso. In questo contesto andava inteso quindi solo in parte come un’eccezione il capitolo quattordicesimo[171], tutto dedicato all’ideologia del “socialismo fotografico” espressa dalla Società Fotografica Italiana e dal suo primo presidente Paolo Mantegazza, che produsse alcuni dei “documenti fondamentali per mettere a fuoco (è il caso di dirlo) la questione sociale della fotografia alla fine dell’Ottocento, e non solo nel nostro, ma qual è in tutti i paesi industriali.” Analoghe furono le ragioni per collocare numerosi esempi di fotografia ‘sociale’ (briganti, criminali politici e comuni, soggetti lombrosiani in genere) nell’ambito del successivo capitolo dedicato al ritratto, uno dei più efficaci argomenti di ricerca e divulgazione di Gilardi, a cui due anni più tardi avrebbe dedicato una monografia.[172] Altre importanti suggestioni riguardavano poi un ambito che da sempre aveva connessioni profonde con le vicende italiane, vale a dire “l’accoglienza da parte della Chiesa, romana specialmente ma poi delle organizzazioni religiose nell’insieme, del nuovo mezzo di produzione delle immagini, ovvero dei procedimenti fotografici”, a partire dal commento al testo del gesuita Pietro Antonacci, scritto nel 1847 “per comodo delle Missioni straniere”[173].
Alla fotografia dedicavano un rinnovato interesse, e uno spazio maggiore, anche le varie opere di consultazione che si andavano pubblicando in quel periodo. Nel quarto volume dell’Enciclopedia Europea edita da Garzanti la redazione della voce specifica venne affidata a Oscar F. Ghedina[174], prolifico autore di manualistica, il quale le diede – coerentemente – una impostazione evoluzionistica su base tecnicistica ma facendola precedere da una sintetica sezione dedicata alla Nascita ed evoluzione del mezzo fotografico, strutturata diacronicamente per coppie di categorie o concetti ma sorprendentemente inficiata da strafalcioni tecnologici, ben esemplificati dalla descrizione della “lastra di peltro spalmata con una sospensione bituminosa di sali d’argento” di cui si sarebbe servito Niépce. Da questo quadro incerto emergeva però qualche suggestione culturalmente più aggiornata, quale la lettura della diffusione del ritratto come fenomeno connesso alla “ascesa sociale e [al] desiderio di affermazione mondana dei nuovi ceti benestanti”, che riecheggiava le tesi di Gisèle Freund, pubblicate in Italia l’anno precedente su sollecitazione di Bertelli[175]. L’edizione italiana della notissima “The Focal Encyclopedia of Photography” (1969) venne pubblicata dalla Fabbri Editori a dieci anni di distanza, rivista e aggiornata da Maurizio Capobussi, come “Enciclopedia pratica per fotografare”; destinata al grande pubblico dei fotoamatori, con una tiratura iniziale di 100.000 copie ben presto cresciuta a 160.000. Ciò che distingueva nettamente quella edizione era la presenza in ciascun fascicolo di inserti dedicati ai più interessanti autori italiani contemporanei curati da Quintavalle, al quale si doveva anche la corposa introduzione ai volumi, in cui delineava un “territorio della fotografia (…) ampio quanto la nostra cultura”[176]. Le finalità eminentemente pratiche dell’opera e la scelta di individuare “un sistema letto orizzontalmente, cioè tutto contemporaneo” portarono al rifiuto del “modello arcaico delle figure-guida, dei capolavori fotografici” ma anche alla ridotta presenza di elementi di storia nelle quasi 2.700 pagine complessive, che pure contenevano una voce non banale dedicata al Pittorialismo[177], né comparivano altro che nell’introduzione riproduzioni di fotografie storiche, essendo le voci corredate di efficaci, didascalici disegni. Con una qualche realistica ragione i curatori originari avevano ritenuto che la storia non rientrasse tra i principali ambiti di interesse di chi si dedicava alla “Amatoriale, fotografia”, di coloro cioè che “praticando un mestiere o una professione qualsiasi, occupano una parte del loro tempo libero con la fotografia”[178]. Per colmare questa lacuna si ritenne indispensabile “fornire al pubblico italiano una enciclopedia della tecnica fotografica e della sua storia”: per colmare “un vuoto che è anche il vuoto della cultura dell’idealismo, il vuoto dell’arte contrapposta alla tecnica (…) per dare a lui ed a tutti coloro che vogliono concretamente sperimentare e ricercare, uno spazio diverso, una differente dignità culturale”[179]. Lodevole intenzione che non si tradusse però in una radicale revisone del’impianto originario né teneva sufficiente conto del fatto che alla “storiografia fotografica” era dedicata una specifica voce, verosimilmente non apprezzata da Quintavalle per la sua impostazione, datosi che vi si affermava perentoriamente che “lo scopo principale delle storiografo fotografico è quello di trattare l’evoluzione tecnica. Oltre a ciò deve menzionare gli uomini che impiegarono le tecniche e i risultati da questi raggiunti. La storia della fotografia è infatti anche la storia di fotografi e fotografie.”[180] La concezione qui espressa da Andor Kraszna-Krausz, fondatore della Focal Press e curatore dell’edizione originale, certo piuttosto distante dalle più recenti riflessioni storiografiche, si rifletteva chiaramente nella struttura e nel trattamento generale dei temi di storia, che trovavano spazi concreti di sviluppo specialmente nelle voci tecniche e non in quelle dedicate ai ‘generi’ o agli ambiti di applicazione: quelli che meglio avrebbero consentito una presentazione storico critica culturalmente aggiornata. Nonostante questi limiti l’intento di offrire alcuni primi elementi di orientamento al pubblico fotoamatoriale fu certo positivo, specie considerando che gli strumenti sino ad allora disponibili erano di livello incommensurabilmente inferiore. Basti considerare a questo proposito una pubblicazione come la “Enciclopedia generale della fotografia” delle Edizioni AFHA Italia di Milano, che nel primo volume conteneva un breve testo anonimo che raccoglieva Aneddoti sulla Storia della fotografia, illustrato con disegni al tratto di sapore incongruamente e involontariamente ottocentesco. Un contributo che non merita neppure di essere commentato ma che costituiva – accanto alla voce curata da Ghedina per Garzanti – un buon indicatore di quale potesse essere considerato il livello minimo di conoscenze nell’Italia degli anni Sessanta – Settanta, prima che si avviasse anche da noi una prima e più attrezzata riflessione generale su questi temi.
Anche Cesco Ciapanna, noto editore di manualistica e della rivista “Fotografare”, pubblicava un Dizionario della fotografia[181] prevalentemente tecnico, nel quale però “non potevano mancare i nomi dei personaggi che hanno contribuito a creare la storia della fotografia, o con le loro ricerche, o con le loro immagini”; dove per “ricerche” si dovevano implicitamente intendere quelle fotochimiche o tecnologiche, datosi che risultavano mancanti le voci dedicate a Gernsheim o a Newhall, del quale Zanichelli aveva tradotto in italiano il saggio sulle origini della fotografia[182], e lo stesso Josef Maria Eder era ricordato principalmente quale scopritore “dell’azione indurente del cromo e dei cromati sulla gelatina.” Sorte non migliore toccava agli studiosi italiani, mancando ogni riferimento a Negro, Vitali, Gilardi o Miraglia, mentre a Zannier, “critico fotografico e fotografo”, era dedicata una voce piuttosto esauriente, con ampi riferimenti bibliografici. Altrettanto lacunosa risultava la serie delle voci dedicate ad autori storici della fotografia italiana[183], tanto che lo stesso Zannier nel recensire il volume indicava come “in una prossima edizione [fosse] opportuno integrare l’elenco dei fotografi, specie dell’800, in parte mancanti, perlomeno quelli italiani.”[184] Analoghe lacune connotavano la più recente edizione de La nuova enciclopedia dell’arte edita da Garzanti nel 1986, per la quale le voci specifiche furono redatte da Enzo Minervini e Roberta Valtorta. Nell’accurata recensione critica che ne diede Renzo Chini poneva però un problema diverso, derivato dalla difficoltà di “segmentare la cultura fotografica per riferirne in modo organico in una enciclopedia dell’arte”[185], certo un problema comune a questa tipologia di opere, ma ne segnalava anche alcuni limiti di impianto poiché “le voci specifiche non inquadrano abbastanza i fotografi presentati” essendo “impostate in modo alquanto pregiudiziale secondo il principio che solamente il genere della fotografia creativa è creativo”, mentre “il fatto che sorprende di più è l’assenza della voce fotografia, nel testo e nel dizionario dei termini in appendice.”[186]
Nel 1967 venne pubblicato un numero monografico di “Imago – Proposte per una nuova immagine”, l’innovativo house organ della Bassoli Fotoincisioni di Milano[187], che conteneva “un piccolo Museo del Risorgimento in miniatura che è al tempo stesso un piccolo Museo delle origini della Fotografia in Italia”[188], utilizzando parte dei materiali presenti nella mostra Immagini del Risorgimento, prodotta dal CIFe nel 1967[189]. Nella sezione intitolata La fotografia arte diabolica Settimelli[190] citava una serie di documenti che testimoniavano come “voler fissare immagini effimere fosse un’offesa a Dio”, poste a commento della riproduzione anastatica dell’Editto cardinalizio del 28 novembre 1861 che vietava la detenzione non dichiarata di apparecchi fotografici, ben noto agli storici della fotografia a Roma. Quel documento venne poi pubblicato anche da Gilardi che ne dava però un’interpretazione diversa, connessa a questioni poliziesche[191] più che ecclesiastiche, tanto da polemizzare indirettamente (anche) con l’amico Settimelli: “si legge in alcune storie fotografiche di una opposizione, addirittura, che l’organizzazione religiosa avrebbe mosso, nell’Ottocento, all’immagine fotografica accusandola di diavoleria. Non esiste affermazione più infondata e sciocca di questa.”
Lo stesso Settimelli avrebbe di lì a poco raccontato La fotografia italiana in appendice al volume di Keim[192], dichiarando in apertura che “c’è ancora molto da indagare, qui da noi, sulla fotografia intesa soprattutto come fenomeno con spiccatissime caratteristiche sociali”. A quell’intenzione corrispondevano una serie di dichiarazioni velleitariamente ‘controculturali’ (“il ruolo rivoluzionario dell’immagine ottica”, la fotografia come strumento per “negare al potere la possibilità di ‘interpretare’ la realtà a proprio uso e consumo” e simili), per certi versi comprensibili nel clima di quegli anni sebbene poco consone a un giornalista di una testata ortodossa come “L’Unità”; prese di posizione che già all’epoca dovevano apparire come espressioni di una rozza superficialità ammantata di pretese politiche, incommensurabilmente lontana – solo per fare un esempio cronologicamente prossimo – dalle raffinate interpretazioni di Bourdieu, ben note in Italia per essere state pubblicate da Guaraldi nel 1972[193]. A queste sembrava comunque riferirsi polemicamente Settimelli nel criticare “i sociologi, gli specialisti in scienze umane e persino gli stessi studiosi marxisti [che] continuano ad avere, con la fotografia, un tipo di approccio poco rigoroso (…) Si rinuncia così – e questa può essere la sola logica spiegazione – ad utilizzare il lavoro di alcune centinaia di colti e bravi fotografi italiani dell’Ottocento.”[194] Il testo che seguiva, che sarebbe stato difficile definire sistematico, pescava a piene mani dall’ancora scarsa pubblicistica precedente – per altro mai citata – e si segnalava soprattutto per la scarsa accuratezza delle informazioni fornite[195], a cui non riusciva a fare da contrappeso l’estensione dell’arco temporale sino agli anni Cinquanta, come di lì a poco avrebbe fatto anche Zannier con un contributo specificamente dedicato al nostro Novecento[196].
Gli evidenti limiti della storiografia italiana di quegli anni si nutrivano di elementi diversi: da un lato l’assenza totale, quasi ingenua, di preoccupazioni metodologiche di ricerca e di elaborazione, sostituite nei casi migliori da una verve militante che soffriva però ancora troppo della formazione giornalistica degli autori; dall’altro una cronica carenza di dati, di materiali e di fonti disponibili per lo studio e l’indagine, a cui si tentava di porre rimedio con iniziative diverse per intenzioni e impegno, sebbene non scarse. Così accanto alle ricognizioni locali e territoriali, sovente però di stampo revivalistico, si assisteva a uno sviluppo per noi inedito di monografie, sia nella forma di articoli o allegati monografici ai periodici, in particolare “Popular Photography”, sia in quella più impegnativa del saggio autonomo o del catalogo di mostra, a loro volta legati a una prima preoccupazione conservativa per il patrimonio fotografico storico che si manifestava con programmi e interventi anche a livello centrale.
Tra il 1968 e il 1970 la Fototeca della Ferrania – 3M Italia aveva acquisito, con la cura di Roberto Spampinato, gli archivi di Ghitta Carell, di Elio Luxardo e di Attilio Badodi[197], mentre nel 1971 si costituiva come organismo separato l’Archivio fotografico del Comune di Roma, diretto da Lucia Cavazzi, e due anni dopo il Ministero per la Pubblica Istruzione emanava l’importante notifica di vincolo – la prima di tal genere in Italia – dei negativi costituenti l’Archivio Alinari, avanzata dal Soprintendente alle Gallerie di Firenze il 7 aprile e firmato dal Ministro Salvatore Valitutti il 18 giugno successivo[198]; atto che costituiva la conclusione – che crediamo inattesa – della proposta di vendita allo Stato fatta dallo stabilimento fiorentino di tutto il proprio archivio in bianco e nero, in previsione di convertirsi “nel ramo del colore.” L’offerta non venne accolta poiché la cifra richiesta era “assolutamente al di sopra di ogni ragionevole previsione di spesa e, a parere dello scrivente, sproporzionata al valore effettivo della collezione, per quanto esso sia veramente ingente”, ma l’impossibilità di un’intesa suggeriva a Carlo Bertelli, di applicare lo strumento della notifica, “nel caso in cui vi fosse una concreta minaccia di dispersione”, anche se, avvertiva, “non si sa se la legge consentirebbe di estendere la notifica alle lastre fotografiche (in tal caso sarebbe allora assai più urgente notificare quanto è rimasto degli archivi Reali e Sansoni, che sono stati quasi interamente acquistati dalla Frick Library di New York).” [199] La difficoltà di tutelare ex lege il patrimonio fotografico rendeva ancora più significative e rilevanti alcune iniziative del 1975: a livello statale, la costituzione dell’ICCD – Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione e dell’ING – Istituto nazionale per la Grafica e la Fotografia (questa la denominazione completa, dal 2014 modificata in ICG – Istituto Centrale per la Grafica), nel quale confluirono il Gabinetto nazionale delle Stampe e la Calcografia Nazionale, quali organismi del neonato Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, e la nascita a Parma, del Centro Studi e Museo della Fotografia, poi CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione[200], voluto da Arturo Carlo Quintavalle nell’ambito dell’Istituto di Storia dell’arte di quella Università, che avviò una innovativa politica di acquisizione e tutela degli archivi (o parte di essi) di studi e autori italiani: da Orlandini e Villani a Bruno Stefani, promuovendo importanti mostre di Ugo Mulas, Nino Migliori, Luigi Ghirri e Mario Giacomelli.[201]
Fu lo stesso Quintavalle a firmare nel 1978 l’introduzione al volume dedicato a un altro, sommerso e negletto patrimonio archivistico, quello delle famiglie italiane. La mostra L’Italia nel cassetto[202] che si tenne alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna nei primi mesi del 1978 prendeva le mosse dal programma televisivo Album: fotografie dell’Italia di ieri, curato da Piero Berengo Gardin e Virgilio Tosi con la collaborazione di Iole Sabbadini e contributi filmati di Raffaele Andreassi. L’esposizione, strutturata in diverse sezioni tematiche[203], si presentava quasi come una storia per immagini della nazione, frutto di una raccolta pubblica che mirava alla costituzione di un archivio fotografico, così che i materiali raccolti vennero riprodotti e ristampati tutti nello stesso formato, quindi filmati e – appunto – presentati nel corso di sedici puntate su RAI2 a partire dal 26 aprile 1977. I problemi metodologici e critici di quell’operazione vennero affrontati in apertura di catalogo da Quintavalle[204], offrendo al grande pubblico una serie di ‘istruzioni per l’uso’, a partire dal fatto che le poche centinaia di immagini presentate in mostra non potevano corrispondere né alla totalità di quelle inviate né di quelle selezionate per la trasmissione, sulle quali, inevitabilmente, Berengo Gardin e Tosi erano intervenuti con modalità diverse: dalla lettura del singolo esemplare con movimenti di macchina in truka all’ordinamento in una nuova sequenza temporale o spaziale. Non solo: la scelta di lavorare su riproduzioni uniformi cancellava ogni caratteristica originale dei materiali, riducendone ulteriormente il valore documentario, qui sottoposto a un doppio e distinto ordine di trascrizione per la mostra e per il catalogo. Quella assunzione di consapevolezza critica, da trasmettere e condividere col visitatore e col lettore, si accompagnava alla verifica delle possibili opzioni che sarebbero potute derivare da un diverso processo operativo, quello della conservazione degli originali: l’analisi dei differenti “codici della fotografia” presenti in quei materiali ma anche “l’organizzazione storica di una rassegna della fotografia in Italia”. Operazione allora “sostanzialmente impossibile” per ammissione stessa dell’autore, perché “debbono passare ancora molti anni di indagine (e di scoperta) dei materiali, e la nostra cultura su questo particolare modello di trascrizione (la foto appunto) deve diventare molto più acuta e soprattutto deve conoscere ben di più di quanto, oggi, ci è dato conoscere della produzione fotografica nel nostro paese.” Scartata quindi l’ipotesi di una restituzione storica, restava aperta la prospettiva sociologica “e, al meglio, antropologica dei fatti, cioè delle immagini proposte”; non quindi delle fotografie. Ne derivava la necessità di comprendere o almeno ipotizzare i criteri e le censure operate a monte dalle stesse persone che raccolsero l’invito, per provarsi poi – in sede critica – a suggerire alcuni problemi di comprensione della cultura visiva che quelle stesse fotografie esprimevano. Muovendosi lungo percorsi e ipotesi da sempre centrali nel lavoro storico critico di Quintavalle, si trattava di far emergere le relazioni non esplicitate con l’universo del visivo: dai generi pittorici, all’illustrazione e alla grafica, nella consapevolezza che “la sociologia dell’immagine comunque passa, o dovrà passare, per meglio dire, anche dall’analisi del senso che le immagini stesse assumono grazie al modello della loro trascrizione. La scrittura infatti è il modello attraverso il quale le immagini ‘sono’ e la scrittura è la loro materialità.”[205]
Posizioni critiche molto diverse, dovute a una differente formazione piuttosto che alla distanza temporale, erano state espresse da Tullio Seppilli giusto un decennio prima in apertura del catalogo della mostra L’evoluzione della famiglia italiana in cento anni di fotografia[206], che lo vedeva tra i curatori. L’antropologo aveva infatti parlato di “immagine fotografica” e non di fotografia, considerandola la “registrazione di una realtà (…) un’operazione (e il suo risultato) attraverso la quale a partire da una determinata realtà viene prodotta una sorta di ‘impronta’ o di ‘matrice’, stabilmente capace di provocare nell’osservatore una immagine percettiva (visiva, acustica) analoga a quella che egli avrebbe direttamente ricevuto dalla realtà stessa trovandosi al posto dell’apparecchio registratore.” [207] I debiti con la prima semiologia francese risultavano evidenti, piegati però a una specie di ‘ingenuità’ fenomenologica che riduceva il concetto barthesiano di messaggio senza codice a un meccanicismo positivista, essenzialmente tecnologico, (“la immagine fotografica non rinvia a un significato mentale ma direttamente alla realtà”) da cui sembrava escluso qualsivoglia elemento di connotazione culturale e linguistica, sebbene Seppilli riconoscesse poi che “l’impiego della fotografia può tuttavia comportare una codifica di significati mentali, e perciò il ricorso a un ‘linguaggio’, dando luogo a un vero ‘messaggio’ e quindi a un processo di comunicazione in senso stretto”[208], circoscritto però alla sola, esplicita e consapevole intenzione dell’operatore. Per Roberta Valtorta, che aveva dedicato a quelle due esperienze la propria tesi di laurea[209], si era tentata la “strada del censimento fotografico realizzato grazie alla diretta collaborazione dei cittadini e delle famiglie attuato attraverso i mass media”, utilizzando la fotografia “come strumento per cercare nel passato l’identità presente del paese, indagata con intenzioni democratiche nel suo tessuto sociale grazie alla partecipazione dei protagonisti stessi”, con un’intenzione di fondo che non poteva dirsi quindi altro che politica, sebbene sottintendesse anche quel “recupero di sapore revivalistico dell’immagine fotografica di utilizzo popolare” che avrebbe avuto proprio in quel decennio un primo considerevole sviluppo.
Le nostre prime e più estese ricognizioni del patrimonio fotografico non furono quindi di tipo storico ma antropologico e sociologico[210], perfettamente coerenti con i profili intellettuali dei curatori (da Gilardi a Seppilli), poco interessati o propensi a una riflessione sul linguaggio e orientati per converso ad una utilizzazione in termini strettamente referenziali (da qui le avvertenze di Quintavalle) come testimonianza delle condizioni di vita delle diverse classi sociali lungo circa un secolo. Certo contro le stesse intenzioni e aspettative dei curatori quelle realizzazioni costituirono di fatto l’antecedente e il modello di una sterminata serie di nostalgiche esposizioni locali, solo di rado condotte con criteri e obiettivi scientifici, anche quando originavano ed erano animate da intenzioni positive, come la ricerca condotta dai soci del Fotocineclub di Fermo che portò alla pubblicazione del volume Fermo, …ieri (1969) così recensito da Gilardi sulle pagine di “Popular Photography”: “io sono profondamente convinto che il fatto che dei soci di un circolo fotografico italiano si occupino di una ricerca storica (…) è storico davvero (…) è serio e, per quel che mi riguarda, rappresenta una svolta nella storia patria dell’immagine ottica. (…) Il senso dei discorsi ‘antipecora’ di Verbania era anche, forse soprattutto questo.”[211] Più interessato a comprendere il senso generale di quel genere di operazioni, e lucidamente critico, fu Franco Fortini, che offrì una lettura diametralmente opposta del fenomeno: “Oltre la moda, non l’intento di avvicinare bensì quello di distanziare mi pare dominante. È come pubblicare l’epistolario dei nonni. Portare a conoscenza storica, si dice. In verità: sbarazzarsi (…) volersi separare da un ieri ancora troppo vicino.” Le ragioni profonde di questo inconscio atteggiamento collettivo risiedevano “nel mezzo fotografico: saldato alle sue origini, alla causale della sua nascita, che è naturalistica, scientistica, verista, lassù nell’Ottocento. E fintanto che noi viviamo in una società dell’immagine (…) ogni nostro sforzo per liberarci di quell’ottica (e del suo inverso, simbolistico e magari surrealista) equivale a liberarci da quell’eccesso di vicinanza e di parentela (…). Quella illusione ci incolla addosso le generazioni fotografate, nell’album o nella cornice della credenza. Ricoverandole nell’ospizio della cultura istituzionale, nella esposizione e nel museo, crediamo di poter essere nuovi, di dimenticare il ‘caro estinto’ ”.[212]
Anche l’Enciclopedia del Novecento, pubblicata nel 1978, conteneva la voce Fotografia, redatta da Carlo Bertelli, nella quale lo studioso ne restituiva il percorso collocandolo criticamente nel solco generale della storia della produzione e della ricezione (i modi e i codici) delle immagini; ponendo l’accento sulla industrializzazione delle tecniche e dei prodotti e sulla conseguente “moltiplicazione dei produttori [che] si ripete negli avvertimenti estetici impartiti dalle riviste specializzate”. Accanto a quel fenomeno collocava la scoperta e l’accettazione dell’imprevisto che avevano aperto le porte all’affermarsi della fotografia quale strumento di esplorazione e di narrazione soggettiva del mondo, contribuendo così alla riconsiderazione critica e al riconoscimento del valore storico della fotografia pittorialista (a cui l’anno successivo sarebbe stata dedicata la prima mostra italiana[213]), qui intesa quale momento di rottura con la concezione documentaria ottocentesca e come anello di congiunzione e avvio dell’avventura modernista. In quella prospettiva attenta alla fotografia come elemento costitutivo della modernità, poco spazio era concesso alle vicende italiane poiché “per molti anni, per tutto l’Ottocento e fino a questo dopoguerra, salvo rare punte isolate, la fotografia italiana risente del tono provinciale delle arti figurative, del giornalismo, della ricerca scientifica e, in genere, della mancanza di strutture del nostro paese”. Così il parco elenco di nomi considerati (oltre ai grandi studi: da Alinari a Sommer) comprendeva solo Cugnoni, Michetti, Morpurgo, Nunes Vais e Primoli, vale a dire tutti e soli quegli autori i cui fondi (con l’eccezione di Cugnoni e Primoli) erano stati acquisiti dal GFN nei primissimi anni Settanta[214] proprio per iniziativa di Bertelli. Alcuni di questi erano inoltre stati oggetto di recenti monografie edite dalla casa editrice Einaudi, di cui Bertelli era consulente, curati da studiosi romani a loro volta dipendenti (Miraglia) o in stretto contatto (Porretta) col Gabinetto Fotografico Nazionale e quindi con l’Istituto Nazionale per la Grafica di cui lo stesso Bertelli era stato via via direttore[215]. Il ruolo svolto dallo storico dell’arte milanese nella formazione e nella promozione di una cultura storica della fotografia in Italia e per la tutela del patrimonio prodotto nel corso di quella stessa storia è stato fondamentale, sebbene nella sostanza prevalesse ancora in lui il riconoscimento delle qualità del “fotografo interprete sensibile dell’oggetto”[216], vale a dire una concezione documentaria, per quanto raffinata, della fotografia. Altrettanto rilevante fu lo sforzo di portare questi temi all’attenzione del più vasto pubblico amatoriale, provandosi ad utilizzare sapientemente il canale offerto dalle riviste di settore per avviare iniziative che era allora impossibile proporre né tantomeno realizzare in quella che avrebbe dovuto essere la loro sede istituzionale.
I primi contatti con “Popular Photography Italiana” risalivano al 1970, quando Bertelli scrisse a Gilardi in risposta a “un suo gustoso articolo” comparso nel numero di aprile, per lamentare il fatto che, se si fossero incontrati, il Direttore avrebbe potuto fargli risparmiare “qualche grossa inesattezza”; in quella stessa occasione suggeriva che “Popular Photography dibattesse a fondo il problema della documentazione fotografica del patrimonio artistico, magari in una tavola rotonda cui sarei lieto di partecipare. Penso infatti che sia buon giornalismo risalire alle fonti.”[217] Nei successivi scambi epistolari Gilardi[218] propose, anche “a nome del direttore”, la stesura “di un articolo che la nostra rivista sarebbe lusingata di pubblicare”, trovando consenso in Bertelli che lo intendeva “come avvio di un dibattito più ampio.”[219] Ebbe così inizio un’importante per quanto problematica collaborazione che nel maggio 1971 vide la messa in cantiere di un censimento concepito da Bertelli che avrebbe dovuto essere condotto da “Popular Photography Italiana”: si trattava di realizzare “un repertorio degli archivi fotografici, sull’esempio di quello prodotto dalla Direction de la Documentation in Francia (1966), pubblicando in appendice al periodico una serie di schede “sul tipo di quelle francesi”, anche in considerazione del fatto che “naturalmente ci vorrà molto perché da noi un ministero compia un lavoro del genere.”[220] Il direttore della rivista accolse l’invito[221] proponendo a sua volta una collaborazione al periodico sotto forma di “rubrica fissa storica” che segnalasse anche le attività del GFN; nei giorni immediatamente successivi venne stabilito il titolo (Entroterra fotografico[222]) e definita una scaletta per i primi numeri: Morpurgo, Chigi, Valenziani, Cugnoni, Michetti, temi sui quali Lanfranco Colombo avrebbe poi coinvolto il GFN nell’edizione del SICOF di quell’anno.
Il censimento era a sua volta accompagnato da un Questionario agli uomini d’immagine, che aveva lo scopo di “accertare quanto la cultura fotografica entri nel bagaglio normale delle persone interessate all’immagine e di avviare in grandi linee un censimento delle raccolte fotografiche esistenti in Italia”, intendendo però prevalentemente quelle professionali (fotografi e agenzie) piuttosto che quelle istituzionali.[223] Il questionario apriva con la richiesta di informazioni in merito all’eventuale acquisto di fotografie, alla loro tipologia, cronologia e quantità, chiedendo infine di indicare le ragioni di quella raccolta e se la professione dell’intervistato avesse qualche “attinenza con l’immagine”. Nessun cenno invece, per quanto marginale, alla formazione culturale e agli eventuali mezzi per raggiungerla e aggiornarla (libri, mostre, periodici), ciò che rendeva piuttosto singolare lo stesso scopo dichiarato in apertura. Le parti destinate al vero e proprio censimento (“Repertorio alfabetico” e “Repertorio analitico”) confermavano il carattere strumentale dell’indagine, prevedendo oltre ai dati anagrafici del proprietario o del responsabile della collezione, una breve descrizione “al massimo di una ventina di righe” e la qualificazione professionale del titolare (Agenzia o fotografo professionista, per settore; editore; “servizio pubblico”; collezionista; “uno specialista che aggiunge la fotografia alla sua attività principale”). A queste informazioni seguiva una più articolata indagine quantitativa per generi (arte, ritratti, usi e costumi, istituzioni, fotografie scientifiche, ecc.) e tipologia (b/n o colore).
A chiusura del SICOF di quell’anno, che nella propria sezione culturale aveva ospitato una mostra dedicata a Michetti[224] e un incontro col direttore del GFN, Bertelli scrisse alla rivista un “letterone post-Sicof”[225] che il redattore capo Pier Paolo Preti decise però di non pubblicare perché “dal punto di vista redazionale (cioè del pubblico destinatario) la lettera risulta un po’ confusa”.[226] A questo rilievo il mittente rispose notando che “la lettera era stata letta da diverse persone prima di inviarla, ed era apparsa chiara a tutti, ma evidentemente non ci configuravamo il lettore-tipo di Popular photography sul modello del lettore di Grand Hotel.” Ciò che però gli premeva maggiormente era che si fosse lasciata cadere l’ipotesi di censimento, rispetto alla quale Preti confermava invece l’interesse del periodico, specie in quella fase in cui se ne stava ridefinendo l’impostazione. Nella lettera in questione Bertelli aveva lamentato anche lo scarso interessamento del pubblico del SICOF, “venuto essenzialmente per vedere i films [sic] di e su Michetti, sull’argomento che mi sta più a cuore, che è, per enunciarlo in termini burocratici, quello del contributo del fotografo alla conservazione e alla fruizione del bene culturale. Sono anzi gratissimo a Franco Leonardo [sic, per Ferdinando] Scianna, che con un paio di interventi calzanti mi ha consentito di accennare (…) ad alcuni dei temi più pressanti.” Scianna fu in quell’occasione, con Jean-Claude Lemagny, Giorgio Lotti e Lamberto Vitali, tra i pochi a intervenire al dibattito intorno a un possibile “Museo fotografico”, sollecitato anche da una piccola mostra del Cabinet des Estampes della Bibliothéque Nationale di Parigi, curata per quella stessa edizione da Lemagny, alla cui conferenza di presentazione però – notava sconsolato Bertelli – “c’eravamo, se ricordo bene, soltanto Lei [L. Colombo], io e [Lello] Mazzacane; un isolamento vergognoso, che fa temere che la sensibilità a un problema grave di organizzazione culturale sia scarsissima quando non vi sia la prospettiva di un inserimento in un apparato industriale.”[227]
La sezione culturale del SICOF (dal 1969) era un’invenzione e una creatura di Lanfranco Colombo[228], una delle figure centrali della fotografia italiana della seconda metà del Novecento, che contribuì non poco a sviluppare l’interesse per la fotografia storica nel nostro paese presentando nelle diverse edizioni non pochi autori e temi che negli anni successivi avrebbero goduto di grande interesse: dalla produzione degli Alinari (1969 e 1977) a Naya (1977); dalle fotografie del brigantaggio (1970)[229] a quelle dell’emigrazione italiana nelle Americhe (1973), ottenendo però scarsi riscontri poiché “la recente riscoperta della fotografia in Italia non nasce dal momento di una politica culturale anche nostrana, ma piuttosto di rimbalzo: dagli USA, dalla Francia, dall’Inghilterra (…) E non è solo un problema di egemonia economica.”[230] Nel marzo del 1966 Colombo era divenuto comproprietario e condirettore di “Popular Photography Italiana”, pubblicata dal 1957 come edizione italiana della testata statunitense sotto la direzione dell’architetto Alessandro Pasquali[231]; col numero 105 la testata si rese indipendente dall’edizione americana e la rivista uscì con una nuova veste, dovuta a Giancarlo Iliprandi. Crebbe in quegli anni anche lo spazio dedicato ad argomenti di storia della fotografia, con interventi tra gli altri di Gilardi, Settimelli, Turroni e Schwarz, redattore dal 1970, mentre si avviava una collaborazione con il fotografo e scrittore praghese Petr Tausk, al quale venne affidata una rubrica dedicata a La fotografia del ventesimo secolo. Appunti per una storia della fotografia, accompagnata da Note storiche redatte da Giuseppe Turroni[232]. Nulla più che uno zibaldone di considerazioni varie ma certo un inizio e un indizio. Col 1971 l’interesse si accrebbe, se pure non si può dire che si precisasse, con le collaborazioni degli studiosi legati al GFN e con gli interventi di Jean A. Keim e Oreste Grossi, in collaborazione con Gilardi, alle soglie del nuovo mutamento di testata: dal 1972 la rivista assunse infatti il nome de “Il Diaframma – fotografia italiana” per diventare poi semplicemente “il Diaframma”[233], come la galleria aperta da Lanfranco Colombo a Brera nel 1967, la prima ad essere esclusivamente dedicata alla fotografia. Nell’opinione di Ando Gilardi[234] la prima “versione italiana, arricchita con poveri testi tecnici e critici di produzione locale, fu in principio ancor peggiore di quella americana” nonostante la presenza di un redattore capo, poi condirettore, come Pietro Donzelli e di una rinnovata serie di collaboratori qualificati che comprendeva tra gli altri Piero Raffaelli, Luigi Crocenzi, Morando Morandini, Bruno Munari, Gualtiero Castagnola e Piero Racanicchi, ai quali ultimi Beaumont Newhall espresse in quegli anni il proprio apprezzamento “dal momento che nessun altro periodico di fotografia ha mai avuto la costanza di ospitare in ogni suo numero articoli di tal genere.”[235] Tra i rari interventi dedicati ad autori italiani sulle pagine della rivista[236], particolarmente significativo risulta ancora oggi il breve ma denso saggio del 1961 che Racanicchi dedicò a quello che era allora il solo nome italiano a godere di fama e considerazione internazionali: Vittorio Sella[237]. L’interesse del testo non risiedeva tanto nell’analisi critica del grande fotografo quanto piuttosto in alcune considerazioni di ordine generale e di metodo che l’autore pose significativamente in apertura: “A volte mi domando se sarà mai possibile tracciare un disegno organico della fotografia italiana. Dalle prime ricerche, che qualcuno di noi ha già condotto, è emerso chiaramente e dolorosamente il vuoto lasciato da collezioni e documenti scomparsi per motivi attribuibili all’incuria ed alla leggerezza di coloro che avevano in consegna tale materiale. Specie se risaliamo indietro nel tempo, agli anni lontani del dagherrotipo e del collodio, sentiamo il peso di questa lacuna; ed allora ci rendiamo materialmente conto di quanto sia significante, in questo lavoro di ricerca, la mancanza di elementi concreti e di riferimenti precisi. Uno storico della fotografia che si rispetti, infatti, non può prescindere dallo studio diretto del materiale riferentesi ad autori dei vari periodi presi in esame. (…) Ne viene fuori un panorama della nostra fotografia che manca di compiutezza e di sintesi. E questo non può che disorientarci nel nostro lavoro di ricerca, specie se consideriamo il vantaggio competitivo dei critici americani, francesi ed inglesi, ben assistiti e coadiuvati da istituzioni ed enti, pubblici e privati, che da tempo e con cura si sono assunti il ruolo di archivisti scrupolosi di una massa di immagini fotografiche, che oggi vengono offerte allo studio attento degli storici e dei ricercatori. In Italia, probabilmente – proseguiva Racanicchi – fece difetto agli enti pubblici ed ai mecenati privati, una opportuna valutazione del significato informativo ed estetico di questo moderno linguaggio, proprio perché fu estranea alla coscienza dei più una idea precisa della sua moderna funzione sul piano dei valori visivi. (…) Trascurando così di valutare per le sue effettive possibilità un mezzo tra i più funzionali nel settore del linguaggio figurativo, gli italiani negarono alla fotografia quel credito di cui essa invece aveva bisogno. Perciò i nostri fotografi – molti sono gli anonimi o quasi – fecero del loro lavoro una seria produzione artigianale e niente di più, tralasciando le impegnative ricerche estetiche che difficilmente avrebbero avuto un pubblico men che disattento ed indifferente.” Analisi lucidissima, che non solo denunciava con largo anticipo lo status assegnato dalla cultura italiana al patrimonio fotografico, ma individuava – anche storicamente – nelle nostre condizioni socio culturali le ragioni e i condizionamenti che avevano connotato come ‘artigianale’ la produzione italiana, senza limitarsi – come invece aveva fatto Vitali, col quale condivideva le preoccupazioni per la dispersione del patrimonio – a segnalarne quasi di sfuggita i “frutti saporiti”. Questo e altri articoli monografici di Racanicchi vennero poi raccolti in due fascicoli di “Critica e storia della fotografia”[238] ma la rubrica che li ospitava ebbe vita breve; “poiché – come ricordava Renzo Chini – non vi era motivo intrinseco di interrompere tale rubrica, forse la prima del genere mai tentata, almeno in Italia, è da supporre che la sospensione sia stata la conseguenza del poco gradimento da parte dei lettori della rivista. La nostra ipotesi è avvalorata da giudizi ingiusti e insipienti su quegli articoli da noi ricevuti oralmente anche da parte di dilettanti così detti evoluti.”[239]
Tra istanza revivalistica e interpretazioni psicanalitiche, ma anche con intenti di ricostruzione storica, si produssero tra anni Sessanta e Settanta una trentina tra volumi e cataloghi di mostra di argomento locale. Eterogenei per impostazione e interesse, molti di questi rimandavano sin dal titolo a una equivoca nostalgia dello sguardo, ricorrendo più volte a lemmi come “ieri”, “cent’anni fa” (e varianti), “antica”, “vecchia” (Asti, Bergamo, Oneglia, Torino); accanto a questi si potevano trovare alcuni, ancora pochi esempi di approccio storico e storiografico più consapevole[240], quali la pubblicazione nel 1963 del facsimile dell’album di Edouard Delessert del 1854 dedicato alla Sardegna[241], e i primi studi di storia della fotografia a Roma di Piero Becchetti, tra cui la mostra Roma cento anni fa nelle fotografie del tempo[242], che costituiva di fatto l’anello di congiunzione con l’iniziativa analoga curata da Silvio Negro nel 1953, anche per la presenza tra i curatori di Giovanni Incisa della Rocchetta, che era stato uno dei membri di quel Comitato esecutivo. A quella avrebbero fatto seguito negli anni successivi la monografica dedicata a Enrico Valenziani, con immagini provenienti dal fondo omonimo del GFN, e la mostra itinerante dedicata a Roma intorno alla metà del XIX secolo, con fotografie provenienti da collezioni romane e danesi, che dopo Palazzo Braschi venne presentata al Museo Thorwaldsen di Copenhagen e al Museo Ludwig di Colonia.[243] Pur con le dovute differenze queste mostre romane, come altre analoghe torinesi degli stessi anni[244], fondavano il loro interesse, e l’impianto storico critico che le sosteneva, sul delicato equilibrio tra rappresentante e rappresentato, certo imprescindibile e fondante per questo genere di fotografia documentaria, ma con una eccessiva accentuazione del secondo termine della relazione, orientandole ancora verso una storiografia urbana che vedeva nelle fotografie la propria fonte più accattivante e ostensibile.
Un primo tentativo di spostare l’accento sul patrimonio fotografico in quanto tale, quindi anche sugli autori e sulle opere fu proposto da Giorgio Avigdor, fotografo e collezionista, che ideò e diresse una prima ricerca sistematica presso le principali istituzioni della regione, poi confluita nella mostra Fotografi del Piemonte 1852-1899[245], riconosciuta come “una tappa metodologica importante [che] costituirà un modello di ricerca per mostre successive.”[246] Il catalogo valorizzava sin dal sottotitolo la presenza delle “duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana” presentate in mostra, ciascuna corredata da una scheda descrittiva che – nonostante le indicazioni dichiarate[247] – non contemplava la tecnica ma forniva ogni altra indicazione catalografica (titolo, data, misure, iscrizioni, collezione di appartenenza); anzi, a sottolineare l’importanza di quei dati le “schede delle opere esposte”, accompagnate da brevi note biografiche e dalla bibliografia relativa a ciascun fotografo, precedevano le riproduzioni a piena pagina, purtroppo stampate in un uniforme inchiostro seppiato. Scopo primo della ricerca era stato, ancora, quello di utilizzare e confrontare “materiali prodotti negli anni della prima diffusione del mezzo fotografico in Piemonte (…) per le sue implicazioni dirette con la storia dei luoghi”[248], ma arricchito da più complesse suggestioni originate dalla lettura di un dialogo in cui Carlo Bertelli e Giovanni Romano[249] avevano invitato a riflettere sull’efficacia dello studio dell’antica fotografia per gli autori delle nuove generazioni. Accanto alla funzione storico documentaria se ne riconosceva così la sua valenza di forma espressiva, di manifestazione di cultura che necessitava di essere studiata e materialmente salvaguardata. I due contributi in catalogo di Maria Adriana Prolo[250] e di Rosanna Maggio Serra[251] davano conto delle prime attività dagherrotipiche a Torino, non considerate dalla ricerca, e dell’importante fondo di documentazione archeologica e architettonica raccolto da Alfredo d’Andrade, senza tentare – se non tangenzialmente – un primo profilo storico complessivo; quello che avrebbe ricostruito Marina Miraglia pochi anni più tardi[252]. La ricerca, la mostra e il catalogo che ne dava conto presentavano rilevanti elementi di novità rispetto al povero panorama italiano, a partire proprio dalla volontà di fornire i primi elementi utili a ricostruire storicamente l’attività fotografica in quel preciso contesto territoriale e culturale. Da quei presupposti derivava la definizione delle stesse modalità dell’indagine, condotta prevalentemente in archivi pubblici e biblioteche, facendo emergere per la prima volta un patrimonio negletto, ora accuratamente studiato facendo ricorso a fonti primarie coeve e presentato in originale. L’approfondimento dell’analisi, sollecitato se non imposto dal misurarsi con un contesto circoscritto, e il confronto con le fonti, che obbligava a rinunciare alle generalizzazione e alla genericità, fornivano le prime occasioni per elaborazioni metodologiche di portata più generale, mentre la progressiva estensione del repertorio dei fotografi attivi in Italia offriva la base per delineare progetti di più ampio respiro.
Più complessa e articolata dell’esempio piemontese si presentava in quello stesso 1977 la mostra fiorentina dedicata agli Alinari[253], curata da Settimelli e Filippo Zevi, nuovo titolare della società dopo la scomparsa di Vittorio Cini che l’aveva fortemente voluta, marcando una svolta significativa nella considerazione della ditta fiorentina del valore storico ed economico del proprio patrimonio. Diversamente da quanto si era fatto per Fotografi del Piemonte, per la grande mostra al Forte Belvedere, poi trasferita a Torino a Palazzo Reale[254], si era scelto di ristampare e ingrandire le vecchie lastre “con le tecniche più aggiornate” invece di esporre gli originali, “così – dichiarava Zevi – la fotografia rispetta il suo compito primario: che è di trasmettere una ‘registrazione’, qualunque essa sia”[255], privilegiando ancora la consolidata funzione e concezione referenziale, sottoposta invece a stringente verifica nei numerosi, importanti saggi in catalogo. Questi costituivano dal punto di vista storico critico la vera, determinante novità del progetto e dimostravano in concreto la necessità e la possibilità di affrontare i diversi aspetti della storia della fotografia con i più affilati strumenti metodologici.
Il volume apriva con una attenta ricostruzione delle vicende della famiglia Alinari, redatta da Settimelli in uno stile insolitamente sobrio, ed era corredato di un accurato regesto delle opere esposte, che per ciascuna immagine riportava gli elementi identificativi delle lastre originali[256]. Una prassi certamente importante ma viziata da una contraddizione interna, avendo come esito la descrizione puntuale di oggetti non corrispondenti a quelli esposti e pertanto ignoti all’enorme pubblico di visitatori[257], sebbene potesse forse trovare una qualche ragione d’essere nella volontà di soddisfare contemporaneamente esigenze di comunicazione divulgativa e di correttezza metodologica, almeno tendenziale. Una lettura criticamente attrezzata qualificava invece la sezione dedicata alla documentazione d’arte, curata da Massimo Ferretti con Alessandro Conti ed Ettore Spalletti, tre giovani storici dell’arte formatisi tra Bologna e Pisa. Il primo affrontava il tema nodale della ridefinizione storico critica dei concetti, e dei rapporti, tra traduzione e riproduzione, a partire dalla constatazione che “non sembra infatti opportuno presentare l’avvento della fotografia nella riproduzione d’arte come una frattura immediata e totale, un rapido voltar d’angolo, dietro il quale si incontrerebbero subito I Maestri del Colore e le tardive, spesso un poco talmudiche, letture italiane di Walter Benjamin”[258]; meglio seguire “le tappe di quella rivoluzione frenata e non sempre avvertita che fu la riproducibilità dell’opera d’arte”, coniugando trasformazioni tecnologiche (nella capacità di trascrizione del colore, ad esempio[259]) e allargamento delle fasce culturali e sociali degli stessi destinatari, dal momento che “la fotografia diventò uno strumento di conoscenza più facile e immediato”, per la cui lettura non era più necessaria la competenza specifica del conoscitore di stampe. “La fotografia d’arte – proseguiva Ferretti – è un codice non meno complesso di quelli stabiliti nei vecchi procedimenti, ma il suo utilizzo è più vasto e meno specializzato. Per questo motivo le testimonianze degli ‘addetti ai lavori’ sull’importanza e sulla funzione della fotografia nello studio dell’arte non vanno sopravvalutate.” Mostrando una certa sintonia con Gilardi ricordava infine come l’utilizzo della riproduzione fotografica non avesse più che tanto influito sulla disciplina storico artistica e sul suo insegnamento, poiché semmai “la svolta si avverte acuta e definitiva (…) quando la fotografia esce dalle cartelle dei collezionisti ed entra nei libri d’arte.” Le due altre sezioni, dedicate rispettivamente a Firenze e all’attività ritrattistica, erano curate da un gruppo di studiosi di diversa formazione[260], alcuni dei quali avrebbero poi dato vita all’Archivio Fotografico Toscano. Mentre il testo di Silvestrini su Firenze restituiva il contesto storico economico degli anni considerati dalla mostra, senza affrontare il problema del cosa e del come gli Alinari avevano raccontato la loro città contribuendo non poco alla sua fortuna turistica, l’intervento di Fernando Tempesti, che solo l’anno precedente aveva curato una mostra dedicata ad analoghi temi[261], entrava nel merito dei modi e degli stilemi della loro produzione ritrattistica, utilizzando quale termine di confronto i ben noti “appunti pratici per chi posa”, dati alle stampe da Carlo Brogi nel 1895[262]. A considerarlo oggi il saggio di Tempesti presenta ancora una scrittura convincente ma notevoli limiti metodologici e più propriamente storiografici: nell’adottare quel testo e nello svolgere le proprie riflessioni, infatti, lo studioso non aveva tenuto conto di alcuni elementi che appaiono con grande evidenza determinanti, a partire dal fatto che Brogi si rivolgeva al soggetto piuttosto che all’operatore. Pur volendo prescindere da quell’artificio retorico restavano però aperte almeno altre due questioni altrettanto dirimenti: che esistesse una corrispondenza, non dimostrata, tra i modi di Brogi e quelli di Alinari, e che le modalità e i canoni adottati nei loro primi ritratti, datati verso il 1860, fossero rimasti immutati in quel trentennio cruciale che li separava dalla pubblicazione del ‘manuale’, redatto ormai a ridosso del nuovo secolo.
La mostra fiorentina costituì il primo evento di risonanza mediatica legato alla valorizzazione del patrimonio fotografico storico, privato in termini economico produttivi ma pubblico per incidenza culturale, che invitava a letture spinte oltre la superficie documentaria: “La mostra degli Alinari a Firenze – scrisse Stefano Reggiani – ha fatto capire che quando al documento si aggiunge l’autore, la vecchia fotografia diviene preziosa e articolata come un saggio. Per esempio, i monumenti d’Italia sono stati inventati dagli Alinari, che ne hanno stabilito in celebri immagini la forma ufficiale, la prospettiva vincolante. Ma come? Con che diritti? Diventando interpreti della realtà anche artistica, sovrapponendo alla bellezza una loro lucida, un pochino frigida e punitiva inclinazione moralistica. E così la gente, gli interni fotografati dagli Alinari sono documenti già elaborati e consegnati agli storici con un’aggiunta che bisogna ‘togliere’ e valutare.”[263] Una breve notazione giornalistica, certo, ma ben consapevole della necessità di superare il puro dato referenziale per interrogarsi sulla funzione culturale, di prodotto e produttore di cultura, di una certa cultura, di quelle fotografie e dei loro autori.[264]
A quelle prime analisi monografiche (una regione, un’impresa) si affiancò poco dopo un’indagine di taglio orizzontale, che considerava tutto il territorio italiano: il fondamentale repertorio che Piero Becchetti dedicava a Fotografi e fotografia in Italia[265], adottando una titolazione che avrebbe avuto nei decenni successivi grande fortuna editoriale in opere declinate a scale diverse. Il lavoro, presentato da Fortunato Bellonzi come il “primo contributo sistematico ad una storia della fotografia in Italia che è ancora da scrivere”, era per larga parte fondato sulla raccolta personale dello studioso, testimoniando ancora una volta il legame strettissimo tra pratica collezionistica e storiografia che caratterizzava molte produzioni di quegli anni. Esso costituiva cronologicamente il frutto maturo di quel decennio che possiamo far iniziare con la pubblicazione del saggio di Vitali dedicato a Primoli, di cui diremo, e che si sarebbe di lì a poco compiuto con la pubblicazione del secondo volume degli “Annali” della “Storia d’Italia” edita da Einaudi. Il riferimento alla propria personale passione collezionistica posto in apertura, sebbene sotto tono, trovava la propria ragione e giustificazione anche nella quasi totale assenza di ricerche a scala regionale o locale che avrebbero potuto svolgere per lo studioso la funzione di fonti secondarie, mentre di una certa utilità era risultato il ricorso ad alcuni titoli stranieri, compresi i cataloghi di vendita delle principali case d’asta. Delle circa duecento immagini pubblicate, la prima ricca esemplificazione a scala nazionale, Becchetti forniva indicazioni in merito ad autore, soggetto, data, formato e tecnica, corredando a volte la didascalia di brevi note di contenuto, ricalcando cioè il modello editoriale utilizzato da Vitali, di cui riprendeva anche alcune formule testuali[266]. Il saggio introduttivo aveva andamento cronologico: dalla diffusione della notizia dell’invenzione alle relazioni di Talbot con studiosi italiani sino a “L’impero del collodio”, ampiamente trattato con approfondimenti relativi ad alcuni particolari ambiti di applicazione quali il ritratto, la stereoscopia e la fotografia scientifica, a cui si aggiungevano tre brevi capitoli di più ampia contestualizzazione. Da questi si distingueva quello relativo alla Grande panoramica con i combattimenti del 1849, con un salto di scala e di ambito che risultava difficilmente comprensibile nell’economia generale del volume ma che era dettato dalla volontà, poi frustrata, di pervenire a una corretta datazione di quella discussa immagine a partire dall’analisi dei referenti urbani, non considerando però quelli oggettuali né la tecnica, come se – ancora – la fotografia fosse in sé trasparente.[267] I singoli capitoli derivati dalla “umiltà severa della ricerca di Becchetti”[268] costituivano a quella data la più compiuta sistematizzazione dei periodi considerati, condotta con ampi riferimenti alle fonti archivistiche e bibliografiche coeve, non solo italiane, ciò che gli consentì di correggere e precisare alcuni dati forniti dai pochi studiosi precedenti che si erano misurati specialmente con la ricostruzione del periodo delle origini, da Silvio Negro a Maria Adriana Prolo, e di fornire alcune chiavi interpretative che dovevano favorire, in anni di sostanziale ignoranza del tema, una prima, diffusa comprensione dei fenomeni storici connessi alle innovazioni tecnologiche come la riproducibilità del calotipo o l’introduzione del negativo di vetro con emulsione al collodio, quando “la fotografia (…) cessò di essere considerata una meraviglia ottica o una curiosità. Con la folgorante introduzione del collodio termini come dagherrotipia e talbotipia, che pure avevano suscitato deliranti entusiasmi, vennero presto dimenticati ed eliminati dall’uso comune”. Un altro punto di svolta da lui precisamente indicato fu l’industrializzazione dei materiali sensibili e la conseguente diffusione amatoriale della pratica fotografica, portando di fatto – come per Negro e Vitali – alla conclusione della “grande stagione” della fotografia (in Italia e non solo). In quella periodizzazione andavano perciò individuate le ragioni, per altro non esplicitate, dell’arco cronologico considerato dalla sua ricerca, ma del resto questo lavoro di Becchetti si proponeva non tanto come una storia quanto come un repertorio (anzi, per molto tempo a venire: il repertorio) originato e condizionato dalla sua stessa, preziosa passione collezionistica piuttosto che dall’applicazione di un metodo in senso proprio. Le ragioni critiche credo possano essere invece riconosciute nella condivisione delle opinioni espresse dai maggiori studiosi che lo avevano preceduto: “Nonostante la rapida diffusione del mezzo fotografico e la sua immediata fortuna, la fotografia in Italia non ebbe personalità di rilievo tali (…) da farla considerare una fotografia d’eccezione. Essa ebbe uno sviluppo simile a quello di altre nazioni europee dove la produzione non raggiunse vertici altissimi pur esprimendosi attraverso valenti e qualificati artisti.” Oltre a questo giudizio pesava la consapevolezza, altrettanto condivisa, della necessità imprescindibile della ricerca di base, e delle sue lacune: “Dopo i pochi qualificati saggi che sono stati pubblicati sulla fotografia italiana, attualmente siamo in condizione di poter affermare che in Italia si è fotografato molto e bene ma non siamo ancora in grado di poter dare un giudizio critico complessivo a causa del grave ritardo con il quale nel nostro paese sono stati intrapresi questi studi. Per questo motivo, gran parte del materiale fotografico è ancora disperso in mille rivoli di difficile accesso o peggio ancora molto è andato inconsultamente distrutto. Solo quando il patrimonio fotografico residuo, che giace ancora negletto in biblioteche, archivi o soffitte, avrà avuto l’esatta collocazione storica e critica, integrata anche da ampie ricerche presso musei e biblioteche straniere, sarà possibile valutare nella sua interezza la fotografia italiana.”[269] Di quale potesse essere l’entità di questo patrimonio residuo dava indirettamente conto l’incredibile repertorio di circa 1.300 fotografi attivi in Italia dal 1839 al 1880 che costituiva la parte più rilevante e il contributo fondamentale di questo lavoro di Becchetti per la costruzione di una storia della fotografia nel nostro Paese, ordinato topograficamente per luogo di attività. Di ciascuno erano fornite informazioni di diverso livello e rilevanza, condizionate dalla disponibilità delle fonti, nella gran parte costituite dai soli supporti secondari dei fototipi reperiti, di cui in alcuni casi venne fornita la riproduzione, mentre solo per i maggiori Becchetti poteva disporre di documentazione bibliografica o archivistica, a sua volta indizio del loro contributo alla cultura e non solo alla pratica della fotografia; mi riferisco alle schede dedicate a grandi tecnici come Giuseppe Venanzio Sella, di cui ancora non era nota la produzione fotografica, Luigi Borlinetto o Giuseppe Pizzighelli e agli editori dei primi periodici come Ottavio Baratti e Antonio Montagna.
Con quelle iniziative si andavano delineando due distinti e per certi versi opposti filoni di ricerca, rivolti rispettivamente alla definizione di un contesto o all’approfondimento autoriale (dall’amateur ai grandi studi). La ricerca condotta da Becchetti aveva per la prima volta tentato la messa a punto di un repertorio sistematico, mentre la mostra dedicata agli Alinari, pur condividendone la dimensione territoriale (qui garantita dall’areale geografico della loro attività) rappresentava un importante modello di studio monografico, che da noi aveva ancora pochi precedenti, specialmente se espresso sotto forma di catalogo di mostra.
Un importante ruolo di promozione era stato svolto in tal senso dalle iniziative realizzate dal CIFe, il Centro Informazioni Ferrania, istituito nel 1961 dalla società omonima e chiuso nel 1972[270]. Il primo direttore era stato Guido Bezzola, capo delle pubbliche relazioni della Società Ferrania e direttore della rivista omonima, poi docente di Letteratura italiana all’Università statale di Milano, che firmò il testo della mostra dedicata alle Immagini del Risorgimento[271] (1967), prodotta ancora come Ufficio stampa e pubbliche relazioni della società. Quando la direzione passò a Marcantonio Muzi Falconi dopo l’acquisto da parte della 3M Italia vennero realizzate altre mostre di interesse storico, con cataloghi editi in collaborazione con la Cooperativa ”Il libro fotografico” di Bergamo, nata per iniziativa di Antonio Arcari, Cesare Colombo e altri[272]. Scopo della cooperativa era quello di “pubblicare libri che rispondano a certe esigenze di ordine ‘ideologico’, non nel senso politico certamente, ma nel senso di un nostro particolare modo di intendere la fotografia”[273], dando vita a “una attività editoriale fotografica culturale in un senso abbastanza largo del termine”, ma senza perdere di vista gli aspetti commerciali dell’impresa. Tra gli argomenti prospettati, tutti segnati da un preciso intento sociale e politico, “La condizione della donna in Italia” (…) “emigrazione, Scuola, Sport ecc. [che] potrebbero essere i titoli di una collana di ‘Storia italiana’, un progetto che da tanto sta a cuore di molti di noi.” Accanto ai volumi era prevista una “attività marginale, di minor impegno economico, ma di più precisi interessi culturali (…) rivolta all’attuazione di due ‘quaderni’ di 60-80 pagine che trattino problemi di storia e di cultura fotografiche, soprattutto nelle sue relazioni con il mondo della pittura e della grafica. La critica fotografica e gli agganci che essa ha creato in questi ultimi anni con i cultori di altre discipline è in grado di realizzare saggi che possono proporsi come contributi alla conoscenza e all’approfondimento di aspetti particolari e a volte decisivi della nostra civiltà dell’immagine. Per esempio: la fotodinamica futurista. Il fotomontaggio dada. Le rayografies [sic]. Toulouse Lautrec e la fotografia. Nascita del fotoromanzo. ecc.”[274] Ipotesi particolarmente suggestive e innovative, si pensi all’attenzione per un prodotto popolare come il fotoromanzo, in alcune delle quali si riconosceva, forte, l’influenza di Piero Racanicchi, ma che per più ragioni si tradussero in uscite editoriali più ‘moderate’ come La famiglia italiana in 100 anni di fotografia (1968) e le monografie dedicate a Francesco Negri fotografo a Casale (1969) e a Giovanni Verga fotografo (1970), a ridosso della scoperta dell’archivio fotografico dello scrittore fatta da Giovanni Garra Agosta nel 1966[275]. Il riscontro cronologico dei materiali verghiani aveva subito mostrato come quella sua passione si fosse manifestata solo nella fase declinante della sua attività di romanziere (“compagna di giorni stanchi”, la definì con esattezza Bertelli[276]) aprendo quindi interrogativi non ovvi sul più ampio tema del rapporto tra verismo e fotografia, tra letteratura e pittura: da Capuana a Michetti, ma dal quale, solo per apparente paradosso, dovevano essere escluse proprio quelle immagini. “Possiamo istituire un parallelo tra la narrativa di Verga e la sua fotografia? Sarebbe troppo – scriveva Enzo Siciliano – Queste immagini che il tempo ha ingiallito sono state l’occasione, a volta a volta cercata, per distrarsi da una feroce ipocondria.”[277] In conseguenza di queste e analoghe valutazioni critiche, lamentava deluso Settimelli, “chi pensava che la scoperta di un Verga anche fotografo stimolasse una analisi più precisa del rapporto tra fotografia e verismo è stato, fino a questo momento, smentito dai fatti perché non è successo niente di niente. (…) quella del Verga fotografo mi pare sia stata una grande occasione fatta cadere anche dai ‘verghiani’ più preparati e soprattutto dagli studiosi dello scrittore siciliano che si rifanno a Marx e Gramsci.”[278]
La monografia dedicata a Francesco Negri[279] da un gruppo di studiosi coordinati da Cesare Colombo era stata invece l’esito di un primo incarico di ricerca assegnato a Settimelli e alla moglie Fridel Geiger dall’Amministrazione comunale di Casale Monferrato nell’ambito delle iniziative promosse nel 1967 per “studiare e sviluppare l’azione necessaria per la rivalutazione e la divulgazione dell’opera di Francesco Negri e per degnamente onorarne la memoria” in vista del cinquantesimo anniversario della morte (1974). Il Comitato appositamente costituito aveva già promosso una prima pubblicazione ampiamente illustrata da immagini del fotografo casalese ma in un contesto di ricostruzione delle vicende ottocentesche della città[280], mentre il nuovo volume affrontava tutti gli ambiti di applicazione della fotografia coi quali Negri si era misurato, ciascuno affidato a un singolo studioso, preceduti da un testo di inquadramento generale della sua figura a firma di Settimelli. La presenza di differenti competenze consentì diverse letture e contribuì certamente a mettere in rilievo l’interesse dell’opera e del ruolo da lui svolto nella cultura fotografica italiana coeva, specialmente in qualità di sperimentatore curioso e qualificato di varie tecnologie, sebbene poi mancasse ogni e qualsivoglia descrizione delle caratteristiche tecniche delle immagini pubblicate. Come ricordava Settimelli, Francesco Negri “ha sperimentato di persona, volta a volta, nuove tecniche e nuovi strumenti ed ha messo a punto attrezzature mai usate prima. (…) Usa lastre di ogni genere e formato”, e così via enumerando, ma poi mai che si dicesse delle immagini riprodotte quali fossero le misure del negativo (non essendo quasi sopravvissute stampe), quale l’emulsione e la data di ripresa[281]. Unica eccezione la sezione dedicata alle tricromie, curata da Fabrizio Celentano, in cui si ripercorrevano le vicende delle prime ricerche sul colore sino agli ultimi anni di attività di Negri, pur non considerando la comparsa coeva delle autocromie Lumière con le quali si era pur sporadicamente misurato. Le modalità applicate e il quadro che ne era risultato erano per molti versi stimolanti e innovativi ma non ancora compiutamente coerenti, incerti com’erano tra un certo revivalismo neppur troppo celato (forse attribuibile alle esigenze della committenza) e una propensione all’analisi storico critica non ancora sostenuta dagli strumenti e dalle metodologie necessarie.
Ben più autorevole e accurata era stata la ricostruzione storico documentaria offerta dalla monografia dedicata al conte Giuseppe Primoli[282], di cui Vitali decise finalmente di diventare l’ “illustratore” dando la stura a una sequela di titoli fondati sulle testimonianze fotografiche di questo autore che ha avuto pochi confronti in Italia[283]. L’uscita del volume si collocava a poco più di un decennio di distanza dalle prime entusiastiche segnalazioni e costituiva un omaggio alla cara memoria dell’amico Silvio Negro, a cui era dedicato. L’avvio dell’importante saggio era canonico, trattandosi dello sviluppo di tesi già ampiamente annunciate nei più brevi testi precedenti, mentre molto più netta e incisiva era l’enunciazione dell’ipotesi storiografica, che legava sviluppo tecnologico e innovazione linguistica: “quando, attorno al 1880, dalla negativa al collodio umido fu possibile passare a quella della gelatina secca, si può dire che veramente avesse inizio un tempo nuovo per le sorti della fotografia. Fu, ancora una volta, l’ingresso rinnovatore degli ‘irregolari’ della fotografia”. E più oltre: “la fotografia di reportage o di attualità, quale noi l’intendiamo, quella che ormai ci opprime e rischia di sopraffarci talvolta con una mancanza di tatto e di scrupoli veramente inscusabile[284], la fotografia con i personaggi in azione fu conseguenza naturale del ritrovato di lastre più sensibili, che abbreviarono i tempi di posa da minuti primi a frazioni di secondo; così tutto un nuovo modo di intendere la fotografia si apriva agli operatori e non soltanto a quelli che ne esercitavano la professione.” Oggi siamo più consapevoli della rilevanza e del ruolo che gli amateurs ebbero nella pratica e nella costruzione di una cultura della fotografia, ben prima del processo di massificazione consentito e avviato dalle emulsioni alla gelatina e – ancor più – dall’uso dei supporti plastici, ma la rilevanza della notazione di Vitali non può essere diminuita dal riconoscere che era (anche) strumentale alla migliore presentazione critica del protagonista del saggio, introdotta dalla messa a punto di una genealogia italiana del fenomeno che gli serviva per “spiegare come il caso dei due fratelli Primoli non possa essere considerato eccezionale se non per i risultati.” Basti a questo proposito confrontarla con l’interpretazione riduttiva del fenomeno espressa solo pochi anni prima da Helmut Gernsheim, per il quale “usando apparecchi piuttosto semplici e, nella stragrande maggioranza, privi di un’educazione specifica, questi nuovi dilettanti non avevano mai sentito parlare di teorie compositive e si limitavano a fare istantanee facili e spesso molto graziose. (…) Facendo fotografie unicamente per il proprio piacere, la maggior parte dei dilettanti della nuova generazione è rimasta sconosciuta. Per questa ragione l’opera di alcuni di loro è venuta alla luce solo recentemente. Le numerosissime fotografie che il conte Giuseppe Primoli fece tra il 1885 e il 1905, per esempio, descrivono con ammirevole immediatezza e straordinaria originalità di concezione infiniti momenti di vita romana, tanto dell’aristocrazia quanto del popolo minuto.”[285]
Dopo aver affrontato in termini metodologicamente significativi la questione attributiva, assegnando al solo Giuseppe la più parte del corpus di immagini superstiti, e di fatto relegando il fratello Luigi in posizione assolutamente marginale, Vitali affrontava l’analisi del suo lavoro secondo categorie che – un poco contraddittoriamente – ricavava dal reportage moderno, considerando Giuseppe Primoli “come un vero e proprio ‘primitivo’ del reportage”; un autore che “del fotoreporter ha l’occhio sicuro, la decisione pronta, la rapidità d’azione, la curiosità insaziabile e inesauribile di tutti gli aspetti della vita che si anima intorno a lui”; il desiderio – si potrebbe dire – di cogliere l’immagine di quella vita “passante frammentaria e fuggevole” di cui scriveva il contemporaneo Marcel Proust[286]. Quella sua disposizione “alla creazione di una serie di immagini (…) è la stessa pratica che adottano al giorno d’oggi tutti i fotoreporters a principiare dai più illustri (…), i punti di contatto con gli operatori attuali sono altri ancora e non meno singolari. Primoli insegue l’avvenimento e non se ne lascia sfuggire nessuna fase. (…) E ancora: anticipando di mezzo secolo i Cartier-Bresson e i Bill Brandt – e qui veramente precorre il gusto d’oggi – Primoli ritrae spesso non l’avvenimento, ma l’avvenimento riflesso nelle impressioni degli astanti”[287]. A quella analisi delle qualità narrative di questo autore avrebbe reso omaggio Carlo Bertelli[288] un decennio più tardi riconoscendo “quella divinazione letteraria – tanto bene individuata da Lamberto Vitali – che dava al Primoli la capacità d’intervenire tagliente come un epigramma, e sempre al momento giusto. (…) Primoli è il vero e geniale fotografo zoliano: è suo il miracolo di una ‘rappresentazione esatta della realtà’ (…) [poiché] accetta la totalità della fotografia, ossia la sua incapacità di selezione e di organizzazione dell’immagine altro che in rapporto al tempo. (…) Avido di notizie, scatta dello stesso episodio quattro, cinque lastre in rapida successione, trovando di continuo, nell’osservare la scena, uno sviluppo che aggiunge qualcosa al già detto, al già fermato, quasi con un senso infelice del tempo che già non è più, dell’ora irripetibile. Allora la difesa, se non si vuole essere trascinati da una mania sconfinante, è l’ironia, la garbata ironia”. Le ragioni di quella disposizione narrativa erano riconosciute da Vitali nell’essere Primoli “doppio memorialista, scrittore e fotografo”, tanto che “Primoli fotografo non si spiega se non con Primoli memorialista, si può dire che uno nasca dall’altro.” L’analisi proseguiva serrata, considerando i moduli compositivi adottati[289] per svilupparsi con grande finezza interpretativa anche a proposito di quegli aspetti che Vitali giudicava negativamente, come le opere “ispirate alla pittura del tempo” nelle quali riconosceva un gusto non solo “essenzialmente letterario” ma anche scarsamente sensibile alle proposte più innovative del momento, pur riconoscendo che Primoli “fu salvo” dalla tentazione “di ottenere, con stampe alla gomma o al bromolio, effetti che rivaleggiassero con quelli della pittura più scadente.”
L’autorevolezza di quel modello e il successo del volume determinarono una diffusa attenzione editoriale per la produzione amatoriale dei rappresentanti della nobiltà italiana a cavallo tra Otto e Novecento: così dopo le Memorie fotografiche di Francesco Chigi[290] si pubblicarono le conturbanti pose della Contessa di Castiglione accanto alle più familiari fotografie di Casa Pignatelli, di Giuseppe Caravita Principe di Sirignano, del Marchese di San Giuliano, di Wladimir d’Ormesson, di Vittorio Emanuele III ed Elena di Savoia[291] o dei Lorena in Toscana. In quella occasione la selezione dei materiali piuttosto che fornire complesse testimonianze di vita o far trasparire un peculiare sostrato ideologico consentiva semmai di riconoscere le forti affinità espressive con altre analoghe produzioni del fotoamatorismo borghese coevo, tanto da indurre i commentatori a non “nascondere, sotto sotto, un senso di delusione per aver scoperto un mondo che credevamo e volevamo diverso, meno banale e meno quotidiano; delusione alla quale si sostituisce però ben presto il piacere di una lettura più partecipata di una visione di persone, luoghi e vicende colte nella loro reale, e quindi più genuina e sincera, dimensione umana.”[292] Un caso non infrequente in cui l’analisi non si spingeva oltre quelle descrizioni retoricamente superficiali, riducendo così di molto l’interesse della pubblicazione dei materiali presentati.
Nobiltà e alta borghesia come committenti e produttrici di corpora fotografici inestricabilmente connessi a un’intenzione più o meno consapevole, se non proprio a un progetto di costruzione di un’immagine di classe[293], furono in quegli anni il soggetto privilegiato di saggi e mostre, come fu per il banchiere fiorentino Mario Nunes Vais, al quale tra 1974 e 1978 vennero dedicate ben due esposizioni con relativi cataloghi e due volumi monografici, tutti derivati dalla donazione del fondo fatta dalla figlia Laura Weil al GFN[294]. Quel gesto consentì al nuovo direttore Oreste Ferrari di avanzare l’ipotesi della costituzione di un museo della fotografia, utilizzando gli altri fondi conservati da quell’istituto: “troppo poco, forse, per presumere di parlare d’un vero e proprio Museo storico della fotografia italiana; ma intanto c’è un nucleo di base che consente almeno di assolvere dignitosamente parte di quei compiti di informazione e di promozione degli studi che del Gabinetto Fotografico Nazionale sono peculiari e che meglio esso potrà assolvere quando farà parte integrante di quel nuovo Istituto per il Catalogo e la Documentazione dei Beni Culturali che è previsto dal progetto del Ministro Spadolini.”[295] Diametralmente opposta, decisamente riduttiva in termini di potenzialità museale e preciso sintomo di una divergenza nella definizione dei reciproci ruoli istituzionali ben riconoscibile ancora oggi, l’opinione di Bertelli, passato alla direzione dell’ING, che riteneva invece che fosse “da escludere che il vecchio Gabinetto Fotografico, ora confluito nell’Istituto Centrale per il Catalogo, possa essere ancora un promotore di cultura fotografica. Nella situazione attuale sarebbe innaturale. L’Istituto del Catalogo si occupa del catalogo delle opere d’arte. È il suo compito primario, e compie ogni sforzo per assolverlo. Quando il Gabinetto Fotografico fu assorbito dal nuovo Istituto proposi che le sue raccolte storiche fossero assegnate al nuovo Istituto per la Grafica, dove la fotografia avrebbe avuto un posto diverso, quello documentario.[296] Mi sembrava che le fotografie di attori di Nunes Vais, quelle della bella gente di Mario[297] Chigi, quelle dell’industria lombarda di Bombelli, o quelle del mondo meridionale di Michetti (tutti fondi che avevo acquisito io, e forzando le cose, al vecchio archivio del Gabinetto Fotografico) non avessero rilevanza per la documentazione delle opere d’arte e che avrebbero trovato la loro collocazione più ragionevole in un istituto che si fosse dedicato all’opera multipla, stampa, serigrafia, fotografia. Non fui capito e fu perduta un’occasione storica. Il lavoro potrà essere ripreso ora sul piano regionale e delle soprintendenze, con ben altre difficoltà, e con un’ottica inevitabilmente provinciale.”
La fotografia come pratica e strumento di rappresentazione borghese non era invece una categoria storico critica immediatamente applicabile (nonostante le forti componenti classiste) a quella che fu in quegli anni una delle ‘scoperte’ di maggiore successo editoriale e commerciale: l’opera di Wilhelm von Gloeden, che pian piano emergeva dalla damnatio memoriae in cui l’avevano relegata dapprima il fascismo e poi la cultura perbenista (tra cattolicesimo e comunismo) del secondo dopoguerra. Dopo il profilo biografico romanzato da Roger Peyrefitte[298] e la ricostruzione d’ambiente di Pietro Nicolosi, la lussuosa monografia edita nel 1964[299], con belle riproduzioni in fototipia applicate su fogli di carta uso mano, aveva presentato una ristretta selezione di ritratti, corredandoli con una breve nota autobiografica. La scelta dei soggetti era certo stata prudenziale ma aveva portato a considerare un nome sino a quel momento escluso dalle storie della fotografia, nelle quali iniziò a comparire solo a partire dal 1975, quando Cecil Beaton ne pubblicò un arcadico gruppo con veduta sul golfo[300]. Difficile dire oggi sino a che punto le modificazioni dei costumi e dei comportamenti sociali indotte dai movimenti politici della fine degli anni Sessanta influirono sulla possibilità stessa di considerare un autore la cui opera era stata caratterizzata da quello che Goffredo Parise aveva definito uno “sguardo omosessuale”, segnalando – con crudele slittamento semantico – come questo fosse “rigettato dagli estetisti storiografi”[301], ma credo che non sia priva di significato la concentrazione di saggi e di mostre, in gallerie prevalentemente private[302] e quindi anche, certo, con scopi commerciali, dedicate al barone di Taormina negli anni tra il 1977 e il 1980, con ampie proliferazioni successive.
Un percorso di avvicinamento ancora diverso aveva segnato un pittore come Michetti, col quale a sua volta Von Gloeden stesso si era dichiarato in debito per l’avvio della propria attività fotografica, anch’egli oggetto di una articolata serie di studi e di mostre originate dalla riscoperta del suo archivio fotografico. Tra la fine degli anni Quaranta del Novecento e l’inizio del decennio successivo una concatenazione di iniziative e di eventi aveva richiamato l’attenzione sulla figura e sull’opera del pittore abruzzese, ma fu solo nel 1966 che Raffaello Delogu durante un sopralluogo a Francavilla a Mare[303] aveva scoperto l’archivio di Michetti segnalandolo a Bertelli che, “in diverse mostre, fra il ’67 e il ’71, [si era provato] a dare un ordine cronologico al vasto materiale (2921 lastre, 9349 disegni), collegando certe fotografie a dipinti noti e supponendo che l’interesse autonomo per la documentazione di ciottoli, rocce, foglie e acque appartenesse agli ultimi tempi. Affidai la classificazione di tutto il materiale prima a Francesca Galli, poi a Marina Miraglia. Con mia sorpresa vidi, dallo studio accurato e di molti anni compiuto da Marina Miraglia (…) che non mi ero sbagliato.”[304] La catalogazione e la duplicazione del Fondo (1968-1970) avevano infatti costituito l’occasione per una prima mostra fortissimamente voluta da Vitali per gli Amici di Brera[305], curata dallo stesso Bertelli nel 1968 e prontamente segnalata da Giuseppe Turroni: “Se la storia della fotografia è ancora tutta da scrivere – notava – bisognerà certo aggiungere un capitolo su questo grande pittore (…) il quale fece della fotografia non soltanto uno strumento pratico di lavoro (…) ma anche un mezzo espressivo”, sottolineando il fatto singolare che “Michetti è stato forse il primo a saper catalogare così bene le sue fotografie” poiché per ciascuna redigeva “schede disegnate, con riferimenti agli elementi più interessanti.”[306] Pochi anni dopo l’interesse per le fotografie di Michetti venne ulteriormente sollecitato dalla mostra prodotta dal GFN per la sezione culturale del SICOF 1970[307] e da una serie di articoli pubblicati in riviste di grande diffusione come “Popular Photography Italiana”[308] e “Photo 13”[309]. Il contenuto ma ancor più il titolo (Il vizio segreto di Michetti) adottato in quell’ultimo caso irritarono però non poco Bertelli che ne scrisse all’autrice Marina Cacciò: “Ho visto, naturalmente, l’articolo e non direi che mi sia piaciuto. Intanto il titolo, mi sembra che confonda un po’ le cose: perché sembra in relazione con le fotografie dei nudi e perché toglie alla scoperta di Michetti fotografo uno dei suoi aspetti più curiosi, e cioè che attraverso la fotografia la sua esperienza artistica si faccia europea e dunque tutt’altro che ‘segreta’. (…) dispiace che una scoperta originale di Marina Miraglia, e su cui la stessa stava lavorando con serietà, sia già stata divulgata prima che l’autrice abbia ancora potuto definirla e presentarla come meglio avrebbe creduto. Intendo tutta la storia della documentazione fotografica per la rappresentazione della Figlia di Iorio.”[310] Considerazioni per più motivi ancora oggi interessanti: perché mostrano quale distanza, diciamo così, deontologica vi fosse tra la ricerca storica metodologicamente fondata e la pubblicistica di divulgazione e perché il disappunto di Bertelli smascherava l’atteggiamento ammiccante comune a tutte le testate giornalistiche di fotografia dell’epoca (e non solo), talmente pervasivo da connotare anche temi di interesse storico. Il lavoro che si stava conducendo produsse ulteriori interventi rendendo nota la figura di Michetti ben oltre i confini degli addetti ai lavori[311], consolidata infine dalla monografia che gli dedicò Miraglia nel 1975, esplicitamente intitolata a Francesco Paolo Michetti fotografo, uscita nella collana “Einaudi Letteratura” in cui erano già stati pubblicati il Fotodinamismo di Bragaglia (1970) e La fotografia di Mulas (1973), mentre l’anno successivo comparve l’altro saggio sollecitato da Bertelli: Ignazio Cugnoni fotografo, a firma di Sebastiano Porretta[312].
Già solo considerando il sommario, il volume curato da Miraglia forniva importanti indicazioni metodologiche, evidenti nell’articolazione dei capitoli che prevedeva in apertura la sintetica descrizione dell’archivio fotografico, vero fondamento e fonte primaria per qualsiasi ipotesi di studio e valutazione critica dell’opera di un autore[313]; a quella faceva seguito un capitolo di inquadramento generale che collocava l’opera di Michetti pittore nell’ambito della cultura del suo tempo e affrontava il tema nodale di quella “crisi di espressione che porterà il maestro a rinunziare definitivamente alla pittura”, considerando il rapporto arte – fotografia con ampi riferimenti al contesto europeo, ricavati dall’attenta lettura dei saggi di Aaron Scharf[314] (1962-1968) e di Van Deren Coke (1964) come delle più recenti mostre Malerei nach Fotografie (1970) e Combattimento per un’immagine (1973), ciò che le consentiva di sottoporre a revisione critica le prime notazioni in merito formulate da Ugo Ojetti e le indicazioni a suo tempo fornite da Costantino Barbella, scultore amico di Michetti. L’ultima parte era invece dedicata alla lettura delle fotografie, nella quale considerava “non tanto il riporto nella pittura di modelli fotografici (…) ma il contributo della fotografia come linguaggio ed espressione al rinnovarsi dell’arte”, tenendo però presente che “se anche prima del ritrovamento del fondo fotografico di Michetti, era inequivocabile, a ben guardare, il ricorso alla fotografia, altrettanto inequivocabile risulta, dall’esame delle fotografie, che tale ricorso non trovò mai un percorso in senso inverso dalla pittura alla fotografia”. Si stabiliva così un giudizio di merito sulla ‘modernità’ di Michetti fotografo rispetto alla sua produzione pittorica, anche se – per stessa ammissione dell’autrice – “forse è forzato pensare ad un Michetti che, dati i tempi aberranti della fotografia contemporanea, puntualizzi il problema con la stessa lucidità d’analisi che costituisce il presupposto della verifica n.1 di Mulas.”
Il libro di Miraglia costituì un evento importante non solo dal punto di vista del merito ma anche e forse soprattutto, perché rappresentava il primo sistematico contributo italiano all’analisi dei rapporti tra pittura e fotografia, già accennato a suo tempo da Vitali e più recentemente antologizzato in modi che destarono più di una perplessità nella mostra Combattimento per un’immagine[315], condotto con gli strumenti e le metodologie propri di uno storico dell’arte, ciò che di riflesso legittimava anche quell’area di studi a considerare il rapporto dei pittori con la fotografia come un possibile ambito di ricerca, superando rimozioni e censure. A distanza di anni il volume assume però un ulteriore valore testimoniale, rappresentato da quelli che oggi ci appaiono come alcuni rilevanti limiti dell’opera, che più che essere ascrivibili all’autrice ci sembrano ben rappresentare lo stato degli studi e la disponibilità, a quella data, di adeguati strumenti metodologici e conoscitivi: mentre la raffinata lettura storico artistica poteva contare su di una strumentazione teorica e metodologica consolidata da una lunga tradizione, alla nascente e meritoria consapevolezza della necessità di mettere in relazione tecniche e modalità espressive non corrispondeva ancora un bagaglio di competenze e di conoscenze storico tecnologiche adeguato a interpretare correttamente il corpus di opere analizzate[316], determinando così una evidente discrasia tra i vari piani analitici, che non solo restarono nettamente separati ma anche pericolosamente disequilibrati.
La consapevolezza della necessità di partire dalla realtà materiale e tecnologica dei fototipi analizzati costituì il fondamento del successivo volume dedicato alla Collezione Cugnoni, nel quale una gran parte venne dedicata alla descrizione delle caratteristiche delle lastre conservate presso il GFN[317], corredando il testo anche di un sintetico glossario delle tecniche. Sebbene non esistesse una documentazione esauriente, la realizzazione di quel cospicuo insieme di lastre (4.515) venne assegnata all’architetto Ignazio Cugnoni, qualificato sin dal titolo come fotografo, da annoverarsi tra gli “irregolari” poiché “in effetti egli non fotografa per vendere a terzi, ma per sé, per la propria professione; così la sua espressività può definirsi libera, ma solo in quanto svincolata dal mercato”[318]. Tale condizione era allora parsa sufficiente a giustificare quell’insieme di materiali eterogenei per soggetto, cronologia e modalità di ripresa, oggi più ragionevolmente comprensibili come repertorio di immagini raccolte a scopo professionale attingendo dai cataloghi di autori diversi, da Filippo Belli a Carlo Baldassarre Simelli ed altri.[319]
La questione dei rapporti tra la fotografia e le altri arti visive, la pittura in particolare, che Miraglia aveva analizzato a proposito di Michetti, era stata affrontata per la prima volta in una mostra tenutasi alla Bibliothéque Nationale di Parigi nel 1955[320] e aveva goduto di una considerazione sempre maggiore nei due decenni successivi anche in area italiana, con gli interventi di Ragghianti su “seleArte”[321], di Racanicchi in “Popular Photography Italiana” (1963)[322] e con altri raccolti nel gà citato numero monografico di “Ulisse” del 1967[323]. In ambito internazionale i contributi più sistematici di quel periodo vennero dal volume divulgativo del cineasta e fotografo André Vigneau e dagli studi di Beaumont Newhall, di Van Deren Coke, storico dell’arte ma anche fotografo, allievo di Ansel Adams, di Otto Stelzer (1966)[324] e di Aaron Scharf (1968)[325]. Per quanto riguarda la situazione italiana va ricordato che nel 1969 Paolo Fossati aveva proposto a Lamberto Vitali di curare “un libro sul lavoro dei pittori italiani fine Ottocento inizio del ‘900 condotto su fotografia – pittura. Si tratta di proporre un buon numero di esempi che illustrino il problema, quasi interamente illustrato e perciò in termini visivi. (…) si dovrebbe procedere più a provocare, come conseguenza di una proposta del genere, in altri il bisogno di lavorare al tema”[326]. Vitali declinò l’offerta, ma in un panorama artistico segnato dalle più mature esperienze concettuali e comportamentali il tema era nell’aria, così che poco dopo la chiusura della grande mostra di Monaco Malerei nach Fotografie: von der camera obscura bis zur Pop Art. Eine Dokumentation[327], si apriva a Milano nell’ambito della Sezione culturale del SICOF 1970 la mostra Arte e Fotografia curata da Daniela Palazzoli[328]. In occasione dell’inaugurazione si svolse la tavola rotonda Rapporti tra arte visuale contemporanea e fotografia, a cui presero parte la stessa Palazzoli, Gillo Dorfles, Pier Paolo Preti, Pierre Restany e Lea Vergine[329] e vennero proiettati lavori di Luca Patella e Franco Vaccari, anch’essi presenti, che scatenarono le ire dei convenuti. Nella cronaca offerta da Dorfles “la cosa più sorprendente della serata fu l’inattesa reazione del pubblico, formato in maggioranza da fotoamatori. Ebbene, costoro trovavano poco interessanti e belle (fotograficamente parlando) le immagini proiettate ed esposte e si scagliarono contro gli oratori che, a loro avviso, parlavano non di fotografia ma di ‘arte’, dimostrando così come, purtroppo, non basti maneggiare, anche ottimamente, una tecnica, per intendere il valore artistico: come cioè tra arte e tecnica ci sia spesso un baratro incolmabile.”[330] Non migliore il ricordo di Lea Vergine che parlava di “una massa urlante di frustrati – a livello ‘ottico’ beninteso”, mentre a sua volta Preti, in una lettera aperta pubblicata nel successivo numero di gennaio di “Popular Photography”, accusava il gruppo dei critici non solo di aver manifestato pubblicamente il loro disprezzo per quel pubblico ma anche di aver dato una lettura strumentale e quindi riduttiva dell’utilizzo del reperto (e del riporto) fotografico da parte degli artisti considerati. Le risposte di Lea Vergine e soprattutto di Daniela Palazzoli, pubblicate sullo stesso numero furono molto articolate e appropriate, mettendo in evidenza e sottoponendo a un forte giudizio critico le convenzionalità e quindi le ingenuità di opinione della cultura fotoamatoriale sostenuta da Preti e vivacemente espressa dal pubblico dei presenti, misurando così quale fosse ancora a quella data l’incommensurabile, paradigmatica distanza tra questi due universi di produzione e cultura dell’immagine.
Quando Palazzoli propose a Luigi Carluccio[331] di realizzare la mostra che poi si sarebbe chiamata Combattimento per un’immagine[332], trasformandosi quasi in una formula idiomatica[333], la ripresa del tema aveva certo anche il sapore di una sfida e di una scelta di campo, essendo ora destinata a un contesto museale. La sua elaborazione, avviata sul finire del 1971, entrò nella sua fase esecutiva nella primavera successiva, quando si formularono anche alcune ipotesi di titolo; tra queste la ripresa di Arte e Fotografia, apprezzata anche dal gallerista newyorkese Leo Castelli, ebbe per molto tempo la miglior fortuna, sino a che Carluccio propose alla presidente dell’ATAC il titolo definitivo, più mediaticamente efficace, a soli quindici giorni dall’apertura della mostra alla Galleria civica d’Arte Moderna di Torino il 28 febbraio 1973[334]. In quella sede vennero presentate circa 500 opere, secondo un percorso che procedendo da Canaletto giungeva sino alle più recenti opere concettuali, ma agendo per sommatoria piuttosto che per accostamenti e confronti critici, di numero piuttosto ridotto. L’intenzione era infatti quella di “costituire una specie di antidoto alla visione prospettica che crea la storia, e che fa di ogni storia un fatto a sé”, come dichiarava Palazzoli nel testo in catalogo, caratterizzato da un titolo che rafforzava l’assunto della mostra (Descrizione di una battaglia: l’Immagine) sebbene poi ricorresse più volentieri al concetto di dialogo, poiché “invece che delle differenze, siamo portati a diventare sempre più consapevoli dei legami che uniscono disciplina a disciplina, immagine a immagine.”[335]
Antonella Russo ha ricordato che “l’esposizione riscosse un enorme successo e fu accolta con grande soddisfazione specialmente dalla comunità fotografica, che vide finalmente ammessa, anche in Italia, la fotografia in un importante museo d’arte. Gli storici dell’arte, invece, riservarono non poche critiche, lamentando la genericità dell’impostazione della mostra.”[336] Le prime avvisaglie di quelle riserve si potevano rintracciare già in uno scambio epistolare tra Paolo Fossati e Carlo Bertelli del 1972, in cui il primo, prospettando la calendarizzazione dell’uscita del volume di Gisèle Freund scriveva: “forse si potrebbe uscire per il prossimo inverno quando di fotografia, pittura e simili si parlerà, e a vanvera spesso”[337]; giudizio poi confermato e ulteriormente articolato in una recensione in cui lo stesso Fossati contestava i presupposti critici che avevano governato la concezione della mostra, fondati sulla presunta contrapposizione tra manualità delle tecniche artistiche e meccanicità della fotografia, per poi mettere in luce (e un poco alla berlina, anche) il rifiuto da parte dei due curatori di “ogni connotazione di tipo filologico e storicistico” per affidarsi “a contesti intuizionistici e lirici variamente motivati.”[338] Quel richiamo alle mancate attenzioni filologiche venne plasticamente espresso in una delle didascalie a corredo del dialogo tra Carlo Bertelli e Giovanni Romano, pubblicato a mostra appena conclusa, in cui si segnalava come fosse stato presentato come originale, datandolo al 1900 ca, un fotomontaggio relativo a Gli storpi di Michetti, che invece era stato eseguito nel 1968 a cura del GFN con fotografie tratte dall’archivio del pittore.[339] Il giudizio dei due storici dell’arte sulla mostra torinese fu senza appello: certo – ammetteva Bertelli – era doveroso riconoscere che gli organizzatori avevano dovuto “impegnarsi in una battaglia non facile. Fra l’altro dovevano distaccarsi da (…) «Malerei nach Fotografie», pittura dalla fotografia [ma «Pittura dopo la fotografia»], allestita a Monaco due anni fa. Era una mostra d’una precisione infallibile nella ricostruzione puntigliosa delle relazioni segrete tra pittura e fotografia e soprattutto aveva il merito di far sentire con forza lo “scandalo” di questi rapporti”. I limiti però risultavano evidenti e ingiustificabili: dall’assenza di alcune importanti figure come Signorini alla mancanza di una bibliografia di riferimento in catalogo, sino allo stesso allestimento, che sembrava fatto apposta per confondere le idee. “Che senso può avere – notava Romano – un bruttissimo Renoir accanto alle fotografie di Nadar; il confronto è troppo ingeneroso, anche per chi non amasse l’impressionismo. Fino a che limite è credibile il confronto tra il commovente incunabolo di Niépce rifotografato, stampato, ingrandito, sgranato e un disegno di Seurat? Le domande potrebbero continuare (…). Si è tenuto troppo poco conto della qualità, che esiste anche tra i fotografi (…).” Ancor più perentorio il giudizio espresso da Quintavalle che riconosceva come “una volta fu di un certo interesse un grave errore di prospettiva storica, quello di costruire le vicende contrapposte della pittura e della fotografia che semmai, sono reciprocamente funzionali, sono una storia soltanto; l’errore fu proficuo, almeno da noi, perché mostrò il livello culturale degli interventi, perché chiarì come non si potesse far storia delle tecniche ma storia di queste legata alle ideologie. Chiarì anche la povertà metodologica, la disarmante ingenuità degli ‘esperti’.”[340] Alcune macroscopiche esemplificazioni di quel procedere vennero poi fornite da Piergiorgio Dragone, che recensendo l’edizione italiana del volume di Scharf, notava come il lettore avrebbe potuto stupirsi “nello scoprire che questi casi [esposti in mostra] erano solo alcuni dei numerosi esempi illustrati nel volume inglese e che invece nel catalogo della mostra torinese non si fosse neppure riusciti a citare Scharf (…) ma neppure Van Deren Coke viene mai nominato. (…) Se, dopo aver letto il libro di Scharf, andando a sfogliare il catalogo di Torino ci si sentisse quindi un po’ delusi, e quasi ingannati, ci si potrebbe però sempre consolare consultando quello curato da Erika Billeter (…). Si vedrebbe così come, lavorando seriamente, si possa approfondire davvero un problema col risultato di fornire una corretta informazione e un effettivo contributo critico, allargando anche le conoscenze sull’argomento con nuove scoperte filologiche ed originali osservazioni storiche.”[341]
Tra i rari italiani a meritare una certa attenzione nel catalogo della mostra torinese compariva Anton Giulio Bragaglia, mentre solo alcuni fotogrammi di Luigi Veronesi potevano costituire un richiamo alla fotografia italiana del periodo tra le due guerre mondiali, poco considerato anche dai più attenti studiosi italiani[342] specialmente per la difficoltà di misurarsi con le forti implicazioni ideologiche che tale analisi comportava.
L’imponente produzione degli anni del fascismo era stata sino ad allora utilizzata prevalentemente per nostalgiche ricostruzioni iconografiche quali la Storia fotografica di Mussolini e del fascismo prodotta nel 1952 dal “Meridiano d’Italia”, settimanale fiancheggiatore del Movimento Sociale Italiano, o, nel 1961, la Storia del fascismo: rassegna fotografica dal 1914 al 1945, curata da Pietro Caporilli, già membro del Partito Nazionale Fascista sino alla Repubblica Sociale Italiana, per la sua casa editrice Ardita[343]. Solo nel 1973 il direttore dell’Istituto LUCE, Ernesto G. Laura, avrebbe pubblicato un primo vasto repertorio di immagini del fascismo costruito quasi come un reportage; “una serie di immagini fotografiche, veri e propri emblemi per una lettura critica del periodo, accompagnate da brevissime didascalie esplicative che inquadrano storicamente l’immagine a cui sono sottese”[344], mentre negli anni immediatamente successivi vennero realizzate alcune mostre che a quella produzione facevano riferimento, tutte segnate da un preciso impegno politico sebbene diversamente manifestato. Così la mostra dedicata alla colonizzazione del territorio[345] prodotta dai membri del gruppo fiorentino UFO (Carlo Bachi, Lapo Binazzi, Patrizia Cammeo, Riccardo Foresi, Titti Maschietto), tra gli esponenti di punta dell’architettura radicale italiana, con la collaborazione di Daniela Palazzoli, che trasse dall’archivio del Touring Club Italiano la documentazione sull’Italia agricola negli anni del fascismo; la mostra curata da Luigi Crocenzi e Luigi Ricci sulle Marche dal fascismo alla Repubblica[346], organizzata dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione, e quindi la prima iniziativa critica esplicitamente dedicata alla produzione di quegli anni: Fascismo 1922-1943: modi e tecniche di utilizzazione della fotografia al servizio dell’ideologia fascista, curata da Italo Zannier per la sezione culturale del SICOF ‘75[347]. La mostra fu successivamente esposta a Pordenone e alla Galleria d’Arte moderna di Bologna, qui in parallelo col ciclo pittorico di Renzo Vespignani Tra due guerre, rispetto al quale l’iconografia fotografica era ancora intesa come “un utile documento per meglio comprendere il clima ‘rivisitato’ dall’artista.”[348] “Quel maledetto ventennio – scriveva Zannier – incuriosisce, da un po’ di tempo, forse più del lecito, tanto da suscitare un diffuso interesse filologico e critico per tutto ciò che, in un modo o nell’altro, abbia avuto a che fare con il fascismo: moda o freudiana paura?” La risposta doveva rivelarsi tutto meno che semplice se poco dopo lo stesso autore poteva avanzare alcune osservazioni che oggi possono sorprendere: “le immagini del fascismo fanno dunque ridere, tutte”; e inoltre: “questa fotografia fascista di cui vogliamo raccontare la storia, non è mai esistita, se non in tracce assai deboli e sporadiche; è però un’assenza di cui vale la pena parlare.”[349] Tale affermazione, palesemente provocatoria, era un poco retoricamente giustificata dalla presunta contraddizione in termini tra la coercizione esercitata dal regime e la presunta libertà che avrebbe caratterizzato la pratica fotografica in quanto tale, risolvendosi infine nel riconoscimento risolutivo di una costante azione mistificatoria. Un’interpretazione che sembrava voler liberare i fotografi dalla responsabilità di adesione o connivenza al regime, riducendone molti a semplici “documentatori inconsapevoli (…) di un’Italia risibile e assurda”, mentre altri (i fotoamatori) si sarebbero rifugiati in un “atteggiamento aristocratico” di distacco dalla realtà, dimenticando però come fosse possibile ritrovare i nomi di molti autori in entrambe le categorie.
L’attenzione per la produzione di quel periodo si fece più ampia e sistematica specie per merito del CSAC, che in una serie di mostre successive presentò diverse produzioni emblematiche, quasi a indicare possibili tipologie. La prima monografia venne dedicata a Luigi Veronesi, tra gli artisti italiani più seguiti dalla critica senza soluzioni di continuità e ancora ben attivo in quegli anni, di cui si proponeva una sintesi del percorso artistico a partire dai primi lavori degli anni Trenta. Già Zannier[350] aveva pubblicato nel 1966 un ampio intervento dedicato alla sua opera, posta sotto l’egida delle “arti della visione”, segnalando come fosse stato il solo in quegli anni in Italia a praticare una fotografia “che impropriamente chiamiamo astratta”, sebbene il ricorso a quella tecnica fosse da intendersi soprattutto come “un mezzo per esprimere la sua semantica figurativa al pari del disegno e della pittura”, inserendo “le sue immagini fotografiche, quasi ad integrazione, in talune strutture pittoriche e specie nelle scenografie.” Notazione interessante, che non teneva però criticamente conto della incommensurabile differenza tra segno grafico e impronta fotografica. Era quella una problematica che non si era ancora imposta alla considerazione critica e metodologica degli studiosi, come del resto indicavano anche altri contributi di poco successivi, quali la breve nota che apriva il catalogo della torinese Galleria Martano del 1970, in cui Maurizio Fagiolo parlava di “discorso parallelo tra le diverse tecniche”, suggerito con evidenza visiva dagli accostamenti pubblicati in catalogo[351], che riportava anche alcuni bellissimi esempi di grafica applicata all’editoria. Anche Paolo Fossati avrebbe chiarito in apertura del proprio testo critico che sarebbe stato “inesatto” isolare le fotografie e i fotogrammi dal resto della sua produzione, specie per evitare che una mostra dedicata a Veronesi fotografo corresse “il rischio di divenir equivoca, mentre è indispensabile e utile. Equivoca perché con la moda artistica della fotografia che ci troviamo oggi a misurare, lo scoprire un Veronesi ottimo fotografo assolve due compiti di cattiva coscienza: lo rende artista, in quanto fotografo degno di un capitolo sperimentale di grande impegno da Schad a Moholy Nagy e dintorni, e lo evacua dal fortilizio della pittura -pittura astratta, facendo così tornare i tormentatissimi conti.”[352] Il bel testo di Fossati scandagliava criticamente il percorso e le opere di Veronesi confermandone i legami internazionali ma anche “la solitudine pressoché assoluta” rispetto alla scena fotografica italiana, tanto da risultare poco comprensibile e immotivata la sua adesione nel 1947 a La Bussola, a cui partecipò “con ben altro materiale”, chiamato da Cavalli e Vender solo alla vigilia della sua costituzione[353].
Quell catalogo per molti versi esemplare era però segnato da una impostazione storica (e quasi ideologica) che presentava più di un aspetto problematico, a partire dalla scarsa propensione a definire e considerare criticamente le relazione con altre importanti figure della scena milanese degli anni tra le due guerre come Boggeri, Grignani, Munari o Carboni, ed a interpretare la loro attività alla luce dei rapporti non occasionali con l’universo della comunicazione e delle ‘arti applicate’ durante il regime fascista; vale a dire, cioè, dei rapporti di quegli autori col fascismo [354]. Quasi l’effetto lungo di una pervicace rimozione.
In un decennio fortemente politicizzato come quello chiuso dal sequestro Moro sembrava quasi di cogliere, anche nei migliori tra gli studiosi, una certa forma di autocensura che rendeva difficoltoso, quando addirittura non impediva la formulazione di un giudizio in grado di comporre valutazioni critiche e condizioni storiche, superando fondamentali quanto inevitabili condizionamenti ideologici, quasi che – nonostante le esplicite dichiarazioni contrarie – sopravvivesse ancora una concezione idealistica dell’arte e del lavoro degli artisti, avulsi dal contesto sociale e liberi da condizionamenti che non fossero quelli di una espressione liberamente scelta.
Analoghe reticenze si potevano riscontrare nella monografia dedicata a un fotografo tout court come Bruno Stefani, tra i professionisti più attivi in Italia a partire dalla fine degli anni Venti specialmente nell’ambito della fotografia di documentazione di luoghi e monumenti; un autore tanto presente in periodici e volumi illustrati, come quelli del Touring Club Italiano, da rinnovare e modificare i canoni rappresentativi definiti nel corso del XIX secolo dal ‘modello’ Alinari. L’analisi che ne fece Roberto Campari[355] adottava lo strumento interpretativo dei ‘generi’ – qui la fotografia turistica – seguendo indicazioni metodologiche a suo tempo fornite da Quintavalle[356] per considerare gli stereotipi visivi e narrativi reiterati nel racconto per immagini realizzato da Stefani in decenni di lavoro. La consistenza del fondo recentemente acquisito dal CSAC (circa 150.000 fototipi) precludeva al momento “ogni possibilità di rassegna unitaria” e suggerì di presentare una selezione di immagini di soggetto milanese, distribuite lungo l’arco di poco più di un trentennio a partire dal 1925, sulle quali venne esercitata una puntuale e raffinata lettura critica, che individuava una serie ampia di riferimenti che spaziavano dagli annuari di “Luci ed Ombre” al cinema di Ruttmann e Ivens, e poi di Visconti, passando per Hokusai e Cartier-Bresson. Della complessa retorica fascista dell’immagine, a cui pure doveva sottostare un professionista con solide committenze pubbliche durante il Ventennio, neppure un cenno fuggevole, anche quando le immagini avrebbero più facilmente consentito di farvi riferimento, come nei due fotomontaggi con la ciminiera fumante e il Duomo in secondo piano. A una ulteriore tipologia di produttori, lo studio fotografico, venne dedicato un altro catalogo dello CSAC, primo esito della donazione di circa centomila lastre dello Studio Villani di Bologna[357] favorita da Nino Migliori, all’epoca docente di Storia della fotografia al Corso di perfezionamento in Storia dell’arte dell’Università di Parma e curata da Paolo Barbaro. Il catalogo della mostra apriva con un ampio saggio di Quintavalle che prima di entrare nel merito della produzione della ditta bolognese dedicava alcune dense pagine al rapporto tra archivi, storia e storiografia, interrogandosi – tra le altre cose – su quello che chiamava “spazio degli archivi (…) quello che modella l’ampiezza dei riferimenti, l’ampiezza delle aree che l’archivio stesso tocca; (…) Esiste uno spazio dei generi, ed anche, più sottilmente, uno spazio tra generi, che nasce dalla storia della loro organizzazione, dalla loro interna gerarchia, dalla loro trasformazione nel sistema della fotografia. Un grande studio è anche un sistema che vive in rapporto ad una società, non è morta gora di ombre trasparenti ma punto di riferimento per una cultura che vi si riconosce e vi si trova, appunto, come condensata, in nuce, o, meglio, in vitro.” [358] Per queste ragioni era indispensabile riconoscere nella loro produzione, nella “costruzione del sistema di segni dell’icona fotografica (…), icone fornite nell’ottica dei proprietari [committenti] che rispondono a modelli specifici, a modelli rigorosamente storicizzabili.” In quella sede Quintavalle riconosceva, certo, che dalle loro immagini degli anni Trenta emergeva “l’epica del lavoro per la patria”[359], ma come di sfuggita, quasi un incidente di poco conto in un percorso luminoso guidato dalle stelle di John Ford, del Bauhaus e ancora di Ruttmann, Visconti ed Eisenstein, pur ammettendo che questo “al massimo, agli operatori di Villani poteva essere noto indirettamente.” Notazione solo apparentemente marginale questa, e certo non sviluppata per evitare l’insorgere di contraddizioni interne, ma di cruciale importanza storiografica. La lettura del saggio di Quintavalle, come di quello precedentemente citato di Campari era allora, e rimane, un compito affascinante che lasciava però insoddisfatti: mentre si apprezzava l’esercizio funambolico del citazionismo – seppur ridotto a una circolarità di nomi – si coglieva il limite di un’analisi non sostenuta da altro che non fosse la ricerca di analogie che in mancanza di riscontri storico documentari rischiavano di essere solo superficiali. Risultava così eccessivo il ruolo assunto dal critico, che – certo involontariamente – colonizzava l’opera relegando ai margini la sua storia di produzione così come l’esistenza storica dell’autore; senza domandarsi mai come si potesse costruire, se e in quali condizioni poteva darsi, quella “cultura che vi si riconosce”; quali le condizioni di circolazione e ricezione di quei riferimenti, di quei modelli di cui l’intelligenza dello studioso supponeva la funzione. Al di fuori del metodo storico queste componenti e queste tracce correvano e corrono ancora il rischio di ridursi a schemi applicati ex post, non ricostruzioni e verifiche del farsi di una cultura, anche visiva, personale e collettiva; dei suoi canali, occasioni, contesti.
Pur non adottando esplicitamente la categoria interpretativa dei ‘generi’, anche il lavoro condotto su parte dell’archivio di Giuseppe Pagano[360], coordinato da Cesare de Seta, considerava separatamente le singole voci di soggettazione da lui adottate; un lemmario che era “il derivato di una cultura tardo positivistica ancora viva ed operante al Politecnico di Torino negli anni di studio dell’immediato dopoguerra.”[361] E già il riferirsi alle aggregazioni operate dall’autore era una chiara e importante indicazione di metodo, essendo quelle riconducibili “ad alcuni interessi dominanti della sua cultura ed alle sue precise scelte di gusto.” Quale fosse, e come si collocasse la sua produzione fotoamatoriale (“ma questo, sia detto subito ad evitare equivoci -avvertiva De Seta – non vuol certo diminuire la qualità della sua produzione”) in relazione alla sua formazione e professione di architetto fu il compito assunto dai numerosi collaboratori al volume. Così emerse che “tutto ciò che Pagano riprende viene fotografato in funzione dell’architettura (…) per cui tutte le foto del suo archivio sono in qualche misura foto di architettura”[362], destinate a entrare a far parte, come lui scriveva, “di un vocabolario di immagini che parlano dell’Italia a modo mio e per me”[363], insoddisfatto come molti architetti della sua generazione dei repertori di derivazione ottocentesca come della nuova iconografia veicolata dalle pubblicazioni del TCI. Non minore attenzione venne mostrata per le fotografie che si riferivano al fascismo e alla guerra[364], tralasciando però, forse per una malintesa forma di pudore censorio, ogni esplicito riferimento al tragico percorso ideologico di Pagano, dall’adesione al PNF sino alla morte in campo di concentramento a Mauthausen, così da ridurre a nulla più che una sensazione il fatto che “nelle immagini del covo [di via Paolo da Cannobio, sede del “Popolo d’Italia”] ci pare di cogliere qualche oscuro presagio.”
Il decennio che separava le monografie dedicate a Primoli ed a Pagano ha segnato un periodo importante di sviluppo della storiografia italiana, che in quegli anni mise a punto i propri strumenti e metodi registrando anche un mutamento di figura sociale dei propri attori. Si stava infatti passando dall’impegno quasi volontaristico (e politicamente connotato) dei fotografi, giornalisti e tecnici riuniti intorno a Crocenzi o al CIFe ai primi interventi di studiosi di formazione accademica, tra storia dell’arte e dell’architettura, con l’eccezione luminosa di un outsider come Vitali, che traeva il proprio magistero da una raffinata cultura collezionistica. In quelle variegate e determinanti produzioni due erano gli elementi che sembravano emergere al di là dei singoli esiti: il ricorso sempre più sistematico all’archivio e la lettura a più mani della produzione di un autore o di uno studio. Quasi un riconoscimento implicito della complessità della fotografia come campo d’indagine.
A più di dieci anni di distanza dalla monografia su Primoli e dopo la raccolta monografica dedicata a Nadar[365],Vitali pubblicava nel 1979 Il Risorgimento nella fotografia, dedicato alla moglie America Campagnani appena scomparsa. Un volume che fin dal titolo, nella scelta accurata della preposizione, affermava il prevalere della funzione documentaria, tradotta nella “volontà critica di stabilire legami quanto mai stretti con la cultura del medesimo periodo, [nella] lettura simultanea e comparata di fotografia e fonti letterarie”, la sola che riuscisse a soddisfare la sua volontà di restituzione del tema[366], ma rischiando troppe volte la pura reciprocità didascalica, illustrativa. Lo scopo era chiarito sin dalle prime righe dell’introduzione: “Questo libro si propone di dare un corpus delle fotografie risorgimentali, che documentano, cioè, fatti e personaggi di quel periodo”, modificando il giudizio espresso vent’anni prima a proposito dei “rarissimi esempi” di qell’epopea. Vitali non si mostrava interessato a comprendere le funzioni assegnate o svolte dalla fotografia in quel contesto; non era nelle sue intenzioni la redazione di un saggio (neppure visuale) come indicava anche la mancanza di una bibliografia di riferimento. Semmai l’intento era di realizzare un album storico che fornisse anche l’occasione di mettere a punto un primo repertorio (poi vedremo quanto esauriente), con la segnalazione di alcuni nomi (Lecchi, Mehédin, il suo Sevaistre[367], Sommer) e brevi notazioni critiche a proposito del fenomeno della circolazione e al conseguente problema dell’attribuzione di molte di quelle immagini, specialmente ritratti, con cui di fatto terminavano le due paginette che aprivano il volume e ne costituivano la sintesi introduttiva. Che l’interesse risiedesse principalmente nel referente più che nella specificità delle immagini risultava chiaro sia dalla scarsa cura per le attribuzioni autoriali[368] sia dallo stesso impianto del volume, che relegava all’Indice delle fotografie i dati concernenti autore, misure e collezione di provenienza, con rare indicazioni tecniche[369] riservate ai soli ‘calotipi’ ma senza distinguere tra originali e copie; per non dire di alcune indicazioni erronee quali la definizione di “stereogrammi” per le carte salate di Stefano Lecchi, già presentate nella mostra Immagini del Risorgimento. Le origini della fotografia in Italia[370], in cui era compresa anche la serie di fotomontaggi raffiguranti la fuga di Orsini[371]. Anche dal punto di vista più propriamente storico il saggio di Vitali si prestava a numerose riserve[372]: il suo era un Risorgimento oleografico e d’élite, fortemente ideologico, dal quale – ed era l’elemento più eclatante – era stato espunto ogni riferimento al fenomeno, anche fotografico, del cosiddetto brigantaggio[373], ormai ben noto e definito se Becchetti aveva potuto scrivere giusto un anno prima che “la inumana pagina del brigantaggio che insanguinò le provincie meridionali, disseminando lutti e rovine, ebbe una agghiacciante documentazione da parte di numerosi fotografi spesso anonimi.”[374] Su questo tema, e nonostante l’encomiastica valutazione espressa nel risvolto di copertina (“Col suo metodo di lavoro egli ha aperto una strada lungo la quale bisognerà cercare di seguirlo”), il contributo di Vitali non poteva reggere il confronto con le coeve considerazioni svolte da Giulio Bollati nel testo introduttivo agli “Annali” einaudiani dedicati alla fotografia, che merita riportare per esteso: “andrà ricordata la sua [della fotografia] partecipazione al moto risorgimentale e la sua non indifferente interpretazione di quei fatti (…) Il problema non è tecnico, ma politico e storico, e su questo piano la fotografia italiana ha una sua preziosa e autonoma verità da comunicare: l’immobilità, le lacune, sono elementi essenziali, non accidentali, del processo storico in questione. (…) non è difficile separare i ritratti autentici dalle effigi apologetiche o dai fotomontaggi e dalle fiorite composizioni grafiche influenzate dalla industria cattolica delle immagini. (…) I militari, solitamente così avari di immagini, rivelano un’improvvisa prodigalità fotografica durante la repressione del brigantaggio (…). Ecco che d’un tratto l’impassibilità distante e oggettuale, la veduta silente, sono messe da parte, e i cadaveri prima nascosti vengono ostentati. Ufficiali e soldati collaborano a mettere in posa i fucilati davanti all’obbiettivo (…). Una folla di contadini meridionali e centrali si affaccia in questo modo macabro alla storia della nazione. (…) La guerra al brigantaggio segna, in campo fotografico, il primo esordio di una pedagogia unitaria destinata a crescere rapidamente diramando in ogni direzione.” [375]
Il confronto tra l’interpretazione di Bollati e la lettura delle fotografie risorgimentali avanzata da Vitali impone almeno di interrogarsi (e magari di provarsi a rispondere) sulle ragioni profonde che hanno portato a identificare in lui il padre nobile della storiografia fotografica italiana. Certo la sua militanza culturale, il suo attivismo di lunga data nell’organizzazione di mostre importanti; certo il lavoro dedicato a Primoli, che ha rappresentato un momento determinante per la formazione di una specifica considerazione culturale della fotografia storica in Italia, dovuto però più al prestigio della sua figura e all’autorevolezza della sede di pubblicazione che alla esplicitazione di un metodo storico che aderisse alla complessità della fotografia oltre il suo valore testimoniale. Un prestigio che gli derivava dall’essere un raffinato conoscitore d’arte, un fine studioso di pittura, come aveva acutamente notato Antonio Arcari, che aveva riconosciuto nel successo del volume dedicato a Primoli soprattutto un “avvenimento editoriale”[376]. Per queste ragioni non è condivisibile e risulta quasi incomprensibile una valutazione come quella ancora recentemente espressa da Antonella Russo, secondo la quale invece “le sue [di Vitali] analisi critiche erano volte alla descrizione e alla ricostruzione dell’œuvre di un fotografo, all’identificazione di simbologie e influenze artistiche, grafiche e letterarie. Vitali, infatti, tendeva a ricondurre la fotografia all’interno della tradizione umanistica attraverso una puntuale analisi filologica che rintracciava l’origine di ciascuna opera collocandola nell’ambito del sapere umano nel senso più alto del termine.”[377]
Se il Primoli di Vitali era stato a tutti gli effetti un buon esempio di equilibrio storiografico, certo significativo dal punto di vista del rapporto tra storia della e storia con la fotografia, in quegli anni molti altri ricorsero allo scandaglio del patrimonio fotografico per indagare aspetti diversi delle vicende italiane. Non storia del mezzo e delle sue immagini e neppure, o non solo, storia attraverso le immagini ma raffigurazione e rappresentazione di un processo con forti intenzioni e implicazioni identitarie, socio antropologiche, inversamente proporzionali si direbbe alle dimensioni del territorio e delle comunità indagate.
Che in quegli anni l’interesse per la fotografia storica, se non proprio per la storia della fotografia[378], che è questione problematica ancora oggi, fosse ormai entrato a far parte (ma quasi come un esotismo temporale) della cultura diffusa, lo testimoniava l’iniziativa del Touring Club Italiano Foto d’archivio: Italia tra ‘800 e ‘900, che prese corpo in due volumi editi rispettivamente nel 1979 e nel 1982, il primo dei quali corredato di due magistrali testi di intellettuali tanto distanti quanto potevano esserlo Cesare Zavattini e Paolo Monti[379]. “Credetemi – scriveva Zavattini traducendo nell’apparente bonomia del suo dire una questione su cui si interrogava anche Barthes – fino a poco tempo fa una stessa istantanea di me, immediatamente sviluppata, creava perfino nel mio cuore una diversità di me con me, malgrado il mio unico e imperturbabile nome e cognome”, invece ora – proseguiva – con il “presente revival (…) passato e presente si uniscono nel mio animo. (…) Adesso mi identifico coi miei antenati e antenatissimi al punto da sentirmi ‘fotografato’ con loro. (…) Ora, ripeto, sento che costoro (…) mi assomigliano così inesorabilmente da avere i mie medesimi problemi morali e di gusto.” Che era un bel modo per sintetizzare una parte, superficialmente profonda verrebbe da dire, delle ragioni che stavano alla base di quella inedita e un poco spasmodica curiosità per la fotografia storica già a suo tempo riconosciuta da Carrieri e Vitali e che Zavattini identificava ora come un fenomeno sociale di gusto (revival) più che specificamente culturale. Monti invece si rammaricava del fatto che la cultura italiana “non si accorse” per tempo della fotografia, tanto che “ci troviamo ora, dopo due guerre mondiali che hanno cambiato la faccia della terra, a chiederci come era prima l’Italia e solo poche sono le fotografie che ce lo dicono. (…) Oggi dopo oltre un secolo di accanite polemiche, e ancora qualche incertezza, mentre all’estero la fotografia entra, a mio avviso di fotografo, fin troppo trionfalmente nei musei e nei quadri di tanti nuovi pittori rompendo limiti e tradizioni della loro arte, siamo giunti alla conclusione, illuministica direi, che la fotografia è soprattutto documento. Ma documento di che? (…) Un documento è la certezza di una determinata cosa che la fotografia ci rappresenta e a cui noi dobbiamo e vogliamo credere, e in queste due parole è tutto il dramma dell’ambiguità della fotografia.”[380] Dramma fondante e fattivo, in cui si intersecavano problemi storiografici e ontologici, troppo sovente considerati separatamente quando non addirittura indipendentemente l’uno dall’altro, come se non fosse qui, in questo nodo, la fecondità e la funzione della fotografia quale testimone e produttore di cultura e di storia nelle società degli ultimi due secoli.
Intorno alla metà del decennio la casa editrice Bolaffi, la più importante impresa italiana attiva nell’ambito del collezionismo, dedicava alla Fotografia un numero speciale di “Bolaffiarte” [381], allora diretto da Umberto Allemandi, sintetizzando nell’ampio sottotitolo – qui citato in apertura – tutte le componenti che andavano a formare la fisionomia dell’inedito fenomeno che interessava il mercato internazionale dell’arte. Tra i due poli costituiti dalla storiografia e dal mercato, entrambi crescenti, gli interventi dei numerosi specialisti invitati (tra gli italiani: Castagnola, L. Colombo, Fossati, Gilardi, Palazzoli, Quintavalle, Racanicchi, Schwarz, Settimelli, Turroni, Zannier) tracciavano i primi abbozzi di una situazione in profondo mutamento, delineandone le tendenze e i problemi a favore del pubblico italiano e in particolare dei lettori della rivista, storico punto di riferimento per il nostro collezionismo medio. Per quella ragione il numero si offriva quasi come un vademecum se non proprio come un manuale nel quale il lettore poteva trovare sintetiche risposte alla maggior parte delle curiosità e domande nate da un primo approccio al tema. Così l’editoriale di Racanicchi affrontava l’argomento, particolarmente pertinente alla sede, della fotografia come opera d’arte, illustrando “i nodi del confronto che da tempo oppone l’arte come categoria concettuale alla fotografia intesa come sottoprodotto dell’intelligenza”, mentre i contributi degli altri esperti spaziavano da una breve storia alla segnalazione dei grandi maestri (esclusi gli italiani, trattati a parte) e dei grandi libri, proponendo anche un “museo ideale” in circa centocinquanta immagini. Con intenti più immediatamente pragmatici si affrontavano poi i meccanismi di formazione del valore commerciale delle fotografie (coi più eclatanti risultati d’asta del periodo 1972-1976), corredati da un indispensabile glossario dei termini tecnici, non privo di macroscopici errori, e da temibilissime istruzioni per il restauro fai da te di calotipi e specialmente dagherrotipi, che prevedevano anche il “ripristino” chimico della leggibilità dell’immagine.[382]
“Cominciano a parlarne un po’ tutti – scriveva Quintavalle in altra sede, quasi chiosando quella pubblicazione – anche se ne sanno generalmente ben poco, ma, soprattutto, cominciano a venderla in molti e, questi, ne sanno certamente qualcosa di più. Alludo alla fotografia, che sta ormai assumendo, nel contesto del mercato dell’arte italiano, la funzione di un volano possibile e, certamente, quella di una rassicurante riserva di caccia. Da noi, in Italia, di fotografia, salvo per gli studi pionieristici di Lamberto Vitali, si era parlato ben poco almeno fino a tre-quattro anni fa; esisteva infatti una frattura ben netta tra fotoamatori da un lato, con le loro riviste soprattutto tecniche, e storici della fotografia dall’altro. Questi ultimi erano, appunto, in Italia quasi inesistenti e cosi era ancora un enorme paesaggio senza ‘figure’, una eventuale possibile storia della nostra fotografia. In questo disegno ancora da colorire, o, meglio, in questo foglio ancora da disegnare, sono intervenuti rapidamente e stanno ancor di più intervenendo coloro che gestiscono il mercato”[383]. Un mercato che era quello dell’arte, certo, falcidiato dal crollo dei prezzi delle opere ‘maggiori’ determinato dalla prima grande crisi energetica conseguente alla guerra del Kippur dell’ottobre 1973; sebbene poi quello mercantile non fosse il solo elemento a determinare e condizionare questo interesse inedito, almeno per la scena italiana, dove la necessità di disporre di strumenti e di conoscenze sistematiche era fortemente sentita e condivisa in vari contesti, e credo dovesse essere messa in relazione non solo con l’ambito del collezionismo e degli studi storici ma anche con l’inedito ruolo e posizione assunte da certa fotografia contemporanea in relazione stretta con le altre ricerche visuali coeve, specie di area concettuale, che portarono a una ridefinizione profonda della consapevolezza di sé del fotografo come autore, sino al suo ribaltamento in autore come fotografo, contribuendo così anche al formarsi di un’esigenza più diffusa di comprensione storico culturale delle vicende della fotografia. A questi elementi si doveva aggiungere, e non in posizione secondaria, il progressivo passaggio culturale, epistemologico (e poi giuridico), a cui qui possiamo solo accennare,dal concetto di opera, proprio di una storiografia artistica estetizzante a quello antropologicamente fondato di bene culturale, nel cui novero doveva essere inteso anche il progressivo riconoscimento della fotografia quale componente imprescindibile del patrimonio culturale della modernità, per certi versi riconosciuto già al momento dell’istituzione del Ministero per i Beni Culturali[384] nel 1975, sebbene poi si dovesse attendere l’emanazione del Testo Unico D.L. 490/ 1999 per comprendere “le fotografie con relativi negativi e matrici, aventi carattere di rarità e di pregio artistico o storico” (art.2, comma e) tra le categorie passibili di tutela.
In riferimento a quella sensibilità nuova andava intesa anche la nascita della collana di “Biblioteca di Storia della Fotografia” della casa editrice modenese Punto e Virgola, fondata nel 1977 da Giovanni Chiaramonte, Luigi Ghirri e Paola Borgonzoni con Ernesto Tuliozi, Ornella Corradini e Susetta Sirotti. Il primo titolo fu il volume di Zannier 70 anni di fotografia in Italia, che forniva un inedito profilo sistematico della storia della fotografia nel nostro paese; una pioneristica “breve cronistoria”[385], quindi più descrittiva che interpretativa, delle vicende novecentesche della nostra fotografia che si apriva con una crudele citazione da Roland Barthes: “L’immagine è ciò da cui sono escluso.” L’avvio, come sarebbe sempre stato costume in Zannier, era privo di mediazioni e individuava il punto di partenza del proprio percorso in un articolo di Edoardo Balbo Bertone di Sambuy del 1901 e nella questione cruciale che con andamento carsico attraversava tutto il volume, della artisticità della fotografia, qui posta immediatamente in relazione, e reazione, con la sua industrializzazione e conseguente massificazione. I consueti giudizi negativi venivano immediatamente confermati (“la granulosità di queste carte e l’implacabile ritocco, conducono a un irrimediabile kitsch, che a fatica oggi si tenta di rivalutare, nel vento del revival”[386]), ma risultavano qui più articolati e inseriti in un quadro interpretativo complesso, che teneva conto anche di un altro aspetto della diffusione della fotografia tra XIX e XX secolo, quello della sua moltiplicazione a mezzo stampa, in evidente consonanza con le posizioni espresse da Gilardi: “il destino della fotografia è di essere diffusa tramite il giornale, sulla carta stampata ad inchiostro; lo sfalsamento di tempi, tra il progresso tecnico della fotografia e la concreta possibilità di utilizzazione nel giornalismo, ha favorito il ‘pictorialism’, che tende così a cristallizzare la fotografia nell’immagine unica, irripetibile e perciò artistica”; fenomeno di lunga durata se ancora negli anni tra le due guerre mondiali le diverse manifestazioni della nuova visione avevano “per contro la ‘lux et umbra’ di un pictorialism deprimente e cimiteriale, dove al vedutismo oleografico, si alterna il ritratto ritoccato o la scenetta populista, in posa”. Qui, per Zannier, “l’equivoco della fotografia ‘artistica’ si fa esplicito, nell’assenza assoluta di immagini documentaristiche, che sino al secondo dopoguerra sono insistentemente, con varie motivazioni, messe al bando dai salon” poiché “i fotografi ‘creativi’ insistono nel non comprendere o nel non accettare la ‘specificità’ del linguaggio fotografico, preferendo esercitarsi nelle raffinate alchimie del pittorialismo, che li identifica e sottrae alla ‘volgarità’ della fotografia diretta, quotidiana, che pare essere ormai alla portata di tutti.” L’elenco degli autori compresi in quell’ambito spaziava da Guido Rey a Domenico Riccardo Peretti Griva e Silvio Maria Buiatti[387] e comprendeva ancora l’improbabile “Giovanni Battista Silo [che] realizza a sua volta quadri fotografici nell’atelier”; evidente retaggio del fraintendimento proposto da Vitali nel catalogo delle mostra alla Triennale del 1957, mentre una serie di Tipi siciliani di Von Gloeden era visivamente accostata alle fotografie di Giovanni Verga. Altri argomenti e nuclei tematici risultavano più convincenti, come il breve richiamo alle prime vicende italiane di musei e archivi; la nascita e le successive trasformazioni del giornalismo fotografico; la descrizione dell’Italia contadina e delle tradizioni popolari in quelli che definiva, integrando le categorie di Vitali con un’ulteriore analogia pittorica, quella dei “fotografi naif (…) visualizzatori tanto spietati quanto magnificamente inconsci”: categoria nella quale accanto a un autore raffinato e colto come Luciano Morpurgo collocava l’orologiaio di Nismozza di Busana Amanzio Fiorini o l’oste di Marone Lorenzo Antonio Predali, tanto amato da Giovanni Testori[388]. Più innovativa e utile – considerata a distanza – era la ricostruzione dei punti salienti che portarono anche in Italia al rinnovamento espressivo avviato dalle fotodinamiche dei Bragaglia e poi dalla fotografia futurista, come, su di un altro fronte, i progressivi avvicinamenti ai dettami della Nuova Visione a partire dagli interventi di Antonio Boggeri del 1929 su “Natura” e “Luci ed Ombre”, sino ai Concetti per fotografi moderni che Mario Bellavista pubblicò nell’edizione italiana di “Galleria”; tutti curiosamente posti sotto il titolo dubitativo di “Fotografia fascista?”. Una stagione che vide tra i principali protagonisti soprattutto i grafici e gli architetti con i loro periodici come “Campo Grafico”, “La Casa bella” o “Domus” e che per certi versi si chiuse con l’importante annuario Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, che per Zannier rivelava “l’esistenza di una fotografia a livello europeo, insospettata (…), le immagini scelte per questo volume dimostrano l’intenzione di far dimenticare il grigio crepuscolo di almeno quarant’anni di pittorialismo fotoamatoriale e di epica fascista, ma soprattutto di suggerire i nuovi orizzonti di questo linguaggio.” Giudizio forse troppo generoso, che non considerava opportunamente le contraddizioni interne, evidenti nella scelta degli autori e delle immagini; i possibili condizionamenti, anche politici, posti da una realizzazione che cadeva in uno dei periodi più difficili di quei lunghi anni di guerra, ma certo una pubblicazione che ha rappresentato uno snodo e un cardine nella storia della fotografia italiana[389].
Pur con i limiti critici che si sono detti il lavoro costituiva il primo tentativo di ricostruzione storiografica delle vicende novecentesche della nostra fotografia, supportato da un ampio ricorso a fonti bibliografiche coeve quando non a esperienze dirette dell’autore, ma nonostante quelle caratteristiche ci fu chi accolse quella sintesi come il lavoro di “un ‘professorino’ lontano dal mondo tumultuoso di chi produce immagini, dalla sua vivacità, dai suoi contenuti, e dico questo dopo aver letto il libro di Zannier, dove chiudendo l’ultima pagina si ha una sensazione di smarrimento, di pochezza di contenuti. Scrivere una storia della fotografia italiana, mescolando tutte le carte, significa anche prendere ‘posizione’, scrivere con una metodologia, inquadrare ‘la storia’ in un contesto più ampio (vedi per tutti la storia d’Italia edita da Einaudi). Invece che troviamo nella storia di Italo Zannier? Il fritto e rifritto, una sequenza di nomi per non far dispiacere a nessuno, scelte arbitrarie, mancanze vistose (…) e allora che senso ha questa operazione di giocare all’ammucchiata?”[390] Zannier, in quegli anni primo titolare di corsi universitari dedicati alla fotografia allo IUAV di Venezia e al DAMS di Bologna, poteva allora essere compreso in quella categoria che Quentin Bajac ha definito dei “fotografi storici”, quelli che “attraverso testi, mostre, collezioni, interpretazioni e riscoperte di figure dimenticate hanno contribuito, accanto agli storici e ai collezionisti, a scrivere la storia della loro tecnica.”[391] Accanto a quella, che comprendeva anche autori come Cesare Colombo e Ando Gilardi, altre erano le tipologie professionali e i percorsi intellettuali che avevano segnato la formazione dei primi e per lungo tempo più importanti protagonisti della storiografia italiana di quegli anni, che nel loro insieme costituivano un nucleo consistente per quanto variegato nella formazione e nelle esperienze: alcuni provenivano dal giornalismo, non necessariamente di settore (come Racanicchi, Schwarz e Settimelli), altri avevano fatto nascere la ricerca storica dalla loro passione collezionistica, come Vitali e Becchetti, mentre si affacciavano studiosi con una formazione accademica come Bertelli, Quintavalle, Palazzoli e Miraglia, ciò che dava ragione delle diverse metodologie e posizioni critiche espresse, fortemente condizionate dagli ambiti culturali e professionali di provenienza piuttosto che da posizioni epistemologicamente fondate.
Si assisteva in quegli anni a una crescita esponenziale di iniziative, tanto che l’ottava edizione della Sezione culturale del SICOF, del 1979, mentre prendeva atto che “anche gli enti pubblici cominciano ad assumere iniziative e ad organizzare mostre sull’argomento”, riconosceva che era “necessario introdurre un certo rigore che consenta di impostare e approfondire correttamente l’argomento, per evitare che l’attenzione verso la fotografia si riduca solo ad una moda e che l’attuale, felice momento risulti, di qui a qualche anno una ‘occasione mancata’. Bisogna cioè impostare dei temi, dei filoni di ricerca, delle ipotesi di lavoro e presentare quindi dei materiali suscettibili di elaborazioni e di sviluppi successivi. In questa fase le ‘personali’ delle grandi ‘vedettes’ della fotografia non bastano più, a meno che non siano il risultato di una seria revisione critica e storiografica. L’obiettivo che si deve ora porre per la fotografia è infatti quello di ampliare e approfondire metodicamente le conoscenze della sua storia e di acquisire dei validi strumenti di analisi dei suoi risultati e delle attuali tendenze di ricerca.”[392] A questo impegno programmatico, così lontano da alcune grandi manifestazioni di quell’anno come Venezia ’79: La Fotografia, corrisposero in particolare due delle sezioni principali della manifestazione milanese: quella dedicata alla prima messa a punto di una storia dell’utilizzazione della fotografia nei periodici italiani, curata da Angelo Schwarz[393], e quella sul ritratto curata da Piergiorgio Dragone[394], il quale – pur consapevole delle difficoltà insite nell’affrontare “un fenomeno che è ancora sostanzialmente sconosciuto” – ne illustrava le varianti fotografiche collocandole nel solco lungo della tradizione pittorica, a partire dalla considerazione che “la fotografia non è che un modo di produrre delle immagini e che quindi ogni analisi va riferita al contesto generale della cultura figurativa del periodo.” Posizione forse eccessivamente connotata dall’assunzione del punto di vista dello storico dell’arte, ma che certo colpiva nel segno quando lamentava come la situazione fosse “sconfortante per quanto riguarda gli aspetti metodologici [perché] prima che un metodo ampiamente impiegato per analizzare la produzione degli altri settori delle arti figurative venga utilizzato anche da chi si occupa di fotografia trascorrono di solito alcuni decenni.” Una condanna senza appello, ulteriormente ribadita nel descrivere i cultori di storia della fotografia “ancora legati ad un modo aneddotico o tutt’al più formalistico o vagamente ‘estetico’ di descrivere le immagini.”[395] Ulteriori limiti storico critici erano individuati in apertura del contributo di Schwarz, il quale riconosceva con qualche ragione che “pure tra coloro che si sono occupati, più specificamente, di critica fotografica, è difficile rintracciare articoli, saggi e studi utili per valutare e ricostruire la storia del periodico illustrato. Spesso, costoro si sono limitati a trattare figure più o meno eroiche di reporter fotografi e non hanno studiato quando, dove e come le immagini vennero pubblicate. Ciò essenzialmente per due ragioni: (…) a causa dell’esigenza di riscattare la bistrattata qualità estetica dell’immagine fotografica (…) e la difesa della professionalità giornalistica del fotografo, misconosciuta dagli editori e dalla maggioranza dei loro colleghi di penna.” Una condizione che Schwarz si proponeva di correggere mostrando e commentando antologicamente le fonti, vale dire le pagine di quei periodici in cui le immagini vennero pubblicate, a partire dal torinese “Mondo illustrato” edito da Giuseppe Pomba dal 1846, ricorrendo ad ampie citazioni di testi relativi alle difficoltà produttive degli apparati illustrativi, nella convinzione che “in quel prodotto industriale che è il periodico illustrato dell’Ottocento sono già presenti molte delle situazioni tutt’ora caratterizzanti la fabbricazione degli attuali settimanali in rotocalco”, da integrare con ulteriori dati di carattere economico e culturale sulla composizione sociale del pubblico dei lettori, condividendo quella impostazione col “fotografo, storico e critico della fotografia Ando Gilardi.”
La casa editrice Electa costituì il punto di riferimento produttivo ed editoriale di una serie imponente e sorprendente di iniziative concentrate nell’anno 1979, in grado di cogliere e sviluppare i numerosi segnali di interesse recentemente manifestati da altre case editrici come Einaudi o gli eventi espositivi di grande richiamo quali la mostra Alinari del 1977 o le sezioni culturali curate da Lanfranco Colombo nell’ambito delle varie edizioni del SICOF.
Quelle iniziative, che avevano lo scopo di creare una domanda editoriale e magari collezionistica sino ad allora quasi inesistente, coinvolsero e coagularono personalità di studiosi con formazioni variegate e interessi complessi (dal collezionismo al professionismo, dalla storia alla conservazione) e portarono alla realizzazione di una serie altrettanto ricca e variata di progetti espositivi che li videro a diverso titolo protagonisti, e di cui Electa si aggiudicò la realizzazione dei cataloghi, affidando contestualmente a Daniela Palazzoli la curatela della collana “Visibilia -Fotografia”, i cui primi titoli furono affidati proprio ai membri del Comitato tecnico scientifico di Venezia ’79[396]: la porzione più ricca e spettacolare del panorama italiano di quell’anno mirabile [397].
La prima di quelle iniziative si caratterizzava per avere un programma di forte e per noi inedito impegno economico[398], che prevedeva ventisei mostre con cinquecento autori, per un totale di circa 3.500 fotografie, a cui si aggiungevano quarantacinque workshop di cinque giorni ciascuno tenuti da fotografi e studiosi di fama internazionale, specialmente statunitensi. Insomma, come dichiarava apoditticamente il titolo, Venezia ’79: la Fotografia. Nulla di meno.
La scelta di Venezia quale sede e la prima definizione della proposta si dovevano all’International Center of Photography di New York diretto da Cornell Capa, che nel 1978 aveva a suo volta coinvolto l’UNESCO, mentre i finanziamenti provenivano da numerosi sponsor privati, non solo di settore (Kodak, Polaroid e Philip Morris tra gli altri) e dal Comune di Venezia, anche in previsione della costituzione a Palazzo Fortuny di un centro permanente per la fotografia, orientando in tal senso l’indicazione compresa nell’atto di donazione fatta al Comune nel 1956, che imponeva che fosse “utilizzato perpetuamente come centro di cultura in rapporto con l’arte”[399]. La prima bozza di programma messa a punto negli USA venne discussa e modificata da alcuni membri italiani del Comitato tecnico scientifico (Daniela Palazzoli, Alberto Prandi, Italo Zannier)[400], ma anche nella sua versione definitiva esso venne fortemente criticato per una troppo marcata tendenza mercantilistica e per l’eccessiva acquiescenza ai voleri degli sponsor. Nel presentare il catalogo Carlo Bertelli[401] dichiarava che l’intento non era di “aspirare, nonostante l’insegna ambiziosa, ad offrire un’enciclopedia universale della fotografia, ma soltanto testimoniare l’opera di alcuni riconosciuti maestri e presentare alcune tendenze attuali nella fotografia. Venezia ‘79/ La Fotografia è un’impresa di grande impegno divulgativo che potrà essere il punto di riferimento per l’organizzazione di altre manifestazioni che documentino il significato della fotografia in ogni civiltà e cultura.” Tra i “riconosciuti maestri”, da Atget a Weegee, erano compresi anche gli italiani Michetti e Primoli, oggetto di due sezioni monografiche curate rispettivamente da Miraglia e Palazzoli, mentre agli autori della nostra contemporaneità era riservata una sezione specifica, con catalogo proprio, curata da Zannier[402] che aveva disegnato un percorso che muovendo da Cavalli e Veronesi giungeva sino a Ghirri e Toscani. Anche i workshop, così come le mostre, erano prevalentemente orientati alla contemporaneità ma riservavano uno spazio non secondario a temi di carattere storico come Storia, teoria e tecnica del fotogramma, tenuto da Luigi Veronesi; Storia della società e documento fotografico, di Settimelli e Storia della fotografia di Helmut Gernsheim[403], a cui era collegata la conferenza di Palazzoli Lineamenti della storia della fotografia italiana, anticipando così la collaborazione e la struttura del volume che lo studioso inglese avrebbe pubblicato due anni dopo con Electa nella collana diretta dalla stessa Palazzoli[404].
La “impostazione monografica intesa nel senso più elitario e fuorviante possibile”[405] era certo distante dal progetto degli “Annali” einaudiani a cui lavorava in quei mesi Bertelli, ma quella non era certo la sola contraddizione o il solo limite dell’iniziativa. “Venezia – la fotografia è, secondo me, un gigantesco errore di prospettiva e un consistente affare finanziario soprattutto per la città che la ospita e che l’ha voluta a tutti i costi”, scriveva Piero Berengo Gardin[406], mentre per Lanfranco Colombo, che aveva declinato l’invito a partecipare, “il problema della fotografia [doveva essere] affrontato con ben altro impegno storico e scientifico soprattutto quando viene chiamato in causa il grande pubblico. Gli enti pubblici sono chiamati ad una attività di ricupero, di conservazione di questo patrimonio culturale che sta andando in malora e di catalogazione disponibile allo studio.”[407] Analoghe considerazioni vennero espresse anche da Quintavalle il quale, partendo dalla fondamentale obiezione che il progetto non fosse stato “elaborato all’interno della civiltà fotografica del nostro paese [ma] calato dall’esterno, sopra le nostre strutture culturali”[408], si chiedeva quale dovesse essere “il compito del critico, dello storico, dello studioso, insomma dell’intellettuale di fronte a fatti del genere.” L’analisi che ne seguiva indicava compiutamente i limiti di quell’impresa a partire dal fatto che “il problema della fotografia non è di vedere semplicemente, anche se è importante questo, mostre in serie di grandi fotografi, ma di prendere coscienza e far prendere coscienza al pubblico dell’importanza dei singoli contesti, dell’importanza delle singole situazioni. Sinceramente mi fa molto poca impressione una mostra di un grande fotografo, o medio o piccolo che sia (quando si espone in mostra si suppone che il fotografo sia ‘grande’, la mostra infatti è un canale che media capolavori per antonomasia) ma mi interessa invece in che contesto culturale opera, perché opera, quando opera, mi interessa, insomma, non l’idealismo nascosto (la reazione nascosta) nella raccolta delle belle immagini ma la storia. Ebbene il problema è che manca proprio la storia, la nostra storia, e la storia della cultura fotografica occidentale, se si vuole meglio precisare, in questo programma. Manca un metodo, o, meglio, esiste un metodo che è ‘altro’, che è diverso. Un metodo che dovremo analizzare. Ma a che serve dunque una rassegna fotografica? Serve naturalmente a promuovere la fotografia; ebbene questa promozione rischia proprio di risolversi nel suo contrario; quando avremo una antologia di grandi nomi, una serie di maestri che necessariamente devono essere raccolti nei futuri musei della fotografia del nostro paese, avremo completamente perso di vista la funzione della fotografia che è quella di contesto, che è quella di struttura della comunicazione. Il punto è proprio questo, mancano ancora in Italia una analisi ed un censimento del patrimonio di immagini fotografico (un aspetto solo del problema), manca ogni e qualsiasi politica della conservazione (…) manca ogni e qualsiasi politica che non sia di semplice e sconsiderata raccolta di materiali reputati ‘esteticamente’ significativi da parte di Enti Pubblici. E neppure esiste, finora, un mercato reale[409] della fotografia.” Affiancavano la kermesse altre importanti iniziative comprese sotto il titolo comune di “Aspetti e immagini della cultura fotografica in Italia”[410], affidate a un comitato scientifico costituito da Miraglia, Palazzoli e Zannier, con Filippo Zevi, Michele Falzone del Barbarò e Giuseppe Marcenaro.
Il nucleo principale era costituito dalla grande esposizione dedicata alla Fotografia italiana dell’Ottocento[411], con un importante catalogo che rifletteva e dava conto della complessità del fenomeno studiato, misurando l’enorme sviluppo delle ricerche, specialmente a scala regionale e soprattutto locale condotte dagli autori dei testi e delle schede monografiche, ma anche dei lavori pur disomogenei realizzati da altri cultori italiani nel corso del ventennio precedente e ampiamente citati in bibliografia. Si delineava così non solo una prima sommaria storia della fotografia in Italia nel corso del XIX secolo, ma anche una geografia degli studi e degli studiosi; frutto di una rete di relazioni anche personali in grado di connettere e interpretare i dati emersi dalle indispensabili ricerche a scala territoriale, spesso condotte nell’indifferenza se non nella perplessa ostilità degli studiosi di altre discipline e dei responsabili delle istituzioni, come mostrava bene questa testimonianza di Daniela Palazzoli a proposito delle ricerche condotte presso la Biblioteca Reale di Torino: “Entro in quella splendida biblioteca e domando se hanno album fotografici. No, mi rispondono con fastidio. Invece gli album c’erano. Centocinquanta, duecento album fotografici. (…) Compilo un elenco delle cose che mi interessano e poi chiedo i prestiti in vista della mostra. In prima battuta la Biblioteca rifiuta, adducendo come motivazione il valore delle opere. Alla fine il prestito fu concesso ma ciò che mi sconvolse era che prima non sapevano cosa avevano.”[412] Il catalogo apriva con una presentazione di Helmut Gernsheim, che sottolineava il legame ideale con la mostra per la Triennale del 1957, seguita da un estratto del bellissimo testo di Giulio Bollati di imminente pubblicazione negli “Annali” della “Storia d’Italia”, mentre la sequenza dei saggi affrontava la ricostruzione delle vicende italiane secondo una partizione cronologica articolata con accenti diversi a seconda degli autori. Così Palazzoli dava conto di come La notizia dell’invenzione dello “specchio dotato di memoria” fosse arrivata in Italia; Miraglia trattava de L’età del collodio e Zannier affrontava il problema de La massificazione della fotografia. A questi tre interventi facevano seguito ampie schede regionali, cui corrispondeva una bibliografia di analoga ripartizione, le schede biografiche dei fotografi e un opportuno indice dei nomi. L’apparato iconografico si presentava ricco, con alcune riproduzioni anche a colori, ma piuttosto sorprendentemente per una pubblicazione di quel livello, le didascalie alle immagini riportavano solo autore e titolo, senza alcuna indicazione di data né di tecnica, misure e collezione di provenienza. Mancava, infine, un pur striminzito glossario dei termini, tanto più necessario in una iniziativa espositiva ed editoriale destinata al grande pubblico in un momento in cui il lessico della fotografia storica non poteva essere certo considerato patrimonio comune neppure dei cultori più attenti.
Palazzoli[413] – come si è detto – ricostruiva puntualmente la sequenza degli annunci comparsi sulla stampa italiana, dei primi esperimenti locali e della produzione editoriale legata all’invenzione del dagherrotipo (dalla manualistica alle raccolte di vedute) e alla conseguente rivoluzione nella pratica del ritratto, per passare quindi alle vicende di Talbot e dei suoi ‘amici’ italiani, segnalando anche la presenza eccezionale di “tre disegni fotogenici firmati, se ho decifrato bene, Faggiarani”, che avrebbero rappresentato “con ogni probabilità il primo tentativo italiano in questa direzione”[414], ma di cui non venne fornita alcuna riproduzione in catalogo. Diversa l’impostazione dello scritto di Miraglia[415], che si poneva immediatamente il problema dei rapporti tra tecnologia e “significato che, nella concezione ottocentesca, veniva attribuito alla fotografia come nuovo ‘medium’ nel campo della produzione e della riproduzione dell’immagine”, con una lettura dei fenomeni posta sotto il segno di Bourdieu e della Freund, da cui ricava anche le ragioni per formulare una risposta alle interpretazioni dell’amato Vitali: “manca in Italia una figura come Nadar perché manca quel contesto culturale, storico e sociale che caratterizzò il raffinatissimo ambito intellettuale in cui Nadar si mosse.” L’analisi proseguiva con l’identificazione dei generi più praticati posti in relazione con le rispettive tradizioni iconografiche per sottolineare come “uno dei motivi che maggiormente contribuì all’affermarsi della fotografia fu (…) il suo carattere conservativo nei confronti della tradizione rappresentativa dello spazio.” Un testo importante, che rivelava la formazione specifica e fortemente strutturata della storica dell’arte e che mostrava quanto fossero indispensabili strumenti raffinati e complessi per la lettura e la comprensione delle immagini, a partire da quello – precisamente posto – dell’autorialità, concetto che sarebbe stato sottoposto da più parti a profonde verifiche nei decenni successivi e radicalmente contestato in quello stesso 1979 da Franco Vaccari[416]. Il testo di Zannier trattava invece dello sviluppo della “diffusione delle immagini”, sebbene con generalizzazioni oggi non più condivisibili che accomunavano produzione e riproduzione, camera obscura e calcografia, ma sottolineando opportunamente che “la massificazione dell’iconografia fotografica nasce con la stessa fotografia; è latente nelle intenzioni degli inventori e implicita nel suo procedimento, che si riassume nella riduzione del tempo di produzione dell’immagine” [417]; un processo che contemplava tra le proprie conseguenze anche “una crescente illusione che l’immagine sia in effetti la realtà, una realtà che sbalordisce, perché è sempre più sconosciuta.” L’interesse per i processi comunicativi quali elementi morfogenetici e il richiamo implicito all’idea di simulacro – pur semplicisticamente posti – contenevano elementi di quella che nello stesso arco di tempo si andava definendo come interpretazione postmoderna della società e della cultura, in particolare per merito di Jean Baudrillard[418], e consentivano a Zannier di individuare la nascita di un “nuovo concetto di ‘qualità’ che obbliga a considerare anche la ‘quantità’”, ciò che conduceva inevitabilmente a un rifiuto, per quanto implicito, delle posizioni critiche espresse da Vitali: nell’accezione comune di “massificazione della fotografia” (…) vi è implicita l’accusa di decadimento, volgarità, banalità di un’ ‘arte’ che pare uscire da una vicenda storica irripetibile e sublime”, mentre si doveva riconoscere (riferendosi a Primoli) che “le fresche, estrose immagini, a volte persino felicemente disordinate, libere dai rigidi condizionamenti compositivi della noiosa fotografia ‘ufficiale’ [rappresentavano] una positiva conseguenza di quella massificazione della fotografia che si insiste nel considerare deleteria.”
Ai tre saggi seguivano schede regionali di diversa ampiezza e impianto, presentate come Appunti sulla fotografia nell’Italia dell’Ottocento. Così se per tutta l’Italia settentrionale e in parte centrale si procedeva su base geografica, con approfondimenti che nel caso del Veneto – trattato da Alberto Prandi – assumevano la forma di una vera e propria piccola monografia, per la restante parte della nazione il criterio di ripartizione era invece storico politico (lo Stato Pontificio, il Regno delle due Sicilie, entrambe redatte da Miraglia), con una suddivisone che solo in parte celava la difficoltà di disporre delle informazioni sufficienti a trattare in forma autonoma alcune regioni come le Marche, l’Umbria o lo stesso Lazio, poiché la trattazione dello Stato Pontificio considerava in effetti la sola città di Roma, “fra le poche che sia stata oggetto di studi approfonditi; essa rappresenta un’isola privilegiata che già da tempo ha rivelato la propria fisionomia sotto varie angolazioni.” Chiudevano il volume i profili biografici di più di duecento autori, compresi anche alcuni anonimi (tutti di area romana o meridionale) ma escludendo editori come Baratti e Borlinetto (ma non Montagna) o un tecnico come Pizzighelli, mentre venne incluso Ignazio Cugnoni la cui responsabilità autoriale rispetto al fondo che portava il suo nome era stata messa in discussione da Piero Becchetti solo l’anno prima. Quella eterogeneità di impianto e di approcci rendeva evidente l’assenza di una metodologia storico critica aggiornata e condivisa e in molti casi il riproporsi, come scriveva Massimo Ferretti[419], “di una storia scandita da singole istanze creative, da colpi d’ala, da maestri o da opere; in una parola la vecchia, non necessariamente spregevole, ma semplicemente diversa, storia dell’arte. Cresciuta, di necessità, dalle esperienze di un collezionismo raro e fascinoso, fra i comprensibili entusiasmi del pionierismo, la storiografia fotografica stenta talvolta a superare certi atteggiamenti che di quelle esperienze sono tratti tipici.” Ancora più sferzante fu il giudizio di Arturo Carlo Quintavalle che comprendeva quella rassegna fra “gli episodi più penosi” della recente storiografia italiana[420], non tenendo in conto le attenuanti prima considerate. Sebbene quelle non fossero sufficienti a giustificare le gravi lacune d’impianto né quelle redazionali, che lasciavano più che perplessi, non si può negare che la serie di mostre fiorentine e veneziane costituì un punto di svolta nella crescita, per quanto difficoltosa e necessariamente incerta, di una attenzione diffusa per la fotografia storica in Italia che superasse gli opposti limiti della ricerca erudita e dell’amatorismo.
Una novità ulteriore e per certi versi più rilevante era costituita dalla mostra Fotografia pittorica 1889/1911, coordinata da Alberto Prandi con testi in catalogo di Miraglia e Zannier e schede firmate da alcuni degli autori già coinvolti nel progetto maggiore. L’iniziativa affrontava in modo sistematico, per la prima volta in Italia, quel fenomeno che altri più correttamente chiamavano pittorialismo[421] ovvero, da noi e negli anni del suo massimo rigoglio, “fotografia artistica”[422], come ben precisava un autore coevo: “L’appellativo di ‘Pictorial’ che questa nuova applicazione della fotografia ebbe in Inghilterra, è, per me, inspiegabile, se non prendendo in considerazione che la traduzione letterale inglese dell’aggettivo italiano ‘Artistico’ non ha di questo lo stesso valore, e che siccome finora i quadri non erano composti che di pittura o disegno, l’appellativo ‘Pittorico’ renda più l’idea di uno studio accurato di composizione”.[423] Una certa considerazione per quella stagione della fotografia, rifiutata da Newhall, Gernsheim e Pollack, così come da Negro e Vitali, era stata espressa per la prima volta nell’immediato secondo dopoguerra da Raymod Lécuyer[424] in un testo che però ebbe rara circolazione in Italia, quindi per certi versi rinnovata dallo stesso Gernsheim[425] che, messi da parte gli anatemi di appena un decennio prima, a proposito di “pittoricismo” ora scriveva di “malaugurata tendenza (…) anche se interessante”[426] e soprattutto ne pubblicava numerosi esempi, alcuni dei quali (Rejlander e Robinson, Stieglitz e il gruppo della Photo Secession) sarebbero poi stati meravigliosamente visibili nella discussa mostra torinese Combattimento per un’immagine: fotografi e pittori[427] del 1973, che aveva però altri presupposti e obiettivi. In Italia era stato Giuseppe Turroni tra i primi a dedicare brevi articoli alla fotografia artistica nel 1960[428], a cui era seguito un intervento di J. A. Keim[429], per il quale “la Prima Esposizione di Fotografie Artistiche a Torino nel 1902, nel quadro della Prima Esposizione Internazionale delle Arti Decorative Moderne, costituì uno degli avvenimenti più importanti della storia della fotografia.” Soprattutto importante era stato l’interesse per il fenomeno manifestato da Italo Zannier, che pure come fotografo proveniva dalla cultura ‘neorealista’ del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia, il quale nella seconda edizione della sua Breve storia (1974) aveva rielaborato alcuni contributi sul tema già proposti su vari periodici nel decennio precedente, dedicando al pittorialismo l’intero primo paragrafo del capitolo intitolato Nasce un linguaggio; i giudizi lì espressi erano ancora fortemente limitativi e in parte contraddittori[430], ma consentivano per la prima volta di delineare approssimativamente il fenomeno anche a scala internazionale.
“In genere gli studi e le mostre fotografiche che si sono prefisse di scandagliare questo specifico settore -scriveva Miraglia nel catalogo veneziano prendendo in parte le distanze dal presunto Combattimento – hanno sottolineato il contributo che la fotografia ha offerto o ha potuto offrire (…) alla pittura e alla sua espressione. Lo studio della ‘fotografia pittorica’ sottolinea invece un percorso inverso dalla pittura alla fotografia.”[431] Questo chiarimento implicava la definizione preliminare del più generale quadro di riferimento storico critico, sebbene con giudizi che oggi possono far sorridere, quale la definizione di Rejlander come “autore del più mostruoso quadro allegorico del pittoricismo, dal titolo Le due vie della vita”; un lavoro che Gernsheim si era limitato a definire “la più ambiziosa composizione allegorica dell’intera storia della fotografia”[432] e che la stessa studiosa di lì a poco avrebbe più correttamente definito “ambizioso e complesso” scrivendone per il saggio pubblicato da Einaudi.[433] Diversamente da quanto proposto da Bollati[434], che collocava il fenomeno nel più ampio contesto culturale e ideologico italiano, l’analisi del pittorialismo proposta dalla studiosa era circoscritta all’ambito propriamente fotografico, nel quale ritrovava le connessioni, e quasi la dipendenza dalla diffusione della fotografia amatoriale così come l’influenza contraddittoria (e, oggi lo sappiamo, fraintesa: “in termini apparentemente veristi”, scriveva Bertelli in quegli stessi mesi[435]) della Naturalistic Photography di Emerson, senza rilevarne invece le forti connotazioni elitarie di reazione a quella stessa massificazione amatoriale che le nuove tecnologie avevano consentito e determinato. Il saggio procedeva intercalando quelle che oggi possono apparire come semplificazioni con considerazioni critiche che invece segnarono un definitivo punto di svolta e ancora oggi mantengono tutta la loro efficacia. Mi riferisco all’assunzione in un’unica linea genealogica del “pittoricismo” di Rejlander e Robinson e del pittorialismo[436], oggi non più accettabile, e per converso al riconoscimento del fatto che “la fotografia pittorica abbia offerto la prima occasione per una riflessione critica sul destino della fotografia, anche nei suoi aspetti meno appariscenti, come quando, ad esempio, sottolinea e verifica, ai fini dell’espressione, l’importanza dei vari processi fotografici e dei segni che li caratterizzano”. Per queste ragioni – ribadiva Miraglia – va riconosciuto al fenomeno “il ruolo storico che esso giocò verso la definizione di una fotografia in senso moderno.”[437] A queste precisazioni faceva seguito quella che fu a tutti gli effetti la prima ricostruzione delle vicende della fotografia artistica in Italia, con una considerazione particolare per il ruolo di aggregazione e conoscenza del fenomeno svolto dalla rivista omonima di Annibale Cominetti, con un termine posto significativamente al 1911 non solo per il ruolo svolto dalle due mostre del Cinquantenario a Torino e a Roma, ma anche perché fu intorno a quell’anno, o poco prima, che le fotodinamiche dei Bragaglia avrebbero aperto le porte alla modernità[438].
Il compito di descrivere e analizzare i “processi fotografici e i segni che li caratterizzano” venne svolto da Zannier nel saggio successivo[439], da leggersi necessariamente in parallelo con quello di Miraglia, con la quale condivideva l’opinione che “l’avanguardia in fotografia inizia, paradossalmente, con il kitsch del flou o della gomma bicromatata [ma] questo deprecato pittoricismo va inteso anche come un atto di fiducia nella fotografia quale prodotto culturale, sebbene d’élite”. Questa prima parte del saggio, seppur molto ricca di informazioni intese a connettere soluzione tecnica ed espressione formale, mancava però di rilevare con sufficiente chiarezza quanto quelle scelte corrispondessero e fossero manifestazione di un bisogno di unicità dell’opera, di una malintesa concezione della manualità come garanzia e quasi sinonimo di artisticità, in opposizione dichiarata alla riproducibilità consentita e quasi indotta dalle nuove emulsioni e, soprattutto, dai processi di stampa fotomeccanica. La seconda parte era invece composta da un susseguirsi mirabolante di descrizioni dei diversi processi, tratte dai manuali di Rodolfo Namias e Luigi Gioppi, con precisazioni e termini che non potevano che suonare esoterici in quel mitico anno (antracotipia; charbon-velours, “da non confondersi” – ovvio – col carbondir, e altri consimili), in una spensierata commistione testuale che la avvicinava alla pubblicistica per il fai da te, ma consentiva anche di intuire, se non proprio di scoprire quale fosse stata la ricchezza anche tecnica, la maestria artigianale che quelle superfici sensibili celavano, ben oltre l’apparente banalità e un’espressione di gusto discutibile e ormai datata. Insomma un invito a riconsiderare storicamente il fenomeno, ma drasticamente contraddetto dalla chiusa del testo: “Tutte queste tecniche -scriveva Zannier – sono state applicate in modo volgare nella produzione di immagini kitsch che oggi si è troppo spesso disposti a rivalutare, e che sono comunque un prodotto emerso da un concetto deformato della funzione della fotografia, intesa non nella sua autonomia di linguaggio, ma come concorrente della pittura e per giunta di una pittura provinciale e reazionaria.”[440] Un giudizio drastico, che sembrava cancellare l’opportunità e il senso stesso di quella mostra.
Tracce evidenti di quelle incertezze erano ben riconoscibili nella scelta degli autori, tanto eterogenea da collocare ad esempio Oreste Bertieri o Giuseppe Caravita principe di Sirignano e Mario Nunes Vais con Federico Maria [ma Pietro] Poppi, e questi con Guido Rey, ma anche Luigi Ceradini e Filippo Rocci[441] accanto a Wilhelm Pluschow e Wilhelm von Gloeden. Non poteva essere maggiore la distanza dalle posizioni di Carlo Bertelli[442], il quale – rileggendo Von Gloeden attraverso Harald Szeemann – parlava invece di “realismo senza compromessi” che prevaleva sulla “ricostruzione abborracciata di un’antichità museografica” influenzata da Alma Tadema e Max Klinger; restituendo la natura con “turgida fedeltà”, in un percorso diametralmente opposto a quello della fotografia artistica, impegnata a “prendere le distanze dalla natura (…) a sottrarsi al suo assalto, a verificare anzi le proprie capacità di allontanarsene, di ricreare.” Il lungo percorso trasversale compiuto da Bertelli intorno a questo tema aveva un ben più lontano avvio: dal “fine artistico” di una “grandissima parte di queste immagini realistiche di tema apparentemente sociale” destinate ai pittori intorno alla metà del secolo XIX, coniugando pittoresco e verismo, ma anche dalla fotografia di nudo, che “poneva in modo perentorio il problema della fotografia artistica [poiché] la fotografia del nudo è la fotografia inventata per eccellenza.” Altre ancora erano le feconde indicazioni critiche di quel testo, quali la precisa individuazione delle dinamiche che consentirono alla fotografia di “avere un oggettivo valore estetico soltanto [arrivando] a imporsi come stampa, e ciò poteva avvenire soltanto in un contesto di raffinato livello tecnico e dentro un sistema di scambi che desse un valore reale alla stampa d’autore”; per questo “il movimento dei pictorialists in fotografia assomiglia molto a quello degli artisti incisori”[443], poiché “i fotografi – artisti rivendicano la creazione contro la riproduzione; sanno che i tempi in cui le associazioni dei fotografi si occupavano di promuovere il progresso tecnico sono finiti dal momento che di questo si occupano direttamente le branche chimiche, ottiche e meccaniche delle grandi industrie fotografiche. (…) I fotografi artisti constatano l’enorme facilità della fotografia del loro tempo, l’indifferenza della stragrande maggioranza della fotografia che si produce verso problemi estetici; (…) la fotografia pittorica reagisce alla casualità meccanica per riaffrontare un lavoro fotografico consapevole.” Anche l’origine della (s)fortuna critica di quella stagione era puntualmente individuata da Bertelli nel giudizio a suo tempo espresso dalle avanguardie, “così perentorio da convincere pressoché chiunque abbia tentato di avvicinarsi alla storia della fotografia che il periodo pittorico sia stato una deviazione aberrante, una non-fotografia. Si dimentica che cosa fosse la fotografia commerciale negli anni ’85-90, quanto falsate dai ritocchi fossero le fotografie che dovevano onestamente ‘documentare’ e come la fotografia ‘artistica’ fosse un passaggio obbligato per la stessa avanguardia, che è nata proprio all’interno della fotografia simbolista”, prova ne sia che “le fotografie di Bragaglia furono accettate subito e con molto favore dalla redazione della ‘Fotografia Artistica’ (…) Nessuno ne fu sconvolto, nessuno vi avvertì il pericolo di una rottura con un modo di pensare intorno alla fotografia, o intorno all’arte” poiché “la fotodinamica non usciva dall’orizzonte della fotografia artistica italiana. Secondo la tradizione italiana, non si preoccupava di un rinnovamento dei temi, ma di una trasfigurazione di quelli noti, del ritratto specialmente.”[444]
Il convegno organizzato dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Modena nei primi giorni di novembre del 1979 e dedicato a La fotografia come bene culturale[445], venne messo a punto da un comitato scientifico costituito da Andrea Emiliani, Massimo Ferretti, Daniela Palazzoli e Italo Zannier e costituì la prima importante occasione di confronto sulle necessità conoscitive, sull’archivio fotografico (nelle sue più diverse accezioni) come fonte e come patrimonio da tutelare e valorizzare. Il dibattito venne orchestrato intorno a tre aree tematiche: il ruolo delle istituzioni, le funzioni culturali (insegnamento, editoria, mostre, associazionismo e professionismo) e infine “esperienze e metodi di ricerca storiografica”. Fu quello l’esito di una prima stagione di elaborazione già sufficientemente raffinata, sebbene poi alle “grandi invocazioni, agli ottativi ormai un po’ stentorei dei conservatori” avesse corrisposto “ben poca vera attività”[446]. In quella progressiva presa di coscienza, anche politica, svolgeva un ruolo determinante la cultura amministrativa emiliana, espressa in particolare con la costituzione nel 1974 dell’ IBC – Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna (con Andrea Emiliani e Lucio Gambi tra i promotori), quale strumento della programmazione regionale e come organo di consulenza degli enti locali nel settore dei beni culturali. La Premessa dell’Assessore al catalogo della mostra Antiche fotografie nelle collezioni civiche modenesi[447] costituiva una chiara testimonianza di quale fosse il livello di consapevolezza politica raggiunto, specie per quanto riguardava la necessità di “considerare il materiale fotografico non come corpo staccato dalle raccolte e dai materiali presenti negli Istituti, ma come parte integrante della documentazione più generale in essi conservata. (…) Questa considerazione metodologica generale risulta utile anche per affrontare tutta una serie di problemi relativi ai modi ed alle tecniche di archiviazione e divulgazione dei materiali. (…) Mentre da un lato si dovranno risolvere con urgenza i fatti propriamente tecnici della conservazione (…) è possibile ipotizzare come strumento conoscitivo unificante [il] ‘catalogo’ che insieme alla schedatura dei reperti dovrà consentire, con la riproduzione delle immagini, una utilizzazione delle medesime aperta e pubblica, rivolta a molteplici utenze.” “È nel catalogo – ribadiva Andrea Emiliani nella stessa occasione – che le sapienti istanze dei conservatori dei convegni e delle tavole rotonde possono abbandonare l’enfasi per acquistare – se mai la possiedono – la fragranza di un atto finalmente pragmatico, finalmente operativo. È proprio nel catalogo, infine, che la sonda della microstoria mette a punto le sue possibilità, offrendosi al futuro.” Un programma di politica culturale quanto mai chiaro, ma di realizzazione quasi utopica in quei tempi di riproduzione inevitabilmente analogica, come rilevarono alcuni interventi al convegno e come purtroppo avrebbero dimostrato le vicende italiane dei decenni successivi.
La prima sessione di lavoro comprendeva gli interventi di Emiliani, Oreste Ferrari e Tea Martinelli dell’ICCD a cui si affiancavano le relazioni dedicate alla Francia di Jean Claude Lemagny, responsabile delle collezioni fotografiche della Bibliothèque Nationale di Parigi, e alla Gran Bretagna di Barry Lane, referente per la fotografia dell’Arts Council di Londra; nella seconda a Paolo Lazzarin, Paolo Fossati e Settimelli succedevano i responsabili delle maggiori associazioni fotografiche italiane (Michele Ghigo; Maurizio Bizziccari; Fabio Simion). Più prossima ai nostri interessi attuali la terza parte con interventi di Helmut Gernsheim (Fondamenti e metodi delle ricerche inerenti a una storia della fotografia), di Giulio Bollati, che presentava gli esiti del lavoro realizzato per gli “Annali” einaudiani in corso di pubblicazione, di Maria Adriana Prolo, sui rapporti tra fotografia e cinema, e infine di Marina Miraglia, che illustrava Risultati e prospettive della ricerca storiografica conseguenti ai lavori per la mostra sulla ‘Fotografia Italiana dell’800’, un testo che avremmo volto leggere con grande curiosità e interesse. Tra i relatori spiccava la mancanza di alcuni dei “nostri più brillanti e intelligenti studiosi come Arturo Carlo Quintavalle, Carlo Bertelli, Ando Gilardi, Lamberto Vitali, che potevano dare testimonianza delle loro originali e importanti ricerche sul tessuto storico della nostra produzione fotografica [che] hanno preferito disertare il convegno, in polemica col comitato scientifico che da alcuni anni monopolizza l’attività in questo settore”[448]. Assenze che per molti versi limitarono il giudizio positivo sull’importante iniziativa modenese, rispetto alla quale del resto risulta oggi impossibile esprimere compiute valutazioni di merito poiché le vicende di quell’incontro per molti versi fondativo si conclusero con un vero e proprio atto mancato, non giungendo alla pubblicazione delle relazioni presentate, così che la sola traccia nota è costituita dalla trascrizione dell’importante intervento di apertura di Emiliani[449]. Un’accorata e alta riflessione di politica culturale, aperta con sconsolata ironia da una sintetica ricostruzione delle povere vicende italiane che avevano portato al riconoscimento della fotografia come bene culturale e da un’avvertenza sull’esito fallimentare a cui sarebbero stati destinati quei progetti di ricerca che si fossero proposti di “dare al mondo raccolte fotografiche e loro relativi cataloghi senza preoccuparsi di denotare e illuminare le circostanze di origine culturale, di committenza e dunque di economia”; anche per questo, esprimendo preoccupazioni analoghe a quelle di Quintavalle[450], invitava a prendere coscienza del fatto che la spinta che aveva condotto al riconoscimento della fotografia come bene culturale proveniva essenzialmente da un “motore privato e mercantile”, mentre invece aveva bisogno di aprirsi e dilatarsi “verso l’orizzonte unificante del concetto di patrimonio (…) verso la più generale visione di un’idea di cultura.” Altre preziose informazioni si potevano ricavare da un resoconto a firma di Andrea Jemolo[451], a partire dalla constatazione che “solo ora che la fotografia si è ormai solidamente installata nella nozione di bene culturale, le amministrazioni locali si sono accorte di possedere un vasto patrimonio di immagini fotografiche e di dover procedere ad un suo riordino per poterlo utilizzare sistematicamente”, sebbene poi proprio tra i maggiori difetti del convegno vi fosse stato, a suo parere, “quello di non essere riuscito a indicare chiaramente che cosa si debba intendere per ‘Fotografia come bene culturale’. (…) Ma il convegno di Modena ha messo soprattutto in risalto l’estrema arretratezza della nostra cultura fotografica nei confronti di analoghe esperienze di altri paesi europei [dove] anche grazie ad ingenti sostegni statali, la ricerca storiografica è attiva e fertile già da vari decenni.” Proprio in quel senso numerosi interventi avevano auspicato che si potesse pervenire “attraverso l’Istituto Centrale per il Catalogo, ad un sistema di schedatura unica per tutti i reperti fotografici che sono conservati nel nostro paese”, ma come è noto quell’auspicio si concretizzò solo un ventennio più tardi e senza ottenere la necessaria adesione di tutte le istituzioni interessate.
Da quella imponente serie di iniziative, ma certo non dal convegno modenese, prendeva neppure troppo implicitamente le distanze l’altra grande realizzazione editoriale di quell’anno: la pubblicazione dei due tomi de L’immagine fotografica 1845-1945[452], con l’affettuosa dedica “A Lamberto Vitali”. Secondo volume degli “Annali” della “Storia d’Italia” edita da Einaudi, curato da Carlo Bertelli[453] e Giulio Bollati[454] proprio nell’anno in cui si consumava la rottura tra l’editore e il suo prestigioso direttore generale.
Il precedente volume della “Storia d’Italia”, l’Atlante pubblicato nel 1976, era stato concepito come “una raccolta di materiali visivi attinenti alla storia non in forma meramente accessoria, ma come prolungamento del discorso ‘storico’ portato sui linguaggi della visione e della figurazione (…). Avremmo voluto già allora – scriveva Giulio Einaudi – dedicare un capitolo alla fotografia, ma la situazione provvisoria del settore – tuttora impegnato nella ricerca e nella sistemazione dei materiali e nella sperimentazione di autonomi criteri storici e metodologici – ci indusse ad allungare i tempi per ampliare lo spazio della trattazione e arricchire di inediti la documentazione, nello spirito di un contributo ai ‘lavori in corso’ che è tipico della Storia d’Italia.”[455] Confermava quelle intenzioni, rivelando alcuni retroscena, una lettera di Bollati a Bertelli del febbraio 1977: “Non so se a quest’ora hai ricevuto e letto o almeno sfogliato l’Atlante (…). Se così fosse non ti sarà sfuggito che, mentre la prefazione insiste non poco sulla storia della percezione visiva, il volume difetta almeno su due fronti. Lasciamo il cinema, che pure meriterebbe un discorso. Ma la fotografia! Quale triste e lamentabile lacuna! Ti dirò in confidenza che il capitolo apposito era stato progettato e affidato. Malissimo affidato, tanto che si dové rinunciarvi. Allora a qualcuno era sembrato eccessivo ‘disturbare’ te, già bersagliato da altri impegni. Ma a cose viste, si è capito che quel capitolo non era dei minori, ma dei maggiori, e che l’autore andava cercato a livelli alti. Hai già capito che sto chiedendoti di farlo tu ora: cento immagini e quaranta – cinquanta cartelle di testo (salvo variazioni in più a tua discrezione). Potremo, inizialmente, distribuire il fascicolo come supplemento, in un secondo tempo, abbastanza ravvicinato, farlo rientrare in una ristampa del volume. Alla proposta, che Giulio Einaudi sottoscrive di persona, ci associamo noi tutti. Penso che per te potrebbe essere un lavoro non gravoso e ricco di ‘invenzione’ e ‘divertimento’.”[456] Bertelli accolse la proposta, indicando anche alcuni possibili ambiti d’indagine (le donne, città e paesaggio) così che nei mesi successivi il progetto prese corpo anche se tra indecisioni e incertezze come sembra indicare il passo di un’altra lettera di Bollati all’amico in occasione dell’uscita del primo volume degli “Annali”: “Guarda bene quel grosso tomo, e immagina come sarà importante il volume II a firma Carlo Bertelli, magari anche sdoppiato in due tomi.”[457] Lettera di evidente lusinga, dalla quale risultava che a quella data il piano non prevedeva ancora la doppia curatela, come confermavano anche i verbali di una riunione editoriale di poco successiva[458], nel corso della quale lo stesso Bollati illustrando il “programma di libri fotografici” citava fra gli altri “l’Annale di Bertelli che è l’Italia vista dai fotografi. Bertelli stesso ci ha segnalato due libri tedeschi: uno su Arte e fotografia di Otto Stelzer[459] e un altro che è una storia della fotografia.[460]” Le difficoltà di realizzazione dovettero però essere non solo numerose e impreviste ma anche di diversa natura se in un Promemoria[461] all’editore Bollati arrivava a scrivere che “la situazione resta acrobatica e impone uno sforzo notevole. Com’era da aspettarsi, man mano che la nostra ricerca procede, Bertelli deve rivedere le sue ipotesi di partenza, sulle quali non ha mai potuto riflettere con la concentrazione che un’opera così vasta richiede. Nell’incontro che gli abbiamo dovuto praticamente imporre, avvenuto a Milano giovedì 11 [gennaio 1979], abbiamo dovuto anche imporgli di ripensare il piano dell’opera, e di farlo subito, compitando insieme i temi intorno a cui organizzare la raccolta del materiale. Il risultato di questo lavoro si può vedere nell’allegato, che rispecchia una fase ancora provvisoria e disordinata, ma che, rispetto al niente di prima, è già una traccia per il completamento della raccolta di fotografie (condotta finora cercando di indovinare il pensiero di Bertelli, ma anche con molti contributi personali). La raccolta del materiale continua. Quando Bertelli vedrà le foto, dovrà probabilmente adattare il testo alle molte cose nuove trovate. Per il momento la situazione del testo è questa: Cap. I: L’obiettivo sugli italiani (…) Cap. II: La realtà trasformata (…) Cap. III: (…) da scrivere. Il progetto prevede che a questo punto segua nel volume il materiale fotografico, diviso in sezioni tematiche (ho voluto una sezione ‘eventi’, se no troppe cose storiche sarebbero rimaste fuori). (Mi accorgo che manca ancora una sezione scienza e tecnica). Ogni sezione sarà introdotta da un cappello. Ovviamente nel libro, rispetto all’elenco allegato, il numero delle sezioni diminuirà notevolmente. Concluderà l’opera un’appendice di documenti sulla fotografia: testi critici, testi di ‘poetica’, testi insomma di interesse storico e tecnico o di riflessione teorica. La ricerca fotografica, dicevo, va avanti. Abbiamo finito l’importante esperienza dell’Istituto Luce (…). Questa settimana completiamo Torino: Museo della Montagna (fatto Sella e Rey); Fondo D’Andrade (quello del borgo medievale, il primo soprintendente italiano, grande disegnatore e fotografo di monumenti); le raccolte della Biblioteca Reale; quelle del Museo del Cinema; le minoranze etniche e culturali (ebrei, valdesi, occitani). Poi E.M. [Enrica Melossi] ha un programma emiliano, al quale mi unirò se necessario. Andrò di sicuro, invece, a Venezia, Trieste, Firenze. Non ho il coraggio in questo momento di organizzare un’indispensabile visita a Napoli. Qualcosa intanto ho trovato a Mantova. Rifiniture a Roma: è necessario ritornare al Gabinetto Fotografico Nazionale. Molte cose le sta mandando avanti E.M. da sola d’accordo con me. Malgrado l’apparenza, abbiamo chiuso i capisaldi – luoghi e cose – della ricerca, non navighiamo alla cieca. Pensiamo anche di poter chiudere a un segnale convenuto – dovrà venire da Bertelli – senza farci pescare con omissioni gravi. Anche entro febbraio, non è escluso. Se mai, si tratta di limare e integrare i singoli casi.” Alcuni capisaldi, infatti, erano delineati: la struttura del volume col testo separato dalle immagini, la presenza di una appendice di documenti, ma altri aspetti fondamentali risultavano ancora tutt’altro che chiari; in primis l’arco cronologico di riferimento, che a quella data prevedeva ancora un’estensione sin “dopo il ’45”, ma soprattutto l’articolazione tematica era ben lontana da una soddisfacente soluzione e la settantina di lemmi individuati richiamava più un soggettario che una struttura discorsiva[462]. L’altro dato rilevante e per molti versi inatteso che emerge da questi documenti è il ruolo svolto dai due studiosi: nonostante la competenza specifica e la lunga esperienza di Bertelli come direttore del GFN e dell’ING fu infatti Bollati a coordinare e svolgere in prima persona le ricerche iconografiche negli archivi italiani, pubblici e privati. Non solo: fu lui a definire l’orizzonte storiografico del progetto. Come scriverà anni dopo Bertelli ricordando l’amico scomparso “Giulio Bollati si mise alla ricerca di quegli elementi che nei caotici archivi fotografici italiani permettevano di riconoscere linee di tendenza corrispondenti a una modernità che, malgrado tutto, premeva e infine s’imponeva. (…) Bollati era andato a cercare le tracce del cambiamento negli archivi delle società industriali più direttamente interessate alla concorrenza cosmopolita e, con notevole intraprendenza, in quel lembo d’Italia austriaca che erano state Trento e Trieste. (…) Eppure, nella ricerca a tappeto condotta in tutta la penisola, l’autore era consapevole delle lacune e dei silenzi. Macabre fotografie di banditi del sud ce n’erano (…) per contro quasi nulle le fotografie relative alla classe operaia.”[463]
“L’uscita di questo volume – scriveva Giulio Einaudi nella nota di apertura – cade, per una coincidenza significativa, in un momento di interesse particolarmente intenso per la fotografia, la sua storia, il suo significato, il suo legame con la vita italiana. Le origini del volume sono, comunque, autonome e risalgono al progetto culturale che sotto il titolo di Storia d’Italia ha dato luogo, a partire dal 1972, alla pubblicazione di un’opera di cui gli Annali costituiscono la continuazione e lo sviluppo. (…) I due autori dell’opera, Carlo Bertelli e Giulio Bollati, partono da premesse e da formazioni diverse, ma concordano nella necessità di collegare la fotografia, come sistema linguistico e produttivo, alle strutture e ai problemi della organizzazione della cultura.”[464] Una dichiarazione programmatica chiara, che collocava precisamente la nuova realizzazione nel progetto storiografico dell’intera opera, sinteticamente richiamato nelle righe finali e di cui si potevano trovare ampie tracce in molti dei volumi già pubblicati[465]. Il volume apriva con l’Elenco delle [676] illustrazioni, organizzato per temi che non trovavano immediata corrispondenza nell’articolazione dei saggi, costituendo così un ulteriore spazio discorsivo. Di ciascuna immagine erano indicati nell’ordine Soggetto, Autore, Data e Provenienza (collezioni pubbliche e private, ma anche da fonti bibliografiche), senza fornire però – se non per alcuni calotipi assegnati a Tuminello, poi attribuiti a Caneva da Becchetti – alcuna indicazione tecnica, come se questa non appartenesse e non fosse anzi costitutiva del “sistema linguistico e produttivo” della fotografia. Seguivano i saggi dei due curatori e quindi quello che con discutibile scelta terminologica[466] venne definito l’Apparato fotografico sviluppato nei due tomi, il secondo dei quali chiudeva con una importante Appendice di testi e documenti e con l’Indice dei fotografi.
L’immagine contrastata fu il titolo emblematico scelto da Bollati per il primo paragrafo del suo saggio, qualificando così i nodi problematici, gli scenari e i contesti del proprio territorio d’indagine, segnato da un’apertura che invano avremmo cercato nelle altre produzioni coeve. “Questo libro non è una storia d’Italia attraverso la fotografia, né una storia della fotografia in Italia – scriveva in quel suo citatissimo incipit – (…) Si situa di proposito in una zona intermedia dove è lecito sperare che l’indeterminatezza favorisca effetti di alone utilizzabili dall’uno e dall’altro punto di vista. Abbiamo del resto motivo di credere che la nostra scelta sia appropriata alla fase attuale della fotografia, questa ultima arrivata nella nostra lungamente estranea e diversa cultura.” L’origine di quella estraneità era riconosciuta nella “persistenza di una tradizione culturale di antica ascendenza classica” e nel ritardato ingresso del nostro paese nel mondo industriale avanzato. Per queste ragioni “la fotografia, riportando alla superficie[467] il tema primordiale dell’immagine e dei suoi rapporti col pensiero, si è trovata coinvolta in sommovimenti profondi della nostra eredità culturale [poiché] all’apparire del nuovo mezzo, la cultura figurativa tradizionale si sentì in pericolo e diede l’allarme: con la pretesa di fare arte mediante una macchina e il sussidio di reazioni chimiche, il mondo dell’industria rompeva un antico confine e invadeva il territorio dei valori consacrati.” Da quella interpretazione storica del fenomeno Bollati faceva derivare una precisa posizione critica, considerando un errore “mantenere la fotografia (…) dentro quella continuità estetico – figurativa che essa, appunto, ha interrotto, e nell’aspettarla alle prove di una annosa concezione dell’ ‘opera d’arte’ ”. Non solo: facendo proprie una serie di suggestioni che muovevano da Benjamin sino all’ultimo Barthes[468], Bollati invitava a riconoscere che “malgrado l’educazione estetica che abbiamo ricevuto, il nostro rapporto con la fotografia è più grossolano e affonda nell’indistinto dell’esperienza: tende a privilegiare come valore il contenuto, di più, inclina a confondere l’oggetto e la sua rappresentazione, scivolando inavvertitamente nella mentalità magica del cacciatore paleolitico. La fotografia ci fa regredire a uno stadio in cui l’immagine si sottrae al controllo del pensiero razionale (…) ha risvegliato l’arcaico e il demonico dormienti nel profondo”. Questi alcuni dei nodi che per Bollati era indispensabile riconoscere e sciogliere se si intendeva affrontare la presenza della fotografia nella storia della società italiana; l’elemento di continuità nel rapporto dialettico “tra la risvegliata ‘naturalità’ della percezione (sedimentata da una precedente storia antropologica, psicologica, ecc.) e la cultura dominante, che cerca di non perdere il controllo del fenomeno”. Si precisava così l’intenzione di “tracciare l’abbozzo di un possibile capitolo dell’ideologia italiana, dedicato alla visione e con particolare riferimento alla fotografia”, recuperando “prescrizioni e divieti, minacce e lusinghe intesi a fissare la linea del vedere e le norme per la produzione di immagini visuali”. Un programma perfettamente coerente e rappresentativo di quella che allora si definiva ancora nouvelle histoire, nella specifica accezione di storia delle mentalità.
Nei paragrafi seguenti l’ipotesi interpretativa prendeva corpo intorno ad alcuni temi centrali quali l’industrializzazione; i rapporti con la tradizione estetica o lo stato e ancor più lo spirito dei luoghi, le cui rappresentazioni avrebbero contribuito a definire L’inventario fotografico dell’Italia unita (come recitava il titolo del terzo paragrafo): “Un vasto campo di lavoro si apre alla fotografia come strumento di unificazione. (…) Più in generale essa collabora alla creazione di una retorica nazionale didattica e celebrativa, traducendo in immagini i tòpoi derivati da varie fonti o producendone copiosamente di propri. (…) La raccolta di ‘bellezze naturali’ del Bel Pese sarà compiuta da un esercito di fotografi spesso di basso e infimo livello, capaci però di comporre un mosaico di stereotipi visivi tanto tenaci, che molti luoghi e paesaggi reali ne saranno ‘sostituiti’ per sempre.”[469] Quelle immagini oleografiche e retoriche, ma anche la retorica di quelle immagini e di quell’immaginario si riveleranno ben presto strumentali – ci ricordava Bollati – a quell’ “occultamento del reale” che avrebbe poi segnato una buona parte del modernismo del ventennio fascista e l’opera dei “nostri fotografi di ruralità artistiche”; un’ironica definizione che compendiava il giudizio su quel “pittorialismo ricchissimo di Kitsch e tuttavia capace in alcuni casi di sorprendenti riuscite.” Un fenomeno di cui Bollati individuava i riferimenti culturali non solo e non tanto nella più immediata aspirazione all’artistico ma – con sguardo più ampio e profondo – in quel “neoidealismo italiano” già richiamato in apertura che aveva innalzato “una barriera tra la cultura italiana e la cultura del mondo industrializzato, e al riparo di quel muro esteti di varia estrazione, letterati, moralisti scendono in campo contro il nemico comune: il materialismo.”
Con una lettura che appariva debitrice dell’interpretazione gramsciana del futurismo, sarebbe stata la Grande Guerra, scriveva Bollati, a gettare improvvisamente l’Italia in quella modernità industriale di cui costituiva una “violenta intensissima esperienza”[470]; occasione in cui “nel trionfo della demenza autoritaria, la fotografia scopre se stessa, la sua democraticità, l’assolutezza del suo rapporto con le cose. Le fotografie della Grande Guerra sono spesso ‘solitarie’, come se non dovessero essere viste da nessuno, neppure da chi ha premuto il pulsante della Kodak portatile”. Il successivo ventennio fu invece la “grande e infamante occasione per la fotografia italiana, chiamata a documentare la realtà dell’inesistente[471] mentre il reale viene sistematicamente occultato”, sebbene poi per la sua stessa natura la fotografia rivelasse “tutto quello che le si ordina di nascondere. Basta ormai la faccia di un bambino, o una colonna di fumo sullo sfondo di una periferia per sfatare i colli fatati e i medioevi cristiani, cavallereschi e comunali.” Per Bollati la sola produzione dotata di una certa autonomia era stata quella “legata soprattutto a ricerche architettoniche, pubblicitarie, di design industriale. Si assiste come al formarsi di una grammatica e di una sintassi della visione moderna, che sul terreno della ricerca formale trova il contatto con esperienze internazionali d’avanguardia [che] maturano anche il pittorialismo italiano di base a effetti di più aggiornata trasposizione letteraria del reale. (…) Dopo una lunga sottomissione all’alta cultura aristocratica dei vati e dei moralisti, e dopo il confino fascista, con la fine della guerra la fotografia italiana esce finalmente dall’isolamento e raggiunge in breve tempo traguardi alti. Ma non diremmo che sia sicura di sé, né, del resto, che possa esserlo.”[472]
Diversi l’impianto e gli obiettivi del successivo saggio a firma di Carlo Bertelli, La fedeltà incostante. Schede per la fotografia nella storia d’Italia fino al 1945, che si proponeva come inedita sintesi storica fondata sulla chiara necessità storiografica di collocare le vicende della fotografia in Italia nell’ampio e mutevole contesto storico del lungo periodo considerato e in un rapporto di scala che col progredire dei decenni necessariamente si ampliava. “Lo sforzo di uno storico della fotografia – scriveva Bertelli – deve mirare a collegare il più possibile il documento fotografico a una trama storica, assumendolo non come riflesso di una realtà storica ipotetica, ma come una parte, a seconda delle circostanze più o meno rilevante, della stessa.”[473]. Altre considerazioni di ordine generale erano poste in chiusura del saggio, a proposito delle ragioni industriali, commerciali ed economiche che avevano da poco suscitato “un nuovo e quasi inedito interesse verso il collezionismo fotografico estendendo fino ai livelli attuali la concezione di una fotografia destinata al libro, alla mostra, al museo. Il tipo di storiografia che ne è stato sollecitato, ricalcato sullo schema della storia dell’arte, conviene perfettamente allo scopo. Poiché in una ricerca di meriti, il problema di fondo di che cosa abbia costituito la fotografia nella storia della società italiana è rimandato alla speranza di scoperte successive che dimostrino, contro ogni evidenza, che l’Italia può entrare nel consesso dei paesi che hanno una storia della fotografia con gli stessi titoli. Quando si deve invece riconoscere che l’Italia è un caso diverso, che non ha gli stessi titoli e non ha nessuna ragione per cercare questo tipo di promozione fra i paesi industriali. Al contrario sarà proprio una più approfondita conoscenza della nostra storia industriale e dei suoi complessi intrecci con le industrie estere che potrà contribuire a conoscere la storia della fotografia in Italia, la storia cioè della forma di documentazione, di comunicazione e di riproduzione tipica della moderna società industriale. Sapremo così ascoltare anche il silenzio, e interpretarlo.” Lascia oggi qualche perplessità quella disposizione all’ascolto del silenzio degli innocenti in cui pare di cogliere ancora una traccia, se non proprio una consonanza, per quanto incommensurabilmente più articolata, con le posizioni a suo tempo espresse da Negro e Vitali. Sono convinto che ormai da tempo (e fortunatamente) nessuno storico della fotografia italiana si applichi ai propri studi alla ricerca di un primato da verificare, ma nella consapevolezza, del resto enunciata dallo stesso Bertelli in apertura, che la fotografia e i suoi prodotti sono stati e sono parte della storia e della cultura di un Paese e che questa è la sola ragione, necessaria e sufficiente perché debbano essere studiati.
La varietà dei temi e la maestria con cui sono stati affrontati ha fatto di quest’opera un riferimento imprescindibile per ogni storico a venire, anche quando risultava inevitabilmente condizionata dai differenti livelli di conoscenza disponibili all’epoca, determinando attenzioni e approfondimenti di cui a volte è difficile stabilire quanto fossero l’esito di scelte critiche oppure di condizionamenti contingenti. Pur senza pretesa di antologizzarla credo sia utile dare conto almeno di alcuni degli elementi più significativi, così come di quelle che ora paiono incertezze di comprensione da cui derivarono improprie considerazioni storico critiche: ne costituiva un buon esempio l’esclusione del calotipo dalla sequenza tecnologica significativa, senza cogliere la novità determinante, linguisticamente inedita del primo processo negativo/ positivo, del quale tutto ciò che ricordava Bertelli era che “anche la nuova invenzione (…) del negativo su carta (calotipo) ha una sua fase accademica in Italia attraverso lo scienziato modenese Giovanni Battista Amici”. La cultura tecnologica, come già nei volumi da lui ispirati dedicati a Michetti e Cugnoni[474], doveva essergli sostanzialmente estranea se non proprio ostica se poco dopo possiamo leggere che “il calotipo ha una granulosità strana, che ricorda il disegno, ma che, per non dipendere dalla carta, bensì da una sospensione di materie meno fini nel pigmento stesso che forma l’immagine, lascia interdetti [i contemporanei, si suppone] e si risolve in una curiosa sensazione atmosferica, con una incertezza di definizione che si presta al racconto.”[475] Brano incredibile, che misurava concretamente la distanza tra inoppugnabili dichiarazioni di principio e competenze che (almeno in ambito fotografico) si rivelavano ancora incommensurabilmente lontane dalle necessità di comprensione dei processi propri di una tecnologia di produzione che forse più di altre di questi viveva e da questi era determinata, anche e soprattutto nelle proprie possibilità espressive.
Meglio allora guardare alle più raffinate considerazioni critiche di lettura dell’immagine di Bertelli, molte delle quali ancora oggi efficaci sia in termini di definizione generale[476] che di interpretazione storicamente circoscritta, ricordando ad esempio che “attraverso la fotografia la medicina ottocentesca tocca una delle punte più appariscenti della sua immersione nell’individuo e nel contesto sociale cui appartiene.” Un richiamo che consente di sottolineare l’ampiezza e la novità dei temi proposti da Bollati e variamente scandagliati da Bertelli, che accanto ai generi canonici di derivazione pittorica (la veduta, il ritratto, il nudo) ne affrontava di sostanzialmente inediti, suggerendo percorsi di ricerca tuttora validi: emigrazioni e catastrofi; gli scrittori e la fotografia; lo sport[477] e la moda; la fotografia geografica e di montagna; la fotografia di guerra e quella industriale; o ancora quella editoriale in rapporto alla grafica e al linguaggio cinematografico: “dal momento in cui la fotografia si trova a confrontarsi non più soltanto con la pittura, ma anche con il cinema, è costretta a una concentrazione di significato che dia alla singola fotografia una densità narrativa enorme, che ormai non può essere ottenuta con prestiti dai modi della pittura, ma si attua in una scomposizione della realtà, secondo le esigenze ottiche e meccaniche della fotografia, tale da estrarne immagini simboliche.” In questo ricchissimo excursus alcuni temi o contesti costituivano un terreno privilegiato d’indagine: autori come Michetti o Nunes Vais, ma anche le successive declinazioni della fotografia artistica e la politica dell’immagine nel ventennio fascista e sino alle prime reazioni del secondo dopoguerra. Sorprendeva invece lo spazio marginale, poco più che un cenno, riservato alle funzioni e al ruolo della fotografia dell’arte, a proposito della quale rimarcava come “ancora più indicativa del dissidio fra fotografia e cultura è l’assenza di una riflessione sulla fotografia delle opere d’arte”, senza menzionare non dico alcune campagne ottocentesche allora forse sconosciute ma neppure il magistrale esempio del Piero della Francesca di Roberto Longhi[478] o i necessari antecedenti di Adolfo Venturi, Corrado Ricci e Pietro Toesca che pure dovevano essergli ampiamente noti, non foss’altro che per il ruolo istituzionale da lui svolto in quell’arco di tempo.
La rilevanza e il significato dell’impresa editoriale, così come le questioni metodologiche poste, sollecitarono un’ampia serie di riflessioni critiche da parte sia di storici contemporaneisti che di quelli di fotografia, anticipate però da una importante intervista allo stesso Bollati[479]. Quell’opera, chiariva, andava intesa come “il tentativo di acquisire finalmente alla riflessione storiografica italiana il linguaggio della fotografia. (…) Non c’è distanza fra i testi e le foto. Il mio saggio è nato insieme alla ricerca del materiale. Ne è scaturito l’abbozzo di un possibile capitolo dell’ideologia italiana dedicato alla visione, con particolare riferimento alla fotografia.” Per Mario Accolti Gil, che lo intervistava, le foto riprodotte non potevano però essere “un campione statisticamente attendibile di quello che è stato prodotto e consumato nel periodo (…) c’è una certa sfasatura fra la corposità dei testi e le foto che dovrebbero comprovarli”[480], ragione per cui “un impianto statistico avrebbe dato maggiore consistenza alla sistemazione che questi Annali si limitavano a delineare con taglio saggistico.” Bollati riconosceva che “l’obiezione metodologica di una mancata scelta di campo” era stata messa in conto, ma si augurava che il libro potesse “contribuire a uscire da schemi un po’ appartati che non portano molto lontano. (…) Più in generale le dirò che in fatto di teoria e lettura della fotografia abbiamo ancora tutti molto da imparare e studiare (…) Se mai un libro è stato fatto con passione di scoperta è questo. Ho dovuto studiare, ricercare. Siamo partiti dai repertori classici (GFN, Bertarelli, Luce, IGM), ma poi abbiamo battuto campagne, la provincia, le case private. Non è un libro nato sull’onda della moda; è stato pensato anni fa nel quadro della Storia d’Italia Einaudi [ciò che era vero solo in parte]. Gli stessi difetti che lei sembra riscontrarvi lo dimostrano. Ma questo libro è anche, passata questa fastidiosissima voga che incontra oggi la fotografia nel nostro paese, un invito a lavorare seriamente a riordinare il patrimonio fotografico, che in Italia è profondamente dissestato, e a scandagliarlo ancora perché siamo appena agli inizi.” In quella stessa occasione Bollati si era dichiarato curioso di sapere “come giudicheranno questi Annali i Gilardi, i Colombo, i Settimelli, per parlare della vecchia guardia, o la Palazzoli e Quintavalle, per citare i più sofisticati, i novissimi”, ma le prime reazioni non vennero dal fronte fotografico, né furono immuni da distinzioni legate alle diverse posizioni ideologiche. Così Nicola Tranfaglia sottolineava l’interesse della fotografia come “fonte significativa per cogliere l’immagine che gli italiani vollero lasciare di sé stessi ma anche aspetto non marginale del rapporto tra intellettuali e potere”[481]; un elemento individuato anche da Paolo Spriano, che apprezzava “lo scrupolo e l’acume di scelta dei due studiosi italiani della storia attraverso la fotografia (e della fotografia attraverso la storia) (…) che ci hanno dato, per un secolo intero, un’immagine complessiva della borghesia”, ma con una notazione ulteriore a proposito di una certa “sensazione così sottile che finisce per prevalere: pare tutto così lontano, il 1845 come il 1940, ciascuna data con le sue tragedie ma anche ciascuna con la sua impronta di ‘tempo scomparso’. Insomma c’è un sottofondo permanente di Italia piccolo-borghese.”[482] Il nodo centrale, storico e storiografico, del rapporto tra identità nazionale e rappresentazione fotografica venne ripreso e sviluppato da Anne Marie Sauzeau Boetti, per la quale piuttosto che chiedersi “se si tratta più della storia della fotografia in Italia o di quella dell’Italia moderna (…) è meglio porre il problema in altri termini: come si inventarono gli italiani, intendiamo la neonata nazione italiana attraverso la fotografia? Oppure (ma si tratta della stessa cosa) come inventarono, gli stessi italiani, la grammatica progressiva di un tessuto di rappresentazione e di comunicazione, moderno per eccellenza, il linguaggio dell’immagine fotografica? (…) Il luogo mentale della raccolta è il confine fragile, ribollente di speranze e di nostalgie, tra antica e degradata cultura regionale e vocazione di potenza moderna, persino coloniale. Di questa mutazione, il testimone è stato un occhio nuovo, appunto la scatola nera del fotografo.”[483]
Altri recensori si soffermarono invece su questioni più squisitamente storiografiche: dopo aver tempestivamente segnalato l’uscita del volume, Rosario Romeo ritornava sull’argomento dichiarando preliminarmente di non voler seguire “i curatori nelle attente analisi che accompagnano questa raccolta di fotografie (…) per mancanza di competenza e un po’ anche di interesse”; preferiva semmai considerare la “questione dei rapporti tra fotografia e storia” rilevando che “la raccolta sembra un po’ troppo orientata per costituire una documentazione convincente. Troppo poco essa offre di fotografia scientifica e di altri ‘generi’ per natura più ‘realistici’: e quasi nulla di momenti così riccamente documentati come le due guerre mondiali. (…) Nonostante i fieri propositi e gli intenti ideologici e politici enunciati nella presentazione, la raccolta sembra guidata più da criteri estetici che di documentazione storica: e questo ne diminuisce la significatività nella sede scelta per la pubblicazione. Certo, essa non reca molto sostegno a chi vede nella fotografia una fonte importante per la ricerca storica. Che la fotografia appaghi talune superficiali curiosità è evidente. Ma resta il fatto che i momenti della storia sono quelli che meno si prestano a farsi fotografare. (…) Questo andrebbe detto, mi pare, a evitare che si disperdano energie a caccia a base fotografica [sic] destinata a restare al margine dei veri problemi della ricerca.”[484] Una lettura meno condizionata ideologicamente e una critica meno radicale al progetto fu quella di Giuseppe Galasso, che richiamava in termini generali il permanere nella cultura degli storici del pregiudizio della ‘oggettività’, della costante dicotomia oggettività/ costruzione, riproduzione/ espressione, documento/ arte; proprio per questo apprezzava quella “indeterminatezza” su cui si apriva il saggio di Bollati, che costituiva “motivo di grande pregio sul piano di una storia della fotografia in Italia” sebbene potesse far nascere “qualche perplessità sul piano più strettamente storico-cronistico.”[485] Ancora al tema “della fotografia come documento, se vogliamo come fonte storica” era dedicata la recensione di Franco Cardini[486] che confermava come “gli italiani non hanno una buona sensibilità per le fonti iconografiche, e in particolare gli storici trascurano spesso di servirsene o le sottovalutano. È un errore a correggere il quale una pubblicazione di questo genere può senza dubbio servire egregiamente” nonostante qualche rischio di retorica. Ancora sul contributo di Bollati si soffermava Cesare de Seta, per il quale “nonostante le sue reticenze, nonostante il suo discretissimo modo di presentare le sue analisi al lettore” esso costituiva “il più asciutto ed originale scandaglio della complessa relazione che si istituisce tra cultura del testo e la cultura dell’immagine” [487]; opinione condivisa anche da Federico Zeri che considerava “di non comune interesse il capitolo sull’ ‘immagine contrastata’, sulla polemica tra foto-documento e foto-opera d’arte, e sulle componenti storiche, sociali e culturali dalle quali vengono evidenziati o depressi certi temi di ripresa (sino all’ ‘occultamento del reale’)”. Il grande storico dell’arte liquidava invece in poche parole “il saggio di Bertelli [che] è di carattere storico”[488], molto apprezzato invece da De Seta per il quale rappresentava “la più sistematica ed ampia analisi attualmente disponibile sulla fotografia italiana: anche se naturalmente sono privilegiati quei momenti e quei passaggi che sono stati fino ad ora meglio indagati”; anche se, vale a dire, non presentava novità di rilievo. Più severo il giudizio di Guido Bezzola che lo considerava nulla più che “una gradevolissima e azzeccata serie d’interventi su episodi della storia e del gusto fotografici in Italia”, segnalando nel contempo alcuni errori nell’identificazione delle immagini, elemento che qui interessa richiamare soprattutto come indizio di un più ampio problema di metodo, che negli anni successivi avrebbe interessato in particolare gli storici con la fotografia, ponendo la questione cruciale della corretta edizione delle fonti.[489]
La “indeterminatezza” apprezzata da alcuni era invece vista come un elemento di debolezza da parte di qualche esponente della “vecchia guardia” dei critici militanti: dalle pagine di “Phototeca” Roberta Clerici e Ando Gilardi segnalavano infatti “una nota di ‘insicurezza’, del resto caratteristica di tutti gli studiosi, pur di solida cultura visiva, quali Bollati e Bertelli, che si cimentano con la fotografia. La fotografia resta alla fine essenzialmente ‘un processo’ tecnico e industriale e si pensa di doverlo conoscere dall’interno, come tale, per trattarne in piena sicurezza. Ora i due autori non sono, e non pretendono di essere, tecnici esperti, e nemmeno storici dei procedimenti fotografici. È la ragione per cui si muovono con tanta circospezione.” Interpretazione certo riduttiva sia della fotografia come fenomeno storico sia delle scelte storiografiche espresse in quegli “Annali”, ma in certa misura supportata e giustificata sia dalla mancata considerazione delle tecniche fotografiche sia dall’analisi quantitativa condotta dai recensori sui nomi citati nell’opera, dalla quale risultava che nel saggio di Bollati solo il 4% erano di fotografi e solo il 7% in quello di Bertelli. Sarebbe però errato – scrivevano i due attenti recensori con intenti polemici – considerare questo “come un difetto dell’opera. È solo un modo di usare la fotografia fuori dai suoi confini. Entrambi gli autori intendono recuperarla alla cultura ‘vera’, alla ‘buona’ cultura: la storiografia, l’arte tradizionale fatta a mano, la psicologia, la sociologia, la critica del costume e dei nuovi consumi intellettuali promossi dall’industria ecc. C’è, probabilmente, anche una ‘seria’ cultura fotografica [che] riguarda la fotografia ‘ancora da fare’, vale a dire le vicende delle industrie fotografiche: vicende produttive, commerciali e promozionali (…) fino a quando questa storia della fotografia non sarà stata scritta, o almeno definita nella sua impostazione, la ‘buona’ cultura potrà interessarsi alla fotografia, intesa come supporto interessante per la dotta speculazione. Ma la cultura fotografica resta da fare.”[490] Lo stesso Gilardi ribadiva queste posizioni in una successiva recensione[491] riconoscendo che i due tomi erano “più che indispensabili per chi studia fotografia. I fotografi debbono essere grati all’Einaudi perché la stampa di questi volumi segna, di per sé, il primo solenne ingresso della fotografia come forma di cultura particolare, nella forma generale della cultura accademica ufficiale. (…) i testi del Bollati, del Bertelli e del Gilardi, in fondo, li leggono con attenzione e sottolineandoli (come meritano) solamente il Gilardi, il Bertelli e il Bollati. Poi li legge Arturo Carlo Quintavalle, i testi del quale, anche per debito, proviamo onestamente a leggere, ma sia pure spingendo lo sforzo allo spasimo, non ce la facciamo. Per ragioni di limite esoterico. Continuiamo a scherzare, infantilmente.” In questi volumi, proseguiva con ironia affettuosa, “c’è dentro tanto lavoro, tanta ricerca, tanta intelligenza. E tanta modestia: Bollati chiama il suo scritto ‘note’ e Bertelli il proprio ‘schede’. Insieme all’editore si affannano a ripetere che non si tratta di una ricerca sufficiente, e nemmeno di un’analisi piena.” La chiusa era tutta dedicata a Bertelli, che aveva individuato “nel riutilizzo da parte di altre ‘cose’ (la pittura, la grafica, l’architettura, il tempo libero, l’antropologia eccetera) l’unica possibilità di dare alla fotografia uno scopo. Quando si esaurisce in sé stessa si esaurisce, appunto. Chi scrive questa segnalazione è tristemente noto per una sua conferenza, troppe volte ripetuta, che ha per tema ‘La fotografia non è arte, non è comunicazione e, quel che è peggio, non è nemmeno fotografia, ovvero: meglio ladro che fotografo!’ però confessa che in fondo al cuore gli restava una speranza d’avere torto. L’amico Bertelli, con il suo fare timido da cobra rispettoso, gliel’ha tolta.”
Su alcune discordanti caratteristiche dell’opera insisteva anche Angelo Schwarz, ma avviando la propria trattazione con una notazione singolare:” C’è una cosa che va detta subito: la noia scorrendo i testi e guardando le immagini non ti sorprende mai. Non è cosa da poco per un’opera, anche, di storia della fotografia” [492], riconoscendo ai due autori l’abilità nel fornire ai dati storici “un contesto e una scrittura adeguata”; più in particolare considerava esemplare il contributo di Bollati per essere riuscito a “rompere l’isolamento della fotografia come storia particolare”, mentre agli “storici della fotografia, postulanti, canonizzati o da canonizzare” mancava una “adeguata metodologia storica (ancora da inventare)”. Da questo punto di vista anche il considerevole contributo di Bertelli restava, nonostante i riconosciuti pregi, “disperante” poiché vi si toccava “con mano l’insufficienza di studi seri sulla fotografia, di una ricerca che non può essere relegata a un gruppo di sparuti ricercatori”, conseguenza – anche – dell’assenza di specifici corsi di formazione universitaria. Per questo “i rilievi (…) concernenti imprecisioni, dimenticanze presunte o reali (…) diventano marginali se non li si riconducono ai grossi vuoti di documentazione dispersi nelle memorie individuali.”[493]
Di genere più propriamente storiografico le riserve espresse da Quintavalle a proposito dello stesso saggio, che considerava “interessante” ma “discutibile”, essendo la predilezione per “alcune personalità ben individuate” espressa da Bertelli inconciliabile con la necessità di conoscere e considerare un contesto come quello italiano che era ancora sostanzialmente insondato; “in secondo luogo perché operare solo sull’insieme dei supposti artefici protagonisti, degli ‘artisti’, è certamente un’operazione di stretta marca idealistica, crociana; e ancora perché proprio il rifiuto di analizzare la fotografia come strumento della comunicazione preclude a chiunque la possibilità di comprendere la realtà della storia: una storia della fotografia per genii, per figure-guida appare essere contrapposta alle storie reali, al tessuto reale, quelle storie, quel tessuto che decenni di critica ci hanno insegnato a rispettare e a considerare come strutturante.”[494]
La risposta del pubblico alle molteplici iniziative del 1979 aveva sollecitato gli editori a considerare diversamente la cultura della fotografia e la sua storia, tanto che in meno di un decennio si pubblicarono le maggiori sintesi storiografiche generali allora disponibili, sia contributi originali sia traduzioni, mentre si assisteva a qualche timido ma prezioso tentativo di riedizione delle fonti[495]. Il periodo, delimitato quasi esattamente dalla pubblicazione dei due volumi della Storia della fotografia di Gernsheim (Le origini, 1981; L’età del collodio, 1987), vide nel 1982 l’uscita della Storia e tecnica della fotografia di Zannier e nel 1984 la traduzione italiana dell’ultima edizione di quella di Beaumont Newhall, seguita due anni dopo dalla traduzione della Storia curata da Jean-Claude Lemagny e André Rouillé, che proponeva un nuovo modello storiografico.
A chiudere editorialmente il 1979 era stato un volume di Settimelli dedicato alle origini della fotografia[496], che aveva il lodevole scopo di far sì che “il lettore, stufo di tante opinioni diverse [potesse] giudicare con la propria testa”. Così nel breve spazio di poco più che cento pagine venivano compendiati, come recitava il sottotitolo, I fatti, i pionieri, gli eroi, le polemiche, le tecniche e i documenti inediti dal 1820, con qualche riferimento alle vicende italiane. Nella breve Prefazione, e forse con qualche bonaria intenzione ironica, l’autore dichiarava di non avere “molto da dire” a proposito delle ragioni del libro e del tema (inteso ancora come controverso) dell’invenzione della fotografia, essendo però consapevole del fatto “che un libro in più non faccia male a nessuno.” La narrazione delle vicende riprendeva l’andamento romanzato già adottato per il volume del 1969, compreso quel gusto nella titolazione dei capitoli improntato a criteri e modi da copywriter pubblicitario (“Daguerre e Niepce [sic] fanno impazzire il mondo”). Anche in questo caso l’aneddoto prevaleva sull’accuratezza delle informazioni fattuali e tecniche[497], così come sulle considerazioni storico critiche, tanto che uno degli assunti fondamentali, quello che distingueva tra dagherrotipia e fotografia in senso proprio era liquidato sommariamente notando che “si trattava, insomma, del principio del negativo e del positivo ancora oggi d’uso corrente” ed anche la dichiarazione che “i veri inventori della fotografia, così come noi oggi la conosciamo (…) furono in realtà Henry Fox Talbot e Hippolyte Bayard” era quasi celata nel corpo di una semplice didascalia. Ne risultava uno zibaldone di testi e immagini poco coerenti tra loro sia in termini strutturali che cronologici, tanto da far pensare a un instant book realizzato sull’onda della nascente curiosità per la fotografia storica piuttosto che all’esito di un meditato progetto di ricerca. Il solo merito di quel volume era rappresentato dalla pubblicazione di alcune fonti “a volte di faticosa lettura” (intendendo – credo – di difficile reperibilità), scarsamente utilizzate dai pochi che lo avevano preceduto (come Federico Arborio Mella[498]) e che solo a partire dagli “Annali” einaudiani dello stesso anno avrebbero avuto in parte maggiore circolazione. La pubblicazione di quei testi, mai contestualizzati, assumeva però una dimensione preponderante e scarsamente giustificata nell’economia generale di un volume riccamente illustrato (trenta pagine su ottanta) che si chiudeva con una breve bibliografia ottocentesca tratta dal Manuale di Gioppi del 1887, ovvero una versione povera di quanto proposto da Gilardi nel 1976, e con un elenco altrettanto striminzito dei “principali fornitori italiani di articoli per fotografi”, desunto dalla stessa fonte ma impropriamente e improbabilmente datato al 1864 sebbene registrasse la presenza di Cappelli e di Dringoli, cioè dei primi produttori italiani di lastre alla gelatina bromuro d’argento.
Nella “Collana di fotografia” diretta da Daniela Palazzoli venne pubblicato nel 1981 il primo dei due volumi in ottavo della Storia della fotografia di Gernsheim[499], dedicato alle origini, che si segnalava anche per la particolare cura editoriale posta nella riproduzione dei dagherrotipi, molti dei quali stampati su fondo argento (in un caso anche in quadricromia) per evocare almeno la loro peculiarità percettiva, come già aveva fatto alcuni decenni prima Carlo Mollino. Com’era prevedibile il testo di Gernsheim non offriva esplicite indicazioni metodologiche ma entrava subito in argomento con un breve capitolo dedicato alla “preistoria della fotografia”, posto a capo di una sequenza argomentativa strutturata su base tecnologica (eliografia, dagherrotipia, disegno fotogenico, calotipia), con approfondimenti dedicati ad alcune aree geografiche, compresa l’Italia, affidata alla direttrice della collana, mentre gli apparati contenevano una biografia dell’autore, l’indice dei nomi e una “bibliografia essenziale, non sistematica, per chi volesse approfondire l’argomento”, da cui erano escluse quasi tutte le fonti a stampa citate nelle note ai capitoli. La ricostruzione delle vicende, sovente condotta su fonti inedite, era molto vivace e ricca di dettagli ma condizionata – come era già stato notato per la sua prima Storia[500] – da una impostazione finalistica e da continui rimandi alle opere conservate nella propria collezione. Il secondo volume, dedicato all’età del collodio, vide la luce nel 1987, con analoghe caratteristiche editoriali, ma la meritevole intenzione di offrire una “traduzione efficace dell’effetto visivo degli originali” ebbe in quel caso risultati poco soddisfacenti poiché la rinuncia alla stampa in quadricromia a favore di un uniforme color seppia, che avrebbe dovuto evocare “la colorazione media degli originali”, risultava inadatta quanto filologicamente insostenibile. Operando su di un arco cronologico ristretto e un orizzonte tecnologico definito, l’articolazione del discorso si concedeva una struttura meno rigida del precedente, con capitoli dedicati ai generi che allora si andavano definendo (“d’arte”, istantanea, ritratto, paesaggio e architettura, montagna) così come a certe forme della sua diffusione commerciale, dalle carte de visite alle stereoscopia, ma forse con entusiasmi non storicamente verificati, quali l’opinione che il procedimento al collodio avrebbe fatto “finalmente della fotografia un hobby popolare”; affermazione insostenibile e contraddetta del resto dallo stesso autore nel momento in cui riconosceva che “la popolarità del procedimento al collodio non deve far pensare che avesse reso più facile la fotografia che, anzi, era diventata più difficile.” Prescindendo da quelli che a noi paiono dei limiti di interpretazione, il testo presentava la consueta leggibilità accompagnata da grande ricchezza di fonti e di dati, anche di tipo statistico sulla diffusione della professione fotografica, sul costo dei materiali e dei prodotti finiti e sull’uso delle varie tecniche, anche se purtoppo limitati alla sola Gran Bretagna. Nell’edizione italiana il sommario del primo volume prevedeva – come si è detto – uno specifico contributo dedicato al nostro paese affidato a Palazzoli, che sulla scia di Vitali e poi di Settimelli svolgeva in estrema sintesi le vicende legate alle origini e rimandava per approfondimenti al testo da lei redatto per il catalogo della mostra del 1979. Tale vincolo obbligava l’autrice a cenni anche interessanti, come il richiamo alla tradizione italiana della camera obscura e alle riflessioni di Francesco Algarotti[501], ma senza riuscire poi a trarne le dovute conseguenze in termini storici e storiografici, così che il testo non risultava essere altro che una sintesi cronologica dei modi della conoscenza italiana delle due magnifiche invenzioni: dalle relazioni personali di Talbot coi “savants Italiens” alla diffusione delle notizie intorno al dagherrotipo, tra stampa periodica e scientifica, sottolineando in particolare l’interesse di Macedonio Melloni per le possibilità insite nel processo di fotoincisione messo a punto da Alfred Donné, in un accenno di interpretazione che pareva in forte debito con Gilardi. Seguiva una breve disamina della sola produzione vedutistica legata al dagherrotipo (Artaria, la raccolta Ellis) e un cenno alla pratica del ritratto, giudicata “assai standardizzata, finalizzata a conservare le memorie fisionomiche e ad abbellire grazie al ritocco la somiglianza [sic].”[502] Nel secondo volume lo spazio dedicato da Gernsheim alle nostre vicende fu di poco maggiore, con una accentuazione per la documentazione del patrimonio artistico e architettonico, che riconosceva come una peculiarità della fotografia italiana; forse per questa ragione l’opera non venne integrata da un capitolo generale sul nostro Paese. Anche in quella occasione, com’era caratteristica di Gernsheim, il punto di vista risultava quanto mai personale e collezionistico, così lo spazio maggiore della sezione italiana era destinato a Robert Macpherson, un autore da lui studiato a partire dagli anni Cinquanta[503], che considerava “un vero artista (…) le cui fotografie sono descrizioni poetiche e non semplici trascrizioni di uno scenario classico”, mentre all’attività di Alinari, Anderson, Ponti e Sommer erano dedicati solo brevissimi cenni.
Uno spazio maggiore venne riservato loro nella nuova Storia e tecnica della fotografia che Zannier pubblicò nel 1982 con un corredo antologico di testi che consentiva anche ad un pubblico non specializzato di avvicinarsi alle fonti più significative della letteratura fotografica. Come già in Gernsheim, anche in Zannier la questione storiografica non era affrontata esplicitamente, ma era possibile intuire un’impostazione che anche qui potremmo definire ‘evoluzionistica’: “l’occhio dell’uomo è diventato più versatile mediante la fotografia, come se questa fosse una protesi che alimenta la capacità di osservazione, integrando le carenze della percezione visiva, adeguandola quindi alle esigenze fisiologiche e psicologiche determinate dall’inarrestabile sviluppo tecnologico. (…) La fotografia, come strumento, si è realizzata attraverso una estenuante ma ineluttabile gestazione di un’idea (la memoria dello sguardo), che si è radicata nel grembo dell’umanità mentre stava formandosi il linguaggio, di cui si è preso coscienza lentamente, durante l’evoluzione storica.” Dopo due capitoli dedicati alla genesi ed ai suoi primi inventori, lo svolgimento proseguiva abbandonando la consueta scansione cronologica a favore di una serie di trattazioni per ambiti tematici (da “Fotografia e scienze” a “Linguaggio e avanguardie”) ciascuno trattato diacronicamente e intessuto di rimandi continui alla situazione italiana e ai suoi protagonisti, sottolineando analogie e differenze, ma non senza alcune disomogeneità che forse potevano essere intese come impliciti giudizi di valore, quali la succinta descrizione della diffusione della dagherrotipia o i brevissimi cenni alla stagione pittorialista, rispetto alla quale si limitava ad accostare in forma di elenco, le “scene fiamminghe” di Guido Rey e le “scene di efebi” di Von Gloeden.
Accanto a queste fiorirono altre iniziative che si proponevano, pur in modi e a livelli diversi, quali strumenti per una informazione di base che non fosse circoscritta ai puri aspetti tecnici[504]. Così in quegli anni l’editoria offriva al pubblico italiano anche la traduzione dallo spagnolo della Storia della fotografia[505] di Mauricio Wiesenthal, enologo e fotografo spagnolo, pubblicata nel 1983 e integrata da una sezione italiana curata da Giuseppe Bonini, già redattore de “Il Progresso fotografico”, e – nello stesso anno – la Storia della fotografia[506] edita da Jaca Book con un testo di Giovanni Chiaramonte illustrato da Paola Borgonzoni e Giuliana Panzeri, in coedizione con l’americana Aperture.
L’andamento del volume di Wiesenthal era canonico, con andamento cronologico alternato a brevi capitoli dedicati alle figure notevoli di questa storia, ma con una tale messe di confusioni, imprecisioni ed errori, frutto anche di una traduzione sciatta e di una analoga cura editoriale, da risultare difficilmente accettabile anche per un pubblico generico, mentre la sezione sulla fotografia italiana pur mantenendo un tono discorsivo risultava sufficientemente accurata e aggiornata rispetto allo stato degli studi a quella data, con una buona definizione del contesto che ne vide la prima diffusione, e giudizi non banali su alcuni momenti cruciali delle sue vicende[507], seguite lungo un arco cronologico esteso sino alle Verifiche di Ugo Mulas. Il volume Jaca Book faceva parte della collana di “Biblioteca di Storia della fotografia” della serie “Punto e Virgola”, già marchio editoriale di Chiaramonte e Ghirri poi assorbito dalla casa milanese, e si presentava come un sussidiario storico dedicato ai giovani e giovanissimi[508]. L’incerta impressione che quello dovesse essere il pubblico dei potenziali lettori, e che l’iniziativa fosse un interessante esempio di sperimentazione storiografica ed editoriale, era suggerito dall’uso sistematico dell’illustrazione grafica, nella più parte dei casi didascalicamente efficace[509], come dal tono affabulatorio dei testi: un’accoppiata che richiamava irresistibilmente altre imprese divulgative quali Il miracolo della fotografia di Giuseppe Enrie (1960) o le enciclopedie per ragazzi degli stessi anni. Anche la struttura del discorso storico non ne era lontana, sintetizzando in sessanta brevi schede tematiche il lungo percorso culturale che da Brunelleschi giungeva a Willian Eggleston passando per Cristoforo Colombo, Galilei e Vermeer (per non citare che alcuni), a sostegno dell’assunto che “la fotografia (…) è specchio della realtà”. Concezione quantomeno bizzarra per quegli anni e per la responsabilità dell’autore, tra i più colti e interessanti fotografi della sua generazione, ma almeno dotata di grande coerenza interna se consentiva di credere che dalla campagne fotografiche Alinari usciva “l’immagine più vera dell’Italia del tempo.”
Nel 1984 si pubblicava finalmente, da Einaudi, nella traduzione di Laura Lovisetti Fuà[510], la prima edizione italiana della Storia della fotografia di Beaumont Newhall, condotta sulla quinta edizione ampliata pubblicata negli USA due anni prima. Com’è noto l’autore si proponeva di dar conto “del crescente contributo della fotografia alle arti visive (…) storia di un mezzo più che di una tecnica, vista attraverso gli occhi di coloro che per anni hanno lottato per conoscerlo, per capirlo, per adeguarlo alla propria visione.”[511] Una storia per autori quindi. Da questa impostazione derivava una struttura narrativa, rivista rispetto alla precedente edizione del 1964, organizzata in sedici capitoli svolti lungo un arco cronologico che dal XV-XVI secolo giungeva sino agli ultimi anni Settanta del Novecento procedendo per coppie di opposti, riconducibili per certi versi alla dicotomia documentario/ artistico, ma senza distinguere – si direbbe -tra generi, tipologie e movimenti veri e propri, così da intitolare ad esempio un capitolo alla “fotografia pittorica” e un altro alla “visione istantanea”. Pur presentandosi come una storia generale (nell’originale: The History, come in Gernsheim) il lavoro di Newhall manteneva quella impostazione “irrimediabilmente etnocentrica” (Boris Kossoy) e autoreferenziale che era già stata sottoposta a dure critiche da parte degli studiosi statunitensi e americani delle generazioni successive; in Italia invece si sottolineava ancora il “rilevante argomento di interesse del metodo di lavoro di Newhall, poiché consente di valutare le esperienze ‘nazionali’ sullo sfondo o alla luce delle vicende internazionali”, nella convinzione inespressa (ma condivisa dal recensore[512]) che esistesse “una sorta di dominio culturale degli Stati Uniti continuamente ribadito da cinema e letteratura)” tale da spingere lo studioso “a una progressiva ma sempre più evidente identificazione delle elaborazioni teoriche e sperimentali della fotografia americana con quelle dell’intera produzione internazionale.” Non sappiamo quanto quella interpretazione corrispondesse alle intenzioni di Newhall, ma certamente apparteneva all’orizzonte critico di Paolo Costantini, particolarmente sensibile alla nuova fotografia americana di paesaggio che si andava affermando in quegli anni dopo le prime esperienze del gruppo dei New Topographics[513]. Al di là di questa adesione prospettica e del riconoscimento di quella “più puntuale relazione con il materiale letterario direttamente considerato (testi, articoli, interviste ecc.) che ha differenziato il lavoro di Newhall da parecchie altre storie della fotografia, definendo un ambito disciplinare e un procedimento storiografico più preciso per queste ricerche”, il recensore avanzava alcune riserve sulla “preminenza attribuita alle personalità degli autori e alla scelta e al commento di opere particolarmente emblematiche” utilizzando “tali elementi (…) come gli anelli di uno sviluppo necessario e continuo della fotografia”; alla ricerca di quella “unità di stile in un dato contesto ambientale o in un dato periodo [che] appare infatti piuttosto caratteristica degli intenti precisati dall’autore in questa nuova edizione.” Numerosissimi, in quel volume, erano i nomi di italiani citati nell’indice, dall’Alberti a Zavattini, ma quasi nessun fotografo, non volendo includere nelle categoria, per rispetto delle sue volontà, Anton Giulio Bragaglia. Pochi altri comparivano nelle pagine relative alla dagherrotipia: Lorenzo Suscipi in relazione al progetto Ellis e i milanesi Alessandro Duroni e Stefano Stampa, non compresi nelle precedenti edizioni e verosimilmente segnalati da Lamberto Vitali, il solo italiano citato nei ringraziamenti, al quale si doveva anche la conoscenza del lavoro di Giuseppe Primoli, qui accostato visivamente a Paul Martin riprendendo una suggestione critica di Ian Jeffrey, che lo aveva definito “il più prolifico notista dell’era di Stieglitz (…) un irriverente predecessore del fotogiornalismo degli ani ’30.”[514]
La “sorprendente ristrettezza di vedute” delle più note storie della fotografia fondante “su una visione nazionalistica affatto contestabile” venne stigmatizzata da Alfredo De Paz[515] in uno studio che si proponeva di fornire una lettura storico sociologica della fotografia estesa ben oltre i “ristretti limiti di un solo paese” in cui parevano rinchiudersi gli storici della disciplina; una ristrettezza di orizzonti che “potrebbe far sorridere se la posta delle storie della fotografia non risiedesse, precisamente, in un mondo i cui limiti si restringono senza posa”.[516] “Questo libro – scriveva De Paz – si presenta soprattutto come una ricerca di sociologia della cultura, applicata a quella particolare istituzione sociale che è la fotografia, la pratica fotografica considerata per certi aspetti nel suo svolgimento storico (…) e per altri aspetti nella sua essenza istituzionale, strutturale, sociologica particolarmente in rapporto al presente.” Una “sociologia storica della fotografia”[517] quindi, che consentisse anche di rinnovare gli “approcci storici alla fotografia [che] si riassumono essenzialmente in cataloghi articolati, ripetitivi, contraddittori. (…) Ciò dipende tanto dalle difficoltà evocate più sopra[518] che dalla necessità dell’immagine. (…) Si ha così spesso l’impressione, a sfogliare le ‘storie’, che una selezione di belle immagini, spesso importanti nelle svolgimento storico (…) serva a giustificare qualsiasi tesi. Il fatto che la maggior parte delle storie della fotografia riproducano le stesse immagini tranne alcune varianti di rilievo, accentua questo sentimento di povertà del discorso storico.” Non di quello sociologico però, si sarebbe detto, se con tutta evidenza l’apparato iconografico di quel volume riproponeva pedissequamente il consueto e per molti versi certamente logoro repertorio internazionale. Per mantenersi coerentemente lontano dall’innegabile e disdicevole nazionalismo di cui sopra, in questo interessante lavoro l’autore escludeva perciò ogni riferimento alle vicende italiane[519], evidentemente non riconoscendo a queste alcun valore emblematico, neppure – ed era certo un dato singolare per un progetto di “sociologia storica della fotografia” – per quel che riguardava le funzioni e l’uso che del mezzo aveva fatto il regime fascista. Non ultimo limite di uno studio che si poneva un obiettivo nobile e culturalmente stimolante al quale corrispondevano però ingenuità di ogni tipo e un disequilibrio sostanziale e irrisolto tra analisi sociologica e desiderio di esaustività storico critica.
L’ampliarsi del confronto critico con studiosi di altre discipline e il contestuale approfondimento di studi e ricerche settoriali portarono in quegli anni alla definizione e alla produzione di storie della fotografia che si distaccavano nettamente dagli esempi sino ad ora esaminati per impostazione metodologica e approccio critico, facendo emergere la necessità di mettere in cantiere opere che ad una precisa progettualità curatoriale facessero corrispondere un’articolazione costruttiva per parti o capitoli affidati a singoli specialisti. Il primo compiuto esempio in tal senso fu quello di Jean-Claude Lemagny e André Rouillé che nel 1986 pubblicavano la loro Histoire de la photographie, tradotta due anni dopo in Italia da Sansoni conservandone anche l’impianto tipografico[520]. Essendo “finito il tempo in cui un solo autore poteva scrivere tutta questa storia”[521] il volume conteneva diciotto saggi – affidati a 15 autori di nazionalità e competenze diverse – disposti secondo un andamento cronologico che conteneva e presupponeva anche specifiche ipotesi critiche, arricchite da articolazioni tematiche interne (applicazioni, aree geografiche). L’insieme era completato da due appendici: una cronologia sinottica ed una serie di schede relative ai procedimenti tecnici, esito evidente del consolidarsi a livello internazionale di una più puntuale considerazione dei nessi tra tecnologia e storia delle immagini e – contemporaneamente – della consapevolezza dei problemi conservativi posti dall’insieme delle fotografie storiche, per le quali si stava consolidando l’uso della locuzione “patrimonio fotografico”. La sottile quanto fondamentale distinzione che avrebbe dovuto consentire al lettore di orientarsi tra storia e storiografia veniva richiamata sin dalle prime righe dell’introduzione: “Il modo stesso di scrivere la storia della fotografia ha ormai una storia. L’innocenza non è più possibile – scriveva ancora Lemagny – e, davanti a tante opere accumulate, si impone la necessità di fare delle scelte, di riprendere in mano la massa brulicante e straripante dei fatti per rimisurarne il lungo scorrere e i profondi sommovimenti. (…) L’appassionante e l’impossibile, quando si affronta la storia della fotografia, è che questa ha a che fare con tutto: tecnica, società, arte, ecc. E per molto tempo lo storico è stato assillato dalla necessità di raccontare tutto ciò che la fotografia aveva ricevuto e dato, i suoi rapporti con la pittura, con la stampa, con la scienza… Era una storia per mezzo della fotografia. Perché si instauri una storia della fotografia sarà necessaria una riflessione da parte della fotografia su se stessa.” “Benché breve – aggiungeva Rouillé[522] – la storia della fotografia è ricca, molteplice, complessa Ogni pretesa di esaustività, in questa sede, era quindi illusoria. Più di un’impossibile summa enciclopedica, abbiamo proposto approcci nuovi e notevolmente diversi da quelli degli autori che, prima di noi, si sono dedicati allo studio storico della fotografia. (…) Per comprendere la situazione attuale e le trasformazioni in corso della fotografia, la storia è un mezzo insostituibile, ma a patto di considerare in ogni momento il fenomeno ‘fotografia’ nella molteplicità delle sue dimensioni, nella sua mutevolezza e nelle sue diversità geografiche. È quello che abbiamo tentato di fare in quest’opera, in parte grazie alla partecipazione di autori diversi, cioè di punti di vista necessariamente vari, con la speranza di rispondere alle attese di una presentazione rinnovata della storia della fotografia e di aprire la strada ad altri modi di pensarla e di scriverla.” A fronte di queste lodevoli intenzioni, nate da una consapevolezza storiografica inedita nel panorama internazionale, gli esiti generarono non poche perplessità e non solo per l’obbligata, insufficiente dimensione concessa ai singoli contributi. Così Fernando Tempesti fece notare che “se è già possibile scrivere una storia delle storie della fotografia (…) non altrettanto pacifico è a tutt’oggi come si può scrivere una storia della fotografia”, lamentando la “mancanza di un centro, di una chiara, anche se molto articolata, nozione di quello che è di fatto l’oggetto del narrare, cioè proprio la fotografia” [523], senza domandarsi se non fosse proprio quella “mancanza” o, meglio, il suo riconoscimento magari ancora implicito a costituire il pregio maggiore di quel progetto.
Anche nella maggior parte dei saggi contenuti nel volume di Lemagny e Rouillé si sarebbe cercato invano poco più che un cenno fugace alle vicende italiane, poiché allo scopo di “non subordinare ciascuna delle grandi tappe a un solo criterio” i diversi contributi consideravano situazioni e figure che risultavano rilevanti vuoi per la loro emblematicità vuoi per la loro specificità; per la capacità metonimica di illuminare altre situazioni analoghe o per la loro singolare irriducibilità. A quella scarsa considerazione generale corrispondeva un’analoga conoscenza effettiva, che non consentiva di comprendere storicamente il senso di alcune esperienze, anche non secondarie. Basti vedere l’opinione di Rouillé sui Fratelli Alinari, che avrebbero finanziato “grazie ai proventi dei ritratti-cartes de visite [sic], le loro attività fotografiche predilette”[524], ciò che costituiva un errore dal punto di vista sia storico che critico, lasciando intendere quasi che la documentazione del patrimonio artistico fosse stata una lodevole passione amatoriale e non il nucleo portante della loro attività imprenditoriale. Altri analoghi fraintendimenti si ritrovavano nel paragrafo dedicato a un movimento specificamente italiano come il futurismo, nel quale si potevano leggere affermazioni che cancellavano d’un solo colpo più di un decennio di studi e ricerche: “Quando i futuristi si associarono con dei cronofotografi – scriveva Molly Nesbit – non scelsero dei professionisti ma i Bragaglia, che sperimentavano la tecnica per svilupparla, per farne qualcosa di più di una descrizione del movimento. (…) Per quanto breve e limitata, questa unione del 1913 fra l’artista d’avanguardia e il fotografo è storicamente importante. Era la prima volta che essi studiavano lo stesso problema plastico come artisti, su basi comuni e su un piede di parità.”[525] Il solo contributo a noi strettamente pertinente era quello di Angelo Schwarz dedicato all’Italia fascista, che subito prendeva le distanze da coloro (e il riferimento implicito era alle grandi mostre parigine e bolognesi dei primi anni Ottanta) che tendevano a far coincidere la fotografia del periodo con le varie declinazioni moderniste, mentre invece “nella fotografia italiana del Ventennio si trova di tutto e la questione storiografica potrebbe essere quella di dar conto del come il culto nazionalsocialista dello Stato, impastato con pretese socializzanti e con l’esaltazione del modernismo, abbia creato rapporti sovente ambigui con le avanguardie storiche. (…) La rilevante quantità delle immagini fotografiche prodotte in Italia durante il periodo fascista da centinaia di oscuri e meno oscuri fotografi poco aveva a che fare con una estetica così culturalizzata. Ma furono proprio queste immagini più ‘triviali’ che il regime usò ampiamente.”[526]
A fronte della disponibilità di queste opere di riferimento generale il decennio vide anche e soprattutto una crescita esponenziale di approfondimenti della situazione italiana, che segnarono il passaggio dal pionierismo degli anni Settanta al tentativo, sebbene ancora immaturo e non sempre riuscito, di fondare metodologicamente la disciplina e di approfondirne temi, ambiti e fonti, affrontando per la prima volta in modo così ampio aspetti tra loro profondamente differenti sia in termini di contenuto sia di scala; lavori che sviluppavano in direzioni diverse e non di rado contrastanti le migliori sintesi allora disponibili, pubblicate nelle due grandi opere einaudiane della “Storia d’Italia” e della “Storia dell’arte italiana”. Nonostante l’impegno e gli esiti importanti di quella prima generazione italiana di studiosi non era però ancora possibile dire che fosse “nata nel nostro paese una storia della fotografia sufficientemente articolata e con prospettive corrette di sviluppo”[527], anzi per alcuni a quella crescita quantitativa non corrispondeva affatto un analogo accrescimento qualitativo: “Sono sempre più nauseato – scriveva Bertelli[528] – da quello che si scopre e che si scribacchia sulla fotografia dell’Ottocento. Dattilografe scontente, professoresse di scuola media impazienti degli orari di insegnamento, cronisti falliti, fondatori di circoli di tric trac, tutti quanti scoprono i nonni fotografi, trovano banche, enti, vinai e birrai pronti a pagar monografie, mostre, giri vari. (…) Sono cose che si decanteranno da sé. All’Ottocento italiano corrisponde la fotografia italiana dell’Ottocento. È tutto qui.”
Le ragioni di quella condizione erano state individuate da Quintavalle nella cronica assenza di corsi universitari, a cui non poteva supplire “qualche sparso insegnamento condotto da specialisti di altro ambito che diventano intenditori di fotografia in alcune accademie”[529], quando sarebbe invece stato necessario “porsi il problema della grafica e della sua storia, il tema dell’opera d’arte e delle sue ‘scritture’, cioè delle sue critiche trascrizioni (…). Finché questo non avverrà la storia della fotografia, di quello che conveniamo chiamare fotografia, nel nostro paese resterà terreno chiuso, campo che solo pochissimi potranno, e anche loro con fatica, tentare di arare, ma i frutti saranno sempre scarsi.” Un’ indicazione critica tanto interessante quanto riduttiva, non essendo possibile circoscrivere la questione fotografica solo a quell’ambito, e anche per certi versi ingenerosa nei confronti di chi come Miraglia si era misurato con impegno e capacità in quel senso. Più dirimente e necessaria la successiva indicazione a proposito della questione della “pubblica raccolta dei materiali della fotografia”, rispetto alla quale lo studioso lamentava il tramonto “della possibilità di una collezione generale, unitaria, sufficientemente ampia da dar conto dei principali nodi culturali di oltre un secolo e mezzo di produzione fotografica”, auspicando “la costruzione di un nodo unico o di pochi nodi funzionali a livello nazionale, e collegati, che si occupino della raccolta, della integrazione reciproca e soprattutto dell’analisi, conservazione e organizzazione dei materiali superando le barriere locali.” Per Quintavalle era mancata “una politica, a livello nazionale, di raccolta dei materiali”, compito che il GFN Nazionale non aveva saputo (o voluto) svolgere; la situazione si era poi aggravata con la “industrializzazione del mercato fotografico e quindi la capitalizzazione – ma anche la dispersione[530] – dei materiali della fotografia, della loro svendita oppure del loro accaparramento da parte dei privati”, che aveva portato alla distruzione irreversibile dei patrimoni degli studi fotografici; “strumento base indispensabile per la ricostruzione della nostra storia della fotografia” poiché costituivano “il tessuto connettivo dentro il quale, e solo al suo interno, si poteva pensare di spiegare la realtà della fotografia, la sua cultura certamente ‘regionale’ nel nostro paese, le presenze di modelli, di fotografi legati a situazioni diverse”, mentre troppe delle iniziative editoriali ed espositive precedenti erano ancora segnate dalla “rimozione, con l’accento cioè, su poche presenze ed enormi assenze. Nessuno infatti ha il coraggio di dire che il patrimonio delle immagini ottocentesche ancora superstiti è certamente di milioni, forse decine di milioni di pezzi; nessuno ha il coraggio di dire che un singolo ‘artista’ poteva aver prodotto, nella propria esistenza, diverse decine di migliaia di pezzi, lastre e stampe, quindi, e nessuno, fino ad oggi, ha neppure pensato a censire quello che resta, a stabilire la realtà del tessuto della cultura ‘di studio’, della civiltà degli studi. L’ho detto altrove, lo ripeto, si tratta di un’impresa di decenni, una impresa che riserva le massime sorprese perché molti dei fotografi che riteniamo chiave risulteranno essere parte di un tessuto, e usciranno decine di figure-guida diverse, soprattutto si capirà che o si comincia a fare un discorso corretto sugli studi, oppure si cede semplicemente, a pochissimi rivenditori, l’intero nostro patrimonio culturale di oltre un secolo di produzione di icone fotografiche senza avere, come contropartita, altro che qualche magro catalogo, povero di cosciente ricerca e di impegno critico, esaltante figure spesso modeste o modestissime. Ma chi potrà mai, dunque, indagare questa storia degli archivi se questi sono di proprietà privata?” Si trattava insomma di superare anche operativamente “la contraddizione di fondo della storiografia sulla fotografia, o almeno della sua gran parte (…) la concezione idealistica che la vicenda fotografica sia costruita per punte, per vette, per figure chiave, per ‘geni’ e che il tessuto, il contesto sia da rimuovere, anzi, che sia, di fatto, rimosso. Dunque chi fa storia della fotografia, o meglio, chi tenta, abbandona il contesto, neppure lo prende in esame e considera questa operazione assurda come l’unica lecita.”[531] Altre riflessioni avevano più specifica valenza critica: ponendo il tema della natura del “tempo degli archivi” Quintavalle introduceva elementi di portata altrettanto rilevante, individuando “un tempo di riproduzione o, se si preferisce, di scrittura”, vale a dire quello della ripresa, ben distinto dal “tempo d’uso [con] una sua specifica durata che è stata programmata al momento stesso della sua organizzazione” e infine “il tempo dell’uso dell’icona che resta quello chiave per la comprensione della questione nel suo insieme. Ed infatti tempo dell’uso dell’immagine non è (…) tempo stabile ma del tutto mobile in quanto legato alla situazione, al modello storico, dunque un tempo che non si stabilizza in una interpretazione ma che ne propone altre, un tempo che prende in considerazione all’interno dell’archivio fatti magari già posti ai margini (…), dando a questi temi un grande rilievo e spazio e dimensioni differenti, insomma portandoli in primo o primissimo piano e mettendo dietro altri casi un tempo rilevanti. (…) il senso muta non solo al di fuori del contesto prefigurato dei fruitori ma soprattutto quando cambia la cultura, cambia la situazione storica.” Detto altrimenti, quello che oggi è noto come problema della risemantizzazione.
Non è possibile oggi, e non lo era allora[532], condividere la prospettiva centralista espressa da Quintavalle, sebbene esistessero impellenti ragioni di conservazione e tutela; quelle stesse che lo avevano portato alla costituzione del CSAC. Dal punto di vista culturale ancor prima che metodologico essa appariva priva di senso, persino dannosa e soprattutto concettualmente impropria rispetto alle manifestazioni storiche della fotografia, in aperta contraddizione con la stessa necessità da lui espressa di conservare quel “tessuto connettivo” senza il quale sarebbe stato impossibile comprendere le vicende della fotografia in Italia. In quegli anni, per provarsi a far fronte a quella necessità si sarebbero avviate le prime esperienze e riflessioni sul tema della catalogazione, contribuendo ad accrescere la consapevolezza che i ‘materiali fotografici’ potevano e dovevano essere conservati e studiati (catalogati) certo all’interno di un quadro politico culturale unitario, quindi secondo criteri standardizzati e condivisi, ma conservando sempre, ove possibile, il legame storico, quindi anche territoriale, con la loro storia di produzione e raccolta. Fondamentale era l’appello dello studioso ad abbandonare ogni concezione “di stretta marca idealistica, crociana” per impostare una ricerca rivolta alle storie del “tessuto reale”, per “comprendere la realtà e l’importanza dei singoli studi fotografici dove si hanno e si potranno ancora avere le maggiori scoperte proprio di fotografi di grande ingegno e qualità, certo molto superiori ai pochi amateurs che, comunque, non hanno costruito – né lo potevano – alcuna immagine collettiva, non hanno svolto alcuna funzione nel contesto della cultura di immagine di tutti.” La vis polemica lo portava forse ad affermazioni apodittiche, ma la ricchezza di temi e riflessioni contenute nell’Introduzione alla raccolta di saggi da lui pubblicati nel decennio precedente rendeva questo testo il contributo sino ad allora più organico, argomentato e complesso in merito alle varie problematiche che interessavano e condizionavano la storiografia fotografica in Italia, a partire addirittura dall’inedita questione della “classe sociale, la classe di provenienza, o meglio di inserimento, di appartenenza quindi degli storici della fotografia; capire la loro classe, capire le loro intenzioni, comprendere la funzione che questi storici svolgono nel sistema equivale a comprendere una buona parte dei modelli cui fanno riferimento e a chiarire la realtà della situazione della nostra storia della fotografia in relazione a quella internazionale.” Nella consapevolezza che “certo, per adesso si tratta di una petizione di principio, di un assunto non dimostrato, ma sarà sempre cosi finché non si tenterà un’analisi.”
L’analisi poi non venne, almeno non in quella occasione, sostituita da un confronto necessariamente impietoso con i contesti di formazione di paesi come gli Stati Uniti che faceva semmai emergere le ragioni per le quali “mancando da noi una couche universitaria, una preparazione filologica appena decente, non sono gli storici a costruire le conoscenze e a formare i giovani ma sono limitati gruppi di amatori che si sono improvvisati nel tempo o galleristi oppure storici e sono soprattutto fotografi che spendono parte del loro tempo, meritoriamente da un certo punto di vista, a fare i manager oppure a costruire brevi saggi sulla fotografia. Sarà anche per questo ma, da noi, la fotografia manca completamente del livello filologico che è lo strumento necessario per una considerazione dei materiali che almeno sappia di che materiali si deve trattare.” Di più, nel lavoro storiografico sino a quel momento prodotto Quintavalle riconosceva un prevalere di inaccettabili (e inefficaci) posizioni idealistiche, sebbene esistesse “nel nostro paese una diversa organizzazione dei modelli storiografici, una narrazione storica che esce dall’ambito del realismo e della sua cultura di marca marxista che vede alcuni protagonisti ben presenti sul versante del dibattito e con attenzioni storiche a volte precise, altre più marginali ma comunque sempre miranti a ricostruire un’altra storia da quella ufficiale ed élitaria di cui si è parlato.” “Serve – proseguiva Quintavalle – che attraverso la formulazione di un preciso progetto per la storia della fotografia, attraverso un preciso progetto di organizzazione e integrazione della cultura, si giunga ad una formazione di quadri di storici dell’immagine che non separi la fotografia dal contesto ma ritrasformi la funzione dello studioso dell’immagine in storico delle ideologie che stanno a monte delle immagini.” Per questo, analogamente a quanto era consueto per altre discipline, per altre storiografie, ogni lavoro di ricerca sulla fotografia non poteva che “essere fondato su una analisi seria del problema, coordinata da documentazione ineccepibile sul dibattito precedente, la famigerata bibliografia sull’argomento, da una discussione attenta e corretta delle tesi che sono state avanzate da altri sul medesimo problema, e da un materiale di base coordinato con attenzione che possa servire al lettore come strumento per procedere nell’analisi e negli svolgimenti di questa. Senza una operazione di questo tipo, noiosa quanto si vuole ma determinante e necessaria, non avrà certamente senso costruire monografie di alcun genere, opere di insieme o altro. Ma il problema più importante (…) resta quello del tipo, del genere di storia che si vuole e si deve proporre.”
Quale storia allora? E anche, inevitabilmente, come? Una prima indicazione proveniva dalla necessità di superare il lavoro condotto dal singolo studioso, di allargare e aggiornare culturalmente la sua formazione ponendo il problema della crescita della ricerca “in maniera corretta, cioè in stretto legame, in stretto rapporto con l’organizzazione della conservazione dei materiali, che pure dovrebbe essere il compito precipuo, primario, di ogni operazione”, ciò che implicava più o meno implicitamente il problema dei modelli. E allora il rifiuto, certo, dell’ideologia “post-crociana dei capolavori” per delineare un’altra modalità (ancora senza precisa identità epistemologica sebbene più oltre parlasse di “metodo sociologico”) in grado di organizzare “un discorso più articolato”; ciò che implicava di necessità, tra le altre cose, l’analisi e lo studio delle modalità operative dei fotografi, abbandonando la logica celebrativa della singola immagine per dedicarsi piuttosto a considerare le serie, di cui riconosceva la valenza linguistica e discorsiva con una posizione analoga a quella manifestata da Ian Jeffrey[533]. Stabiliti i limiti dell’approccio idealistico Quintavalle si provava a definire il nodo centrale “della metodologia da impiegare, cioè il problema dell’analisi delle icone secondo metodi che non chiudano (…) le possibilità di ulteriore sviluppo ma che svolgano, semmai, una funzione diretta e contrapposta. Ma per andare oltre su questa strada dobbiamo chiarire che gli assi della lettura delle immagini sono quelli diacronico e sincronico, storico e contemporaneo, della linguistica post-saussuriana; senza questa premessa generale si rischia infatti di non comprendere il peso e il senso reale delle problematiche, non si dice della sola fotografia ma di qualsiasi testo. L’analisi storica delle immagini costringe a una considerazione dell’icona come parte di un sistema, anzi, di una tradizione storica entro la quale l’immagine stessa determina delle fratture, opera delle varianti in genere cariche di senso; l’analisi sincronica delle immagini fissa le varianti di senso entro un contesto contemporaneo e quindi organizza un discorso propriamente strutturale. Bene, le due linee, quella storica e quella sincronica, devono necessariamente e sempre essere collegate se non si vuole correre il rischio di non comprendere il senso di quello che veniamo analizzando. (…) Dunque l’impatto delle due metodologie, delle due linee, è necessario e l’integrazione del doppio metodo determinante per la comprensione del ‘documento’ fotografico’ [534], [infatti] nella storia delle immagini che si cerca di restituire non può esistere una linea cronologica unitaria perché regolarmente le tradizioni dell’icona portano indietro o spostano avanti il nodo dei riferimenti.”[535]
Quel riferimento al ‘documento fotografico’ rimandava di necessità alla questione complessa del ricorso alla fotografia quale fonte per la storia, al dibattito che in quel periodo sottoponeva a verifica la sua stessa legittimità e che qui proveremo a delineare in estrema sintesi. Una importante occasione di confronto si era data nel 1979 a partire dalle sollecitazioni contenute nel testo di Giulio Bollati per gli “Annali” einaudiani, presentati come “il tentativo di acquisire finalmente alla riflessione storiografica italiana il linguaggio della fotografia” e ancor più dalle diverse recensioni a quell’opera, che di volta in volta avevano considerato la fotografia quale “fonte significativa”[536] ovvero “come documento, se vogliamo come fonte storica” [537], sino a ritenere che il ricorso alle fotografie poteva appagare al più “talune superficiali curiosità” ed era perciò destinato “a restare al margine dei veri problemi della ricerca”[538]. Più pertinenti, anche se culturalmente meno influenti, erano le riflessioni che provenivano dalla ricerca etnoantropologica, nel cui ambito un fotografo come Lello Mazzacane (1975) aveva richiamato i problemi ideologici sottesi al rapporto fra fotografia e storia e individuato alcune questioni metodologiche centrali, quali il riconoscimento della fotografia “come documento storico” e i problemi posti dalla “interpretazione del ‘documento fotografico’. ” In particolare per quanto riguarda il primo aspetto aveva chiarito che “ovemai non lo fosse [un documento storico] si dovrebbe chiarire cosa si intenda per documento e non cosa è una fotografia”, avanzando riflessioni che sarebbero state riprese e sviluppate solo dal dibattito storiografico più recente.
A fronte di questo variegato panorama c’era invece chi – come Michele Giordano[539] – riteneva che “ormai nessuno storico, nemmeno il più fedele custode della tradizione politico-diplomatica, sarà disposto a negare alla fotografia un posto, magari in piedi, al raduno delle fonti storiche”, ma suggerendo curiosamente l’opportunità di accostarsi a questa problematica fonte dimenticando “provvisoriamente gli aspetti peculiari della fotografia”, cioè disconoscendo proprio le cruciali questioni interpretative poste da Mazzacane, vale a dire la necessità di riconoscere e comprendere le connotazioni storico culturali delle fonti fotografiche. Forse per questo Giordano riteneva che non si trattasse “più di chiederle che ci procuri delle conoscenze sul passato – una domanda che onestamente non possiamo rivolgerle – ma si tratta di illuminare l’azione ideologica che essa esercitava sugli uomini del suo tempo”; azione che pure – si direbbe – doveva appartenere al novero delle “conoscenze sul passato”. I gravi limiti teorici e metodologici di quel “famigerato”[540] testo, ben presto segnalati da altri studiosi, non possono però farci dimenticare che esso costituì a tutti gli effetti il primo contributo specifico sul tema da parte degli “storici professionali” (la definizione è di Tomassini), in anni in cui la discussione risultava ben più serrata e coinvolgente in ambito etnografico. Nel 1983 la rivista “Campo” aveva dedicato un numero monografico al tema, aperto da un intervento di Rino Mele che misurandosi con l’ultimo Roland Barthes de La camera chiara, ma anche con una qualche eco di Jacques Lacan, affermava che “la fotografia ci documenta non ciò che è stato ma la disposizione degli oggetti, il come è stato. Dovremmo allora dire che essa ha la funzione di registrare e non quella di documentare (…) a meno che non limitiamo l’uso della fotografia documentaria a ciò che già si dispone come documento, a ciò che è già immobile in una sua inamovibile messa in posa.”[541] Anche qui si esprimeva una sorta di diffidenza nei confronti dell’immagine fotografica, di questo “testo-traccia” che “registra soltanto in un momento delimitato la sezione del tempo (…) il micro set della fotografia è una trappola del tempo (…) non documenta che l’uccisione del tempo registrando i limiti spaziali su cui il taglio è avvenuto”, tanto che “il processo fotografico nel tagliare il tempo taglia il rapporto significante-significato”. Conclusione forse curiosa, debitrice di una concezione piuttosto riduttiva sul doppio fronte delle teorie del segno e del concetto storiografico di “documento”, ma certo esito di una meditazione disciplinare complessa a cui contribuì anche Clara Gallini riflettendo su di una nota serie di fotografie spiritiche per giungere alla conclusione – certo più convincente – espressa in chiusura del suo breve saggio: “Non chiediamoci dunque se la nostra fantasma dal volto di biscuit sia ‘vera’ o ‘falsa’: essa [cioè la sua immagine fotografica] è comunque reale, di una realtà che è anzitutto storica e culturale.”[542] Meno consapevole e accorto appariva ancora in quegli anni il livello di elaborazione in ambito storico, come suggeriva questa tautologica definizione di Luigi Goglia[543], per il quale la fotografia era “tutto ciò che esce impressionato da una camera fotografica e successivamente sviluppato e stampato da un laboratorio”; pertanto se essa “vuole essere considerata dagli studiosi e avere il suo posto sul tavolo degli storici, non va semplicemente guardata (…) essa va letta (…). E la lettura di una fotografia richiede tutta l’attenzione e la serietà con la quale si legge un altro qualsiasi documento, le conoscenze specifiche di questo tipo di documento e un altro elemento ancora terribilmente soggettivo: la sensibilità di recepire dall’immagine quanto più essa può offrire”[544]. Era difficile dissentire, forse, da queste considerazioni al limite dell’ovvio, così come risultava impossibile concordare con l’opinione ‘radicale’ (e un poco sorprendente) di Giuseppe Papagno, che liberava il discorso da ogni aspetto problematico asserendo che “le fotografie attestano la veridicità delle parole; esse sono una ‘evidente’ base ‘documentaria’ del fenomeno oggetto del discorso. (…) Lo strumento e il suo prodotto (…) stabiliscono per la prima volta un collegamento ‘diretto’ tra fatto fissato in immagine e tutti i non-testimoni, fondandolo però non sulla ‘fiducia’ verso l’autore ma invece su un sistema di ‘validità’ meccanico.” [545] Una concezione viziata di positivismo verrebbe da dire; qui solo lievemente arricchita da una serie di cautele metodologiche quali il riconoscimento dei codici culturali di rappresentazione e l’analisi delle forme materiali e narrative con cui sono organizzate le immagini, ciò che portava lo storico a ritenere che “ciò che si presenta a un primo approccio come fonte è già un prodotto ampiamente elaborato”, cioè, diremmo, un documento, sebbene lo studioso non si spingesse a tanto. A fronte della ribadita necessità di comprendere i processi di elaborazione e codificazione delle fotografie Papagno riconosceva sconsolato che le difficoltà potevano essere superate solo “se si disponesse di un metodo appropriato per la valutazione di tali fonti in tutta l’ampia gamma di interrogativi che esse pongono. Ma che esso esista e sia di facile accesso è ancor oggi da escludere in buona misura. Quindi gli oggetti fotografici (come insiemi) hanno, come fonte, una validità assai precaria e instabile”, attribuendo loro un limite che era invece intrinseco allo sguardo “terribilmente soggettivo” dello storico. Una resa incondizionata insomma e una buona testimonianza di quelle che Luigi Tomassini ha affettuosamente definito “la cautela e la diffidenza degli storici verso il documento fotografico”; elementi che – forse – potevano aver costituito “un contributo importante, un filtro del tutto necessario sul piano scientifico, rispetto all’ingenuo entusiasmo”[546], ma che risultavano certo sconfortanti nella loro genericità e nell’assenza di ogni richiamo o rimando ad altri ambiti di studio e di riflessione epistemologica -dall’antropologia alla semiologia – impegnati in confronti di ben altro livello.
A quelli guardava invece uno storico dei media come Peppino Ortoleva[547] in un saggio compreso in un lavoro a più mani esplicitamente dedicato alle questioni di metodo della ricerca storica contemporaneista. Dopo aver ribadito che “la fotografia è pressoché inutilizzata, nei fatti se non in teoria, come documento, come fonte storica autonoma”, lo studioso individuava tra le principali cause di quella diffidenza “il problema della durata”, di quella “atemporalità” che avrebbe messo in discussione “la stessa compatibilità tra la fotografia ed una visione storica del mondo”, ma anche un più radicale “problema di linguaggio”, di difficoltà di “verbalizzazione del ‘messaggio’ fotografico” e infine l’incapacità di distinguere tra “apparenza e realtà” che nasceva proprio dalla fatica necessaria per superare criticamente l’immediato fascino referenziale dell’immagine fotografica. Lo storico riconosceva insomma gli impedimenti disciplinari nel fare i conti con le feconde ambiguità della fotografia; non ultima “la presenza, di un elemento di scelta”, fortemente condizionato dal contesto e più in particolare da quell’insieme di regole che Ortoleva racchiudeva nel più ampio concetto di “cultura fotografica”, ripreso da Max Kozloff[548], il cui studio avrebbe dovuto “servire ad integrare tra loro questi diversi aspetti e a fare della fotografia una fonte e insieme un aspetto di una più generale storia della società.”[549] Quel “breve ma importante saggio di carattere metodologico”[550] ebbe una vasta eco nelle riflessioni dei contemporaneisti e in particolare tra gli studiosi vicini alla rete degli istituti per la storia della Resistenza, che in quegli anni fu tra le sedi privilegiate del dibattito sulle nuove fonti; tema affrontato in vari convegni e sulle pagine di “Italia contemporanea”, “Movimento operaio e socialista” (dal 1991 “Ventesimo secolo”) ma anche di “AFT”, che nel 1986 aveva ospitato l’intervento di uno storico dei secoli “senza fotografia” come Franco Cardini, il quale ribadiva come “sul campo della riflessione propriamente metodologica relativa all’utilizzazione della fotografia nella loro disciplina, gli storici sono tuttora a un livello appena elementare.”[551]
Eppure già Marc Bloch nella sua Apologia della storia (1949) si era chiesto “se per essere storica sia sufficiente che una foto rappresenti un soggetto del passato o sia stata eseguita nel passato”[552], dando per scontata la sua legittimità di fonte. A quel magistero si era riferito uno studioso e fotografo come Corrado Fanti sulle pagine di “Fotologia”, facendo propria la lezione delle “Annales” per dire che “è storica ogni fotografia che risponde a un problema storico”[553], procedendo quindi a individuarne elementi, condizioni e criteri di trattamento critico per richiamare infine la necessità di “considerarla soprattutto come fonte della concettualità che ne ha guidata la redazione in una certa maniera (…) Sono le motivazioni che hanno commissionato e guidato la rappresentazione del reale (…) ed il fatto che a quella immagine sia stata giustapposta una didascalia e sia stata impaginata ed utilizzata in un certo modo che, nel quadro culturale dell’evento registrato, offrono spunti per ipotesi di lavoro utili allo storico.”[554] Anche Maria Teresa Sega[555] aveva ribadito “il disinteresse o la diffidenza degli storici nei confronti della fotografia come documento” ma individuandone le ragioni nei “problemi insiti in una storia della fotografia ancora recente [e connotata come ‘artistica’] e dall’impossibilità di trasferire ad essa categorie interpretative utilizzate per altre fonti (…) (autenticità, veridicità, esattezza)”. Anche per questa studiosa l’immagine fotografica doveva essere considerata essenzialmente come un documento relativo “alla società che la produce e consuma secondo determinati bisogni”, ragione per cui “per lo storico tutte le fotografie sono ‘vere’ e ‘false’ nello stesso tempo. (…) A differenza che per l’attualità, dove può essere fonte di grossi e dolorosi equivoci, un falso fotografico diventa documento per lo storico (…) poiché permette di documentare proprio le assenze, i silenzi, le distorsioni.”[556] Per quanto riguardava infine la questione fondamentale del “valore epistemologico” dell’istante “rispetto alla complessità del reale”, l’autrice ribadiva che “come per le altre fonti non la singola immagine, ma un insieme di immagini fotografiche è documento per lo storico”, confermando così una precedente notazione di Fanti per il quale appariva “chiaro come l’operazione filologica capace di far luce nel rapporto fra la realtà e il fotografo, fra il fotografo e la cultura in cui è inserito (…) non possa quasi mai (tranne rare occasioni) applicarsi ad una singola immagine che viene così ad apparire come una frase o brano, pur di senso compiuto, di un più ampio testo costituito dall’intera sequenza, dalla campagna fotografica all’interno della quale si inserisce quella sequenza, e dall’intero archivio di immagini prodotte da quel fotografo.”[557] Da quella serie di interventi emergevano due distinti ordini di problemi e questioni: quella più generale che riguardava le ragioni della diffidenza degli storici nei confronti della fotografia e quella più specifica, di ordine metodologico, relativa alla appropriata critica di queste fonti e alla loro corretta edizione. A quelle date, ed era uno studioso qualificato come Adolfo Mignemi a riconoscerlo, “la riflessione sulla fotografia come fonte storica è e rimane patrimonio degli storici della fotografia”[558], sebbene anche e specialmente per suo merito il tema stesse ormai entrando a far parte degli argomenti affrontati dai contemporaneisti che riconoscevano la necessità di confrontarsi con le nuove fonti e i nuovi strumenti di indagine offerti dall’informatica. In occasione di una serie di seminari svoltasi a Rimini e Torino nel 1988-1989 dedicati a Gli archivi e la memoria del presente, Mignemi aveva delineato l’orizzonte culturale nel quale si era formata l’idea stessa di fotografia, cogliendone i legami con la figurazione prospettica occidentale, qui intesa come “forma simbolica” secondo la lezione di Erwin Panofsky, e aveva individuato nella “progressiva spettacolarizzazione della politica manifestatasi nella società contemporanea soprattutto dopo il primo conflitto mondiale”[559] una delle ragioni determinanti per le quali gli storici avrebbero dovuto occuparsi di fotografia. Oltre a queste considerazioni, certo interessanti ma non inedite, il suo contributo si qualificava per un primo tentativo, poi da lui stesso successivamente sviluppato, di ricavare dalla diplomatica strumenti di analisi applicabili al documento fotografico, contribuendo così alla riflessione intorno a uno dei nodi problematici posti dalla critica delle fonti, quello dell’autorialità, legato ai modi caratteristici della produzione di questa tipologia di documenti e che implicavano una precisa conoscenza e considerazione di quei processi; quella stessa che gli consentiva di indicare un’altra “questione metodologica di rilevanza fondamentale: il materiale negativo e quello positivo costituiscono elementi documentali con una propria autonomia. Così come (…) autonomia propria ha la fotografia e la sua riproduzione con procedimento poligrafico.” Forse oggi quel concetto di autonomia necessiterebbe di una migliore definizione critica, così come la questione dell’autorialità, ma certo erano quelle le basi su cui si sarebbe poi costruita la più appropriata strumentazione metodologica dei contemporaneisti e non solo.
La storiografia dedicata alle vicende italiane ebbe in quel periodo esiti di grande rilevanza; primo risultato maturo delle ricerche e delle iniziative che avevano segnato gli anni appena trascorsi. Sebbene fosse stato pubblicato nel 1981 per ragioni editoriali, deve essere storicamente collocato e criticamente compreso nella temperie di studi e iniziative della fine del decennio precedente il fondamentale saggio di Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), compreso nella “Storia dell’arte italiana” di Einaudi[560]. Accanto alla rilevanza dell’opera risultava particolarmente significativa la stessa sede di pubblicazione, che costituiva di fatto, per il contesto italiano, una ulteriore legittimazione degli studi fotografici ponendoli accanto a quelli – di tradizione indiscussa – della storiografia artistica.[561]
Il titolo, molto tecnico e quasi impersonale avendo espunto la significativa qualificazione ancora presente nella prima stesura (“Note critiche per una storia…”)[562], introduceva una interessante serie di variazioni rispetto a quello adottato da Bertelli per il proprio saggio negli “Annali”, che ne costituiva il termine di confronto più immediato e autorevole, indicando con questo anche i differenti scopi e presupposti metodologici: non più “la fotografia nella storia” ma “storia della fotografia”, come ben spiegava la stessa studiosa in una lettera a Paolo Fossati: “una storia della fotografia per tecniche, specificandone di volta in volta le caratteristiche e i particolari effetti al fine di giustificare le scelte dei vari fotografi anche dal punto di vista estetico. Farei emergere il contributo dei maggiori al divenire della fotografia come espressione, specificandone le origini regionali e facendo seguire, in appendice, un elenco dei fotografi minori che hanno lavorato in questa o quell’altra città.” [563] Si trattava di accogliere e sviluppare le suggestioni del coordinatore editoriale dell’intero progetto[564], con Giulio Bollati, che sulla scia del successo del volume dedicato a Michetti fotografo aveva proposto alla studiosa di “tracciare delle indicazioni di studio e di ricerca dagli inizi della fotografia in Italia ai primi del ‘900 [affrontando] i problemi di riproduzione in concorrenza con l’incisione, di documentazione, la fotografia come forma autonoma, via via fino a quei problemi di mercato, diffusione ecc. (…). Si tratta di dare nel contesto di un’opera prevalentemente sulla pittura e scultura i problemi critici che la foto solleva.”[565] Programma più definito di quanto potesse apparire da queste parole ricordando che il tema critico della documentazione, anche fotografica, dell’opera d’arte era già stato affrontato da Ettore Spalletti[566] nel secondo volume della stessa grande opera; mentre all’illustrazione romantica era dedicato il saggio di Ferdinando Mazzocca[567] che insieme quelli di Miraglia e Gilardi di cui si dirà formava il secondo tomo di Grafica e immagine.
Spalletti, già autore di uno dei testi in catalogo della mostra Alinari del 1977[568], aveva considerato criticamente il ricorso all’immagine ottico meccanica ponendolo in relazione con la tradizione calcografica, sottoponendo di volta in volta a verifica le competenze culturali e tecnologiche che avevano consentito di interpretare l’opera attraverso la traduzione operata dall’incisore da parte di quella “aristocrazia intellettuale (…) ritenuta perfettamente in grado di ricostruire la realtà complessa dell’opera presa a modello attraverso una avvertita lettura del linguaggio analogico proprio dell’incisione.” Il passaggio dal concetto di traduzione, proprio delle immagini manuali, a quello di riproduzione, fondato sul preconcetto tipicamente positivistico dell’oggettività dell’immagine fotografica, cioè su di una insufficiente comprensione critica delle implicazioni tecnologiche e culturali proprie del nuovo mezzo, “portò scarsissimi vantaggi metodologici e anzi ritardò fin quasi ai nostri giorni una seria riflessione sul ruolo svolto dall’operatore fotografico, che non sarà mai considerato un traduttore – come invece era avvenuto per l’incisore – ma soltanto un assistente neutrale di un processo chimico e meccanico di cui egli doveva semplicemente controllare la precisione e l’efficienza.”[569] Di più: “nonostante i suoi limiti e le sue imperfezioni il nuovo mezzo di produzione delle immagini fu capace di alterare irrimediabilmente e in breve tempo quella ‘taratura’ sulla rigorosa sintassi interpretativa della traduzione a stampa che aveva consentito in passato un armonico e mirabile equilibrio fra documentazione figurativa e intelligenza critica. (…) La querelle fra l’infedele interpretazione a stampa e la meccanica fedeltà all’originale della fotografia (…) ebbe dunque come risultato l’alterazione profonda del sistema tradizionale di documentazione figurativa, non sostituito per il momento da altre soluzioni ugualmente valide.” Solo i miglioramenti tecnologici e produttivi dell’ultimo decennio dell’Ottocento consentirono una maggiore diffusione della documentazione fotografica e un suo utilizzo più sistematico e metodologicamente avvertito da parte degli studiosi, sino al superamento di schemi visivi obsoleti determinato “dal grande rinnovamento dei modi di vedere il fenomeno artistico che fu provocato dal formalismo della critica purovisibilistica e dalla spregiudicatezza intellettuale delle avanguardie storiche. Soltanto in connessione con quegli eventi – proseguiva Spalletti – la fotografia si dimostrerà capace di portare un contributo determinante all’elaborazione di nuovi schemi visivi e intellettuali di percezione dell’opera d’arte e, più in generale, della realtà.”
Potendo per la prima volta estendere lo sguardo all’intero contesto nazionale lungo un arco cronologico esteso dalle origini sino al primo anteguerra, la trattazione adottata da Miraglia si sviluppava per grandi aree tematiche, ciascuna svolta alternando considerazioni di ordine generale (storico, iconografico, tecnico) ad approfondimenti, anche esemplificativi, relativi a singoli autori ed opere. Nel ricco apparato di riproduzioni fuori testo, con andamento parallelo al saggio, ciascuna immagine era finalmente corredata di opportuna didascalia con indicazioni relative ad autore, titolo, data, collezione di provenienza e naturalmente tecnica, anche se proprio su questo aspetto – certo all’epoca fortemente condizionato dalla scarsa disponibilità di studi e modelli autorevoli – oggi possono essere avanzate non poche riserve[570]. Il lungo saggio, che certo avrebbe meritato anche un’edizione autonoma, prendeva avvio col capitolo dedicato a Fotografia e società nell’Italia preunitaria, aperto dalla considerazione, anche programmatica, che “non sono molti anni che in Italia si è definito un preciso interesse nei confronti della fotografia e che si indaga sul peso che essa ha esercitato, o ha potuto esercitare, come veicolo di comunicazione e come espressione nel campo della cultura e dell’arte, nel tentativo di ricostruire una fisionomia storica in chiave critica.” Primo esito di quella attenzione nuova era stato il riconoscimento di “personalità di notevole spicco (…) e tali da poter spesso ambire a posizioni di tutto rispetto nei confronti di quei fotografi, di nazionalità varia, che le storie della fotografia indicano come i protagonisti della vicenda ottocentesca”. Dichiarazione che non solo costituiva una chiara sottolineatura dei limiti della storiografia internazionale, ma che rappresentava anche, e forse soprattutto, una sostanziale revisione critica delle posizioni espresse a suo tempo da Vitali, dal quale Miraglia prendeva le distanze anche in virtù del fatto che questi sembrava “non attribuire un eccessivo rilievo culturale ed espressivo a nessuno dei professionisti italiani dell’Ottocento”. La disamina procedeva quindi per raffronti storici con quanto era accaduto nelle altre nazioni in termini di ricezione della novità tecnologica e culturale dell’invenzione della fotografia, condotta in particolare attraverso l’analisi critica della stampa periodica specializzata. In Italia questa risultava caratterizzata da un sostanziale tecnicismo, essendo “molto rari gli articoli cosiddetti di estetica fotografica o riguardanti l’uso sociale”; ragione per cui “nei primi anni della storia della fotografia è difficile ricostruire il volto della fotografia italiana e dei suoi protagonisti o risalire al giudizio coevo sulla fotografia stessa”. Un problema storiografico fortemente condizionato dalla disponibilità delle fonti, specialmente in conseguenza del “mancato intervento statale alla formazione di raccolte pubbliche. (…) Chi studia le origini della fotografia italiana deve rintracciarne gli elementi sparsi un po’ dovunque (…) spesso facendo leva su rapporti personali di amicizia e senza nessuna certezza circa l’esito delle proprie ricerche. Anche in base alla scarsa quantità di documentazione che le collezioni pubbliche del passato (…) hanno inteso raccogliere e tramandarci, possiamo valutare a pieno il significato storico della tardiva consapevolezza culturale nei confronti della fotografia e della problematica che essa comporta come comunicazione e come espressione.” Una fondamentale riflessione metodologica e storiografica troppo spesso passata sotto silenzio, a cui sarebbe stato necessario aggiungere, quale conseguenza ed esito di quelle stesse dinamiche storiche, una riflessione in merito alla figura e alla dotazione culturale di quegli stessi che in Italia si erano dedicati a compilare ‘storie’ della fotografia; privi di una formazione specifica, non dico disciplinare ma almeno storica in senso proprio, surrogata nei migliori dei casi da una grande passione e dalla consapevolezza della ineluttabilità del compito.
Miraglia interpretava le vicende fotografiche italiane in riferimento all’ascesa della borghesia, ciò che rendeva ragione non solo delle precoci affermazioni della fotografia nelle aree più industrializzate del paese già in epoca preunitaria, ma anche della particolarità della produzione professionale italiana nell’ambito “del vedutismo e della riproduzione dell’opera d’arte”, di cui la studiosa chiariva sia le relazioni con la tradizione iconografica sia le problematiche specifiche poste da quell’uso documentario. Addentrandosi nello specifico espressivo di questo genere fotografico ricordava opportunamente che “un problema molto importante (…) è quello connesso al punto di vista della ripresa”, poiché per soddisfare le esigenze del committente o del possibile acquirente “la fotografia deve presentarsi il più possibile fedele all’originale e rispecchiarne insieme lo spirito.” Questioni che interrogavano le capacità tecniche e culturali del fotografo, che trovava nella sempre più vasta manualistica risposte canoniche alle questioni tecniche, mentre apparteneva alla cultura del singolo l’eventuale “capacità critica di lettura nei confronti delle singole personalità dell’arte e dei diversi periodi della sua storia”. Da verificarsi caso per caso quindi, come hanno ormai dimostrato molti studi dei decenni successivi, considerando adesioni e scarti dalla tradizione iconografica e interrogandosi sugli eventuali, possibili rapporti con studiosi di diversa formazione (da Crescentino Caselli a Corrado Ricci, da Pietro Toesca a Roberto Longhi), ma – credo – senza poter confondere i ruoli. Si sarebbe potuto aprire qui uno spazio per accennare almeno al tema rilevantissimo del contributo epistemologico e metodologico della fotografia alla stessa definizione in senso moderno delle discipline storico artistiche, ma la questione venne completamente elusa, come già nel saggio di Bertelli per gli “Annali”. Dopo il contributo di Massimo Ferretti al catalogo Alinari il tema era stato ripreso da Spalletti nel saggio sopra citato, ricco di suggestioni e di dati ma poco interessato a verificare sistematicamente l’influenza della fotografia sulla stessa definizione disciplinare della storia dell’arte, forse anzi introducendo una sottile distinzione nel momento in cui ribadiva l’influenza della fotografia “sulla scienza dell’attribuzione e sulla cultura dei conoscitori.”
Nella seconda parte della trattazione Miraglia spostava il proprio sguardo dall’ambito documentario a quello estetico indagando i rapporti tra Pittura e fotografia. Punto di partenza era la questione, ancora centrale per la cultura del XIX secolo, della mimesis, dove il ‘vero naturale’ coincideva ancora “con il vero della prospettiva lineare concepita più che come una rappresentazione simbolica (…) come forma oggettiva e indipendente dello spazio”. Da lì “la rivalità subito accesa tra pittura e fotografia”, letta criticamente adottando l’ipotesi della “messa in questione dell’iconismo” elaborata da Filiberto Menna nel 1975[571], accostata alle altre “tendenze della critica d’arte ad applicare, all’indagine estetica, l’approccio strutturalistico e ad adottare nuovi criteri di lettura e di giudizio che istituiscono legami sempre più stretti fra arte e percezione, fra arte e psicologia.” Adesione importante non solo in sé ma quale segno preciso di un modo e di un metodo che riconosceva la costruzione storiografica come necessario processo critico e non come presunta e illusoria, ordinata ricostruzione cronologica di fatti, com’era stato costume non solo nella produzione italiana sino ad allora. Ne risultava un tracciato ricco di suggestioni e di spunti, come la segnalazione della lampante coincidenza tra le opinioni espresse a poco meno di un secolo di distanza da Francesco Algarotti (1763) e da Eugène Delacroix (1854) a proposito del fascino (sognato o realizzato) esercitato da “un quadro fatto di mano della Natura medesima”[572] o la sottile ma fondamentale distinzione tra le diverse modalità di ricezione della fotografia da parte dei pittori accademici, “attratti dall’apparente oggettività del modello fotografico” e per contro degli impressionisti, “tesa a captare le suggestioni di alcuni specifici della fotografia”, come avevano del resto ben documentato mostre e pubblicazioni sul tema edite nel decennio precedente. In quella ricostruzione risultava centrale il consapevole processo di ‘liberazione’ dagli schemi prospettici operato dalla pittura che la studiosa estendeva però – con una certa forzatura – anche alla fotografia che “già nel corso dell’Ottocento tende a definirsi come visione alternativa del mondo fenomenico e quindi come espressione”, ponendo in essere un corto circuito critico difficilmente condivisibile se espresso in forma così apodittica[573]. Nel considerare successivamente modalità e tipologie di rapporti che i pittori italiani ebbero con la fotografia si perdevano però le tracce di quelle riflessioni teoriche e l’attenzione spaziava da Faruffini a Signorini seguendo le tracce dei primi studi di Lamberto Vitali, ma senza dimenticare altri artisti che ricorsero alla fotografia per le sue capacità mimetiche senza ancora riflettere sulle sue specificità linguistiche. Nella maggior parte dei casi considerati da Miraglia infatti i pittori avevano guardato “alla fotografia come a un appunto per la memoria (…) una composizione particolare che il pittore interpreta poi in assoluta libertà creativa di linguaggio (…) lontano dai valori fortemente chiaroscurali del suo modello fotografico.” Analisi in buona parte condivisibile e sostanzialmente confermata dai numerosissimi studi dedicati a questi temi che sono stati pubblicati nei decenni successivi[574], ma che pareva in netta contraddizione con gli assunti prima dichiarati. Più interessante e feconda la ricostruzione di un percorso e la formulazione, quasi in filigrana però, dell’ipotesi che considerava l’influenza della messa in scena (da Faruffini a Bernando Celentano, Cabianca, Giulio Aristide Sartorio) nel percorso che avrebbe portato ai tableau vivant di Giuseppe Primoli e, aggiungiamo noi, di Guido Rey, cioè a una delle espressioni più colte della nascente fotografia artistica, sebbene non si potesse concordare con la periodizzazione storica proposta dalla studiosa quando affermava che fu attraverso “il simbolismo e il movimento preraffaellita (…) in questo momento di trapasso e di crisi (…) [che] fotografia e arte (…) appaiono strettamente vincolate da una medesima problematica espressiva (…) prima di separarsi definitivamente per seguire strade affatto divergenti.” Se abbiamo ben compreso ci pare anzi l’opposto: in quegli anni a cavallo tra XIX e XX secolo era la fotografia che sentiva ancora, e per l’ultima volta in modo così drammatico, la necessità di guardare alla pittura, nelle sue espressioni più desuete, prima di conquistare quell’autonomia linguistica ed espressiva che l’avrebbe fatta partecipe dei turbolenti destini delle avanguardie storiche. Erano questi i temi del capitolo dedicato a Pittoricismo e fotografia pittorica (1857-1911), vale a dire alla ricostruzione del dibattito e all’analisi di quegli autori e di quelle opere che hanno segnato la riflessione intorno alle “possibilità estetiche della fotografia”, con una definizione dell’arco cronologico che ne individuava l’inizio in quel 1857 in cui Rejlander espose a Manchester The Two Ways of Life, sebbene poco prima nel testo fosse citata la serie di dagherrotipi di John J.E. Mayall The Lord’s Prayer (1845) e altre sue analoghe immagini presentate all’esposizione di Londra del 1851 e segnalate a suo tempo da Gernsheim. Opere che per questo avrebbero dovuto costituire il termine a quo per la nascita di quel fenomeno che lo studioso aveva più opportunamente definito “art photography” e non “pittoricismo”, e sempre che non si volessero considerare in senso ‘artistico’ alcune nature morte di Daguerre del 1837-1839 o gli scorci di giardino di Talbot e Bayard, tutti palesemente realizzati avendo come riferimento la produzione pittorica coeva. Ciò a dire che ci si poteva aspettare, al 1979-1981, una maggiore accuratezza nella definizione dei termini del problema e non l’adozione, forse inconsapevole, proprio del modello interpretativo pittorialista; quello che aveva riunito in una sola linea genealogica nobilitante la catena di autori che muovendo da Hill e dalla Cameron giungeva sino alla contemporaneità di Alvin Langdon Coburn o di George Seeley passando per “Camera Work”. La difficoltà di tenere insieme fenomeni e autori tanto cronologicamente e culturalmente lontani, si accompagnava a giudizi ancora fortemente critici, imputando a questa “vera e propria malattia infettiva (…) il contagio”[575] della presunta purezza di quei primi, mitici autori, ma senza poi descrivere i modi e le ragioni di questo “lungo periodo di oscurantismo che la fotografia europea visse dagli anni ’50 agli anni ’80-90” (ma ben oltre per la scena italiana), né tantomeno motivando sufficientemente le opinioni espresse. Un’incertezza che attraversava tutto il capitolo sino ai suoi esiti finali, quando alla riconosciuta necessità di una revisione almeno parziale “di questo particolare momento della cultura fotografica” faceva da immediato riscontro la ripresa dei concetti già espressi da Lamberto Vitali a proposito di un allontanamento “dalla purezza delle origini (…) attraverso una via chiaramente viziata nei suoi presupposti, cioè mimando la pittura, [ma] è anche vero che essa fornì la prima occasione per una riflessione più partecipe e attiva sui processi fotografici, sui segni che li caratterizzano e sul loro porsi come altro rispetto al reale.”
Più convincente risultava l’interpretazione della mancata ricezione e adesione della cultura fotografica italiana a quella tendenza, le cui cause Miraglia individuava nei problemi politici che portarono alla nascita dello stato italiano e soprattutto nella “tardiva affermazione della borghesia come classe politica al potere”, che nello specifico prese forma nelle nascenti Società fotografiche, nelle Esposizioni nazionali e nei primi Congressi. Furono quelli i luoghi e le occasioni di confronto e di dibattito che culminarono nella grande mostra torinese del 1902 e nella conseguente nascita de “La Fotografia Artistica”[576]; una stagione di cui la studiosa segnalava alcuni autori considerati espressione di differenti modalità di adesione agli stilemi della ‘fotografia pittorica’, come Nunes Vais, Von Gloeden e Filippo Rocci, a cui qualche anno dopo avrebbe dedicato uno studio monografico[577]. Da questa articolata esposizione derivavano le considerazioni critiche poste in chiusura, che identificavano quella che era ancora definita “crisi espressiva del medium fotografico”, intesa quale “riflesso di una crisi ben più profonda di tutte le espressioni figurative, che (…) si muovono nell’ambito di una sperimentazione espressiva che allontanandosi dal verismo ottocentesco, prepara l’arte moderna. In questo momento (…) che vede sgretolarsi il mito ottocentesco della fedeltà al dato naturalistico, si verifica, fra pittura e fotografia, uno straordinario avvicinamento, mai verificatosi in maniera così stringente, se non forse ai nostri giorni, nel lungo percorso dei rapporti arte-fotografia.” Posizione critica ben definita, che le consentiva di delineare un preciso tracciato storiografico segnato da una costante considerazione del mutare dei linguaggi espressivi la cui efficacia, a nostro parere, sarebbe stata accresciuta da una più puntuale periodizzazione e analisi storico critica, tale da distinguere e non congiungere in un lungo ‘momento’ tendenze e poetiche tanto distanti quanto il movimento preraffaellita e il futurismo, che non potevano certo essere accostati solo sulla base della comune presa di distanza dalle diverse forme del ‘verismo’, essendo con tutta evidenza determinante almeno un altro elemento: quello della direzione presa.
La storia della fotografia, ora ne siamo più consapevoli, è però fatta anche di pratiche ordinarie, quotidiane, che Miraglia distingueva e affrontava nel capitolo dedicato al Professionismo, dove prendeva in considerazione in particolare gli ambiti della fotografia di documentazione del patrimonio storico artistico ed architettonico a partire dall’età del collodio, quando l’effettiva riproducibilità per la prima volta impose la fotografia come “medium alternativo nel campo della produzione e riproduzione dell’immagine”, ponendola in forte competizione con la stampa calcografica. La rilevanza del fenomeno, per la cui interpretazione confermava i riferimenti alla Freund e a Bourdieu ma senza dimenticare Spalletti, era individuata nel suo essere “espressione di tutto un sistema di valori e della visione del mondo da parte di un intero gruppo” sociale come nell’incidenza che quell’attività ebbe nella formazione diffusa di un gusto fotografico; poiché “il professionista che fornisce i propri prodotti alla società è egli stesso infatti un membro di quella società, ne interpreta le esigenze e le ideologie dopo averle assorbite, sottolineando implicitamente, con la produzione delle proprie opere, il rapporto di reciproca relazione che lo lega alla società stessa.” Paradigmatica in tal senso, e ampiamente trattata, era la vicenda Alinari, a cui seguivano pagine dedicate ai Brogi e ai principali studi fotografici delle maggiori città italiane: da Roma, dove descriveva il mai sopito conflitto tra Calcografia e GFN, a Venezia, Napoli e Palermo; da Torino alla Milano di Luigi Sacchi e poi di Giuseppe Beltrami, assimilato sbrigativamente al torinese Mario Gabinio, accreditato a sua volta di un “occhio da Atget italiano” per quelle sue “riprese quasi surrealiste di una città in cui l’elemento umano è quasi assente”, condividendo la lettura critica proposta dal suo primo esegeta[578]. La ricostruzione di Miraglia non dimenticava neppure un centro minore ma più che rilevante per la storia italiana come Biella, sede di quella che la studiosa individua come una vera e propria ‘scuola’, formata da quell’insieme di autori legati da strette relazioni parentali, sociali e professionali che da Giuseppe Venanzio Sella procedeva sino al figlio Vittorio, a Vittorio Besso, Guido Rey e al più giovane Emilio Gallo, tutti accomunati da un profondo interesse per la fotografia di montagna. Dato incontrovertibile che oggi non risulta però più sufficiente a definire un gruppo né tantomeno una ‘scuola’, essendo semmai il minimo comun denominatore di gran parte dei fotografi amateur piemontesi ancora ben dentro il primo Novecento; per non dire dell’insopprimibile distinzione di poetica che separava Sella figlio da Rey. Ricca di indicazioni era invece l’analisi della complessa personalità di Giuseppe Venanzio Sella e del ruolo da lui svolto nella formazione di una specifica cultura italiana negli anni intorno all’Unità (le due edizioni del suo Plico del fotografo si collocavano al 1856 e al 1863) ma anche per i primi contatti indiretti con le sperimentazioni di Talbot, di cui possedeva tre esemplari che pure, palesemente, non potevano essere stati “fatti da lui nel 1839” come pretendeva il figlio Vittorio, seguito in questo dalla stessa studiosa, invece incerta sulla corretta indicazione dei corrispondenti e mediatori[579]. Secondo la categorizzazione introdotta a suo tempo da Vitali, e qui esplicitamente richiamata, ai professionisti non potevano che fare da contraltare gli ‘irregolari’, qui intesi come fenomeno proprio dell’industrializzazione fotografica, dei quali Miraglia sottolineava opportunamente la rilevanza del ruolo (per quanto inconsapevole) svolto nella rivoluzione linguistica del mezzo; conseguenza dello sganciamento “dalle esigenze di mercato implicite nella pratica del professionismo” e della comparsa di “modi alternativi, tutti ugualmente validi, perché possibili, di leggere il dato naturale.”[580] Da queste premesse chiarificatrici e ancor valide non vennero però tratte tutte le conseguenze che ci si potevano attendere, poiché se da un lato ribadiva con Benjamin che fu “questo approccio ingenuo e non intenzionale” a sottolineare “in maniera stringente quelli che sono i meccanismi ottici della camera” poi sosteneva che fu solo “il dilettante colto (…) a contribuire al divenire della fotografia (…), che ha impresso un nuovo corso alla storia della stessa.” Furono insomma solo gli “uomini di cultura, legati per consuetudine di amicizia e di comunità d’intenti ai protagonisti della vicenda artistica dell’Ottocento”, considerati addirittura “espressione dell’avanguardia”, a raccogliere e far fruttare quelle suggestioni implicite, accostando tra loro autori tanto dissimili quanto Giuseppe Primoli e Francesco Paolo Michetti ma anche Federico Faruffini, la più improbabile di quelle presenze se non altro per ragioni generazionali, essendo morto nel 1869. Quella contraddizione storiografica pareva potersi risolvere introducendo una ulteriore distinzione: “Nell’ambito ottocentesco della fotografia amatoriale – scriveva Miraglia – i risultati estetici sono piuttosto sporadici. Dovuti più alla felicità del caso che non a una precisa volontà espressiva dell’operatore” poiché “l’ ‘inconscio ottico’, ossia la casualità dei meccanismi fotografici e l’ingenuità nell’uso della camera non sono mai stati mezzi legittimi di creazione.”[581] “Nell’ ‘irregolare’ invece, la coerenza dello stile, la casistica delle immagini esteticamente riuscite e riferibili all’unità di un’ispirazione costante, ci permettono di individuare, insieme a un’innegabile vocazione fotografica, la precisa consapevolezza di una fotografia che andava definendosi come veicolo di una nuova visione del mondo.” Pur posto in questi termini, per altro discutibili, il problema interpretativo restava sostanzialmente irrisolto: non solo perché non si provava neppure a definire o illustrare in termini storico critici quei risultati estetici che avrebbero dovuto servire da parametro di valutazione, ma anche perché, poco oltre, la studiosa esprimeva un punto di vista ben diverso, riconoscendo che “la lastra alla gelatino bromuro d’argento [rappresentò] l’inizio di un’ampia e articolata sperimentazione con la camera da parte di centinaia di migliaia di dilettanti (…) Questi irregolari della fotografia [forse da distinguersi da quelli precedentemente considerati?] che solo molto più tardi vennero riconosciuti come i veri precursori della fotografia moderna.”
Come ha notato ancora recentemente Antonella Russo, quell’importante lavoro di Miraglia “divenne testo di riferimento per la storiografia della fotografia italiana ottocentesca” [582] e ciò specialmente perché si offriva come modello metodologico, mostrando per la prima volta concretamente come dovesse e potesse essere affrontato lo studio della storia della fotografia, superando le precedenti impostazioni aneddotiche o puramente cronologiche per indicare – pur con i limiti che abbiamo indicato, certo meglio riconoscibili a distanza di tempo – quale fosse il livello di complessità posto dalla comprensione delle vicende della fotografia (anche italiana) e quali dovessero essere gli strumenti e le strategie di analisi critica da mettere in atto per affrontarla; quali gli indispensabili problemi e strumenti metodologici da definire e adottare, necessari per costruire un’attrezzata comprensione storico critica, culturale e sociale delle vicende connesse alla produzione, ricezione e uso di questa particolare tipologia di documenti/ monumenti. Ciò che costituiva la vera novità, per il povero e nascente ambito della storiografia fotografica italiana, ciò che poteva essere considerato e magari preso a modello nel testo di Miraglia era soprattutto il metodo, la ricercata sistematicità di molti confronti come il rispetto canonico delle forme (e delle regole) della verificabilità dei dati presentati dalla ricerca storica, attuati mediante i consolidati strumenti delle citazioni, delle note e degli apparati.
Di tutto questo non si trovava quasi traccia nel secondo, ampio saggio dedicato alla fotografia compreso in quello stesso tomo della “Storia dell’Arte”, che l’intelligenza del curatore Federico Zeri aveva affidato a Ando Gilardi, accostando a un compiuto esempio di applicazione del metodo storico un testo virulento e programmaticamente asistematico, grandguignolesco e – per quel contesto, ovvio – quasi sovversivo, seppure einaudianamente più moderato nei toni di quanto l’autore ci avesse abituati dalle pagine di “Photo 13” (1970-1974)[583] e della sua Storia sociale della fotografia (1976). Il suo Creatività e informazione fotografica apriva con considerazioni sullo stato dell’arte non dissimili da quelle espresse da Miraglia, ma spostando l’accento sulle lacune dei processi formativi: “Non si fa torto al lettore supponendo che gli siano sconosciuti alcuni dati fondamentali della storia delle origini della fotografia in generale – scriveva Gilardi – e che sono logicamente indispensabili per una miglior comprensione delle vicende della fotografia italiana. La storia della fotografia, e in particolare quella che riguarda l’evoluzione dei suoi mezzi e procedimenti tecnici, rimane fino a oggi al di fuori della cultura artistica, anche se di buon livello: la maggior parte dei trattati di storia dell’arte non se ne occupano o se lo fanno le assegnano poco spazio e quasi sempre dedicandolo alla citazione di pochi nomi di fotografi famosi. Eppure una conoscenza sia pur minima dei processi fotografici è, a nostro parere, necessaria perché nel fare fotografia, il mezzo ha un’importanza fondamentale non solo in rapporto alle qualità del prodotto, ma altresì agli usi del medesimo, al suo apprezzamento artistico proclamato ed effettivo: due punti di vista, per la fotografia, ben distinti. Questa influenza dei caratteri del mezzo su quelli del prodotto non è strettamente peculiare alla fotografia: avvenne la medesima cosa, sia pure in forma più blanda, con tutti i mezzi impiegati in circa sei secoli per fabbricare immagini in serie, mezzi chiamati genericamente ‘matrici’. La matrice potrebbe essere definita come un’immagine prolifica perché ne genera molte altre, chiamate stampe o copie. In rapporto a un altro tipo d’immagine che per restare in metafora chiameremo sterile, piuttosto di unica (e al suono di questa parola ormai d’istinto pensiamo a un pregio oggettivo), la fertilità della matrice appare e apparve quasi sempre scandalosa alle virtù dell’apprezzamento estetico. E lo scandalo è tanto maggiore quanto più grande la fertilità della matrice: la sua produttività.”[584] Una chiamata in causa che era anche una dichiarazione programmatica, che riprendeva (e non poteva essere altrimenti) l’impostazione teorica della Storia sociale, in cui la fotografia era definita come “l’ultimo procedimento per fare figure”, cioè l’ultima “immagine prolifica” in ordine di tempo, individuando in questa moltiplicabilità (anche) il marchio d’infamia originario del suo riconoscimento artistico così come la ragione del suo trionfo in termini di consumo di massa, e quindi di comunicazione. Erano i due poli identificati dal titolo, che lasciavano intendere una gerarchia di attenzioni richiamata in una delle pagine più esplicite in cui Gilardi scriveva che “il fulmineo diffondersi della fotografia non ha nemmeno lasciato molto tempo agli artisti (…) per meditare e prepararsi a quel radicale rinnovamento dell’arte che si è realizzato nello stesso periodo; e questo potrebbe essere inteso anche in termini di nazionalità. Più chiaramente: la fotografia si diffonde in Italia, sia pure all’interno di quel periodo di cent’anni o poco più, in modi e tempi diversi da quelli, ad esempio, americani. Affermare che l’arte moderna e contemporanea si possa analizzare anche da questo punto di vista può sembrare stravagante, ma forse solo per il momento: l’aggiornamento è solo questione di tempo. Se si ammette l’ipotesi affermata, respingendo l’etichetta di stravaganza; se si supera cioè definitivamente ogni ‘complesso di superiorità’ dell’arte che non ha bisogno di matrici feconde, una ricerca storica sulla fotografia italiana – come di ogni altro paese, ovviamente – assumerebbe un’importanza assai maggiore di quella che normalmente le si concede. In questo saggio tenteremo, nel limite della sua brevità, di arricchire quell’ipotesi. Possibilmente con elementi nuovi e che si trovano a monte di quelli che da qualche tempo vengono presi in esame tutte le volte, ormai numerose, che si affronta la questione dei rapporti fra la fotografia e l’arte in quanto ‘contaminazione’ formale, ovvero sfruttamento dei materiali della prima da parte della seconda. O addirittura in termini di ‘combattimento’ fra le due immagini, intendendolo come gara dimostrativa delle migliori capacità espressive. E questo sarebbe davvero un punto di vista stravagante.”[585]
La chiave interpretativa era individuata nella peculiare “produttività”, intesa in senso industriale, della fotografia, nella convinzione che “la storia delle immagini prolifiche (…) ubbidisce, sotto sotto, più a regole economiche che estetiche, anche se in genere si parla più di meriti artistici che produttivistici del mezzo”; prova ne sia che “è l’antica industria tipografica che impiantando nuovi reparti di fotoincisione ricava i più grandi vantaggi dall’invenzione della fotografia [utilizzando] quella unica copia che da sola è sufficiente per ricavarne l’impronta foto incisa, moltiplicabile praticamente all’infinito (…) per i materiali, gli utensili, i procedimenti con cui si fabbrica, quella fotografica è un’arte industriale per la quale la manualità, come intervento più o meno determinante nella fabbricazione, costituisce una imperfezione del procedimento, non un contributo qualificante.”[586]
La considerazione della fotografia come “arte industriale” in senso proprio comportava per Gilardi, più esplicitamente che in altri, la ridefinizione della sua cultura nel corso del XIX secolo e una stringente considerazione della téchne, non solo perché “le forme e i generi dell’immagine ottica-meccanica dipendono dai meccanismi in modo stretto”, ma anche nella convinzione che “se affermiamo che tra la fotografia italiana e quella di altri paesi vi è la stessa distanza, o se si vuole il medesimo ritardo, che si può verificare fra i rispettivi modi di produzione industriale, o almeno: che può essersi verificato per un certo periodo, non enunciamo affatto un concetto paradossale. Al contrario, riutilizziamo un concetto corrente della cultura fotografica (…) nel periodo che va dall’invenzione di Daguerre, Herschel, Talbot, alla prima guerra mondiale”, essendo che “dell’arte industriale quella fotografica pretende di essere il nocciolo, il simbolo migliore.” La novità della posizione era di grande rilevanza e non tanto per l’evidente modello interpretativo di derivazione marxiana – comune e diffuso tra gli storici dell’industrializzazione e già richiamato da Giulio Bollati nel suo saggio per gli “Annali” einaudiani[587] – quanto per la sua applicazione allo studio della fotografia e, ancor più, per il fatto stesso di proporre e utilizzare un modello interpretativo specifico, allontanandosi così dalle prime narrazioni storiografiche che potremmo definire ‘archeologiche’, destinate a portare alla luce i reperti e i resti di quella storia ma senza tentarne poi un’interpretazione che non fosse in termini di primati e derivazioni. La contrapposizione tra industrializzazione e manualità (artigianale e forse artistica) aveva per Gilardi ulteriori implicazioni se la si poneva in parallelo con quella tra fotografia ‘diretta’ (e quindi per definizione vera) e fotografia ‘artistica’, specie nell’accezione pittorialista, per definizione manipolata. Far accettare all’universo degli amatori fotografi il “dogma” che identificava “fotografia del vero” e “vera fotografia” era risultato conveniente “in ogni senso: economico, politico, propagandistico; non solo per chi ha prodotto informazione visiva ma anche per le industrie fotografiche, di apparecchi come di materiali sensibili”, perché a un uso limitato e non standardizzato di prodotti, tipico della fotografia artistica, si contrapponevano i materiali e le tecniche della fotografia ‘pura’ che erano “come tutti sanno, totalmente omologate, anzi! l’immagine risulta tanto più ‘genuina’ in quanto frutto di una omologazione universale del procedimento fotografico. Il quale (…) può essere offerto dall’industria come un servizio reso a un pubblico che è diventato sempre più numeroso.”
Quella critica politica riconosceva la fotografia come prodotto di una cultura industriale in cui l’artistico si rivelava come ideologia e falsa coscienza e costituiva il “mito che, fin dal principio, è stato edificato per promuovere il procedimento, [la] sfrenata rettorica che circonda la fotografia fino dai primi decenni e intende gratificare, più ancora delle immagini, le virtù quasi ‘soprannaturali’ del mezzo che le ‘crea’ ”. Dati questi presupposti non poteva stupire l’assenza di qualsivoglia considerazione delle opere di “maestri più o meno illustri” e il richiamo a una ancora inedita categoria di fotografi: gli “anonimi della fotografia: i fotografi ambulanti, o peripatetici, o esterni, o itineranti, come diversamente si chiamavano.” Un universo di presenze incommensurabilmente distante dagli ‘irregolari’ amati da Lamberto Vitali e da Jean Adhémar come dai “naif” segnalati da Zannier.
L’attenzione era rivolta semmai ad ambiti e momenti che meglio di altri fossero in grado di esprimere e rivelare le logiche profonde della fotografia come pratica sociale ed economica, accennando a temi poco frequentati (anche dopo) quali la fotografia missionaria, che Gilardi considerava una parte essenziale della fotografia ottocentesca di viaggio e di esplorazione, o la fotografia industriale, vale a dire quella “di promozione dell’industria e dei suoi prodotti. Insomma, per usare il termine meno gratificante: la fotografia pubblicitaria”, a cui sola (o quasi) riconosceva il valore di fotografia artistica. Accanto a questi, riproponeva temi per lui più consueti come la fotografia segnaletica, già trattata in Wanted (1978), o la critica politica della fotografia amatoriale italiana di inizio Novecento, che “era diventata il rifugio estremo di un’idea dell’arte tanto più sublime quanto più utile a dimenticare gli affanni del mondo [e] così come si era rifiutata di accorgersi della [prima] guerra mondiale, si rifiutò di accorgersi del fascismo”, promuovendo “una vera e propria ‘mistica’ dell’immagine fotografica”, di cui Gilardi individuava la prima e massima espressione ne “La Fotografia artistica” ed anche nei più tardi annuari di “Luci ed Ombre”, a cui pure riconosceva il merito di aver riallacciato “le fila di un certo internazionalismo pubblicando brevi relazioni sui ‘movimenti fotografici’ in Australia come nel Canada, negli Stati Uniti come nella sconfitta Germania.”[588] Altrettanto rilevanti, inediti e scarsamente considerati in studi successivi i puntuali richiami ad alcuni problemi tecnologici e alle loro ricadute ‘documentarie’, come il rapporto (occulto) tra sensibilità cromatica delle emulsioni e ‘fedeltà’ riproduttiva dei dipinti, inteso da Gilardi come una testimonianza di quel “passaggio non discontinuo (…) fra la riproduzione totalmente manuale dell’arte e quella fotografica”; o la riflessione sulla rilevanza linguistica e culturale della pratica dell’ingrandimento, che aveva soppiantato la pratica della stampa a contatto da negativi poi considerati di grande o grandissimo formato, rivoluzionandone i criteri compositivi e gli usi in maniera altrettanto profonda della commercializzazione di quelle emulsioni alla gelatina che costituirono l’avvio della massificazione della fotografia e determinarono, nel corso di qualche decennio, la miniaturizzazione dei formati e il necessario ricorso all’ingranditore.
Come è facile comprendere anche da questa breve sintesi, i temi affrontati da Gilardi, pur declinati localmente, avevano rilevanza più generale e questo suo lavoro si proponeva ancora come una storia più sociale che italiana, sebbene comparissero qua e là i nomi di Alinari e Brogi, Edoardo Di Sambuy, Secondo Pia e soprattutto Anton Giulio Bragaglia, considerato una delle poche, vere glorie della nostra fotografia anche per la sua produzione di scrittore e critico, sebbene poi gli fosse rimproverato di non aver compreso la novità, e condannato anzi “la sconcezza della sua realisticità brutale e la pazzia dell’istantanea”[589], allineandosi così al giudizio dei molti che sostenevano il valore estetico della fotografia più meditata e tecnicamente sofisticata, magari manualmente reinterpretata. Battaglia destinata al più clamoroso insuccesso poiché “al fianco della ripresa sempre più facile mobilitavasi la nascente industria degli apparecchi e dei materiali sensibili.” A voler essere ancora più precisi, e nonostante la collocazione in una sede così prestigiosa e storiograficamente definita, come già nel 1976 non era proprio di una storia che si trattava e questo sia per ragioni redazionali (dettagli scelti “senza ordine cronologico, ma con il criterio di una più scorrevole argomentazione”, dichiarava l’autore) sia per più profonde convinzioni critiche, poiché i fenomeni analizzati “compressi in un ciclo breve, non solo nel tempo, ma altresì nello spazio, val meglio osservarli in una certa contemporaneità.” Opinione rispettabile che non avrebbe però dovuto avere come macroscopica conseguenza la rinuncia ad ogni verificabilità dei dati e delle fonti; il deserto delle citazioni e dei rimandi, l’assenza di una pur minima bibliografia, cioè di tutti quegli strumenti che consentono la condivisione e la crescita di ogni cultura disciplinare. Nonostante questi limiti non secondari il saggio di Gilardi, certo meno influente sulle generazioni successive del contributo di Miraglia, aveva una sua necessità che non ha perduto nel tempo; per quei suoi rimandi alla realtà socio economica dei dati di produzione, per quei suggerimenti analitici che derivavano da una conoscenza tecnica e professionale che pochi studiosi avevano allora (e ancor meno hanno oggi) e che nessuno era in grado di coniugare efficacemente, vitalisticamente quasi coi grandi tracciati della ricostruzione storica.
In questo processo di progressivo consolidamento della storiografia italiana un ruolo fondamentale venne svolto dalle nuove riviste di cultura fotografica[590]; un fenomeno inedito per l’Italia che offrì stimoli e occasioni per la pubblicazione di analisi e approfondimenti monografici, mentre cresceva l’interesse per le fonti archivistiche (archivi e fondi fotografici) e bibliografiche; per le parole della e intorno alla fotografia e alle fotografie, per la ricostruzione delle culture che avevano intersecato e incrociato quella fotografica. Dava corpo al consolidarsi di quella attenzione un importante volume curato nel 1985 da Italo Zannier e Paolo Costantini (così in copertina), che sotto il titolo di Cultura fotografica in Italia 1839-1949 raccoglieva e ampliava, sistematizzandola, la ben più circoscritta raccolta di testi a corredo degli “Annali” einaudiani[591] o quelli di differente natura raccolti ne Gli scrittori e la fotografia di Diego Mormorio[592], la prima antologia dedicata al tema a livello internazionale. Le ragioni storiografiche che stavano a monte del progetto erano individuate da Costantini nella necessità di offrire strumenti in grado di corrispondere e servire a una consapevolezza nuova, derivata dal fare storia proprio della scuola francese delle “Annales”: “La moltiplicazione del nostro atteggiamento nei confronti dell’oggetto comporta necessariamente anche un mutamento del contesto figurale in cui esso si trova costretto. Un unico punto di vista risulta perciò insoddisfacente (e persino pericoloso e sviante) per esplicitare tutta la complessità dell’opera, i suoi molteplici rapporti e in definitiva il suo valore relativo.”[593] Più nello specifico l’autore riconosceva che “l’essenzialità di tutto l’apparato delle fonti scritte per una corretta fondazione disciplinare della storia della fotografia non sembra invece essere ancora stata pienamente avvertita. La maggior parte dei trattati, dei manuali, delle storie, delle notizie e articoli, di appunti, epistolari, diari, biografie, di documenti e inventari relativi alle vicende e ai personaggi della storia della fotografia, rimane variamente dispersa tra gli scaffali di qualche biblioteca, spesso privata, i fondi di remoti archivi, i cataloghi delle librerie antiquarie e le bancarelle di improbabili mercanti di fotografia, in attesa di essere riscoperta, collazionata nel suo insieme, analizzata nelle sue correlazioni e posta a confronto con la contemporanea produzione di immagini. (…) Riconosciuto in tal modo l’ ‘intrinseco valore storico’ [della documentazione, secondo la formulazione di Julius von Schlosser] una storia delle fotografia e della trattatistica fotografica (…) non sembrerebbe allora meno legittima e rilevante delle tradizionali narrazioni sui principali fotografi.” Per queste ragioni, e rinunciando esplicitamente “a moltiplicare gli esempi e a esplicitarne ogni volta l’intricata serie di relazioni” i curatori scelsero di presentare “una campionatura piuttosto significativa (…) una raccolta (chiaramente limitata e parziale: una antologia, appunto)” del primo secolo di letteratura fotografica italiana; tale da “servire da stimolo per una nuova lettura di testi e esperienze della storia della fotografia in Italia, piuttosto che offrire una sintesi forzatamente conclusiva.”
Il volume, aperto dai testi dei due curatori, era organizzato in sei capitoli dedicati alla presentazione diacronica di questioni considerate nodali per le vicende della fotografia (le prime indagini, la manualistica, le applicazioni documentarie, i regolamenti e le istituzioni, l’estetica) con la sola significativa eccezione del primo, che affrontava sincronicamente quella che fu la diffusione aurorale della notizia. Tra i temi selezionati non compariva però la storiografia, essendo i due soli testi a questa riferibili, il Ritorno all’antica fotografia di Vitali (1936b) e I primi fotografi romani di Negro (1942) collocati nella sezione intitolata all’estetica. Certo l’esito di un doppio vincolo storico, determinato da una produzione effettivamente scarsa nel periodo cronologico considerato, come si è visto anche nelle pagine precedenti, ma anche di una certa quale disattenzione dei curatori per i pochi testi comunque disponibili e di livello non certo inferiore a molti di quelli lì pubblicati relativi ad altri aspetti. Un’assenza sorprendente allora, che sembrava corrispondere alle stesse riflessioni poste in premessa da Costantini, che lamentava come “l’essenzialità di tutto l’apparato di fonti scritte per una corretta fondazione disciplinare della storia della fotografia non sembra essere stata ancora pienamente avvertita [e] una storia della storiografia e della trattatistica fotografica (…) non sembrerebbe allora meno legittima e rilevante delle tradizionali narrazioni sui principali fotografi.”[594] L’articolazione tematica determinava a sua volta una narrazione, una possibile storia della fotografia di cui di volta in volta si fornivano, magari implicitamente, alcuni elementi connotativi, qualificanti. Si consideri ad esempio il riconoscimento del rapporto stretto e ineludibile che connetteva “la sua natura di medium ‘meccanico’ (…) all’evoluzione tecnologica, in sintonia con quella culturale, con reciproci stimoli”[595], ciò che dava ragione del fatto che “il ‘problema tecnico’ (…) fu l’oggetto principale della pubblicistica relativa alla fotografia, fino agli ultimi decenni del secolo scorso [XIX], quando era sembrato di aver ridotto veramente ‘alla portata di tutti’ questa tecnica che ora ambiva a diventare arte, proprio nel momento in cui stava massificandosi”[596]. Un fenomeno che a sua volta portò alla moltiplicazione di manuali e periodici destinati al sempre più vasto pubblico dei dilettanti, “questi proto-fotoamatori, perlopiù ‘nobili e benestanti’ [che] alimentarono gli studi, anche scientifici, sulla fotografia, proprio per la loro particolare estrazione culturale e sociale, che consentì loro anche molte trasgressioni alle regole dell’artigianato quotidiano, che altrimenti rischiava di fossilizzarsi in stereotipi banali e tecniche stantie.”[597] La rivendicazione di un nuovo statuto autoriale, tra gli esiti culturali più significativi di quella stagione, determinò anche un inedito e forte interesse per una estetica della fotografia, alla “ricerca di un carattere linguistico specifico, una letteratura fotografica che tendeva ad analizzare anche la sua storia, in termini non soltanto di riassunto dei vari ritrovati tecnici (…); gli studi di storia della fotografia (…) vennero seguiti particolarmente proprio negli anni in cui più intensa fu l’indagine sul linguaggio, quasi cercando nella storia le sue motivazioni.”[598]
Sino alla fine del decennio precedente la pubblicistica periodica aveva offerto solo sparsi esempi di saggistica storica, così che costituì un’impresa più che coraggiosa e una novità sorprendente la pubblicazione del primo numero della “Rivista di storia e critica della fotografia” (“RSCF”) nell’ottobre del 1980; la seconda testata europea specificamente dedicata a questi temi, “diretta dall’entusiasta Angelo Schwarz”[599] ed edita a Ivrea da Priuli & Verlucca. Il direttore proveniva da “Il Diaframma Fotografia Italiana”, di cui era stato capo redattore dall’ottobre 1974 alla sua chiusura nel febbraio 1979, e per quel periodico aveva curato anche alcuni inserti monografici di taglio storico, “ma con un certo timore reverenziale verso un accademico fare storia”[600]. Fu proprio da quell’esperienza che nacquero “le premesse dirette della nascita della ‘Rivista’ (…), nell’insufficienza dell’attività giornalistica (nelle riviste di fotografia) per la costituzione di un sapere storico senza il quale la stessa attività critica, o anche soltanto informativa, mi appare assai aleatoria.”[601] Affermazione forse un poco ingenerosa nel merito, considerando i contributi sparsi ma certo non secondari di Racanicchi e Zannnier, per non dire di Gilardi e Settimelli, ma per altri versi interessante perché ribadiva a più di un secolo di distanza le opinioni espresse dai primi manualisti italiani come G.V. Sella a proposito della necessità ineludibile di conoscere la storia per comprenderne gli esiti culturali[602]. Quello era il contesto nel quale prese forma l’intenzione di realizzare la “Rivista”, diretta da un giornalista critico teatrale e cinematografico che aveva una concezione articolata e complessa delle vicende storicamente connesse alla fotografia, e che si dichiarava insoddisfatto della storiografia di settore quanto della scarsa considerazione che gli storici più accreditati riservavano alla fotografia[603]. Nella Nota per il lettore che apriva il primo numero si esplicitavano le linee programmatiche: “Ciò che recita questa testata, Rivista di storia e critica della fotografia, non è un’affermazione, ma l’indicazione di una prospettiva, di un’ipotesi di lavoro. (…) Contrariamente a quello che molti credono, o si possa credere, l’arcipelago fotografia non ha isole privilegiate. (…) una ipotesi di lavoro che non intende rinchiudere i problemi posti dalla produzione, uso e consumo delle immagini fotografiche nel ristretto campicello della specificità, al contrario propone (cercando di offrire degli esempi concreti) di sottoporre le fotografie al setaccio di griglie diverse, dalla psicologia della percezione all’economia, dalla teoria dell’informazione alle scienze sociali, dalla tecnologia alla storia dell’arte, tanto per fare alcuni esempi. Sulla base di premesse del genere costruire una rivista non è facile e solo con il tempo si riuscirà ad arrivare a una scrittura non elitaria, a una omogeneità redazionale non di maniera, impersonale (che è quello che assolutamente vogliamo evitare). Intraprendere un cammino e anche accettare rischi nuovi, cercare e trovare interlocutori.” Programma impegnativo e nobile, soprattutto inedito in quella forma per il contesto italiano e non solo dove le riviste di settore, rivolte a un pubblico prevalentemente fotoamatoriale, avevano pubblicato negli anni solo rari interventi di tipo storico, prevalentemente descrittivi, mentre qui si proponevano approfondimenti analitici che connotavano ogni singolo numero monografico, con una attenzione equamente suddivisa tra temi legati alle situazioni di conflitto – dalla guerra al colonialismo – e questioni teoriche e storico critiche (sulla natura della fotografia; fotografia e ideologia latente; il tempo e le cose) offrendo in traduzione italiana contributi di autori importanti (Fontcuberta, Kossoy, Mandery, Von Waldthausen tra gli altri). Penso in particolare alla traduzione con testo a fronte del saggio di Rudolf Arnheim, On the Nature of Photography, tratto (ma senza indicare i necessari riferimenti bibliografici) dal primo numero di “Critical Inquiry”, nel quale si proponeva in abbozzo anche una possibile periodizzazione della storia della fotografia, articolata in due fasi: “il periodo iniziale durante il quale, per così dire, trascendeva la momentanea presenza degli oggetti ritratti a causa della durata dell’esposizione e dell’ingombrante attrezzatura; e la seconda fase, che ha sfruttato la possibilità tecnica di catturare il movimento in una frazione di tempo.”[604] Lo spunto non venne ulteriormente sviluppato da Arnheim né da altri interventi successivi, semmai più orientati (come del resto prometteva l’editoriale del primo numero) alla fenomenologia e psicologia della percezione, vale a dire agli svariati aspetti della comunicazione per immagini, con una predilezione per i rapporti tra fotografia e testo nella stampa periodica, sia storica che contemporanea.
La “Rivista” non ospitò testi specificamente dedicati a questioni storiografiche, che emergevano implicitamente dalla scelta e dalla strutturazione stessa di alcuni temi di indagine come dalla presentazione degli esiti di ricerca, ovvero costituivano brevi riflessioni comprese in saggi di ordine più circoscritto e specifico. Si vedano a questo proposito i paragrafi introduttivi del testo di Boris Kossoy dedicato a Hercule Florence nel quale, in una prospettiva che allora si sarebbe detta terzomondista, richiamava la necessità di “una revisione e una discussione a proposito dei tradizionali approcci verso i modelli ‘classici’ della storia della fotografia. Chiaramente ciò sarà possibile solo nella misura in cui verranno alla luce nuovi contributi al tema, ampliando così la bibliografia storiografica esistente che, nella sua notevole proporzione, ha come scenario esclusivo gli episodi avvenuti nei grandi centri europei e statunitensi. La bibliografia esistente sulla storia della fotografia risente a tutt’oggi di una [mancata] discussione a livello del metodo, molto più che di una maggiore divulgazione della produzione storiografica realizzata in altri spazi. Soltanto in quest’ottica gli studiosi del campo potrebbero percepire meglio la traiettoria reale che la fotografia ha seguito durante il XIX secolo, con la massima attenzione nell’accogliere le nuove ‘rivelazioni’, per gli avvenimenti anteriori, pregni ormai di valori istituzionalizzali e consacrati dal sistema come veritieri e importanti.”[605]
Anche i contributi originali prodotti dal direttore e dai membri della redazione offrivano interessanti esempi di applicazione storiografica piuttosto che riflessioni squisitamente metodologiche. Basti considerare a questo proposito gli articoli pubblicati nel primo numero, dedicato a La guerra rappresentata[606] nel quale la produzione riguardante il primo conflitto mondiale venne analizzata nella molteplice prospettiva della “produzione, uso e consumo delle immagini fotografiche”, con un implicito rimando ad alcune recenti riflessioni di Carlo Bertelli, poste in esergo al primo saggio, sebbene in forma imprecisa e – soprattutto -senza citarne l’autore[607]. Quel numero monografico, che di fatto inaugurava per l’Italia un filone di studi e iniziative particolarmente fecondo, si proponeva meritoriamente di analizzare le immagini della Grande Guerra da vari punti di vista, fornendo letture certo ancora imprecise[608] ma innovative, di fenomeni quali l’estetizzazione ideologica delle fotografie pubblicate sui giornali illustrati e nei fascicoli a dispense, i meccanismi di funzionamento della censura militare o la definizione antropologica e le funzioni degli anonimi autori delle migliaia di immagini che circolavano, giungendo alla conclusione – importante – che le fotografie come fonte per (fare) la storia dovevano essere considerate “nella loro estensione ‘quantitativa’, più che per la loro dimensione ‘qualitativa’.”[609]
Dopo gli incidenti di percorso del numero relativo al colonialismo[610], per la confezione di quello dedicato alla conquista italiana di “un posto al sole”[611] la direzione della rivista preferì rivolgersi a un gruppo di studiosi esterni e storici di professione, affidando a Giuseppe Papagno[612] il compito di definire i termini storiografici dell’utilizzo della fotografia come fonte per la storia (del colonialismo e non solo), mentre i saggi seguenti fornivano interessanti analisi dell’ideologia veicolata dalle varie forme illustrative di matrice fotografica: dalle cartoline alla stampa periodica, ribadendo ancora una volta che “basterebbe il dato quantitativo a far riflettere sull’importanza della fotografia in rapporto alla guerra: riflessione di cui non si trova quasi traccia nelle storie della fotografia interessate alla produzione dei grandi fotografi piuttosto che alle forme sociali di produzione, circolazione e consumo delle immagini”[613]. Una lacuna grave, specie considerando – come aveva indicato Jacques Le Goff[614] – che proprio l’analisi quantitativa poteva costituire uno strumento fondamentale per la costruzione di una storia delle mentalità, a cui partecipava di diritto anche l’impiego della fotografia nell’indagine etno-antropologica[615]. Nonostante la prevista cadenza quadrimestrale dall’ottobre 1980 al dicembre 1984 vennero pubblicati solo sei numeri, molti dei quali monografici[616], con testi prevalentemente in italiano e abstract in inglese, mentre le poche e brevi recensioni erano bilingue. Pur contando su 500/600 abbonamenti e sulla vendita diretta in una quarantina di librerie del centro nord Italia e sebbene la redazione lavorasse a titolo gratuito, così come gratuite erano le collaborazioni esterne, l’impresa risultò ben presto troppo onerosa per la casa editrice e di difficoltà forse superiore alle poche forze redazionali. Così già il terzo numero non rispettò la cadenza di pubblicazione né si davano ai lettori garanzie che ciò non potesse accadere in futuro perché – nelle parole della redazione – “non siamo disposti a tralasciare lo sforzo di offrire una serie di testi al meglio delle nostre capacità solo per arrivare puntuali all’appuntamento. (…) Perché questa storia particolare è ancora nel suo farsi: sempre che per storia della fotografia non sia da intendersi l’ormai solita scoperta, giorno dopo giorno, di un nuovo autore, l’esercizio delle attribuzioni di questa o quella fotografia, di una storia dell’immagine chiusa in sé stessa. Di poi, in Italia non siamo certo favoriti nella frequentazione dei fondi fotografici. E mancano pure, nel nostro Paese, i ricercatori di questa storia della fotografia e quei pochi che ci sono di lavoro sono oberati quand’anche collaborino, o meno, a questo periodico. Quello che quindi diciamo ai lettori è che se qualche ritardo, più o meno lungo, in futuro ci sarà, è perché vogliamo offrirvi un prodotto per mezzo del quale sia possibile far uscire la fotografia dal ghetto in cui, salvo rare eccezioni, è rinchiusa a metà tra la moda culturale e l’antiquariato.”[617]
Nel dicembre 1984, allo scadere di quella importante esperienza, la Nota per il lettore che apriva il sesto e ultimo numero dichiarava con la consueta chiarezza le difficoltà: “Fare una «rivista di storia e critica della fotografia» senza poter pagare redattori, collaboratori e corrispondenti, facendo leva sul volontariato, è una impresa quasi disperata. Tutto diventa lento e ne sanno qualcosa i nostri lettori. Comunque non demordiamo (…) Ecco cosi, con un rituale ritardo, rispetto alle scadenze che ci eravamo date, un nuovo numero della rivista dei più densi tra quelli fino ad ora pubblicati. Uno solo dei saggi che seguono potrebbe qualificare qualsiasi rivista di fotografia e uno qualunque dei saggi qui proposti giustifica l’acquisto di questa rivista (almeno cosi crediamo e così speriamo). Qualcuno magari ci potrà rimproverare di non concedere ai nostri lettori alcuna svagatezza: non abbiamo difficoltà a riconoscere l’eventuale rilievo. A ciascuno il suo. Da quattro anni, con questa testata, ci siamo fatti carico, forse sopravvalutando le nostre forze e le nostre cognizioni, della preoccupazione «che quando la fotografia entra in campo – come scrive Paolo Fossati – si parli sul serio, coerentemente di fotografia e sia chiaro su quali binari ci si muove, che cosa nasconde operare fotograficamente e che cosa può aiutare a capire». Non soltanto: ci siamo fatti carico di promuovere, con degli esempi nostri per deboli che siano, una storia della fotografia non più dilettantesca né più antiquariale. Ciò scritto, non vogliamo rivendicare primogeniture, non vogliamo spiegare quale debba essere la critica fotografica, non vogliamo indicare chi storico della fotografia è e chi non è; quelle che offriamo sono una sorta di sperimentazioni sul campo e ciò che chiediamo sono confronti, possibilmente rilievi con esemplificazioni circostanziate e dichiariamo che non ci piacciono, comunque, anonimi tiri a mitraglia.” L’ultima notazione doveva riferirsi a un commento di A.C. Quintavalle che l’anno precedente, nell’Introduzione alla sua raccolta di saggi[618] aveva affermato senza mezzi termini che nel nostro paese “non esiste una rivista seria di storia della fotografia”, liquidando così senza appello questo esperimento tanto interessante quanto generoso. La stessa Nota, pur richiamando difficoltà scientifiche e gestionali, non faceva però alcun cenno all’imminente chiusura, nonostante tutto ancora non prevista né ipotizzata se a quella data erano in progetto ben tre nuovi numeri. La testimonianza offerta dal direttore alcuni anni più tardi segnalava semmai un altro ordine di criticità a proposito della adeguatezza stessa del “medium cartaceo per una rivista di storia. (…) Man mano che sviluppavo la mia riflessione – scriveva Schwarz – rilevavo tutti i limiti che poneva e pone una rivista di storia tradizionale: limiti nella elaborazione della ricerca storica stessa; limiti nella comunicazione dei risultati della ricerca; limiti nell’utilizzazione della ricerca. La linearità della scrittura e dei media librari e paralibrari è un ostacolo difficilmente superabile nei confronti di un universo complesso e quantitativamente esteso come quello delle immagini fotografiche.” [619] Nobile interpretazione di una vicenda dai risvolti molto più prosaici ma soprattutto formulazione di un’ipotesi certamente innovativa, che prospettava l’utilizzo dell’ipertesto su supporto informatico, prefigurando per certi versi il web 2.0 e i modi della Public History. I ripetuti e (forse) non retorici richiami all’azione volontaristica e a una formazione inadeguata al compito (“sopravvalutando le nostre forze e le nostre cognizioni”; “con degli esempi nostri per deboli che siano”) restituivano le incertezze e le giuste preoccupazioni – non così comuni purtroppo – per quella condizione ancora inevitabilmente autodidattica che allora e ancora per lungo tempo sarebbe stata largamente condivisa dalla maggior parte degli studiosi italiani, a partire dallo stesso Schwarz che riconosceva come la sua formazione non fosse di storico (“tutt’al più sono stato un consumatore di testi di storia”), per estendersi ai principali redattori, all’epoca insegnanti di scuola superiore o impiegati, che dopo la chiusura della “Rivista” non ebbero più modo di misurarsi con la storiografia o la critica fotografica. In quel quadro problematico andava intesa anche l’alternanza di numeri monografici e miscellanei, costituendo questi ultimi non solo un’occasione per offrire contributi considerati di un certo interesse ma anche, più pragmaticamente, un modo per garantire una ragionevole periodicità. Risulta infatti evidente che alcuni degli argomenti (Gioacchino Altobelli, “Camera Work”, Hercule Florence, Germaine Krull) rientravano perfettamente in quella “storia dell’immagine chiusa in se stessa” a cui intendeva opporsi il progetto culturale della “Rivista”, né fornivano impostazioni storico critiche tali da costituire un possibile modello storiografico alternativo, con la sola eccezione del saggio di Fontcuberta dedicato al “contenuto ideologico” del tardo pittorialismo di José Ortiz-Echagüe[620]. Nonostante i limiti del periodico, del resto ben presenti allo stesso Direttore, tra i quali, non ultima, una certa disinvoltura nel trattamento delle fonti e dei testi, la “Rivista” dimostrò, magari non nel merito ma fornendo un esempio possibile, che la fotografia poteva e doveva essere studiata facendo ricorso a tutti quegli strumenti e modelli analitici e storiografici che costituivano moneta corrente in ambiti più prossimi come il cinema o la storia dell’arte e per queste ragioni va considerata una realizzazione di rilevante importanza per la cultura fotografica italiana.
Commemorando Paolo Costantini a poco più di un anno dalla scomparsa[621], Italo Zannier ne ricordava i primi incontri sintetizzando le vicende che avrebbero portato alla pubblicazione di “Fotologia”: nella nuova testata, pubblicata nel giugno 1984 dalle Edizioni Belborgo di Ravenna, erano infatti confluiti i testi messi a punto per “Fotografis, rivista di storia e cronaca della fotografia” (con un sottotitolo che conteneva un evidente rimando polemico all’impresa di Schwarz), l’organo dell’omonima galleria bolognese diretta da Alfredo Nesi e sul cui primo ed unico numero venne pubblicato il primo saggio di Costantini, all’epoca ancora studente[622]. Di quella “che non è una rivista”, come affermava perentoriamente Zannier nell’editoriale del numero due, ma un “Quaderno” (per i primi due numeri) e che sarebbe poi diventata una raccolta di “Studi di storia della fotografia” (a partire dal numero 3/ 1985, con la nuova gestione Alinari) vennero pubblicati 24 numeri in diciannove volumi, essendo doppi quelli a partire dal 14/15, datato primavera estate 1992, tutti in grande formato (in 4° dal n.2, che assunse la veste grafica e la strutturazione definitive) con riproduzioni in b/n e a colori di buona qualità, testi in italiano o in inglese e una ricca rassegna bibliografica.
Il primo numero, pur non ospitando esplicite note programmatiche (sostituite da una dedica alla memoria di Antonio Arcari, da poco scomparso), presentava già l’articolazione tematica a cui il periodico si sarebbe attenuto lungo tutto l’arco della sua non breve (almeno per il panorama italiano) vita: indagini storico critiche si alternavano a succinti portfolio di autori sia storici che contemporanei, offrendo spazio anche a interventi di ordine teorico e metodologico, ai quali in quella prima uscita venne accostata l’utile riproposizione di tre interviste fatte da Zannier a Pierpaolo Pasolini, Leonardo Sinisgalli e Gio Ponti, originariamente pubblicate nella rivista “Fotografia” negli anni 1959-1960[623].
Le ragioni del progetto vennero esplicitate nel successivo numero del 1985, richiamando la necessità di offrire “un contenitore aperto a studi e ricerche scientifiche soprattutto sulla storia della fotografia italiana, anche in connessione con altre discipline (…), un nuovo punto di riferimento per il dibattito sulla cultura fotografica in Italia; un luogo di incontro, al di là di ogni settarismo (…) una nuova occasione di scambio e di dibattito, per l’integrazione e il perfezionamento di queste ricerche, superando provincialismi e personalismi, non tanto in senso moralistico, ma per un lavoro più finalizzato e quindi proficuo.” Tale prospettiva era necessaria in un contesto in cui “regna il caos (nell’editoria, nelle esposizioni, nella scuola…); l’entusiasmo, la voglia di dire, di fare, di mostrare, di pubblicare dopo lo choc (e le polemiche) dovuti alle sia pure discutibili iniziative collegate alle megamostre e ai convegni di Venezia, Firenze e Modena del 1979, non hanno trovato certamente in questi anni una struttura culturale che potesse utilmente raccogliere e coordinare queste attività, spesso troppo enfatiche e dispersive, in un progetto generale di ricerca e di studio, a partire dal settore storico-filologico (…) che possa finalmente coinvolgere e mettere in contatto tutti gli studiosi di questo settore, che sono ormai parecchi e bravi, ma isolati, e offrire (…) con i suoi ‘quaderni’ (…) il suo spazio concreto, senza discriminazioni che non siano quelle riferite alla qualità del lavoro, specie ai giovani, alcuni dei quali, dentro e fuori dall’Università, stanno affrontando con rigore scientifico l’affascinante settore di studi sulla storia e l’archeologia della fotografia, che in Italia ha anche il fascino della novità.”[624]
Analizzando i ventiquattro numeri pubblicati nel ventennio 1984-2003 (ma con una periodicità sempre più incerta a partire già del 1992[625]) si trova ampia conferma al proposito di dare spazio a “studi e ricerche (…) sulla storia della fotografia italiana”, in particolare sui protagonisti della fotografia del XIX secolo, con schede e saggi di maggior impegno e approfondimento[626], ma anche per quegli autori della scena torinese di primo Novecento, da Guido Rey a Riccardo Peretti Griva[627], che avevano fornito un contributo importante alla nostre vicende nazionali. I legami con l’editore si manifestavano invece nella costante presenza di pagine dedicate alle nuove acquisizioni e all’attività di Alinari ed anche, in modo più indiretto, ospitando saggi che anticipavano ricerche in corso[628] quando non riproponevano materiali già editi per mostre e cataloghi, con modalità che traducevano in modo sin troppo estensivo l’intenzione manifestata dal presidente Claudio de Polo nell’ Editoriale del 1985. Poco spazio restava, per quanto riguardava la sezione storica di questi “Studi”, per le questioni squisitamente storiografiche cosi come per argomenti connessi quali la conservazione e il restauro o la descrizione di archivi e fondi istituzionali, sui quali si sarebbe invece orientata la rivista dell’Archivio Fotografico Toscano, mentre va ricordata la pubblicazione a partire dal 1989 di alcune pagine e degli indici del “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, a cui nel n.12/1990 venne dedicato un breve saggio tratto dalla tesi in corso di Elvira Puorto[629].
Nell’ambito delle ricerche dedicate alla fotografia ottocentesca era però possibile riconoscere un filone privilegiato di studi, a cui non doveva essere estranea la forte connotazione produttiva degli Alinari ma da porre in relazione con la formazione e con il contesto universitario del gruppo redazionale[630]. Mi riferisco all’interesse per la fotografia di ‘documentazione’ della città, a cui Costantini dedicò importanti interventi relativi a temi veneziani[631], derivati o connessi alle ricerche svolte per la propria tesi di laurea, come a quella d’architettura, analizzata nello specifico di singoli progetti o problemi, dalle tecniche di ripresa agli ambiti di applicazione[632], sempre intesi e letti in relazione al più ampio quadro culturale dell’epoca, restituito attraverso le posizioni di alcune figure paradigmatiche: da Pietro Estense Selvatico[633] a Corrado Ricci[634], Bernard Berenson e Aby Warburg[635]. A questi altri temi si affiancavano, altre occasioni di riflessione fondate su di un confronto serrato, analitico con materiali d’archivio, sia documentali che propriamente fotografici, consentendo così di offrire agli studiosi inediti corpora di immagini e importanti occasioni di riflessione critica e metodologica. Non mancavano però interventi di ben diverso tenore, che costituiscono oggi una testimonianza preziosa, un parametro di descrizione e di misura di quale fosse il livello delle conoscenze e degli studi di storia della fotografia in quegli anni: basti ricordare l’affermazione di un collezionista e studioso molto attivo sulla scena italiana come Michele Falzone del Barbarò che in un breve saggio dedicato ad Alphonse Bernoud affermava che le immagini da lui presentate permettevano “di scoprire un genere fotografico: quello del paesaggio del tutto sconosciuto, almeno sin’ora, nei fotografi italiani delle origini.”[636] Ciò che qui importa non è di provarsi a contestare quell’affermazione, palesemente infondata, ma appuntare la nostra attenzione sul fatto che potesse trovare ospitalità in una delle poche sedi qualificate allora disponibili in Italia, a testimonianza di quale fosse ancora – a un decennio dalle grandi iniziative del 1977-1979 – la condizione di grave incertezza e approssimazione di una cultura fotografica che si mostrava scarsamente dotata di strumenti e conoscenze storico critiche. Sarà stato forse per questi limiti che molti dei contributi più strutturati, e non fosse che per questo più interessanti, provenivano da vari ambiti che avevano relazioni strette con la fotografia e le sue pratiche. Penso alla lettura antropologica offerta da Francesco Faeta[637] dell’opera di un autore come Wilhelm von Gloeden, già allora tra i più studiati[638], che allontanandosi dai più ovvi riferimenti all’iconografia pittorica ne interpretava l’opera alla luce dei “rapporti intercorrenti tra aristocratici e popolo” e in particolare considerava la tematica “dell’immagine delle classi subalterne, così come scaturisce dall’elaborazione colta” come “espediente di socializzazione [nel contesto di una] economia politica del desiderio”, così che il percorso di Von Gloeden poteva essere sintetizzato nel passaggio “da un’ottica puntigliosamente verista (…) attraverso passaggi successivi, alla logica del desiderio.”
In altri casi potevano essere gli esiti di un progetto di catalogazione a fornire l’occasione per riflessioni di ordine metodologico e storico critico, affrontando il tema nodale della riedizione di matrici d’epoca, indagando i problemi teorici insiti nel recupero del “fascino di una pratica fotografica quale momento di cultura tecnico-scientifica non disgiunta da una manualità che avvicinava il fotografo alla tradizione lunga dell’artigiano (…) alla ricerca di una consonanza che consenta di indovinare il gesto del fotografo, di spiarne i passi che hanno portato al risultato finale, la relazione non mediata con l’emergere dell’immagine.”[639] Riflettendo sui termini e sul significato di un’operazione che altri avrebbero poi affrontato riducendo l’approccio filologico alla risoluzione di aspetti eminentemente tecnici[640], si cercava di definire lo statuto di quelle immagini ricavate da una matrice autentica[641] ma secondo una “storia di produzione” non prevista né (inevitabilmente) gestita dall’autore e pertanto dotata di una notevole dose di arbitrarietà. Ricorrendo ai modelli teorici forniti da Nelson Goodman e dalla semiologia si riconosceva così la doppia esistenza dell’immagine fotografica, allografica/autografica in misura inversamente proporzionale alla concorrenza dell’autore. Per queste ragioni le stampe eseguite ex novo da antichi negativi non potevano essere – per mancanza di intenzione – né falsi né contraffazioni, ma non potevano essere neppure intesi come riproduzioni o duplicazioni; semmai occasioni per “una interpretazione dell’immagine, un intervento (…) operato sulla sua originaria disponibilità”[642], da non confondersi quindi (se non pericolosamente, appunto) con alcuna pretesa riproposizione ‘filologica’.
Ulteriori contributi di rilievo provenivano da incontri di studio, come il convegno di Cerisy-la-Salle del 1988 dedicato a Les Multiples Inventions de la Photographie[643], a cui aveva partecipato Zannier, nel corso del quale A.D. Coleman era intervenuto a proposito di Rationalism and the Lens, considerando l’influenza della lente sulla cultura occidentale e così proseguendo una riflessione avviata nel 1985. I due contributi dello studioso statunitense, Minestra di lenticchie: una meditazione sulla cultura della lente[644] e La lente: appunti di storia culturale[645], vennero poi ospitati nei numeri 12/ 1990 e 14-15/ 1992 di “Fotologia” pur senza indicarne né la sede originaria né la data di pubblicazione; per una cultura ancora subalterna come quella nostrana questi erano considerati aspetti di scarso rilievo, dei quali anzi neppure ci si rendeva conto; soddisfatti di poter accedere in comoda traduzione italiana a testi che inducevano alla riflessione, che mostravano quanto fosse necessario assumere il paradigma della complessità se ci si voleva provare a comprendere un sapere complesso come quello legato alla fotografia. Con Coleman si affacciava in embrione quel concetto di storia culturale che tanta fortuna avrebbe avuto da noi ben più tardi; quell’idea che un elemento apparentemente tecnologico come la lente potesse invece essere più proficuamente inteso come un esempio di “tecnologia di definizione”, in grado di esprimere legami metaforici o concreti tra diversi ambiti: dalla scienza alla letteratura[646].
Il 4 maggio 1985 venne presentato il primo numero di “AFT” semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano[647], il servizio istituito dal Comune di Prato e cofinanziato dalla Regione Toscana, nato nel 1980 per iniziativa di Arnaldo Salvestrini, Fernando Tempesti e Luigi Tomassini, tra i membri del comitato scientifico della mostra Alinari 1977[648], i quali ne avevano già illustrato una prima bozza costitutiva al convegno di Modena del 1979 “sullo slancio di mostre e di iniziative che si erano concluse con risultati più o meno soddisfacenti”, come scrisse Tempesti nell’editoriale. Pur non potendo analizzare nel merito la ricca vicenda di “AFT”, va qui almeno richiamata la singolarità, e l’eccezionalità, di una iniziativa che si sviluppava all’interno di un servizio pubblico, discostandosi così – per logiche editoriali e propositive – dalle altre iniziative consimili ma nate da sforzi quasi individuali (come “RSCF”) o legate all’Università ma di fatto sotto la regia di una firma commerciale (come “Fotologia”). Scopo del periodico era quello di “proseguire e affiancare il programma dell’Archivio dal quale prende il nome” attraverso il duplice strumento dell’immagine e della parola, vale a dire “ privilegiando la presentazione, senza dogmatismi e chiusure, di quei fondi che fanno già parte dell’Archivio”, ma anche “puntando a una problematizzazione, non astrusa ma incalzante, di quella che è la complessa tematica che lentamente si viene delineando intorno alla fotografia. In queste prospettive, tanto modeste che rasentano l’ambizione, questo primo numero della rivista si propone come un avvio, come un punto d’inizio e un invito al più sommesso livello.” La composizione del sommario prevedeva “una tripartizione grosso modo così articolata: una prima parte dedicata all’archiviazione, con tutto ciò che essa comporta (…); una seconda parte dedicata alla storia della fotografia in senso lato; una terza parte dedicata più in generale ai problemi del dibattito sulla fotografia e del lavoro culturale sulla fotografia.”[649] Vale a dire catalogazione e conservazione; soprattutto quest’ultima. Temi di storia e storiografia della fotografia, specialmente in relazione con aree di studio quali la storia sociale e la storia dell’arte o l’antropologia, che si ponevano quali posizioni (e i filtri, anche) da cui considerare le fotografie e -forse – la fotografia. Una parte altrettanto rilevante e in molte occasioni prevalente sino a connotare monograficamente un numero era dedicata a fondi o materiali dell’Archivio, presentati nel loro contesto di produzione piuttosto che studiati dallo specifico punto di vista fotografico, con un lavoro storico critico che privilegiava gli insiemi archivistici piuttosto che le singole opere o gli autori.
A quel profilo corrispondeva un altro elemento fortemente connotativo che distingueva nettamente “AFT” da ogni altra simile esperienza: la distonia – in molte pagine radicale e quasi straniante – tra testi e immagini, costituendo le seconde non l’argomento del discorso dei primi ma un percorso indipendente di presentazione del Fondo considerato in quel determinato numero, mentre per i testi di diverso argomento semplicemente non era previsto nella più parte dei casi alcun corredo di immagini, ciò che si configurava come una scelta certo legittima ma piuttosto discutibile per un luogo in cui si intendeva riflettere intorno alla fotografia[650].
Dal n. 9/ 1989, a segnare la crescita del numero di studiosi e dell’interesse del pubblico per la “storia della fotografia e i problemi connessi” alla testata venne aggiunto il sottotitolo di “Rivista di Storia e Fotografia”, a indicare una prospettiva di metodo orientata al confronto pluridisciplinare, poi esplicitata nell’editoriale del numero 19 (giugno 1994): “L’attenzione per la fotografia da parte di “AFT” (…) si colloca in quel territorio non privo di ambiguità e di incertezze, ma stimolante per i problemi che pone, dove l’interesse per la fotografia in senso stretto convive con l’interesse per le discipline con le quali la fotografia entra in contatto e collabora in ragione dei contenuti che esprime. Tra queste, prima su tutte la storia (…) Le ambiguità e le incertezze alle quali precedentemente si alludeva non riguardano ovviamente l’individuazione del territorio, che anzi è chiara, ma il modo di discuterlo e di farne tema; e questo per oggettive difficoltà a cogliere la sottile linea che discrimina e distingue la fotografia dalle discipline contigue, rendendola nella sua specificità di contenuti e di metodo. Può succedere che a proposito di fotografia e storia o fotografia e antropologia o altro ci troviamo a registrare come molto si parli di storia o di antropologia, poco di fotografia.”[651] Dichiarazione di apprezzabile problematicità ma espressa in modo non sufficientemente definito, poiché la linea sottile non poteva certo essere quella che distingueva in sé, poniamo, la fotografia dall’antropologia (ciò che pare semplice anche ai più esperti), ma semmai quella dell’uso e delle relazioni con e tra i vari ambiti. Né pareva che quella difficoltà a parlare di fotografia potesse essere giustificata, come si faceva nella stessa occasione, riconoscendo “analoghi equivoci e incertezze (…) anche a proposito della storia della fotografia dove, a motivo di una non ancora ben individuata e definita identità dell’oggetto e del metodo, le fotografie sembra facciano spesso da illustrazione a un più generale discorso sulle tecniche, sulla diffusione del mezzo e sulla pratica fotografica. Riferita ad ‘AFT’, e all’Archivio, la scelta appena esposta ha un suo motivo che deriva dal convincimento che alla fotografia spetti, oltre il momento tecnico e formale, una specifica funzione di conoscenza che si configura come modo di entrare in contatto con il reale che ci circonda e ci riguarda. Il problema, e conseguentemente l’obiettivo, è di saper cogliere la specificità nella forma di questo contatto, alternativo o complementare al discorso (…).”[652] La riflessione intorno a questi temi cruciali venne ripresa nell’editoriale del successivo n. 21 (1995) affrontando il problema del contesto e dei materiali, “intendendo con questi le fonti bibliografiche, qualsiasi altra testimonianza e, naturalmente, le fotografie”. Un tema che si andava “sempre più imponendo all’attenzione degli storici della fotografia; e di tutti quegli studiosi che della fotografia si occupano e se ne servono nei rispettivi ambiti di ricerca. Tutto questo a testimonianza del crescente interesse per la fotografia come documento, ma anche della riconosciuta necessità di una consapevolezza metodologica sempre più lucida e analitica. Di contro alla tendenza ‘volgare’ di vedere nella fotografia essenzialmente una ‘illustrazione’ buona a far da ‘contorno’ a qualcosa di scritto oggi sono sempre più numerosi gli studiosi e non solo gli storici che mettono la fotografia al centro di una loro ricerca, come si dice, a tutto campo: ricerca che va di pari passo con quella di una rigorosa metodologia di studio. In questo senso si può incominciare a dire che, pur con qualche lentezza, l’approccio filologico-esegetico, tradizionalmente riservato ai testi letterari, ai documenti d’archivio e ai monumenti della storia dell’arte, si va applicando anche alla fotografia.”[653] Tracce di quelle incertezze, di quelle oscillazioni metodologiche emergevano dai vari numeri come un fenomeno carsico; così a un uso delle fotografie come occasione e strumento ma non come elemento sostanziale di etnostoria[654] si alternavano su quelle pagine interventi di grande lucidità interpretativa, quali l’analisi comparata delle fotografie realizzate da Paul Scheuermeier, condotta da Giovanni Contini con i metodi della storia orale, a partire anche dalla considerazione – fondamentale e solo apparentemente scontata – che l’analisi non poteva (e non può) che derivare dalle “immagini e dalle informazioni che già avevo interiorizzato prima di vederle, e che avevo ricavato dalla mia personale esperienza”[655].
Lo sguardo lungo condotto sull’insieme delle annate di “AFT”[656] fa però emergere un numero considerevole di casi in cui l’argomento delle fotografie pubblicate costituiva poco più che un pretesto per la pubblicazione di ricerche che di quelle stesse immagini tenevano poco o nulla conto [657], sino al paradosso (tutto editoriale) di corredare con fotografie un saggio che esplicitamente, metodologicamente direi, si proponeva di analizzare il funzionamento narrativo di un testo volutamente privo di illustrazioni[658]. Certo questi che ora paiono elementi quanto meno di disequilibrio derivavano dalla volontà di valorizzare i materiali costituenti i numerosi fondi acquisiti in originale o in copia dall’Archivio Fotografico Toscano, ma ciò di cui si percepiva e pativa la mancanza era proprio la messa a disposizione di strumenti metodologici per la loro comprensione e il loro trattamento storiografico: mi riferisco ai casi per me emblematici dei numeri 9/1989 e 36/ 2002 dedicati alle fotografie di due famiglie borghesi, realizzate rispettivamente da Michele Cappelli e da Anna Müller Paoli. Ciascun insieme, a sé preso, costituiva un ottimo esempio di costruzione su scala temporale dell’immagine di un nucleo familiare realizzata al proprio interno, anzi, da uno solo dei suoi membri, ma non poteva essere questa la sola ragione che ne giustificasse la pubblicazione. Come le immagini di Cappelli nulla avevano a che vedere con il suo ruolo di pioniere dell’industria fotografica italiana così quelle della famiglia Paoli non potevano essere sbrigativamente (e generosamente) considerate un “raro e prezioso esempio (…) di home made communication” [659], lasciando poi tutto lo spazio redazionale alle ricche interviste e memorie che ricostruivano la vita di quella famiglia pratese. Rispetto a quello che fu uno degli ambiti di maggior interesse e di più consueta indagine, quello dei fondi e degli album di famiglia, la posizione espressa dai contributi pubblicati nel corso di più di un ventennio da “AFT” sembrava non essere né coerente né aggiornata rispetto alle ben più avanzate posizioni espresse in certi editoriali programmatici. Era sin troppo ovvio che non potevano essere le varie vicende familiari a rappresentare il nucleo di interesse degli studiosi al di fuori dell’ambito locale, costituendo semmai ciascuna di queste una delle possibili e concrete variazioni sul tema del rapporto tra famiglia e fotografia; variabili socialmente (e magari nuclearmente) connotate di un fenomeno che poteva essere indagato solo affrontando un’analisi comparativa che consentisse di individuare eventuali ricorrenze e mutazioni rispetto alle distinte tipologie di cui le stesse annate della rivista fornivano così ampia esemplificazione. Era questo un grave limite di molti interventi di argomento genericamente etnografico ospitati da “AFT”: quello di individuare e poi ancorare – sebbene non fosse poca cosa – ciascun nucleo di immagini al contesto e alla sua storia di produzione, ma considerandolo poi quasi come una monade, senza allargare lo sguardo intorno alle migliaia di altre immagini analoghe e tipologicamente fungibili; senza provarsi cioè a indagare le ragioni di certe costanti rappresentative, anzi riconducendole, e riducendole anche ogni volta a un loro ristretto particulare. Altro elemento di forte contraddizione e quasi di equivoco, del resto perfettamente corrispondente alle condizioni sopra descritte, fu la scarsa considerazione critica per le valenze e le modalità narrative degli album in cui quelle erano comprese, dai quali venivano estrapolate per la pubblicazione singole immagini, selezionate secondo criteri mai esplicitati e quindi arbitrari, negando così la funzione fondamentale dello stesso oggetto per il quale si manifestava interesse[660]. Notevoli indicazioni e spunti di riflessione si potevano ritrovare invece nei contributi che nel corso degli anni vennero dedicati al rapporto tra guerra e fotografia, nel quale possiamo comprendere, con una certa strumentale arbitrarietà, anche i testi dedicati a temi coloniali[661] (già considerati a suo tempo anche dalla “RSCF”), a cui accostare in un progressivo allargamento del cerchio, quelli relativi al postcolonialismo africano[662] e alla contemporaneità, in quello sforzo collettivo di “verificare l’impatto della fotografia nella società” esemplificato da Tomassini in un ampio contributo dedicato alla diffusione della fotografia pornografica in Francia e in Italia comparso sul secondo numero di “AFT”[663] e proseguito poi, oltre che indagando i rapporti già segnalati tra guerra e fotografia, con una serie di interventi relativi alla Società Fotografica Italiana[664] e agli Alinari[665]; occasione ulteriore per constatare come purtroppo “gli studi più approfonditi sono stati compiuti sul versante della storia dell’arte, del rapporto della fotografia con la storia dell’arte, mentre meno sviluppati sono gli studi sull’impatto più generale sulla cultura, sui modi di vedere e percepire”[666]. Un limite che era espressione e conseguenza della breve e ancora incerta storia italiana di questa disciplina.
Il bilancio dell’esperienza di questi periodici, pur nei limiti e contraddizioni che si è cercato di rilevare (che erano quelli della cultura italiana coeva intorno alla fotografia) non può che dirsi largamente positivo sia per la funzione di stimolo svolta nel confronto dello sviluppo degli studi in Italia, sia per i suggerimenti o gli orientamenti metodologici forniti. Pur nelle palesi diversità di approccio e, ancor più, nella differente coerenza di impostazione che ha caratterizzato ciascuna di quelle iniziative, l’indicazione che le accomunava tutte riguardava il riconoscimento della fondamentale necessità di uscire dagli ambiti angusti dello specifico per considerare la fotografia e la sua storia in relazione ai vari contesti, quindi alle diverse culture – non solo disciplinari – in cui essa di volta in volta si era o era stata collocata. Una indicazione questa che andava messa in relazione se non proprio fatta derivare dalle posizioni espresse da Giulio Bollati giusto in apertura degli “Annali” einaudiani del 1979, poiché quei periodici si proponevano di andare oltre quella “zona intermedia dove è lecito sperare che l’indeterminatezza favorisca effetti di alone utilizzabili dall’uno e dall’altro punto di vista.”[667] Era cioè indispensabile che quelll’effetto si tramutasse in riflessione metodologica e poi storiografica, vuoi proponendosi di “scrivere non di storia della fotografia, e nemmeno di storia attraverso la fotografia, ma di storia e fotografia” (“AFT”) vuoi privilegiando “studi e ricerche scientifiche soprattutto sulla storia della fotografia italiana, anche in connessione con altre discipline” (“Fotologia”), vale a dire sottoponendo “le fotografie al setaccio di griglie diverse, dalla psicologia della percezione all’economia, dalla teoria dell’informazione alle scienze sociali, dalla tecnologia alla storia dell’arte, tanto per fare alcuni esempi.” (“RSCF”).
La serie di mostre del 1979 aveva fornito un quadro sintetico delle conoscenze relative al primo secolo di fotografia italiana, ulteriormente approfondite nel saggio redatto da Marina Miraglia per la “Storia dell’Arte” einaudiana. Restava invece in gran parte da conoscere e approfondire il Novecento, in particolare l’arco compreso tra le due guerre mondiali, rispetto al quale i contributi del decennio precedente e i saggi di Bertelli e Bollati avevano fornito solo alcune prime indicazioni e suggestioni, per quanto utili e feconde. Poco altro risultava allora disponibile[668]: i primi studi di Giovanni Lista sui rapporti tra futurismo e fotografia; le monografie dedicate ad autori impegnati ben oltre lo specifico fotografico (Boggeri, Grignani, Veronesi); la riscoperta di Giuseppe Pagano fotografo e non ultimi, di minor peso ma di ben maggiore diffusione, i supplementi de “Il Diaframma -Fotografia italiana” dedicati ad alcune figure centrali del nostro modernismo. Nel nuovo decennio presero corpo una serie di progetti espositivi che si proponevano di indagare alcuni degli elementi cruciali della scena artistica e culturale italiana dei primi decenni del XX secolo (il Futurismo, gli anni Venti, gli anni Trenta) e che divennero occasioni per collocare e studiare contesti nei quali ruoli, funzioni e presenza della fotografia erano ormai incommensurabilmente distanti da quelli espressi dalla cultura ottocentesca e oltre, fino alle prime manifestazioni del pittorialismo.
Forse per la prima volta in Italia, la fotografia venne ospitata all’interno di una grande mostra monografica d’arte in occasione dell’esposizione dedicata alla Metafisica, aperta alla Galleria d’arte moderna di Bologna nel maggio-agosto 1980, per la cura di Renato Barilli e Franco Solmi. L’intervento di Zannier, curatore della sezione, si limitava però più prudentemente e correttamente a parlare di “fotografia in Italia negli anni Venti”[669] invece di analizzare possibili nessi e relazioni col movimento rappresentato da De Chirico e Carrà; anzi riconosceva in apertura che “la nostra produzione fotografica rivela, quasi un test proiettivo, il provincialismo, la confusione ideologica, il sottosviluppo culturale del nostro territorio, specialmente nel periodo tra le due guerre, quando senza vie d’uscita, siamo penetrati nell’oscuro imbuto del fascismo”, mentre “negli anni che hanno preceduto il primo conflitto mondiale vi furono episodi di rilievo nella storia della nostra fotografia, sia nel settore giornalistico (Luigi Barzini, Luca Comerio …) che in quello sperimentale (il ‘fotodinamismo’ dei fratelli Bragaglia); ma non vennero considerati con sufficiente attenzione e convinzione.” “Neppure il ‘secondo futurismo’ – proseguiva lo studioso – promosse una seria ricerca sul segno fotografico e si dovette attendere sino al 1930” la redazione del Manifesto di Marinetti e Tato poiché, infine, “nessuna alternativa [era] possibile all’artigianato e al pittoricismo (…) perché la fotografia, quando non è fascista (…) è borghese, stereotipata, convenzionale.” Riprendendo una lettura del fenomeno già avanzata da Giuseppe Turroni[670], Zannier considerava il mondo fotoamatoriale rinchiuso su se stesso e non solo: “culturalmente reazionari, i fotografi rimangono invischiati nel miele del romanticismo di maniera e si soffermano in inutili diatribe.” Da quel desolante panorama si salvavano solo alcuni (Achille Bologna, Cesare Giulio, Stefano Bricarelli, Alfredo Ornano, Mario Bellavista e pochi altri) senza provarsi poi a comprendere dove si fosse formata la loro diversa cultura visiva se molti di questi – come i torinesi -erano legati a una rivista come “Il Corriere Fotografico”, che poco prima era stato tacciato (non senza una qualche ragione) di promuovere una “fotografia che sfiora costantemente il kitsch ed ha come modello Fontanesi, Segantini, Corot, Turner [sic], piuttosto che De Chirico o Morandi.” Secondo Zannier solo alcune figure di proto-reporter come Adolfo Porry-Pastorel e qualche rappresentante del nascente fotogiornalismo, nonostante la ferrea censura fascista, indicavano allora direzioni nuove della pratica fotografica, mentre uno spazio innovativo – come aveva già indicato Antonio Boggeri nel 1929 – era offerto dall’utilizzazione delle fotografie nella grafica e nella pubblicità, sottraendole “all’edonismo del ‘fotografo-artista’ ”, ma anche qui “il regime accolse benevolmente il geometrismo dei fotografi modernisti” poiché di fatto “non esisteva una fotografia clandestina”; ciò che ancora oggi pare essere un dato indubitabile. Un testo più politico che storico critico, che solo a grandi linee si soffermava ad analizzare le modalità espressive, a comprendere influenze e derivazioni per provare a dare conto di atteggiamenti e (mancati) ruoli sociali. Una condanna senza appello che certificava una distanza incommensurabile della fotografia italiana dalla cultura visiva internazionale, magari dalla cultura tout court, confermando forse involontariamente un secolare pregiudizio.
Di taglio più compiutamente critico l’intervento di Claudio Marra che apriva con due lunghe citazioni parallele di De Chirico e Proust per riflettere su cosa “può esserci di comune tra la poetica della metafisica e la poetica della fotografia nel suo complesso”[671], secondo una prospettiva “culturologica” qui preferita al “confronto tra metafisica e fotografia, la strada fiscalissima della ricerca di punti di contatto e di vicinanze, esclusivamente espressivo-formali. (…) Tale strada si dimostra però subito impraticabile, se non altro perché come indiscutibilmente ci fanno capire gli autori presenti in mostra, la ricerca di quegli anni, in Italia, seguiva tutt’altre direzioni. In più imboccando tale strada di confronti formali, si rischierebbe subito di incappare nel classico errore di chi piega le ragioni di un settore debole (la fotografia) a quello di un settore forte (la pittura).”[672] Precisazione di indubbia chiarezza e senso ma viziata da una selezione (quella per la mostra) di cui non erano dichiarati i criteri e i limiti e che quindi correva il rischio di trasformare il giudizio in un corto circuito tautologico, fondato sull’ipotesi – più arrischiata che radicale – che “non è esistita una fotografia formalmente metafisica perché non ce n’era bisogno, essendo la fotografia, nel suo complesso, per scelte di poetica, assai vicina, se non addirittura coincidente, con le scelte operate dalla metafisica.” Consapevole della difficoltà di sostenere sino in fondo tale assunto, pur giocato criticamente in modo accattivante, lo studioso riconosceva poi, quasi a margine, che “verso gli anni quaranta, quando ormai la stagione ufficiale della metafisica si è esaurita da un pezzo, la fotografia italiana improvvisamente scopre e fa sue soluzioni stilistiche e compositive che si potrebbero certamente definire, senza difficoltà alcuna, metafisiche.” La questione della storia, e della storia della cultura in particolare, temporaneamente scacciata dalla culturologia tornava ad affacciarsi e a porre le proprie ineludibili domande.
Negli stessi mesi in cui Bologna ospitava la grande mostra dedicata alla Metafisica si apriva a Torino l’altro importante evento espositivo italiano di quell’anno, che prese il nome dal manifesto firmato da Balla e Depero nel marzo 1915 sulla Ricostruzione futurista dell’universo[673]. Il ricco ed articolato progetto curatoriale di Enrico Crispolti intendeva affrontare e mostrare “i compresenti livelli comunicativi” e la “totalità dell’intervento creativo futurista”, anche in ambito fotografico quindi, ma con una comprensione della rilevanza del fenomeno che si sarebbe voluta migliore.[674] Le prime fotodinamiche erano infatti poco più che citate ma non specificamente analizzate, poste anzi in second’ordine rispetto al ruolo di A.G. Bragaglia come pubblicista, gallerista e regista di un film sperimentale come Thais, forse anche perché per Crispolti era necessario stigmatizzare “l’insensatezza del voler ridurre la questione [della primogenitura Balla Bragaglia a proposito delle immagini cinetiche] in termini di scoperta di modi di visualizzazione del movimento (che erano in realtà già noti), anziché di significato particolare dell’uso di tali modi.” Uno spazio solo di poco più ampio era dedicato alla fotografia negli anni del secondo futurismo e in particolare alla figura di Tato (Guglielmo Sansoni) e al Manifesto della fotografia futurista da lui firmato con Marinetti nel 1930, nel quale si proponeva “tutta un’eventualità di esiti fotografici nuovi (…) composizioni surreali e per assurdo di oggetti, cioè praticamente quasi delle sculture fotografiche”, ma senza poi indagare se e quale influenza o riscontro il Manifesto ebbe sulla fotografia, anche solo italiana, e sulle (poche) mostre di fotografia ‘futurista’ che si tennero in quegli anni[675].
Nel 1979 Giovanni Lista aveva dedicato alla fotografia futurista un primo, importante studio monografico, dando corpo a un tema non inedito ma che da quella avrebbe assunto una consistenza e un interesse sempre maggiori. L’analisi condotta in quella occasione si estendeva a vasto raggio considerando “tre elementi di indagine: le conseguenze e le implicazioni concettuali che l’immagine fotografica ha prodotto nelle più diverse manifestazioni del pensiero umano (…); il reciproco rapporto di influenza e di stimolo che è intercorso tra la fotografia e le arti plastiche; infine la qualificazione estetica della fotografia. (…) Nel suo aspetto più specifico, tutta la storia della ‘fotografia futurista’ è innervata dai più diversi tentativi di rivitalizzare l’immagine nell’intenzione di cogliere la manifestazione interiore della realtà nel suo farsi per e attraverso lo sguardo.”[676] L’uso degli apici per qualificare il proprio oggetto di studio corrispondeva a una relativizzazione del concetto stesso e alla varietà poetica ed estetica delle manifestazioni che Lista intendeva sottoporre a verifica. “La problematica affrontata in quest’opera – scriveva – (…) lascia appunto perplessi circa l’esistenza di una ‘fotografia futurista’ quale categoria formale autonoma. (…) In realtà anche nel campo della fotografia il futurismo rimase imbrigliato nel sistema dell’immagine rappresentativa allo stesso modo di quanto avvenne in pittura. In questo senso, Bragaglia ha tentato di fare del ‘futurismo fotografico’ piuttosto che della ‘fotografia futurista’. Tutto ciò che di nuovo vi fu nella fotodinamica venne fuori conseguenzialmente, imponendosi per virtù della sensibilità ottica del mezzo fotografico e non rispondendo ad un’ipotesi creativa preordinata.” [677] Due anni più tardi lo studioso curava per il Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris la mostra sulla Photographie futuriste italienne, 1911-1939[678], in cui almeno in termini di titolazione, e quindi di comunicazione anche mediatica, le precedenti cautele apparivano superate. Nel Prologo l’autore ribadiva come sino a quel momento fosse stata solo l’opera di Anton Giulio Bragaglia[679] a richiamare l’attenzione degli studiosi, mentre quell’esposizione voleva essere “il risultato di un tentativo di ricostruzione di un fenomeno culturale nella totalità dei suoi aspetti.”; per queste ragioni aveva riunito “opere di artisti futuristi che si sono dedicati alla creazione fotografica; opere di professionisti che hanno guardato all’estetica fotografica, e infine opere di artisti legati a due altre correnti dell’avanguardia italiana, l’Immaginismo e il movimento di Campo Grafico”, con i primi fotomontaggi di Veronesi e le prime composizioni di Boggeri. Un arco di tempo – di cui individuava quattro fasi – che si estendeva per circa un ventennio a partire dal 1911, nel corso del quale, contrariamente all’opinione comune, “il futurismo italiano non ebbe alcuna dimensione monolitica”, comprendendo sotto quell’etichetta semmai l’idea comune di un “combattimento per il futuro inteso come avvento di una nuova cultura.” Un’interpretazione basata sull’assunto che “la ricerca fotografica d’avanguardia è nata in Italia, al volgere del primo decennio del secolo, sotto l’impulso delle idee estetiche elaborate dal futurismo. Ma di fatto, era la pittura futurista che, per prima, aveva saputo trarre dalla fotografia alcune delle sue migliori ipotesi di lavoro per la creazione di un’arte moderna. Si perpetuava così, in forme nuove, il reciproco scambio che i due codici dell’immagine, la pittura e la fotografia, intrattenevano a partire dalla metà dl XIX secolo.” Con la successiva mostra del 1985 l’indagine di Lista si allargava ulteriormente ai rapporti tra “creazione fotografica e immagine quotidiana”[680], a partire dalla considerazione che “la riscoperta di opere fondamentali, attuata in questi ultimi anni, non esclude però la necessità di ricostruire le vicende e il tessuto connettivo della creazione fotografica delle avanguardie. (…) Considerata sempre in termini di opera e di creazione, la fotografia d’avanguardia apparirebbe tuttavia come esperienza parallela alla pittura laddove chiede invece di essere rivisitata in funzione dell’odierna ‘civiltà dell’immagine’. In altre parole, non si tratta più di individuare l’artista che ha firmato il capolavoro, ma di reperire la globalità di una prassi comportamentale tra effimero e creazione d’immagine.” Questa riflessione conteneva più di un elemento di interesse storiografico, non circoscrivibile al solo studio delle avanguardie, non tanto per la novità dell’impostazione quanto per la chiarezza con cui faceva sintesi dei problemi. La necessità del “superamento dei vecchi orizzonti” (condiviso ampiamente anche da altri giovani studiosi come Marra) implicava infatti un mutamento di paradigma, che del resto ben si prestava allo studio di una produzione estensiva come quella fotografica: dalla singola opera al tessuto connettivo, dall’eccezionalità alla globalità della prassi, secondo una logica storico critica che in quegli anni costituiva ormai patrimonio comune per altre aree di studio contigue quali l’architettura e la storia dell’arte, fortemente influenzate e permeabili al più ampio dibattito politico dei due decenni precedenti e di cui l’affermarsi stesso del concetto di bene culturale (contrapposto quasi politicamente a quello di opera d’arte) non costituiva che la testimonianza più evidente. Per queste ragioni Lista prendeva in considerazione tutte quelle produzioni fotografiche in cui fosse possibile riconoscere un legame di qualsiasi grado con l’esperienza e l’estetica futuriste; scopriva “occasioni segrete e risvolti molteplici che vanno dal documento iconografico all’opera, unendo, senza soluzioni di continuità, la banalità del quotidiano alla creazione”, secondo un procedere per “assi di differenziazione e di schedatura” applicati a generi quali la ritrattistica, la documentazione di opere disperse e il reportage di azioni teatrali, ma anche – nello specifico – la fotodinamica vera e propria, i fotomontaggi e la produzione di immagini in cui “la fotografia emblematizza il gesto comportamentale, o la posa propagandisticamemte improntata in studio, ma proponendosi comunque come iconografia paradigmatica dell’arte-vita futurista.”[681]
Nel catalogo della grande mostra parigina dedicata a Les Réalismes (1980) Zannier riproponeva l’idea del “test proiettivo” per studiare la produzione italiana tra le due guerre, introducendo sin dal titolo la dicotomia illusione/ realtà, dove – pare di capire – il primo termine doveva corrispondere alle manipolazioni indotte dal regime e alla produzione amatoriale, mentre il secondo riguardava la produzione, pur censurata, del reportage o le immagini “quasi naif di modesti artigiani come Amanzio Fiorini”[682]. La descrizione di quelle vicende aveva inizio con le fotodinamiche di Anton Giulio Bragaglia (a cui riconosceva anche il ruolo di fotografo) contrapposte alla banalità del pittorialismo e del ritratto di studio, mentre il nascente fotogiornalismo (Barzini, Comerio, Porry-Pastorel) era escluso dal dibattito sulla fotografia come arte, sebbene “con la guerra, è il reportage che finisce per assumere importanza”. Il testo procedeva restituendo in forma combinatoria i contenuti del saggio redatto per la mostra dedicata agli Anni Venti (Zannier 1980c) ma con un di più di riguardo per le modalità della comunicazione fotografica del regime e qualche aggiornamento (Longanesi, Pagano), per chiudere infine con l’Annuario Domus del 1943.
La successiva mostra milanese dedicata agli Anni Trenta[683] ospitava in catalogo un saggio di Francesca Alinovi che restava rigidamente fedele alla categoria critica del postmodernismo, già adottata nelle sue prime interessanti riflessioni sulla fotografia[684], sino a rischiare qui l’anacronismo (del resto una delle tendenze pittoriche del momento) quando definiva gli anni Trenta come quelli “in cui il modernismo (…) si incrocia con una sensibilità postmoderna che, in termini più precisi, potrebbe essere identificata con la poetica del ‘realismo magico’ e con una certa foto artistica che si sviluppa in quegli anni”, facendo forzosamente coincidere le suggestioni letterarie di Massimo Bontempelli (autore a cui guardava anche Marra) col perdurante pittorialismo, solo lievemente aggiornato, che connotava la maggior parte della fotografia amatoriale, cioè ‘artistica’ ancora in quel decennio. Se possiamo attribuire e intendere quella posizione critica, manifestamente antistorica, come debito pagato alla moda critica del momento, così come alcuni equilibrismi semantici (“fotografia pura”/ “fotografi puri” ma senza che autore e concetto si corrispondessero) non di meno va riconosciuto al saggio della Alinovi il merito di aver delineato attraverso una rilevante serie di dati e di analisi delle fonti il contesto variegato e complesso della fotografia italiana e delle varie figure che vi contribuirono, anche se, di nuovo, era difficile concordare con la studiosa quando affermava che “sarebbe un errore considerare l’Italia degli inizi degli anni Trenta come bigottamente autarchica e strapaesana dal punto di vista culturale.” Se ciò fu certamente vero per molte riviste letterarie, di cinema e soprattutto di architettura, non ci sentiremmo di estendere il giudizio a quelle fotografiche, neppure a “Galleria” che pure costituiva l’edizione italiana di una testata internazionale. La stessa Alinovi pareva poi contraddire in parte il proprio assunto nel momento in cui riconosceva il ruolo svolto dalla produzione legata all’architettura e alla grafica pubblicitaria, nel cui ambito – strettamente modernista – “la sperimentazione (…) viene concepita come analisi metodologica interna delle possibilità di funzionamento del mezzo stesso”, mentre a detta della studiosa “i capolavori di foto artistica, in questi anni, ci vengono dati dal secondo futurismo (Tato) e da fotografi di studio come Luxardo, Ghitta Carell e Arturo Ghergo a Roma, o Badodi, Sommariva e Castagneri a Milano.” La rosa degli autori considerati era sorprendentemente ampia e variegata, così come non poteva che essere considerata una importante indicazione metodologica quella di avvalersi degli archivi dei fotografi e di considerare congiuntamente, nella produzione di ciascuno, la fotografia di ricerca e quella applicata, maggiormente condizionata dalla propria funzione d’uso e dalle esigenze della committenza ma anche, e per le stesse ragioni, più determinante nella formazione della cultura visuale del periodo. Un saggio affascinante, ricco di approfondimenti e suggestioni[685], ulteriore testimonianza di una scena critica metodologicamente attrezzata che si andava definendo e consolidando in quegli anni ma anche, per altri versi e specialmente dal punto di vista storico, sorprendentemente reticente: nella ricostruzione delle due contrapposte vie del modernismo di derivazione Bauhaus secondo la linea “Moholy-Nagy -Arnheim” e della “sensibilità postmoderna” dei cultori del realismo magico mancava infatti ogni riferimento al fascismo e al ruolo complesso che quella cultura politica svolse nei confronti dell’immagine, dei suoi usi come dei suoi produttori e utenti finali: una lettura veramente metafisica[686].
Nonostante i limiti riscontrati da molti, le sollecitazioni provenienti dalle numerose iniziative della fine degli anni Settanta stimolarono una fioritura di studi e ricerche conoscitive rivolte alla ricostruzione delle vicende fotografiche di ambito locale; una serie di indagini a cui diedero notevolissimo impulso le pubblicazioni periodiche, e in particolare “AFT”, da considerare in parallelo con le analisi condotte alle diverse scale territoriali, che a loro volta costituirono occasione di ulteriori messe a punto metodologiche, di approfondimento delle conoscenze ma anche di iniziative di conservazione e tutela del patrimonio considerato[687].
La Valle d’Aosta era stata di fatto esclusa dalle principali ricognizioni nonostante la disponibilità di alcune ricostruzioni[688], e la prima indagine sistematica che la riguardava[689] venne posta sotto il segno di una controversa riflessione pasoliniana: “non c’è progresso senza profondi recuperi nel passato, senza mortali nostalgie [per le condizioni di vita anteriori]”[690]. Da quella suggestione derivava una narrazione quantomeno insolita, non essendo orientata alla ricostruzione storiografica in quanto tale, ma piuttosto, con intenzione più pragmatica e quasi corporativa[691], alla “rivalorizzazione” dell’impegno e della “cultura dei fotografi che ci hanno preceduto (…) per affrontare il problema della standardizzazione dell’immagine fotografica scattata oggi in Valle d’Aosta, povera dei valori di ricerca tecnici ed estetici come d’impegno espressivo, interpretativo e creativo”. Ulteriore scopo, come dichiarava una nota posta irritualmente in calce al frontespizio, era quello di favorire la creazione, poi non compiuta[692], “di una fondazione fotografica che sia fulcro e centro studi-archivio nonché spazio espositivo per la fotografia” avendo in mente verosimilmente il CSAC, a cui del resto faceva esplicito riferimento Lanfranco Colombo nella sua presentazione al volume, condividendo la necessità di “impegnare mezzi a salvare, prima che vadano del tutto dispersi (e Dio solo sa quanti ne abbiamo irrimediabilmente smarriti in questi decenni) tutti gli sparsi brandelli del patrimonio fotografico locale, regionale, nazionale.”[693] “Al di là di tutto – avvertiva prudenzialmente Colombo – di ogni eventuale, e inevitabile, menda; di lacune nell’attribuzione o nella datazione; di incertezze biografiche o storiche” da quella prima ricognizione del patrimonio fotografico storico valdostano emersero – anche se appena accennate – le figure di una ventina di fotografi attivi in Valle tra XIX e primo XX secolo, escludendo cioè i pur notissimi autori italiani e stranieri che l’avevano frequentata occasionalmente (uno per tutti: Vittorio Sella). Di ciascuno erano fornite sintetiche note biografiche seguite da una scelta antologica di immagini, ben riprodotte a colori ma con didascalie generiche[694] e sistematicamente prive di indicazioni in merito alla materialità dell’oggetto (tecnica, misure, supporti). Ne risultava non tanto un profilo (per quanto scarno) della storia della fotografia in Valle d’Aosta quanto un repertorio di immagini che al più contribuiva ad estendere la quantità di materiali disponibili all’analisi estensiva degli andamenti, delle variazioni, delle eventuali mutazioni (anche geografiche) dei generi più diffusi e consueti: dal ritratto (singolo e di gruppo) al paesaggio; mentre emergevano alcune figure di religiosi interessati alla ricognizione etnofotografica[695] delle loro comunità, una pratica e una produzione che in area valdostana sarebbero divenute oggetto di studio solo alcuni decenni più tardi[696].
Il 3 maggio del 1980 aveva aperto a Torino nelle prestigiose sedi di Palazzo Madama, Palazzo Reale e della Palazzina della Promotrice al Parco del Valentino una grande mostra dedicata alla Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna: 1773-1861, curata da Enrico Castelnuovo e Marco Rosci[697], che aveva tra i membri del Comitato scientifico Marina Miraglia ed anche, in una posizione più defilata e operativa, Piero Racanicchi quale componente della Giunta esecutiva. L’importante progetto aveva previsto e offriva una ricognizione a tutto campo perfettamente corrispondente al titolo e dedicava quindi ampio spazio alla fotografia, ospitata nelle sale di Palazzo Reale in una sezione a sé che adottava una partizione tipologica (la fotografia, appunto) che si differenziava nettamente dai criteri storici o tematici con cui erano state individuate le altre (Ancien régime, Restaurazione, Architettura e urbanistica ecc.), che pure in alcuni casi ospitavano importante documentazione fotografica[698]; forse la testimonianza di una perdurante difficoltà di rapporto con la fotografia e la sua cultura, analoga – sebbene su piani e per ragioni differenti – a quella espressa giusto negli stessi giorni da Roland Barthes, per il quale “il nome del noema della Fotografia sarà quindi (…) l’Intrattabile.”[699] Pur vivendo ancora questa condizione di separatezza quella iniziativa riconosceva, credo per la prima volta in un progetto di tali dimensioni, l’imprescindibile necessità di considerare opportunamente il ruolo della produzione fotografica nello studio della cultura visuale di un periodo che comprendeva gli anni della sua invenzione e della sua prima massiccia diffusione professionale e sociale.
La possibilità di delineare una convincente sintesi di quella attività nel Regno di Sardegna era favorita da una precoce per quanto disomogenea fioritura di studi recenti[700], in parte confluiti nelle schede regionali redatte per la mostra dedicata alla Fotografia italiana dell’Ottocento (Falzone del Barbarò per Piemonte e Sardegna; Marcenaro per la Liguria) mentre in termini metodologici si guardava semmai alla mostra del 1977 dedicata ai Fotografi del Piemonte, specie per quanto riguardava la riconosciuta necessità di una accurata descrizione dei materiali presentati. A Miraglia, che in quei mesi stava lavorano alla revisione delle proprie Note[701], venne affidato l’incarico di illustrare Le origini della fotografia nel Regno di Sardegna (1839-1861), mentre le schede dei circa centocinquanta oggetti in mostra, compresi alcuni apparecchi fotografici, erano a firma di Michele Falzone del Barbarò[702]. Il testo in catalogo apriva ricordando che “nella storia della fotografia dell’Italia preunitaria, il Regno di Sardegna occupa un posto di particolare rilievo per la precocità degli interessi subito accesisi intorno ai vari processi fotografici, interessi che si estrinsecano, con straordinaria coerenza, in una ricca produzione di immagini e in un’altrettanto copiosa serie di iniziative, grafiche ed editoriali, tendenti a sottolineare l’importanza del nuovo mezzo e insieme a divulgarne i principi. Queste caratteristiche [consentono] di guardare al Piemonte come allo Stato italiano in cui con maggiore chiarezza e con una più precisa determinazione, la fotografia sia andata man mano individuando i propri ruoli, imponendosi contemporaneamente come tecnica alternativa nel campo della produzione e della riproduzione dell’immagine.” A partire da questo assunto, forse eccessivamente generoso per quanto riguardava la pratica della “riproduzione dell’immagine”, cioè della documentazione del patrimonio artistico, il saggio si sviluppava per periodizzazioni caratterizzate da continui rimandi al contesto politico ma sacrificando un poco sorprendentemente, vista anche l’occasione e la sede, il confronto con la produzione pittorica e grafica coeve, soffermandosi invece sull’aspetto tutto nuovo della modernità tecnologica connessa alla sua meccanicità”[703], quindi anche alla “riproducibilità seriale”, fenomeno che ne determinava la “forte connotazione culturale di diffusione dell’immagine e di veicolo di idee il cui diretto utente è la borghesia.”
Dopo la mostra torinese del 1977 l’area piemontese aveva visto un infittirsi di iniziative che oscillavano tra la rievocazione nostalgica[704], esito nei casi migliori di una accurata indagine d’area[705], e la costituzione di veri e propri repertori, per certi versi strutturati sul modello adottato da Becchetti nel 1978 ma dedicati a una sola e specifica tipologia, come fu per il volume che nello stesso 1980 Claudia Cassio dedicò ai fotografi ritrattisti attivi. Scelta singolare e non motivata, a cui peraltro corrispondeva in premessa un’affermazione che è difficile conciliare con gli esiti della grande mostra che era ancora in corso al momento della pubblicazione: “Non è ancora possibile al presente – scriveva l’autrice – comporre in una storia notizie e problemi sulla fotografia in Piemonte; i dati che mano a mano riemergono, durante la ricerca o nelle pubblicazioni di settore – fino ad oggi articoli o schede di catalogo – sono frammentari ed ognuno di essi rimanda ad argomenti e studi diversi, come l’economia, la sociologia e la storia della cultura figurativa.”[706] Era in quella presunta incertezza che doveva essere maturata la necessità di circoscrivere l’oggetto di studio[707], ma anche dalla convinzione che “la fotografia in Piemonte ha peso ed autonomia significativi; ma la sua storia pare piuttosto legata al genere del ritratto”. Affermazione paradossale, che pareva ignorare volutamente non solo i più recenti contributi ma la stessa fondamentale esperienza della mostra del 1977, alla cui realizzazione aveva partecipato la stessa Cassio.
Considerando gli autori piemontesi oggetto delle prime monografie semmai si aveva conferma che le specificità regionali, ammesso che potessero essere riferibili a un genere, dovevano essere ben altre: ne furono riprova non solo la presentazione dell’archivio di Secondo Pia ad opera di Luciano Tamburini e Michele Falzone del Barbarò, che consentì di far conoscere a un più ampio pubblico le preziose “ricreazioni fotografiche” che questo colto amateur dedicò al patrimonio architettonico e artistico piemontese[708], da sempre ben note agli addetti ai lavori e ai funzionari di Soprintendenza, ma anche, e forse soprattutto, le due monografie che TCI, CAI e Museo Nazionale della Montagna dedicarono a Vittorio Sella ad un anno di distanza l’una dall’altra.
Importanti nuclei di immagini di soggetto ligure erano stati esposti e studiati nella mostra sul Regno di Sardegna, costituendo di fatto il più significativo antecedente del volume dedicato alla Liguria da Giuseppe Marcenaro nel 1984, con una prima parte caratterizzata dall’alternanza tra scansione tecnologica (dagherrotipo, ambrotipi, ferrotipi) e cronologica, poi monografica (dalle firme più note agli anonimi). A questa seguiva una sezione organizzata per partizioni critiche riferite alle tipologie, ai generi e anche alle “retoriche dell’immagine”, in una commistione che poco contribuiva alla chiarezza e alla qualità del discorso, penalizzata anche da mediocri riproduzioni in bianco/nero[709] e da didascalie (pubblicate come apparato e in un elenco a parte) prive di qualsivoglia indicazione di data, tecnica, misure, per non dire delle collezioni di provenienza[710]. Dopo aver redatto la scheda regionale e alcune voci monografiche per la mostra del 1979 e dopo aver curato nel 1980 la mostra sui Fotografi Liguri dell’Ottocento, Marcenaro ritornava sul tema intendendo questo nuovo lavoro come un ulteriore Appunto per una possibile storia della fotografia in Liguria[711], esito di “sovrapposizioni che ho via via apportato a un’esile traccia originaria che, nel tempo, si è trasformata in articoli, saggi, nel catalogo di una mostra.” Questo approccio si segnalava per il suo positivo relativismo e per la conseguente sospensione di giudizio che portava l’autore a non assolutizzare gli esiti delle proprie ricerche; a dichiarare che quella proposta non voleva essere “la” storia ma una delle possibili storie della fotografia ligure, consapevole che “si tratta di operare una continua messa a fuoco: il soggetto, infatti, si sposta continuamente”, essendo necessario considerare e indagare “le implicazioni dell’immagine con la letteratura [come mostrerà in un contributo successivo], con l’estetica e in genere con la complessità del fenomeno cultura”[712], anche a discapito del contenuto e del valore documentario. Per queste ragioni, per il prevalere di un’intenzione specialmente attenta al contesto, l’analisi lo aveva intenzionalmente portato “a trascurare l’uso delle immagini in senso stretto (…) considerandolo troppo evidente e quindi ovvio.” Una presa di posizione interessante ma forse riduttiva e certo intrinsecamente contraddittoria se confrontata col fatto che – come affermava poco oltre – “occorre restituire al fotografo dell’Ottocento una sua precisa funzione, quella di testimone, narratore e interprete del contesto in cui è vissuto.”
Solo quantitativamente più ricca appariva la produzione editoriale lombarda della prima metà degli anni Ottanta, di fatto circoscritta a Milano per quanto riguardava la storiografia propriamente fotografica[713], mentre si segnalavano alcune iniziative di documentazione storico sociale in area cremonese[714]. Nonostante la scheda firmata da Palazzoli e le opere di importanti autori milanesi esposte alla mostra del 1979, dopo un primo libro di taglio revivalistico[715] il Civico Archivio Fotografico di Milano pubblicava nel 1982 un volume dedicato alla Milano di Icilio Calzolari[716], realizzato con immagini per la maggior parte provenienti dalla collezione di Stefano Bisconcini, autore anche delle brevi note biografiche, mentre il succinto testo introduttivo di Giuseppe Turroni costituiva poco più che il sunto della scheda del 1979, con corredo di notazioni e analisi che si faticava ad assegnare a quello che all’epoca era considerato uno dei più importanti critici italiani: “Calzolari – scriveva Turroni – si dedica soprattutto alle riprese degli aspetti urbanistici e civili di Milano. Il taglio non è del genere descrittivo-turistico caro (…) a non pochi fotografi meridionali. Egli attua scorci, a volte prospetticamente arditi e comunque sempre alquanto espressivi, di questa ‘bella capitale’ che ama sopra ogni cosa il progresso e l’ordine.” Di non migliore qualità scientifica ed editoriale il successivo volume[717], giocato in parte sul confronto ieri/oggi della scena urbana, secondo una consuetudine piuttosto diffusa in quegli anni, che fornì però almeno l’occasione per ricordare che “il Castello Sforzesco custodisce, fra l’altro, una raccolta fotografica fra le più nutrite e rigorose. (…) I pezzi più antichi sono dagherrotipi e calotipi”. Essendo la modificazione urbana il tema d’indagine, delle fotografie si forniva localizzazione (titolo) e data, ma senza quasi mai indicarne l’autore, forse non riconosciuto. Così dev’essere accaduto per la nutrita serie di Giuseppe Beltrami, di cui pure negli “Annali” einaudiani erano state pubblicate alcune immagini, a riprova di una assenza di osmosi, di una impermeabilità totale tra i disparati mondi che pure ruotavano intorno alla fotografia storica.
Nello stesso 1985, nella serie dei “Quaderni” della “Rivista milanese di economia”, finalmente si pubblicava il primo studio metodologicamente attrezzato sull’attività fotografica a Milano sul finire del XIX secolo, ad opera di una storica dell’arte e di un fotografo: Giovanna Ginex e Carlo Cerchioli[718]. Sebbene l’attenzione prevalente fosse dedicata alla ricostruzione delle vicende del 1898, lo sguardo era esteso all’intero contesto dell’attività fotografica in città, lamentando le difficoltà della ricerca, dovute al fatto che “nel campo ancora tutto da esplorare delle origini della fotografia in Italia e a Milano, ci si imbatte in una disarmante mancanza di coordinamento tra i vari studi. Ci troviamo di fronte ad una serie di lavori di ricerca in cui troppo spesso le valutazioni dei singoli fatti e dei vari personaggi sono falsate dalla mancanza di un contesto più generale di riferimento. La necessità di una paziente ricostruzione della realtà degli studi fotografici milanesi, di una vera e propria microstoria della fotografia delle origini, diviene pressante appena ci si avventuri ad analizzare, come in questo caso, fotografie che non rientrano nei consueti canoni e generi iconografici frequentati dai professionisti dell’epoca.” A nuovi obiettivi di ricerca dovevano corrispondere nuovi e più attrezzati strumenti metodologici quindi, scontando le diffidenze derivate dal fatto che “chi si è occupato finora delle ‘terribili’ giornate del maggio ‘98’ non ha considerato come fonte documentaria il materiale fotografico prodotto in quei giorni sulla piazza, durante e dopo gli scontri.” Un doppio fronte di difficoltà quindi, a cui gli autori risposero sottoponendo a verifica i dati e le ricostruzioni con una lettura condotta su più piani: dalle modalità narrative adottate dai fotografi ai meccanismi censori e alla diffusione selettiva e mirata che queste immagini ebbero sugli organi di stampa.
Anche la ricostruzione delle più generali vicende della fotografia a Milano, condotta da Silvia Paoli nel 1989 rielaborando la propria tesi di laurea per le pagine di “AFT”[719], ricorreva al confronto con “i documenti dell’epoca (riviste, articoli, manuali, trattati) al fine di tracciare un quadro il più possibile rigoroso di quello che fu il milieu dei primi fotografi nei suoi legami con gli ambienti culturali, artistici e scientifici; al fine poi di interpretarne il materiale fotografico a partire dal pensiero dell’epoca circa le immagini e le nuove tecniche di riproduzione della realtà”[720]. Per delineare il quadro generale di riferimento la studiosa adottava le partizioni tecnologiche utilizzate da Gernsheim (dagherrotipia e calotipia, collodio, gelatina bromuro d’argento), individuando per ciascuna le caratteristiche salienti in termini di figure autoriali e di produzione ma sacrificando – quasi di necessità – l’analisi iconografica delle opere. Ne emergevano alcuni aspetti salienti, come la precocissima produzione di vedute tratte da dagherrotipi (Artaria, 1840) che, sebbene ancora tradotte manualmente[721], anticipavano di molto le produzioni che poi avrebbero caratterizzato i maggiori centri di attrazione italiani o la successiva nascita di una vera e propria industria di settore e di iniziative editoriali “volte a diffondere il nuovo sapere scientifico”[722], dando avvio a una tendenza che si sarebbe consolidata nei decenni successivi, quando “si andava precisando il carattere imprenditoriale e commerciale della regione lombarda.”[723] In quel clima avevano preso forma due fenomeni di differente natura e dimensione, nodali però per la cultura fotografica nel suo insieme, quali la proposta di costituzione di un Archivio fotografico pubblico presso la Biblioteca Braidense[724], e l’irrompere sulla scena milanese di quegli “irregolari” di cui per primo aveva parlato Vitali.
La ricca scheda dedicata al Veneto nel catalogo della mostra del 1979, firmata da Alberto Prandi, aveva tracciato il primo profilo per una storia regionale, riconoscendo le coordinate culturali in cui si era manifestato e poi consolidato l’interesse veneziano per la nuova invenzione, soprattutto in ambito scientifico ma sotto l’influenza di una tradizione settecentesca di critica delle arti particolarmente attenta, agli “ordigni [destinati] a meglio conoscere e a rappresentare la natura.”[725] Centrali risultavano allora i legami dei pittori con la fotografia, a partire da Domenico Bresolin, e la grande questione (non solo veneziana) del rapporto con la nascente e crescente industria del turismo e delle risposte imprenditoriali a diversa scala che ne derivarono, sino ai grandi editori come Ongania. Negli anni immediatamente successivi l’interesse si era rivolto alla produzione di uno dei principali studi ottocenteschi, quello di Carlo Naya[726], sollecitato anche da una mostra alla George Eastman House di Rochester[727], che proprio dall’analisi della fortuna commerciale di questa come di analoghe imprese fece derivare una interessante ipotesi storiografica a proposito dello scarso interesse dimostrato sino ad allora dagli studiosi anglosassoni nei confronti della produzione italiana del XIX secolo: “Le storie generali della fotografia relative ad altri paesi non sempre definiscono il modo migliore per affrontare la comunità fotografica italiana. Il grande successo commerciale di alcune firme, il numero di copie vendute, il basso prezzo di vendita, la grande quantità di manodopera necessaria per eseguire il lavoro sono tutte cose che hanno ridotto l’impressione che esistessero personalità veramente artistiche o, se c’erano, che fossero distinguibili dall’enorme massa di prodotti commerciali che li circondavano.”[728]
Altri aspetti, altri nodi storiografici e critici sollevati dalla più precoce produzione veneziana, vennero studiati da Paolo Costantini nei primi numeri di “Fotologia”. Derivati in parte dalla sua tesi di laurea, per compattezza di temi e di trattamento si potevano leggere come un lungo saggio a puntate pubblicato nell’arco di circa un lustro piuttosto che come contributi autonomi; tutti caratterizzati da un procedere metodologico che muoveva da una condizione specifica, un personaggio, un’impresa, per interrogare e definire il contesto che intorno a quello si formava e viveva, nella consapevolezza che “non è possibile giudicare il valore della nuova ‘presenza’ della fotografia ignorando i presupposti culturali e i complessi e molto particolari meccanismi che regolano il dibattito artistico ottocentesco. Questi meccanismi ci aiutano a capire i processi di formazione dell’idea fotografica, analizzando i rispettivi e sempre diversi ruoli degli storici e dei critici d’arte, degli insegnanti delle Accademie, degli architetti e dei restauratori.”[729] Da qui l’interesse per figure quali John Ruskin, Pietro Selvatico Estense, Camillo Boito e Ferdinando Ongania, attraverso le quali indagava le diverse condizioni e il mutare dei rapporti tra la fotografia, l’architettura[730] e le arti, quindi anche con i modelli e gli stereotipi di raffigurazione delle città e dei monumenti. Nelle sue ricostruzioni, i commenti di Alexander John Ellis si incrociavano, anticipandoli, con quelli di Selvatico[731], e si approfondiva l’analisi della produzione di vedute, segnata per Costantini da un cambio di paradigma determinato dall’utilizzo non mediato dell’immagine dagherrotipica rispetto alle prime serie pubblicate da Artaria e da Lerebours[732]. Sulla produzione veneziana di Ellis Costantini sarebbe ritornato ancora a pochi anni di distanza[733], analizzando più minutamente l’articolazione sintattica di quella serie e collocandola sullo sfondo recentissimo della prima diffusione della notizia dell’invenzione a Venezia e della prima circolazione di questa inedita tipologia di immagini; un evento che determinava “una rottura con una tradizione di prassi di studio e [introduceva] una prassi nuova, che si svolge secondo regole differenti entro un differente universo di discorso.”[734]
Nell’anno delle grandi mostre veneziane e fiorentine Zannier aveva dato alle stampe gli esiti della propria ricerca sulla Fotografia in Friuli 1850-1970[735], primo volume della collana “Fotografia per regioni”, interrotta dopo soli due titoli, che intendeva delineare storie regionali conducendo il discorso sino alla contemporaneità. Un’opera che si proponeva come “una cronistoria per immagini [che] sollecita una lettura ‘aperta’ sulla vicenda umana di una intera regione, che la fotografia propone anche tramite l’accumulo, la sovrapposizione di significati, che il nostro sguardo curioso indaga, alla ricerca, si spera, non solo del ‘tempo perduto’, ma della nostra attuale identità.” Sembrava emergere da quelle parole l’intenzione di redigere non una storia della fotografia ma piuttosto una storia attraverso, sebbene poi l’ampio testo introduttivo circoscrivesse a quella la ricostruzione delle vicende, dedicando all’indispensabile quadro storico economico uno spazio di poco maggiore a quello che gli era stato riservato nella scheda per il catalogo dedicato alla Fotografia italiana dell’Ottocento, redatta dallo stesso Zannier con Guido Sedran, che già in apertura avvertiva come “oltre che dalla situazione politica e territoriale, lo sviluppo della fotografia nella zona friulana e in quella triestina è stato condizionato dalla differente economia delle due aree”[736], una sola delle quali – la più povera e arretrata – venne allora presa in considerazione. Il saggio confermava quanto il titolo prometteva, con attente, capillari ricostruzioni delle biografie dei numerosissimi fotografi considerati, attivi sia a Udine sia nei centri minori, lette sempre in relazione alla scena italiana. A questo esito non corrispondeva però altrettanta cura editoriale nella pubblicazione delle immagini: non dico della qualità delle riproduzioni, certo penalizzata per ragioni economiche, ma delle povere didascalie, che tranne rarissimi casi (sei su centoquarantasei) non consideravano la tecnica e mai le misure. Forse per questa ragione, allora, per questa mancanza di attenzione filologica per la cultura anche materiale della fotografia non ne poteva che derivare una “cronistoria”, contraddicendo così lo stesso impegno tematico del progetto.
Il secondo titolo della collana, Fotografia nel Trentino. 1839-1980, curato nel 1981 da Floriano Menapace, era il risultato di una ricerca avviata per la propria tesi di laurea, discussa con Zannier di cui fu il primo laureato , che presentando la ricerca lamentava quanto “lo studio di questa fotografia [fosse] ancora condotto in modo quasi clandestino, tra la disattenzione della cultura ufficiale”[737]. Sulla scia del recente convegno di Modena indicava anche, come condizione per una conoscenza effettiva della storia della fotografia, la necessità di un censimento, la costituzione di una banca dati fondata su “un’esplorazione capillare, oltre che sistematica (…) un lavoro di ricerca in ogni archivio e collezione, pubblica o privata, senza naturalmente tralasciare l’album di famiglia, anche il più modesto”, nella convinzione che “la fotografia invecchia bene, per merito soprattutto della sua capacità di accumulare significati nuovi, che la storia via via sedimenta su di essa.”[738] Il testo di Menapace, segnato da una singolare interpretazione storica, secondo la quale “il periodo pionieristico della fotografia terminò con la decadenza del dagherrotipo”, pur non costituendo l’esito di un ancora impossibile censimento[739], sintetizzava le conoscenze sino allora note[740] arricchendole con gli esiti di nuove ricerche. La ricostruzione dell’attività fotografica a partire dal 1839 consentiva di accrescere il repertorio dei fotografi attivi nella regione delineando sinteticamente l’attività e le opere dei maggiori, in un arco teso tra le polarità costituite da Giovanni Battista Unterveger e dal figlio Enrico, che segnarono la fotografia trentina sino alle soglie della modernità rappresentata poi da Sergio Perdomi e dai fratelli Pedrotti. Lo studio apriva richiamando la condizione storica del Trentino come “regione ai confini”[741], ponendo così un primo, necessario riferimento al tema, già allora piuttosto discusso[742], della qualificazione identitaria, nazionale, della fotografia, che altri consideravano “pressoché impossibile [da definire] (…). La situazione per quel secolo [XIX] appare molto complessa, con linee tangenziali, relazioni e dipendenze che sono progressivamente mutate in relazione alle vicende dell’unità nazionale. Inoltre il sovrapporsi di varie culture non consente che si possa individuare una tendenza espressiva italiana.”[743] Date queste premesse l’indagine non poteva che condursi avendo sempre ben presente il contesto storico politico ed economico e rifiutando “il ‘revival’ per il ‘buon tempo passato’”. A quell’impegno storiografico non corrispondeva però un’analoga cura per gli oggetti del discorso: la maggior parte delle fotografie era infatti stampata in un penalizzante monocromo grigio, con alcune, rare variazioni cromatiche tanto arbitrarie da apparire bizzarrie tipografiche[744]. In assenza di schede, le didascalie riportavano correttamente autore, titolo/soggetto, data e collezione di provenienza, ma solo saltuariamente fornivano indicazioni sulla tecnica, utilizzando anche qui la consuetudine, allora piuttosto diffusa (come si è già avuto modo di vedere) di riferirsi a quella del negativo e non del positivo pubblicato. Paradossale conferma di un rilievo critico espresso da Zannier nella stessa presentazione: “la disinformazione sulla fotografia, anche riguardo le sue tecniche elementari (quanti tra gli addetti ad archivi, biblioteche, musei, sanno riconoscere un dagherrotipo, un calotipo, una stampa all’albumina?) e quindi sui criteri e sui metodi di conservazione, è stata per lungo tempo motivo di disastri, spesso irreparabili, che oggi, con tutto il chiasso che s’è fatto attorno alla fotografia, non sono più giustificabili.”[745] Non potremo mai sapere le ragioni per cui le nefaste conseguenze di quel “chiasso” toccassero anche il volume curato da Menapace.
Il contesto politico e culturale dell’Emilia Romagna favorì in quegli anni una ricca messe di iniziative di ricerca e di studio dedicate alla conoscenza del patrimonio fotografico storico[746], in particolare quale testimonianza e fonte per la definizione dell’immagine identitaria di quella regione.
Particolarmente significativo in tal senso il progetto relativo alle fotografie degli archivi Alinari coordinato da Andrea Emiliani, che muoveva da punti di vista disciplinarmente distinti e non necessariamente convergenti, quali la pianificazione (Pierluigi Cervellati), la geografia (Franco Farinelli), la percezione urbana (Carlo Gentili) e la Storia dell’arte (Massimo Ferretti), escludendo quindi, almeno nominalmente, la storia della fotografia in quanto tale ma proprio per questo mostrando quanto potesse essere necessario e produttivo lavorare intorno alla fotografia storica adottando punti di vista in grado di far emergere e porre in evidenza i legami complessi che ne hanno definito di volta in volta la posizione e il ruolo nei più svariati contesti culturali storicamente determinati. Così la concezione documentaria, apparentemente riduttiva, espressa da Cervellati consentiva di riconoscere a quel corpus di immagini la valenza di “documento di un preciso atteggiamento culturale e nello stesso tempo (…) di una ‘cultura del monumento’ che influenzerà metodi di analisi e criteri progettuali per tutti gli anni successivi”, riconoscendo seppur schematicamente due diverse tipologie nel “lavoro svolto sin dall’inizio dagli Alinari”[747], vale a dire la ripresa monumentale, che per ragioni di produzione e ricezione avrebbe trasformato il ‘tipo’ in stereotipo, contrapposta a quella ‘ambientale’ più rara, in cui “l’oggetto non è ‘messo in posa’: la foto diventa documento, messaggio, ricerca. Diventa ‘stato di fatto’ di quel momento. (…) Si esprime così il dualismo fra l’ ‘opera d’arte’ e il tessuto edilizio minore, fra ciò che appartiene alla storia del passato e del futuro e quello che si ritiene il quotidiano, il momento presente.”[748] Un’analoga tendenza alla restituzione ‘atemporale’ (quindi implicitamente astorica) del soggetto era riconosciuta da Farinelli anche nella rappresentazione del paesaggio, nella scelta dei temi come dei modi della rappresentazione, fornendo “un’immagine dell’Italia che soltanto negli ultimissimi anni [vale a dire con la mostra del 1977] si è iniziato a relativizzare. È stato proprio il carattere egemone di tale immagine, dovuto alla capillarità e all’intensità della sua circolazione e diffusione, a far dimenticare la natura soggettiva della visione spaziale a cui essa obbedisce, a fornire cioè al concetto di paesaggio una valenza oggettiva mai posseduta in passato.”[749] Questa funzione definitoria si accompagnava e si inseriva dialetticamente in un meccanismo che Carlo Gentili – richiamandosi a Lucio Gambi – definiva di “ricodificazione, ridimensionamento, riplasmatura e controllo dello spazio nei suoi patrimoni ambientali”. Non solo. La messa in atto di tali processi aveva importanti conseguenze anche sulle forme specifiche del discorso fotografico: “Se la tendenza al vedutismo, alla ripresa del paesaggio – urbano e no – poteva essere considerato un inevitabile lascito di quella cultura pittorica a cui per molti decenni la fotografia ancora soggiacque, è d’altra parte evidente che l’esigenza della documentazione a tappeto, che sostituisce man mano la predisposizione lirica dei primi ispirati pionieri, segnala l’affermarsi di un nuovo interesse verso lo spazio e verso l’ambiente e, ciò che più conta, di un nuovo tipo di committenza”[750], ma anche – aggiungo qui – la progressiva mutazione delle forme del racconto, che passava dalla necessaria e a volte magistrale sintesi dell’immagine singola alla più complessa articolazione sintattica delle serie, in cui le inevitabili influenze della tradizione iconografica permanevano semmai (quasi come residui) nei modi compositivi di ciascuna inquadratura. Ciò che insomma costituiva il valore immediatamente storico critico e quindi, in prospettiva, storiografico di questi interventi era il costante richiamo alla necessità richiamata da Massimo Ferretti di strutturare un discorso che doveva “continuare a dipanarsi fra rischi ed avvertenze” per evitare fin troppo facili fraintendimenti interpretativi, a partire dalla piena consapevolezza delle “ragioni seriali, costanti, programmate, che produttivamente regolavano queste immagini”; dal fatto che “la natura stereotipa di queste riproduzioni d’arte corrisponde alla loro realtà commerciale e alla loro specifica funzionalità culturale”[751]. Modalità e condizioni ampiamente riconoscibili nella produzione di tutta la “seconda generazione delle grandi dinastie fotografiche [a cui si doveva] una più infittita documentazione dell’arte e dell’ambiente storico; una, talvolta banale, riduzione schematica del ‘tipo Alinari’; come anche la sperimentazione convinta di rinnovati modelli visivi, più facilmente legati ad un’ambientazione naturale.”[752]
L’impegno di quegli anni oscillava quindi tra occasioni di riflessione metodologica e indagini estensive, come quella relativa all’Umbria condotta nel 1984 da Diego Mormorio e Enzo Eric Toccaceli, rinunciando “per una precisa scelta metodologica” al “tentativo di scrivere una storia dell’Umbria attraverso le immagini [per] indagare specificamente sul patrimonio fotografico dell’Umbria (e non sull’Umbria)”; per “tracciare un primo censimento dei fotografi (…) dalle origini della fotografia alla Liberazione”[753] in una regione di fatto esclusa dal panorama restituito dalla grande mostra sulla fotografia italiana dell’Ottocento, aggiungendo elementi alle prime indagini conoscitive avviate in quello stesso 1979 dalla Commissione fototeca dell’Istituto per la Storia dell’Umbria dal Risorgimento alla Liberazione. Una proposta di qualità che non poteva essere inclusa in quel “crescente proliferare di libri, saggi, articoli, portfolios ecc. sulla storia della fotografia” per il quale uno studioso attento come Oreste Ferrari scriveva nel 1983 di provare “tedio crescente.” [754] Insieme al tedio quel testo conteneva anche una qualche incertezza di giudizio però, se a parere dell’autore “i protagonisti della storia critica” erano considerati Gernsheim e Keim, Benjamin e la Sontag e Newhall, “e, da noi, Vitali, Gilardi, Settimelli e Bertelli”. Singolare elenco di nomi, tanto per le presenze e gli accostamenti impropri (come quello tra Benjamin e Keim, che gridava vendetta) quanto per le poco cortesi assenze tra gli italiani: Miraglia, Quintavalle e Zannier, almeno, ma anche e soprattutto Silvio Negro, ricordato solo (e un poco ingenerosamente) quale pietra di paragone su cui “misurare l’ingente cammino percorso, il dilatarsi in ‘messa a fuoco impeccabile’, dell’orizzonte conosciuto” posto in atto col volume che stava presentando. Nonostante le riserve che una tale posizione poteva suscitare, restava condivisibile il giudizio sui “pochi avanzamenti compiuti verso quel sistematico vaglio delle conoscenze fattuali che pure deve restare il fondamento che verifichi l’atto critico, quale che ne sia l’orientamento metodologico. Poca e sporadica è stata l’indagine filologica, ossia documentale”, cioè – ci pare di intendere -della fotografia anche in quanto materialità costitutiva della sua natura di documento, che era un tema vivo e dibattuto in quegli anni di prima formazione di una cultura catalografica applicata a questa famiglia di immagini, richiamata in chiusura di presentazione ponendo il problema di “un patrimonio di documenti fotografici che reclama – e lo dico anche ‘pour cause’ – impegni di studio e conservativi da parte delle istituzioni, non inceppati da anguste pratiche quali le attuali, più solleciti a funzioni di trasmissione pubblica della conoscenza in senso permanente e non effimero.”[755]
Queste parole erano poste in apertura di un nuovo studio di Piero Becchetti dedicato a La fotografia a Roma dalle origini al 1915[756], in cui lo studioso raccoglieva e sistematizzava gli esiti del suo più che decennale impegno[757], offrendo una summa delle ricerche a scala locale condotte sino a quella data; un volume che avrebbe rappresentato non solo l’ineludibile punto di riferimento per ogni ricerca successiva ma anche un modello editoriale di pubblicazione, con una struttura fatta di testo, tavole e repertorio dei fotografi simile a quella adottata nel 1979 per il catalogo dedicato alla Fotografia italiana dell’Ottocento, cui lo stesso Becchetti aveva collaborato redigendo alcune schede[758]. Pur nella consapevolezza del “grave ritardo, rispetto ad altre nazioni, degli studi sulla fotografia”[759], che poneva tra le principali cause della dispersione dei fondi fotografici antichi, Becchetti non pareva interessato ad alcuna riflessione storiografica né alle questioni iconografiche e tutto il suo impegno era rivolto alla ricomposizione fattuale delle vicende della fotografia a Roma e soprattutto alla preziosa ricostruzione delle biografie professionali dei circa settecento fotografi registrati in quel repertorio, applicando alla capitale il modello descrittivo adottato nel 1978 per Fotografi e fotografia in Italia[760]. Il volume si presentava con una periodizzazione canonica (Origini, Età del collodio, La fotografia per tutti), ma non per questo gli esiti furono meno rilevanti, per messe di informazioni tratte da fonti inedite o poco considerate e per una acribia filologica che gli consentiva di ridiscutere attribuzioni che parevano ormai consolidate, in particolare quelle a proposito del fondo Tuminello, in cui riconobbe la determinante presenza di immagini di Caneva, e quella del fondo intitolato a Ignazio Cugnoni, argomento di una monografia appena edita da Einaudi[761], del quale escluse di fatto una qualche significativa attività fotografica, assegnandone la prevalenza delle immagini a Carlo Baldassarre Simelli.
Di ben altro rilievo metodologico l’indagine condotta da Daniela del Pesco sulla situazione napoletana, esito di un lungo lavoro di scavo e di approfondimento condotto nell’ambito della Scuola di perfezionamento in Storia dell’arte medievale e moderna dell’Università di Napoli. A partire dalla considerazione, di stampo ‘francofortese’, che “un’immagine non si coglie in modo esauriente se non attraverso la ricostruzione della sua funzione storica” [762], la ricerca era rivolta alla definizione delle condizioni sociali e culturali di “una produzione che oscilla tra la elaborazione sperimentale di una immagine documentaria e il conformismo di un’immagine commerciale, cioè tra la più convenzionale e turistica resa di un paesaggio genericamente pittoresco secondo la tradizione dell’incisione e della guache souvenir e l’approfondita ricerca espressiva sulle possibilità del nuovo mezzo di rappresentazione.”[763] Il riconoscimento e l’analisi di quella tensione bipolare, tutta interna e quasi costitutiva di quella produzione, risultava particolarmente efficace nella disamina delle fotografie di paesaggio in quanto prodotto di una strategia commerciale, mettendo così “in evidenza il rapporto tra una città come Napoli alla fine dell’800 e la mediazione tendenziosa della sua rappresentazione fotografica. (…) È facile accorgersi – proseguiva Del Pesco – dell’elaborazione ma al tempo stesso della semplicità e della ripetitività degli schemi cui può essere riportata. (…) Queste fotografie sono il risultato di un lavoro di serie che ha investito con un flusso costante, ritmato dalle leggi del mercato, gli elementi eterogenei di ognuna, dimensionandoli secondo procedimenti estremamente complessi relativi alle esigenze della riproducibilità, ai modi della distribuzione e della vendita, alla domanda del consumatore e dell’editoria.” Tutti elementi che sottolineavano la continuità del fenomeno, tanto da poter affermare che “l’immaginario collettivo viene a costituire per l’intero ciclo sociale-economico del fatto fotografico la quota più alta di risorse produttive.” Dal riconoscimento e dall’utilizzazione di questa chiave di lettura discendeva una ricostruzione attenta della realtà professionale legata alla fotografia in area napoletana, rilevandone le strategie imprenditoriali e pubblicitarie; le varie tipologie e ‘generi’; i prezzi di mercato valutati in relazione ai salari degli addetti del settore e “la composizione sociale del pubblico degli acquirenti e dei fruitori della fotografia a Napoli [che] si può dedurre anche da una topografia della rete commerciale.” Solo dispiace che a questa efficace impostazione generale corrispondesse poi uno scavo analitico limitato all’attività di Alinari e Brogi, certo importante ma altrettanto eccentrica, e non solo in termini geografici, rispetto alla scena napoletana, in cui imprenditori come Achille Mauri, la Fotografia Pompeiana di Giacomo Luzzati e specialmente Giorgio Sommer ampliavano la loro offerta produttiva e commerciale ben oltre la fotografia. Questo riferimento fortemente orientato se non proprio limitato all’attività e al corpus di immagini delle due firme fiorentine, con la sola aggiunta di Gustavo Eugenio Chauffourier, era l’esito di una scelta che considerava “metodologicamente corretto partire da un corpus storicamente definito”[764], ma condizionava non poco lo svolgimento delle analisi come l’apparato iconografico di parti rilevanti del volume, che si sarebbe certamente giovato di una maggiore selezione di opere dei principali professionisti napoletani del periodo, i quali verosimilmente avevano dovuto porre in atto strategie diversificate per corrispondere a uno scenario culturale ed economico differente e solo in piccola parte assimilabile a quello delle ditte attive a scala nazionale.
La ricostruzione della scena napoletana era preceduta da un importante saggio di Mariantonietta Picone Petrusa dedicato ai rapporti tra Linguaggio fotografico e ‘generi’ pittorici, che apriva ponendo chiare questioni di metodo, specialmente necessarie in una fase in cui “si sta di fatto rifondando una disciplina nel momento stesso in cui si definiscono i ruoli e i significati che essa ha ed ha avuto in passato. (…) La fotografia ribadisce la sua specificità e nello stesso tempo alimenta le sue vocazioni interdisciplinari.”[765] Uno dei primi problemi era quello della definizione dello stesso oggetto di studio, vale a dire la questione – allora piuttosto rilevante – di cosa si dovesse intendere per “originale” in fotografia, giungendo alla ragionevole conclusione che “in fotografia è sì originale il negativo ma lo sono anche tutte le stampe positive dell’autore della fotografia.”[766] L’altro “nodo metodologico” non poteva che riguardare le distinte e quasi contrapposte posizioni storiografiche emerse sino ad allora, “schematizzabili in due tendenze: quella che percorre la storia della fotografia attraverso i nomi di punta (…) e quella che cerca di ricostruire un contesto più ampio e che pertanto non disdegna la storia degli studi e del professionismo, sottolineando l’aspetto economico-mercantile, di produzione e di fruizione dell’immagine fotografica, accanto all’esame del suo linguaggio specifico”, che era con tutta evidenza l’impostazione scelta per la conduzione della ricerca presentata in quel volume, pur con i limiti che già sono emersi. Così più che la ricostruzione della rete di rapporti commerciali del professionismo napoletano e della “distinzione fra dilettanti e professionisti còlta da Vitali (…) vera spina dorsale di una moderna storiografia della fotografia”, nel saggio di Picone Petrusa assumeva rilevanza il tema dei rapporti fra la fotografia e le altre arti visive (quindi non solo la pittura, ed era elemento non secondario), la cui “natura è tutt’altro che univoca.” L’analisi procedeva tracciando approfonditi e affascinanti percorsi che davano conto dei rapporti, anche professionali, con le tecniche antecedenti come delle ambiguità della terminologia e dell’iconografia pubblicitaria utilizzate dai fotografi ancora ben oltre la seconda metà del XIX secolo, per considerare poi i vari modi in cui gli artisti napoletani utilizzavano la fotografia: dal ritratto alla documentazione delle proprie opere sino al ben più complesso uso strumentale come repertorio di modelli ‘sul vero’ per figure e paesaggi, secondo percorsi ad andamento ciclico in cui la produzione fotografica non guardava certo “nella direzione delle ricerche più aggiornate e progressive, ma verso (…) le immagini di consumo (…). La schematizzazione e l’esistenza stessa di generi fotografici (…) non sono una invenzione dei fotografi, ma esistevano già in quelle botteghe di incisori da cui molti (…) provenivano”; non per questo le nuove immagini potevano essere considerate solo in termini derivativi anzi – e questa era un’acquisizione critica importante – nella fotografia di paesaggio emergeva chiaramente “la concomitanza dell’esigenza pittoresca e di quella documentaria. (…) Che nella fotografia di paesaggio giochi un doppio modello (pittorico-documentario) è anche confermato dal fatto che (…) i fotografi che stiamo esaminando non ricorrono mai alle sfocature dei lontani”. Per questo poteva dire che “la fotografia di monumento è in realtà l’estensione su scala urbana della foto di opera d’arte, così come il paesaggio costituisce un prolungamento dello stesso genere di visione su scala territoriale: un pezzo di città come monumento.”
Ritroviamo qui ben esemplificate le competenze analitiche di Picone Petrusa[767], la sua capacità di vincolare gli aspetti linguistici propri della tecnica fotografica ai problemi iconografici; ciò che ancora oggi dovrebbe costituire un presupposto irrinunciabile per la comprensione di ogni produzione specialmente ottocentesca, rispetto alla quale risulta determinante tener conto delle convenzioni legate alla codificazione per generi così come dei processi di sclerotizzazione che portarono agli stereotipi. Quella posizione non era però di così piana condivisione né la chiave metodologica di uso così consueto se ad esempio Miraglia, che pure in altre occasioni aveva affrontato tangenzialmente il problema dei generi[768], ne faceva un uso poco più che lessicale nelle sue importanti Note edite nello stesso 1981[769]. Più strutturata e criticamente definita la posizione assunta da Quintavalle, che avendo dapprima rifiutato sarcasticamente certe distorte utilizzazioni ‘critiche’ del concetto (“le mostre si organizzano come sistema sulla base dei contenuti delle immagini e abbiamo (…) la mostra delle nature morte e quella dei ritratti”[770]) aveva da tempo accolto l’esistenza dei generi, “dato che essi hanno una precisa cadenza iconologica, dato che essi strutturano le immagini contribuendo a veicolarne il significato.”[771] “I generi – precisava alcuni anni più tardi – sono strumenti narrativi, fatti portanti della costruzione di senso, come insegna certamente la moderna narratologia, ma i generi, in area fotografica, sono legati alla tradizione pittorica almeno alle origini, e, come tali, vanno indicati nella loro gerarchica costruzione per quanto attiene l’intero periodo ottocentesco. Ecco quindi, prima di tutto, il ritratto (…) e, da ultimo, la natura morta mentre a parte è la storia dell’analisi dei monumenti che ha, da noi, svolgimenti specifici che la pongono in parallelo al genere ‘foto di storia’ in quanto foto della storia, dei luoghi della storia (…)”[772]. Solo molti anni più tardi a questo dialogo indiretto si sarebbe aggiunta la voce di Lello Mazzacane (2006) per ricordare che “esiste un rapporto stretto tra genere fotografico e mercato. Solo nella misura in cui un genere occupa una fetta di mercato può alimentare, infatti, l’attività dello studio e di converso trarre impulso da essa”, avvertendo “però che l’individuazione di un prodotto di mercato è condizione necessaria ma non sufficiente per la nascita di un genere. Il genere è debitore, oltre che del mercato, anche della declinazione linguistica che deve acquisire per essere riconoscibile come tale. Il genere, infatti, è pur sempre un’espressione linguistica condivisa, e in quanto tale codificata.”
Costruite su di uno scambio fecondo tra lettura etnoantropologica e indagine storico critica furono invece le indagini condotte sulle pratiche fotografiche amatoriali in area calabrese da Francesco Faeta e Marina Miraglia; pubblicate nel 1988 a partire dalla produzione di un esponente della piccola nobiltà calabrese di inizio Novecento come Alfonso Lombardi Satriani. Un esempio evidente di quanto fruttuosa potesse essere la capacità di intendere le immagini come “forme culturali”, ricavandone “informazioni meno lineari, più oblique, più indirette, ma anche più colme di indicazioni ideologiche di quelle mediate dalla scrittura”. Una lettura critica che molto doveva alla strumentazione antropologica, forse la sola in grado di misurarsi – come avrebbe ricordato Miraglia anni dopo – con quelle “brutte fotografie, di una banalità orrenda (…) immagini [che ] non mi dicevano assolutamente niente”[773]. Immagini apparentemente mute, che ponevano in scacco una posizione teorica e metodologica che derivava dalla tradizione lunga della Storia dell’arte. Era necessaria una diversa attrezzatura e, di più, un diverso atteggiamento per riconoscere e trarre informazioni che rivelassero “innanzitutto, all’interno delle classi egemoni, modi di vita più disomogenei, frammentati, stratificati, ma anche più aggiornati e nazionalmente significativi, di quanto altre fonti, più convenzionali, non facciano. [Quelle fotografie] mostrano, inoltre, nella cultura e nella vicenda delle classi subalterne particolari, in genere, occulti o rimossi, tratti che spesso anche la demologia non seppe o non volle registrare. (…) La fotografia ci trasmette così, non certo attraverso l’ingenuo postulato positivista della sua veridicità, ma per la sua particolare semeiotica e semiologia, uno dei più ricchi, complessi, attendibili patrimoni di dati sulle forme della vita, sulla cultura e sullo sguardo (cioè sull’ideologia) che si abbia nella regione ai primi decenni del Novecento. In particolare rispetto all’ideologia – proseguiva Faeta – mi sembra che la fotografia offra informazioni insostituibili. Essa è infatti strumento di formazione e trasmissione di forme simboliche, ma è essa stessa forma simbolica della realtà, costruita attraverso procedimenti sofisticati di codificazione. Attraverso le fotografie possiamo avvicinarci, dunque, in modo privilegiato alla sfera simbolica, distinguendo, nell’operare sociale, la virtù dalla necessità, il bisogno di trascendenza dalle molte ipoteche dell’immanenza.”[774]
Poche altre furono le indagini a scala regionale, di cui le schede approntate per la mostra del 1979 avevano fornito un primissimo resoconto e avrebbero potuto costituire un riferimento e un punto di partenza. Ciò pareva doversi attribuire a due divergenti fenomeni: da un lato l’egemonia storica e culturale dei capoluoghi, che aveva condizionato le vicende passate e segnava anche l’avvio degli studi[775] relativi ad aree come la Toscana o il Lazio, ma anche la Campania; dall’altro intere regioni storicamente ed economicamente più marginali che risultavano di fatto prive di attenzioni e di studio[776], quando non costrette in una monocultura autoriale riduttiva e penalizzante, come fu per la Sicilia, che nel periodo considerato venne di fatto ridotta alla sola presenza di Von Gloeden, mentre il tema degli scrittori fotografi, già in auge nel decennio precedente, pareva in quegli anni aver perso di interesse[777].
Il mutevole tempo degli archivi costituì negli anni successivi, anche per ragioni di misura editoriale, l’ambito privilegiato di indagine degli studi ospitati dai periodici, e in particolare da “AFT”, mentre buona parte delle altre proposte espositive e soprattutto editoriali dava corpo alle preoccupazioni espresse da Quintavalle e continuava ad esercitarsi solo su alcune, poche figure chiave: Wilhelm von Gloeden innanzitutto (e, quasi di conseguenza, Guglielmo Plüschow), a cui nel periodo considerato vennero dedicati ben cinque titoli che si aggiungevano alla ricca produzione degli anni della ‘scoperta’ nella seconda metà del decennio precedente; poi Giuseppe Primoli, sul quale si pubblicarono nel triennio 1980-1982 ben quattro saggi oltre alla riedizione del volume di Lamberto Vitali, e ancora: Giorgio Sommer e Alphonse Bernoud, Robert Macpherson e gli Anderson; gli Alinari naturalmente, e Bresolin e Naya; Brosy e Unterveger; la dinastia dei Wulz; Pietro Semplicini e Icilio Calzolari, mentre emergeva la figura di Pietro Poppi, oggetto di ben quattro studi (tra i quali una tesi di laurea[778]) nel periodo 1980-1987. Nomi e figure che ricorrevano nelle pagine dei cataloghi e dei volumi editi sullo scorcio degli anni Settanta, sottoposti ad attenzioni nuove che si traducevano – nei casi migliori e più interessanti – in ricognizioni archivistiche o nell’ampliamento del repertorio, ma con un generale atteggiamento, forse necessario, forse inevitabile, di scavo archeologico, di pura riesumazione del reperto e del dato, tipiche di quel clima di fervore e confusione, di vitalismo delle iniziative e degli studi di cui si sentiva grande necessità ma che ancora doveva darsi metodo e misura. Tra i circa centoquaranta contributi monografici pubblicati negli anni Ottanta, più rari risultavano quelli dedicati a fotografi di ambito strettamente locale, nei quali l’interesse per la loro produzione toccava aspetti diversi: dalla storia della pratica fotografica (del mestiere di fotografo) alla testimonianza antropologica e di costume, considerate sempre nelle loro specificità documentarie e tenendo ben lontana ogni lusinga revivalistica. La loro distribuzione geografica si concentrava in quelle aree in cui più precoce e attrezzata si era dimostrata la preoccupazione per il patrimonio fotografico storico: il Veneto, la Toscana e soprattutto l’Emilia Romagna, con i diversi poli rappresentati dall’IBC, dal CSAC e dalla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, la cui Fototeca diretta da Laura Gasparini, promosse in quegli anni una serie di studi monografici legati ai fondi progressivamente acquisiti[779].
La prima monografia su Vittorio Sella[780] – certo tra gli autori più noti del nostro XIX secolo – riguardava le sole campagne extraeuropee, e si avvaleva di un lungo saggio introduttivo a firma di Piero Racanicchi[781], tra i primi in Italia ad analizzare criticamente le opere di questo fotografo[782], che ne ricostruiva a grandi linee gli anni di formazione e di attività, attingendo verosimilmente anche a documentazione conservata presso l’archivio di famiglia ma purtroppo senza mai indicare alcuna fonte, senza fornire rimandi in nota, com’era del resto consuetudine nella pratica giornalistica, anche la più qualificata.
Nel presentare l’anno successivo il catalogo della mostra a lui dedicata, il direttore del Museo Nazionale della Montagna di Torino, Aldo Audisio, richiamava quel precedente, in cui era stato “tracciato un profilo preliminare e divulgativo”, ma ne prendeva le distanze in termini di impostazione e di metodo: “nuovi collaboratori, seguendo una logica di rinnovamento nella ricerca, si sono affiancati a quanti in passato dedicarono tanto lavoro al Sella. Hanno individuato nuove fonti e documenti d’archivio che integrati alle preesistenti ricerche delineano e individuano altri lati della polivalente e composita personalità del grande fotografo.”[783] Il gruppo di lavoro impegnato nell’impresa coincideva di fatto con quello dei redattori di “RSCF”, del resto pubblicata da Priuli e Verlucca, coeditore del catalogo, a cui si affiancarono Giuseppe Garimoldi, grande specialista della fotografia di montagna, e Lodovico Sella, presidente della Fondazione omonima e pronipote di Vittorio, autore della cronologia biografica. Le scelte metodologiche adottate sia in ambito storiografico che espositivo ed editoriale, essendo questi aspetti strettamente congiunti, erano chiare: non si era inteso infatti produrre “una pura esposizione-ricostruzione della figura e dell’opera” di Sella, né fornirne un quadro completo, ma delinearne “i rapporti con un complesso humus culturale, politico, economico; le relazioni che intrattenne con gli esploratori, con gli alpinisti fotografi e i fotografi alpinisti (…); i rapporti che la sua opera ebbe con la fotografia e la cartografia.”[784] Scontate certe ingenuità declamatorie, il risultato fu di grande rilievo; frutto evidente di una precisa consapevolezza critica che si misurava anche con gli aspetti più propriamente filologici dell’esposizione e della pubblicazione, sottolineando come non fosse sufficiente pensare alle immagini in termini riduttivamente referenziali ma ci si dovesse rivolgere alle fotografie, considerate nella loro materialità di oggetto culturalmente determinato. Pur condividendo in certa misura le opinioni in proposito espresse a suo tempo da Settimelli, la scelta curatoriale si era orientata in tutt’altra direzione: “Certo: in fotografia, se si può parlare di originale, questo può essere solo il negativo, sebbene, come ben si sa, anche il negativo possa essere riprodotto [ma] dalle stampe che qui per comodità definisco originali e che sono da intendersi come prodotte dall’autore, si impara molto di più che dalle migliori riproduzioni. (…) E comunque, tenendo come punto di partenza il negativo, le stampe positive d’epoca prodotte dall’autore sono quasi certamente le interpretazioni più autentiche del negativo stesso.”[785] Per analoghe ragioni si scelse di “riprodurre senza il minimo taglio le immagini, comprendendo in questa operazione anche i bordi annotati personalmente da Sella, gli ‘appunti’ che andava prendendo sulle fotografie e, in alcuni casi, le linee tracciate a matita per eventuali tagli e ingrandimenti; di qui l’esporre in mostra, accostandole l’una all’altra, stampe differenti della medesima immagine, per evidenziare la diversa percezione che si ottiene con manipolazioni e formati diversi.”[786] Una produzione esemplare[787] tra quelle che segnarono quegli anni di prima effettiva attenzione storiografica per la fotografia italiana e più in particolare per la fotografia alpina, tema che il Museo nazionale della Montagna avrebbe approfondito negli anni successivi, e sino ad oggi, nell’ambito di un “Progetto Alpinismo” che vide tra le realizzazioni successive le mostre dedicate a Guido Rey, ai fratelli Piacenza e a Mario Gabinio. Mentre queste ultime nascevano da suggestioni varie[788], la prima monografia[789] dedicata a Guido Rey ne ribadiva il ruolo di figura centrale della cultura pittorialista italiana tra XIX e XX secolo; un autore che Miraglia aveva compreso tra i componenti della “scuola biellese” sulla base di una presunta comunanza di interessi per “la ripresa e la documentazione d’alta montagna con fini scientifici”[790], senza però tener conto del fatto che Rey era stato non più che “un buongustaio dell’alpinismo”, come aveva già a suo tempo chiarito Massimo Mila[791]. Fu comunque quello l’ambito privilegiato d’indagine della mostra torinese, mentre Angelo Schwarz affrontava in catalogo la questione della sua produzione pittorialista, non senza aver sottoposto a revisione la legittimità di quella stessa aggregazione “biellese” cui pure aveva a suo tempo aderito[792]: “Ma di scuola veramente si tratta (…)? Se la storiografia della fotografia non si esaurisce nella fotografia & fotografia, e tutt’al più nella storia dell’arte, forse si possono prospettare altre eventualità. In una certa parte dell’aristocrazia nobiliare, dell’alta borghesia imprenditoriale e degli intellettuali piemontesi, un ruolo non secondario giocano il rapporto con l’ambiente montano, collinare e lo sport dell’alpinismo.”[793] Precisazione necessaria, che apriva importanti prospettive nella comprensione dell’attività di altri torinesi delle generazioni successive, da Gabinio ai membri del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica, figure centrali del nostrano passaggio a un moderato modernismo[794]. Restavano però da comprendere gli eventuali nessi con la produzione pittorialista[795], la sola a cui lui di fatto affidava e su cui ancora oggi si fonda la sua fama di fotografo. Per provarsi a darne conto Schwarz delineava una breve sintesi storica del fenomeno e della fortuna critica di Rey così come del suo ambiente di formazione, tra Biella e Torino, ma senza poi indagare le possibili ragioni di quella dicotomia profonda tra fotografie di montagna e composizioni in costume, tra resoconto e invenzione citazionista se non credendo di riconoscere nelle sue “composizioni fotografiche permeate di intimismo domestico, storicismo ed esotismo” una manifestazione dei “malori (…) della sua generazione, e di una parte della classe al potere, che fatica a reggere il confronto con le emergenze sociali.”
Le numerose iniziative in territorio veneto avevano mostrato una inevitabile predilezione per la scena veneziana[796] ma senza escludere attività e autori operanti in altre città. Nell’affrontare la produzione di Moritz Lotze, attivo a Verona, e in misura minore dei suoi figli, i curatori[797] delineavano le figure e le pratiche che avevano segnato quel territorio negli anni determinanti del passaggio al Regno d’Italia del Lombardo Veneto e dell’affermazione delle lastre al collodio, assegnando alla cultura, anche artistica, di Lotze come alle sue capacità imprenditoriali le ragioni della sua affermazione, determinata anche dalle numerose collaborazioni con quegli studiosi attenti ai “nuovi criteri di verità” nella restituzione del reale che la fotografia era in grado di offrire. Quella rete di relazioni, di occasioni e di stimoli dava ragione dell’eterogenea produzione di Lotze, dal ritratto alla fotografia di documentazione scientifica e d’arte, alle vedute, nelle quali “la presenza della natura e l’attenzione tardo romantica verso la rovina, prevalgono sulla rappresentazione documentaria del monumento.”[798] Era quello un ulteriore, autorevole esempio che dava corpo a un problema posto da alcuni già in quegli anni e che si sarebbe poi ripresentato in modo più articolato nell’ultimo decennio, vale a dire quello della difficoltà se non proprio della sostanziale impossibilità di riconoscere ancora nella prima età del collodio una fotografia che potesse dirsi italiana; provandosi semmai a segnalare le tracce di un percorso di formazione che del resto si incrociava con la stessa nascita, non solo istituzionale, della nazione. Da quelle preoccupazione era uscito “uno dei più impegnati studi sull’Ottocento fotografico italiano indagato nei suoi stessi protagonisti. Il tratto saliente e più significativo (…) sta soprattutto nell’apertura di campo, legata alla sensibilità dei suoi curatori (…) giustamente persuasi che la storia della fotografia non possa prescindere, anzi sia strettamente legata all’analisi della cultura, specie figurativa, del periodo in cui si pone.”[799] La novità e il contributo più rilevanti in termini di metodologia erano però costituiti dal catalogo delle opere, articolato per generi, dove ciascuna sezione era aperta da un’antologia di immagini significative a cui seguiva il repertorio specifico, con riproduzioni minimali di tutte le fotografie, ciascuna dotata di una accurata scheda didascalica con indicazione di autore, titolo e tecnica del fototipo pubblicato[800], misure e collezione di provenienza, mentre in una sezione a parte erano riportate e descritte le tipologie e le varianti di supporti secondari e timbri commerciali. Questi importanti criteri di edizione di un repertorio fotografico vennero adottati anche per la pubblicazione del successivo catalogo dedicato alla Studio Ferretto di Treviso, che vedeva tra i curatori ancora Alberto Prandi[801]. Qui, anzi, il senso dell’operazione assumeva valenza più ampia e rifletteva il progetto da cui era nata l’esposizione, vale a dire l’inventariazione (pratica allora rara) dei fondi della Biblioteca Comunale di Treviso avviata due anni prima, verificandone datazione e provenienza e predisponendone l’ordinamento. In quella prospettiva venne definito il progetto di mostra, che non doveva limitarsi ad essere un “patinato excursus storico, ma [doveva agire da] forza trainante per il lavoro interno di sistemazione, versando le pur importanti acquisizioni monografiche in un metodo, nella messa a punto di strumenti suscettibili di ulteriori applicazioni”[802]. Quel progetto delineava inoltre un nuovo possibile ruolo della Biblioteca civica, che si candidava ad essere il polo di attrazione e raccolta delle collezioni sparse sul territorio e a rischio di dispersione, prefigurando per molti versi il FAST (Foto Archivio Storico Trevigiano) che nacque pochi anni più tardi, nel 1989, ma per iniziativa dell’ente provinciale.
Tra catalogo e repertorio si muovevano anche le Note metodologiche anteposte da Giancarlo Roversi[803] alla schedatura del Fondo Poppi conservato nelle collezioni d’arte della Cassa di risparmio in Bologna, nelle quali affrontava una serie di problemi posti dal riordino archivistico e dalla catalogazione dei fototipi che qui interessa richiamare, pur senza entrare nel merito, per sottolinearne la novità metodologica e per la loro stessa presenza, più inedita che inconsueta a quella data. Quelle Note facevano parte della prima monografia dedicata a Pietro Poppi, con testi di Andrea Emiliani, Italo Zannier, Giovanni Ricci e un primo, accurato repertorio dei fotografi bolognesi a firma di Franco Cristofori. Negli anni immediatamente successivi comparvero ulteriori indagini e letture critiche della sua opera[804], che richiamavano ancora (come per gli Alinari letti da Cervellati) l’idea di catalogo come censimento del patrimonio artistico e architettonico e per questo non riuscivano a integrare in un insieme organico la produzione ‘artistica’ di Poppi, per la cui interpretazione credo che sarebbe stato utile provarsi a un confronto con un autore tanto apparentemente lontano quanto Von Gloeden[805]. Nel saggio di apertura di quel primo volume Emiliani richiamava fin dal titolo i concetti espressi nel suo intervento modenese dell’anno precedente e chiariva come in quel contesto collezionistico l’interesse del Fondo Poppi risiedesse prevalentemente “sul referente, e cioè sul ‘rappresentato’, ponendolo in ogni modo in rapporto con la fruttuosa ricerca circa l’origine storica, i modelli culturali ed economici, gli strumenti tecnici dei primi fotografi attivi nella città di Bologna.”[806] Le ragioni di quella posizione erano chiarite poco dopo: “se insisto, come faccio, per il riconoscimento di una esatta dimensione strumentale ed operativa del documento fotografico, è anche perché molte fra le proliferanti, spesso notevoli iniziative di ‘scoperta’ oppure di ‘riscoperta’ della fotografia, sembrano poggiarsi tranquillamente su sopori e sapori estetici e formali, arricchiti magari da nozioni di squisita tecnologia dell’immagine: entro le cui degustazioni tuttavia il referente, cardine sovente primario della volontà dell’immagine, sua promozione e causa, si smaglia e si degrada a occasione indifferente.” È per questa precisazione, per quello specifico richiamo alla “testimonianza fotografica come documento e come istante esistenziale”, come opera che si colloca “esattamente nel punto ove si intersecano la realtà e ciò che della realtà suppone conoscere l’operatore (e quindi fra l’oggetto e la visione che la società ne esprime)” che possiamo apprezzare ancora oggi una posizione che di primo acchito poteva sembrare riduttiva e che invece conteneva, oltre che una grande maestria storica, la volontà di coniugare le recentissime suggestioni del ‘realismo’ barthesiano de La chambre claire con la necessità di adottare “un metodo corretto e il paragone di concrete opportunità che ne portino il valore fino alla soglia della conoscenza e del pubblico servizio.”[807]
La novità ulteriore della produzione saggistica di quel decennio era però rappresentata da un crescente interesse per autori del XX secolo (Gabinio, Balocchi, Massimo Sella) e per la puntuale ricostruzione di elementi cruciali della vicenda fotografica tra le due guerre quali il ruolo svolto dagli annuari del “Corriere Fotografico”, offrendo materiali ulteriori per la costruzione di una storia italiana estesa sino alla contemporaneità.
Nel corso della riunione editoriale Einaudi del 6 dicembre 1978 Giulio Bollati presentava ai colleghi “il libro di Avigdor su Gabinio. È bellissimo”[808]. Il volume, concepito forse sulla scia del buon successo della mostra dedicata ai Fotografi del Piemonte dell’anno precedente curata dallo stesso Avigdor, per ragioni non note venne pubblicato solo nei primi mesi del 1981 e non dovette godere di immediata circolazione se il nome di Gabinio non compariva tra quelli degli autori considerati da Alinovi, sebbene “gli anni trenta, lungo i quali si esaurisce la [sua] biografia, offrono i risultati più alti, nel segno di una ricerca sempre più raffinata delle possibilità che son dentro la fotografia.”[809] Quella puntuale indicazione critica, verosimilmente dovuta a Bollati, a cui il volume era dedicato e che aveva avuto larga parte nella sua realizzazione, riscattava la figura di questo autore portato agli onori delle cronache nel 1974 nell’ambito di una nostalgica iniziativa espositiva dedicata alla Torino degli anni Venti[810]. La monografia di Avigdor[811], tra le prime dedicate in Italia a un autore del Novecento, presentava numerosi motivi di interesse sia nel merito specifico sia in termini di metodo per la puntuale descrizione delle caratteristiche tecniche delle stampe riprodotte e per l’accuratezza degli apparati posti in appendice[812]. Ancora intorno alla scena torinese ruotava il lavoro dedicato agli annuari Luci ed Ombre[813] pubblicati da “Il Corriere Fotografico” tra il 1923 e il 1934; il ruolo svolto dalla rivista torinese e dal Gruppo piemontese per la fotografia artistica nella promozione di un misurato rinnovamento della fotografia italiana era presentato nel contesto della “città laboratorio” torinese di gramsciana memoria, qui delineato da Valerio Castronovo, per essere poi più compiutamente descritto nei due saggi di Zannier[814] e Costantini. Il primo poneva immediatamente la questione, certo nodale, dei rapporti con il fascismo e la sua appropriazione di una visione modernista, ma traendone conclusioni affrettate a proposito del fatto che sulle pagine di “Luci ed Ombre” non si facesse “cenno alla mistica fascista, alle sue pretese estetiche.” Se questo era in buona parte vero non poteva però essere considerato un elemento di fronda o almeno di distanza, essendo molti dei protagonisti di quella vicenda (Bologna, Bricarelli, Bellavista, Parisio, solo per citarne alcuni) attivi e presenti con proprie immagini in molte pubblicazioni del Regime. Il tardo pittorialismo che caratterizzava la prima produzione così come le caute aperture moderniste successive erano semmai tutte interne a un esercizio della fotografia come diletto, priva di implicazioni o di funzioni sociali che non fossero riservate all’universo salonistico promosso e favorito dagli stessi periodici e associazioni fotografiche. Si potrebbe forse dire che il nodo della questione, neppure accennato in quel contributo, stava nella dicotomia quasi schizofrenica che vedeva non pochi dei fotografi presenti sulle pagine di quell’annuario, e certo i più importanti, assumere posizioni e ruoli differenti: da un lato il professionismo, progressivamente condizionato quando non esplicitamente aderente alla cultura fascista, dall’altro la ricerca amatoriale avulsa dal contesto, quasi che solo nel distacco dalla realtà, anche tragicamente politica, potesse esserci luogo per una produzione che si voleva artistica. Posizione ancora tutta e pienamente ‘pittorialista’ quindi, a prescindere dagli esiti e dagli aggiornamenti formali. Ma forse queste erano questioni troppo specifiche, inappropriate al taglio divulgativo dell’occasione, e quindi del saggio, che procedeva didascalicamente considerando in modo puntuale i diversi autori. Quasi un ragionato elenco[815]: un nome un commento, proseguendo anno per anno col segnalare gli esiti più significativi ma confermando di fatto le pesanti riserve già espresse nei saggi degli anni precedenti. Mentre Zannier guardava alle immagini, il saggio di Costantini[816] si rivolgeva piuttosto all’analisi dei testi posti a commento, alla ricerca delle varie posizioni critiche, per quanto embrionali e poveramente espresse, rispetto al problema della formazione di una cultura fotografica italiana. “La rivista, e più tardi il suo annuario, attraverso il suo gruppo dirigente, si vuole proporre come un laboratorio della fotografia italiana ‘moderna’, in cui si confrontino coloro che si interessano ‘privatamente’ di fotografia”, escludendo o meglio separando e distinguendosi (almeno apparentemente, come si è detto) dalla professionalità e dai ruoli che questa implicava. Pur con questi limiti “quella di Luci ed Ombre, o dello stesso ‘Corriere Fotografico’, non fu dunque, nel suo complesso, un’esperienza di eccezionale incisività per la definizione del carattere della fotografia, ma vi contribuì comunque in maniera decisiva con un’autorità inedita alle altre pubblicazioni.” Il giudizio, per molti versi condivisibile, si mostrava però fortemente condizionato dai limiti eccessivamente circoscritti entro i quali veniva formulato, derivati da un confronto tutto interno a quell’esperienza, ancora tradizionalmente, ambiguamente ‘artistica’, che non teneva nel debito conto quanto negli stessi anni accadeva in termini di rinnovamento della cultura e del linguaggio fotografico, specialmente in area milanese, in riviste come “La Casa bella”, “Domus”, “Natura” o “Campo grafico”, il cui primo numero era uscito nel 1933.[817]
Facendo tesoro delle ricognizioni documentarie condotte per la pubblicazione del volume dedicato alla Cultura fotografica in Italia[818] Zannier pubblicava nel 1986 presso Laterza la sua Storia della fotografia italiana[819]; un’ampia rassegna con un apparato iconografico[820] di peso sostanzialmente equivalente a quello del testo che per la prima volta considerava tutto l’arco cronologico delle vicende della nostra fotografia, organizzata in sei ampi capitoli articolati in brevi paragrafi tematici, con una sintetica “Bibliografia generale” che conteneva però solo una piccola parte degli studi utilizzati e citati in nota[821]. Con una scelta certo singolare la copertina mostrava un’opera di Luca Patella, assunto forse a simbolo di quell’ approccio ‘concettuale’ che sembrava essere stato l’apporto più significativo della stagione artistica appena trascorsa e uno degli elementi che aveva maggiormente contribuito alla riconsiderazione della fotografia nel suo insieme. Quella suggestione si riverberava anche sull’interpretazione della preistoria del mezzo, che individuava la camera obscura come “stimolo concettuale per coloro che erano pervenuti all’invenzione della fotografia” e il nuovo medium come “conseguenza logica della prospettiva”, ma senza poi soffermarsi a motivarne il senso o eventualmente trarne conseguenze storiografiche, poiché l’autore preferiva dedicarsi alla registrazione se non proprio dei fatti almeno dei dati e delle notizie. Per queste ragioni il libro, privo di introduzioni o premesse, apriva direttamente con la questione delle origini e della diffusione della notizia in Italia (riprendendo lo schema adottato per la mostra e il volume del 1979) ma senza apportare innovazioni né di metodo né di merito, anzi la repertoriazione delle fonti e della bibliografia pareva anch’essa ferma a quasi un decennio prima, nonostante la recente pubblicazione dell’antologia curata con Costantini. Così a proposito delle prime sperimentazioni italiane col dagherrotipo Zannier parlava di “prove leggendarie, delle quali però, anche se oggettivamente eseguite, non rimane traccia”, dimenticando la Veduta della Gran Madre di Dio realizzata a Torino da Enrico Federico Jest nell’ottobre del 1839 che era stata esposta alla mostra Fotografi del Piemonte del 1977 e poi pubblicata nel 1980[822]. Un indizio significativo delle modalità di progettazione e strutturazione del volume, strettamente dipendenti dalla ricerche pregresse dell’autore, ciò che si rifletteva non solo nelle eventuali lacune ma anche in una distribuzione dei pesi a cui risultava difficile assegnare un valore solo storico critico. Così nel considerare opportunamente il fenomeno dei primi fotografi itineranti o migranti il quadro che ne risultava non pareva tanto condizionato dalle difficoltà di reperimento e studio delle fonti quanto dal riuso (per quanto legittimo, ovvio) di elaborati precedenti, come accadeva per la figura di Ferdinand Brosy o – in altro contesto – per il rapporto tra Talbot e Amici, la cui scelta come casi di studio appariva dettata dalla disponibilità di materiali semilavorati piuttosto che da rilevanti ragioni storico critiche.
Il capitolo successivo considerava l’introduzione delle emulsioni al collodio e la nascita dei grandi atelier, avviati da fotografi con una inevitabile formazione autodidatta ma che furono in grado, come nel caso paradigmatico degli Alinari presentato da Zannier, di tramutare la loro dimensione operativa da studio ad azienda. Dinamica certamente vera, ma – diversamente da quanto lì suggerito – che Italia si definì in un periodo significativamente più lungo di quello della cosiddetta età del collodio, né la proposta assimilazione dei loro operatori agli operai della nascente industria, per quanto suggestiva, pareva tener conto delle forti individualità impiegate specie in fase di ripresa. Più interessante dal punto di vista metodologico il richiamo alla necessità di studiare i cataloghi a stampa, dei quali però non venne considerata tanto la rilevanza e la novità quali strumenti di strategia commerciale quanto il loro interesse come fonte testimoniale dei “valori da essi assegnati (…) ai monumenti e alle opere” riprodotte, derivati e dipendenti “dagli stereotipi settecenteschi”, ciò che – secondo l’autore – non era però frutto di un’adesione ai modelli dominanti della cultura visiva quanto piuttosto una deriva biografica di questi “mediocri pittori o intraprendenti calcografi”, che si erano rivolti alla fotografia perché “sembrava poter assolvere per sé stessa alla carenza di un talento artistico autentico”, ripercorrendo così pedissequamente le tracce critiche indicate da Silvio Negro giusto un trentennio prima. L’accenno all’estrazione sociale e culturale di quella generazione di fotografi recuperava una sua dignità storico sociologica nel prosieguo del capitolo, sino a definirne la struttura discorsiva, fatta di brevi paragrafi intitolati alle professioni di provenienza (aristocratici e benestanti; ottici, meccanici e macchinisti; pittori-fotografi; farmacisti, ingegneri e medici; fotografi di bottega) ma come accadeva sovente in Zannier, sul disegno generale prevaleva il dettaglio aneddotico e non emergeva il senso dell’interpretazione storica del fenomeno, tanto meno quando a questa disamina subentrava un “rapido itinerario [e] sintetico elenco”, ordinato ora su base geografica. Connesso sin dal titolo a una più specifica lettura critica era invece il terzo capitolo, che affrontava il passaggio dalla massificazione alla fotografia artistica con il delinearsi del ‘dilettante fotografo’; figura sociale nuova a cui era destinata una sempre più ricca produzione editoriale di periodici e specialmente di manuali di forte impronta tecnicistica, influenzata quando non direttamente determinata dalla nascente industria fotografica. Secondo uno schema ben noto, Zannier interpretava come reazione al processo di massificazione la nascita del fenomeno che lui stesso variamente definiva pittoricismo, pittorialismo o fotografia artistica, a cui aggiungeva, con una intuizione inedita, la considerazione che “ad alimentare il mito della fotografia artistica non potevano comunque mancare gli artisti per antonomasia, ossia i pittori.”[823] Le fonti sinora disponibili sembrano contraddire una tale convinzione, che avrebbe potuto assumere almeno un suo preciso e stimolante valore interpretativo se fosse stata criticamente sviluppata, ma il testo procedeva con la reiterata damnatio della retorica “sbracata” della produzione pittorialista “che spesso invece oggi il revival o la considerazione della rarità dei procedimenti hanno condotto a una inconsulta rivalutazione, che potrebbe trovare spazio o interesse soltanto a livello filologico”; con ciò lasciando intendere in quale considerazione avesse l’esercizio della filologia. Più interessante e definito il giudizio sulla lunga durata del fenomeno che almeno in Italia “resistette fino alla fine degli anni ’30 e fu anche un alibi per eludere durante il fascismo, quegli impegni e quelle responsabilità che il fotografo, come testimone della storia, avrebbe invece dovuto accettare come funzione primaria del mestiere.” Era quell’ “occultamento del reale” di cui aveva parlato Bollati nel 1979, comune anche al fotogiornalismo del periodo, di cui più oltre Zannier ribadiva la “banalità”, da intendersi semmai come accondiscendenza quando non come esplicito sostegno al Regime, ma con una articolazione e una complessità (propria di gran parte del mondo culturale di quegli anni) che qui non venne affrontata, limitandosi semmai a segnalare opportunamente quelle esperienze e quelle produzioni che in qualche modo fecero fronda, come “Omnibus” di Leo Longanesi, o che si caratterizzavano per lo sforzo di una comunicazione editoriale aggiornata quale il mondadoriano “Tempo”, considerato, “l’unica esperienza di orientamento internazionale del fotogiornalismo italiano”, facendo così proprio il giudizio di Carlo Bertelli.
Il percorso cronologico tornava a muoversi a ritroso per affrontare gli ambiti della Fotografia scientifica e istituzionale; tema quanto mai complesso e interessante per essere quello che in modo più cogente da sempre interroga e mette a frutto, magari ideologicamente, l’apparente oggettività della documentazione fotografica, la sua capacità di ‘riproduzione’ ancor prima e oltre la sua riproducibilità, con ciò consentendo “il passaggio dalla scopia alla grafia” e il conseguente lavoro analitico e comparativo di matrice positivista. Peccato che a questa affermazione critica non facessero seguito le necessarie considerazioni epistemologiche e tutto fosse ridotto, ancora una volta, a una sequenza di paragrafi la cui stessa grande parcellizzazione era indice della difficoltà di articolare storicamente i fenomeni. Si passava così dalla microfotografia alla fotogrammetria, senza dimenticare quella giudiziaria né la documentazione del patrimonio artistico e architettonico, ma senza cogliere o suggerire nessi; senza una cornice che non fosse quella data dal titolo del capitolo. Sola, intrigante intuizione era il riconoscimento del legame tra ideologia dell’oggettività e pratica della fotografia spiritica[824], ma si trattava di poco più che un cenno all’interno di una rassegna in cui erano fatte rientrare anche le riprese della Sindone realizzate da Secondo Pia nel 1898. Il capitolo che seguiva era posto sotto l’insegna modernista de La ricerca dello specifico, sebbene poi oltre il titolo ci fosse ben poco: la consueta rassegna di nomi ed episodi disgiunta dalla lettura critica delle numerose immagini che pure erano pubblicate. L’apertura era dedicata al Fotodinamismo dei Bragaglia, riconosciuto quale “primo episodio di fotografia concettuale”, ma per Zannier “la trasgressione ai canoni tradizionali della fotografia (…) era stata in apparenza troppo radicale, senza concessione alcuna ai canoni estetici della fotografia di quegli anni, per essere considerata un modello. (…) Basta scorrere gli indici delle riviste specializzate (…) pubblicate in quel periodo, per comprendere la distanza dei Bragaglia da tutto ciò che allora si intendeva per fotografia.” Nonostante il ricorso a una formula limitativa (“in apparenza”) il giudizio risultava netto ed opposto a quello espresso da Carlo Bertelli nel 1979 che, proprio basandosi su alcuni giudizi espressi da Anton Giulio a proposito di “Arte fotografica” rilevava quanto fosse “lontano dal riconoscimento dei nuovi valori” sostenuti dalla giovane critica italiana di Lionello Venturi e Roberto Longhi, sensibili alle suggestioni delle avanguardie. L’incertezza della produzione italiana del periodo venne restituita da Zannier con brevi cenni alle influenze pittorialiste che segnarono la produzione di Mario Nunes Vais ed Emilio Sommariva, accostate alle oscillazioni del gusto nelle ricerche, curiosamente definite “fotoamatoriali”, di autori come Achille Bologna, Stefano Bricarelli e Italo Bertoglio, mentre mancava ogni cenno all’operare eccentrico di Mario Gabinio, a cui pure era stata recentemente dedicata una importante monografia[825]. L’indagine si addentrava poi nel decennio che precedeva la seconda Guerra mondiale richiamando le suggestioni offerte dell’edizione italiana di “Galleria” ed il ruolo svolto da Mario Bellavista, la cui ricerca – per Zannier – era “stata assai vicina a quella di Weston o di Renger-Patzsch”. Apprezzamento di cui non si sa se accogliere benevolmente le intenzioni o stigmatizzare il pressapochismo, mentre più interessante e proficuo appariva il richiamo al ruolo di rinnovamento svolto dalle riviste di architettura e in parte dagli architetti fotografi come Pagano o i BBPR “che parteciparono al lavoro redazionale di ‘Tempo’ (…) con fotoracconti sulla città, in una prospettiva insolita, assi critica e rivelatrice”, così come dalle prime prove “non oggettive” di grafici come Grignani e Veronesi o – in diversa misura – Boggeri. Infatti “la fotografia ‘astratta’, che diveniva pagina pubblicitaria o copertina di un libro, non dava fastidio al Minculpop, preoccupato semmai di controllare l’immagine ‘riconoscibile’ del paese”, mentre gli stilemi della ‘nuova visione’ internazionale erano fatti propri dalla comunicazione istituzionale del Regime, come ben dimostra il caso esemplare della Mostra per il decennale della rivoluzione fascista del 1932.
Dallo specifico all’estetica fotografica il passo è breve e si compiva nel paragrafo successivo, dedicato alla messa a punto delle esperienze di quella nuova generazione di fotografi e critici che si era affacciata sulla scena italiana sullo scorcio degli anni Trenta, offrendo “il primo organico tentativo (…) di sistematizzare la problematica del linguaggio e dell’estetica fotografica, indicandone alcuni valori specifici”. Ne era derivata per Zannier addirittura la formulazione di una “teoria della fotografia” di ispirazione crociana, su cui fondavano la contrapposizione (che sarà cruciale anche per il successivo manifesto de La Bussola) tra fotografia artistica e documentaria, ma che soprattutto fu una “bella testimonianza di queste malinconie giovanili su cui si innesta un autentico rifiuto”[826]. Esito e sintesi di quel momento importante per il relativo rinnovamento della fotografia italiana fu come è noto l’annuario pubblicato da Domus nel 1943[827], a proposito del quale Zannier confermava il giudizio nettamente positivo già espresso nel 1978. Il racconto proseguiva poi sino alla più stretta contemporaneità con analogo impianto mentre si riconfermava, forte, il senso di mancanza di un disegno storiografico identificabile, di un’analisi storica e culturale (ma le due mappe sono in parte sovrapponibili) delle forme e varianti della produzione e della comunicazione fotografica, troppo spesso poco più che accennate, nella convinzione ingenua, ribadita ancora recentissimamente nella riedizione di quest’opera, che sia possibile fare una “storia ‘pura e semplice’, una collezione letteralmente sterminata di fatti ben documentati che non hanno bisogno di interpretazioni sofisticate, che sono accessibili a tutti.”[828] Per Paolo Costantini che lo recensì si trattava di una “sintesi storica, quindi necessariamente condizionata dalla obbligata sinteticità (…) che offre numerose coordinate per analisi più circostanziate, cui questo volume si pone ora come preziosa cornice di riferimento”[829], mentre per Sauro Lusini il lavoro di Zannier non presentava “grosse novità; è piuttosto un’esposizione aggiornata e sufficientemente completa di quanto già si sapeva per essere stato scritto in saggi e interventi di varia natura e di vario spessore (…) il merito indubbio è di aver dato sistematicità di trattazione all’argomento in una esposizione piana, di facile lettura (…) e non è merito da poco questo che permette oltretutto a un vasto pubblico di accedere a notizie altrimenti disponibili solo per il ristretto numero degli addetti ai lavori.”[830]
Il decennio appena trascorso era stato segnato dallo svolgersi di un’ampia e variegata serie di iniziative (libri, mostre, periodici) che testimoniavano un interesse per la storia della fotografia (non solo italiana) certo crescente ma ben lontano, almeno da noi, dall’essere consolidato e unanimemente accolto. Così, ad esempio, mentre Luigi Ghirri redigeva una serie di appunti di argomento storico per un suo importante ciclo di lezioni[831], una storica dell’arte autorevole come Paola Barocchi – che pure ne avrebbe poi considerato la storia “una disciplina nuova e fondamentale per analizzare e ricostruire mondi visivi diversi”[832] – non ritenne di includere alcun testo relativo alla fotografia nella preziosa raccolta di fonti sulla Storia moderna dell’Arte in Italia[833]. In un simile contesto l’anno centocinquantenario dell’invenzione (convenzionale come molti altri) costituì l’occasione per realizzare alcuni importanti progetti, elaborati da Paolo Costantini e Italo Zannier[834], ma vide anche, accanto a quelli e indifferente alle ricorrenze celebrative, la pubblicazione dell’importante saggio di Abruzzese a Grassi compreso nella “Letteratura italiana” di Einaudi. A questi si affiancarono numerose iniziative a scala regionale (Trentino Alto Adige, Toscana) e locale, interessando sia i centri maggiori che alcune aree più periferiche e marginali, ma non meno rilevante e significativa fu anche la pubblicazione di alcuni repertori e di numerosi studi monografici sia in forma di articolo che di volume o catalogo di mostra.
Lontani e quasi ignari delle inquietudini storiografiche della nascente critica postmoderna[835], gli studiosi italiani si confrontavano con due produzioni di impostazione diversamente modernista quali le traduzioni italiane del catalogo della mostra curata da Peter Galassi nel 1981 per il MoMA e della storia della fotografia scritta a più mani sotto la direzione di Jean-Claude Lemagny e André Rouillé[836] di cui si è detto, tradotta in italiano quasi allo scadere del 1988.
Proprio Galassi e Lemagny furono tra i principali relatori al convegno che si tenne a Genova il 7 e 8 aprile 1989, promosso dall’Ansaldo in occasione del riversamento su videodisco del proprio archivio fotografico. L’incontro intitolato alla Fotografia: dallo specchio del reale alla perdita di identità intendeva mettere a confronto studiosi di settore, storici e archivisti[837] intorno a questioni da lunga data irrisolte quali la nozione di documento applicata alla fotografia o le sue valenze artistiche, in un contesto culturale e tecnologico che si collocava alla soglia della rivoluzione digitale (essendo già ben presente l’informatica nell’elaborazione di basi di metadati a supporto dell’archiviazione elettronica delle immagini su memorie ottiche). In quell’occasione Galassi ripropose diligentemente le tesi del 1981, del resto ribadite nella Nota all’edizione italiana datata giugno 1988[838], mentre Lemagny avanzò alcune riflessioni sul rapporto tra fotografia di documentazione e fotografia d’arte. Altrettanto generali i termini dell’intervento di Zannier a proposito di Emergenze, stereotipi e trasgressioni nella storia della fotografia italiana, che offrì “un impianto problematico-interpretativo minimale ma comunque tale da produrre risultati interessanti” perché, nonostante numerose riserve, “ci pare pur sempre fuor di dubbio che procedere ad un lavoro di sistemazione di questi 150 anni di attività fotografica secondo questa prospettiva sia comunque lavoro importante, e per alcuni versi preliminare e necessario.”[839] Dopo una serie di interventi monografici e la presentazione di ricerche settoriali[840] la rassegna si chiudeva con alcune considerazioni di Fabrizio Celentano a proposito di conservazione, nelle quali sollecitava la convergenza di ricerche fisico chimiche e storico critiche, essendo la conoscenza delle tecniche “assolutamente imprescindibile per la conservazione del materiale”, dovendo però quelle indagini fondarsi “su una conoscenza approfondita delle tecniche in uso all’epoca in cui fu effettuata la fotografia (…) in un processo circolare di continuo accrescimento delle conoscenze [che] possono portare a confermare o approfondire le conoscenze degli storici.”[841] Indicazione importante, già avanzata in occasione della tavola rotonda su Conservazione e restauro delle fotografia quando, pur includendo ancora – pericolosamente – i processi di intensificazione tra i possibili interventi di ‘restauro’, lo studioso aveva richiamato la necessità di “iniziare un serio lavoro di ricomposizione delle due culture [poiché] questo non è lavoro da letterati o storici dell’arte, quali sono tradizionalmente la maggior parte dei conservatori. Ma non è neppure lavoro da tecnologi privi delle conoscenze indispensabili per comprendere i valori che si vogliono salvare.”[842] Questione nuova per la nostra cultura, ma certo non inedita essendo in parte stata affrontata già nel corso della tavola rotonda conclusiva del I Convegno nazionale sulla conservazione delle immagini fotografiche[843], coordinata da Arturo Carlo Quintavalle e dedicata a La ricerca fotografica per la conservazione e il restauro di immagini fotografiche. In quella occasione l’accento dei relatori[844] venne posto in particolare su procedure e tecnologie, ma con importanti aperture dedicate alla lettura filologica delle caratteristiche dell’immagine dovute ad Anne Cartier-Bresson, che aveva negato esplicitamente ogni validità alle ipotesi ancora attive di restauro chimico.
Il resoconto dei lavori del convegno di Genova redatto da Tomassini per “AFT”[845] assunse le caratteristiche di una approfondita riflessione metodologica fondata sul riconoscimento di due accezioni contrapposte e irrisolte della fotografia, intesa come espressione artistica (Zannier) o come forma e fonte documentaria (Ortoleva), senza che dai lavori fosse emersa una posizione unificante in grado di tener conto e applicarsi all’immenso campo di produzione, uso e studio della fotografia, poiché gli storici contemporaneisti disponevano di un impianto metodologico più solido ma collocato in un contesto in cui “l’analisi del linguaggio fotografico era utile e finalizzata a fare non una storia della fotografia, ma a fare storia attraverso la fotografia.” Restava cioè non risolta, e in parte addirittura non colta, la questione che “a 150 anni dall’invenzione di Daguerre, ancora ci dobbiamo interrogare (…) sul fatto se si possa configurare una disciplina capace di unificare nella sua analisi lo studio di tutto quello che si è prodotto in questo secolo e mezzo; una disciplina autonoma, con una metodologia ed un contenuto propri, con un accettabile statuto epistemologico; oppure se si debbano mutuare strumenti metodologici tipici di altre discipline, come appunto la storia o la storia dell’arte, per analizzare volta a volta i diversi tipi di produzione fotografica.” Tra le possibili strade da percorrere per affrontare metodologicamente il problema, di particolare interesse si prospettava quella indicata da Giulio Bollati, che aveva esteso l’orizzonte dei temi di indagine sino a prefigurare la necessità di una storia culturale: “Ci possiamo forse oggi domandare se esista la possibilità di fare una storia, oltre che della fotografia in quanto tecnica, o della fotografia in quanto forma d’arte, anche del modo in cui la fotografia si è collocata nel contesto della cultura del tempo, del modo in cui la fotografia è stata accettata (o respinta) dalla cultura dell’epoca e come se ne è definita volta a volta l’essenza e il concetto. Poiché ci pare non si possa negare che volta a volta il modo di vedere, o di valutare, di concettualizzare la fotografia è cambiato durante le varie epoche. (…) In altre parole, al di là dell’esempio specifico, quello che andrebbe studiato è il contenuto di modernizzazione della cultura da parte della fotografia come mezzo di comunicazione visiva: ovvero il modo in cui la fotografia partecipa al processo di sviluppo complessivo della società e della cultura fra Ottocento e Novecento.”[846]
Il triplice riconoscimento di “emergenze, stereotipi e trasgressioni” enunciato al convegno di Genova costituì il criterio con cui venne imbastita la mostra romana 150 anni di fotografia in Italia: un itinerario curata da Zannier e Costantini (così al frontespizio), costruita intorno all’opera di sedici grandi autori oltre alla firma Alinari: da Giuseppe Venanzio Sella a Paolo Gioli, secondo criteri che richiamavano inevitabilmente l’impostazione adottata da Peter Pollack nel 1958 e che già all’epoca avevano sollevato più di una perplessità. La breve introduzione al catalogo si segnalava per genericità (“Nei centocinquant’anni che sono trascorsi, oltre alla curiosità, l’emozione per la fotografia non è mai venuta meno”; “Paolo Monti veste la fotografia con una patina di cultura, che si rapprende in immagini di poesia” , ecc.) e per la riduzione del panorama storico a una serie cronologicamente ordinata di medaglioni, con scarsi nessi reciproci e senza alcuna attenzione per i vari momenti e contesti della vicenda culturale a cui ci si era richiamati a Genova, solo vagamente accennati nelle schede dedicate a ciascun autore. Non era certo quello di cui la storiografia italiana aveva bisogno per crescere e consolidarsi, così come risultava di scarso interesse l’ennesima riproposizione di immagini ben note, come la bella sequenza veneziana di Giuseppe Primoli già pubblicata da Vitali o le fotografie tardo pittorialiste di Massimo Sella (il terzo nella serie delle presenze di questa importante famiglia), di cui venne riproposto con poche varianti il portfolio già presentato su “Fotologia”[847], ma qui collocandolo sotto l’etichetta barthesiana[848] della “insistenza dello sguardo”; quella che aveva dato nome all’altra mostra, aperta poco prima a Venezia con il sottotitolo Fotografie italiane 1839-1989 e un gruppo di curatori (ora rigorosamente in ordine alfabetico) costituito da Palo Costantini, Silvio Fuso, Sandro Mescola e Italo Zannier.[849] Il testo omonimo di Costantini dichiarava in apertura l’intenzione di indagare criticamente “la natura della fotografia e la sua capacità di estendere la nostra percezione”, invitando l’osservatore “a porsi il problema di cosa possa esistere in una fotografia al di là della descrizione letterale della realtà quotidiana. (…) Mentre fissa con insistenza il suo sguardo indagatore e talora inquieto, la fotografia ha il potere di suggerire altre indicibili realtà, celate sotto una minuziosa descrizione superficiale.” Non la ricostruzione di un tracciato ma la messa a punto di un’ipotesi critica che potesse offrire elementi sufficienti per definire e leggere Un panorama (questo il titolo della prima sezione) della contemporaneità italiana più inquieta (tra suggestioni neotopografiche e ghirriane), in qualche modo supportata, almeno nelle intenzioni, dal riconoscimento di Una tradizione (così la seconda sezione). Una possibile genealogia che consentisse di rintracciare almeno idealmente le origini di “questo atteggiamento analitico e metodico”, scegliendo “opere della tradizione della fotografia italiana diverse per stile, tecnica e periodo nel quale sono state prodotte: ma che partecipano di un comune temperamento estetico sul visibile e l’atto stesso del vedere.” Non l’indicazione di una possibile storia della fotografia in Italia quindi, ma una proposta critica storicamente verificata allo scopo di presentare e interpretare una certa idea di fotografia italiana contemporanea, nella consapevolezza che “quello stesso atteggiamento meno immediato nei confronti del mondo reale (…) si ritrova in alcune immagini storiche”. Un’operazione di legittimazione genealogica per certi versi analoga a quella posta in atto giusto sessant’anni prima con la mostra Film und Foto (FiFo) organizzata a Stoccarda dal Deutscher Werkbund nel 1929.
Al testo di Costantini corrispondeva la sezione contemporanea, mentre il contributo di Zannier La fotografia è la fotografia apriva e accompagnava il percorso storico offrendosi come “una sintesi nel coacervo della sua storia” , destinata a illustrare la centralità di “questa nuova arte” nella società coeva. La serie di riflessioni e pensieri che lo costituivano affrontava il nodo della fotografia “nella logica della crescita esistenziale”, riconoscendo già qui le emergenze e i “conseguenti stereotipi”, le trasgressioni e le anomalie; anzi affermando come fossero proprio “queste ultime soprattutto [che] abbiamo voluto evidenziare” , ma senza poi procedere a una definizione esplicita di questa categoria interpretativa, che anzi ci pare fosse in palese contraddizione con l’assunto generale che ne determinò le scelte, condotte a partire dalla “attenzione specifica (…) del fotografo nei confronti della realtà; ossia la sua meditazione, anche istintiva, sull’identità linguistica della fotografia.” (corsivo dell’autore). Da queste contraddizioni non risolte discendeva l’articolazione generica della seconda parte (quella che avrebbe più propriamente potuto definirsi come storica) in cui la presentazione delle svariate forme e modalità di quello che Zannier chiamava il “mestiere dello sguardo” si risolse in una più che prosaica antologia, semplicemente disposta a ritroso, in cui inevitabilmente si ritrovavano molti degli autori presenti anche nell’esposizione romana: affinché si potesse chiudere il cerchio.[850]
Il contributo firmato da Alberto Abruzzese e Carlo Grassi per la “Letteratura Italiana” Einaudi offriva ben altri motivi di interesse e, quasi a voler rispondere alle migliori attese espresse dal convegno di Genova, riconosceva nell’avvento “della fotografia, che dell’immagine industriale e di massa è l’evidente affermazione” la forma originaria dei rapporti tra letteratura e media[851]. Per i due studiosi si trattava di provarsi “a risalire di volta in volta alle fasi genetiche del linguaggio preso in esame. (…) Se il punto cruciale dell’impatto tra letteratura e media sta (…) nel rapporto tra analogicità e digitalità dei linguaggi e se lo sfondo temporale, la chiave interpretativa che ne deriva, risiede nei ‘passaggi’ dalle tecnologie preindustriali alla riproducibilità tecnica e da questa alle tecnologie elettroniche, allora il primo capitolo non può che essere dedicato all’incrocio tra letteratura e fotografia, all’arco delle sue evoluzioni, dalle sue origini alla sua vita attuale.”[852] Ciò che rendeva notevole quel testo ben al di là del merito specifico era il contributo metodologico proposto e attuato, pur con grandi cautele critiche (che anzi lo rendevano prezioso) dai due studiosi, che individuavano il nodo problematico e il filo conduttore della loro analisi nella “pura e semplice ‘composizione’ del mezzo fotografico e [nella] natura del suo uso: il suo essere ‘luogo’ avanzato delle contaminazioni tra lavoro umano e lavoro meccanico, soggettività e automatismo, oggettività e interiorità, sguardo individuale e sguardo collettivo, produzione consumatrice e consumo produttivo. Autonomia ed eteronomia del linguaggio visivo, inscrizione e straniamento dell’attore.” Ne conseguiva che “il potere innovativo della fotografia non fu tanto o soltanto nella trasformazione della qualità e della quantità delle immagini socialmente operanti sul territorio (…) ma soprattutto nell’avere introdotto un rapporto epocalmente nuovo tra percezione umana del mondo e processi di automazione ‘artificiali’. Proprio con l’avvento di un dispositivo che verrà spesso teorizzato o pubblicizzato come rappresentazione autentica della realtà, l’uomo comincia a perdere il controllo del reale, a precipitare nell’irrazionalismo, nella ‘disumanità’, nel dominio fascinatorio della tecnica.” Da qui l’interesse mostrato per le origini, per l’avvento della fotografia in Italia “che va colto nel suo nascere come notizia, nel suo apparire come curiosità ‘europea’ (…) nel suo darsi alla divulgazione come racconto ibridamente sospeso tra scienza e mito, nel suo essere letteratura d’anticipazione, fascinazione ‘meccanica’ e ‘chimica’.” Ne risultava una trattazione che non si sottraeva a quella stessa ibridazione, facendo ricorso anche ai cosiddetti “antecedenti prefotografici” (da Della Porta a Celio) di evoluzionistica memoria contro cui aveva giustamente tuonato Schwarz a Genova, ma aprendo poi a suggestioni affascinanti e metodologicamente tanto utili quanto poco adottate nel contesto specifico della nostra storiografia fotografica. Si pensi a quella “forte consapevolezza della corrispondenza stretta tra nuove sensibilità dell’uomo industriale e linguaggio fotografico” che gli autori riscontravano “nella frequenza stessa con cui si diffondono in Italia i manuali per fotografi dilettanti (…) L’attrezzo e la fantasia si accendono sul mercato”; o ancora alla precisa individuazione di alcune caratteristiche fondamentali del rapporto pittura fotografia, uno dei leitmotiv di qualunque storia dedicata al mezzo, qui interpretato a partire dalla condizione specifica della relazione col testo che già fu dell’illustrazione, ma giungendo a considerazioni di ordine più generale: “L’immagine pittorica (in qualche misura anche omologabile, almeno per ‘tradizione’, al ‘prodotto artistico’), nel suo scarto palese tra rappresentazione e oggetto della rappresentazione, produce uno spaesamento ma lo consegna alle capacità mentali dei fruitori. Al contrario l’immagine fotografica (in larga parte affidata a meccanismi automatici che escludono la presenza dell’uomo e dunque, sempre secondo la tradizione, in una condizione anti-artistica), nel suo scarto occulto tra rappresentazione e oggetto della rappresentazione produce uno spaesamento che non può essere compensato, colmato, né dalla presenza/ assenza dell’immagine né dalla sola mente del fruitore. (…) La fotografia non può legarsi con ogni forma di scrittura, ma solo con quelle che rivelano un equivalente salto tecnologico, una modificazione altrettanto intensa del lavoro intellettuale impegnato nella produzione e nel consumo. (…) Analogamente la fotografia non può legarsi con ogni tipo di forma pittorica ma solo con quelle che rivelano un equivalente salto tecnologico e le modificazioni strutturali di cui sopra. Solo a questo punto la fotografia sviluppa la tradizione dell’arte, si fa pittura. Nel primo caso si tratta nel nuovo legame che viene a stabilirsi tra immagine fotografica e giornalismo o figure di letterati particolarmente attenti alle strategie di consumo. Nel secondo caso si tratta dell’innesto tra fotografia e avanguardie storiche.” [853] Su quelle premesse cresceva e si sviluppava l’analisi del rapporto tra scrittura e fotografia, affrontando alcuni momenti topici come il Verismo, il Futurismo o i rapporti con la carta stampata, ma anche le figure di Elio Vittorini e di Italo Calvino, offrendo contributi interpretativi che per coerenza e valore ancora oggi devono essere meditati da chiunque intenda affrontare un discorso più ampio sulla fotografia nel contesto della cultura italiana.
Il più significativo fenomeno del periodo fu però la crescita esponenziale di mostre e pubblicazioni dedicate a contesti locali; in troppi casi segnate dalle lusinghe di un “distorto ricorso alla storia, delle fughe nel tempo (ma nell’unità abitudinaria di luogo), in breve la nostalgia del com’era.”[854] Da Accadia (FG) a Zeri (MS) furono almeno una trentina le località di differente dimensione urbana e culturale[855] di cui in quell’anno si scoprì e si offerse al pubblico l’iconografia fotografica storica, solo in pochi casi cogliendo l’occasione per studiare l’attività e la figura di chi l’aveva prodotta. La qualifica di ‘locale’ racchiudeva però, e a volte occultava, problemi e accezioni tra loro dissimili, né direttamente proporzionali alla rilevanza del luogo. Così, ad esempio, il volume dedicato ad Amelia un secolo di storia allo specchio 1860-1960, curato da Franco della Rosa per il locale Gruppo di ricerca fotografica, si presentava come “paradigmatico ed esemplare, rispetto a un vero e proprio ‘genere’ che ha già prodotto molte prove di diverso valore (…) [che ha] una sua validità euristica (…) perché offre un frammento di visione di una realtà altrimenti irrecuperabile, [poiché] la cura della buona riproduzione, il rispetto per l’aspetto tecnico e oggettuale della fotografia, appare quasi, in questo campo, un equivalente della filologia nell’edizione di documenti per la storia.”[856] Notazione fondamentale questa espressa da Tomassini, che indicava un discrimine per la storiografia fotografica e non solo per l’edizione delle sue fonti iconiche, in contrasto con l’opinione espressa sulle stesse pagine da Fernando Tempesti, che recensendo un nuovo studio dedicato alla Trieste dei Wulz[857] segnalava come positivo il fatto che in questo volume “l’oggettualità delle foto è meno in primo piano.”[858] L’occasione che questi studi offrivano e sollecitavano per riflessioni di più ampio respiro non costituiva l’ultima delle ragioni del loro interesse, dovuto però alle qualità ermeneutiche dei recensori piuttosto che dei produttori, in particolare per quanto riguardava le questioni documentarie e il loro rapporto con la storia, che Tomassini intendeva come “attribuzione di senso, percorso logico che lega e connette i documenti in una visione della realtà che consiste essenzialmente nella ricerca di un nesso cronologico e causale fra gli eventi: e niente ha a che fare con i singoli pezzi di realtà che si rispecchiano nel documento isolato.”[859] Di più, e per meglio comprendere i limiti di queste operazioni, quando la storia locale non era in grado di formulare “una domanda di ordine generale (…) alle testimonianze offerte da un campo di esperienza limitato”[860], allora era “proprio la negazione della storia” ciò che ne risultava; produzioni che solo occasionalmente riuscivano a sollecitare almeno un interesse per il patrimonio locale non effimero né equivoco.
Altre furono le intenzioni, altri i presupposti e gli esiti di alcune ricerche a scala territoriale o urbana pubblicate in quell’anno, come i progetti relativi al Trentino Alto Adige e Tirolo[861] o alla Toscana[862]. Mentre il primo si presentava come un sintetico tentativo di delineare le vicende storiche della fotografia in quell’area di confine, e di conflitto, sulla scia lunga degli studi di Enrico Unterveger e poi di Floriano Menapace, il secondo si proponeva obiettivi più ambiziosi, confidando anche su una disponibilità di ricerche d’area incomparabilmente maggiore. Vennero così presentate alcune figure nuove e magari inedite di autori, nella consapevolezza che “la storia della fotografia a Firenze negli anni cruciali subito dopo la scoperta a tutt’oggi aspetta uno studio sistematico che possa ricostruire (…) le reali tendenze di stile e le personalità più emergenti dell’epoca”, con uno sforzo più che encomiabile di uscire dal rischio di appiattimento sul fenomeno Alinari (e in subordine Brogi); per non “dimenticare che prima o contemporaneamente ad Alinari nella città l’arte di fotografare veniva praticata da un sempre più alto numero di fotografi, della maggior parte dei quali però, e per le ragioni più varie, sono andate perdute le tracce, o comunque sono pervenute testimonianze assai ridotte rispetto alla reale posizione che dovevano occupare all’interno della categoria”. Fonte privilegiata per il recupero di quelle tracce, e del resto non nuova per la storiografia nazionale[863], furono le guide turistiche e commerciali, analizzate anche per comprendere “gli schemi di interpretazione e di percezione del mondo che la cultura dell’epoca metteva a disposizione”[864] di quel pubblico di ‘forestieri’ che costituiva il bacino di utenza della produzione legata alle città d’arte (toscane e non solo). Il riconoscimento di quella dinamica consentiva di comprendere perché da quelle fotografie “non traspare se non minimamente il cambiamento della città”, tema che evidentemente non riscuoteva l’interesse degli acquirenti, mentre si confermavano gli stereotipi della tradizione vedutistica, solo e inevitabilmente aggiornati dal linguaggio proprio del nuovo mezzo. Ben diversa l’interpretazione del fenomeno avanzata da Paolo Costantini[865] a proposito di Venezia, che parlava invece di “un non trascurabile mutamento nel modo di percepire e di valutare dati familiari, causato dall’ingresso della fotografia (…). La fotografia è stata spesso erroneamente considerata come una semplice modificazione di natura prettamente tecnica rispetto alla tradizione grafica e incisoria (…). Tale considerazione è frutto di un apparente inserimento del nuovo paradigma fotografico in questa tradizione, che una frettolosa storiografia ha preso per buono”, sebbene poi, poco oltre fosse portato a riconoscere che “la fotografia partecipa invece subito della cultura e della sensibilità figurativa legate all’immagine topica settecentesca e alla sua istituzione come sottogenere vedutistico.” Una questione derivativa che diremmo tuttora aperta e valida per qualunque analisi che si muova all’interno dei ‘generi’ di tradizione grafico pittorica, ma considerando opportunamente le conseguenze di quello che lo studioso chiamava “nuovo paradigma”, richiamandosi direttamente al concetto definito da Thomas Kuhn per la filosofia della scienza. Un mutamento generale da verificarsi di volta in volta considerando il più ampio contesto produttivo e culturale nel quale quelle produzione erano calate, in un continuo meccanismo di feedback che implicava anche il ricorso degli stessi studi fotografici alle guide, specialmente locali, quale traccia per la scelta delle opere da fotografare.
Ancora ai problemi storico critici di interpretazione dei generi era dedicato un intervento di Mariantonietta Picone Petrusa che sviluppava alcune riflessioni già esposte in un suo saggio del 1981 e si soffermava ora sulle ‘fotografie di costumi’, intendendo con questo termine “due cose distinte che hanno origini iconografiche distinte: e precisamente la ripresa del costume inteso come abbigliamento tipico di un paese o di una regione, oppure la rappresentazione di una serie di mestieri ambulanti o delle abitudini di vita dei ceti popolari urbani o rurali.”[866] Senza entrare nel merito della serrata analisi condotta dall’autrice tra iconografia artistica e nascente cultura etnografica, ciò che emergeva era l’interpretazione di questo fenomeno che non solo viveva di tradizioni rappresentative analoghe a quelle relative ai luoghi ma condivideva con le fotografie dei monumenti “gli stessi canali mercantili delle incisioni e delle gouaches, rivolgendosi allo stesso pubblico di viaggiatori stranieri”, con la necessaria avvertenza però che qui lo stereotipo assumeva un senso in parte distinto, più esplicitamente ideologico, in cui “l’intento conoscitivo si confonde con quello propagandistico e (…) il risultato comporta una edulcorazione, quando non un occultamento dei reali disagi delle classi subalterne. Questo dato ideologico rappresenta il nocciolo della costante iconografica e assicura quindi una continuità dall’incisione e dalla pittura alla fotografia”, confermando e conservando una distanza dal reale che, appunto, era possibile riconoscere anche in molta produzione coeva di fotografie di monumenti e di veduta urbana destinate al pubblico dei viaggiatori.
Una sintesi della questione, con un particolare accento sulla lunga durata, è stata di recente proposta da Miraglia[867] che ha ricordato come “i generi, fagocitati, digeriti e spuntati fuori con abiti totalmente difformi rispetto a quelli tradizionalmente indossati (…) mostrano la propria validità e la propria utilità comunicazionale.” Procedendo in un rapido excursus storico la studiosa ricordava le ragioni per cui la fotografia non poté “adottare se non i generi bassi della pittura [natura morta, paesaggio], il che inevitabilmente la travolse in quei giudizi di demerito e di sommo disprezzo che, prima del suo avvento, avevano così pesantemente gravato sui medesimi generi delle arti sorelle, tanto più che al limite della manualità denotata della pittura realistica era venuta a sostituirsi la meccanicità involontaria di un processo che automaticamente la escludeva da ogni possibilità interpretativa e autoriale.” Meno convincente, e forse per questo in contraddizione apparente con quanto precedentemente affermato, il passaggio critico successivo secondo il quale “il lento fluire dalla denotazione alla connotazione fotografica [avrebbe portato] quindi, implicitamente, verso il superamento” di quello stato di cose, poiché “smantellare o cercare di smantellare il monopolio ideativo e formalizzante della pittura alta (…) equivaleva a riconoscere l’autorialità del medium meccanico e, simmetricamente, a incamminarsi, con decisione, sulla strada del superamento dei generi.”[868]
La necessità di “interpretare il materiale fotografico soprattutto a partire dal pensiero dell’epoca circa le immagini e le nuove tecniche di riproduzione della realtà”[869] rappresentava ormai una acquisizione metodologica largamente condivisa, che implicava “una ricerca tesa a valorizzare i documenti dell’epoca (riviste, articoli, manuali, trattati) al fine di tracciare un quadro il più possibile rigoroso di quello che fu il milieu dei primi fotografi nei suoi legami con gli ambienti culturali, artistici e scientifici”[870] sebbene fossero ancora da scontare non poche difficoltà nel reperimento delle fonti. Questi richiami erano il chiaro indizio di un clima nuovo, di un diverso modo di intendere anche in Italia il fare storia della fotografia, che si proponeva di adottare e adattare al proprio specifico le metodologie proprie degli ambiti di più lunga tradizione di studi, mentre si faceva sempre più pressante e qualificato il dibattito intorno al trattamento stesso delle fonti primarie, vale a dire la catalogazione delle fotografie e la costruzione di veri e propri repertori[871] dei fotografi attivi nelle varie realtà territoriali. Un ambito di ricerca specialmente sviluppato in quegli anni in area emiliana anche per impulso dell’IBC, tra i promotori del convegno di Modena del 1979 e da sempre attento al tema del patrimonio fotografico storico.
“Un moderno museo di fotografia – scriveva Paolo Costantini in quell’anno[872] – raccoglie due categorie di materiali: le collezioni di opere alle quali ci si riferisce come i principali testi della produzione di un fotografo (‘master print’ il termine inglese) e i fondi archivistici, dove si raccolgono prove di stampe, versioni alternative, contatti, negativi, corrispondenze, manoscritti, e ogni altro genere di materiali che possano essere considerati utili allo studio della vicenda artistica, sociale e personale di un determinato autore. Sempre più si avverte la necessità di avvicinare il fotografo non solo attraverso l’esame delle sue opere più o meno conosciute, ma anche attraverso lo studio dei suoi, spesso apparentemente irrilevanti, materiali d’archivio. Talvolta, dal contatto tra queste due categorie, possono anche scaturire nuove informazioni, inattese precisazioni, folgoranti illuminazioni. Tuttavia, al ricercatore non può sfuggire la natura frammentaria, mai neutrale e spesso ingannevole di questi brandelli d’evidenza, che richiedono un supplemento d’interpretazione prima di poter diventare documenti dell’esperienza fotografica. Che solo inseriti in un preciso quadro di riferimento storico, pazientemente catalogati e archiviati secondo norme scientifiche, possono perdere la loro opacità (mantenendo però il delicato ‘sapore’ di quel passato), e aprirsi alla nostra comprensione e interpretazione.” Nonostante il permanere di alcune resistenze e cautele, legate a una concezione ancora sostanzialmente formalista dell’opera fotografica, ritroviamo in questo passo conferme degli indizi già prima segnalati di un mutato atteggiamento storiografico, che non possiamo dire fosse del tutto nuovo ma del quale si deve collocare in quegli anni la progressiva, magari contraddittoria estensione. A questo proposito e solo a titolo di esempio ricordiamo che le pagine che seguivano queste riflessioni di Costantini ospitavano sì una ricca e variegata serie di documenti legati alle vicende dell’atelier triestino dei Wulz, ma riprodotti in formati illeggibili, per puro ornamento[873], così come il trattamento editoriale delle fotografie era ben lontano dall’accuratezza filologica che ci si poteva attendere, con date di realizzazione prevalentemente mancanti, indicazioni tecniche sospette[874] e una qualità di riproduzione che uniformava al grigio la maggior parte delle immagini riprodotte. Questo orientamento a favore “dell’immagine vera e propria e della sua più interna problematicità”, che ne relegava in secondo piano la specifica materialità di oggetto era però apprezzata – come si è visto – da uno studioso come Fernando Tempesti perché, a suo dire, consentiva di svincolare “i ‘fatti’ da certi ormeggi fin troppo ravvicinati, per avviarli a più lontani e desiderabili approdi, che promettono, anche grazie a più approfondite conoscenze in materia di fotografia, novità e scoperte riguardo a tutto il visibile.”[875] Brani che sono utili indizi, segni di contraddizioni forse involontariamente convergenti, non dissimili da quelle che avevano determinato la stessa iniziativa: l’occasione di pubblicazione fu infatti la mostra triestina che celebrava l’acquisizione dell’Archivio Wulz da parte degli Alinari, con conseguente trasferimento a Firenze presso l’omonimo Museo di Storia della Fotografia. Occasione discutibile se mai ve ne fu una, nella quale una città ricca di tradizioni culturali come Trieste festeggiava il depauperamento di una parte del proprio patrimonio fotografico storico[876]. La più rilevante anzi, a prestar fede alle stesse, puntuali analisi contenute nel volume; basti considerare il lungo saggio di Elvio Guagnini, Trieste nella camera oscura, che leggeva la storia dei Wulz come “osservatorio privilegiato” da cui guardare alle più disparate accezioni del “testo fotografico” considerandone anche il “grandissimo valore documentario (…) che riveste oggi nella ricerca di ogni genere: dello storico tout court, dello storico dell’arte, dello storico del costume, dello storico delle tradizioni popolari, dello storico dei fatti economici, del geografo, dello studioso di urbanistica, dello storico dell’architettura ecc.”[877], nella consapevolezza che doveva valere, certo, anche l’inverso e che quindi l’attività di un fotografo non potesse essere considerata al di fuori del proprio contesto e che fosse quindi necessario “guardare e distinguere all’interno di una produzione amplissima” come è quella di una città importante, in cui “anche la quantità aveva il suo significato.”
Un’attenta ricostruzione del contesto, condotta sulla base di inedita documentazione archivistica e sull’analisi documentale delle molte fotografie della sua collezione, caratterizzava come di consueto anche gli studi monografici di Piero Becchetti pubblicati in quell’anno, in un continuo approfondimento della scena fotografica romana. Tale era la prima, fondamentale monografia dedicata a Giacomo Caneva[878], che risolveva definitivamente il problema attribuzionistico di molti esemplari, specialmente negativi, compresi nel fondo Tuminello conservato presso l’ICCD e definiva per la prima volta organicamente, sebbene con alcuni riferimenti non documentati[879], il profilo della produzione del fotografo di origine padovana. Meno incisiva risultava invece la lettura critica, poiché all’affermazione ancora in parte condivisibile che “il linguaggio fotografico di Caneva [è] superiore a quello dei suoi colleghi della Scuola Romana”, fondata anche sulla convinzione (meno solida) che il suo fu “un grande e primario impegno fotografico, mai pensato sino ad allora da nessun fotografo europeo”, non corrispondeva poi una adeguata analisi del corpus di immagini o delle singole stampe , ciascuna corredata da puntuale scheda tecnica (che sopperiva in parte alla povertà delle riproduzioni) ma con commenti puramente referenziali o generici (“la foto veramente originale del Muro Torto”) in alcuni casi ripresi direttamente da Silvio Negro[880], che sebbene non fosse mai citato nel testo costituiva il riferimento implicito di Becchetti, che pure non ne condivideva le valutazioni. Il prevalere delle ricostruzioni storico archivistiche sull’analisi critica delle immagini, che ha da sempre costituito la cifra dello studioso, si ritrovava anche in un altro suo contributo di quell’anno dedicato a un protagonista minore della scena romana della ‘età del collodio’ come Michele Mang[881], a proposito del quale si provava a tracciare un profilo inserito in quella che, sulla base di relazioni più fattuali che culturali o stilistiche, definiva ‘scuola tedesca’, a partire da alcune osservazioni precedenti di Alberto Prandi il quale però, a dire il vero, non si era spinto a parlare di ‘scuola’, sottolineando semmai come “la presenza tedesca [a Roma] appare più discreta, ma non per questo meno intensa.” [882]
Dall’insieme dei titoli monografici pubblicati in quell’anno emergeva in modo sempre più netto il disegno d’insieme delle pratiche fotografiche nell’Italia del XIX secolo, almeno per quel che riguardava i centri maggiori o di maggiore frequentazione turistica, mentre le ricerche destinate a confrontarsi con la loro diffusione alle varie scale territoriali solo di rado assumevano la forma organica e strutturata dell’indagine storica, come nel caso di Orvieto studiato da Diego Mormorio e Enzo Eric Toccaceli. Troppo sovente si privilegiava invece la riproposizione localistica e ambigua, tra nota aneddotica e atteggiamento nostalgico, al più con una spolverata di etnografia politicamente corretta, ma senza essere poi in grado di restituire dignità e senso all’attività degli ‘irregolari’, ai quali vennero dedicati solo pochi studi, portando l’analisi del fenomeno sin dentro il Novecento.
Marina Miraglia aveva aperto il suo breve saggio dedicato alla prima attività fotografica di Francesco Saverio Nesci[883], piccolo nobile di Calabria, richiamando opportunamente un passo di Luigi Gioppi del 1894 in cui si definiva il dilettante come colui che “è libero del suo tempo, è fornito di un corredo di studi superiori e, il denaro non facendogli difetto, ha il mezzo di scegliere, come l’ape sui fiori, il meglio di ciò che vede, di ciò che si fa, di ciò che si sa, di ciò che impara (…). In altre parole il dilettante fa spesso e molto di nuovo ed aiuta direttamente e indirettamente il progresso della scienza.”[884] Per queste ragioni, e (forse) specialmente in quei contesti la studiosa ribadiva la necessità di “non trascurare tutti quegli aspetti della storia del mezzo che interessano in modo più esplicito la parallela storia della cultura e le sue implicazioni antropiche e sociali”, nella consapevolezza che oltre il portato referenziale ogni fotografia contiene e “trasmette anche una serie di informazioni aggiuntive che, più direttamente, ci parlano del soggetto fotografante, delle sue pulsioni umane, del suo io sociale e politico, della sua sensibilità e della sua particolare formazione culturale. Ed ecco perché la parallela, innegabile, importanza degli ‘irregolari’ nei confronti dei professionisti; mentre questi aderiscono infatti alle esigenze espressive e rappresentative della committenza della propria epoca, rispecchiandone in pieno aspirazioni e ideologie, l’ ‘irregolare’, pur partendo dai medesimi contesti, è capace, come persona di cultura, di significare apertamente i propri giudizi critici, di prendere posizioni più apertamente personali e soprattutto (…) di anticipare e precorrere i tempi, di elaborare cioè – con scarti chiaramente apprezzabili – modi nuovi, linguisticamente nuovi, di vedere ed esprimere il reale.” Particolarmente interessante nel passo citato quel riferimento al contesto comune che coinvolgeva entrambe le categorie anche se, va rilevato, con differenze di ruolo non trascurabili e che forse meriterebbero (ancora oggi) di essere analizzate e magari spiegate. Poiché se è vero – come suggeriva Miraglia – che gli ‘irregolari’ appartenevano alle stesse classi e ceti che costituivano la clientela dei professionisti, allora restavano da chiarire le ragioni per le quali “le esigenze espressive e rappresentative” manifestate come committenza fossero diverse da quelle espresse in sede di autoproduzione. Forse un peso non marginale in questo strabismo visuale dovette svolgerlo la distinta funzione, commerciale o privata, assegnata a quelle categorie di immagini, essendo le seconde, per definizione, “più apertamente personali” e in quanto tali suscettibili di interpretazioni strettamente connesse al soggetto fotografante (o almeno a ciò che di questo sappiamo o crediamo di sapere). Anche per queste ragioni, poi, risultava difficile accogliere l’equivalenza quasi aprioristica tra pratica irregolare, discontinua della fotografia e creazione di modi linguisticamente nuovi di rappresentare la realtà (certo non dimostrata dalle fotografie lì pubblicate) senza introdurre almeno l’elemento quantitativo della produzione di massa, della costruzione tanto collettiva quanto involontaria di una nuova grammatica e di una nuova sintassi propria di un certo tipo di fotografia. Certo non di tutta, come dimostrava a sufficienza la diffusione di un fenomeno tipicamente ‘irregolare’ come quello rappresentato dalla lunghissima stagione, sempre più esangue del pittorialismo. La vecchia distinzione, anche storiografica, introdotta da Adhemar e fatta propria da Vitali sembrava non reggere a una verifica più stringente o – almeno – rivelava tutti i limiti del proprio schematismo nel momento in cui la storiografia raffinava i propri strumenti e l’estendersi delle ricerche consentiva di conoscere nuove figure. Si consideri Secondo Pia, oggetto di una nuova monografia edita in quell’anno per celebrare la donazione di larga parte del suo archivio al Museo nazionale del Cinema di Torino[885]; anche l’avvocato Pia aveva un profilo sociale non dissimile da quello di Nesci; anche lui apparteneva a una famiglia di proprietari terrieri e seguiva l’amministrazione dei propri beni: era insomma un rentier. Anche per lui la fotografia non fu mai professione ma le analogie si fermavano qui perché per Pia, al contrario di Nesci, essa costituì l’impegno principale e costante per quasi mezzo secolo; non solo: il suo ambito di interesse fu sempre precisamente orientato e circoscritto alla puntuale, analitica documentazione (non di rado ricca di scoperte) del patrimonio architettonico e artistico piemontese. Nulla che si possa assimilare alla figura venata di romanticismo dell’amateur “irregolare” di buona memoria. Come dimostrava l’accurato Repertorio dei luoghi, edifici, monumenti e oggetti riprodotti, che costituiva il contributo di maggior interesse del volume a lui dedicato, l’autore astigiano (e altre figure analoghe come Pietro Masoero, Francesco Negri o più tardi Mario Gabinio o Stefano Bricarelli) si era mosso all’interno di un progetto perseguito con grande determinazione. Allora proprio in questo, nella presenza coerente di questo elemento e del suo perseguimento potrebbe risiedere un elemento di valutazione storico critica e poi storiografica dei fotografi che si muovevano al di fuori della professione ma ciascuno con modalità differenti, specie a partire dall’avvento delle emulsioni alla gelatina bromuro d’argento. Un passaggio determinante, su cui concorda tutta la storiografia ma del quale nel panorama italiano sono stati indagati e studiati l’ambiente e le figure (singolari o sociali) degli utilizzatori dimenticando di fatto i produttori: scorrendo i titoli pubblicati nel 1989 si poteva vedere come il solo Cesare Colombo avesse dedicato un breve intervento alla vicenda professionale di Michele Cappelli[886], titolare della prima importante industria italiana di materiali fotosensibili, descritta coniugando felicemente informazione storica e competenza tecnologica, quella che troppo sovente è mancata e manca a molti storici della fotografia.
Il convegno genovese di cui si è detto aveva anticipato i principali argomenti di confronto e di ricerca: dalle sintesi storiche alle monografie e agli studi di settore relativi a due ambiti con più di un nesso in comune come la fotografia industriale e quella militare e bellica, oltre all’affacciarsi prepotente delle questioni legate alla conservazione e alla catalogazione del patrimonio. Come rilevava l’Editoriale del giugno 1989 di “AFT” considerando il tempo trascorso dalla pubblicazione del suo primo numero (1985), “da quella data la situazione è cambiata: i progetti di intervento per la tutela delle raccolte e l’istituzione di archivi fotografici sono aumentati; molte amministrazioni pubbliche, ma anche istituzioni private, hanno cominciato a investire nel settore, più frequenti si sono fatti gli incontri tra gli addetti ai lavori (…). I tempi sembrano maturi anzi per interventi normativi e legislativi specifici, nonché per l’avvio di una seria azione di coordinamento e indirizzo a livello istituzionale.” L’ultimo, sacrosanto richiamo, indiscutibile nel merito, serviva a introdurre l’intervento di Giuseppina Benassati[887] che apriva il fascicolo preannunciando la pubblicazione imminente de La Fotografia: manuale di catalogazione, da lei curato per la Soprintendenza per i Beni Librari e Documentari della Regione Emilia-Romagna. Il volume, che avrebbe visto la luce solo alla fine dell’anno successivo, rappresentava il primo tentativo organico e compiuto di offrire risposte a un problema che si poneva in termini sempre più urgenti e meno equivoci a cui, com’è noto, gli organismi centrali avrebbero dato una prima risposta solo un decennio più tardi adottando un impianto concettuale profondamente diverso[888].
Nonostante una certa preoccupazione di Benassati che nella “foga dibattimentale che percorre un po’ tutto il paese” i due temi della conservazione e della catalogazione fossero troppo sovente oggetto di “continua commistione”, il fenomeno in sé non poteva che essere considerato di grande interesse da più punti di vista, non ultimo quello storiografico. Solo la conoscenza del patrimonio e l’accesso alle fonti (categorie che in questo settore sovente coincidono) rappresentano da sempre la condizione necessaria, anche se non sufficiente per il formarsi e per la crescita di una solida cultura storica e storiografica, poiché “una esigenza elementare di comparazione, confronto, riaggregazione (…) è essenziale per liberare la ricerca e il lavoro culturale sulla fotografia dal pesante condizionamento derivante dall’isolamento e dalla dispersione del materiale documentario”[889]. Già Fabrizio Celentano nel proprio intervento al convegno genovese aveva ribadito quanto i due temi fossero e dovessero essere strettamente connessi e se il primo termine del problema era quello delle metodiche conoscitive (storiche e tecnologiche) l’altro era costituito dalle condizioni e dai criteri per la condivisione dei loro esiti, vale a dire quello degli standard di descrizione e delle norme di catalogazione, su cui era impegnato da tempo il gruppo di lavoro coordinato da Benassati ma di cui “quasi non si era sentito il bisogno di parlare” al convegno di Genova, cosa che – ancora nelle parole di Tomassini – “non faceva ben sperare.”
Neppure il convegno promosso dall’ICCD in chiusura dell’annata di celebrazioni (Roma, 6 ottobre) offrì le risposte tanto attese, mostrando semmai quanto scarsa fosse ancora la considerazione dei problemi legati alla catalogazione e quindi alla storia della fotografia; quanto grande e infido fosse l’equivoco che presiedeva all’interesse per questa categoria di beni[890]. Lo testimoniava il titolo Le fototeche come conoscenza, tutela e valorizzazione dei Beni Culturali, che non faceva che ribadire la pura riduzione strumentale con cui il tema veniva ancora considerato in quel contesto istituzionale, che pure aveva avuto tra i suoi più autorevoli dirigenti uno studioso attento come Carlo Bertelli, che molto precocemente aveva compreso che “le fotografie più antiche valgono come monumenta esse stesse di un dato periodo storico, e come tali [sono] meritevoli di conservazione e di censimento.”[891] Al 1989 ci si doveva accontentare ancora di radi sebbene interessanti indizi semantici di un possibile ma ancora lontano cambio di rotta, come quelli riconoscibili nel titolo dell’intervento dell’allora direttore Oreste Ferrari, dedicato a Le Fototeche come Beni Culturali, che sembrava indicare almeno nella struttura se non proprio ancora nei beni componenti l’elemento da tutelare. Così Lusini poteva icasticamente notare nel suo puntuale resoconto dei lavori che “di fotografia, nel senso proprio del termine, nel convegno non se ne è parlato.”[892] Erano segni evidenti del ritardo, sebbene non generalizzato e geograficamente disomogeneo, della cultura italiana nei confronti del patrimonio fotografico; della sua conoscenza (anche attraverso la catalogazione), della sua analisi storica e della sua interpretazione storiografica, in parte questa dipendendo da quella ma viziata ancora da una insufficiente coerenza teorica e metodologica, sempre oscillante tra un modello variamente formalista di derivazione ‘artistica’ (non esplicitamente assunto ed anzi, a volte, esplicitamente negato) e l’approccio puramente referenzialistico comune agli storici contemporaneisti e agli storici dell’arte o dell’architettura, non di rado inconsapevoli delle valenze come delle insidie celate sotto la superficie delle fotografie.
Era ancora Bertelli ad offrire in apertura di decennio[893] un nuovo sintetico quadro, e giudizio, sulla storiografia italiana, dolendosi che a dieci anni di distanza da alcune sue prime segnalazioni, un certo tema non avesse “suscitato (…) l’attenzione che merita fra gli storici della fotografia. Ed è comprensibile che così sia stato, dato che l’impegno degli storici è consistito soprattutto nel riportare la fotografia nell’ambito delle metodologie e degli obiettivi della storia dell’arte, con la conseguenza di privilegiare i momenti della ricerca indipendente rispetto a quelli che presumono un rapporto con la committenza.” Le ragioni di quella scarsa considerazione risiedevano per Bertelli nella “necessità, avvertita dagli storici, di rottura con quanto poteva apparire come un’accettazione passiva del mezzo fotografico, e il desiderio opposto di separare nell’universo della fotografia le espressioni alte da quelle correnti, [necessità] particolarmente avvertita proprio in un libro uscito dalla Scuola di Francoforte negli anni Trenta e che ha agito da vero battistrada. Intendo quello di Gisela Freund su fotografia e società, dove il contrasto fra la banalità del gusto corrente e l’audacia degli innovatori è enunciato nei termini più eroici.” Il riferimento, indiretto, poteva forse essere costituito dagli studi di Miraglia, che alla Freund si era più volte richiamata esplicitamente, ma senza difficoltà era possibile estenderlo alla maggior parte della produzione degli storici italiani, del resto per larga parte provenienti proprio da una formazione storico artistica o architettonica, in anni in cui Zannier era quasi il solo a fornire insegnamenti di storia della fotografia e della sua cultura ai curricula universitari.
La volontà di realizzare un’impresa storiografica svincolata dai modelli tradizionali avrebbe connotato la Nouvelle Histoire de la Photographie, firmata nel 1994 da una équipe internazionale diretta da Michel Frizot e mai tradotta in Italia. Se la scelta di redigere un’opera a più mani la accomunava alla precedente Histoire prodotta in Francia (Lemagny et al. 1988), altre ne erano le premesse fondamentali: “Noi abbiamo tentato – si affermava in premessa – di rendere giustizia a tutti, alle forme pure dell’arte così come alla spontaneità delle espressioni popolari: la fotografia non è che il fragile prodotto di una scatola nera più o meno orientata, più o meno stabile, più o meno affidabile; ed è un individuo più o meno abile che maneggia il dispositivo. Al limite ci interessa di più capire perché si fotografa (bene o male) piuttosto che mostrare come si fotografa bene. Quest’opera è quindi l’esplorazione di un genere di immagini che sono considerate contemporaneamente esotiche malgrado la loro prossimità, sospette di prelevare una porzione dell’essere, portatrici di memoria, e che producono ancora delle tensioni, risvegliano delle immagini mentali, provocano desiderio o repulsione. (…) E’ nell’insieme di questi intrecci presentati con chiarezza che noi speriamo di aver reso giustizia in uno stesso momento alla seduzione di ciascuna immagine ed alla coerenza costante del medium.”[894] Date quelle premesse, “fare la storia della fotografia oggi” equivaleva a “comportarsi come uno scrittore: ricercare delle informazioni, raccogliere delle immagini, e scrivere una specie di avventura: la vita delle fotografie.”[895] Ciò che sembrava implicare una parziale rinuncia al rigore metodologico a favore di una maggiore ricchezza interpretativa, con un percorso per certi versi analogo a quello compiuto da Roland Barthes nello scrivere la Camera chiara: quasi un arrendersi alla necessità di allontanarsi dall’analisi semiotica per mettersi in gioco in prima persona; poiché “l’obiettivo da raggiungere, al di là della necessaria cronologia delle tecniche e delle applicazioni, è prima di tutto la storia delle funzioni – ciò che ci si attendeva da queste immagini -; la storia dei fatti ottici e degli spazi attraversati (e inventati) dalla fotografia; quindi la storia del senso delle fotografie in ciascun periodo di modificazione delle funzioni.”[896] A queste intenzioni corrispondeva una struttura testuale che adottava una disposizione cronologica organizzata su tre diversi livelli di lettura: i capitoli, incentrati in generale su di un periodo, una pratica sociale, una analisi del contesto o una nozione fotografica che connotava tutta un’epoca; i dossier, che a intervalli regolari proponevano un tema specifico, presentato attraverso un numero accresciuto di immagini che ne illustravano visivamente le articolazioni; i riquadri di approfondimento di una particolare questione storica, una certa novità determinante, un polo di convergenza estetica. Gli apparati del ponderoso volume comprendevano infine le schede delle più diffuse tecniche di stampa e una ricca bibliografia nella quale veniva in parte recuperata, come in trasparenza, quell’attenzione per la fotografia d’autore che era stata relegata in secondo piano nelle premesse metodologiche.
Una sintetica storia della fotografia era compresa anche nel volume che Cesare de Seta (1999) aveva dedicato al “secolo della borghesia”, di cui costituiva l’ultima sezione, connotata da quell’eroica predilezione per “l’audacia degli innovatori” di cui aveva parlato Bertelli (et al. 1990), sebbene poi cenni a questa invenzione e alle pratiche connesse si ritrovassero in molte parti del testo. Qualche perplessità poteva far sorgere il titolo assegnato al capitolo, La fotografia negli anni dei pionieri, poco coerente rispetto all’arco cronologico indicato (1839-1899), che estendeva le periodizzazioni normalmente adottate sino a comprendere i decenni della sua prima massificazione, per altro non considerata. Ciò che però dichiarava con maggiore evidenza i debiti con certa storiografia artistica era la serie di medaglioni dedicati a poche figure ‘chiave’ delle vicende ottocentesche, ordinati secondo un impianto di quasi vasariana impronta che si chiudeva cronologicamente con Nadar, senza neppure un cenno al ruolo svolto da George Eastman o, per non volersi misurare con i risvolti sociali dell’industrializzazione, almeno alla nascita del Pittorialismo. Ne risultava una narrazione per episodi scarsamente connessi, con indicazioni non di rado piuttosto generiche quando non imprecise o errate[897], che non sembravano corrispondere alle promesse fatte al lettore in apertura dell’opera, di nobile ascendenza winkelmaniana[898]: “non c’è opera di cui si discorre in questo volume che non sia stata parte della diretta e personale esperienza: sono troppo insoddisfatto di critici e storici dell’arte non vedenti [corsivo dell’autore] che costruiscono le loro matasse concettualizzanti sfogliando volumi e cataloghi senza abbandonare la scrivania.” Poiché la riconosciuta autorevolezza dello studioso imponeva di prestar fede alle sue parole, i pesanti limiti di quella ricostruzione storiografica non potevano che derivare da una insufficienza di strumenti conoscitivi ed empirici. Come spiegare altrimenti le ragioni che lo portarono a scrivere che la notissima Point de vue du Gras di Niépce venne realizzata “provando ad esporre questa volta lastre di vetro preparate con lo speciale bitume”, per procedere poi ponendo “la lastra su di una cassetta contenente iodio, con la parte sensibilizzata esposta verso il basso. Riscaldato a temperatura ambiente [sic], lo iodio sprigionava dei vapori che andavano a depositarsi sulla lastra che, scurendo le zone d’ombra, forniva i voluti contrasti tonali.” Credo non sia necessario procedere oltre nell’esemplificare questo imbarazzante tentativo di ricostruzione delle prime sperimentazioni tecnologiche, dove la volontà di sintesi si tradusse in una confusione indescrivibile, che mescolava liberamente procedimenti propri di tecniche diverse (qui eliografia e dagherrotipo, e non solo), svuotando di senso il magnifico e più che condivisibile assunto iniziale, secondo il quale “per cogliere appieno le caratteristiche, espressive ed estetiche, peculiari del mezzo fotografico, è dunque necessario considerare gli sviluppi dei processi tecnici e stilistici che caratterizzarono la ricerca avviata dai pionieri della fotografia e direttamente riferirsi all’evoluzione tecnica e formale del loro linguaggio.”
Una ben maggiore coerenza coi principi enunciati da De Seta caratterizzava il primo manuale scolastico italiano di storia della fotografia, curato da Walter Guadagnini (2000). Il volume si presentava strutturato in tre parti, dedicate rispettivamente alla storia della fotografia mondiale, letta nei suoi rapporti con la società del tempo; ai principi tecnologici e agli aspetti tecnici della pratica fotografica per chiudere infine con una serie di letture critiche di quelle opere che a giudizio dell’autore avevano maggiormente influenzato lo sviluppo del linguaggio fotografico, formula questa che avrebbe poi ulteriormente sviluppato nella serie di volumi pubblicati nel 2010-2013[899]. A quella singolarità di impianto, per certi versi derivata dalla migliore manualistica ottocentesca, corrispondeva un testo che pur nella schematicità richiesta dal progetto sviluppava e offriva considerazioni non ovvie, come quelle a proposito del fatto che “non esiste ‘l’inventore della fotografia’ ma esistono diversi personaggi (…). Ognuna di queste figure ha inventato un proprio metodo (…). Dall’incrocio di questi metodi e delle sempre più incessanti sperimentazioni è nato infine il processo più efficace per fissare e riprodurre meccanicamente l’immagine, quello che oggi chiamiamo fotografia.” All’interno di questa concezione darwiniana quella che appariva come la carenza maggiore era la totale assenza di ogni richiamo alle vicende italiane, trattate solo a partire dal secondo dopoguerra, in una specie di a parte, senza che alcuna immagine di autore nostrano fosse indicata tra le opere paradigmatiche, quasi a certificare ancora a quella data una sostanziale dipendenza dai modelli storico critici stranieri.
Pochi, e per più ragioni insoddisfacenti, gli altri studi che si misurarono col compito difficile di restituire un ampio quadro storico di un fenomeno così complesso e articolato come la presenza della fotografia nella società. Giovanni Fiorentino (2001b) interpretava correttamente a fotografia come epifania della modernità, tra “protesi della realtà” e “consumo dello sguardo”, in un testo che pareva concedere troppo al fascino della narrazione mediologica e all’ellitticità propria del ‘genere’, dove alla buona, vecchia licenza poetica[900] si sacrificava non di rado l’accuratezza fattuale e storica, con conseguenze non irrilevanti[901]. La Fantastoria di Zannier (2003) narrava invece alcune vicende o storie della fotografia nella forma del diario di bordo del viaggio onirico di Olatiz (anagramma di Italo Z.) sulla pirocorvetta Magenta[902], alla ricerca delle fonti oscure di questa invenzione, con capitoli settimelliani (ormai una categoria dello spirito o, almeno, un genere letterario)[903]; di fatto un pamphlet le cui origini e motivazioni andavano forse individuate nel mancato coinvolgimento del professore nelle celebrazioni del centocinquantenario degli Alinari, che ricorreva proprio quell’anno, e nei duri giudizi critici sulla sua opera espressi in quell’occasione da Arturo Carlo Quintavalle[904]. Nessuno invece che cogliesse le suggestioni del bel saggio di Régis Durand, Quale storia (quali storie) della fotografia, testo di una conferenza tenuta al Museo d’Arte Moderna di Bordeaux nel 1992 noto anche da noi per essere stato meritoriamente pubblicato nel fascicolo monografico de “L’Asino d’oro” dedicato a Letteratura e fotografia. Qui lo studioso suggeriva di pensare la storia della fotografia come “storia di una abiezione (…), scritta non a partire dalle tecniche o dagli individui, ma attraverso alcune nozioni specifiche che sembrano legate alla fotografia sin dalle sue origini. Questa intensità negativa legata alla fotografia sin dagli esordi, credo sia un caso abbastanza eccezionale (…). A quanto pare, niente di simile ha colpito le altre arti in modo così continuo (…). Sembra che vi sia proprio qualcosa di peculiare alla fotografia nello svilimento di cui è fatta oggetto in vario modo.” [905] I limiti intrinseci di questi vari modi di declinare possibili storie generali della fotografia per il pubblico italiano resero ancora attuale e utile la pubblicazione nel 2003 della traduzione della Concise History di Ian Jeffrey a più di vent’anni dalla sua edizione originale (1981). In una introduzione acuta e provocatoria l’autore faceva polemicamente i conti con tutta la tradizione storiografica precedente e trasformava il saggio in qualcosa di molto distante da una “breve storia” destinata al mercato dei tascabili: “Vi sono difficoltà intrinseche nello scrivere una storia generale della fotografia – affermava Jeffrey – C’è, è vero, un canone fotografico condiviso (…). Ma nessuno può affermare con certezza che noi sappiamo tutto dei maggiori fotografi che hanno operato, né che mai lo sapremo. Intere carriere sono state cancellate. Altre difficoltà sorgono. C’è ad esempio la questione dell’unità di misura basilare della fotografia, che storici e commentatori hanno inteso essere la singola immagine, come se la storia della fotografia fosse una storia della pittura in miniatura. Tuttavia non tutti i fotografi intendevano il loro lavoro in quel modo.(…) In Europa e in America gli archivi fotografici ci offrono una messe di materiale grezzo col quale noi costruiamo incessantemente nuove immagini del passato, sovente [presentato] come un tempo idilliaco.” Coerentemente agli assunti, il testo era strutturato per ambiti tematici radicalmente differenti dai modelli precedenti, con una forte connotazione analitica, nei quali la chiave interpretativa e problematica prevaleva nettamente sulla scansione cronologica (L’osservazione della natura, Problemi e vantaggi dell’istantaneità, Verità oltre le apparenze, Autoaffermazione -Autonegazione, solo per citarne alcuni)[906], mentre l’esplicita volontà di costruire un percorso storiografico fortemente connotato determinava scelte non sempre condivisibili, quali l’esclusione assoluta della figura di Niépce e la citazione quasi di sfuggita di Daguerre. Rilevante e significativa era anche la scelta dell’apparato iconografico, costituito prevalentemente da immagini tratte da pubblicazioni, a sottolineare esplicitamente il ruolo ed il peso sociale, la funzione comunicativa prima che estetica della fotografia, secondo un’impostazione che in Italia era stata da sempre propugnata da Ando Gilardi.
Il tentativo di produrre una storia della fotografia “dalle origini a oggi” adottando una strategia lontana dal consueto approccio generalista, ma senza proporsi esplicitamente come studio di settore (come sarebbe stata, ad esempio, una storia della fotografia di architettura) connotava il volume Corpo e figura umana nella fotografia (1998) in cui Elio Grazioli ricorreva a un filtro tematico analogo a quello recentemente adottato per la mostra del centenario della Biennale di Venezia[907] per costruire una storia vista “attraverso il prisma del corpo e della figura umana”. Una storia che intendeva proporsi come “storia del gusto, del costume, dell’immaginario, della società”, una storia culturale quindi, destinata in particolare agli studenti di fotografia, a partire dalla pura e semplice “constatazione di un vuoto bibliografico” del panorama editoriale italiano in anni in cui nelle nostre facoltà si stavano moltiplicando i corsi di storia della fotografia, trovando per molti versi impreparato il mercato[908]. Ben consapevole di “tutti i rischi che comporta questo tipo di operazioni divulgative” e didattiche l’autore si assumeva anche quello – che non diremmo condivisibile – di rinunciare “all’indicazione precisa di ogni indicazione riportata, rimandando piuttosto alla bibliografia che segue il testo”. Più convincente risultava la riflessione in merito al trattamento delle illustrazioni: “certo non vogliamo dimenticare di dire quanto confidiamo anche nell’efficacia delle immagini in un libro su di esse, sia per il rapporto con il testo sia per loro stesse, nel loro accostamento e nella loro distanza. La loro scelta ha per questo costituito un ulteriore sforzo per tessere altre trame da intrecciare al testo”. Ne risultava un doppio registro storiografico, esplicitamente organizzato su due livelli, ma né la scelta del tema unificante né l’andamento narrativo produssero quel significativo distanziamento dalla consuetudine che era lecito attendersi, tanto che il punto di vista assunto per la trattazione poteva addirittura apparire pretestuoso e quasi ininfluente in termini epistemologici. Era sufficiente leggere il sommario, con la sua rigida progressione cronologica, solo di rado scardinata per approfondire un tema (Il corpo tragico, ad esempio), per comprendere come di fatto il tema della rappresentazione del corpo e della figura si riducesse quasi a un comodo pretesto destinato a ottenere un apparato iconografico omogeneo, per consentire di operare una selezione “nella vastità del materiale altrimenti imbarazzante”. Anche i pochi tentativi di intrecciare i diversi piani del discorso ponendo in dialogo testo e figure si traducevano in accostamenti azzardati, quali la selezione di immagini di Monti, Sellerio, Donzelli e Giacomelli nel capitolo dal titolo quanto meno fuorviante di La scuola di Chicago e la fotografia ‘soggettiva’. Il lavoro di Grazioli, ricco di suggestioni specie per quanto riguardava i rapporti del mondo della fotografia con la scena artistica del secondo Novecento, rappresentava una testimonianza significativa delle difficoltà che ancora sussistevano anche tra gli studiosi più qualificati a produrre una storia della fotografia in grado di confrontarsi con la complessità del fenomeno o – almeno – capace di efficaci strategie per una sua possibile riduzione ad analisi parziali o a percorsi settoriali.
Ancora alla rappresentazione del corpo, ma in una delle sue forme meno mediate e simboliche, quella comunemente definita pornografica, o, meglio, ai provvedimenti legislativi destinati a contrastarne la diffusione, era stato dedicato un precoce studio di Luigi Tomassini, che si era proposto di verificarne i principi e le formule nel contesto degli “sforzi di ‘moralizzazione’ negli anni d’inizio del nuovo secolo [XX]” esemplificati dalle immagini “destinate alla educazione morale dei giovani (…), provenienti da due delle maggiori case editrici italiane e francesi dell’epoca. (…) Fotografia e morale pubblica, potrebbe essere quindi questo il sottofondo comune, colto nei suoi due aspetti estremi e perciò significativi dei limiti della questione, che sono l’educazione morale della gioventù e la depravazione della medesima ad opera dell’immagine pornografica.”[909] In realtà l’intento di Tomassini andava ben oltre il caso di studio e si proponeva come compiutamente metodologico, essendo quello di mostrare che “se si vuole fare una storia della fotografia che non sia solo interna delle tecniche o una storia delle tendenze artistiche (…), se si vuole verificare l’impatto della fotografia nella società, occorre probabilmente affrontare la storia della fotografia anche dall’esterno, per così dire, o indirettamente, verificando in altri settori di indagine quella che è la portata della diffusione del mezzo fotografico. (…) In altre parole, ad esempio, nel nostro caso, la fotografia si pone come un potente fattore di modernizzazione (…).”
L’intenzione di “verificare l’impatto della fotografia nella società” muovendosi in continuum tra “interno” ed “esterno”, come percorrendo un anello di Moebius, aveva segnato da sempre l’atipica produzione storiografica di Ando Gilardi, che dal 1980 aveva curato i fascicoli di “Phototeca”[910] e “Index”, da cui trasse i materiali per la pubblicazione del volume del 2002 dedicato alla “fotopornografia”, derivando da quelli anche parte del titolo, che perse però per strada (certo una scelta del nuovo editore) il qualificativo di “infame”. Il primo dei dieci libri in cui era suddivisa la Storia della fotografia pornografica entrava subito in corpore vili affrontando il nodo centrale, archetipico, del rapporto tra il sacro e l’osceno, e lo faceva studiando la prima produzione avviata nel centro della cattolicità, dove “tutte le immagini ex morali che cercano pigramente di sopravvivere (…) per merito o per colpa della nuova immagine presa a macchina, si traducono, peggio o meglio che nel profano, nell’osceno.” L’eroina di questa vicenda non poteva che essere Costanza Diotallevi, della cui attività Gilardi si attribuì la scoperta, dovuta “a una successione di eventi colpevolmente taciuti dagli autori delle insipide storie ufficiali della fotografia, da sempre espurgate con meticoloso moralismo, fin oltre il limite del grottesco palese.” In questa dichiarazione apodittica si poteva ritrovare in sintesi estrema la cifra del procedere del suo autore, che non esitava a piegare il dato storico o storiografico alla più efficace esposizione delle proprie tesi, non tenendo conto – come in questo caso – che della nota vicenda si erano già occupati, sebbene in termini più circoscritti e in modi meno affabulatori ed efficaci, numerosi altri studiosi, a partire da Piero Becchetti[911]. Il principale bersaglio polemico era l’autocensura degli storici[912], ben esemplificata secondo Gilardi dal secondo fascicolo di “AFT”, che uscì in concomitanza col primo volume dell’edizione in fascicoli di questa Storia e che conteneva alcuni contributi dedicati al tema della fotografia pornografica; tra questi il saggio di Tomassini sopra citato, molto apprezzato da Gilardi[913], che manifestò però forti riserve in merito all’utilizzo delle immagini, cioè di quelle stesse figure alla cui analisi i testi critici avrebbero dovuto essere dedicati: “parliamo della questione delle fotografie che illustrano e non illustrano i saggi dedicati da “AFT” alle vicende dell’ottica del bene e del male – scriveva Gilardi – Le porno mancano completamente mentre le ‘oneste’ abbondano. Si ripete così un’esperienza storica di enorme importanza che prova ancora una volta la potenza terrificante della fotopornografia, la quale unica fra tutte le forme e i modi della rappresentazione, se viene talvolta narrata si narra alla cieca, senza immagini proprie. Su questo punto vi invitiamo a riflettere: della fotopornografia, quando si parla ad alto livello, ‘seriamente’, fra dotti, si sottintende che tutti la conoscano bene, da consumatori pratici dell’osceno visivo, ovvero si sottintende che non occorra fare esempi concreti. Tuttavia questo discorso non vale per le visioni del bello e del casto che, almeno nel nostro caso concreto, si direbbero sensazionali. Delle molte risposte possibili, nessuna può liquidare la verità malinconica che, in qualunque maniera si affronti questo sociale fenomeno, l’oscuramento totale dell’oggetto visibile è il prezzo che bisogna pagare per avere la licenza sociale, e fino a poc’anzi legale, di parlarne impunemente. Ma la censura è in se stessa una condanna e una calunnia. Il tono sereno e professionale dei testi, malgrado ogni sforzo, suona stonato. Il famoso ‘distacco’ dello scienziato dal suo reperto, che resta addirittura invisibile, è perlomeno sospetto. Le pagine di “AFT” sono illustrate con la narrazione della colpevolità senza mostrare le colpe: si discutono pubblicamente i ‘pro’ e i ‘contro’ in assenza di un imputato che solo l’autore ha conosciuto, o crede di avere conosciuto, che a lui nel privato è forse gradevole. Lo storico, il saggista, anche se non lo vorrebbe, assume la funzione nemmeno del giudice ma peggio del censore. (…) Ogni società e cultura lasciano sul loro cammino innumerevoli impronte iconiche. Le più vere e sincere non sono, non vogliono e non devono essere quelle dell’arte, i falsi meravigliosi che non illustrano la realtà ma i sogni. Sono invece le immagini di più quotidiano e banale consumo, spaventosamente ingenue: tutti sappiamo che mentono e per questo motivo non mentono. Se ci pensate bene, fuori da ogni successivo discorso come i nostri o del tutto diversi, mai nella storia dell’iconografia ci furono immagini più ‘pure e semplici’ delle prime fotografie pornografiche.” Notazioni malinconiche e cruciali, puntualmente storiografiche[914] se ammettiamo che la pratica del fare storia è una delle più complesse manifestazioni di una cultura; se riconosciamo che la rimozione e la censura ne sono elementi determinanti, particolarmente evidenti quando ci si avvicina ai nodi profondi delle questioni esistenziali. Se la morte, anche tragica e feroce, aveva ormai raggiunto e conquistato una sua visibilità, anche eccessiva e quotidiana, banalizzante, lo stesso non si poteva e non si può dire delle immagini del corpo desiderante, della sessualità esplicita. Nelle pagine dedicate a Nudo artistico e pornografia (e già il titolo dichiarava la chiave critica) anche Elio Grazioli aveva riconosciuto che nel XIX secolo “la società borghese ha un conto in sospeso con la nudità e la sessualità” e che una certa ambiguità “tra artisticità e malizia pornografica” aveva segnato “la prima presenza del nudo in fotografia”, ma poi -confermando le notazioni di Gilardi – non proponeva immagini riferibili alla seconda categoria, pur riconoscendone la funzione inedita, culturalmente innovativa: “sono questioni che non restano isolate nell’ambito della pornografia ma che finiscono con l’essere preliminari a ogni analisi della modernità, potendo senza forzature essere trasposte pressoché tali e quali su di essa: basti pensare, per esempio, alla definizione del Modernismo come privilegio appunto della vista (…) In fondo la totale visibilità che promette l’immagine pornografica va a scapito dell’intoccabilità di fatto del reale che pretende di evocare; d’altro canto essa corrisponde anche alla definizione modernista stessa del segno come ciò che sta in vece di, in luogo di, ma anche al suo posto: mai più qui e insieme mai più là dov’era.”
I volumi di Gilardi e Grazioli appartenevano alla categoria delle storie settoriali, che costituiva una delle possibili modalità di trattamento delle vicende fotografiche a scala sovranazionale, così come accadeva anche per un ambito tanto distante quanto quello della fotografia di architettura, affrontato da Zannier (1991) con la consueta sapienza combinatoria. Due sezioni storiche (una delle quali intitolata “Tipologie” pur essendo scandita per tecniche) derivate da una generica storia generale e due quasi manualistiche: una strumentale e l’ultima operativa (“Come fotografare l’architettura”). Sebbene sparsi, vi si potevano ritrovare alcuni interessanti spunti critici, come quelli relativi alla stessa difficoltà di definizione del tema e alla messa in questione del ‘genere’[915], che per l’autore doveva comprendere e considerare anche la “fotografia giornalistica”, nella quale “l’architettura fa quindi ‘da sfondo’ al soggetto dell’immagine, ma ne è pur tuttavia un elemento sostanziale, i personaggi assumono significato nel suo spazio, che non può essere inteso soltanto come una neutrale scenografia (…). L’architettura, finalmente, non viene messa ‘in posa’, ma vista in ‘istantanea’ ”. Questione interessante, che avrebbe potuto aprire a riflessioni ontologiche e critiche in merito alle valenze documentarie della fotografia, ma posta in modo sbrigativo, non tenendo conto neppure delle intenzioni (dell’autore, del committente, ma anche del fruitore) vale dire del contesto di produzione e di ricezione[916].
Un altro dei temi che in quel decennio fu oggetto di un’attenzione nuova e più criticamente attrezzata era quello della fotografia di montagna, che accanto all’interesse mai sopito per Vittorio Sella[917] aggiunse quello per altri importanti autori che si erano variamente misurati con questo ‘genere’ di difficile collocazione, tra pratica agonistica, rilevamento geografico e tradizione paesaggistica. Dopo i primissimi studi dei Fratelli Pedrotti (1973), a loro volta notissimi fotografi di montagna, e il numero monografico de “Il Diaframma -Fotografia italiana” curato da Giuseppe Garimoldi e Angelo Schwarz nel 1976, un breve cenno, quasi scontato, all’opera di Sella era contenuto negli “Annali” einaudiani del 1979, in cui si pubblicavano anche alcune immagini di Vittorio Besso, contemporaneamente presente nella grande mostra dedicata alla fotografia italiana del XIX secolo[918]. Mancava però ancora una ricognizione sistematica, anche a scala sovranazionale, avviata solo nel decennio successivo con una serie di mostre monografiche prodotte a Trento e a Torino, che con il Festival dedicato alla Montagna e con la sede del Museo Nazionale costituivano i due principali centri di studio del settore.[919] Nel 1992, a partire dalle collezioni conservate presso il Centro di Documentazione del Museo, che di lì a poco avrebbe pubblicato il repertorio dei propri fondi (Museo Montagna 1995) veniva organizzata una mostra dedicata alle Montagne della fotografia, “un tema avvincente che coinvolge la storia dell’alpinismo, della montagna e dell’esplorazione in tutte le componenti”, come si dichiarava in apertura di catalogo mostrando quale fosse ancora il ruolo subalterno riservato alla produzione fotografica anche in termini di interesse museale, come indicavano le due produzioni precedenti dedicate rispettivamente a Le montagne della pubblicità (1989) e Le montagne del cinema (1990). Nel saggio di apertura la curatrice del volume, Silvana Rivoir[920], memore dell’impostazione critica acquisita negli anni di collaborazione con Angelo Schwarz per la “RSCF”, invece di dedicarsi alla lettura referenziale delle singole immagini preannunciata dal Direttore, ne ricostruiva i meccanismi e le modalità di diffusione attraverso i periodici, “per capire la concezione che si aveva della fotografia nell’ambiente alpinistico di fine secolo”, seguendone gli sviluppi anche in relazione al progressivo raffinamento delle tecniche di stampa tipografica. Questo interessante percorso conoscitivo toccava poi il tema delle esposizioni, intese quale ulteriore canale e occasione di diffusione e conoscenza della fotografia alpina, proponendosi come il primo tentativo di sintesi di orientamento storico sociale, certo fondamentale per incominciare a comprendere un fenomeno di così vasta portata ma ancora troppo connotato dalla prevalenza di ricostruzioni cronologiche[921]. Di impostazione esplicitamente storico critica era invece il saggio in cui Giuseppe Garimoldi (1995) affrontava il rapporto tra fotografia e alpinismo facendo sintesi di un ventennio di ricerche e producendo quello che fu considerato il primo testo organico di storia generale della fotografia di montagna o, per meglio dire, sui rapporti tra alpinismo e fotografia, essendo esclusa dai suoi interessi tutta la produzione di taglio più o meno consapevolmente etnografico. Si trattava di un contributo nel quale lo specialismo risultava fondamentale per imbastire una prima ricostruzione in grado di offrire visibilità e legittimità a questo genere e ai suoi principali autori, ben consapevole del fatto che “una storia esauriente della fotografia di montagna potrà essere scritta solo su un’ampia base di lavori (…) un complesso di materiali che, fatta qualche rara eccezione, oggi non esiste.”[922] Riconoscendo un tratto analogo a quello proprio di un ambito disciplinare tanto distante quanto la storia dell’arte, Garimoldi ricordava che “la storia dell’alpinismo non sarebbe quella che è senza l’apporto della fotografia”, mentre, più specificamente, fondava la propria analisi sul riconoscimento del ruolo dell’alpinista in quanto fotografo, poiché “l’espressione originale dei caratteri culturali e psicologici dell’autore, prima ancora di diventare fotografia determina le scelte sul modo di avvicinare l’ambiente alpino. Trova cioè concretezza nella qualità e nelle forme di quel salire che sono la chiave di volta dell’operazione.” In questo senso quindi “una storia della fotografia di montagna potrà essere scritta solo [prendendo in esame] le vicende relative alle varie realtà di gruppi e associazioni sparse nel mondo, di analisi sui singoli autori con indicazioni sulla loro formazione e sulla loro influenza.” Un’indicazione metodologica che ribadiva quanto la storia dell’alpinismo internazionale fosse stata sin dalle origini tutta determinata dalla forza e dalle iniziative assunte dalle numerose realtà associative[923] e delle loro manifestazioni, non ultime le esposizioni e i periodici di settore ben più che in ogni altro ambito, compreso quello propriamente fotografico. La ricostruzione di vicende sino ad allora quasi dimenticate riprendeva in certa misura le consuete periodizzazioni ma introducendovi un’estensione geografica “oltre l’orizzonte europeo” che costituiva uno dei meriti non secondari di quel lavoro. La conoscenza approfondita della materia consentiva poi a Garimoldi di adottare, specificandola doverosamente, quella distinzione critica tra alpinisti-fotografi e fotografi-alpinisti, basata sul riconoscimento di “due modi diversi di intendere il rapporto fra fotografia e montagna” che lui stesso aveva avanzato nel 1976[924] e che successivamente era stata ripresa da altri studiosi di area torinese come Rivoir ed Enrico Camanni[925]. Così formulata essa rappresentava uno strumento critico certo efficace (specie se non utilizzato in modo manicheo, come del resto invitava a fare l’autore) di cui eventualmente verificare l’applicabilità ad altri ‘generi’ o ambiti quali la documentazione dell’architettura e delle opere d’arte o la fotografia scientifica, in cui le distinzioni tra le varie figure in campo risultano più nette. Considerata da questo punto di vista la fotografia di montagna pare aver avuto non solo una sua evidente specificità di genere ma aver espresso anche una sua propria modernità ante litteram, contemplando commistioni di ruolo che in altri contesti avranno ragione d’essere solo a partire dai primi decenni del Novecento, quando la cultura modernista espresse ad esempio numerose figure di architetti che si dedicarono alla fotografia con esiti anche di grande rilievo.
All’illustrazione o all’analisi dei rapporti tra alpinismo e fotografia furono dedicati diversi contributi pubblicati in quegli anni[926], ciascuno dei quali circoscriveva il proprio ambito di interesse alla definizione più ovvia e ristretta del tema: che si trattasse di alpinisti o di fotografi ciò che connotava il genere e ne condizionava la valutazione storico critica era il rapporto diretto con la montagna in quanto entità geografica e ambientale, estendendo semmai lo sguardo alle esplorazioni artiche e antartiche. Era invece escluso tutto quanto riguardava l’immaginario alpino, una componente sempre più rilevante della società contemporanea, almeno a partire dalla diffusione del turismo e della fotografia amatoriale e certo favorita dal cinema. Esplicitamente orientato al recupero critico dell’immaginario visuale legato all’idea di montagna (e non solo alle montagne) fu il volume dedicato nel 2003 all’Archivio fotografico del Museo nazionale, nell’ambito di una collana che si proponeva di presentare i principali archivi italiani[927] coniugando buona divulgazione e rigorosa trattazione catalografica dei materiali pubblicati. Distinguendosi dagli esempi sopra citati la prospettiva storiografica lì adottata assumeva come specifico punto di vista quello della Montagna come invenzione della cultura urbana, propria di quella fase di affermazione della borghesia che comprendeva anche l’invenzione della fotografia, in un contesto di formazione illuminista e poi positiva che aspirava a una conoscenza del mondo analitica, empiricamente verificabile e tendenzialmente infinita, a cui si sarebbe progressivamente affiancata (e sostituita in parte) l’idea di montagna come spettacolo da vivere in forma sempre più mediata e indiretta. Da qui la necessità di prendere in considerazione, accanto alle fotografie alpinistiche propriamente dette, una vasta tipologia di immagini solo apparentemente eterogenee che comprendeva le riprese in studio con fondali posticci, le serie stereoscopiche destinate al consumo casalingo ma anche le fotografie di scena di un genere cinematografico a sua volta declinato in molte e differenti accezioni, dal documentario all’immaginario, in un circolo virtuoso che si autoalimentava utilizzando tutti i canali della cultura di massa[928].
Una verifica ulteriore delle componenti culturali riconoscibili nelle fotografie di quella collezione ha preso recentemente corpo in una mostra curata da Veronica Lisino (2015) che trovava nella citazione da Wittgenstein da cui prendeva il titolo (Frammenti di un paesaggio smisurato) la propria chiave di lettura. Dal riconsiderare la ricca collezione di “fotografie delle origini”[929] del Museo e dalla ricostruzione delle sue vicende di formazione scaturiva infatti il riconoscimento della sua natura inevitabile di collezione di frammenti, ciascuno destinato a dare forma visiva a una certa concezione del paesaggio montano, inteso come “proiezione soggettiva del territorio” (la definizione è di Eugenio Turri[930]), ma in un’accezione tale per cui quella stessa soggettività si declinava a scala culturale e sociale, anche nazionale e nazionalistica quindi. A partire da questi presupposti il testo e la stessa impaginazione delle immagini si muovevano tra i poli complementari costituiti dalle mutevoli concezioni che del paesaggio si sono storicamente date e da quelle restituite dalle fotografie[931], attraverso una lettura attenta delle modalità tecniche ed espressive di quella produzione, dove il rispetto del canone rappresentativo ha avuto non di rado la meglio sulla restituzione delle caratteristiche geografiche e antropiche dei luoghi raffigurati[932]; una connotazione più che evidente anche in una delle maggiori produzioni editoriali destinate al turismo tra XIX e XX, quella delle fotocromie. Questa storia tecnologica e commerciale era stata ricostruita ancora da Lisino (2012) a partire dalla ricca collezione del Museo in un catalogo aperto da uno scritto di Bruno Weber[933], direttore della Graphische Sammlung della Zentralbibliothek di Zurigo e pioniere degli studi su Photochrom, in cui la curatrice[934] sintetizzava le vicende che mutarono la fotografia nell’epoca della sua riproducibilità cromolitografica, collocando il fenomeno in un contesto che sempre più esprimeva il desiderio di possedere “fotografie nei colori della natura”, in anni in cui la tradizione del Grand Tour[935] si stava trasformando in quella del turismo di massa.
La pubblicazione nel 1996 del numero monografico di “History of Photography” curato da Maria Antonella Pelizzari[936] testimoniava dell’accresciuta attenzione internazionale per la storia della fotografia nell’Italia del XIX secolo, offrendo interessanti contributi di studiosi stranieri da tempo impegnati in ricerche sulla documentazione del patrimonio architettonico e archeologico, come Graham Smith, Andrew Szegedy-Maszak e la stessa curatrice, mentre gli storici italiani come Miraglia e Tomassini sintetizzarono alcuni loro contributi precedentemente editi in volume (Miraglia et al. 1992) o sulle pagine di “AFT”. Nel coevo Dictionnaire mondial de la photograhie des origines à nos jours (Photo 1996), pubblicato da Larousse avvalendosi di un qualificatissimo gruppo di collaboratori, tra i quali – sola italiana – Silvana Turzio, lo scopo dichiarato era di trattare la materia da “una prospettiva critica, storica, tecnica e tematica”, ciò che escludeva voci dedicate ai singoli Paesi a favore di ambiti, generi, movimenti e autori. Erano quindi quelle le sole che fosse possibile considerare per rintracciare un profilo della fotografia italiana che proprio la sintesi obbligata rendeva particolarmente significativo: la registrazione di un ‘luogo comune’ corrispondente alle opinioni diffuse sull’argomento. La scelta comprendeva Alinari, Naya e Ponti, i due Sella e Pietro Semplicini ma – con criteri di difficile comprensione – non Brogi o Sommer, e analoghe incertezze si ritrovavano a proposito dei fotografi attivi tra le due guerre: Luxardo, Mollino, Parisio, Tato e Achille Bologna, ma non Stefano Bricarelli, il cui ruolo di direttore per lungo tempo de “Il Corriere Fotografico” avrebbe meritato maggiore considerazione. Riflessioni non meno interessanti si potevano trarre dal considerare le firme dei redattori: mentre le voci dedicate a Caneva o agli Alinari portavano la firma di Michel Frizot e quella relativa a Giuseppe Primoli era siglata Anne de Mondenard, certificando così (si direbbe) la riconosciuta rilevanza internazionale di quegli autori, altre vennero affidate a più giovani studiosi o alla redattrice italiana (Lecchi, Luxardo, Michetti, Mollino e Sella tra le altre) secondo un trattamento nel quale risultava difficile non riconoscere una certa declinazione gerarchica.
Nuove indicazioni storiografiche, anche se non sistematiche, erano state proposte in quegli anni da Paolo Costantini riflettendo sulla diffusione italiana del dagherrotipo e, in particolare, a partire dalla constatazione della “ sostanziale ignoranza dei primi momenti della storia della fotografia nel nostro paese. Pochi i materiali, difficili i confronti, scarse le notizie (…). Ecco che categorie tratte dalla storia dell’arte, come ‘autore’, ‘opera’ o ‘stile’, si rivelano, in questo particolare contesto fotografico, decisamente ambigue quando non completamente inservibili.”[937] Il riferimento alle formulazioni di Rosalind Krauss era evidente[938] ma utilizzato diremmo in modo strumentale, per stigmatizzare gli esiti di certa deriva storico critica e storiografica condizionata “dalla scarsa attenzione assegnata finora al dagherrotipo”, che aveva prodotto “la ripetizione scontata di generalizzazioni spesso fuorvianti”, dovute “essenzialmente al fatto che il dagherrotipo viene continuamente confuso con la fotografia, e considerato come un momento di passaggio necessario lungo un filo storico dispiegato verso un unico fine improntato al mito del progresso”. Per Costantini invece era indispensabile saper distinguere tra le due tipologie e alla produzione dagherrotipica non potevano essere applicate le teorie fotografiche convenzionali, specie in termini estetici; da qui la necessità di “cercare altrove (…) rivolgendo l’attenzione al contesto culturale in cui hanno avuto spazio e si sono affermati i progetti dei giardini settecenteschi, i dipinti di paesaggio e i panorami e i diorami (…) nuovi sistemi di rappresentazione che hanno organizzato lo spazio e il tempo secondo principi radicalmente innovativi. Questa situazione problematica spinge dunque a moltiplicare gli approcci al fenomeno fotografia, a farne emergere la pluralità, a rendere manifesta l’irriducibilità del complesso di elementi (storici, culturali, sociali, economici) che chiamiamo genericamente con il termine ‘fotografia’ (…). Moltiplicare gli inizi dunque, affrontare da diversi punti di vista le ‘molteplici invenzioni della fotografia’ per provare a far emergere nuove aperture alla riflessione critica. Il ‘voler conoscere’, di cui ha parlato Foucault, spezza l’unità del soggetto.”[939] La necessità di “moltiplicare gli inizi” sottoponendo a verifica storica i modi effettivi di produzione e circolazione della produzione dagherrotipica nel contesto storico e culturale dell’Italia preunitaria fu all’origine del progetto dedicato a L’Italia d’argento 1839/1859[940] ; la produzione più importante del periodo e primo capitolo di un programma di lavoro che sarebbe poi proseguito con l’analogo volume dedicato alla calotipia (Aubenas et al. 2010). Si trattava di un’impresa curatoriale che riuniva studiosi della seconda e terza generazione in un’indagine condotta a scala nazionale ma rispettando l’ordinamento statale dell’Italia al tempo del dagherrotipo, restituito in una serie di contributi monografici che pur nei limiti imposti da una insufficiente dotazione di risorse offrivano una buona sintesi delle conoscenze sino al momento disponibili e, specialmente per alcune aree precedentemente meno indagate, fornivano importanti arricchimenti e precisazioni, quando non vere e proprie scoperte[941].
La cornice storica in cui si inserivano le opere in mostra era delineata nel saggio di apertura, a firma di Monica Maffioli e Luigi Tomassini, che per le sue qualità rappresentava una testimonianza chiara della lunga strada percorsa dalla storiografia italiana in poco più di un ventennio. A quei dagherrotipi veniva ora riconosciuto lo statuto di “reperti oggi residui di una ‘invenzione’ che (…) introduceva un modo di rappresentazione della realtà che avrebbe modificato profondamente la comunicazione visiva dell’epoca contemporanea (…) e perciò i modi con cui il dagherrotipo fu presentato e inserito nella cultura del tempo non riguardano solo questa particolare e suggestiva tecnica di produzione delle immagini, ma condizionano profondamente lo statuto culturale della fotografia nel suo complesso” e rimandano “a una diffusione di pratiche sociali che si definiscono già come qualificate politicamente e ideologicamente, nel caso specifico come accessibili a tutti e quindi come ‘democratiche’.”[942] Sebbene gli esempi presentati in mostra riflettessero la consueta prevalenza del genere del ritratto, il secondo saggio era dedicato ad analizzare la produzione vedutistica, anche per colmare le lacune conoscitive, e quindi storico critiche, relative a questo genere di immagini, già a suo tempo segnalate da Costantini[943]. Quel rimando arricchiva di ulteriore senso, quasi una dichiarazione di filiazione storiografica, la citazione di Heinrich Schwarz posta in esergo da Maria Francesca Bonetti[944], che considerava quella produzione dagherrotipica un elemento cruciale “nell’evoluzione della cultura dello sguardo” sull’Italia, considerando come “tali ‘vedute’ – che pure appartengono soltanto ad un breve periodo della storia – si pongano e si offrano quale ineludibile, necessario anello di congiunzione tra approcci e forme di conoscenza e di rappresentazione dei luoghi tra loro sostanzialmente diversi.” Alla definizione di questo nodo rappresentativo Bonetti dedicava uno studio puntuale, sorretto da un apparato minuzioso di note che dava sostanza alle considerazioni critiche, interpretando le serie di riprese realizzate per le Excursions Daguerriennes, legate alla tradizione anche selettiva dei Voyages pictoresques, e di quelle prodotte dai ‘milanesi’ Artaria, di tono “più borghese e locale”, anche come “tentativi di superarne [del dagherrotipo] i limiti di immagine unica, non riproducibile, per assicurarne comunque una fruizione il più possibile ampia e alla portata di un pubblico sempre più vasto e indifferenziato”, sebbene ancora, di necessità, socialmente circoscritto.
Un ulteriore momento di particolare rilevanza culturale e sociale venne individuato nella diffusione della nuova modalità narrativa della stereoscopia; celebrata dalle figurine Liebig nel 1966 ma solo marginalmente considerata dagli studi di storia della fotografia italiana[945] nonostante la precoce attenzione dimostrata da Maria Adriana Prolo con la mostra al Museo del Cinema di Torino in quello stesso anno. Fatti salvi i riferimenti contenuti in monografie e opere di carattere generale (Becchetti 1978), la letteratura italiana sul tema non aveva offerto titoli specifici sino al 1992, sempre rigidamente circoscritti al tema generale del vedutismo e del paesaggio, mentre mancavano e mancano a tutt’oggi studi specifici sull’applicazione della stereofotografia ad ambiti tanto distanti quanto ampiamente praticati come la fotografia erotica e pornografica; il rilevamento territoriale e architettonico; le applicazioni scientifiche, specialmente in ambito anatomopatologico; le svariate forme del reportage e le serie narrative di diverso genere. Una nuova occasione di studio venne offerta dalla pubblicazione della collezione di stereoscopie appartenute a Henri Le Lieure, pervenuta nel 1995 all’ICCD attraverso l’acquisizione diretta da una discendente[946]. Quel lavoro condotto a più mani costituì “il primo grosso progetto relativo solo alla stereoscopia in vetro del XIX secolo”; una tipologia di materiali solitamente trascurata dalle grandi collezioni pubbliche, che invece nel decennio successivo godette di una rinnovato interesse, almeno per quanto riguardava la più diffusa versione su carta. Basti pensare alla pubblicazione dei ricchi repertori della Biblioteca Vallicelliana di Roma[947]; alla discussione del posto occupato dalle stereoscopie nella produzione di due grandi studi come Alinari e Brogi[948] e infine all’illustrazione di alcuni temi specifici, quali la stereoscopia a Roma[949] e la serie palermitana di Eugène Sevaistre del 1860[950].
L’eterogeneità dei soggetti e dei trattamenti delle opere raccolte da Le Lieure mostrava con evidenza come si fosse in presenza di serie dovute a vari autori ed editori, imponendo agli studiosi una accurata ricostruzione delle differenti storie di produzione di quei materiali, svolta in modo esemplare da John B. Cameron, che analizzava sia le tecniche di intervento dello studio Le Lieure[951] sia i numerosissimi cataloghi di vendita editi dai due studi francesi Ferrier & Soulier (poi Léon & Lévy) e J. Lachenal & Favre, ulteriore riprova di quale fosse il livello di razionalizzazione delle strategie commerciali in un comparto come quello della produzione e vendita di stereoscopie, certo il più rilevante in termini economici.
Particolarmente attento alle peculiarità e specificità narrative di queste immagini fu in quegli anni Giovanni Fanelli[952] che, studiando un corposo insieme tematico incentrato sul fortunato caso di Firenze e della Toscana, chiosava le parole di Helmut Gernsheim per richiamarne la scarsa fortuna critica, conseguenza della “nostra naturale ammirazione per le grandi immagini”[953]. Il particolare riconoscimento del valore documentario era sottolineato da Fanelli che nell’indicarne le ragioni segnalava, oltre alla dimensione quantitativa, proprio il fatto che “essa abbia contemplato, almeno in alcune aree e in certi periodi, una gamma di soggetti più ampia e più varia rispetto agli altri tipi fotografici; in particolare, per quanto riguarda le vedute di architettura, di città e di paesaggio, sono più frequenti le vedute ‘animate’ o ‘istantanee’, che documentano non solo lo stato fisico delle architetture e degli spazi urbani ma anche i modi del loro uso nel tempo. Quando si segnala l’importanza della veduta animata non è per gusto del pittoresco o per inclinazione veristica, ma perché, casuale o frutto della consapevole intenzione del fotografo che sia, la presenza di persone e cose nell’immagine fotografica è un contributo alla conoscenza degli uomini e dell’uso che essi fanno degli spazi costruiti di un’ampiezza e di una qualità confrontabili soltanto con le punte più avanzate del realismo pittorico ottocentesco e della sua indagine, senza molti precedenti, della realtà sociale dei luoghi.”[954] Il riconoscimento di una fortuna critica inversamente proporzionale alla loro diffusione e rilevanza storica suggeriva all’autore di offrire una sintetica ricostruzione della storia della fotografia stereoscopica nel XIX secolo[955]. Considerando i problemi di linguaggio due erano gli elementi determinanti introdotti dalla stereoscopia: una prima e precoce affermazione dell’istantaneità[956], possibile già intorno al 1856, quindi ben prima delle emulsioni alla gelatina, e l’adozione di un trattamento seriale dei soggetti, contrapposto alla consuetudine che diremmo sintetica e icastica delle riprese di grande formato, ciò che consentì l’affermarsi di una diversa estetica, caratterizzata da ridotti legami con la tradizione iconografica. Accanto a questi andava considerata e compresa la dimensione semi industriale dei maggiori editori del settore; una modalità che contemplava anche – come fu per Le Lieure – ricorrenti fenomeni di acquisto o scambio di fondi fotografici quando non di vero e proprio plagio tra ditte. Alcune di queste questioni vennero illustrate e discusse nel numero monografico di “AFT” edito in occasione della mostra e nel volume che fungeva da catalogo dell’esposizione Luoghi toscani in stereoscopia, promossa nel maggio 2001 dall’Archivio Fotografico Toscano e curata da Fanelli[957], che ebbe modo di esplicitare la rilevanza per le attuali discipline storiche e sociali dell’enorme produzione di quella particolare tipologia di immagini, progressivamente estesa dal contesto editoriale a quello amatoriale[958], avendo modo di verificare – a proposito della Toscana[959] – che in termini di commerciabilità delle serie tematiche si confermava la prevalenza dei soggetti fiorentini e pisani. In quella stessa occasione Monica Maffioli[960] illustrò la specifica produzione degli stabilimenti Alinari e Brogi[961], segnalandone un uso quasi cronachistico e così fortemente aderente alla contemporaneità da essere poi espunto dai cataloghi successivi.
“Se non si vuole limitare la storia della fotografia al riesame dell’opera dei singoli fotografi – scriveva Tomassini nel 1992 – avulsi dal contesto e dai circuiti attraverso cui avveniva la circolazione delle idee e delle informazioni, l’analisi delle riviste appare fondamentale.”[962] “La scelta metodologica di ripartire dalle fonti per far progredire lo stato delle conoscenze nell’ambito della storia della fotografia”[963] aveva caratterizzato da circa un decennio i lavori seminariali e le tesi di laurea afferenti alla cattedra di Storia dell’arte contemporanea dell’Università di Napoli tenuta da Mariantonietta Picone Petrusa e dal quel contesto nacque anche la tesi di Elvira Puorto dedicata al “Bullettino della Società Fotografica Italiana”; poi pubblicata integralmente, in memoriam, nel 1996 per iniziativa di un gruppo di amici e docenti[964], mentre un primo estratto era stato ospitato, “su affettuosa richiesta di Zannier”, sulle pagine di “Fotologia” [965], che a partire dal n. 11/ 1989 andava pubblicando in riproduzione alcuni estratti e gli indici del periodico. Quel contributo costituiva una parziale revisione del capitolo della tesi in cui si delineavano le caratteristiche editoriali del “Bullettino”, considerando in particolare i dati desumibili dalle pagine pubblicitarie delle principali ditte italiane produttrici di materiali fotografici. Un fonte ed un tema nuovi, non considerati ad esempio nella pur ampia analisi che Costantini aveva dedicato a “La Fotografia Artistica”. Coerentemente con gli assunti metodologici espressi dalla relatrice i restanti capitoli della tesi non si soffermavano sull’analisi critica delle posizioni culturali assunte dal “Bullettino” ma utilizzavano quelle pagine come fonte per la ricostruzione di alcuni aspetti ed eventi centrali di quella stessa cultura, quali il rapporto arte fotografia, il dibattito intorno al diritto d’autore o l’istituzione di scuole di fotografia. All’arricchimento di queste ricerche contribuì di lì a poco la scoperta, fatta da Annarita Caputo Calloud[966], dell’archivio della Società Fotografica Italiana presso l’Istituto statale d’Arte di Firenze, ciò che consentì di ricostruirne alcuni momenti cruciali come la nascita del sodalizio o le ragioni di politica culturale che a pochi mesi dalla costituzione della Società portarono alle dimissioni del primo presidente Paolo Mantegazza, sino alla liquidazione della Società nel 1915. Al ruolo svolto da questa e dal suo organo a stampa “AFT” aveva già dedicato in anni precedenti alcuni importanti contributi[967], richiamati da Tomassini in un breve intervento pubblicato in parallelo col saggio di Caputo Calloud, nel quale avvertiva come non si dovesse “sopravvalutare il ruolo di una associazione che si dichiarava nazionale ma che in realtà era ben lungi dal coprire la stratificata e variegata realtà del mondo della fotografia in un contesto nazionale così poco accentrato, anche culturalmente, come quello italiano”[968]. Ciononostante proprio quelle contraddizioni interne offrivano “uno spaccato reale dei problemi con cui si doveva confrontare la fotografia italiana, non per vivere (…) ma per assumere un ruolo più rilevato all’interno della cultura italiana del tempo”, costituendo così un caso di studio di particolare interesse anche per la funzione precipua di strumento di diffusione di testi anche stranieri svolta dal “Bullettino”.[969] Quella apertura internazionale, qui assunta come posizione programmatica ed estetica aveva ancor più caratterizzato la breve vita de “La Fotografia artistica”, che per Paolo Costantini (1990) aveva rappresentato “la presenza più importante e significativa della cultura fotografica italiana, accogliendo nelle sue pagine tutto il clima di tensione e di rinnovamento che è proprio (…) della svolta di fine secolo.” Opinione condivisibile, ma solo a patto di collocarla storicamente in un contesto sociale e culturale ben circoscritto e parziale; di considerarla cioè manifestazione di un fenomeno di élite, una punta avanzata del gusto. Se lo studio fosse stato rivolto alla cultura diffusa, a delineare una sociologia storica della pratica e della produzione fotografica, allora certamente il ruolo di “presenza più importante” avrebbe dovuto essere assegnato ad altre testate, verosimilmente a “Progresso Fotografico”. Nonostante questa interpretazione parziale lo sguardo su quella cultura (su quelle culture) portato dall’ “osservatorio particolare della rivista torinese” aveva consentito di far emergere “contrasti e contraddizioni lungo un filo conduttore: un’idea di modernità continuamente ribadita ma mai compiutamente precisata, una volontà di rinnovamento verso una ‘lingua’ moderna che si vorrebbe in continuità, senza alcuna mediazione critica, con la tradizione”. Quasi una costante della fotografia italiana ancora nel periodo tra le due guerre se si pensa al ruolo e alle pagine dell’altro, successivo periodico torinese “Il Corriere Fotografico”. Per comprendere quelle che a noi possono apparire come contraddizioni Costantini scelse di analizzare “la pluralità di voci (…) che trovano spazio e amplificazione nella rivista di Cominetti, per porre in evidenza il modo in cui in Italia, in questo particolare momento si è intrecciato il discorso delle fotografie con l’autorità delle parole. La necessità di ‘andare oltre lo sguardo’ appare infatti tanto più evidente per chi intenda fare storia delle ambigue e altrimenti sfuggenti immagini realizzate nel mito della ‘fotografia artistica’, un momento cruciale della storia della fotografia che vuole entrare nella modernità. Ma anche per guardare queste (e altre) fotografie perché dentro c’è qualcosa da vedere.” Quella necessità costituiva una definitiva affermazione della cultura fotografica quale oggetto del fare storia e corrispondeva a un segno di raggiunta maturità della storiografia italiana, già manifestatosi esplicitamente in alcune analoghe iniziative precedenti[970]. In quell’occasione però il rapporto tra i due termini risultava addirittura ribaltato[971] e ad una approfondita ricostruzione delle vicende e dei nessi tra i vari contributi pubblicati nella rivista diretta da Annibale Cominetti non corrispondeva poi una analoga considerazione per le immagini presentate su quelle pagine, riprodotte in quantità modesta e mai specificamente commentate sebbene fosse proprio alla loro realtà fattuale ed estetica che andava semmai assegnata la funzione “cruciale” di contraddittorio snodo verso la modernità, finalmente riconosciuto anche da noi dopo gli anatemi sprezzanti degli storici delle generazioni precedenti[972]. Quello “splendido e raffinatissimo periodico”, di cui con giudizio opposto a Tempesti apprezzava la “qualità critica dei testi pubblicati”, venne considerato anche da Miraglia nello studio che in quello stesso arco di tempo dedicava alle formazione e allo sviluppo delle culture fotografiche torinesi[973], ma senza soffermarsi troppo sui testi quanto piuttosto sulle immagini, al fine di dimostrare come i dilettanti torinesi “più che mimare pedissequamente i temi e i modi della contemporanea pittura, abbiano partecipato attivamente, pur se con esiti fra loro qualitativamente diversi, del clima culturale in cui vissero”[974], introducendo un’interessante analogia tra quanto avveniva in fotografia e quanto era accaduto poco prima nell’ambito dell’acquaforte, quando sulla scia di Antonio Fontanesi si assistette a un “recupero segnico della tecnica scelta per spingerla, al di là della rappresentazione, verso i destini diversi di un’espressività moderna.”
L’analisi storico critica di una fonte a stampa costituì anche l’obiettivo della tesi di Specializzazione in Storia dell’Arte contemporanea discussa da Silvia Paoli nell’anno accademico 1992-1993[975] presso l’Università Cattolica di Milano, avendo come relatore lo stesso Paolo Costantini, dedicata a Fotografia – Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, il numero unico edito da Domus nel 1943, già allora tanto citato quanto poco studiato[976]. Adottando in parte il modello costituito dallo studio dedicato a “La Fotografia Artistica”, Paoli rilesse i principali contributi al dibattito italiano sulla ‘nuova’ fotografia pubblicati sui più importanti periodici, evidenziando il ruolo di apertura e di mediazione delle esperienze internazionali svolto in particolare dalle riviste di architettura e di grafica, alla ricerca della definizione modernista dello specifico del mezzo, a cui contribuirono personalità attive in settori diversi, presentate in profili sintetici in quella che possiamo individuare come seconda parte del saggio, identificandone di volta in volta i contributi selezionati per l’ “Annuario”. A una ricostruzione molto accurata delle vicende e della rete di relazioni sottese a quell’impresa editoriale corrispondevano però valutazioni solo in parte condivisibili: proprio il confronto con le esperienze accuratamente descritte dalla studiosa non consentiva infatti di considerare l’ “Annuario” come “l’affermazione più decisa, in quegli anni, della fotografia ‘moderna’ (…) punto d’arrivo fondamentale del dibattito tenutosi sulle riviste nei due decenni precedenti”, come aveva già a suo tempo sostenuto Zannier; semmai mostrava quanto la riflessione critica alla base di quel progetto fosse ancora incerta e comportasse un sostanziale ripiegament, tutta rivolta com’era al chiuso mondo del puro esercizio fotografico e alla sin troppo ovvia messa alla berlina di quelle “generazioni di fotografi [che] hanno svolto per anni il tema delle pecore al pascolo (…) senza preoccuparsi della rivoluzione prima e dell’evoluzione poi dei valori etici e morali della nostra cultura.”[977] Un richiamo ormai politicamente fuori tempo massimo, al 1943.
La documentazione del patrimonio architettonico ed artistico, che così ampia parte aveva avuto nelle vicende fotografiche nell’Italia della seconda metà del XIX secolo, divenne oggetto di numerosi studi monografici, che costituirono importanti occasioni di approfondimento conoscitivo e di ulteriore messa a punto di strumenti metodologici. Il primo di questi, firmato da Monica Maffioli nel 1996[978] era rivolto alla documentazione delle principali architetture italiane del XIX secolo e mostrava bene la distanza, metodologica e di risultati, da un’opera divulgativa come quella di poco antecedente di Zannier (1991), specialmente per quanto riguardava la sistematicità con cui erano affrontati i temi: dalle prime realizzazioni alla nascita dei grandi stabilimenti e studi sino all’uso editoriale come strumento documentario, ma considerando solo marginalmente un tema centrale per la fotografia di architettura e di ingegneria del XIX secolo come quello delle campagne di committenza pubblica. Per Maffioli l’assunto di fondo era rappresentato dall’intendere la fotografia come “atto interpretativo”, quindi storicamente e culturalmente determinato, sebbene poi l’aver limitato il novero di soggetti considerati alle sole architetture coeve riducesse di molto la possibilità di definire le caratteristiche autoriali dei fotografi presi in esame,[979] rispetto alle quali sarebbe stato indispensabile un confronto allargato a tutta la loro produzione di settore.
Anche la complessità dei rapporti intercorrenti tra fotografia, storiografia architettonica, tutela e restauro venne affrontato in quegli anni in modi più attrezzati e disponendo di più solide basi di dati[980] rispetto alle primissime, generiche indagini[981]. Era stato Paolo Costantini (1985) a riflettere sulle posizioni critiche di Pietro Selvatico, tra i primi intellettuali ‘italiani’ a considerare in modo organico le possibilità offerte dal nuovo strumento sul duplice fronte della didattica e del rilevamento finalizzato alla tutela del patrimonio artistico e architettonico. In particolare lo studioso padovano aveva anticipando di alcuni decenni il tema poi centrale degli archivi documentari e delle relative campagne fotografiche, come quella dedicata alla Apulia Monumentale realizzata nel 1891-1892 da Romualdo Moscioni[982], riproposta integralmente e studiata in un volume (Gelao et al. 1999) edito per celebrare il centenario della partecipazione della Puglia all’Esposizione Nazionale di Torino del 1898. Ciò che sorprendeva di quella realizzazione era però la scarsa, quasi inaccettabile cura editoriale posta nel garantire la qualità delle riproduzioni, come se non fossero proprio le immagini a rappresentare l’oggetto primario di conoscenza e l’elemento di maggior interesse; contemporaneamente fonte e opera compiuta, qui relegate in secondo piano rispetto agli interventi esegetici. L’aspetto positivo era invece costituito dalle metodologie e dagli strumenti di ricerca utilizzati, quali il ricorso sistematico alla documentazione d’archivio e all’analisi comparata delle fonti scritte per riconoscere i presupposti (culturali in senso lato, anche nei risvolti economici) delle vicende studiate, ma anche l’accostamento di analisi testuale e iconografica per considerare cioè la fotografia come documento/ monumento in senso proprio ovvero, per dirla in termini più immediati, conducendo le ricerche intorno e sulla fotografia privilegiando il metodo storico rispetto alla semplice lettura dei dati referenziali o alla pura, per quanto necessaria, valutazione estetica.
Ancora a Pietro Selvatico si doveva la definizione della fotografia come “fac-simile”, datata 1872, e all’affermarsi di quella concezione vennero dedicate alcune verifiche storico critiche come quella condotta da Roberto Cassanelli a proposito del primo esempio di expertise corredata di fotografie[983], con Selvatico nel ruolo di antagonista, mentre chi scrive ricostruiva le vicende, anche di strategia della comunicazione, che portarono un’istituzione come l’Armeria Reale di Torino ad affidarsi alla fotografia per la documentazione e la divulgazione del proprio patrimonio, in un progressivo allontanamento dalla tradizione rappresentativa delle arti del disegno[984]. Proseguendo una riflessione teorica e metodologica da tempo avviata Marina Miraglia affrontava invece i modi e i nodi della traduzione linguistica operata dalla restituzione calcografica e poi fotografica degli affreschi michelangioleschi della Cappella Sistina[985], fornendo una serie di indicazione operative che per sistematicità assumevano valore di metodo. In quell’occasione la studiosa aveva mostrato come le svariate modalità di restituzione rappresentativa, contrariamente alle opinioni coeve, dovessero essere intese sempre e comunque come forme di traduzione dell’opera, recuperando all’attualità fotografica quella capacità di comprensione critica delle incisioni che era stata propria delle “gens judicieux” di cui aveva scritto Michael Huber nel 1787[986]. Anche per Massimo Ferretti[987] “la riproduzione fotografica, almeno nel suo primo mezzo secolo di vita, corrisponde ad un’attitudine visiva già precedentemente orientata in tal senso”, mentre fu l’avvento delle sua riproduzione tipografica a determinare l’insorgere di “un ‘occhio nuovo’ (nel senso reso familiare da Baxandall)”[988], vale a dire un occhio che esprimeva un paradigma conoscitivo corrispondente a un nuovo orizzonte di attese, determinato anche dal fatto che “senza eccessivi ritardi, la riproduzione fotografica rappresentò un cambiamento di natura quantitativa. Nell’intero ventaglio delle sue funzioni, la fotografia dell’arte è un aspetto della cultura industriale.”
Aprendo la sessione del convegno di Prato del 1992 dedicata a Fotografia e storia della fotografia, Fernando Tempesti aveva invitato a riflettere sul problema dei fondamenti, proponendo di “costruire una storia della fotografia che sia specifica e non assomigli, quando si va a leggere, ai manuali di storia dell’arte”[989]. In quell’occasione l’invito venne però sostanzialmente disatteso se non da Claudio Marra, che offrì il solo contributo storiografico teoricamente rilevante[990] per quanto limitato da un riferimento tutto interno alla storiografia artistica, quindi ben lontano da quello ‘specifico’ fotografico auspicato da Tempesti, col quale condivideva però l’opinione che “la storiografia fotografica (…) non si fosse mai preventivamente interrogata, con atteggiamento critico, sull’oggetto dei propri studi.”[991] Rielaborando un’intuizione di Ugo Mulas, per il critico bolognese la fotografia costituiva un oggetto dotato di una logica di funzionamento che lo distingueva radicalmente dalla “famiglia dell’immagine tradizionalmente intesa” e lo accomunava a quella dei ready made; da qui la necessità di considerare l’azione fotografica come luogo della concettualità contrapposto a quel luogo della formalità che era il quadro. “É chiaro – proseguiva Marra – che accettando questa logica la storiografia del settore dovrebbe rivedere tutta una serie di giudizi negativi espressi sull’automaticità del lavoro fotografico e sull’invadenza del reale proposto dalle immagini, ma soprattutto dovrebbe riconoscere di avere tra le mani un oggetto che, per logica di funzionamento, risulta del tutto differente rispetto a quello che acriticamente si pensava.” Ne conseguiva il riconoscimento dell’irrilevanza di “tutti gli elementi formali di lettura mutuati dalla tradizione pittorica” e l’estensione della concettualità a ogni attività fotografica, ben dentro le pratiche comuni e correnti in cui “questo principio si manifesta in tutta la sua rilevanza e primarietà”, giungendo infine a ritenere che “la fotografia (…) col suo altissimo realismo speculare, sia stata una sorta di anticipazione storica di tutti gli attuali fenomeni che chiamiamo di simulazione.” Pur addebitando allo spirito del tempo il ricorso disinvolto a certa terminologia allora di moda in ambito postmoderno digitale, quello di Marra risultava un intervento connotato da posizioni critiche innovative, di grande interesse e significato, che però di fatto non vennero colte e neppure prese in considerazione dagli interventi e dal dibattito successivo, a cui contribuirono prevalentemente storici contemporaneisti e antropologi, senza che gli storici della fotografia, già così scarsamente presenti, facessero sentire la propria voce. Un’interpretazione storico critica delle vicende della fotografia tutta interna all’universo storico artistico non era certo una novità, risalendo almeno alle posizioni espresse da Heinrich Schwarz, ma ciò che qui risultava assolutamente innovativo era l’individuazione e la definizione dello scarto concettuale determinato dal nuovo mezzo, posto in relazione con le vicende di tutta l’arte del Novecento.
In occasione dello stesso convegno di Prato, ma in un’altra sessione di lavoro, Giovanna Ginex aveva dato conto degli esiti delle proprie ricerche ponendo con chiarezza la distinzione “tra l’ambito relativo alla storia dell’arte in relazione alla storia della fotografia e quello della fotografia come documento per la storia, in questo caso documento per la storia dell’arte. I materiali qui considerati sono infatti le fotografie eseguite da artisti nel corso dell’elaborazione di un’opera di pittura e più raramente di scultura” [992]; artisti che si fecero fotografi per ragioni prevalentemente strumentali, analogamente a quanto accadeva per gli illustratori[993], ma senza dimenticare l’eventuale influsso della fotografia sulle loro modalità espressive e stilistiche. Accanto a queste considerazioni di ordine storico critico Ginex pose con forza il problema della conservazione del “patrimonio fotografico concreto” da loro prodotto, sovente affidato all’oblio dagli stessi artisti e dai loro esegeti, in una malcelata intenzione di preservarne la purezza dalle contaminazioni fotografiche. Così facendo si era perpetuata e riprodotta, sino ad anni recentissimi, una analoga pratica sommersa e ‘inconfessabile’: come il pittore aveva negato il ricorso alla fonte fotografica così continuavano a fare i critici e gli storici dell’arte che ne studiavano l’opera, nonostante l’esempio precoce di Vitali[994]. Altri importanti contributi alla sessione furono quello di Silvia Paoli[995], che si soffermava sui problemi posti dall’errato trattamento catalografico delle fotografie di documentazione delle opere d’arte, che ancora privilegiava le informazioni proprie del referente piuttosto che del documento fotografico, invitando perciò gli storici dell’arte a “riconsiderare la fotografia, [a] riflettere sulla specificità del suo linguaggio”[996], rimandando così a questioni che in quella occasione erano state puntualmente affrontate dall’intervento di Miraglia, per ragioni organizzative ospitato in una diversa sessione di lavoro[997]. La storiografia artistica, e forse in misura maggiore e più criticamente attrezzata di quella fotografica, si misurava in quegli anni sul tema del rapporto dei pittori con la fotografia, verificato in specifici casi di studio. Una prima sintesi era stata proposta da Silvia Bordini (1990) con un saggio ospitato nel secondo dei due volumi dedicati alla pittura dell’Ottocento in Italia curati da Enrico Castelnuovo, ciò che certificava l’avvenuta presa di coscienza da parte degli storici dell’arte moderna dell’imprescindibilità storico critica del tema[998]. Anche in questo caso la trattazione prendeva le mosse dalla ricezione dell’invenzione in un paese come l’Italia che per storia e condizione non disponeva ancora di “metodi di interpretazione adeguati per la nuova scoperta [sic]; si tendeva a ricorrere a criteri di valutazione tradizionali, si esitava a prendere coscienza della specificità del mezzo, ponendo così le basi di una serie di ambiguità e disconoscimenti tra arte e fotografia; ambiguità che era facile riscontrare nella stessa terminologia adottata per descriverne gli esiti, in cui come è ben noto, ricorrevano i termini di “pittura”, quadro” e “disegno”, ciò che sottintendeva “l’esigenza di riassorbire le potenzialità [della fotografia] nei codici tradizionali dell’arte”, sebbene poi “nei fatti gli artisti si trovarono ad avere tra le mani e negli occhi uno strumento di interpretazione della realtà sempre più articolato e foriero di nuove domande.” Lo studio di Bordini proseguiva considerando il mutare degli atteggiamenti e le numerose tipologie d’uso assegnate alla fotografia nel corso del XIX secolo, non escluso l’utilizzo quale mezzo privilegiato di riproduzione delle proprie opere, gestito in proprio dagli artisti o con la mediazione degli studi fotografici. Questa circolazione ampia determinò poi un progressivo “processo di scambi e ritorni, con fotografie che si ispiravano ai dipinti e che a loro volta erano studiate dagli artisti, con un rimescolamento di stereotipi e di linguaggi evidente soprattutto nel comune repertorio della produzione bozzettistica e illustrativa”, tanto invasivo da far assumere al qualificativo di ‘fotografico’ applicato all’esito pittorico una connotazione dispregiativa. “Si ribadiva implicitamente che la cultura visiva dominante rimaneva, anche con l’avvento del nuovo mezzo e delle nuove immagini, quella della pittura, con il peso determinante quanto problematico e forse ingombrante di un’immensa tradizione. Una radicata certezza che di lì a poco il rimescolamento delle avanguardie avrebbe messo in discussione.”
Una diversa interpretazione di quei fenomeni venne offerta da Miraglia (2000) in un saggio dedicato alla memoria di Paolo Costantini e Philippe Neagu col quale intendeva “attirare l’attenzione sul ruolo svolto dalla visione fotografica nella formulazione e nella definizione delle estetiche pittoriche e, al di là di eventuali esempi, determinare i veri punti di contatto epistemologico tra le aspirazioni della fotografia e quelle del campo vicino della pittura, a un momento dato”. Si trattava cioè di considerare l’analisi di quei rapporti come strumento di verifica della ‘modernità’ di culture visive in profonda mutazione lungo un arco di tempo segnato dalla presenza di due autori agli antipodi dal punto di vista “cronologico, linguistico e concettuale” come Michetti e Bragaglia. In quella fase storica “non era più la pretesa denotazione [della fotografia] a interessare i pittori (…) ma, al contrario, le sue caratteristiche linguistiche, nelle quali gli artisti ritrovano una guida incomparabile per studiare, comprendere, conoscere il ‘vero’ ed esplorare la relazione dialettica tra vero e visione”[999], tanto che “l’antagonismo iniziale si trasforma in scambio.” Sottolineando gli elementi di discontinuità piuttosto che la condivisione di stereotipi rappresentativi, Miraglia assegnava alle relazioni tra pittura e fotografia un ruolo determinante nella genesi della “crisi generale dell’arte” occidentale, che “prima di dissociarsi definitivamente dal ‘vero’ si interroga, non senza nostalgia, sulla perdita del primato della rappresentazione” nello stesso momento in cui “la fotografia (…) tenta di definire, in modi spesso contradditori, il campo sfuggente e complesso del suo dominio, che si definisce sempre attraverso una identità incerta, fatta di sensibilità e di intelligenza, sempre oscillante tra concretezza e astrazione”, ovvero tra denotazione e connotazione. Più in particolare, per quanto riguardava i pittori italiani che utilizzarono la fotografia, Miraglia riteneva che “fotografia e pittura si sono evolute con lo stesso passo poiché esse erano coinvolte in una ricerca estetica comune e motivate dal medesimo desiderio di penetrare sempre più a fondo i segreti della natura e il mistero dell’apparenza delle cose.” Per lo stesso catalogo Silvia Bordini intitolava il proprio contributo Sogno e realtà[1000], con una citazione esplicita (e forse a chiave) del titolo del trittico di Angelo Morbelli realizzato nel 1905, che pur nella sua semplicità compositiva mi pare contenesse qualcosa di più che una eco della retorica simbolista di Fading Away di Henry Peach Robinson, 1858. Il sottotitolo esplicitava l’argomento: Morbelli, Previati e Sartorio, sulla fotografia, a dire che questi autori ebbero con questa una “attitudine relativamente autonoma rispetto all’uso che ne facevano i pittori” o, meglio, che potevano essere scelti per rappresentare quelle distinte modalità d’uso e di relazione con la fotografia già descritte da Miraglia ma precisando meglio i fronti opposti, qui rappresentati da Gaetano Previati, che lamentava la “prolissità della fotografia” e da Giulio Aristide Sartorio che nella sua splendida invenzione letteraria affrontava la questione ben più ampia e complessa del simulacro e della sua messa in discussione della realtà fattuale e storica[1001].
I numerosi contributi di quel decennio testimoniavano una notevole crescita di interesse per il tema in termini quantitativi e qualitativi, costituendo occasione per approfondimenti e precisazioni ma senza apportare significative modifiche al disegno generale, che ne risultava sostanzialmente confermato sebbene arricchito di dettagli. È quanto accadeva anche con un autore già molto studiato come Michetti, del quale Renato Barilli si provò dapprima a indagare (senza ironia alcuna) il Combattimento per un’immagine[1002] negli anni della sua crisi pittorica, ma anche la successiva mostra, rivolta anche alla produzione decorativa e di arredi, non offrì alcun contributo storico critico innovativo, distinguendosi semmai per l’accuratissima catalogazione delle foto pubblicate: un apparato che si presentava sempre più come qualificante nell’editoria fotografica di quegli anni.
Nuovi studi vennero dedicati anche al tema più che ricorrente del movimento futurista, soggetto della mostra di apertura della Estorick Collection of Modern Italian Art di Londra nel 1998 e ancora, nella stessa sede, nel 2001, di un’esposizione in cui si trattava il rapporto di quel Movimento con la fotografia. Una nuova edizione, integrata da una ricca sezione relativa al cinema, venne presentata al MART di Rovereto nello stesso anno, corredata da un volume curato da Giovanni Lista[1003] la cui novità dichiarata dal titolo – Cinema e fotografia futurista – doveva essere rappresentata proprio dalla considerazione parallela dei due “media dell’occhio meccanico”. Nell’interpretazione del curatore “l’incontro (…) avrebbe dovuto essere immediato e fecondo. Fu invece tardivo e laborioso” poiché i “futuristi marinettiani”, opportunamente distinti dai futuristi eterodossi e indipendenti come i fratelli Ginanni-Corradini e Bragalia, “svolgevano un dialogo segreto con il cinema e la fotografia. Ma si trattava soprattutto del cinema e della fotografia scientifica”, non riconoscendoli in quanto medium in sé e negando di conseguenza “ogni dimensione estetica all’immagine meccanica.” “Pur essendo tra i prodotti culturali della novità tecnologica celebrata dal futurismo – scriveva Lista – l’immagine fotografica appariva come sclerosi del vivente, cioè come vera e propria negazione di quella sensazione vitale che l’arte futurista voleva tradurre con enfasi dirompente e lirica per acculturare il corpo sociale ai valori della modernità.” Posizione critica certo interessante ma per molti versi incompleta, che non considerava una questione ben più profonda, vale a dire la sostanziale accettazione futurista della logica del quadro, la mancata comprensione e il conseguente rifiuto di quel mutamento paradigmatico introdotto proprio dalla fotografia, di cui aveva parlato Marra[1004], per il quale “nella cultura artistica del Novecento”, e solo in quella, “pittura e fotografia (…) hanno interpretato due identità differenti se non addirittura antitetiche” dal punto di vista concettuale e linguistico. Più in particolare “l’opposizione dei futuristi alla fotografia trova reale spiegazione in una mancata e autentica revisione dell’intero settore delle arti visive, un ambito che, nello sviluppo del loro sistema estetico, continua a proporre il quadro come unico e immutabile sistema espressivo. L’idea che la fotografia rappresenti un ribaltamento totale di questa prospettiva non viene neppure presa in considerazione.” L’importante riconoscimento di “logiche d’arte non assimilabili” tra pittura e fotografia liberava il critico e lo storico dalla necessità di vincolare alle componenti stilistiche la comune appartenenza a una determinata poetica, ciò che offriva improvvisamente la possibilità di costruire relazioni per ogni e ciascuno degli ‘ismi’ e dei movimenti del primo Novecento, non ultimo la Metafisica nel cui alveo, abbandonando “la classica procedura filologica” per una più adeguata “elasticità metodologica” (forse una versione scolastica del “pensiero debole”) Marra collocava arditamente l’opera del barone Von Gloeden, considerato “come perfetto equivalente, in campo fotografico, delle scelte citazioniste esibite da De Chirico in quegli stessi anni”. Una lettura semplicistica e astorica, sbrigativamente postmoderna, che rifiutava strumentalmente le genealogie culturali da cui quelle immagini derivavano e di cui costituivano una delle più tarde e complesse manifestazioni. Le letture critiche offerte da Marra, pur se non sempre convincenti avevano certamente il merito di porre in discussione, e in certi casi correggere, canoni interpretativi mai veramente sottoposti a verifica, mentre ciò a cui non era possibile riconoscere legittimità storica ed efficacia storiografica era il quadro interpretativo generale, che intendeva la storia della fotografia esclusivamente come aspetto della più generale storia dell’arte; come se questa coincidesse e potesse esaurire in sé tutta la storia delle immagini, alla quale appartiene invece la fotografia; come se immagine e arte fossero categorie sinonimiche e sovrapponibili. Su questa problematica relazione di appartenenza si interrogava anche Roberta Valtorta[1005] la quale, pur riconoscendo che tutti gli storici più importanti avevano tenuti separati i due ambiti, e che si trattava di “una forma di comunicazione che si svolge in diversissimi ambiti sociali e culturali (…) fortemente coinvolta nelle comunicazioni di massa” dichiarava infine che “la fotografia è un’arte”; “un’arte che si sviluppa su base internazionale. (…) un’arte probabilmente assai più complessa e in un certo senso diversa dalle altre arti”. Un fraintendimento storico e concettuale che in altri momenti storici si sarebbe detto pittorialista.
Nel confronto continuo tra pittura e fotografia che si ebbe nel corso del XIX secolo il genere del ‘paesaggio’ aveva rappresentato uno degli ambiti di maggior interesse e rilevanza di risultati; occasione per definire una concezione più interpretativa ed espressiva della fotografia. La fascinazione del tema, non disgiunto a volte da quello del viaggio, ben si prestava per iniziative editoriali ed espositive che costituirono altrettante occasioni di approfondimento dei processi di formazione delle diverse culture fotografiche italiane[1006]. Senza preoccuparsi di distinguere tra veduta e paesaggio Diego Mormorio (2000) mise a confronto la produzione ottocentesca con fonti letterarie variamente declinate: dalle guide ai resoconti di viaggio alle relazioni tecniche legate alle grandi imprese infrastrutturali (strade e ferrovie, ponti e canali) che avevano modificato l’assetto territoriale della nazione appena unificata. Ne risultò un saggio molto denso e articolato nel quale se poco si parlava di fotografi e fotografie in senso proprio[1007] queste erano poste in relazione dialettica con le descrizioni e i giudizi offerti dalla stampa coeva e con le opinioni espresse dagli scrittori, specialmente stranieri, lungo un percorso che a partire dalla stagione risorgimentale proseguiva sino a comprendere i “mutamenti prospettici” indotti da fenomeni di vasta portata quali lo sviluppo delle ferrovie, le bonifiche e l’industrializzazione dell’agricoltura ovvero, su un fronte distinto ma non disgiunto, l’affermarsi di un turismo, che al consueto interesse per le città d’arte affiancava la scoperta di nuove mete: dalle Alpi al mare della Liguria e ai laghi settentrionali, precedendo di poco la prima ‘massificazione’ promossa dal Touring Club Italiano. Alle vicende del sodalizio, collocate nel generale contesto di trasformazione di un mercato fotografico in cui all’aumento della produzione industriale (apparecchi, materiali sensibili) corrispondeva la diminuzione del mercato professionale, era stato dedicato un volume (Porro 1991) che aveva contribuito in modo divulgativo quanto accurato e chiaro a definire il ruolo svolto dal quella associazione nell’affermarsi di una cultura fotografica e visuale sempre più estesa, sebbene poi sclerotizzata in letture sempre più stereotipate, sottolineando il dialogo con le riviste fotoamatoriali, di fatto rivolte allo stesso pubblico degli iscritti al TCI.
La rappresentazione del paesaggio era stato uno degli elementi sui quali si era fondato il “processo di storicizzazione e valorizzazione dell’intero nostro patrimonio fotografico” e alla verifica di tale ipotesi venne dedicata la mostra del decennale di “Modena per la fotografia” (Maggia et al. 2003). Il comitato scientifico[1008] aveva individuato a questo scopo quattro ambiti di indagine che a partire dalle prime produzioni romane degli anni Cinquanta del XIX secolo si spingevano sino alla più stringente contemporaneità, offrendo alla riflessione anche opere meno note ma considerate significative rispetto al tema. Non quindi presunte ‘scoperte’ e inediti, semmai nuovi punti di vista ed esplicitazioni di possibili intrecci e rimandi che superassero il più consueto approccio monografico alle singole figure autoriali per privilegiare le trame; ciò che si tradusse in scelte consapevolmente parziali e problematiche, destinate a sollevare “consensi e dubbi, stimolare curiosità e soprattutto dare il via a quegli approfondimenti così necessari all’interno di una materia ampia e ancora poco studiata quale è la fotografia italiana nel suo insieme.”[1009] Lo spostamento e forse lo scarto rispetto alle posizioni critiche più consolidate interessò in quegli anni anche le produzioni di soggetto alpino, provandosi a considerare la fotografia in montagna (molto più che di), quale ambito di studio particolarmente efficace per riflettere su di un periodo cruciale della storia della nostra fotografia quale fu quello tra le due guerre[1010]. L’ipotesi critica sottesa era che quella produzione avesse costituito uno degli ambiti in cui era avvenuto il passaggio – faticoso e per lo più incerto -dal tardo pittorialismo nostrano al modernismo di matrice europea, attraverso sperimentazioni che guardavano al bianco del mondo alpino per ridurre il peso del contenuto referenziale dell’immagine fotografica, volgendosi verso uno zero del significato quale mezzo per favorire una crescita dell’autonomia del significante, della forma compiuta che poteva dare valore all’immagine. L’analisi venne condotta ponendo a confronto una serie di opere tanto simili nella scelta dei soggetti e del loro trattamento da consentire di proporre criticamente il concetto di autore collettivo, inteso come identità culturale a cui corrispondevano figure empiriche impegnate in infinite variazioni sul tema, dove lo spazio bianco offerto dal contesto naturale offriva il materiale grezzo con cui misurarsi per elaborare nuove scritture, poco interessate alla referenzialità e semmai orientate verso l’astrazione: una fotografia di fatto ‘soggettiva’, sebbene ancora inevitabilmente lontana dalla consapevolezza critica che a quel termine sarebbe stata data da Otto Steinert nel secondo dopoguerra.
L’arcipelago di volumi dedicati alle vicende fotografiche di una città o di un paese fu in quegli anni di taglio prevalentemente memorialistico[1011], come rivelavano i titoli utilizzati per i quali, dopo il declino di locuzioni quali “cent’anni”, “com’era”, “una volta” e il successo calante del concetto di “ricordo/ricordi” (solo 7 occorrenze) si affermava l’uso variamente combinato di lemmi come “immagini” (di un secolo; ritrovate; storia per; vecchie; un luogo e la sua immagine) e anche, naturalmente, “memoria” (lo specchio della m.; la m. e l’oblio; la m. fotografica; scenari della m.; sguardo e m.[1012]), senza dimenticare i casi in cui i due termini erano coniugati tra loro (immagini e m./ immagini nella m./ immagini della m./ la m. e l’immagine). In una prima approssimazione di tipo quantitativo il dato più significativo riguardava la loro totale assenza per un numero rilevante di regioni (Valle d’Aosta, Molise, Basilicata, Sardegna) e la scarsa presenza per altre (dal Trentino Alto Adige alla Calabria), così che era ragionevolmente possibile affermare che per la maggior parte delle località italiane la ricerca ebbe scarso o nullo sviluppo o, almeno, nessuna visibilità editoriale. Questo elemento poteva essere ulteriormente precisato considerando la dimensione demografica e urbana così come il ruolo di polo culturale storicamente svolto dalle località oggetto di studio. Risultava così che nella maggior parte dei casi erano ancora i capoluoghi regionali le aree più indagate, eventualmente affiancati dai centri con una importante storia fotografica come Biella, così come le città d’arte e le grandi mete turistiche, non sempre coincidenti con la gerarchia territoriale (Verona, Capri). Caso emblematico era poi Roma, che concentrava ancora su di sé in modo esclusivo tutti i titoli laziali, senza che alcuna ricerca (per quanto ci è noto) fosse dedicata ad altre località. Ne risultava una stretta corrispondenza – tematica, produttiva e commerciale – con le caratteristiche della produzione ottocentesca, a dimostrazione di quanto i flussi turistici e le dinamiche commerciali abbiano continuato a condizionare, in modo diretto o indiretto le iniziative editoriali quindi anche le occasioni di studio e di ricerca. Sola eccezione fu quella toscana, in cui l’ovvia prevalenza di Firenze non impedì un fiorire di iniziative dedicate ad altri centri della regione, anche minori.
Dopo il 1977[1013] l’interesse per la fotografia piemontese del XIX secolo aveva prodotto una articolata serie di ricerche e saggi monografici[1014], a cui seguirono alcune iniziative espositive ed editoriali dedicate alla fotografia pittorialista e al successivo passaggio al modernismo[1015] che affrontavano il problema della formazione e sviluppo delle varie culture fotografiche a scala nazionale pur avendo ancora Torino come perno in quanto sede di esposizioni e di importanti periodici. Questo insieme di iniziative aveva fatto dell’area piemontese il contesto territoriale forse più studiato in ambito italiano negli ultimi decenni del Novecento, con una profondità e articolazione di indagine di cui era difficile trovare riscontro in altri territori e – più in particolare – un ottimo terreno di studio per analizzare e comprendere i delicati passaggi che consentirono di far transitare e trasformare la concezione ottocentesca della fotografia come trascrizione del referente nella cultura pittorialista e poi modernista dell’autonomia dell’immagine. L’analisi ravvicinata di quei contesti e di quelle produzioni consentì di sottoporre a verifica le distinzioni, non sempre storicamente così nette come si è portati a intendere oggi, tra fotografia documentaria e artistica, considerando l’operato di autori impegnati tanto sul fronte delle campagne legate alla tutela e al restauro del patrimonio architettonico quanto su quello della espressione autoriale. In particolare il lavoro sulle fonti a stampa consentì di riscontrare i progressivi slittamenti semantici di alcuni termini e specialmente del qualificativo ‘artistica’, che aveva “mutato progressivamente di senso, passando dalla designazione specifica dell’opera riprodotta a quella dell’opera prodotta: dal soggetto all’immagine”[1016], restituendo la complessità e le sfumature di una cultura per troppo tempo considerata in modo schematico. Al rapporto tra la società e le culture fotografiche della Torino del XIX secolo, ma con un’estensione sino al 1911, quasi coincidente con la soglia iniziale di quel “Secolo breve” di cui di lì a poco avrebbe scritto Eric Hobsbawm[1017], dedicava un proprio fondamentale contributo Marina Miraglia[1018], pubblicato nello stesso anno dell’altro saggio di argomento in senso lato torinese di Paolo Costantini (1990) dedicato a “La Fotografia Artistica”[1019]. Nella Premessa erano esplicitate le ragioni della scelta del 1911 come terminus ad quem, del resto già adottato per le Note einaudiane[1020], e i presupposti storiografici che avevano improntato la sua ricerca e determinato la scelta del titolo[1021], sebbene risultassero poi meno chiare le ragioni per le quali avesse abbandonato le partizioni tematiche adottate per le Note per ritornare a più consuete periodizzazioni su base tecnologica. I nessi già a suo tempo riconosciuti tra “trasformazione della società in senso capitalistico-industriale” e sviluppo delle pratiche fotografiche davano ragione delle “accezioni del tutto particolari con cui si presentarono a Torino non solo i primordi della fotografia, ma soprattutto il successivo processo d’industrializzazione e di massificazione dell’immagine che si verificò prima nell’età del collodio, poi, più prepotentemente, in quella della gelatino bromuro d’argento, dando avvio, come reazione, alle declinazioni della fotografia pittorica che, più che in altre città italiane, trovarono proprio in ambito torinese il terreno più fecondo della propria fioritura.”
Oltre ad illustrare i temi più consueti (la produzione vedutistica, il ritratto) lo studio individuava alcuni aspetti peculiari di ciascuna fase quali, per il periodo delle origini, la precoce adozione di forme pubblicitarie e la forte presenza di fotografi amatoriali appartenenti alla nobiltà e alla prima borghesia industriale. Caratteristica dell’età del collodio, dei “trent’anni d’oro della fotografia”[1022] era invece la sua affermazione “quale medium alternativo nel campo della produzione e della riproduzione dell’immagine” e della documentazione del territorio che “a parere di chi scrive può essere considerata una delle pagine più intense della storia della fotografia italiana”; mentre risultava “mediocre il rilievo esercitato dalla fotografia nell’ambito della documentazione dell’opera d’arte”; un patrimonio ancora scarsamente considerato dalla storiografia coeva e la cui tarda ‘scoperta’ (non solo fotografica) fu in larga parte dovuta all’attività sistematica di amateur come Secondo Pia e Francesco Negri o di professionisti atipici come Pietro Masoero.
Le mutazioni indotte dai processi di industrializzazione dei materiali sensibili erano affrontate con una articolata analisi delle dinamiche di mercato e delle attività connesse, industriali, commerciali ed editoriali, considerando anche il fenomeno nuovo dell’antagonismo tra professionisti e dilettanti, già segnalato da Edoardo Di Sambuy in occasione del Congresso torinese del 1898. A Torino, secondo Miraglia, tutti questi vari aspetti “poterono incanalarsi nella coerenza di un percorso unitario che, nell’appoggio costante della critica, trovò inoltre il suggello del proprio primato”[1023], specie per quanto riguardava le svariate declinazioni del pittorialismo. A questo era dedicato il capitolo conclusivo, nel quale Miraglia adottava ancora l’amata definizione di “fotografia pittorica”[1024] e la consueta, discutibile genealogia che la derivava da Robinson e Rejlander, ma confermandone la funzione storica di snodo estetico e critico, in un contesto in cui “l’elaborazione tecnico-formale del prodotto finale, ossia della stampa [era un] fenomeno da collegare (…) ad una delle istanze più sentite di tutta la cultura artistica dell’epoca, istanze cui la fotografia pittorica (…) lontana da quel servilismo che alcuni critici a noi contemporanei le imputano[1025], seppe offrire il proprio contributo di ricerca.”[1026]
Sostanzialmente negativo fu invece il giudizio espresso sulla successiva stagione di moderato modernismo formulato in occasione di una mostra dedicata ad alcuni dei protagonisti della fotografia torinese tra le due guerre (Falzone del Barbarò et al. 1991). Per Costantini “la fotografia torinese e italiana che vediamo riassunta negli annuari, nelle riviste e nelle esposizioni dell’epoca, rimane estranea ai dibattiti e alle ricerche che altrove stanno definendo i destini del moderno. In alcuni casi sembra anche riprendere quelle polemiche, svuotandole tuttavia di ogni significato, difendendo proposte inattuali, evitando ogni riflessione sulla nuova realtà, che solo in sporadici casi pare venire registrata, forse inconsapevolmente.”[1027] Quel giudizio un poco affrettato risultava in parte contraddetto dalle stesse immagini presentate, la cui scelta per altro sembrava dettata più dalla disponibilità di opere presenti nelle collezioni del Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari di Firenze, produttore della mostra, che da una meditata valutazione critica[1028].
“La fortuna storiografica della fotografia milanese dell’Ottocento è recente se non recentissima, e caratterizzata prevalentemente da appuntamenti espositivi” scriveva Roberto Cassanelli[1029] richiamando sinteticamente il quadro dei contributi sul tema, con accenti portati alle possibili connotazioni e implicazioni risorgimentali di quella produzione, non solo ritrattistica, o al ruolo svolto dai membri del Circolo Fotografico Lombardo negli anni della diffusione delle emulsioni alla gelatina bromuro d’argento. Accanto a questi non risultavano disponibili altri interventi utili a delineare un quadro complessivo, mentre fiorivano semmai studi monografici o settoriali, quasi che la complessità e l’articolazione delle vicende locali richiedesse ancora e preventivamente occasioni di approfondimento e di scavo, rendendo impraticabile una sintesi storiografica analoga a quella realizzata da Giovanna Ginex sulle Origini della fotografia in Lombardia, compresa nel relativo volume della collana einaudiana “Le Regioni italiane dall’Unità ad oggi”[1030] . “Scopo e limiti di questo lavoro – scriveva l’autrice – consistono dunque nell’illustrare differenti spunti per un’indagine innovativa sulle origini della fotografia in Lombardia, evitando il più possibile di riproporre riassunti della didattica e tradizionale storia cronologica della fotografia, per considerare piuttosto (entro quella solida griglia già codificata) altri aspetti, quali la produzione industriale e la pubblicistica ad essa legata, le esposizioni specializzate, il rapporto con le arti.”[1031] In particolare per Ginex “le caratteristiche imprenditoriali e commerciali della regione sin dagli esordi segnano la fotografia lombarda, influenzandone anche gli sviluppi futuri. La Lombardia assume una vera preminenza nel campo della produzione e del commercio di materiali fotografici[1032] (…) dell’editoria d’arte” e di quella specializzata, compresi i primi periodici (L’Artista, di Sacchi; La Camera Oscura, di Baratti) oltre che della fotografia industriale. Per la sua sistematicità il saggio costituiva un punto d’arrivo della nostra storiografia fotografica, specialmente per quell’indicazione metodologica a proposito della necessità di andare oltre le consuete periodizzazioni tecnologiche e per l’altrettanto determinante definizione del “doppio livello di decodificazione: quello legato al documento scritto e quello specifico del documento visivo”, pertinente all’analisi storico fotografica, sebbene poi del secondo registro non si trovasse traccia in quell’accuratissimo testo, né vi fossero rimandi espliciti a singole immagini, ciò che invece costituiva uno degli elementi di interesse di altri contributi precedenti[1033].
Nel 1992 Marina Miraglia aveva studiato “i meccanismi della committenza, del mercato e della diffusione, nonché le modalità d’uso della fotografia da parte della pubblica amministrazione e della committenza privata” in ambito bolognese, riconoscendovi “una notevole e precoce consapevolezza dei ruoli storici del nuovo mezzo soprattutto in accezione civile. Il tratto più costante che emerge dalle raccolte fotografiche esaminate (…) è infatti la spiccata propensione della fotografia a porgersi quale veicolo di istanze, di natura varia, ma tutte essenzialmente municipalistiche o, come si diceva, di impegno civile.”[1034] Il saggio si collocava nel contesto del più ampio progetto editoriale curato da Giuseppina Benassati e Angela Tromellini[1035], caratterizzato da un fortunato titolo, che invertiva anche concettualmente il modello di Becchetti 1978. Diversamente dall’esempio torinese, la periodizzazione qui adottata (1839-1900) non influiva sull’articolazione del volume, essendo l’opera suddivisa in due parti, la prima delle quali ospitava saggi monografici relativi ad alcuni temi specifici (il collezionismo, i rapporti con la tradizione incisoria) e a un autore come Calvert Jones (a cui si dovevano le prime riprese bolognesi), mentre la seconda era costituita da ampie sezioni descrittive e storico critiche dedicate ai meccanismi di formazione delle principali raccolte cittadine[1036]. La differenza più rilevante in termini metodologici e storiografici era però costituita dalla natura collettiva di questo progetto, nel quale una struttura necessariamente non lineare conservava un buon equilibrio tra definizione del contesto generale e approfondimenti. Ne emergeva quell’orizzonte culturale municipalistico già indicato da Miraglia e ben delineato nel contributo di Giuseppina Benassati[1037] e si faceva più chiara la produzione fotografica dei numerosi operatori attivi a Bologna[1038] dai primi anni Cinquanta del XIX secolo, a loro volta studiati da Angela Tromellini e Roberto Spocci[1039] che ne evidenziavano le fortune commerciali ricorrendo a fonti importanti e di norma poco frequentate quali gli annunci pubblicitari sulla stampa periodica, i registri del “ruolo contribuenti la tassa di commercio” e i fascicoli individuali presso la Camera di Commercio[1040].
Ad un solo anno di distanza usciva Il tempo dell’immagine (Emiliani et al. 1993): un altro interessante volume dedicato alla storia della fotografia a Bologna che rappresentava l’esito dell’impegno di un diverso gruppo di autori, a testimoniare la presenza di una solida per quanto divisa comunità bolognese di studiosi, difficilmente riscontrabile altrove. L’arco cronologico considerato giungeva alla contemporaneità ed era declinato per saggi monografici la cui sommatoria delineava un possibile, ulteriore profilo storico dell’immagine della città e delle sue vicende fotografiche, rivolto ad un pubblico anche non specialistico, ciò che poteva forse motivare l’assenza di ogni apparato di tipo descrittivo o catalografico.
Nell’intervento di apertura Andrea Emiliani definiva le coordinate del progetto nella convinzione che “un libro dedicato ai fotografi è oggi, di fatto, un libro dedicato alla città nella quale essi operarono, ai luoghi che predilessero o dai quali furono scelti”[1041], confermando quella concezione della fotografia come strumento privilegiato di documentazione e poi narrazione della città e dei luoghi che aveva già marcato progettualmente la grande campagna relativa al centro storico condotta da Paolo Monti per la curatela dello stesso Emiliani e di Pierluigi Cervellati negli anni 1969-1972[1042]. “Il tentativo – proseguiva Emiliani – è quello di far sì che alcuni momenti (…) di questa comunità emergano dall’osservazione e dallo studio di un fotografo, di una bottega fotografica, da un atelier di foto d’arte oppure di mera circostanza di cronaca. E questo perché il fotografo, di quel problema, è divenuto il portatore e l’interprete, colui che ne ha condotto fino ai nostri occhi l’immagine. Il tema di questo libro, la possibile differenza che lo distacca da altre formule di narrazione storica della cosiddetta specialità, oppure dalla biografica vicenda di autori di particolare qualità, sta tutta in questa scelta difficile.” Una scelta, diremmo, che accoglieva e metteva a frutto i presupposti che avevano guidato la realizzazione degli annali einaudiani del 1979[1043], muovendo nel territorio specifico della storia dello sguardo e delle sue restituzioni. E allora, per Emiliani, si trattava di riconoscere e delineare il cammino che aveva portato “fin sulle soglie dell’innovazione fotografica” a partire da una “figuratività antica”, con un sentire non troppo dissimile da quello di Heinrich Schwarz e di Peter Galassi: “Il percorso mi sembra tuttavia semplice. Almeno dalla camera ottica in avanti, la pittura ha preparato molti passi alla macchina fotografica.” Interpretazione tanto canonica quanto problematica, che non teneva conto degli scarti paradigmatici introdotti da quella “sua specificità tecnica (anzi tecnologica) e quindi estetica” di cui parlava Zannier nel proprio contributo al volume[1044], rivendicando la necessità di “conoscere questo codice della fotografia che si rivela soprattutto nella sua storia, nell’evoluzione della sua tecnica, tesa tuttora all’alta fedeltà.” Non la celebrazione fuori tempo massimo di una storia puramente tecnologica ma la necessità chiara di tenerne sempre a mente le implicazioni sintattiche e linguistiche: narrative quindi. I numerosi saggi di approfondimento costituivano altrettante occasioni di verifica di questi assunti, in particolare quello che Corinna Giudici[1045] dedicava ai professionisti e studi attivi nel settore della documentazione del patrimonio. Un testo puntuale e appassionato, che ripercorrendo un tema già accennato nel precedente volume da Miraglia considerava il ruolo di committenza dei vari organismi di tutela, in un “reticolo di scelte [che] si mette a fuoco sulle acquisizioni storico-critiche e sulle grandi mostre che ne discendono”, a cui i fotografi fornirono un irrinunciabile contributo, fondato sulle loro “complicate, preziose maestrie artigianali.” Questa affettuosa e sapiente considerazione per il saper fare, concreto quanto solitamente inavvertito del lavoro fotografico era il più importante contributo storiografico, di metodo storiografico, di quel saggio già di per sé fondato su solide ricerche documentarie e collocato nella prospettiva di un momento storico in cui maturava “un approccio alla fotografia non solo antica, ma appena della scorsa generazione, come a un ‘incunabolo’ che reclama una nuova attitudine conservativa o restaurativa e insieme allontana in prospettiva storica un ruolo e un rapporto con la prassi di tutela che non si considerano più, oggi, facilmente reiterabili.”[1046]
Dopo la serie di importanti interventi di Piero Becchetti degli anni Ottanta, l’interesse per le vicende della fotografia locale non aveva mostrato soluzioni di continuità, come documentava ampiamente il convegno La fotografia a Roma nel secolo XIX. La veduta, il ritratto, l’archeologia, promosso nel dicembre del 1989 dall’Archivio Fotografico Comunale[1047]; prima importante occasione di riflessione critica che sin dal titolo identificava, confermandole, quelle che erano state le aree prevalenti di produzione, e ora di studio. In quella occasione risultarono di particolare interesse più che i contributi che fornivano ulteriori approfondimenti conoscitivi, estendendo la messe di informazioni a nostra disposizione, quelli che mostravano una significativa novità di approccio, dovuti una nuova generazione di studiose cresciute prevalentemente in ambito istituzionale, ad ulteriore conferma del ruolo marginale svolto in quegli anni dalla formazione e dalla ricerca universitaria. Apparteneva invece alla generazione dei maestri Marina Miraglia, che nel proprio saggio redatto per il progetto collettivo dedicato alla Maestà di Roma ritesseva le fila di quelle prime stagioni fotografiche segnate dalla presenza di autori internazionali che vedevano nella città uno dei principali poli di attrazione e vivevano in quel “clima di accademia e di belle arti” di cui aveva già parlato Silvio Negro[1048], adeguando le produzioni del “nuovo mezzo (…) alla specificità delle istanze storico-culturali ed estetiche dominanti nel periodo”[1049]. In quella continuità iconografica “maturarono esiti di altissima qualità compositiva ed emotiva” ma soprattutto si determinò “un più significativo ed epocale passaggio dalla ‘veduta’ e dalla sua tradizione scientifica (…) al carattere interpretativo e autoriale del ‘paesaggio’ (…) dovuto ai suggerimenti della contemporanea fotografia francese ma non estraneo – almeno per ciò che pertiene la consapevolezza espressiva – all’ambiente romano”. Precisazione critica importante e innovativa se ancora Becchetti (1989) aveva parlato più genericamente di “veduta” per tutto il periodo che andava dalle origini all’età del collodio[1050], ma che avrebbe forse richiesto una più puntuale definizione ed esemplificazione, ad evitare che potesse essere fraintesa con una semplice distinzione di soggetti tra città e campagna, tra monumenti ed elementi naturali[1051]. Quel “carattere interpretativo” era già leggibile nelle immagini Della Via Appia e dei Sepolcri degli Antichi Romani (1853) di Pompeo Bondini, studiate da Maria Antonella Pelizzari (1996c), per la quale esse rappresentavano “per l’Italia il primo tentativo riuscito di creare un discorso sui resti romani con parole e immagini”, suggerendo “una serie di indizi circa gli scopi della fotografia italiana (…) di fornire il quadro di un paese (…) quasi soffocato dal suo passato.” Anche Andrew Szegedy-Maszak, autore di numerosi saggi dedicati alle campagne fotografiche ottocentesche[1052], aveva riconosciuto nelle più tarde fotografie di soggetto archeologico, e “malgrado gli intenti commerciali (…) un atteggiamento culturale facilmente identificabile, di matrice romantica. (…) Un’immagine non documentaria dunque, ma sensibile ai sentimenti nostalgici di autori e fruitori.”[1053]
Un notevole interesse metodologico offrivano anche gli studi di Maria Francesca Bonetti rivolti all’analisi critica di due collezioni ricche di esemplari della prima fotografia romana, nei quali veniva assunto come elemento determinante il rapporto strutturale tra collezionismo e storiografia, solitamente sottaciuto. Nel saggio che accompagnava il catalogo della collezione Lundberg[1054], dove si presentava un importante e inedito corpus di opere dell’allora “quasi del tutto sconosciuto” Adriano de Bonis appartenute al pittore Edmond Lebel, la studiosa poneva in relazione diretta la possibilità di studio con l’acquisizione delle opere da parte dei collezionisti, anzi, ancor prima, con la loro segnalazione da parte dello stesso antiquario che le deteneva prima della loro dispersione commerciale[1055]. Nel più recente volume dedicato alla collezione Maggia[1056], aperto da un richiamo a Silvio Negro “pioniere degli studi sulla fotografia romana, a sua volta raffinato conoscitore e collezionista”, la definizione stessa di collezione veniva estesa tipologicamente sino a comprendere il ruolo di committenti quali Alexander John Ellis e John Henry Parker, mostrando quanto “l’interesse collezionistico (…) si sovrapponga e si intrecci (…) con intenti di divulgazione culturale e proposte di carattere editoriale che spesso (…) hanno caratterizzato la formazione di specifiche raccolte fotografiche, motivandone a volte la stessa costituzione e le più profonde ragioni di esistenza e conservazione”. Queste considerazioni, implicitamente estese alla collezione oggetto di studio, consentivano a Bonetti di riflettere sul significato e sulla funzione storiografica assunte dalla sistematicità e dalla ricorrenza di temi che la caratterizzava e che poteva a tutta prima apparire ridondante. Proprio su quelle la studiosa fondava la possibilità stessa di condurre con grande finezza filologica l’analisi delle costanti e delle varianti di trattamento descrittivo dei soggetti ripresi; elementi indispensabili per distinguere le realizzazioni dei diversi operatori e riconoscerne quindi il profilo autoriale[1057]. La considerazione critica del rapporto tra collezionismo e storia della fotografia era già stata avanzata da Miraglia[1058] ma in prospettiva più storica che storiografica, ribadendo il nesso inscindibile e significante che connetteva le ragioni della permanenza (o della sopravvivenza) del patrimonio alle possibilità stesse della sua conoscenza, mentre ciò che qui emergeva era la relativizzazione dello stesso esame storico critico, non più proposto come esaustivo e per certi versi assoluto, ma condizionato se non proprio determinato dalla caratteristiche e dalle dinamiche di formazione della collezione di riferimento. Un nodo centrale della stessa pratica storiografica quindi; dell’esplicitazione delle condizioni materiali in cui è data la possibilità di produrre studi di storia della fotografia. Poiché -almeno nell’universo della produzione analogica – non si può dare storia della fotografia senza fototipi da maneggiare, conoscere e studiare, risulta indispensabile storicamente e storiograficamente comprendere le ragioni archivistiche e collezionistiche che hanno determinato la presenza attuale, le ragioni e i modi della permanenza di quelle stesse fotografie nella loro materialità di oggetti[1059]. Era l’attenzione per quella materialità, indagata nella specificità del processo fotografico utilizzato dagli autori considerati, che caratterizzava la mostra Roma 1850 dedicata nel 2003 al ben noto circolo dei pittori fotografi del Caffè Greco[1060]; facendo sintesi di un ventennio di studi, ciò che la distingueva dalla mostra Pittori Fotografi a Roma[1061] del 1987 e da molte delle iniziative nel frattempo intercorse era proprio l’adozione di una solida analisi filologica orientata a riconoscere i nessi tra soluzioni tecnologiche e linguistiche, qui resa possibile da un confronto serrato tra positivi e negativi, reperiti presso le principali collezioni francesi e italiane, superando ogni approccio storico cronologico o riduttivamente formalistico.
In area meridionale si manifestarono in quegli anni due distinti orientamenti di ricerca: l’analisi delle fonti a stampa e la ricostruzione del tessuto professionale di alcuni centri geograficamente e culturalmente marginali[1062]. Alla diffusione della notizia dell’invenzione della fotografia a Napoli erano stati dedicati i contributi di Nicola Leone[1063], fatto di brevi commenti generici alle trascrizioni dai giornali locali, e quello di poco successivo di Giovanni Fiorentino (1992), di ben altro impegno storiografico e metodologico, che con implicito giudizio critico non considerava la precedente indagine. Buone informazioni sulla circolazione di queste notizie erano già disponibili nel catalogo della grande mostra del 1979 sulla Fotografia italiana dell’Ottocento[1064], ma ciò che qui si presentava come innovativo era il modello interpretativo, orientato a “cogliere una rete causale tra il bisogno di produrre e consumare immagini, l’invenzione della fotografia, il suo sviluppo a Napoli e dintorni.”[1065] L’intenzione era quella di analizzare il fenomeno nell’ambito della nascente civiltà delle immagini, in un contesto quale quello partenopeo particolarmente ricco di tradizione e produzione iconografica. Il saggio non corrispondeva del tutto a così impegnative premesse, limitandosi di fatto – ma non era poco – a presentare criticamente le notizie comparse sulla stampa locale in quel fatidico 1839 approfondendone i nessi e i significati e a commentare la ben nota Relazione di Macedonio Melloni e infine a chiarire i termini documentari della relazione tra Michele Tenore e William Henry Fox Talbot.
Paolo Morello aveva anticipato sulle pagine di “Fotologia” gli esiti di una più vasta ricerca in corso, poi confluita in una mostra nel 1999[1066], presentando un nucleo di fotografie di briganti donate da Leonardo Sciascia a Enzo Sellerio negli anni Ottanta e altre analoghe conservate al Museo Pitrè di Palermo, lamentando che “la questione del brigantaggio non è stata ancora fatta oggetto di uno studio sistematico da parte degli storici della fotografia. Manca un censimento delle raccolte più importanti; manca un affinamento d’ordine metodologico.” Il saggio risultava interessante proprio in tal senso, nel collocare storicamente quel fenomeno (e le fotografie che ne derivarono) nel quadro generale della “questione meridionale”, per procedere poi a un’analisi molto dettagliata che incrociava la lettura delle immagini con quella delle fonti archivistiche e a stampa, anche al fine di individuare le differenti funzioni d’uso di quella produzione: da quelle poliziesche e giudiziarie a quelle celebrative, commerciali e apotropaiche, come sembravano indicare i fotomontaggi di più ritratti post mortem raccolti in ovale, per i quali risultava difficile immaginare ogni altro tipo di utilizzazione. Seguendo un modello di narrazione storiografica ormai consueto, anche nel catalogo della mostra dedicata a Fotografi e Fotografia a Palermo nell’Ottocento[1067] l’apertura era dedicata all’illustrazione dei tempi e modi di diffusione a stampa della notizia dell’invenzione, a cui faceva seguito la ricostruzione dell’attività dei primi fotografi itineranti, tutti provenienti dalla Francia. Si trattava di elementi indispensabili per arricchire lo stato delle conoscenze sulla fotografia a Palermo che Morello definiva ancora “lacunoso, invero modesto”[1068], essendo la documentazione dei fatti del 1860 il solo momento in cui “la temperatura artistica della fotografia a Palermo raggiunse il calor bianco”, ben testimoniata dalla nota serie di stereoscopie realizzate in quei giorni da Eugène Sevaistre, in parte rese note a suo tempo da Lamberto Vitali[1069], qui sottoposte ad una accurata opera di analisi storico critica circa la loro datazione.
Le indagini sulla storia della fotografia in area meridionale, per lungo tempo circoscritte alla sola capitale del Regno, avevano già goduto di un primo momento di interesse per territori considerati ulteriormente marginali con la collana intitolata ai “Fotografi salentini”, poi non proseguita oltre il primo titolo dedicato al fotografo modenese Pietro Barbieri, per lungo tempo attivo a Lecce[1070], mentre Miraglia aveva ricostruito le vicende di una delle più importanti famiglie di fotografi baresi: gli Antonelli[1071]. Ancora Lecce e Bari furono l’argomento di due storie della fotografia locale, frutto di ricerche specifiche che richiamavano gli esiti degli scarsi ed eterogenei studi antecedenti, contribuendo così “ad una prima organizzazione sistematica di un patrimonio di immagini (…) prima che un’ulteriore dispersione lo renda impossibile.”[1072] Un’urgenza che legava indissolubilmente conoscenza e tutela ma che intendeva anche opporsi alla “domanda nostalgica di vedute cittadine [che] ha provocato da oltre mezzo secolo una enorme e spesso sciatta riproduzione di vecchie fotografie [generando] una grande confusione circa l’originario autore.”[1073] A fronte di queste intenzioni meritorie il lussuoso volume dedicato a Lecce da Ilderosa Laudisa offriva però solo sommarie schede degli autori individuati, mentre l’ampio repertorio di immagini era mortificato da una inqualificabile impostazione grafica e da una pessima qualità di stampa[1074]. La scelta di rimandare ad un secondo volume, poi non pubblicato, l’analisi storico critica della produzione e dell’attività fotografica leccese faceva di questo poco più che un’antologia occasionale, dalla quale solo indirettamente riuscivano ad emergere alcuni elementi significativi relativi alla prima, discreta attività dagherrotipica[1075] e soprattutto alla provenienza extralocale dei principali studi attivi in città dopo il 1850, alcuni dei quali (Falardi, Parodi, Bambocci) ebbero sede anche a Bari, studiata in quegli stessi anni da Sergio Leonardi[1076] mostrando un meritoria cura nello studio e nella pubblicazione delle fonti archivistiche, per larga parte riprodotte nel volume.
Tra le occasioni di crescita della cultura fotografica italiana di quel periodo va annoverata anche la nascita di una nuova pubblicazione periodica destinata a promuovere la conoscenza del patrimonio: “Fotostorica”. La prima serie vide la luce nel 1995 per iniziativa dell’allora direttore Adriano Favaro come bollettino dell’Archivio Fotografico Storico della Provincia di Treviso – AFS; aveva forma di un ‘foglio’ (8 pagine non legate)[1077] ma già il numero 5-6 del 1996 si presentava come una vera e propria piccola rivista (34 pagine con cucitura a punti metallici), sebbene ancora di impostazione molto localistica. Col sottotitolo de “Gli Archivi della fotografia” prese avvio nel settembre 1998 la nuova serie[1078], curata da Zannier e caratterizzata da una nuova e più allettante impostazione grafica ed editoriale oltre che da una serie di collaboratori di rilievo, con forte prevalenza – almeno nei primi numeri – di studiosi legati agli Alinari (Monica Maffioli, Emanuela Sesti, Daniela Tartaglia). Il passaggio avveniva, e forse non a caso, nel momento in cui si affacciavano le prime evidenti difficoltà di pubblicazione di “Fotologia”, la cui periodicità a quella data aveva ormai raggiunto cadenze biennali, mentre il coordinamento scientifico, già affidato a Paolo Costantini, veniva assunto da Maffioli e, per il numero 18-19, da Tartaglia. Qualche tempo dopo, e forse con una piccola nota polemica, Adriano Favaro ricordava come “Fotostorica non [fosse] nata in un solo giorno: alle sue spalle c’è stato un lungo percorso durante il quale si è man mano costruita una struttura, l’AFS, in grado di svolgere nel territorio un ruolo culturale efficace, per giungere al quale tuttavia è stata necessaria una preventiva riconversione e formazione degli operatori, una accurata selezione dei fondi fotografici da acquisire per primi, un’opera di attenta sensibilizzazione del territorio, attraverso mostre fotografiche, collaborazioni diverse ed il quotidiano rapporto con un’utenza sempre più numerosa. Fotostorica è nata successivamente, come bollettino delle attività di questa struttura. Grazie alle poche pagine degli esordi, un po’ alla volta il messaggio è passato nelle scuole, nelle associazioni culturali, negli enti locali, nelle università.”[1079] Ciò che distingueva nettamente la nuova pubblicazione rispetto al ‘modello’ costituito da “Fotologia” era una più esplicito interesse per gli archivi e le collezioni pubbliche e private, non dissimile quindi da quello espresso da “AFT” sebbene con divergenti impostazioni storiografiche. L’intento era “di investigare e mettere alla luce archivi e fondi fotografici più o meno noti nello stesso tempo offrendo agli operatori culturali preziose indicazioni di metodo”, senza però riuscire ad esprime la capacità progettuale e di coinvolgimento di una più ampia schiera di studiosi propria della rivista pratese, in conseguenza anche – si direbbe – di una ancor più marcata connotazione territoriale; quasi una chiusura. “Salvaguardare dunque in primo luogo le opere dei fotografi diventa un imperativo e si tuteleranno, con queste, anche la memoria e le testimonianze della nostra terra veneta, della storia, dell’arte e dell’artigianato delle generazioni che ci hanno preceduto. Solo attraverso la fotografia (…) e grazie agli archivi della fotografia, le prossime generazioni potranno conoscere le grandi trasformazioni avvenute nel nostro territorio negli ultimi cent’anni ed osservare ancora opere d’arte dissolte o destinate a dissolversi nel nulla, o quei mutamenti di costume che hanno accompagnato il succedersi dei decenni, la loro storia, le loro radici.” In realtà la rivista, specialmente nei primi numeri, ospitò contributi relativi anche ad altre realtà istituzionali e territoriali, oltre che schede di archivi familiari e privati di un qualche interesse, insieme a testi dedicati ai più vari aspetti della storia della fotografia, che a partire dall’anno Duemila si tradussero in dossier monografici. Col numero 9-10 di quell’anno, pur mantenendo immutati direzione e comitato scientifico[1080], venne ulteriormente rinnovata la veste grafica in corrispondenza della nuova periodizzazione quadrimestrale a numeri doppi, primo sintomo di quelle difficoltà editoriali che portarono alla chiusura con il numero 29/30 del dicembre 2004. Il compiersi della crisi era certo dovuto alle difficoltà strutturali della fotografia italiana ma anche a una serie di altre ragioni sia di ordine contingente (la morte dell’editore) sia, come ricordava Adriano Favaro[1081], “per altre e diverse valutazioni degli enti pubblici veneti circa le priorità d’intervento in ambito culturale”. Non ultima tra le cause, per entrare più nel merito, poteva essere individuata in una certa autarchia intellettuale di cui “Fotostorica” era espressione: non solo molti articoli derivavano da tesi discusse con Zannier, restituite in contributi che di rado superavano le due-tre paginette, ma questi risultava anche essere l’autore quantitativamente più presente nella rivista, che ospitava da un minimo di due sino a un massimo di sette suoi interventi per numero, oltre alle segnalazioni bibliografiche di cui aveva la responsabilità redazionale.
L’estendersi delle ricerche e delle conoscenze relative al patrimonio storico favorì la redazione di studi dedicati alle figure di singoli autori, pubblicati prevalentemente nella forma e nell’occasione del catalogo di mostra o di breve saggio sulle riviste di settore (“AFT”, “Fotologia” e “Fotostorica”). Più rari i volumi monografici autonomi, che oscillavano tra la riproposizione di autori di lunga fama[1082] e, all’opposto, la scoperta di fotografi locali attivi in centri anche di piccole o piccolissime dimensioni, con un approccio sovente in bilico tra ricostruzione storica e rievocazione nostalgica. All’interno di questa eterogenea produzione, quantitativamente notevole (più di 200 titoli), era possibile individuare alcuni filoni o argomenti che offrivano interessanti contributi e nuovi elementi di comprensione di momenti significativi della storia della fotografia in Italia, letti attraverso la mediazione di alcune figure autoriali e non come fenomeno complessivo, sebbene poi dalla considerazione congiunta di alcuni di quelli fosse possibile trarre indicazioni di carattere più generale, qui presentate adottando una partizione su base tecnologica che può forse apparire obsoleta ma risulta ancora utile per rendere conto dello spazio variabile che la storiografia italiana ha riservato ad autori attivi nei diversi momenti (le “età”) e nella convinzione che tale modalità di presentazione favorisca una migliore comprensione e confronto tra i diversi contributi; specie considerando che nell’affrontare monograficamente l’attività di un autore o di uno studio fotografico non si possa prescindere, almeno sino all’epoca della prima industrializzazione, dagli aspetti tecnologici, che richiedono l’adozione di metodologie ben distinte da quelle più efficacemente applicabili (e per molti versi più complesse) richieste dallo studio della fotografia in condizioni di massificazione.
Le prime segnalazioni sui rapporti tra Talbot e l’Italia e in particolare con Giovannni Battista Amici risalivano al 1925, quando l’oftalmologo Giuseppe Albertotti illustrò le ventuno fotografie di Talbot poi da lui donate in parte alla Biblioteca Estense di Modena (Albertotti 1926), pubblicate da Zannier a più di cinquant’anni di distanza in occasione della loro presentazione in mostra nel 1978[1083].
Sulla relazione tra i due studiosi intervenne quindi in più occasioni Graham Smith (1991; 1995; 2002), anche discutendo un’altra opera legata alle relazioni emiliane di Talbot come l’Album Bertoloni[1084], mentre Alberto Meschiari curava l’edizione critica della corrispondenza di Amici[1085], compresa ovviamente quella con Talbot ma anche con un pioniere della fotografia astronomica come Padre Angelo Secchi[1086]. Dopo l’indagine collettiva dedicata alla Romantic Era[1087], l’interesse per un altro protagonista della calotipia in Italia come Richard Calvert Jones venne riattivata – come accade non di rado – dall’asta newyorchese a lui dedicata[1088], per essere poi almeno in parte approfondita da Michael Gray per quanto riguardava la sua produzione bolognese[1089]. Avviata con gli interventi curati da Gray (et al. 1988) e proseguita con il fondamentale studio di Becchetti (1989) dedicato a Caneva, la fortuna critica dei calotipisti italiani (non solo di quelli gravitanti intorno alla ‘Scuola’ romana) ebbe significativi sviluppi anche nel decennio successivo, compresi alcuni momenti di vivace dibattito filologico e storico critico a proposito di una importante ripresa della facciata e del quadriportico della chiesa di Sant’Ambrogio a Milano, per lungo tempo ritenuta del friulano Augusto Agricola[1090] ma ormai assegnata a Luigi Sacchi. Come ebbe causticamente a notare in proposito Roberto Cassanelli, “ancora solo Italo Zannier si ostina ad attribuire (senza alcun fondato motivo, esclusivamente sulla base di un malaugurato errore di Lamberto Vitali) [quell’immagine] ad Augusto Agricola. Lo studioso, che pare leggere raramente scritti non suoi o dei suoi collaboratori, è tornato sul problema (definitivamente risolto sulla base delle testimonianze coeve di G[iuseppe] Mongeri, nel 1996).”[1091] In anni in cui la filologia e la connoisseurship fotografica muovevano appena i primissimi, incerti passi, l’attribuzione errata di Vitali, e quindi di Becchetti (1978), Miraglia e altri, derivava – come era ben noto anche a Cassanelli – dall’accogliere l’indicazione di responsabilità apposta nel 1912 da Enrico del Torso al verso del cartone di supporto di quella fotografia, e lo stesso Zannier, pur mantenendo ostinatamente la propria opinione, aveva riconosciuto che l’indagine a cui rimandava Cassanelli, condotta da Miraglia e da Maria Francesca Bonetti, “sembra convincente (…) e si infiltra anche sul piano stilistico e della tecnica, che peraltro non differenziava troppo allora.” Ben al di là del merito specifico, il caso Agricola rappresentava di fatto un momento di confronto tra due distinti modelli storiografici, il secondo dei quali – più metodologicamente attrezzato – aveva prodotto in quegli anni una serie fondamentale di studi tale da restituire alla figura di Sacchi, sino ad allora poco studiata, un ruolo centrale nelle vicende della prima fotografia italiana. A partire dal catalogo dedicato alla Fotografia italiana dell’Ottocento[1092] era sempre stata scarsa la pubblicazione di sue immagini e furono solo le ricerche appassionate e accurate di Cassanelli, avviate dopo più di un decennio, a far emergere un nucleo consistente di fotografie, tale da consentire l’avvio dei primi studi critici su questo mitico “lucigrafo”[1093] poi editi per la cura di Miraglia nel 1996, in un periodo che vide più occasioni di approfondimento del fondo antico dell’ Accademia di Brera[1094]. Il denso, documentatissimo saggio di Miraglia ricostruiva finalmente i molteplici aspetti di questa figura complessa, ponendoli in relazione con la cultura milanese del tempo, di cui fu attore non secondario, e individuando criticamente i differenti momenti della sua attività fotografica e la rete di relazioni e rimandi. Meno convincente risultava invece l’ipotesi attributiva di alcune riprese realizzate a Palermo in occasione dei moti del 1860, note attraverso esemplari più tardi, stampati all’albumina, della collezione Siegert di Monaco[1095]. Sebbene la presenza nella città siciliana non fosse “confermata in nessun modo dalla narrazione del viaggio che l’artista stesso ci ha lasciato”, Miraglia ne sosteneva l’attribuzione a Sacchi non solo avvalorando l’ipotesi, che definiva “più che legittima” pur senza fornire prova alcuna, che egli fosse stato a Palermo negli stessi giorni di Sevaistre e Le Gray, ma anzi riconoscendo agli elementi caratteristici di quelle riprese “un ruolo decisivo nell’attribuzione che si propone in quanto essi appaiono del tutto sovrapponibili o quasi rispetto a quelli che possiamo osservare nelle analoghe fotografie, scattate nei medesimi giorni a Palermo da Gustave Le Gray (…); sembra quasi che i due autori abbiano lavorato uno accanto all’altro, Sacchi appoggiando il più giovane e famoso collega in una terra che sua non era, Le Gray consigliando il Nostro nell’uso di una tecnica che egli stesso aveva perfezionato.” Eventualità affascinante e quasi romanzesca, che in assenza di elementi più solidi si riduceva però ad un puro esercizio letterario[1096], tanto che lo stesso Cassanelli nella successiva importante monografia dedicata all’artista milanese nel 1998 si limitava ad accennarvi come a una “suggestiva ipotesi”, richiamando – forse non a caso – la scarsa consuetudine nostrana ad “affrontare con metodo filologico e rigore storiografico lo studio della personalità e della produzione di un grande fotografo del passato (ma anche, tanto meno, del presente).”[1097]
Un analogo rigore filologico, accompagnato da puntuali analisi delle soluzioni espressive adottate dagli autori considerati, caratterizzava lo studio di Tiziana Serena dedicato alle riprese veneziane di Eugène Piot e di Domenico Bresolin[1098], realizzate in un contesto che per ricchezza di relazioni in quegli anni poteva essere paragonabile solo alla situazione romana. Prendendo avvio dalle tavole de L’Italie monumentale, la studiosa ricostruiva e considerava l’ambiente entro il quale i due autori si muovevano e col quale si confrontavano, tra erudizione antiquariale e accademia, individuando i nessi culturali specifici tra storiografia architettonica e scelta dei soggetti. Adottando una terminologia che risentiva positivamente degli influssi della più avanzata produzione fotografica contemporanea, e delle sue letture critiche[1099], Serena parlava a tale proposito di esplorazioni dei margini condotte dai pittori e fotografi attivi a Venezia intorno al 1850, alla ricerca di una modernità che risiedeva tanto nella scelta di nuovi soggetti quanto nelle modalità del loro trattamento, allontanandosi da una iconografia incombente. “Per riuscire a distinguere una città diversa da quella che offriva la tradizione e le immagini di genere, era stata necessaria l’introduzione del nuovo ‘paradigma visivo’ della fotografia, in grado di proporre certi scarti di visione e di interrompere il flusso dell’influenza ipnotica di una pesante tradizione iconografica.”[1100]
La mai diminuita fortuna storiografica di Sommer registrava un nuovo contributo a firma di due importanti studiosi quali Marina Miraglia e Ulrich Pohlmann (Miraglia et al. 1992), che a distanza di quasi vent’anni dalle prime monografie di Palazzoli e di Weinberg ne tracciavano un più solido e ricco profilo critico a partire dalle opere conservate nella collezione fiorentina Piantanida-Sartori e in quella monacense di Dietmar Siegert, forse il più importante collezionista tedesco di fotografia del XIX secolo[1101]. Seguendo una tradizione storiografica che si può far risalire almeno a Newhall ma soprattutto a Gernsheim, a questa peculiare provenienza si faceva però solo poco più che un cenno nel volume, né veniva considerata nel testo critico, che si offriva come profilo complessivo dell’operato di Sommer, sebbene fosse necessariamente derivato da una considerazione parziale, per quanto significativa, della sua produzione. Rispetto agli studi precedenti il saggio di Miraglia offriva importanti precisazioni storiche e suggeriva interessanti letture della più nota produzione di Sommer, accennando anche alla varietà delle sue attività imprenditoriali, ma senza poi approfondire quello che resta un punto nodale nella definizione della sua figura professionale, che presentava, e presenta tuttora non pochi aspetti problematici. Non mi riferisco solo ai primi anni romani in collaborazione con Edmond Behles, su cui hanno in parte fatto luce alcuni contributi successivi[1102], ma proprio alla stessa definizione dell’autore Sommer considerandolo nel quadro più ampio della sua variegata attività imprenditoriale (dalla produzione di calchi e bronzetti alla rappresentanza Kodak). È verosimile ritenere infatti che si possa dire Sommer così come si dice Alinari o Brogi, assegnando un’indicazione di responsabilità alle immagini che non sempre e non necessariamente può aver coinciso con quella dell’operatore effettivo[1103], ma che deve semmai essere intesa quale adesione a quella certa modalità interpretativa e produttiva che costituiva l’identità del marchio; il tutto calato in un contesto di ampia circolazione, scambio e – a volte – appropriazione indebita di soggetti e modi, quando non delle stesse immagini. L’impostazione storico critica di questa monografia, non sufficientemente attenta agli aspetti produttivi e commerciali dell’attività di un grande studio fotografico, venne in parte stigmatizzata anche nelle recensioni al volume nelle quali, pur riconoscendo che Miraglia ricostruiva “(aspetto questo di notevole interesse) la posizione economica e le proprietà costruite da Sommer sui redditi provenienti dall’attività di fotografo”[1104] si lamentava la scarsa attenzione dedicata alla questione del mercato delle fotografie. Pur avendo da sempre praticato una storiografia attenta alle dinamiche sociali, qui puntualmente espressa nella ricca ricostruzione dell’attività di Sommer, l’analisi critica della sua produzione restava ancorata ad una interpretazione troppo sovente idealizzata della scelta e del trattamento dei soggetti e quasi non verificata sulle singole immagini o sulle serie, sebbene fossero più che accuratamente descritte nell’apparato di schede[1105]. Il contributo di Miraglia e quello successivo di Giovanni Fanelli, di cui diremo a suo tempo[1106], nonostante la diversità degli approcci e nella specificità dei punti di interesse indicavano la necessità di affrontare la produzione fotografica muovendosi tra analisi compositiva e tecnologica e ricerca storico archivistica rivolta alla ricostruzione dell’attività e dell’opera considerata. Ciò che ancora rendeva incompiuti quegli esempi autorevoli era però la mancata convergenza, la compresenza dei due metodi, sola condizione per poter pervenire a una lettura articolata di una produzione complessa come quella di un grande studio commerciale del XIX secolo.
In particolare il ricorso alla ricerca archivistica pareva essere ancora generalmente insufficiente o almeno non così ampiamente praticato se Paolo Morello poteva aprire la monografia dedicata agli Incorpora con l’ennesima lamentazione sullo stato degli studi storici nostrani: “Una spaccatura profonda divide il mondo della fotografia in Italia. Da un lato un profluvio di chiacchiere, di plagi, di rimasticature. Dall’altro la ricerca paziente, la lettura delle opere, l’analisi dei documenti. (…) Questo libro costituisce pertanto un nuovo, considerevole passo in avanti verso l’affermazione di una storia della fotografia filologicamente fondata. Che questo modo di lavorare dovesse suscitare le invidie degli indolenti, era del tutto nelle previsioni. Tante volte abbiamo dovuto affrontare la gelosia di coloro i quali vedono nei nostri libri una minaccia, una insidia per i loro affari: che costano poca fatica e rendono lauti guadagni. Non mi stupirei di vedere anche questo libro ricopiato amorevolmente da altri: come è avvenuto a molti dei miei ultimi lavori.”[1107]
Se riusciamo a superare con un sorriso il fastidio prodotto dall’uso insistito del plurale maiestatico (e la diffidenza innata per chi si autocelebra) possiamo scoprire le ragioni di tanto convincimento, che si sostanziavano nella trascrizione integrale dei taccuini di studio superstiti degli Incorpora per gli anni 1890-1900, a cura di Alessandra Ferrigni e nella pubblicazione di una serie documentale proveniente dall’Archivio Notarile di Palermo, per la cura di Ursula Mazzola[1108]. Documenti certo importanti e utili, illuminanti a volte, di rado reperiti (e forse addirittura non cercati) in occasione di altre ricerche monografiche, ma la cui pubblicazione non era certo tale da configurare – come supponeva l’autore – una inedita metodologia storiografica, neppure per l’Italia[1109]. Naturale poi che tali fonti fossero utilizzate per l’elaborazione dell’accurato testo storico critico[1110] in cui si affrontavano, ma solo per cenni, anche problemi di rilevante importanza come quelli posti dalla pratica della contraffazione e dalla copia, vale a dire alcune delle questioni cruciali del ciclo produttivo e commerciale della fotografia.
Tra il 2002 e il 2003, per celebrare il centocinquantenario della fondazione dello stabilimento Alinari vennero editi numerosi studi, che nella loro pluralità si proponevano di analizzare ogni aspetto della produzione della firma fiorentina: dalla ricostruzione biografica dei fondatori alle loro strategie commerciali ed editoriali[1111]. In particolare merita segnalare per il loro interesse specifico, e considerare congiuntamente per la loro comune progettualità le due iniziative di più vasto impegno e respiro: la monografia firmata da Quintavalle[1112] e il catalogo della mostra a Palazzo Strozzi, da lui curato con Monica Maffioli[1113], che conteneva numerosi e importanti contributi, ma che lo studioso considerava sostanzialmente come “una introduzione a più voci [alla sua monografia], a volte anche divergenti come è giusto che accada nella ricerca, sul problema degli Alinari fotografi.”[1114] Ad una lettura incrociata risultava però chiaro come il divergere non fosse tanto da intendersi tra le impostazioni e gli esiti di ciascun saggio quanto, si direbbe, tra questi e il contenuto del volume maggiore, che si proponeva come la più ampia monografia dedicata a quell’impresa: un vasto studio articolato in capitoli di impianto alternativamente cronologico e storico critico, ciascuno parcamente illustrato ma corredato di un repertorio di immagini ‘minimali’, descritte da sintetiche schede[1115]. Completavano il volume i notevoli apparati curati da Monica Maffioli e Maria Possenti, tra i quali si segnalavano per completezza il repertorio dei cataloghi a stampa e le serie storiche di marchi, timbri, firme e intestazioni, mentre l’edizione delle fonti archivistiche, pur significativa, non era purtroppo preceduta da un’avvertenza necessaria a dar conto delle scelte adottate, e magari obbligate. Non risultava sufficiente a colmare questa lacuna neppure il testo critico del curatore, compreso nel capitolo III Alinari: le origini[1116] o la riflessione, per altro metodologicamente problematica, sull’uso delle fonti relative al primo periodo, dominato dalla figura di Leopoldo: “non basta riflettere sulle sole fotografie perché, se si parte da queste soltanto, non si intende il rapporto di Alinari coi contemporanei; se, d’altro canto, si parte dai soli documenti, essi non appaiono sufficienti e neppure correlati alle immagini; se poi si analizzano soltanto i fotografi contemporanei non si stabiliscono nessi precisi con il complesso delle opere accertate degli Alinari.” Riflessione evidentemente retorica poiché, allora come oggi, le migliori risposte possibili non potevano che derivare da un’analisi incrociata di quelle disparate categorie di documenti. Certo però sarebbe stato utile distinguere meglio tra le poche fonti archivistiche primarie, prodotte da Alinari e dai loro interlocutori, e quelle secondarie, allo scopo di rendere meno indiziario il processo storico critico necessario per provarsi almeno a individuare le ragioni per cui gli “Alinari sono stati importanti in Italia e fuori”, e perché sia stato il loro modello (che diremmo operativo più che stilistico) a imporsi su altri, per provarsi a rispondere – come intendeva Quintavalle – “se esisteva un piano, e che genere di piano, per le riprese, se esisteva una programmazione a livelli diversi da quelli commerciali, che è la sola che sembra essere documentata.” Scartata questa ipotesi, forse perché troppo prosaica, l’autore ne avanzava una ulteriore, sviluppando la formula utilizzata a suo tempo da Giulio Bollati della “fotografia come strumento di unificazione”[1117] e riconoscendo a questi grandi atelier il ruolo di “protagonisti di una cultura che propone l’idea di nazione appena dopo la presa di coscienza romantica degli inizi del secolo XIX”. Tutti intenti ad “interpretare molto più di un luogo, (…) a restituire una identità della nazione”, contribuendo alla “esplicita costruzione di un’immagine di identità nazionale” anzi, di più, programmando “un modo nuovo di interpretare la funzione della fotografia e di pensare il fotografo in relazione alla idea di patria, all’idea di nazione.” Interpretazione affascinante[1118] e forse verosimile o, almeno, sinora non contraddetta dalle scarse fonti primarie disponibili, ma certo non peculiare e quindi di per sé insufficiente a connotare il fenomeno Alinari, a comprendere il loro successo commerciale e culturale, essendo quello della documentazione estesa del patrimonio nazionale un obiettivo perseguito da tutti i maggiori atelier che si avviarono intorno agli anni dell’Unità, e non per ragioni politiche e ideali. Ricordava infatti Giacomo Brogi nell’introduzione ad uno dei suoi cataloghi come fosse “difficilissimo senza dubbio e che fa sciupare molto tempo utile a chi viaggia in Italia quello di recarsi presso i diversi editori di vedute per scegliere ciò che gli conviene”; per questa ragione – proseguiva – “abbiamo creduto necessario di tenere un assortimento completo di fotografie di tutta l’Italia (…) e siamo stati convinti di questa necessità dallo splendido successo che abbiamo avuto.”[1119] Se queste erano le motivazioni concrete, certamente condivise dalle altre imprese fotografiche, lo specifico successo Alinari doveva fondarsi su altre, più complesse ragioni, che Luigi Tomassini si provava ad analizzare nel catalogo della mostra: “la risposta che emerge dalle nostre ricerche (…) è che ci riuscirono in base a una particolare combinazione di intervento fra cultura e mercato, riuscendo ad intrecciare questi due piani in maniera più efficace dei concorrenti.” Più nello specifico si trattava di considerare “la componente tecnica del loro successo, ossia la qualità e la peculiare caratterizzazione delle fotografie Alinari, il cosiddetto stile Alinari, su cui molto si è detto e scritto; in secondo luogo il fattore economico, ovvero i criteri di gestione economica, gli investimenti, le scelte imprenditoriali dell’azienda; in terzo luogo, trattandosi di riproduzioni di opere d’arte, le scelte e le selezioni dei soggetti, ovvero un piano in cui le implicazioni di ordine culturale sono evidenti.”[1120] Ne risultava una impostazione di grande interesse per la necessità, che esprimeva in modo chiaro, di considerare congiuntamente tutte le componenti del processo produttivo, sebbene poi, per ragioni diverse, in quella sede l’analisi fosse rivolta quasi esclusivamente allo sviluppo delle scelte tematiche quale emergeva dalla serie storica dei cataloghi a stampa, ma senza dimenticare la politica dei prezzi attuata dal 1876 in virtù dell’affacciarsi di una nuova categoria di clienti: gli studiosi e gli storici dell’arte. Accanto alla definizione delle strategie produttive e delle politiche commerciali si poneva la questione storico critica dell’individuazione di quell’insieme di formule espressive sintetizzabili nello “stile Alinari”, a proposito del quale, come ricordava ancora Tomassini, “molto si è detto e scritto” specie intorno al quesito fondamentale della sua stessa, possibile esistenza.
Dal punto di vista di Quintavalle la questione pareva ormai essere definitivamente risolta: “sembra che fra gli studiosi, dopo quanto scrivevo io stesso una trentina di anni orsono, vi sia consenso sull’esistenza di uno stile Alinari”[1121]. Questa affermazione così categorica risultava poi meglio articolata e stemperata, se non proprio contraddetta, col riconoscere che “il problema è però che esistono momenti diversi e quindi almeno due modelli di ripresa degli Alinari, e probabilmente tre: quello che inventa Leopoldo e che si usa fino alla morte di Giuseppe; quello di Vittorio che modifica nel secondo decennio del ‘900 l’antico stile dell’impresa; infine quello delle riprese di epoca fascista, per non parlare poi del secondo dopoguerra”[1122], col che i “momenti” o stili che dir si voglia diverrebbero almeno quattro. Ciononostante nel trattamento monografico lo studioso ritornava alle antiche certezze, al riconoscimento di una cifra che pareva emergere “con consapevolezza sempre maggiore (…); se si osservano le fotografie degli Alinari si scopre che esiste una loro diversità, esiste un loro carattere che si stabilizza nell’arco di circa una ventina di anni per restare poi come una sigla, uno schema, un modello (…) non modificato da allora, diciamo dagli anni ’60 [del XIX secolo] in poi e per quasi tre generazioni.”[1123] Quel “modello di ripresa” sarebbe quindi stato il fondamento del loro ampio e duraturo successo: “proprio per quelle scansioni libere da figure e da descrizioni di tipo macchiettistico, proprio per la reinvenzione di quei grandi spazi vuoti di eventi e di azioni [quasi atemporali quindi], le immagini Alinari hanno una durata più lunga e una intensità, un calibro, difficili allora e difficili spesso ancora oggi da ritrovare”. Il tutto inserito, come si è visto, in un progetto che per lo studioso non poteva essere caratterizzato da “una semplice volontà mercantile di completezza, ma ben altro, la intenzione di fornire a chi governa l’idea di un sistema organicamente fotografato e denso di differenze, di individualità anche architettoniche.”
Diverse erano le opinioni degli altri studiosi coinvolti nell’impresa, che adottavano differenti strumenti critici: così Monica Maffioli riconosceva che “nelle loro prime opere fotografiche si possono intravedere delle ‘citazioni’ poetiche di grande effetto artistico e compositivo, che devono far riflettere sulle molteplici definizioni stereotipate usate dalla storiografia che li ha giudicati solo per il loro più noto lavoro di carattere documentario e relativo ad una fase già consolidata e matura della loro produzione fotografica.”[1124] Ben oltre la questione in sé emergeva qui uno dei nodi storiografici più interessanti, vale a dire lo spostamento dal merito al metodo, dall’accettazione dello stereotipo, che era un limite di ordine critico e filologico, allo studio attento delle caratteristiche delle opere. Il richiamo a certa convenzionalità interpretativa apriva anche le riflessioni in catalogo di Giovanni Fanelli, il quale segnalava problematicamente come “soprattutto a partire dagli anni settanta del Novecento” si fosse affermata “la tendenza a considerare la produzione della ditta, frutto di tanti operatori in un arco temporale molto esteso, come un insieme e ad attribuire ad essa riassuntivamente un presunto stile o almeno stilemi ricorrenti e costanti. (…) In queste affermazioni critiche si è trascurata l’articolazione storica della produzione nelle diverse fasi e si è trascurata la fonte principale: le fotografie stesse, da riconoscere e da valutare semmai in insiemi corrispondenti alle diverse fasi.”[1125] Da analizzare cioè filologicamente e criticamente nei loro caratteri intrinseci ed estrinseci, che è quanto mise in atto proprio Fanelli ponendo in relazione, per il primo periodo, marchi e timbri, cataloghi e numerazioni di negativo con i “caratteri ottici e formali” delle riprese, riconoscendo tra le altre cose che l’uso “prevalente di obiettivi a lunga focale (teleobiettivi) nel periodo pionieristico della storia della fotografia, costituisce una rivoluzione nella storia della vedutistica e dell’iconografia urbana in particolare, dove prima dell’avvento della fotografia aveva nettamente prevalso il gusto per aperture visive quasi sempre in qualche misura, e talvolta molto fortemente, grandangolari.”[1126] Questa analisi accorta e serrata confermava che “non esiste uno stereotipo di fotografia di architettura nel primo periodo della storia degli Alinari”, ma semmai solo “nella produzione più tarda, dopo l’avvento di Vittorio e il passaggio a cataloghi di grandi numeri e a vaste campagne affidate a più operatori.”
La ricostruzione storico critica condotta da Quintavalle aveva ribadito il ruolo determinante svolto dalla frequentazione dell’atelier di Luigi Bardi, anche nella convinzione, difficilmente condivisibile o almeno troppo generica, che nella restituzione dell’iconografia urbana “appare sostanzialmente coincidere la storia dei diversi media utilizzati per creare immagini.” Ciò che però caratterizzava maggiormente la sua modalità di lettura della produzione Alinari era quello che potremmo definire un eccesso di virtuosismo critico, non sostenuto dai necessari riscontri storico archivistici[1127]. Si vedano le argomentazioni offerte a proposito della scelta del procedimento al collodio (che era la più recente innovazione tecnologica negli anni di Leopoldo) “perché questo permette una immagine netta, definita, che risponde perfettamente alla cultura nazarena e poi preraffaellita”[1128] o, ancora, la formulazione e lo svolgimento del “problema del che cosa Leopoldo ha realmente visto e forse anche acquistato” nei propri anni di formazione, storiograficamente (ed editorialmente) risolto in una lunga sequenza di paragrafi ‘monografici’ dedicati ai maggiori autori coevi, a prescindere dal fatto che nelle caratteristiche della loro produzione si potesse o meno riscontrare una qualche analogia con o influenza sulle immagini Alinari[1129], anzi senza neppure tener conto delle modalità espressive connesse all’utilizzo di materiali sensibili tanto dissimili quanto i negativi di carta o le lastre all’albumina e al collodio[1130].
Il limite, forse il maggiore o comunque quello che più qui ci interessa dal punto di vista della metodologia e poi della narrazione storiografica, risiedeva proprio nella discrasia tra le puntuali e rigorose indicazioni di metodo enunciate in più punti e la loro mancata applicazione, come accaddeva in termini clamorosi nella trattazione delle immagini napoletane “di genere”, rispetto alle quali Quintavalle si chiedeva quali fossero “le ragioni di tale scelta? Quali sono gli stimoli a livello europeo, oppure italiano, a costruire un documento fotografico del genere? E quali sono i caratteri, i modelli di questo tipo di intervento? Prima di giungere a delle conclusioni dobbiamo analizzarle, queste immagini, e cercare di dare loro un ordine o, meglio, riconoscere in esse la logica che gli Alinari hanno voluto introdurre.” Intenzioni dalle quali sarebbe impossibile dissentire ma alle quali non corrispose un percorso critico soddisfacente se nel tracciare una genealogia che partiva dalle figure da presepe e attraversava le pitture di Antonio Mancini per scorgere infine sull’orizzonte il verismo fotografico verghiano, poteva poi accadere di dimenticare la produzione di Conrad o Sommer, suggerendo invece la possibilità che in quelle scelte avesse giocato “prima di tutto la conoscenza della fotografia realistica francese, quella di Nadar, non solo i ritratti, sia chiaro, e quella di molti altri fotografi di Francia a cominciare da Disderi (…).”[1131] Questa esterofilia un poco provinciale, questa scarsa considerazione della produzione dei tanti, notevoli studi attivi in Italia nella seconda metà del XIX secolo si affacciava in molte, troppe pagine di questo impegnativo saggio, in cui l’opera loro era magari richiamata ma senza instituire sufficienti e significativi confronti, cercati semmai con la produzione d’oltralpe anche in assenza di riscontri effettivi. Si veda, ancora, la questione ampiamente trattata della possibile influenza della Mission héliographique del 1851 sulla formazione di Leopoldo, sebbene “di quel grande viaggio (…) si seppe poco, troppo poco, salvo che probabilmente del modello culturale suggerito e delle scelte che essi [i fotografi coinvolti] vennero facendo.” Poco, troppo poco, concordiamo, anche per reggere l’ipotesi di un imprinting francese per Leopoldo[1132], del quale non si poteva però negare al contempo l’italianità. Così, alla fine, “senza Serlio e Palladio, e senza la prospettiva delle scene rinascimentali, non è neppure pensabile la fotografia di Leopoldo. E così, dopo il fecondo viaggio a Parigi, si ritorna a Firenze, a Roma, alla civiltà della prospettiva architettonica fra secolo XV e secolo XVI, comunque in Italia; e proprio l’idea di un’identità fotografica nazionale deve essere stata uno degli stimoli maggiori per le scelte dell’immagine fotografica di Leopoldo”, quella stessa su cui si sarebbero fondate (il condizionale è d’obbligo) la struttura espressiva e la fortuna commerciale di questo atelier. Tout se tient allora, ma in una genericità che non definiva nessi e ragioni risultando infine poco accettabile, posta com’era alla chiusa di un saggio di circa duecento pagine che si offriva come disegno generale della cultura (anche fotografica) al tempo degli Alinari, ma nel quale troppo sovente l’attrazione esercitata dal funambolismo critico e dalla digressione erudita avevano impedito di mettere a fuoco il problema storiografico, per usare una terminologia cara all’autore, rendendone anzi confuso il profilo sin quasi a farlo svanire.
Nel periodo 1990-2003 vennero pubblicati anche numerosi contributi dedicati a fotografi e studi professionali di ambito locale e a quelli che erano stati variamente identificati come ‘irregolari’, riuscendo in alcuni casi a condurre l’operazione di riscoperta e di studio sino al catalogo e alla mostra. Quelle indagini si concentrarono prevalentemente nelle regioni del nord Italia ma con significative eccezioni per Taranto, Napoli e Campobasso, qui in occasione dell’acquisto da parte di Alinari di ciò che restava dell’archivio di Antonio e Alfredo Trombetta[1133]. Parallelamente alla connotazione geografica, l’altro elemento caratterizzante fu la ‘scoperta’ di alcuni autori attivi negli anni tra XIX e XX secolo o nei primissimi decenni di questo, come nel caso dello studio sui fotografi Turrin di Tarcento di Riccardo Toffoletti (1990) che ne era figlio e nipote e fu a sua volta fotografo professionista e insegnante di fotografia all’Istituto Statale d’Arte di Udine, impegnato nella valorizzazione del patrimonio fotografico friulano ma anche artefice della riscoperta e il più appassionato studioso di Tina Modotti[1134].
Da quella vasta ed eterogenea produzione, di livello estremamente discontinuo, emersero alcuni elementi di interesse, nodi di una inedita propensione per quegli autori non professionisti (i “dilettanti fotografi” nell’accezione a loro coeva) attivi negli anni cruciali della mutazione della cultura ottocentesca dalla referenzialità a forme più o meno risolte di modernismo attraverso le mediazioni della stagione pittorialista e la diffusione sociale della pratica fotografica. In questo ambito venne definendosi un processo conoscitivo che vincolava metodologicamente la necessità storico critica di considerare l’intera produzione dell’autore studiato così come le forme e i modi in cui questa era stata strutturata e si era conservata, procedendo cioè dall’analisi dei fondi superstiti o – in mancanza di questi – dalla ricostruzione preliminare di un repertorio il più possibile esaustivo[1135]. Venne cioè progressivamente abbandonato quell’approccio estetizzante, condotto per opere ritenute esemplari, per adottare un criterio più strettamente filologico e storico, che implicava il considerare insieme agli esiti anche i processi: la cronologia dei soggetti prescelti come le varianti di ripresa e di stampa, sino alla loro eventuale diffusione e trasformazione in sede di pubblicazione; sino alla loro ricezione quindi.
La più parte degli autori studiati era collocabile in quella vasta area espressiva comunemente definita come pittorialismo, della quale si incominciarono a indagare più a fondo le ragioni e le distinzioni intrinseche così come erano state espresse dalla critica coeva, confrontandosi cioè con le fonti a stampa. La loro analisi non pregiudiziale, già largamente disattesa, consentì di articolare meglio la comprensione storico critica di un fenomeno prima rigettato nella sua interezza e anche di suggerire, rifacendosi a quelle, una riformulazione dello stesso termine definitorio, passando da “fotografia pittorica” a quello più storicamente pertinente di “fotografia artistica”, che stabiliva rispetto al primo una voluta, maggiore indipendenza dalle influenze pittoriche[1136].
Quel procedere critico filologicamente fondato incontrava però ancora difficoltà e resistenze, ben esemplificate dalle discordanti letture della produzione dello Studio Trombetta di Campobasso offerte da Wladimiro Settimelli e da Susanna Weber. Il primo fondava la propria analisi sulla riconsiderazione, anche storiografica, del rapporto pittura fotografia, considerandolo opportunamente “un fenomeno (…) che non ha niente a che vedere con il ‘pittorialismo’ ”[1137] poiché lo trascendeva nella sua complessità ed articolazione storica. Il prosieguo del testo mostrava però come quell’affermazione fosse riduttivamente strumentale, destinata a classificare come “fotopitture”[1138] le modeste realizzazioni dello studio molisano; opere in cui la stampa fotografica veniva utilizzata quale supporto e traccia per una ingenua trascrizione pittorica del soggetto, ma nelle quali – secondo l’autore – “il dualismo tra i due mezzi di raffigurazione pare, insomma, accantonato, eluso, messo da parte.” Difficile concordare con quella lettura così come con la stabiliante opinione che “nelle immagini più grandi, quando si arriva al risultato definitivo, poco manca che si possa parlare di lavori direttamente legati alla stagione dei Sartorio, di Pellizza da Volpedo o di un Michetti” e che le “fotopitture” meglio riuscite “va detto con assoluta chiarezza, potrebbero reggere tranquillamente il confronto con molta pittura italiana dei primi del secolo e con una certa pittura europea molto attenta alla ‘descrizione’ di ambienti e paesaggi.” Più meditato e pertinente il contributo di Weber[1139] che considerava il contesto sociale ed economico di quelle produzioni, tipiche di studi fotografici “attivi prevalentemente in zone provinciali” e destinate alla “piccola e media borghesia italiana [che] poteva appendere alle pareti del salotto buone immagini che equivalevano a dipinti.” Altrettanto chiara risultava la comprensione critica delle opere, diametralmente opposta a quella di Settimelli nel momento in cui riconosceva come non fosse “nemmeno più lecito usare il termine fotopittura: l’immagine fotografica sottostante ha perso ogni motivo di essere; non riveste una funzione molto diversa da quella del disegno preparatorio, se non fosse per la fondamentale diversità del procedimento.” La distanza interpretativa non poteva essere più netta e qui interessa specialmente quale indicatore di una mutazione radicale della storiografia fotografica che progressivamente considerava come irrinunciabile l’abbandono del libero arbitrio critico a favore dell’esercizio di una verifica attenta dei materiali studiati, come indicava, nello stesso testo, il confronto analitico tra le differenti versioni tratte da una medesima lastra.
La cultura fotografica torinese era stata oggetto di numerosi saggi di carattere generale e di approfondimenti relativi a temi ed eventi significativi come la sezione fotografica dell’Esposizione di Arte Decorativa e Moderna del 1902 o “La Fotografia Artistica”[1140], mentre più rare erano state le occasioni di presentazioni monografiche. Una importante occasione venne offerta dalla catalogazione delle circa 12.000 stampe del Fondo Mario Gabinio conservato presso la Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, dove nel 1996 venne organizzata la prima grande mostra monografica dedicata a questo autore[1141]. Dal lavoro di schedatura analitica, dalle informazioni e dalle suggestioni che da questo erano derivate, prese corpo la possibilità di offrire una valutazione critica più articolata di una produzione tanto vasta e ad un primo sguardo eterogenea, in passato già offerta al pubblico privilegiando aspetti importanti ma inevitabilmente parziali, come la documentazione della “vecchia Torino”[1142], o tentando meritoriamente di delinearne la figura ed il valore ma operando in una forzata, incompleta conoscenza della sua opera[1143]. La possibilità di studiare un insieme di tale consistenza, verosimilmente corrispondente alla totalità della produzione di Gabinio[1144], favorì l’adozione di un metodo di indagine fondato sul riconoscimento della fotografia quale “documento/ monumento”, oggetto di studio e fonte primaria della sua propria storia materiale e culturale; testimonianza referenziale e contemporaneamente testo di invenzione narrativa nel quale il senso originario e quello attuale si intrecciavano e risultavano dal sovrapporsi di intenzioni diverse, la più misteriosa delle quali era proprio quella che l’autore aveva lasciato di sé: solo una lunga e densa traccia di figure che chiedevano e quasi imponevano di essere lette e interpretate attraverso il riconoscimento e la costruzione progressiva di una serie di trame che consentissero di metterle in relazione con le vicende della fotografia coeva. L’ipotesi di ricerca ed il progetto di studio che presero forma in quell’occasione avevano però anche l’ambizione di proporsi come possibile esempio di strutturazione dell’analisi storiografica applicata alla fotografia, riconoscendo – ormai con un poco di ritardo – che anche in questo ambito specifico era indispensabile mettere in atto tutte quelle strategie di interrogazione e di critica delle fonti, tutte le metodologie da lungo tempo applicate nelle aree di ricerca più prossime, come la storia dell’arte e la storia della comunicazione visiva; nella consapevolezza che al riconoscimento effettivo di un nuovo statuto di complessità dell’oggetto di indagine non potesse che corrispondere un adeguato modello epistemologico che fosse in grado di coniugare percorsi personali e orizzonti culturali a scala locale e internazionale, rischiando ipotesi critiche su intrecci di cui si conoscevano gli esiti, poco sapendo però delle effettive dinamiche che li avevano prodotti. Dalla consapevolezza di questa complessità e dall’intenzione esplicita di volerla comunicare derivò la stessa concezione e realizzazione del progetto espositivo, che si propose quale percorso esemplificativo e non solo esemplare attraverso i materiali costituenti l’intero fondo torinese, per la prima volta in Italia interamente disponibile alla consultazione su supporto digitale già in sede di mostra. Le stampe originali, così come il catalogo, vennero organizzate per nuclei tematici da intendersi quali porzioni significative di un impraticabile “catalogo generale” e rifiutando quindi il modello puramente antologico e la tentazione di soccombere alla logica fuorviante dell’eccezionalità, quanto mai pericolosa specialmente quando si intenda dar conto dell’intera opera di un fotografo, del suo operare quasi necessariamente per serie, sviluppate in tempi lunghi. Solo così sembrava possibile indagare e restituire senso a una produzione ingente e cronologicamente distribuita lungo quasi mezzo secolo; ponendo a confronto momenti distinti, esiti anche contraddittori di una attività per molti versi emblematica, di un modo di fare fotografia e di un clima culturale che aspirava alla modernità in un paese e in un presente ancora insicuri di sé.
Un’analoga considerazione di tutta la produzione superstite caratterizzò anche il successivo studio dedicato a un altro dilettante torinese, di poco più giovane di Gabinio e culturalmente vicino alla generazione successiva, rappresentata dai membri del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica: lo psichiatra Francesco Agosti. Lo studio monografico, anche qui condotto a più mani, fu occasione per Miraglia[1145] di precisare meglio alcune riflessioni sulle varie declinazioni di “quel momento, particolarmente sofferto, della storia della fotografia italiana e internazionale”, riconoscendo la rilevanza delle continue sperimentazioni tecniche quale indispensabile momento di maturazione espressiva e linguistica, dove “il riconoscimento della fotografia come scrittura autonoma, non analogica ma fortemente connotata dall’autorialità, passa anche attraverso il controllo del mezzo e lo studio dei suoi limiti di flessibilità.” Come già fu per Gabinio, anche in questo caso la mostra e il catalogo presero le mosse dalla considerazione dell’intera produzione superstite di Agosti, e dallo studio della “organizzazione e archiviazione originariamente scelte per il fondo stesso dall’autore, elementi che con la propria forza filologica sono stati di fatto di non indifferente aiuto per risalire a nuclei omogenei di immagini (…) oltre che per stabilire con più precisione la loro cronologia e destinazione.”[1146] L’analisi di questi elementi entrava quindi a far parte stabilmente delle metodologie d’indagine ritenute necessarie per una corretta disamina della produzione di un autore, così come la redazione di un accurato apparato di schede analitiche delle singole opere pubblicate, ormai considerate uno strumento fondante e una componente imprescindibile di questi studi[1147]. Riprendendo le modalità adottate da Miraglia nel volume dedicato alle Culture fotografiche torinesi (1990) e sviluppate da chi scrive nel catalogo dedicato a Gabinio, le schede delle opere di Agosti – redatte da Maria Francesca Bonetti[1148] -vennero articolate in due parti: una più propriamente di descrizione catalografica e la seconda, assimilabile alle “note di contenuto” di origine biblioteconomica, che accanto all’eventuale descrizione del soggetto e dell’occasione di ripresa conteneva una puntuale analisi critica dell’opera, ponendosi così quale indispensabile complemento e integrazione delle considerazioni sviluppate nei testi.
Espliciti problemi di metodo relativi allo studio delle relazioni tra processo produttivo ed esito finale, quindi tra archivio ed opera si pose anche il curatore del progetto editoriale dell’ “Album” dedicato a Vender nel 2006, col preciso intento di “seguire, talvolta passo dopo passo, il procedimento creativo di questo maestro della fotografia”, decidendo di pubblicare “sia le immagini tratte dal negativo nella loro articolazione completa, ivi compreso il bordino nero (…) sia i cosiddetti vintage print, condotti da Vender nel suo lavoro successivo.”[1149] L’analisi di questi materiali che ne fece Angelo Maggi in parallelo con i fogli delle provinature consentì di evidenziare “una indagine figurativa che a volte sembra allontanarsi drasticamente dal linguaggio dei vintage esibiti nei concorsi fotografici e dallo stile compositivo delle immagini apparse all’interno di riviste e rotocalchi.”[1150] Diveniva così possibile una comprensione più profonda del suo universo visivo, dei suoi modi operativi e delle fasi che portarono dalle riprese alla stampa finale, secondo un metodo che fondava sulla ricostruzione accurata dei processi produttivi le proprie possibilità di analisi, specialmente importanti e diremmo indispensabili per affrontare il corpus di autori attivi dopo l’avvento delle emulsioni alla gelatina bromuro d’argento e ancor più dopo quello delle pellicole di medio e piccolo formato. La riscoperta di questo autore, che era stato tra i protagonisti della nuova fotografia italiana sin dal periodo tra le due guerre mondiali, da tempo ritiratosi “da buon pensionato in un posto tranquillo e aria buona”, quindi scomparso dalla scena e quasi irreperibile, si doveva a Italo Zannier che nel 1990 gli aveva dedicato la copertina del numero 12 di “Fotologia”, con un breve profilo accompagnato da un portfolio di dieci immagini; tra quelle, con accorta scelta critica, venne compresa anche la riproduzione di una doppia pagina di Olocausto, un fotoromanzo di cui Vender fu fotografo di scena negli anni in cui lavorava per Cino Del Duca, l’editore di “Grand Hotel”. Nel 1991-1993, certo anche in conseguenza del rinnovato interesse per il suo lavoro[1151], Vender aveva donato parte della propria produzione all’Archivio fotografico della Provincia Autonoma di Trento[1152]; da quell’atto scaturì una prima mostra alla galleria il Diaframma di Milano nell’anno successivo[1153], così come ulteriori approfondimenti della sua produzione più matura e più nota[1154], condotti avvalendosi anche di uno strumento sostanzialmente inedito nella metodologia storiografica italiana quale l’intervista[1155], ma che in quell’occasione, a giudicare dagli esiti, non venne compiutamente sfruttato nelle sue potenzialità. Anche il successivo catalogo dedicato agli anni d’esordio[1156] non apportava sostanziali elementi di rilievo, sebbene Menapace ricordasse come Vender lo avesse “spesso intrattenuto coi suoi ricordi, le sue sensazioni, i suoi problemi tecnici (…), i rapporti personali con i fotografi del suo ambiente e le fonti delle sue ispirazioni estetiche.”[1157] Quasi nulla di quelle conversazioni, che immaginiamo affascinanti e ricche, confluì però nei testi in catalogo, dai quali venne idealisticamente espunto ogni riferimento all’attività professionale di Vender; men che meno quella legata alla produzione di fotoromanzi[1158]; solo rimaneva, tra i pochi elementi interessanti dal punto di vista del metodo, la considerazione dei volumi conservati nella sua biblioteca[1159].
L’intervista, per evidenti ragioni, non poteva che darsi come strumento eccezionale nella ricostruzione storiografica dei protagonisti del modernismo, mentre più efficace e produttivo era il consolidarsi dell’approccio filologico ai materiali, derivato dagli studi sulla fotografia del XIX secolo e qui posto in atto su insiemi archivistici di ben maggiori dimensioni e complessità, potendo in molti casi disporre delle testimonianze dell’intero percorso intellettuale e operativo che a partire dalla ripresa aveva portato all’opera finale[1160]. Fu quello il caso anche di Carlo Mollino, del quale venne pubblicato nel 1990 il catalogo generale dell’archivio[1161] ad un solo anno di distanza dalla definitiva consacrazione della sua opera fotografica, sino a quel momento passata in sottordine se non per le attrattive commercialmente appetibili delle sue immagini più tarde e porno soft[1162], realizzate con materiali Polaroid; una tecnica che aveva adottato nell’urgenza dell’esito, come ricordava affettuosamente Roberto Gabetti che gli fu assistente alla Facoltà di Architettura di Torino negli anni Cinquanta[1163]. Il nome dell’architetto torinese non era certo sconosciuto alle storie della fotografia italiana, ma di lui si ricordavano specialmente le scelte espresse nel Messaggio dalla camera oscura, tanto che Fulvio Ferrari avrebbe ricordato il suo primo incontro con quei materiali, avvenuto nel 1984 “così, per caso, contrariato dal non aver trovato mobili ma ‘solo fotografie’.”[1164] Nell’organizzazione della grande mostra del 1989, coprodotta dalla Città di Torino e dal Centre Georges Pompidou, Ferrari non venne coinvolto se non come prestatore, mentre la disamina critica del lavoro fotografico di Mollino fu affidata a uno studioso qualificato come Piero Racanicchi, che “sfogliando tra le carte, gli appunti, i negativi, le stampe e i ritagli dell’archivio”[1165] ricostruì in un testo puntuale e illuminante le declinazioni varie dei rapporti dell’architetto con la fotografia, a partire dal crocianesimo sotteso all’impostazione del Messaggio e dal confronto con le posizioni espresse da Ermanno Scopinich, che di Mollino fotografo fu il primo esegeta. Quando nel 2006 venne realizzata una nuova grande mostra relativa al complesso della sua poliedrica attività, ospitata dalla Galleria d’Arte Moderna di Torino e dal Castello di Rivoli[1166], la ricca sezione dedicata alla fotografia comprendeva anche alcune provinature oltre ad esempi di negativi sottoposti a ritocco accostati alla stampa finale, adottando quella stessa strategia critica ed espositiva attuata nella curatela del coevo Album dedicato a Federico Vender.
In quegli anni vennero pubblicati anche i più importanti contributi dedicati a quello che fu il principale interlocutore di Mollino in ambito fotografico: Riccardo Moncalvo. Il primo bilancio di un’attività più che cinquantennale fu offerto dalla mostra prodotta dal Museo nazionale della Montagna di Torino, con un titolo criticamente efficace tratto dal contributo di Enrico Sturani[1167] che individuava nella compresenza di ricerca modernista e retorica tardo pittorialista (già a suo tempo riconosciute da Mollino) la cifra stilistica dei lavori di Moncalvo, ben documentata dalle numerose pubblicazioni sui periodici italiani degli anni Trenta, lì studiati da Zannier[1168]. Il contributo critico e metodologico più interessante risultava però quello del figlio del fotografo, Enrico[1169], che ricostruendo l’occasione in cui furono realizzate alcune fotografie in costume ne individua la genealogia del gusto nella cultura storicista torinese del XIX secolo. Nessun contributo ulteriore alla comprensione dell’opera di Moncalvo venne dalle successive iniziative, tutte concentrate nel biennio 2001-2002, che condividevano con quella prima esperienza una modalità espositiva certo voluta e forse imposta dall’autore, che prevedeva l’esposizione di sole ristampe recenti e retrodatate, senza offrire la possibilità di valutare correttamente opere realizzate a decenni di distanza; quasi che fosse solo l’immagine (qualsiasi cosa si voglia intendere con questo termine) a dover essere considerata e non anche i modi storicamente e culturalmente determinati della sua restituzione da negativo a stampa positiva, e la sua propria materialità di oggetto. Non si tratta certo di avviare alcuna celebrazione collezionistica o mercantilistica del vintage, ma di comprendere come l’opera sia anche materia e tempo nella sua accezione più lata, da offrire alla comprensione filologico critica. Costituiva un’ulteriore testimonianza di questo disinteresse la breve avvertenza posta in apertura della schedina descrittiva delle opere pubblicata nel catalogo della mostra che si tenne alla GAM di Torino nel 2001[1170], in cui si segnalava che “tutte le fotografie sia a colori sia in bianco-nero sono stampate su carta e applicate su supporto di alluminio”, suggerendo senza chiarirla la discrepanza tra l’indicazione cronica fornita in didascalia e l’effettiva data di realizzazione delle stampe esposte. A questo importante limite metodologico si accompagnavano testi variamente problematici, a partire da quello del curatore, col suo solito andamento affabulatorio e scarsamente verificato[1171] ma certo non privo di intuizioni critiche, mentre Dario Reteuna[1172] offriva un involontario esempio di remake ‘mimetico’ del magniloquente gergo critico dei periodici fotografici italiani tra le due guerre, parlando di immagini “pregne di pittoriche reminiscenze” quanto di “problematiche e audaci geometrie della modernità”, giungendo comunque almeno a collocare compiutamente (e per la prima volta) il lavoro di Moncalvo nel contesto della fotografia degli anni Trenta, individuando anzi tra 1937 e 1938 “gli anni più felici della sua lunghissima stagione creativa.”
L’urgenza dei temi della conservazione e della catalogazione del patrimonio fotografico storico avevano dato corpo a un ampio dibattito nel corso del decennio precedente, portando non solo alla redazione del primo manuale italiano di catalogazione, ma richiamando per la prima volta l’attenzione degli storici sulla progressiva definizione dello stesso concetto di archivio fotografico, in particolare sui meccanismi e sulle dinamiche di formazione di quelli istituzionali, strettamente connessi alla funzione documentaria assegnata alla fotografia dalla società e dalla cultura del XIX secolo. Quelle ricerche si inserivano di fatto nel più ampio dibattito intorno alle questioni poste dal riconoscimento e dal trattamento filologico delle fonti fotografiche, in anni in cui i due opposti atteggiamenti della loro utilizzazione immediata quale analogo del referente e della critica radicale alla loro presunta oggettività sembravano aver relegato l’uso delle fotografie nella ricerca storica e nella produzione storiografica non di settore ad un semplice elemento esornativo, a funzione decorativa elevata, rimuovendo la discussione ricca di spunti e di considerazioni interessanti che pure aveva caratterizzato il dibattito intorno al tema sino ai primi decenni del XX secolo. Alla ricostruzione di quelle vicende vennero dedicati alcuni interventi di vario impegno ma di analoga prospettiva, tutti scalati tra 1990 e 1997[1173], che ne delineavano il percorso in relazione al tema, tutto positivista, delle raccolte e dei musei documentari che si era sviluppato in Europa trovando in Italia un fertile terreno di sviluppo metodologico specialmente per merito di Giovanni Santoponte e, in ambito istituzionale, di Corrado Ricci e di Adolfo Venturi. A quegli studi si aggiunse un nuovo contributo di Miraglia che poneva a confronto le logiche che avevano guidato i primi progetti del GFN con l’antecedente importante del “ricetto” fotografico di Brera, considerato come un “modello senza precedenti”, nel quale la studiosa individuava un “doppio impegno, documentario e museale” , interpretando forse troppo generosamente le intenzioni espresse dai promotori di riunire “nel maggior numero possibile, fotografie di opere d’arte, di luoghi, di avvenimenti, di persone ragguardevoli in ogni campo dello scibile”[1174]; ciò che pareva più prossimo al moderno concetto di archivio editoriale che non a quello di una fototeca specializzata, tanto meno di un museo.
Le relazioni storicamente determinanti tra documentazione del patrimonio e nascita dell’archivio fecero sì che fosse proprio quello l’ambito primo e principale di studio, affiancando alla ricostruzione delle vicende istituzionali[1175] quella della formazione delle collezioni private, avviate da studiosi e in particolare da alcuni archeologi come John Henry Parker, alla cui Raccolta venne dedicato un progetto collettivo di studio e di ricerca che portò alla pubblicazione di importanti contributi insieme al regesto dell’intero Fondo, con schede e riproduzioni delle quasi ottocento immagini che lo costituiscono[1176]. Come aveva puntualmente rilevato Miraglia[1177], il volume si collocava “nel percorso di una linea di intervento già da tempo e con estrema coerenza individuata come propria dall’Archivio fotografico del Comune di Roma, quella cioè di mirare i propri sforzi ed i propri contributi critici alla valorizzazione del proprio patrimonio di immagini”, muovendosi sul duplice binario della storia della fotografia romana dell’età del collodio e della rinascita degli “interessi archeologici romani del periodo 1864-1877”. Quell’impostazione, “lungi da vuoti schematismi o da separatismi specialistici, [dava] luogo ad un discorso continuo e di grande interesse, capace di restituirci tout court il clima di un’epoca e di definire, all’interno di esso, il ruolo che la fotografia, in virtù della sua apparente referenzialità, viene ad assumere nell’ambito della documentazione archeologica.” Una simile coerenza non si ritrovava invece in analoghe pubblicazioni coeve relative a singoli fondi di documentazione d’arte, come quelle comprese nella collana “Collezioni e raccolte fotografiche” edita dall’ICCD[1178] ma aperta anche alla collaborazione con altri uffici ministeriali. Quei volumi costituivano certo una precisa testimonianza della storia istituzionale della tutela dei fondi di interesse documentario, ma erano viziati da una impostazione che oggi non possiamo che definire contraddittoria, ancora troppo prossima all’idea di neutralità e di trasparenza della restituzione dell’opera. Basti considerare come nei testi di presentazione e nel corpo di quei volumi l’interesse fosse rivolto esclusivamente alle descrizioni e alle questioni critiche e attribuzionistiche poste dalle opere riprodotte, in una sostanziale indifferenza ai problemi documentari e linguistici storicamente posti dalla traduzione fotografica. La prevalenza acritica ed esclusiva della funzione referenziale, di lunga tradizione ottocentesca ma ancora ben presente un secolo più tardi in ambito istituzionale, si manifestava del resto anche in altri, ben più significativi modi: portava ad esempio a non tener conto neppure della necessità, archivisticamente e culturalmente determinante, di tutelare i fondi nella loro integrità, come ben dimostravano le vicende del Fondo del fotografo milanese Girolamo Bombelli, che al momento dell’acquisizione, voluta dall’allora direttore del GFN Carlo Bertelli, venne smembrato e suddiviso su base tematica tra lo stesso GFN e il Museo della Scienza e della Tecnica di Milano[1179].
Due erano state all’inizio del decennio le occasioni di confronto su questi temi: un seminario organizzato dalla Scuola Normale di Pisa[1180] ed un convegno promosso da “AFT”, entrambe nel 1992. Il convegno pratese Fototeche e archivi fotografici aveva riunito studiosi e responsabili istituzionali di raccolte e archivi suddividendo i loro interventi in otto aree omogenee di confronto[1181]. Le riflessioni spaziarono dalle questioni gestionali a quelle metodologiche in contesti quali l’antropologia e la ricerca storica sino allo specifico della storia della fotografia, considerata in sé e come ambito di attività di alcune riviste di settore. Altre sezione infine affrontarono l’ampio territorio metodologico e operativo delle fototeche d’arte e, più in generale, della catalogazione e della conservazione dei fototipi. Le condizioni generali del contesto istituzionale in cui si collocava l’interesse per il patrimonio fotografico, in particolare per quel che riguardava la conservazione e la tutela, vennero brevemente tratteggiate nella sconfortata prolusione di Oreste Ferrari e quindi ribadite e ulteriormente specificate da Michele Cordaro, all’epoca Direttore dell’Istituto Nazionale per la Grafica, che riconosceva come “nel Ministero per i beni culturali e ambientali ad esempio, e negli istituti da esso dipendenti, ci si improvvisa conservatori di fotografia, ci si improvvisa studiosi di storia della fotografia, sulla base dell’impegno e dell’interesse che ciascun funzionario preposto a questa attività sa e può dare.”[1182] Valutazione certo ingenerosa, come ogni generalizzazione, ma che descriveva bene quale fosse (e per molti versi è ancora) lo stato dell’arte; effetto e causa del sofferto rapporto che storicamente si è dato tra istituzioni, specie centrali, e patrimonio fotografico, come risultava anche dalla più parte degli interventi di quella sessione seminariale, di taglio prevalentemente descrittivo, poveri di contributi storico critici e di riflessioni teoriche. Nell’intervento di apertura della sessione sulla catalogazione Sauro Lusini aveva richiamato la necessità di istituire e rafforzare forme e modalità di coordinamento tra le varie istituzioni che si occupavano di catalogazione, ancora largamente indipendenti le une dalle altre: si trattava di analizzare e verificare collegialmente le procedure adottate dalle varie esperienze in corso facendone derivare orientamenti comuni di ordine metodologico e operativo per la catalogazione del patrimonio, che Lusini[1183] intendeva come mezzo e strumento della ricerca piuttosto che come fine. Una prima, possibile risposta a quelle sollecitazioni venne fornita dall’intervento di Roberto Spocci e Angela Tromellini[1184], che traevano alcune indicazioni metodologiche dall’esperienza svolta per la preparazione del progetto Fotografi e fotografia a Bologna. Ciò che emergeva nettamente da quel contributo, smentendo in parte una delle posizioni espresse da Lusini, era che la catalogazione, lungi dal poter essere considerata mero strumento operativo, non potesse prescindere e anzi fosse di fatto – in condizioni ottimali – occasione e stimolo per la ricerca, in un processo ciclico rispetto al quale risultava difficile ed anche metodologicamente fuorviante stabilire gerarchie procedurali e operative valide al di fuori di ogni specificità di progetto.
La rinnovata attenzione, anche internazionale[1185], per le questioni connesse alla conoscenza e alla tutela del patrimonio storico aveva prodotto un notevole accrescimento di dati conoscitivi[1186] ma ciò che ancora risultava assente, o largamente insufficiente, era una mappa generalizzata degli archivi e dei fondi, esito di ricognizioni sistematiche se non di un vero e proprio censimento condotto a scala nazionale, mancando per questo una figura istituzionale in grado di promuoverlo e gestirlo. La mostra del 1979 sulla Fotografia italiana dell’Ottocento aveva restituito per sommatoria una prima geografia dei luoghi di conservazione e delle collezioni italiane, ma le prime vere iniziative orientate ad una effettiva ricognizione ebbero luogo solo in ambiti circoscritti come la Guida alle raccolte fotografiche di Roma (UIIASSA 1980) promossa da John Ward-Perkins, direttore della British School at Rome e realizzata da Luigi Cacciaglia, archivista della Biblioteca Apostolica Vaticana, o il più tardo progetto di ricerca Fotografia e mezzogiorno avviato nel 1987 dall’associazione Spazio Immagine di Bari ma presentato alla Regione per ottenere un finanziamento già nel 1982. Mostrando una notevole lucidità progettuale l’iniziativa si prefiggeva l’individuazione di archivi e fondi e la ricostruzione dell’attività fotografica in Puglia, prendendo in considerazione “tanto la produzione di immagini fotografiche quanto il contesto allargato di attività industriali, commerciali e culturali che la fotografia sin dal suo sorgere indusse o direttamente originò nella regione.”[1187] Tra gli scopi non secondari vi era anche quello di “attivare un’attenzione (…) per questo patrimonio familistico di immagini che è protetto dal valore affettivo di cui è carico e che però rischia quotidianamente la dispersione più inconsulta e casuale, legato com’è a vicende di singoli individui.”[1188] In ambito sovraregionale ma tematicamente circoscritto si era collocata invece la ricognizione avviata nel 1987 per iniziativa della Commissione archivi dell’INSMLI[1189] dei fondi fotografici conservati dai cinquantuno Istituti per la storia della Resistenza, che ottenne ben l’88% di risposte[1190]; testimonianza di una precoce considerazione di quegli enti per le fonti fotografiche possedute, sulle quali alcuni avevano avviato già da tempo progetti di censimento a scala regionale[1191]. Già nel 1979 la Commissione fototeca dell’Istituto per la Storia dell’Umbria dal Risorgimento alla Liberazione (ora ISUC) aveva avviato un progetto allo scopo di “1. Censire le raccolte fotografiche riguardanti l’Umbria (…) 2. Predisporre la catalogazione e la schedatura di tale materiale. 3. Raccogliere e schedare il materiale prodotto dalle ricerche in corso. 4. Sensibilizzare enti ed istituti, e principalmente le biblioteche, perché provvedano alla schedatura e catalogazione dei fondi fotografici in loro possesso.”[1192] Il vero e proprio censimento a scala nazionale venne poi realizzato nel 1993-1995 nell’ambito del progetto “Fonti della Resistenza e atlante storico”, sulla base di indicazioni metodologiche e operative formulate da Adolfo Mignemi a nome del gruppo di lavoro sulle fonti fotografiche nel Promemoria per la commissione archivi (1992) e nella presentazione del progetto (1993), adottando la scheda di rilevamento messa a punto dall’Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia Romagna.
A partire dalle riflessioni raccolte durante il convegno di Prato del 1992[1193] anche l’Archivio Fotografico Toscano aveva elaborato un progetto “finalizzato alla conoscenza, tutela e valorizzazione del patrimonio fotografico in immagine prodotto e/o conservato in Toscana”[1194] al fine di procedere successivamente alla sua catalogazione e alla digitalizzazione[1195], ed altri progetti analoghi, non coordinati tra loro, vennero avviati nello stesso arco di tempo in Campania[1196], in Sicilia[1197] e in Trentino; occasione anche per un primo bilancio delle acquisizioni metodologiche e delle problematiche operative e istituzionali[1198]. Il primo effettivo ‘censimento’ a scala nazionale (immemore dell’analogo progetto proposto nel 1971 a “Popular Photography Italiana”) venne però realizzato solo nel 1997 al di fuori di ogni ambito istituzionale dalla rivista “Fotografia Reflex”, fondata nel 1980 e rivolta prevalentemente agli aspetti tecnologici e merceologici delle apparecchiature fotografiche. Il progetto, curato dal caporedattore Marco Bastianelli, si era avvalso della collaborazione di un qualificato gruppo di studiosi del quale però, piuttosto singolarmente, non faceva parte alcuno storico della fotografia in senso proprio[1199]. L’idea di realizzare il censimento era nata nel 1995 in occasione di un incontro dedicato alla situazione degli archivi italiani e dalla considerazione che “la cultura della fotografia [in Italia] è scadente forse anche perché ben pochi sanno che il nostro paese così poco fotografico, è in realtà ricchissimo di fotografie che raccontano la sua storia recente e remota.”[1200] Sulle pagine della rivista vennero ospitati per più di un anno articoli e segnalazioni che favorirono l’accrescimento delle informazioni, poi tradotte nelle seicento schede pubblicate, intestate a fondi storici e contemporanei, che andarono a formare “il primo parziale censimento sugli Archivi fotografici italiani”. La parzialità dei risultati era prevista e riconosciuta, ma non era tanto questo aspetto a limitare l’interesse di questa realizzazione quanto la mancanza di sistematicità e di criteri metodologicamente attendibili, ciò che produsse lacune non altrimenti comprensibili, a meno di volerle intendere come “atti mancati” da parte di redattori e collaboratori: basti considerare i casi eclatanti dell’Aerofototeca, di cui non era indicata l’appartenenza all’ICCD, a sua volta titolare di ben due schede; alla serie delle Soprintendenze emiliane, tra le quali non era compresa quella bolognese ai Beni Artistici, certo la più attiva in termini di valorizzazione e tutela del patrimonio fotografico, e così via. Di poco successiva ma ben diversamente concepita l’inchiesta sulle fototeche e sugli archivi fotografici pensata come “ricordo di un incontro fattivo” (Paola Barocchi) tra Paolo Costantini e la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove lo studioso prematuramente scomparso aveva tenuto alcuni seminari di storia della fotografia. L’iniziativa prese forma nei due volumi Per Paolo Costantini curati da Tiziana Serena[1201] intitolati a Fotografie e raccolte fotografiche (1998) e alla vera e propria Indagine delle raccolte fotografiche (1999). Mentre il primo si apriva con una serie di testimonianze e di casi di studio prossimi agli interessi di Costantini, a cui si aggiungevano vari contributi relativi ai problemi di catalogazione e gestione di archivi e fototeche, il secondo costituiva una vera e propria ricognizione ragionata degli enti e istituzioni che conservavano fondi di grande rilievo, presentati con una doppia articolazione: il primo registro, la prima parte, era costituita da articoli e saggi di varia estensione redatti dai singoli responsabili, per un totale di cinquantacinque istituzioni italiane e sette straniere, a cui corrispondeva nella seconda una serie di settantasei schede strutturate in diverse aree di descrizione che fornivano informazioni importanti anche in merito alle modalità di ordinamento, ai criteri di catalogazione adottati ed agli eventuali progetti di informatizzazione. Il puro dato quantitativo, corrispondente a poco più del 12% degli archivi censiti da “Reflex” nel 1997, mostrava però quanto lunga fosse ancora la strada da percorrere per delineare una mappa attendibile del patrimonio italiano.
Alla necessità di disporre di un modello unificato di schedatura dei fototipi aveva dato una prima, complessa risposta il Manuale di catalogazione messo a punto da un gruppo di lavoro coordinato da Giuseppina Benassati[1202] dopo un periodo di studio e sperimentazione compreso tra gli anni 1987-1989, con la precisa intenzione di fornire agli operatori uno schema comune per la descrizione delle immagini. Per ottenere cataloghi integrati di materiali tipologicamente differenti (grafica e fotografia) e utilizzare le infrastrutture della rete informatica del Servizio Bibliotecario Nazionale, venne adottato lo standard descrittivo ISBD nella accezione dei materiali non librari (NBM), seguendo per la compilazione le norme RICA. A questo impegnativo progetto, generalmente accolto dalla comunità degli studiosi e dei conservatori come una svolta importante nella cultura della tutela del patrimonio fotografico italiano[1203], corrispondeva un adeguato livello di elaborazione, sottolineato dal giudizio espresso nell’introduzione da Miraglia che auspicava che quella proposta fosse fatta propria dall’ICCD “onde poi essere rilanciata, su scala nazionale, quale modello unico ed ufficiale per la catalogazione della fotografia storica”[1204]. Nonostante l’autorevolezza del giudizio l’impianto concettuale e metodologico adottato lasciava però spazio a notevoli perplessità di merito[1205], sintetizzabili nella opportunità – tutta da dimostrare – di adottare un tracciato descrittivo di derivazione bibliografica; certo ormai consolidato e sperimentato dalla tradizione biblioteconomica ma riferito a una tipologia di oggetti dei quali era sin troppo semplice sottolineare la radicale, ontologica diversità rispetto al bene fotografico. Se la volontà di realizzare un sistema integrato di catalogazione non poteva che essere accolta favorevolmente, meno soddisfacente risultava il ricorso a forzosi adattamenti[1206] di modelli precedenti, tipologicamente impropri, e certo non poteva essere quello lo strumento più adeguato per misurarsi con lo “spessore simultaneo” delle fotografie di cui parlava Andrea Emiliani[1207].
Due proposte di modelli di catalogazione dei fototipi, tra loro molto simili e allineate ai tracciati già adottati dall’ICCD per altre tipologie di beni, furono elaborate nel 1998 da altrettanti gruppi di lavoro: quello torinese attivo nell’ambito del Progetto Guarini[1208] della Regione Piemonte e quello coordinato dallo stesso Istituto romano. Una delle prime occasioni di presentazione del tracciato in via di definizione da parte del gruppo romano fu il breve testo pubblicato in Serena 1998[1209], nel quale si ripercorrevano le precedenti iniziative dell’ente a partire da quanto elaborato a seguito della Legge 41/1986 (art.15) (Legge finanziaria 86) che all’articolo 15 prevedeva lo stanziamento di risorse da “destinarsi alla realizzazione di iniziative volte alla valorizzazione di beni culturali, anche collegate al loro recupero, attraverso l’utilizzazione delle tecnologie piu` avanzate”. In quella prospettiva era stata elaborata una “scheda di rilevamento dati composta da due sezioni”, poi modificata e integrata sulla base delle esigenze “provenienti dai moltissimi archivi fotografici presenti sul nostro territorio”. Esito di quella prima stagione tardivamente pionieristica era stata “l’elaborazione di una scheda FT destinata ad accogliere in organica sintesi le informazioni tecniche relative alla fotografia e all’oggetto raffigurato”[1210], pubblicata nel 1991 ma “mai ratificata in una pubblicazione metodologica ufficiale” e quindi di fatto scarsamente applicata, alla quale era stato incomprensibilmente affiancato nell’ambito del progetto di automazione della Fototeca Nazionale “un altro nucleo di schede (…) per alcune categorie di soggetti”, introducendo quindi una surreale e inedita catalogazione per generi che raggiungeva l’apogeo nella scheda “XD (Altro – tutti quei soggetti fotografici di difficile classificazione)”.
Il nuovo tracciato catalografico, messo a punto dall’ICCD grazie all’impegno di una commissione di lavoro costituita nel giugno del 1998 e formato da funzionari di vari organismi del MiBAC, delle Regioni Emilia-Romagna e Friuli Venezia Giulia, dell’ENEA e del Museo dell’immagine Fotografica e delle Arti Visuali, effimero organismo dell’Università di Tor Vergata di Roma[1211], venne pubblicato nel 1999 come Scheda “F”, e rappresentò per la rilevanza istituzionale dell’organismo che lo emanava un atto fondamentale, seppur tardivo; indispensabile per procedere efficacemente all’uniformazione e alla standardizzazione di procedure catalografiche metodologicamente corrette; per provarsi almeno a ipotizzare la realizzazione se non di un catalogo unico a scala nazionale almeno di un modello condiviso di diffusione e scambio di dati, specie nella prospettiva aperta dall’uso delle reti informatiche. Secondo quanto evidenziava Miraglia nella sua introduzione al volume, una delle novità consisteva “nell’aver integrato fra loro (…) due sistemi catalografici, quello bibliotecario e quello del settore storico-artistico (…) fino ad ora rigidamente distinti”[1212], oltre ad aver accolto “la necessità di inglobare nella scheda F anche la fotografia virtuale” ovvero, per meglio dire, digitale. La connotazione culturale della scheda risultava essere emanazione diretta della “volontà deontologicamente portante di passare da una definizione stantia e ormai ampiamente superata di fotografia, intesa in chiave esclusivamente servile e documentativa di un altro da sé referenziale (…) ad una concezione qualificativa di fotografia come bene storico-artistico. (…) Ciò ha comportato come sua naturale conseguenza due problematiche di natura diversa, vale a dire quello della soggettazione e quello di una adeguata riflessione sull’identità autoriale nel campo specifico della fotografia.”[1213] A quelle indicate dalla studiosa ne andava però aggiunta una terza, di ordine più generalmente concettuale e metodologico, riguardante la stessa definizione tipologica dell’oggetto di scheda, lì estesa sino a comprendere “ogni immagine originata in maniera diretta o indiretta dall’utilizzo della radiazione luminosa in una qualsiasi delle fasi di produzione, sino a poter comprendere di fatto gli stessi prodotti di fotocomposizione, fotoincisione e fotolitografici”, con una estensione del campo applicativo tale da rischiare la sostanziale inapplicabilità dello stesso progetto catalografico[1214]. A questa iperestensione si aggiungeva “l’accentuazione dell’intenzionalità di una comunicazione significante” (ICCD 1999, p. 16) cioè il riconoscimento dell’autorialità come unico elemento distintivo dell’oggetto, in un recupero idealistico che cancellava con un sol tratto un’identità ontologica e sociale faticosamente acquisita e implicava, senza assumerla esplicitamente, una sostanziale coincidenza tra i due distinti concetti di autore e artista e la conseguente identificazione della fotografia come opera, sì ma a patto che fosse qualificata almeno implicitamente come “d’arte”, ponendo di fatto in secondo piano la categoria ben più pertinente ed efficace di bene culturale.
La pubblicazione delle Norme offrì l’occasione per la pubblicazione di due testi[1215] che pur da prospettive e con metodologie diverse si proponevano come sussidi manualistici per il pubblico eterogeneo dei conservatori di archivi e fondi fotografici; pubblico in costante crescita numerica ma ancora scarsamente dotato delle pur minime competenze conservative e delle metodologie e procedure connesse. A questo era esplicitamente dedicato il volume curato da Silvia Berselli e Laura Gasparini, di impostazione chiaramente operativa, fondato sul principio che “il concetto di valorizzazione del patrimonio fotografico dovrebbe essere implicito in quello di conservazione, che, correttamente inteso, comporta studio, ordinamento, inventariazione, catalogazione, pubblicazione e riproduzione fotografica o digitale degli originali, in modo da fornire all’utenza una reale possibilità di accesso e di utilizzo del patrimonio.” A ciascuno degli aspetti sopra indicati era destinato un capitolo di approfondimento e di orientamento metodologico e procedurale, anche per quanto riguardava gli standard di catalogazione dei fototipi, comprese le norme recentemente emanate dall’ICCD e quelle previste dal precedente Manuale di catalogazione[1216] dell’IBC, senza esprimere orientamenti critici o esplicite preferenze in merito. Un atteggiamento diverso era invece quello assunto da Daniela Tartaglia, a cui si doveva la redazione del capitolo relativo alla catalogazione nel volume sulla “fotografia in archivio” curato con Zannier (2000). Dopo aver stigmatizzato le impostazioni metodologiche del Manuale, ma senza considerare le norme recentemente emanate dall’ICCD, la studiosa presentava il progetto di catalogazione informatica Alinari 2000-Save our memory, messo a punto dal gruppo fiorentino con Finsiel[1217] sulla base di un accordo del 1995, che prevedeva l’indicizzazione e la digitalizzazione di circa 150.000 immagini nei successivi tre anni, vale a dire la realizzazione di una base di dati accessibile in remoto per una quantità stimata corrispondente a circa il 10% del patrimonio archivistico totale. La prospettiva adottata non contemplava quindi l’adozione di uno standard né, conseguentemente, una possibilità di estensione ad altri archivi, quanto piuttosto la messa a punto di uno strumento contestualmente efficace. Nonostante questi limiti la proposta rappresentava un’occasione di riflessione metodologica particolarmente interessante, e forse poco considerata, sia per quanto riguardava i problemi posti dalla descrizione semantica e dalla definizione di vocabolari controllati sia come primo tentativo di messa a punto di schede catalografiche riferibili a insiemi più ampi e complessi come i fondi.
Non poteva che tener conto del nuovo quadro normativo anche il nuovo convegno promosso da “AFT” nel novembre 2000 (Goti et al. 2001), nel corso del quale la riflessione fu prevalentemente rivolta al contesto specificamente fotografico e in particolare alle questioni di tutela e catalogazione, anche in conseguenza dell’emanazione del Testo Unico D.L. 490/ 1999 che finalmente comprendeva le fotografie tra i beni culturali suscettibili di tutela[1218]. Nelle parole introduttive di Lusini si era “fatta più avvertita una nuova e più avanzata esigenza: una migliore individuazione delle competenze, una chiara definizione delle procedure, soprattutto la ricerca di un accordo sulle cose da fare e sul modo di farle (…) per dare seguito a un’azione coordinata su progetti condivisi, capace di mettere ordine in un settore ricco di iniziative che spesso soffrono di mancanza di collegamento, con la conseguenza che perdono di efficacia e rischiano di compromettere la stessa credibilità dell’impegno istituzionale.”[1219] Quali fossero, da sempre, le difficoltà di affrontare (catalograficamente, storiograficamente) nel modo più consapevole “la doppiezza della fotografia” venne sinteticamente chiarito nel breve intervento di apertura di Andrea Emiliani, che richiamava “tutte le ragioni, che sospendono e classificano l’entità più generosa della fotografia in creazione, documentazione, storicità ed infine esperienza dei nostri anni appena passati”, tali per cui “riesce straordinariamente difficile decidere il codice, per così dire ‘civile’ della fotografia, inscrivere questo prodotto, che è insieme sequenza e unicum, nelle categorie vigenti.”[1220] Ora la messa a punto della Scheda “F”, per buona parte liberata da quegli schemi descrittivi di matrice biblioteconomica che avevano seriamente compromesso l’efficacia del modello catalografico IBC, apriva la possibilità di realizzare una catalogazione del patrimonio fotografico compreso nel più ampio contesto del Sistema Informatico Generale del Catalogo (Sigec) di tutti i beni culturali italiani; ipotesi favorita dal contemporaneo sviluppo delle basi di dati e delle reti informatiche ma ancor oggi ben lontana dall’essere supportata da un efficace software di catalogazione web oriented[1221].
Le due sessioni centrali dell’incontro di Prato (Metodi e strumenti; La catalogazione) affrontarono le questioni di ordine generale e le problematiche poste dalle prime, rilevanti esperienze applicative della Scheda “F” in contesti di ampia e consolidata esperienza catalografica come quelli della Regione Lombardia[1222], della Regione Piemonte[1223] e dell’Archivio Fotografico Comunale di Roma[1224], mentre si delineavano le prime ipotesi di un tracciato catalografico destinato alla descrizione dei fondi e delle raccolte[1225]. Le altre sessioni trattarono aspetti connessi, come la digitalizzazione delle immagini e la messa a punto di vocabolari normalizzati e di authority file che consentissero di gestire le relazioni tra forma autorevole e varianti fattuali. Alle soglie della diffusione massiccia di Internet e con l’intenzione esplicita di avviare un’azione coordinata su progetti comuni, nel corso dell’incontro vennero avanzate alcune proposte quali la Conferenza periodica degli archivi o la Lista di discussione sulla fotografia. In ambito più propriamente informatico venne auspicata la realizzazione del fondamentale Catalogo unificato del patrimonio fotografico italiano e la costituzione di due banche dati in cui far confluire gli elementi identificativi dei fotografi attivi in Italia ma anche le informazioni sulla conservazione e il restauro delle fotografie; il tutto inserito in una più generale e generica “rete di comunicazione” che avrebbe dovuto costituire lo strumento e il canale di condivisione. Di tutte queste proposte nessuna ebbe purtroppo esito, tranne la lista di discussione “s-fotografie”; tutt’oggi esistente ma scarsamente attiva.
Una semplice ricerca in OPAC condotta nel febbraio 2015 ha consentito di individuare, solo per l’Italia, almeno un centinaio di storie fotografiche di diverso argomento[1226] pubblicate nel periodo 1990-2003, con un picco per gli anni 1998-1999 quando venne data alle stampe la “Storia fotografica della società italiana”[1227] degli Editori Riuniti, diretta da Giovanni De Luna e Diego Mormorio. Si trattava di una serie di 20 volumetti in brossura mandata in edicola e in libreria con cadenza quindicinale, alternando uscite tematiche (lo sport, l’emigrazione, la religione) a periodizzazioni storiche (il Risorgimento, l’Italia liberale, la seconda guerra mondiale[1228]). A questa collana era editorialmente collegata l’Autobiografia di una nazione: storia fotografica della società italiana, un volume curato da De Luna con Luca Criscenti e Gabriele D’Autilia per lo stesso editore, che sotto un titolo dagli echi ambiguamente gobettiani antologizzava le immagini pubblicate nei fascicoli tematici di cui vennero utilizzati gli impianti tipografici, riproponendone perciò formato, impaginazione ed anche la scarsa qualità di stampa. Per Criscenti e D’Autilia che firmarono il testo introduttivo[1229] l’intenzione dichiarata era quella di “raccontare la storia d’Italia attraverso la fotografia (…); di documentare la storia della società e della mentalità[1230] di un paese unificato politicamente ma ancora oggi alla ricerca di una identità. (…) La storia sociale, politica, economica e culturale del nostro Paese dal Risorgimento fino alla fine del millennio vede negli scatti celebri e sconosciuti un documento emozionante di insostituibile valore storico.” Il tasto emozionale pareva essere la chiave di lettura storica, storiografica ed editoriale insieme, poiché – si ribadiva – “la storia raccontata con la fotografia è una storia affascinante e spettacolare: il racconto attraverso l’immagine è un racconto avvincente perché è la storia stessa che ‘si fa vedere’”, sebbene poi questa affermazione tanto discutibile quanto impegnativa nella sua scoperta strumentalità, così commercialmente accattivante, fosse subito corretta da opportune cautele metodologiche e di lettura, conseguenti al fatto che “un libro fotografico è anche un’operazione di critica delle fonti.” L’evidente e meritorio impegno divulgativo appariva fondato sulla convinzione errata che la semplificazione dovesse implicare o almeno consentire e tradursi in una redazione aneddotica e sovente sciatta, farcita di affermazioni discutibili quando non palesemente errate[1231]; se si poteva concordare almeno in parte con l’affermazione che lo storico contemporaneo avrebbe dovuto trasformarsi, tra le altre cose, “in storico della fotografia” allora bisogna riconoscere che in quella produzione l’obiettivo era ancora ben lontano dall’essere raggiunto[1232]. Nella preziosa testimonianza di uno dei redattori “l’esperienza maturata nella ricerca e nel coordinamento della redazione della collana (…) ci ha convinto che le possibilità di interazione tra la lettura della fotografia e il racconto della storia sono molteplici. Nel nostro caso le tipologie di studiosi a cui è stato proposto di confrontarsi con le immagini sono state piuttosto diversificate, andando dall’esperto di fotografia ma non di fonti storiche, allo storico privo di strumenti di analisi del documento iconografico. Ne sono nati volumi (…) la cui ricchezza sta proprio nella loro reciproca disomogeneità pur nell’omogeneità del progetto. (…) Costruire una storia fotografica comporta una ricerca approfondita e una selezione del materiale individuato, una de contestualizzazione delle immagini e una loro ricontestualizzazione, il ‘montaggio’, secondo un criterio diacronico o sincronico, tenendo conto sia della struttura necessariamente lineare del libro (…) sia delle esigenze grafiche e del taglio logico rappresentato dalla doppia pagina.” [1233] Che poi il taglio non fosse solo logico e le esigenze grafiche potessero prevalere sulla corretta edizione del documento, e non diciamo del suo corretto uso, venne confermato da uno degli autori coinvolti, Adolfo Mignemi, che ricordava con amabile ironia le disavventure fotografiche incorse nell’impaginazione del volume da lui curato[1234], nel quale la stessa immagine venne pubblicata due volte, una delle quali in copertina ma ribaltata specularmente, col risultato di ‘documentare’ “nuovi e improponibili ordigni di guerra (…) il che forse poteva solo suggerire a qualche irriducibile nostalgico che la sconfitta italiana nella seconda guerra mondiale era avvenuta per le forme più disparate di sabotaggio.”[1235]
Un ruolo ancora più incerto venne riservato alle fotografie nell’opera curata da Massimo Firpo e Pier Giorgio Zunino[1236]; una realizzazione di grande impegno e rilievo nel panorama dell’utilizzazione della fotografia in campo storiografico nel nostro paese, con un apparato iconografico curato dagli Alinari, ovvero dai detentori del “più prestigioso, ricco ed antico ‘corpus fotografico’ conservato in Italia.” A dispetto del titolo, La Storia e le sue immagini, e “pur mirando a stabilire un fruttuoso interscambio fra parola scritta e raffigurazione fotografica” i testi costituivano “il nucleo essenziale” di un’opera a cui “il documento fotografico conferisce rappresentatività (…) ma le immagini rimangono immagini, e solo attraverso un complesso lavoro di correlazione possono venire a far parte dell’interpretazione storica.” Come ogni altra tipologia di fonte si vorrebbe dire, combattendo ad armi apparentemente impari contro quella affermazione apodittica e quasi lapalissiana (a meno di non richiamare Gertrude Stein). Nell’intenzione degli autori – e come dargli torto, qui – si doveva confutare l’opinione comune che “le immagini siano la realtà” e per questo era indispensabile riportare l’immagine dentro la storia”. Encomiabile intento, se non fosse che poi il tutto si risolse nel suo opposto, cioè nella consueta e scontata, sebbene più corposa utilizzazione illustrativa delle fotografie; quella che consentiva di scrivere nella fascetta editoriale che l’opera “letteralmente fotografa la storia d’Italia”, sorvolando almeno su uno degli aspetti tutt’altro che secondari: quello dei criteri di scelta delle fonti iconografiche, qui ridotte ad un bacino monolitico. Il testo di Giuseppe Pontiggia posto in apertura del primo volume[1237] sembrava dare ulteriore corpo alla diffidenza degli storici nei confronti della fotografia, specie nei passi più autobiografici nei quali lo scrittore mostrava senza troppe difficoltà quanto le immagini potessero essere reticenti (e la scelta dell’aggettivazione celava quasi una colpa), insufficienti a conoscere, essendo testimonianza parziale del referente; ciò che poteva sorprendere solo chi avesse ancora conservato una concezione ingenua dell’oggettività fotografica, anzi dell’oggettività di qualsiasi fonte, specie se considerata nella sua singolare parzialità. Le contraddizioni irrisolte di questo impegnativo progetto di storia con le immagini, il conflitto tra raffigurazione ed elaborazione storiografica emergevano in tutta evidenza in un altro passo di Pontiggia a proposito della relazione tra il ritratto post mortem del brigante Curcio e il bilancio militare della cosiddetta lotta al brigantaggio meridionale, quando rilevava come “gli effetti impressionanti li provoca il connubio di scorcio traumatico e statistica dei grandi numeri”. Un possibile esempio di accostamento efficace tra due tipologie di fonti che i curatori non riuscirono a integrare in un discorso storiografico compiuto.
Altri e ben circoscritti erano gli ambiti in cui gli storici della contemporaneità si presentavano più metodologicamente attrezzati e consapevoli, offrendo ipotesi e riflessioni che riuscivano a coniugare opportunamente le questioni inerenti l’uso della fotografia come fonte specifica con quelle relative alla sua propria storia e storiografia. Lucio Fabi[1238] aveva dedicato un importante intervento alle fotografie realizzate nel corso del primo conflitto mondiale, affrontando il problema della possibilità di usare “i fondi fotografici di guerra come documento storico”, che alcuni (Corrado Fanti e Angelo Schwarz tra gli altri)[1239] consideravano utili quasi solo per studiare l’immaginario bellico in conseguenza dei condizionamenti a cui questa particolare produzione era stata sottoposta. Per Fabi “il primo passo da compiere [doveva essere quello] della scelta di un argomento di ricerca congruo, capace cioè di valorizzare le particolarità interpretative e combinatorie della fonte fotografica”; in particolare attuando un “confronto incrociato tra fonti fotografiche diverse (…) sottolineando – ma è quasi un’ovvietà – che il tipo di approccio suggerito non vale soltanto per lo studio della guerra (…) ma più generalmente per ogni evento o tema di interesse storico che possa, questo sì, avvalersi di abbondante e diversificata documentazione per immagini.” Più in particolare lo studioso ricorreva al concetto di “fotografia come arma”, collocandolo al punto di “incontro della guerra di massa con i meccanismi della società di massa”, dove coesistevano due diverse forme (e ora fonti) di produzione: i reparti foto-cinematografici militari e i professionisti da un lato e dall’altro – fenomeno inedito – i fotoamatori militari e civili[1240]. Quella produzione aveva rappresentato “un essenziale elemento di comunicazione tra fronte e paese”[1241], due scenari “comunicanti e reciprocamente influenzabili [così che] l’estrema diffusione della circolazione di immagini permette e anzi incentiva, nei due sensi, la contaminazione dei generi e delle raccolte”, tanto che “la stessa fotografia può riassumere, in contesti diversi, diversi significati.” Da qui la necessità di considerarne di volta il volta la sua funzione prevalente: pubblica o privata, collettiva o individuale. In quella prospettiva diventava determinante affrontare la produzione amatoriale, sino ad allora poco studiata, rispetto alla quale “con l’ampliamento dei fondi censiti risultano accresciute le possibilità di interpretazione di materiali (…) per certi versi uniti da profondi legami, per altri diversissimi fra loro nell’impronta delle inquadrature così come nei modi di assemblaggio, riflettenti – e si tratta di un ulteriore argomento di indagine – problemi di censura e autocensura, all’interno dei modelli prevalenti di rappresentazione fotografica dell’esperienza vissuta.”[1242]
Questo ordine di problemi costituì l’argomento del numero 9/1995 di “AFT”, che si poneva l’obiettivo ambizioso di “tracciare una sorta di bilancio che serva a fare il punto della situazione degli studi, anche a livello metodologico, a definire la tipologia dei materiali disponibili, a descrivere lo stato degli archivi, prospettando un provvisorio censimento delle raccolte.”[1243] La verifica di quel percorso epistemologico, per il quale risultava di fondamentale importanza il riconoscimento delle fotografie quali documenti complessi nel senso stabilito dalla storiografia francese, costituiva l’argomento e la trama principale del contributo di Tomassini[1244] dedicato alle immagini di quella guerra totale[1245], che partiva dal considerare il ruolo assegnato al primo conflitto mondiale dalle storie della fotografia: “stando agli studi disponibili, un po’ paradossalmente, potrebbe sembrare che la grande guerra, pur con i suoi aspetti di guerra ‘totale’ e tecnologica, non abbia portato a cambiamenti di rilievo nel mondo della fotografia. Le storie della fotografia disponibili e più accreditate mostrano una pressoché totale insensibilità al momento della guerra come frattura epocale e, quando non ignorano completamente l’evento, si limitano ad osservazioni abbastanza scontate come quelle sull’aumento della produzione di immagini, spesso dimenticando di segnalare fatti estremamente significativi come ad esempio la fine, provocata dalla guerra, di alcune delle imprese e delle esperienze più tipiche e caratterizzanti del periodo precedente.” Giudizio duro, netto e condivisibile, che misurava non solo e non tanto lo specifico disinteresse quanto una più profonda e sostanziale carenza strutturale della storiografia, e non solo di quella fotografica se poi Tomassini doveva riconoscere che anche sul versante della storia politica, erano “assai pochi gli studi che dedicano attenzione al tema della fotografia e al suo rapporto con la guerra.” Dopo una articolata rassegna critica dei contributi pubblicati nei differenti ambiti lo studioso individuava alcune questioni di fondo quali il rapporto con l’iconografia generale della guerra e le connessioni con la storia sociale e culturale del conflitto, tenendo però sempre ben presenti le distinzioni funzionali tra propaganda e informazione, sino a considerare – per quanto riguardava questo ultimo aspetto – il ruolo dell’evento bellico in relazione alla nascita del fotogiornalismo. “Infine, in relazione allo spostamento del rapporto pubblico-privato (quindi dello sguardo pubblico e dello sguardo privato), il problema della mobilitazione totale, della pervasività della guerra nella cultura del tempo, visto non solo e non tanto come processo organizzato dall’alto, ma come frutto da una parte dell’automobilitazione della società civile, dall’altra di un meccanismo di accettazione della guerra attraverso il processo definito da alcuni di ‘banalizzazione’ della guerra stessa.”[1246] In questo complesso quadro problematico, risaltava l’analisi della funzione fotografica, considerata nel generale “smarrimento di senso che [la guerra] provoca nei protagonisti e nei contemporanei”; un fenomeno già ben evidenziato da chi si era occupato di diaristica e di epistolografia, riconoscendo che proprio la “irriducibile difficoltà di tradurre e di comunicare la peculiarità dell’esperienza di guerra è alla base del nuovo significato che la fotografia assume per i protagonisti, per i militari-fotografi. Più che un tentativo di comunicare, essa appare un modo per fissare un punto, una memoria della propria esperienza (…) per appropriarsi, per fermare sulla carta lacerti e spezzoni di esperienze irripetibili e spesso indicibili.”[1247]
Tra i migliori esiti e le più evidenti dimostrazioni della complessità metodologica e operativa delle ricerche sulla Grande Guerra vi fu quella relativa al “popolo scomparso” del Trentino realizzata dal Laboratorio di Storia di Rovereto, che nel corso di quattro anni (2000-2003) raccolse circa 5.000 fotografie (1.260 delle quali poi pubblicate) a partire da “un indice tematico che includeva tutti gli aspetti dell’esperienza di guerra consumatasi in Trentino e vissuta dai Trentini. Contemporaneamente è stata condotta una ricerca bibliografica mirata soprattutto a inventariare materiali fotografici periferici (di paese, di valle) o monotematici (es. la guerra di montagna, i profughi). Incrociando i risultati di questa prima fase, è stato possibile verificare le rilevanze e le assenze, sono stati così via via visionati tutti gli altri archivi pubblici della provincia, altri di rilevanza nazionale (…), alcuni europei (…), molti privati.”[1248]
Tra le nuove tipologie di fonti con cui lo storico del primo conflitto mondiale, e non ancora quello della fotografia, si era trovato a dover fare i conti vi era l’aerofotografia[1249]; una tipologia di immagini dotata di caratteristiche non immediatamente assimilabile alle riprese terrestri essendo determinata da specifiche funzioni, meccanismi e contesti di produzione, che richiedeva adeguate metodologie di interpretazione. Secondo Luigi Tomassini (1995) “la foto aerea (…) forniva un’illustrazione esauriente di questo carattere di novità dello sguardo fotografico, di uno sguardo del tutto artificiale” e inedito, privo di analogie con qualsivoglia tradizione iconografica. Per queste ragioni si sarebbe sentita la necessità, generalmente non soddisfatta dagli storici che affrontarono il tema, attentissimi all’uso di queste fonti per la storia dei conflitti e per lo studio storico e archeologico del territorio, che venissero prese in considerazione le implicazioni della novità di quello sguardo in termini più ampiamente culturali, sino a considerare i rapporti con l’universo delle arti e specialmente della pittura dei decenni successivi. Un’altra novità di rilievo, in termini documentali e di metodo venne offerta dalla riconsiderazione delle fotografie realizzate nel corso della Resistenza e sino alla Liberazione, oggetto del volume pubblicato nel 1995 da Mignemi[1250], che si era avvalso, pur senza dichiararlo in quella sede, degli esiti del censimento dei fondi fotografici resistenziali da lui coordinato negli anni immediatamente precedenti[1251]. Il suo saggio di apertura, dati per acquisiti gli aspetti metodologici già da lui definiti e discussi in altre sedi[1252], entrava subito nel merito della produzione di ambito resistenziale individuandone differenti tipologie, ciascuna propria dei diversi “attori del conflitto”: fascisti, tedeschi e alleati sino ovviamente agli stessi resistenti, più disponibili all’autorappresentazione di quanto fosse lecito attendersi, a cui si aggiunsero gli studi professionali locali, specialmente attivi nella narrazione delle ultime fasi della guerra e della liberazione. Il tema della (ri)costruzione della memoria, richiamato da Pavone nel suo testo introduttivo[1253], era affrontato considerando “l’utilizzo di questi materiali nel processo di edificazione della memoria visiva dell’evento” e più in particolare le retoriche sottese alla ricostruzione storiografica avviata con le mostre fotografiche realizzate a ridosso del 25 aprile 1945 e negli anni immediatamente successivi; prima occasione in cui si era manifestata quella disinvoltura nell’edizione critica dei materiali resistenziali in più occasioni stigmatizzata dallo stesso Mignemi[1254].
Presentando il volume curato Cesare Colombo in occasione della mostra Cento anni di industria, Valerio Castronovo ricordava come solo recentemente gli storici si fossero rivolti ai “documenti di carattere visivo”[1255] come importanti fonti di conoscenza, confermando a più di dieci anni di distanza i primi richiami di Carlo Bertelli che aveva lamentato come “splendidi esempi di fotografia industriale [restassero] chiusi negli archivi senza possibilità per loro di forzare i limiti di un’origine pratica e di entrare in un circuito di cultura più vasto.”[1256] La strutturazione per capitoli tematici scelta da Colombo intendeva rendere conto del “rapporto di rinnovate contraddizioni” fra l’industria e la sua immagine fotografica, dove “le diverse esigenze, i diversi specifici caratteri storici corrono paralleli, convergendo solo occasionalmente”[1257] e assumendo via via forme distinte: dai primi foto racconti variamente articolati in forma di album sino alle più recenti tipologie di monografia aziendale. Per ciascuna di queste modalità lo studioso indicava la necessità di considerare le convenzioni espressive adottate, in particolare quelle derivate dalla tradizione dell’immagine manuale (come il ricorso massiccio alla tecnica magistrale del ritocco) o l’utilizzo del fotomontaggio, ma senza poi far corrispondere analoghe attenzioni per i prodotti di quegli interventi, le fotografie, pubblicate senza dare mai conto delle loro caratteristiche materiali.
Di maggior interesse l’analisi delle Immagini dall’Archivio Fiat, oggetto di due importanti volumi curati da Carlo Bertelli e Cesare de Seta, che consentiva di verificare lo stato e l’efficacia degli strumenti metodologici e storico critici adottati. Nei capitoli introduttivi De Seta[1258] ripercorreva il rapporto fabbrica/ città fornendo una lettura strutturata sui due poli implicitamente opposti della produzione artistica e letteraria e della fotografia come “repertorio” documentario che poteva aiutare a comprendere la lenta evoluzione industriale, poiché “questo archivio aziendale (…) ha il programmatico scopo di documentare in modo sistematico non solo tutte le fasi della produzione, ma ogni altra funzione, attività, servizio che fa capo all’azienda”; però -avvertiva opportunamente De Seta – “invano cercheremmo in questo archivio testimonianze dei fatti che interessano la complessa vita aziendale, come insieme di forza lavoro e di capacità progettuali: mai uno sciopero, mai una riunione sindacale”, almeno sino agli anni Sessanta del Novecento. Nei primi decenni “la filosofia di questa sistematica documentazione è sempre la medesima: offrire un repertorio completo dei prodotti e delle merci, far sì che questi album siano la memoria visiva dell’azienda.” Un dato confermato anche da Bertelli[1259] che ricordava come l’archivio non fosse nato “per parlare all’esterno dell’azienda, ma soltanto per contribuire alla definizione di un’identità propria”. Per quelle ragioni le fotografie “non hanno intenti propagandistici, anzi, proprio per la loro destinazione interna, sono asciutte, quasi severe. Sono [realizzate nei] giorni in cui la fabbrica è vuota. (…) Queste fotografie (…) assomigliano a mappe militari.” Un’analogia solo accennata e che avrebbe meritato ben altri sviluppi, poiché le fotografie e il loro archivio erano certamente ben più che una semplice testimonianza: una vera e propria forma attuale di quel “dispositivo” di ordine superiore costituito dall’impresa e dalle sue politiche aziendali, alle quali non era certo estranea la consapevolezza della più efficace comunicazione interna. In tal senso non poteva che essere letta come una forma retorica la sorpresa con cui De Seta rilevava “lo iato che si pone tra l’immagine che di sé l’Azienda intende dare e la realtà politica, sociale del mondo esterno. C’è indubbiamente una qualche schizofrenia, un mancato rispecchiamento tra l’oggetto (l’automobile, il trattore, l’aereo o il frigorifero) e il contesto in cui viene inserito.”[1260]
Una selezione di quelle immagini andò a formare una mostra al Museo dell’Automobile di Torino, curata da Peppino Ortoleva e Antonella Russo (Ortoleva et al. 1992) che redassero a quattro mani i testi in catalogo. “La fotografia industriale – scrivevano – preferisce solitamente documentare i momenti eccezionali della vita di un settore produttivo (…). Solo di tanto in tanto si rivolge alla normalità con il ritratto della vita quotidiana della produzione e dei sui uomini”, facendone però derivare piuttosto contraddittoriamente che “la fotografia viene prodotta dall’azienda, come tutti gli altri beni, perché serve”. Anche i richiami alla storia generale della fotografia, certo dovuti a meritorie intenzioni didascaliche, risultavano troppo generici e semplicistici, con esiti quanto meno discutibili e riflessioni non sufficientemente sviluppate[1261]: basti considerare il riconoscimento della funzione delle fotografie come “logica continuazione di quelle tante altre immagini (i disegni, i modelli in legno, i ‘ritratti’ a tempera del prodotto stesso) che hanno accompagnato l’elaborazione dell’idea di una vettura lungo tutto il suo corso”; interpretazione che pareva non tener conto del fatto che quella logica apparteneva semmai alla strategia aziendale nel suo complesso, nella quale ogni tipologia di immagini corrispondeva a un uso specifico. Non una presunta continuazione quasi evoluzionistica quindi, ma una compresenza funzionale e espressiva che sarebbe stata superata solo con l’avvento dell’elaborazione digitale nella definizione e nella comunicazione del prodotto industriale. Fu proprio il contributo coevo di Cristiano Buffa, al quale si doveva il progetto della mostra sopra citata, a mettere sull’avviso contro il pericolo costituito da improprie generalizzazioni; secondo lo studioso non era corretto parlare genericamente di fotografia d’industria, anzi “il prodotto determina forme comunicative, linguaggi ed estetiche diverse tra loro (…) e i modi di rappresentazione di una nave sono diversi da quelli di un tessuto”. Non solo: anche considerando una sola categoria di prodotti, com’era per l’Archivio FIAT, non si poteva non riconoscere il definirsi storicamente determinato di alcuni ‘generi’ ( i “ritratti con vettura” o le corse automobilistiche, ad esempio) e il mutare delle funzioni e dei meccanismi produttivi di quella documentazione, demandata a strutture interne per quanto riguardava i cicli di lavoro e la vita dell’azienda e affidata a professionisti esterni per la cronaca e la pubblicità. Erano quelle stesse condizioni che si riflettevano e si potevano riconoscere nei materiali costituenti l’archivio: quelli derivati dalla produzione diretta o prodotti su commissione; una dimostrazione di come “l’azienda manifatturiera produce immagini come produce beni di consumo”. Accanto a quelle Buffa individuava altre tipologie, quali le immagini prodotte per iniziativa di terzi, che rappresentavano “a diversi livelli la trasmissione dell’immagine aziendale che ritorna mediata da situazioni sociali e culture diverse” e infine “tutte quelle immagini che sono state prodotte secondo criteri di oggettività pura”, intendendo quelle legate a questioni legali e giuridiche (incidenti, danni di guerra, scioperi e manifestazioni). A queste categorie Buffa ne aggiungeva infine una quarta, detta delle “fotografie mancanti” e corrispondenti al “non detto” fotografico, a ciò che per ragioni di censura o di riservatezza progettuale non si era voluto documentare fotograficamente, determinando così quella condizione di “schizofrenia e mancato rispecchiamento” tra il prodotto e il suo contesto già evidenziata da De Seta.
Ciò che queste ricerche mostravano con evidenza era la distinzione tanto labile quanto determinante, tra la storia fotografica della rappresentazione del lavoro e quella dell’industria, della cui complessità il lavoro salariato non poteva che costituire, anche fotograficamente, altro che una porzione, studiata a suo tempo nella Storia fotografica del lavoro curata da Aris Accornero (et al. 1981); una importante iniziativa al cui titolo mancava però l’indispensabile qualificativo di industriale[1262]. Il ricco repertorio presentato non conteneva o quasi immagini inerenti all’agricoltura[1263] o ai mestieri urbani, come se questi non fossero storicamente coerenti con la modernità che accomunava industrializzazione e fotografia. Non possiamo escludere che a monte della parzialità di quella scelta vi fosse stata, oltre alla relativa difficoltà di reperimento dei materiali, anche il timore di affrontare l’immagine di genere ovvero, come suggeriva Quintavalle nel suo importante contributo al catalogo[1264], perché nella pratica professionale la scelta dei temi era una questione di committenza, di rapporti con la committenza (che era solo industriale); a questa si accompagnava da parte di molti fotografi un “rifiuto del mondo del lavoro” industriale di matrice classista, che si sarebbe manifestato nel fatto che i professionisti si rivolgevano al mondo contadino solo quando si muovevano liberamente ovvero quando, specie nel secondo dopoguerra, si manifestò “una analisi sempre più mitizzata della sua emarginazione” in parallelo con la nascita dello sguardo ‘antropologico’, considerato però un fenomeno marginale[1265]. Scontata quell’esclusione, Quintavalle si proponeva di verificare se “la distinzione in capitoli di questa vicenda del lavoro in Italia può essere fatta coincidere, anche se non esattamente, con le distinzioni, le fratture, le contrapposizioni dei modelli culturali delle immagini medesime”, aprendo con la constatazione assiomatica ma non per questo meno disattesa, che “non esiste immagine senza lavoro (…). Per analizzare il lavoro attraverso le immagini si deve leggere l’immagine, comprendere la scrittura, anzi le scritture delle immagini, valutare il senso civile che queste immagini assumono entro i diversi contesti, storicizzarle nel sistema delle immagini contemporanee.” In effetti il tema del lavoro fotografico, delle concrete prassi operative e delle strumentazioni utilizzate era ed è ancora largamente disatteso come argomento di studio. Già nel 1992 Duccio Bigazzi aveva rilevato come all’interesse non episodico per l’immagine storica dell’industria non fosse corrisposto quello per la documentazione “prodotta dall’industria della fotografia; un insieme composito in cui accanto alle poche realtà industriali vere e proprie il tipo aziendale dominante era la bottega artigiana.”[1266] Quasi una eco e una ulteriore conferma di quanto già denunciato un decennio prima da Quintavalle che aveva segnalato la drammatica disattenzione per le “apparecchiature fotografiche; una precisa categoria tra queste è soggetta a rapida obsolescenza ed è stata in genere largamente distrutta, alludo alle apparecchiature per la stampa, mentre le macchine da ripresa trovano qualche volta maggiori spazi e sono conservate; vuoi, nei vecchi studi, come oggetti simbolici (…) vuoi perché testimoniano della antichità dello studio medesimo (…). Ebbene questo collezionismo ha contribuito a disperdere rapidissimamente le macchine fotografiche tra persone che le utilizzano come soprammobile, oppure a montare su chassis originari obiettivi non costruiti per quell’apparecchio (…), dei pastiches incredibili, che non hanno possibilità alcuna di essere resi funzionanti e quindi non permettono neppure la restituzione del procedimento fotografico a livello tecnico.”[1267] Questo sostanziale disinteresse per la storia dell’industria fotografica e dei suoi prodotti permane, almeno nella storiografia italiana, come una lacuna che certo non hanno potuto colmare i pochi testi relativi alle apparecchiature[1268], mentre le storie generali non contenevano che brevissimi cenni: si consideri Zannier (1986b) che in meno di mezza pagina non poteva fare molto più che ricordare Cappelli e pochi altri produttori minori, ma ancora nella recente storia compilata da Gabriele D’Autilia (2012) i pochi richiami riguardavano solo i produttori di apparecchi, stante che “per i materiali essenziali (…) l’Italia dipendeva dall’estero, soprattutto dalla Germania”, senza provarsi a riflettere sulle ragioni e sul significato di quella dipendenza in termini di modernità dal sistema industriale italiano.
Sullo scorcio degli anni Settanta del Novecento l’interesse per la documentazione storica del lavoro contadino aveva mostrato una più o meno evidente connotazione politica, risultando parte della più generale (e magari generica) fascinazione esercitata dalla cultura delle classi subalterne[1270], mentre l’antropologia visiva e l’etnofotografia riflettevano piuttosto sulle questioni poste dalla fotografia come atto e non ancora come fonte storica e storicizzata[1271]. Un’importante occasione di studio e di riflessione su questi temi venne offerta dalla pubblicazione dell’opera fotografica del linguista svizzero Paul Scheuermeier, di cui si avviò una sistematica ricognizione storico critica condotta per areali, anche in conseguenza della disponibilità dell’intero suo archivio, compreso in quello dell’Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale (AIS) conservato presso l’Università di Berna. A più di dieci anni di distanza dalle prime iniziative italiane (pubblicazione del Bauernwerk, 1980, e successiva mostra presso l’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma[1272]), fu Giovanni Contini a ripercorrere le tracce di Scheuermeier in Toscana, verificandole con gli strumenti propri della storia orale. Nel considerare quelle fotografie Contini era ben consapevole di dover fare i conti con informazioni già interiorizzate: “sarebbe infatti ingenuo – scriveva – affermare di poter partire unicamente dalla immagini fotografiche, senza ad esse aggiungere alcun pregiudizio, nel momento in cui le si guarda e le si valuta”[1273]; un “pregiudizio” che presentava una qualche analogia con quella “intentio lectoris” di cui parlava Umberto Eco, la cui consapevolezza (così come la sua mancanza) risulta sempre così rilevante nel lavoro storico critico. L’indagine sul campo prevedeva in quel caso una serie di interviste ai membri anziani della famiglia a cui a suo tempo lo studioso svizzero si era rivolto, per porre in atto un confronto tra le fotografie di Scheuermeier e altre appartenenti alla famiglia stessa; oltre a ricostruire il contesto e le modalità operative del linguista tale confronto avrebbe consentito “di trarre alcune conclusioni relative al carattere spesso illusorio dello sguardo fotografico puro” ovvero, altrimenti detto, del loro specifico valore documentario, dimostrando quanto fosse necessario prendere precauzioni “contro la tendenza ad estendere l’interpretazione di queste immagini fino a renderle documento della società contadina nella sua globalità.”[1274] La pubblicazione del volume dedicato a Il Trentino dei contadini (Kezich et al. 1995), che fin dal titolo dichiarava il rapporto di filiazione e l’omaggio al testo madre, rappresentò invece il primo atto di un impegno collettivo poi proseguito per quasi due decenni e destinato alla “rivisitazione integrale” dell’opera di Scheuermeier, definendo modalità di edizione (fotografie corredate delle loro preziose didascalie lessicografiche, annotazioni stenografiche sul campo, diari) che avrebbero costituito nelle loro linee principali il modello poi seguito da tutti gli altri. Un primo momento di confronto venne offerto nel 1999 ancora dal Museo degli usi e dei costumi della gente trentina di San Michele all’Adige: in quell’occasione Roberto Roda, ricostruì la fortuna critica di Scheuermeier fotografo in Italia, svelandone le intenzioni implicite, a partire dai primi interventi di Miraglia (1981b), che vi aveva colto ascendenze di Riis, Hine e Sanders[1275], sino a Silvestrini 1995[1276] che “curiosamente” aveva riconfermato quelle stesse influenze, pur impegnandosi a cercare riferimenti in area svizzera. A tale proposito Roda riconosceva molto opportunamente quanto “queste assonanze [sembrassero], per lo meno in apparenza, piuttosto generiche e poco in sintonia con quelle intuizioni mai banali che caratterizzano le ricognizioni sia di Marina Miraglia sia di Elisabetta Silvestrini. La cosa mi ha incuriosito e fatto riflettere. Sono così giunto alla conclusione (…) che la Miraglia e la Silvestrini cercassero di trovare alle immagini di Scheuermeier un posto nella storia della fotografia e non solamente in quella della ricerca demo-etno-antropologica” [1277], conducendo un’operazione critica analoga a quella svolta da Zannier nei confronti dell’opera di Ugo Pellis[1278]. A parere di Roda il confronto andava invece fatto con la fotografia di argomento demologico praticata da molti amateur nei decenni immediatamente antecedenti e ancora negli anni di Scheuermeier, avendo come matrice iconografica comune la pittura ottocentesca di genere; anzi, “valutata a posteriori, l’importanza di un autore che in quegli anni abbia prodotto immagini di interesse demologico, finisce spesso per riguardare più la sistematicità e la quantità del lavoro documentario realizzato che la qualità estetica che, lo ripetiamo, in quegli anni è, generalmente, soddisfacente.”[1279] Certo il concetto di “qualità estetica” avrebbe potuto essere meglio precisato e i legami con l’iconografia antecedente e coeva avrebbero dovuto essere approfonditi, ma le osservazioni di Roda mettevano in rilievo, con grande cortesia e finezza, una consuetudine diffusa del fare storia della fotografia: quella di affidarsi, magari con una malintesa intenzione qualificativa, a modelli consolidati senza adottare le necessarie verifiche storico critiche.
L’interesse nuovo per archivi e fondi implicava necessariamente ulteriori riflessioni metodologiche sull’uso di quelle stesse fotografie come fonte e come componente del discorso storiografico, temi che vennero affrontati nella sessione Indagine delle raccolte fotografiche e ricerca storica del convegno di Prato del 1992 (Lusini 1996a), nel corso della quale vennero ribaditi i problematici rapporti dello storico contemporaneista con le fonti fotografiche, a partire dalla presentazione di alcune esperienze concrete[1280]. La relazione introduttiva di Tomassini confermava la presenza di una “situazione ancora non consolidata”, determinata dalla “eccessiva cautela con cui (…) la storiografia si accosta al mondo della documentazione fotografica.”[1281] Tale cautela si poteva riscontrare in ambito contemporaneista ma anche, piuttosto sorprendentemente, in quello storico fotografico, che solo da poco si era avvicinato al patrimonio esistente considerandolo quale oggetto di studio, allontanandosi così dalla tradizione costituita dalle prime e più note storie della fotografia, che affondavano le proprie radici nelle pratiche collezionistiche[1282]. Di questa nuova apertura erano testimonianza l’interesse per aree tematiche sino ad allora scarsamente indagate quali la fotografia industriale e “il gran magma delle foto personali e di famiglia”[1283], a cui si accostavano in quegli anni, pur da prospettive diverse, gli antropologi e i cultori della storia orale. A fronte di quelle mutazioni in corso lo studioso auspicava il costituirsi di una “storia culturale della fotografia [intesa come] storia del rapporto fra la fotografia e la cultura (in senso lato) del tempo”, sebbene poi – con apparente contraddizione -riconoscesse alla fotografia (con una eco lontana delle “finestre” di Szarkowski e una più prossima del Barthes de La Camera chiara) quella caratteristica di “trasparenza rispetto all’oggetto rappresentato che permette di operare attraverso e sulla foto una operazione cognitiva del tutto analoga a quella operata sul reale, attribuendo così all’immagine un valore documentario del tutto omologo a quello probatorio che assume spesso sul piano giuridico e del senso comune.”[1284] Sulle valenze euristiche dell’immagine fotografica concordava in quegli anni anche una studiosa come Diane Favreo (1992), che intendeva utilizzarle “per analizzare l’esperienza del contesto urbano di Roma”, convinta che “le fotografie storiche non sono selettive; esse restituiscono effettivamente e in maniera affidabile le apparenze urbane e così ci consentono una ricostruzione empirica.”[1285] Una posizione metodologica non distante da quella espressa da Cecilia Malovini (2002) a proposito di Piazza del Duomo a Milano e da Giovanni Fanelli (2002) che studiava l’iconografia della Loggia della Signoria a Firenze per dimostrare nel concreto “possibilità e caratteri peculiari della fotografia come fonte per la storia e la lettura critica di un’architettura (…) e della sua utilizzazione nel tempo”. Altri studiosi avevano assunto da tempo posizioni più problematiche, come Maria Teresa Sega (1988) o Paolo Chiozzi, che nel suo intervento al convegno di Prato aveva discusso i problemi posti dall’uso delle immagini storiche e, più in generale, di quelle non prodotte dall’antropologo o dall’etnologo nel corso della propria ricerca, ben consapevole che “tanto il disegno quanto la fotografia sono condizionati dalla cultura che li produce e, successivamente, di colui che li osserva”, essendo “la nostra percezione visuale culture-dependent.”[1286] Si trattava cioè di riconoscere ai ‘documenti’ fotografici la loro natura di “artifacts of culture” – per riprendere la formulazione di Jay Ruby[1287] – e quindi che “l’importanza attuale delle fotografie storiche per l’antropologia non è data tanto dal loro soggetto quanto dal fatto che esse rinviano a una ideologia. Esse in un certo senso costituiscono una ‘messa in scena’ di quella ideologia.” [1288] Una concezione che appariva non troppo distante da quella di documento come monumento formulata da Jacques Le Goff in ambito più propriamente storico pochi anni prima (1978), e che andrebbe sempre ben tenuta a mente affrontando lo studio di qualunque genere di fotografia, anche di quelle più apparentemente neutre quali sono quelle di documentazione del patrimonio artistico. Da quelle posizioni Chiozzi faceva derivare alcune indicazioni metodologiche, desunte da Joanna Cohan Scherer[1289], e qualche prescrizione strategica “in grado di permettere un uso proficuo delle collezioni fotografiche nella ricerca antropologica.” Per lo studioso si trattava di “tre aspetti da tenere presenti nell’uso delle fotografie storiche in antropologia. Essi sono l’oggetto-fotografia, le intenzioni del fotografo, l’interpretazione del fruitore. Nessuno dei tre aspetti, da solo, permette di dare un significato all’immagine fotografica; al contrario essi devono essere considerati come parti interagenti di un unico processo.” Indicazioni interessanti e quanto mai condivisibili ben oltre l’orizzonte della ricerca antropologica, che presentavano più di un elemento di convergenza con analisi provenienti dall’area generalmente semiologica e semiotica: penso alla distinzione tra studium e punctum del Roland Barthes de la Camera chiara (1980), ma anche, e in modo forse più pertinente, alle tre “intenzioni” (dell’opera, dell’autore, del lettore) individuate da Umberto Eco ne I limiti dell’interpretazione (1990) e solo dispiace che gli steccati accademico disciplinari impedissero di cogliere tutti i possibili frutti dell’elaborazione di un pensiero condiviso intorno a un oggetto teorico (la fotografia / il fotografico) che per la sua complessità necessitava del contributo di tutti; specie per procedere oltre e svilupparsi senza ogni volta avere l’impressione di ricominciare tutto da capo come – proprio in occasione del convegno di Prato – si poté rilevare dal confronto tra l’elaborazione in ambito storico contemporaneista e in quello etnoantropologico, avvantaggiato nel più efficace uso delle fonti fotografiche anche in virtù di una più lunga frequentazione e di un minore condizionamento esercitato dalla tradizione archivistica, ancora rilevante per gli storici contemporaneisti[1290] nonostante le aperture successive alla “nouvelle histoire”.
Il mutamento di statuto delle fotografie “da documentazione a documento”[1291] necessitava ancora la messa a punto di una critica metodologicamente attrezzata per affrontare questa ‘nuova’ tipologia di fonti, a cui – sempre in occasione del convegno di Prato del 1992 – offrirono contributi importanti Duccio Bigazzi e Adolfo Mignemi; ciascuno presentando casi di studio con una loro specificità di ‘genere’ ma offrendo considerazioni di portata più generale, tali da poter essere lette come declinazioni del tema più ampio della fotografia come fonte per la storia, anche di sé stessa. Così parlando di fotografie industriali Bigazzi sottolineava la necessità di considerare i meccanismi e i criteri di formazione degli stessi archivi; gli eventuali processi di selezione a cui era stata sottoposta la documentazione pervenuta e le forme della sua circolazione e conservazione. Per quanto tale affermazione potesse apparire ovvia (ma non ancora pienamente acquisita, neppure oggi) Bigazzi sentiva la necessità di ribadire che “ai fini di un loro utilizzo come fonti storiche, è preliminare un lavoro di ricostruzione delle serie, di verifica delle cronologie e di reperimento di tutte le informazioni utili riguardanti i soggetti raffigurati.”[1292] Mignemi dal canto suo ribadiva la necessità di “riconoscere l’autonomia completa di ogni fase del procedimento fotografico, nonché della riproduzione dell’immagine stessa con mezzi fotomeccanici” [1293], invitando a liberarsi così dalla concezione ingenua che rendeva fungibili la matrice negativa, gli innumerevoli positivi da questa ricavati e le eventuali loro riproduzioni fotografiche e fotomeccaniche, certo memore in questo degli insegnamenti di Ando Gilardi. Ciò dimostrava che la concezione del negativo come originale non solo era superata ma aveva ormai perso di senso e che l’attenzione pur determinante per il primo momento produttivo non poteva considerarsi sufficiente; non era più possibile prescindere dalle questioni poste dall’edizione, dalla circolazione e dalla fruizione delle immagini studiate, da una considerazione complessiva della fotografia come fonte complessa. Di più: “l’importanza della fonte fotografica, la sua interpretabilità così come le informazioni che se ne possono trarre, derivano dalla capacità di dialogare e di confrontarsi con le altre fonti (…) allo scopo di accrescere le informazioni e le ipotesi di ricerca. Senza questo indispensabile confronto, senza il raccordo con le coordinate generali e specifiche dell’evento che le origina, le immagini (…) risultano monche, mutilate della loro valenza di documento storico.” [1294]
Il passo appena citato non solo esprimeva posizioni largamente condivisibili ma con le sue perorazioni testimoniava quanto fosse ancora necessario ribadirle, quasi che lo storico professionale, esattamente come l’osservatore comune, dovesse essere continuamente avvertito per non soccombere alla sindrome dell’analogon, all’illusione che la fotografia descriva la realtà tout court, qualsiasi cosa questo voglia dire. Ma la necessità inderogabile di quelle semplici istruzioni, precauzioni più che indicazioni metodologiche, si collocava addirittura a monte di ogni questione epistemologica: resta illuminante in tal senso il breve testo che uno storico di rilievo come Giuseppe Papagno dedicava alla questione della fotografia come fonte, aprendo con un doveroso richiamo alla spinosa questione critica, qui esemplificata dall’immagine “dei marines che alzano la bandiera nel ‘giorno più lungo’ a Omaha Beach di F. Capa [che] è, ad esempio, un esempio ormai classico, e anche logoro, citato da tutti, d’una foto costruita ad hoc.” [1295] In quanto ad esempio, per reiterare le ripetizioni, credo sarebbe difficile trovarne di migliori per indicare la superficialità di certi storici nel trattare le fotografie; la loro difficoltà a maneggiare materiali che appartengono anche alla cultura di massa, che da questa sono consumati sebbene mai logorati come invece supponeva l’incauto studioso, che nel breve volgere di una frase era riuscito a: fare involontario collage mentale di (almeno) due notissime fotografie; dimenticare l’autore effettivo della prima; citare un altrimenti ignoto F. Capa e – infine – sconvolgere le unità di tempo e di luogo confondendo lo sbarco su una spiaggia della Normandia (6 giugno 1944) con quello avvenuto su di un’isola del Giappone: quella di Iwo Jima sulla quale, certo, il 23 febbraio 1945 il fotografo Joe Rosenthal mise in posa i marines che issavano per la seconda volta in quel giorno la bandiera statunitense[1296].
Come aveva mostrato Tomassini nel proprio contributo ai numeri 22 e 23 di “AFT”[1297], la questione era ben più articolata e complessa e doveva tener conto del fatto che “una lettura limitata ad un loro uso solo come fonte per la storia della guerra, non esaurirebbe affatto il significato di queste immagini. (…) leggere queste fotografie significa cercare di capire non solo cosa rappresentano, ma perché lo rappresentano in questo modo: cercare di capire se vi è una differenza fra la dimensione dello sguardo ‘ufficiale’ e quello ‘privato’, e se entrambi, quando circolano in forma pubblica, ricevono un’altra torsione e connotazione. (…) Possiamo anche pensare che la ‘cultura fotografica’ del tempo abbia avuto un suo peso nel determinare l’immagine prodotta e che ora esaminiamo.”
Il richiamo alla necessità di considerare e comprendere le forme espressive proprie della fotografia anche nel momento in cui si intenda utilizzarla come fonte documentaria costituiva una determinante e innovativa presa di coscienza in ambito contemporaneista ma riproponeva analoghe diatribe a suo tempo sorte in merito all’analogo utilizzo delle opere d’arte e in particolare dei dipinti. Nel redigere la propria Storia del paesaggio agrario italiano[1298] Emilio Sereni si era avvalso anche dell’iconografia pittorica, riconoscendo che quella “rappresentatività e (…) intuizione del ‘tipico’ [costituivano] una nota saliente” dell’opera d’arte, ma Giovanni Romano avrebbe più tardi avvertito dei rischi metodologici insiti nel voler “ridurre ingenuamente le immagini antiche ad istantanee dal vero”[1299], ribadendo poi che la fonte iconografica prima di essere utilizzata quale “prova storica indubitabile”, quale documento in senso referenziale, doveva essere “liberata” “da un complesso di superfetazioni – strumentali, sociali, corporative, di convenzione accademica – immancabilmente aggregate intorno al gesto creativo ed espressivo dell’artista”[1300]; liberate cioè di tutti quegli elementi di connotazione che nella loro complessa articolazione la identificano come “monumento”, sebbene sia indubitabile che, oltre l’uso puramente referenziale, è invece indispensabile riconoscere e analizzare proprio quelle “superfetazioni”, cioè le condizioni che ne hanno determinato le stesse forme di esistenza, sino a “passare attraverso la mediazione della coscienza dell’autore della fonte”, come ha riconosciuto Witold Kula[1301]. L’indicazione risultava ancor più preziosa se applicata alla fotografia, rispetto alla quale – per dirlo con le parole utilizzate da Giovanna Ginex a introduzione del proprio studio sulle Origini della fotografia in Lombardia – era tempo che nella ricerca storica si operasse una “decodificazione (…) del documento visivo, del quale va considerato lo ‘specifico iconico’, ovvero i codici linguistici che sottendono la sua produzione e la sua fruizione.”[1302] Non solo: richiamando altri importanti aspetti, forse risaputi ma non per questo sempre tenuti nel dovuto conto, ricordava quanto “le tipologie delle fonti scelte per ricostruire il percorso storico di un oggetto di studio possono orientare e condizionare i risultati della ricerca fin dal suo avvio. Una così ovvia considerazione metodologica diviene necessaria premessa storiografica specie nel caso di una disciplina recente come la storia della fotografia”, della quale riconosceva così l’ancora incerto statuto.
Introducendo la Storia fotografica della Resistenza curata da Adolfo Mignemi[1303] Claudio Pavone aveva offerto ulteriori elementi di riflessione, ampliando il dibattito ben oltre il tema ormai consueto della fotografia quale fonte documentaria sino a considerarla anche come “agente di storia” [1304] e di memoria, trasponendo una formulazione per altro problematica adottata da Marc Ferro a proposito del cinema[1305]. Pavone individuava infatti nella “costruzione della memoria collettiva della Resistenza attraverso la fotografia (…) il tema attorno al quale è organizzato il volume. (…) L’immagine fotografica non può infatti rimanere estranea al grande dibattito in corso sul rapporto fra storia e memoria, sull’intreccio fra memoria individuale e memoria collettiva, nonché a quello dell’uso pubblico della storia.” In questo contesto riconosceva come centrale dal punto di vista storiografico la necessità di costruire “quella che potremmo chiamare una diplomatica del documento fotografico, che sola consente di cogliere pienamente anche il soggetto della fotografia, ricollegandolo, ad esempio, alle tradizioni culturali a cui appartiene il fotografo”, con una indicazione metodologica riconosciuta come si è visto anche da Tomassini, ma che era stata pienamente chiarita ed esperita da Quintavalle più di un decennio prima quando a proposito di Storia fotografica del lavoro (Accornero et al. 1981) si era chiesto se “la distinzione in capitoli di questa vicenda del lavoro in Italia può essere fatta coincidere, anche se non esattamente, con le distinzioni, le fratture, le contrapposizioni dei modelli culturali delle immagini medesime.” [1306]
Il rapporto tra il fare storia, fotografia e fotografie costituiva in quegli anni uno dei temi centrali della riflessione dei contemporaneisti, su cui si interrogavano articoli, convegni[1307] e saggi. Tra questi il volume La storia nella fotografia (ma forse sarebbe stato più appropriato l’inverso) firmato da Gabriele D’Autilia nel 2001, che nelle sue pagine comprendeva anche “una sorta di storia della fotografia a uso degli storici e di ‘storiografia fotografica’ ” allo scopo, tanto meritorio quanto impegnativo, di fornire “alcune indicazioni in merito a una disciplina che, in quanto tale, forse non ha ancora visto la luce e che richiederebbe ulteriori riflessioni teoriche e soprattutto ricerche sul campo.” La struttura contemplava anche una terza parte, organizzata sulla base di “una tripartizione tematica della materia, secondo l’ormai acquisita distinzione tra fonte per la storia, agente di storia e strumento per raccontare la storia”, dovuta a Giovanni De Luna che dirigeva la collana “Le scene del tempo” in cui il volume venne pubblicato. L’andamento complessivo non risultava però così chiaro e lineare, tanto che anche la prima sezione – che pure avrebbe dovuto contenere riflessioni metodologiche sulla fotografia in relazione al fare storia – si presentava piuttosto come una ulteriore, sinteticissima storia del mezzo, condotta ricorrendo a poche fonti bibliografiche, per lo più ampiamente datate[1308], ciò che comunque poteva spiegare solo in parte alcune notevoli ingenuità socio semiotiche quali l’affermazione che “la fotografia è un sistema di segni culturalmente condizionato”, mentre ciò che l’avvicinava alla pittura sarebbe stata “la sua ricezione, studiata dalla psicologia della percezione, e il suo uso sociale.”[1309] Difficile illustrare meglio di così quanto certi riferimenti non appartenessero ancora alla cassetta quotidiana degli strumenti di lavoro degli storici, neppure di quelli delle più giovani generazioni, come dimostrava in tutta evidenza anche il capitolo dedicato allo spinoso tema Arte e fotografia, di per sé non pertinente, nel quale però il lettore poteva scoprire con sorpresa che “l’occhio del fotografo è come il pennello del pittore” e forse per questa ragione (si suppone) “nella fotografia non c’è stile: è difficile riconoscere lo stile di un fotografo. Rispetto alla pittura, una fotografia non si integra facilmente in un corpus di opere di un fotografo, non è riconoscibile; il gusto fotografico è necessariamente eclettico, globale e permissivo, ognuno ci vede ciò che preferisce.” A queste impegnative dichiarazioni faceva seguito una brevissima storia della fotografia ad usum Delphini, cioè dei colleghi storici contemporaneisti, fondata sull’indiscutibile asserzione che “la storia della fotografia è la prima indispensabile lettura anche per lo storico che voglia affrontare questa materia coi propri strumenti metodologici.”[1310] La sintesi a cui D’Autilia si costringeva per dare forma alle vicende narrate da questa “disciplina senza nome” non erano però senza conseguenze, né sul piano specifico né su quello più generalmente culturale: così se la Recherche e l’Ulysse erano annoverati tra i grandi romanzi sociali dell’Ottocento, non miglior sorte toccava ad Atget, che secondo l’autore, dimentico se non altro della lezione di Benjamin, avrebbe osservato “con interesse sociologico la vita privata degli altri.” Meglio rivolgersi allora alla terza parte di quel testo ambizioso, in cui lo studioso si proponeva di analizzare i problemi e le metodologie da applicare alla fotografia quale fonte per la storia, a partire da una serie di questioni centrali, certo non inedite ma ancora non risolte, quali l’analisi dell’intenzionalità dell’autore, le periodizzazioni e le scansioni temporali entro le quali leggere generi diversi come la fotografia familiare e quella di guerra, per giungere infine all’ “uso storico dell’immagine” ovvero, e più correttamente, storiografico: la fotografia intesa come strumento di narrazione della storia attraverso i media. Per affrontare operativamente il problema della critica delle fonti applicato a questa particolare tipologia di documenti D’Autilia stilava un decalogo di cautele e indicazioni, certo interessante e forse metodologicamente utile ma del quale risultava difficile riconoscere la specificità, poiché crediamo che per ogni fonte utilizzata lo storico dovrebbe impegnarsi a “verificarne l’autenticità (…) valutarne l’attendibilità (…) non limitare la lettura a un unico documento” e infine “tener conto del problema” della sua propria soggettività.
Analoghe preoccupazioni didattiche e un simile andamento didascalico si ritrovavano anche nel volume di poco successivo di Adolfo Mignemi[1311], rivolto prevalentemente al pubblico dei contemporaneisti ma ben altrimenti organizzato su di una solida analisi dei processi di strutturazione e decodifica della fonte fotografica in termini documentari. Dopo aver illustrato le ragioni che determinavano “la difficoltà a individuare uno statuto proprio di queste fonti”, l’autore si provava ad applicare i principi della diplomatica, sviluppando il suggerimento espresso da Claudio Pavone[1312]. Lo scopo era quello di individuare e definire gli elementi costitutivi del documento fotografico al fine di dimostrare, in modo sostanzialmente convincente, che era possibile analizzare una fotografia “alla stregua di un qualsiasi documento tradizionale”, con l’accortezza però di saper cogliere (nonostante l’apparenza analogica) le differenze tra il dato referenziale, e la sua restituzione fotografica, quella che Mignemi definiva, con terminologia forse non felice, come “evento fotografico”, vale a dire “l’avvenimento che si propone in forma documentale” e specifica: dai negativi ai positivi sino alle riproduzioni e copie, senza dimenticare i problemi posti dall’intenzionalità del fotografo, imponendo allo storico di interrogarsi e verificare l’eventuale “non rispondenza dell’immagine all’evento”.[1313] Lo sforzo di delineare un quadro generale e tendenzialmente completo degli aspetti teorici e metodologici connessi e derivati dall’uso della fotografia come fonte e come strumento di narrazione della storia apriva non solo alle questioni più strettamente filologiche connesse all’edizione critica della fonte stessa, tema nodale che lo studioso aveva già affrontato in precedenti occasioni, ma gli consentiva di offrire indicazioni a proposito degli ambiti più disparati (diritti connessi all’immagine, conservazione, catalogazione) con una intenzione esplicitamente didattica non supportata però da adeguate competenze. Basti considerare i paragrafi dedicati agli “aspetti tecnici” e agli “aspetti formali dell’evento fotografico” che riassumevano in una decina di pagine osservazioni e indicazioni a cui anche i meno pretenziosi tra i manuali per dilettanti fotografi dedicavano ben più ampio spazio, ma soprattutto le pagine rivolte alla “lingua del documento fotografico”, costruite avendo come solo ed esclusivo riferimento teorico e bibliografico due numeri monografici della rivista “Progresso fotografico” del 1977-1978[1314].
La messa a punto di strumenti di analisi delle fonti fotografiche risultava in quegli anni ben più avanzata in ambito storico urbanistico, dove accanto alle differenti scritture delle immagini si consideravano necessariamente il lavoro e gli strumenti utilizzati per la loro realizzazione. Una prima serie di prescrizioni era stata fornita da Giovanni Fanelli che si provava a sistematizzare le prime indicazioni metodologiche di Enrico Guidoni[1315] relative all’uso delle cartoline fotografiche, riconoscendo che avevano “aspetti specifici che le distinguono rispetto ad altre fonti iconografiche fotografiche. Per le grandi città una parte della produzione riguarda i luoghi e i monumenti stereotipi (…) ma esiste anche un’enorme produzione che documenta la città in maniera capillare e inconfrontabile con quella offerta da altre fonti iconografiche. (…) Si può senz’altro affermare che nessun altro tipo di documentazione iconografica offre una capillarità e una copertura temporale così ampie come la cartolina postale.”[1316] Altre e successive furono poi le occasioni di arricchire e applicare quelle prime indicazioni, specialmente innovative per la loro sistematicità e con risultati convincenti in termini di ricostruzione storiografica applicata ai due distinti livelli e ambiti della “lettura critica di un’architettura (…) e della sua utilizzazione nel tempo.”[1317] Individuando e studiando un ricchissimo repertorio iconografico relativo alla fiorentina Loggia dei Lanzi Fanelli aveva individuato alcuni gruppi omogenei di immagini, ciascuno caratterizzato da un particolare trattamento del soggetto dovuto alla scelta di un determinato punto di vista (posizione topografica, angolo di apertura, altezza e modalità di ripresa). Di ciascuno vennero individuate le ragioni e gli esiti narrativi, dai quali trasse – come sintesi storiografica – un quadro (un poco letterario) della vita nel tempo intorno alla Loggia, riconoscendo che questo fu il tema prevalente a cui si applicarono i fotografi “fin dagli inizi della fotografia, e ancor più dopo l’avvento dell’istantanea”. Un’applicazione analoga ma su ben più vasta scala fu quella rivolta all’iconografia della città di Lucca a partire dalla considerazione che le fonti fotografiche sono fondamentali non solo “per la storia di alcuni rilevanti interventi urbanistici” ma anche “almeno per altri due aspetti: per lo studio delle microtrasformazioni che investono il tessuto urbano [e] per lo studio dei modi d’uso degli spazi urbani.”[1318] I due volumi sulla città toscana costituivano lo sviluppo e il completamento di un primo progetto edito nel 1998, dedicato alle fonti grafiche e pittoriche, e raccoglievano, sviluppandoli, gli esiti della tesi di laurea discussa nel 1996 da Barbara Mazza con lo stesso Fanelli[1319], quando la ricerca lucchese costituì una prima occasione di verifica metodologica per l’utilizzo della “storia della fotografia come fonte per la storia dell’architettura e per la storia della città.” Come veniva precisato nell’Introduzione ai due tomi, “lo studio e la catalogazione dell’iconografia urbana fotografica di una città nella misura sistematica e nell’ampiezza con cui sono stati realizzati in questa ricerca (…) non ha precedenti”, sebbene per scelta metodologica fossero state considerate solo “le immagini fotografiche di spazi urbani, escludendo le immagini relative a singoli manufatti.” Pur non rinunciando a fornire le tappe principali della sua diffusione locale e ad individuare con minuzia i fotografi attivi in città, questo studio non si proponeva come una storia della fotografia a Lucca ma come una storia delle modificazioni urbane, degli spazi e del loro uso. Una storia attraverso la fotografia quindi, ma finalmente caratterizzata da un raffinato livello di comprensione e lettura critica delle fonti[1320].
Mentre in Italia si assisteva alla difficoltosa messa a punto delle prime sistematiche storie della fotografia, in contesti culturali in cui il tema aveva una più lunga tradizione di studi come la Francia e gli USA si rifletteva da tempo sulla necessità di elaborare “nuove storie”. Già nel 1979 l’Art Institute di Chicago aveva organizzato una serie di conferenze intitolate Toward the New History of Photography, nel corso di una delle quali Carl Chiarenza, storico dell’arte e fotografo, aveva posto per primo la necessità di sottoporre a radicale revisione critica il modello Newhall per impegnarsi alla realizzazione di una storia che intendesse la fotografia come una parte dell’intera storia del fare immagini.”[1321] L’urgenza di una ridefinizione e della messa a punto di nuovi strumenti teorici e metodologici costituì uno dei punti centrali dell’elaborazione critica del decennio successivo, specie sulle pagine di riviste come “Parachute”, “October”, “Afterimage”, “Exposure” e “Heresies” nel periodo 1981-1987, con contributi firmati da studiosi quali Douglas Crimps, Christopher Phillips, Abigail Solomon-Godeau, Rosalind Krauss, Martha Rosler e Allan Sekula, poi in parte antologizzati nel 1989 in un volume dal significativo titolo di The Contest of Meaning: Critical Histories of Photography, che nella scansione delle quattro parti che lo costituivano rappresentava un chiaro manifesto programmatico di cosa intendesse per nuova storiografia fotografica quel gruppo di “politicized modernists” piuttosto che di “postmoderni” come vennero poi genericamente definiti. Loro bersaglio critico erano il formalismo modernista e la costruzione del canone della “apolitical fine art” dovuta a Newhall (e poi a Szarkowski), a cui contrapponevano la necessità di indagare aspetti sino ad allora sostanzialmente ignorati quali le conseguenze sociali delle pratiche estetiche, l’influenza della fotografia nella costruzione delle differenze sessuali, i rapporti tra i suoi usi e la promozione di interessi di classe e nazionali o ancora “le politiche del vero fotografico.”[1322] Era insomma la pluralità irriducibile della fotografia che veniva riconosciuta e assunta a questione epistemologica da affrontare al di la di ogni preoccupazione estetica, ma senza per questo dimenticare la funzione sociale e il ruolo dell’ “artista fotografico” [photographic artist]. Lungo quelle tracce, ma non necessariamente con identica strumentazione teorica, si sarebbe mossa tutta la storiografia critica più avveduta nei decenni successivi, ben rappresentata nel numero monografico di “History of Photography” intitolato Why Historiography? curato da Anne McCauley, che nell’editoriale indicava la necessità di orientarsi verso una storia integrata, focalizzata sui “mutevoli ruoli sociali della fotografia”[1323] e strettamente connessa alla definizione stessa del proprio oggetto di studio, poiché il riconoscimento del suo statuto (estetico, mediatico, sociale) avrebbe determinato non solo l’ordine di questioni che si potevano porre a proposito di questi materiali, ma “persino chi fosse qualificato a porli, e quali criteri fossero utilizzati per valutarne i risultati.”[1324] Specialmente insoddisfacente era considerata la storiografia di derivazione artistica, considerato che “la fotografia in quanto tale non ha alcuna identità. Il suo status in quanto tecnologia varia con le relazioni di potere che la investono. La sua natura come pratica dipende dalle istituzioni e dagli agenti che la definiscono e pongono in opera (…). La sua storia non ha alcuna unità. È un ondeggiare in un campo di spazi istituzionali.”[1325] Ancora più esplicitamente Geoffrey Batchen sentiva la necessità di avere una storia “che guardi alla fotografia e non solo alle foto artistiche (…) che si liberi da una narrazione evoluzionistica (…) tracciando il percorso di un’immagine tanto quanto la sua origine (…) che riconosca che le fotografie possiedono molteplici manifestazioni e sono oggetti tanto quanto immagini [e che] riesca a vedere oltre l’Europa e gli Stati Uniti, e si interessi a qualcosa di più che gli sforzi creativi dell’uomo bianco.”[1326]
Si provava a rispondere a queste aspettative la “Storia culturale” di Mary Warner Marien, interessante e innovativa per l’estensione geografica e tematica ma ancora fortemente legata ai canoni modernisti nella costruzione del discorso e nella scelte della gran parte delle immagini, testimoniando delle difficoltà anche narrative della storiografia fotografica, certo dovute – come riconosceva l’autrice – al fatto che ancora sulla soglia del nuovo millennio gli “autodidatti (…) costituiscono la maggior parte degli storici della fotografia”[1327]. Il quadro generale continuava insomma ad essere più che insoddisfacente poiché a una diffusa e condivisa coscienza della crisi disciplinare non corrispondevano proposte ed esiti adeguati. Una storiografia che si voleva “nuova” e quindi, necessariamente, “critica” riconosceva infine la propria “crisi”[1328]. Una crisi di modelli e di metodi, affrontata con strumenti e prospettive storiografiche diverse, che oscillavano tra le posizioni coerentemente benjaminiane di Jeffrey[1329], immerso nelle questioni della riproducibilità e della comunicazione, e le fascinazioni derridiane cui soggiaceva Von Amelunxen, convinto che non ci potesse essere “storia della fotografia [che possa] portare a una storia del medium”[1330] e anzi che fosse necessario pensare a “una scienza dell’immagine che non possa essere compresa in alcuna delle discipline umanistiche e possa quindi, come la psicanalisi, essere considerata una metascienza”[1331] ovvero -come aveva proposto André Gunthert nella stessa occasione – verificare la possibilità di una “storia del fotografico”[1332] inserita in una più generale e problematica storia delle immagini che aspirava ad essere una storia culturale delle rappresentazioni, portando all’elaborazione di più storie distinte, differenti ma non indifferenti tra loro. Centrale restava per tutti la necessità di meglio definire l’oggetto di studio, consapevoli ormai dei vincoli e delle scelte determinati dalla nuova definizione del suo statuto, come aveva a suo tempo fatto notare Nickel[1333]. Le occasioni di riflessione intorno a questi temi si moltiplicarono in quegli anni sia nella forma dell’elaborato saggistico sia in quella del confronto seminariale[1334]: in particolare in occasione del colloque parigino del 2003 Photographie, les nouveaux enjeux de l’histoire, che vide la partecipazione di studiosi francesi, inglesi e statunitensi[1335], emersero alcuni tratti caratterizzanti della storiografia francese quali la “preoccupazione per la riflessività metodologica, il desiderio di produrre conoscenze piuttosto che descrizioni, un’attenzione forte per la dimensione degli usi, dei contesti e della ricezione delle immagini”, ma anche “l’accettazione progressiva della specialità fotografica nei dipartimenti o nelle facoltà di storia dell’arte (…), mentre la tendenza nei paesi anglosassoni porta piuttosto a diluirla nel territorio dei visual studies”, e infine “la pregnanza di una forte preoccupazione teorica.” Per quanto riguardava l’assimilazione alla storiografia artistica gli studiosi francesi ritenevano che “quel legame presentasse numerosi vantaggi, “come quello di beneficiare di strumenti metodologici consolidati, di conservare all’erudizione tutta la sua legittimità, ma anche di mantenere al centro la questione dell’immagine.”[1336] Mediazione interessante, non lontana da quella avanzata da uno storico della generazione precedente come André Rouillé[1337], che prendeva le distanze dagli esiti più espliciti delle elaborazioni anglosassoni di tipo “culturalista” che a loro volta avevano preso le mosse proprio da ambiti teorici particolarmente sviluppati e fecondi in Francia, dallo strutturalismo alla semiotica e alla linguistica, colpevoli di aver generato un approccio “prioritariamente critico e teorico, e non storico, ciò che ha portato, ironicamente, a ridurre ancora una volta lo studio della fotografia a una metodologia univoca.”[1338]
Dati questi presupposti non stupisce che l’importante impresa storiografica curata da André Gunthert e Michel Poivert nel 2007 con la collaborazione di altri studiosi legati alla rivista “Ètudes photographiques” avesse come titolo L’art de la photographie, più didascalicamente presentato come Storia della fotografia dalle origini ai nostri giorni[1339] nell’edizione italiana, forse anche per evitare ogni fraintendimento salonistico in una condizione meno criticamente attrezzata quale la nostra. Nell’Introduzione i due curatori ricordavano che mentre un tempo “una storia generale della fotografia rappresentava l’apogeo della conoscenza possibile del mezzo, oggi dobbiamo ammettere che un volume non basterà a raccogliere l’insieme delle informazioni disponibili. Come in tutti i campi del sapere giunti a maturità, bisogna ormai rassegnarsi a fare una scelta”; per questa ragione “la storia della fotografia che abbiamo scelto di raccontare non è una storia generale del mezzo, ma una storia riflessa dal punto di vista dell’arte e della cultura”[1340]. Questa venne restituita con ampi e articolati saggi (testuali o per immagini) che scardinavano le più consuete strutture narrative del genere e cancellavano le solite partizioni di tipo tecnologico e (apparentemente) anche cronologico a favore di percorsi tematici orchestrati su tempi lunghi, sebbene poi gli argomenti trattati si mantenessero, specie nei primi capitoli, strettamente ancorati alle periodizzazioni ben note[1341]. Ciò che mutava rispetto alle realizzazioni precedenti era l’impostazione complessa e articolata dei vari contributi, elaborati intorno alla convinzione comune che “la fotografia agisce come potente acceleratore dell’evoluzione di questi diversi campi [arte, scienze, informazione] anzitutto collegandoli tra loro” e divenendo un “possente vettore egualitario”[1342]. Era questo impianto che rendeva quell’opera una realizzazione importante, dove “le tematiche proposte sfondano pertanto i confini delle periodizzazioni tradizionali, proponendo sia tagli ad esse trasversali, sia diverse letture storiografiche, e giungendo così a ridefinire nel contesto di un quadro storiografico rinnovato, le fasi storiche e a mettere in discussione alcune grandi categorie interpretative (prima fra tutte quella di modernità).”[1343] Da qui anche la scarsa preoccupazione per le questioni di ordine estetico, anche se poi la parte argutamente intitolata L’Album del collezionista non rinunciava a riunire molti del ‘capolavori’ della fotografia, testimoniando così l’esistenza di un canone condiviso al quale pareva difficile e forse velleitario sottrarsi. Questa Storia della fotografia, per mantenere la titolazione italiana, ha rappresentato un autorevole esempio al quale sarà impossibile non riferirsi per chiunque voglia misurarsi con l’impegnativo compito di definire plausibili storie generali; magari anche per meditare su alcuni aspetti non risolti e non compiutamente soddisfacenti che la connotavano, quali la prospettiva marcatamente franco-centrica, ai limiti del nazionalismo, che caratterizzava alcuni dei saggi presenti in volume[1344] e che derivava quasi ineluttabilmente proprio dalla volontà di approfondimento e dalla rinuncia consapevole a ogni semplificazione e schematizzazione. L’estensione geografica dell’area di indagine rendeva infatti quasi impossibile coniugare resa accurata e sviluppo ‘generalista’ di ciascun tema, ma per converso la sua riduzione ad un solo paese (o quasi) determinava forti limitazioni alla comprensione del fenomeno nel suo insieme e, non meno importante, indicava implicitamente come elementi costituenti del quadro generale quelli propri di uno specifico contesto territoriale e culturale. Più interessanti e risolte le parti che si aprivano a nuovi oggetti d’indagine come i dilettanti e la loro produzione, certo non esclusi da altre imprese precedenti[1345] ma qui trattati in modo più sistematico e problematico a un tempo, considerando non tanto le caratteristiche estetiche e linguistiche della loro produzione quanto la collocazione sociale delle diverse pratiche che li contraddistinguevano[1346].
Clément Cheroux, al quale si doveva lo specifico contributo nel volume curato da Gunthert e Poivert[1347], venne poi chiamato a collaborare con un saggio sullo stesso tema[1348] all’importante progetto intitolato a La Fotografia, curato da Walter Guadagnini per UniCredit tra 2010 e 2013[1349], sviluppando una formula editoriale e narrativa che riprendeva quella adottata a suo tempo per Zanichelli[1350]. I quattro volumi dell’opera corrispondevano a una periodizzazione su basi culturali: Le origini 1839-1890; Una nuova visione del mondo 1891-1940; Dalla stampa al museo 1941-1980; L’età contemporanea 1981-2010, in cui i termini cronici dichiaravano esplicitamente la loro convenzionalità ma anche, immediatamente, un’incertezza storiografica che per molti versi rendeva problematica la stessa corrispondenza tra titolo e contenuti. Così risultava quanto meno inconsueta[1351] la scelta di estendere il periodo delle origini sino al penultimo decennio del XIX secolo, nel quale era per altro innegabile che si potesse collocare un momento di svolta significativa, tanto quanto quella di porre sotto l’insegna di una “nuova visione del mondo” ciò che accadde tra il 1890 e l’inizio della seconda guerra mondiale. Non si tratta qui di discutere se e in quale misura pittorialismo e fotografie delle avanguardie potessero essere legittimamente accostate, ma di considerare semmai il fatto che una nuova proposta storiografica avrebbe dovuto indicare che fu proprio la comparsa della fotografia, sin dalle sue fasi iniziali, a sollecitare e produrre una nuova visione non solo nel circoscritto ambito estetico a cui si riferiva il secondo volume della serie, e questo proprio in virtù di quanto enunciato in apertura di progetto dal curatore, vale a dire che “le storie delle fotografie sono le storie del loro utilizzo, della loro funzione, delle intenzioni di chi le ha scattate.”[1352]
Con inconsueta chiarezza ogni volume si apriva con una “Guida alla lettura” che descriveva ed esplicitava la struttura narrativa adottata, costituita essenzialmente da “monografie”, intendendo in tal senso le ampie schede redatte da Francesco Zanot, in cui si trattavano momenti cruciali della storia della fotografia attraverso la lettura di mostre e volumi, considerati occasioni in cui prese forma “il destino pubblico della fotografia”, e da saggi di approfondimento affidati ad autori diversi[1353]. A questi si affiancavano gli apparati costituiti da bibliografia, glossario e tavole sinottiche “di supporto per il lettore nella ricostruzione del contesto socio-culturale all’interno del quale si sviluppano gli eventi narrati nel testo.”[1354] Caso inedito nella storiografia italiana di carattere generale, ci si trovava di fronte a una narrazione articolata e plurale, condotta assumendosi i rischi “della produzione di un discorso frammentario, nel quale sovente si perde quel filo narrativo fondamentale soprattutto per il lettore non specializzato”, chiamato a muoversi tra forme discorsive molto dissimili, affrontando temi scelti per “evidenziare proprio l’intrecciarsi delle diverse storie narrabili attraverso la fotografia, o per meglio dire la possibilità delle diverse narrazioni della fotografia.” Intento ambizioso ma non compiutamente risolto proprio in ragione del peso consistente assegnato alle schede monografiche, che al di là delle più che condivisibili petizioni di principio riproponevano un modello storiografico superato, condotto per episodi e figure emblematiche, per emergenze che si stagliavano isolate su una trama frammentata di eventi e relazioni non sufficientemente considerate, la cui comprensione non poteva certo essere demandata alle pur utili tavole sinottiche.
La crescita esponenziale registrata in Italia di corsi universitari variamente intitolati alla fotografia e alla sua storia, insieme alla cronica mancanza italiana di strumenti di sintesi[1355], ha favorito nei primi anni del XXI secolo la pubblicazione di opere a vario titolo dedicate al tema, con una prevalenza inedita di produzioni originali rispetto alle traduzioni. Uno dei primi esempi è stato la Storia della fotografia firmata da Angela Madesani nel 2005, che poneva numerosi problemi di merito e di opportunità a partire dalla scelta del titolo, privo della grazia e del sacrosanto dubbio di un piccolo articolo indeterminativo. Intento dichiarato dell’opera era di fornire agli studenti uno strumento didattico che favorisse un sistematico approccio ad un tema complesso, specie in anni di profonda revisione disciplinare, ma non possedendo competenze adeguate allo scopo. Ne era immediata conferma l’adozione di una articolazione ampiamente datata e superata, qui ulteriormente ridotta a un centone di schede biografiche di ‘personalità’, introdotte da brevi testi di inquadramento, ciò che faceva di quest’opera poco più di un elenco di nomi, purtroppo infarcito di errori anche gravi, dei quali l’autrice si premurava di chiedere anticipatamente venia[1356]. Che un’opera di tale livello potesse aver trovato la via della pubblicazione presso un’autorevole casa editrice di lunga tradizione costituiva uno spietato indicatore non tanto e non solo del livello teorico e metodologico della nostra storiografia fotografica quanto della sua marginalità, della sua incapacità di partecipare davvero, di essere considerata parte riconosciuta della cultura italiana. Il volume della Madesani era stato di poco preceduto da un’analoga opera firmata da Federica Muzzarelli (2004) e destinata agli allievi del “corso di Storia della Fotografia del DAMS di Bologna del Prof. CLAUDIO MARRA”, come dichiarava – anche graficamente – il colophon. Coerentemente alle posizioni critiche del docente di riferimento il saggio si proponeva di sottolineare la “dimensione concettuale che ribadisce l’identità ambigua e molteplice del mezzo fotografico”, ma si risolveva di fatto – come aveva immediatamente notato Zannier – solo in “una sintesi di storia della fotografia (…) scritta con disinvolta chiarezza”[1357], ovvero con un andamento quasi favolistico. La concettualità del medium era ribadita e come chiarita anche dall’ossimoro usato per titolare il lavoro successivo della studiosa (Muzzarelli 2007), meritoriamente costruito per sezioni problematiche senza affidarsi alle consuete cronologie. Lo scopo era quello di far luce sulle “origini contemporanee della fotografia” sviluppando una narrazione in bilico tra aneddotica e concettualizzazione, quindi (inevitabilmente) tra luogo comune e interpretazione critica, proponendo però analogie forzatamente antistoriche e nella più parte dei casi sostanzialmente prive di fondamento, come quella tra dagherrotipo e polaroid o ancora quella degli studi di Duchenne de Boulogne che “possono far azzardare addirittura l’individuazione di una specie di anticipazione delle performance tipiche della Body art” (68), trattandosi invece, come è ben noto, di esperimenti di elettroneurologia. Ciò che ne risultava era un quadro generale contraddittorio e irrisolto, nel quale alcune suggestioni certamente interessanti non erano sufficienti a far sentire la mancanza di una più solida e consapevole preparazione storica almeno di base, quella che – ad esempio – avrebbe impedito alla studiosa di confondere calcografia ed ebanisteria nel parlare dei “Fratelli Alinari, già artigiani specializzati nella tecnica dell’intarsio.” (110)
Più articolato e maturo un recente contributo di Muzzarelli[1358], che affrontando nell’introduzione questioni specificamente storiografiche lamentava il fatto che “sociologia, antropologia, costume, informazione, arte, moda, scienza, tutto è stato indistintamente coinvolto nella vicenda fotografica, tutto meno ciò che effettivamente dovrebbe contare” [1359], cioè “il fotografico” nell’accezione definita da Rosalind Krauss. A colmare quella lacuna ponendosi alla “costante ricerca del fotografico” – come scriveva Marra nell’introduzione – giungeva opportunamente questo testo che portava “all’evidenziazione delle più significative concettualità del mezzo: dal voyeurismo alla memoria, dall’esibizionismo all’ossessione dell’archivio, dallo specchio alla costruzione dell’immaginario.” Quasi un approccio fenomenologico condotto ben oltre gli amati confini della storia dell’arte in una ricerca di denominatori comuni se non proprio di costanti che giungeva sino alla contemporaneità smentendo la cronologia del titolo; perché se il secolo XIX aveva costituito il periodo aurorale in cui si erano definite le epifanie del fotografico, era altrettanto vero che l’interessante struttura discorsiva adottata da Muzzarelli, per coppie omologhe formate da brevi excursus di genere storico alternati a brani di taglio critico, portava a considerare non solo fenomeni e autori dell’oggi ma anche tipologie che solo recentemente hanno goduto di una certa attenzione storico critica come le stereoscopie o “le foto da album di famiglia” che la studiosa considerava “l’oggetto concettuale per eccellenza.”[1360] Una storia generale quindi, dove la ricerca ostinata della “filosofia della fotografia qui detta il fotografico” (corsivo dell’autrice) era condotta a partire da una generale concezione antistorica del fenomeno trattato, ciò che la portava a parlare di “scoperta” della fotografia[1361] e ad utilizzare in modo troppo insistito categorie quali “prefigurazione” e “dimensione performativa”; il tutto inserito in un più generale contesto che risentiva fortemente, pur non esplicitandole, di certe posizioni del postmodernismo degli anni Ottanta del XX secolo, dove la “messa tra parentesi del rigore filologico” rivendicata nel testo introduttivo di Marra e un’opinabile forzatura interpretativa trasformavano il Point de vue du Gras di Niépce come “la prima testimonianza di un’esperienza proto-concettuale”. Questa categoria ulteriore, questa parola chiave e quasi magica in grado di aprire tutte le porte e dare accesso a tutte le esperienze ricorreva anche (ma non solo) a proposito delle carte de visite, che sarebbero rientrate “nei meccanismi d’interazione e performativi tipici della concettualità”, costituendo (inconsapevolmente, certo) “una splendida anticipazione delle pratiche concettuali più d’avanguardia”. Dati questi presupposti non poteva stupire che Bayard fosse considerato “un vero protobody artista ante litteram” (corsivi dell’autrice); una definizione in cui l’arduo neologismo esprimeva bene la difficoltà critica sottesa a un impegno “sempre teso” (come avrebbe detto Carlo Verdone) a leggere il passato in termini meccanicamente finalistici, considerandolo degno di interesse solo in quanto “prefigurazione” di una certa attualità. Nonostante e oltre queste riserve restava il merito indubbio, e non così consueto per il panorama italiano, di aver utilizzato una griglia interpretativa espressa e ribadita con chiarezza lungo tutto il volume, assumendosi i rischi di una posizione critica precisamente definita.
Nel novero degli strumenti di orientamento storico critico andava considerato anche il volume curato da Roberta Valtorta, Il pensiero dei fotografi: Un percorso nella storia della fotografia dalle origini a oggi, corredato da una scelta iconografica dovuta a Giovanna Calvenzi[1362], che raccoglieva scritti di fotografi, artisti e intellettuali che avevano riflettuto sull’idea di fotografia, adottando cioè un modello antologico largamente diffuso specialmente in area anglosassone[1363] ma qui strutturato in forma cronologico tematica, proponendo quindi una periodizzazione storiografica che dalle “radici della fotografia” (con scritti di Leonardo, Della Porta, Tiphaigne de la Roche e Algarotti, tra gli altri) giungeva sino alla “terza e la quarta dimensione della fotografia” attraverso le riflessioni di autori quali Barbara Kruger, Christian Boltanski, Alfredo Jaar e Sophie Calle, ciò che faceva dire a Miraglia che “il volume (…) diventa una vera e propria storia, la prima, degna di essere definita come tale, apparsa in Italia e scritta da un’italiana che finalmente libera i docenti italiani dall’arduo compito di individuare una storia aggiornata, veloce, ma nello stesso tempo culturalmente impegnata.”[1364]
Una certa analogia di impianto col lavoro di Valtorta si poteva riscontrare nella raccolta pubblicata dalla stessa Miraglia (2011), nella quale il primo saggio offriva, sebbene in modo più stringente e strutturato, ampie citazioni di testi storici nelle loro versioni originarie: quasi un’antologia critica. In questo volume, che riprendeva nel titolo la definizione che Gerolamo Cardano diede della camera obscura, l’autrice raccolse opportunamente una serie di testi redatti a partire dal 1977 e ormai di difficile reperibilità, corredandoli in apertura di un nuovo, impegnativo saggio, in parte anticipato al convegno di Noto organizzato dalla SISF nel 2010[1365], le cui ragioni di fondo vennero sottolineate nell’Introduzione. Qui Miraglia riconosceva come la costante preoccupazione per “le coordinate filologiche e storiche” degli studi condotti intorno ai rapporti tra fotografia e storia dell’arte non fosse ormai più sufficiente “alla comprensione di tutte le dinamiche in atto”, ragione per cui risultava “necessario individuare alcune macrostrutture interpretative di base, capaci di porsi come radice del carattere interdisciplinare della fotografia, scandagliare le motivazioni più profonde della tendenza sottesa al nuovo concetto di cultural studies [per] individuare un possibile e comune orizzonte teorico di riflessione” da cui far derivare le opportune scelte metodologiche. Obiettivo ambizioso e ammirevole, ancor più se collocato in una fase della produzione dell’autrice che avrebbe dovuto essere quella dei bilanci di una ricchissima vita di studi e che invece accoglieva i rischi di una nuova sfida intellettuale. Il quadro teorico di riferimento (la “macrostruttura”) riprendeva una ben nota interpretazione avanzata a suo tempo da Diego Mormorio[1366] e si rifaceva alla ricca tradizione di studi relativi al “dispositivo ottico” e prospettico considerato quale elemento concettuale fondante degli schemi percettivi della cultura visiva occidentale e quindi anche della fotografia, con espliciti richiami a “Windows and Mirrors” [sic] e alla distinzione lì espressa da Szarkowski, ma dimenticando, mi pare, uno studioso come Allan Douglass Coleman, ben noto anche in Italia, che alla conoscenza della cultura della lente aveva dedicato interessanti contributi[1367]. Pur considerato in un orizzonte culturale nuovo, ritornava qui il tema storicamente centrale delle riflessioni di Miraglia, e qui riproposto come determinante, della relazione stretta tra pittura e fotografia, quella che – almeno in un primo momento – si era espressa nella comune tensione verso un “illusionismo rappresentativo” e mimetico. Più in particolare per Miraglia “la fotografia, grazie al suo dispositivo ottico (…) si ricollega alla precedente tradizione rappresentativa e, con le sue forme simboliche e insieme realistiche, consente e fornisce la conoscenza spazio temporale dell’uomo”, ponendosi come “strumento eidetico” in grado di produrre opere nelle quali si manifesterebbe però prima di ogni altra cosa la “verità dell’epifania autoriale, sempre riconosciuta come inerente a tutte le forme rappresentative”. Un’esplicita adesione alla linea interpretativa che muovendo da Heinrich Schwarz era giunta sino a Peter Galassi, così come in termini più ampiamente iconologici il riferimento obbligato era costituito da Erwin Panofsky, tanto che senza neppure forzare troppo potremmo sintetizzare la posizione espressa dall’autrice in una formula quale ‘la fotografia come forma simbolica della modernità industriale’, fortemente condizionata dalla componente ottica della sua formalizzazione. Per quanto riguarda gli altri due elementi concorrenti si direbbe che la meccanica fosse ritenuta un’invariante (e in quanto tale non culturalmente storicizzabile), mentre la chimica – pur considerata “l’elemento più nuovo, addirittura scatenante, dell’invenzione della fotografia” (…) su cui poggia l’importantissimo merito del superamento teorico della mimesi” non venne di fatto considerata poiché “non riveste (…) alcun ruolo nell’attribuzione di senso all’immagine.” Opinione in sé largamente discutibile, considerando che la fotografia stessa (almeno quella analogica) è innanzitutto esito di processi fisico-chimici, e forse da intendersi qui in senso più strumentale che sostanziale, finalizzata e piegata allo svolgimento delle proprie tesi, volutamente distanti dall’interpretazione della fotografia come traccia e come indice – pur a tratti inevitabilmente richiamata nel testo – che la studiosa qui escludeva dall’orizzonte teoretico della propria riflessione storico critica[1368]. La prevalenza accordata all’ottica la portava a individuare nella visione monoculare il fattore che consentiva di “guardare alla storia dei due media come ad un percorso estetico unitario”, portando a sostegno della propria tesi della “continuità storica fra pittura e fotografia sotto i profili indicati dell’illusionismo, prospettico prima e ottico poi”, “la lettura analitica e l’excursus di una serie di testi, dal Quattrocento all’Ottocento che, elencati o citati in parte in tutte le storie della fotografia, credo abbiano bisogno di un’analisi più dettagliata per servire da appoggio ad una più compiuta comprensione dei problemi che la rappresentazione comporta in una periodizzazione di lunga durata in relazione ai media storici usati.” L’intento di riconoscere una sostanziale “continuità” determinava però interpretazioni che risultavano, contro ogni intenzione, tanto generali da risultare generiche e imprecise[1369] quando non antistoriche; mi riferisco all’insistita individuazione di “antecedenti della fotografia” o al riconoscimento in opere del XVI secolo (Daniele Barbaro) della premonizione di “analoghe considerazioni di Daguerre e Talbot, nonché il concetto di ‘indice’ di peirciana memoria”; affermazioni che potrebbero ascriversi, per utilizzare una bella definizione della stessa autrice, “al disinvolto possibilismo del postmoderno.”
L’opera che ne è risultata costituiva certamente un importante e meritorio tentativo di delineare una storia culturale del ‘fotografico’, ben più complessa di quella di lì a poco sviluppata da Muzzarelli[1370] di cui si è detto: più problematica nel merito e negli esiti. Ciò che risultava evidente era la sistematica considerazione per contributi teorici provenienti da altri campi del sapere, dai quali risultava però significativamente escluso, se son andiamo errati, ogni riferimento alla storiografia della scienza e delle sue rappresentazioni[1371], ciò che invece le avrebbe consentito quanto meno di problematizzare un percorso tutto svolto nel solco troppo ristretto e penalizzante della storia dell’arte. Ciò che veniva offerto era un intrecciarsi continuo (ma diacronico) di teorizzazioni riferibili ai due distinti ambiti della fotografia e della pittura; un elemento certo di grande interesse e impegno ma che proprio per questo avrebbe richiesto e meritato uno svolgimento più ampio e meditato, qui penalizzato anche sotto l’aspetto dell’elaborazione teorica dall’estrema sintesi e dall’andamento ellittico della scrittura[1372].
Negli ultimi anni sono state pubblicate anche opere che si proponevano come strumenti di consultazione se non proprio quali supporti didattici, come l’Encyclopedia curata da John Hannavy (2008), che per l’Italia si era avvalsa del contributo di Carlo Benini, Claudia Cavatorta e Silvia Paoli, mentre altri lemmi intestati ad autori italiani portavano la firma di Alistair Crawford e Graham Smith. Due voci di ampio respiro (Italia e Società, Gruppi, Istituzioni e Mostre) firmate rispettivamente da Paoli e Cavatorta, restituivano sinteticamente il quadro delle nostre vicende ottocentesche, delineato sulla base dei modelli più consolidati e autorevoli e integrato da una trentina di lemmi individuali relativi ai protagonisti di quelle vicende, legati prevalentemente alle città d’arte (Roma, Venezia, Firenze, Napoli), sebbene anche in questo caso con assenze difficilmente spiegabili (quali Jest e Primoli), trattazioni non sempre corrispondenti all’importanza dell’autore considerato e giudizi a volte impropri[1373]. Con un titolo che riproponeva la formula adottata a suo tempo da Giovanna Calvenzi, Fabrizio Celentano e Paolo Lazzarin[1374] veniva pubblicata in quello stesso anno l’edizione italiana dell’Oxford Companion to the Photograph per la cura di Gabriele d’Autilia (Lenman et al. 2008). Le ragioni erano individuate dal curatore italiano nella necessità di rendere disponibili al pubblico degli studenti (e magari degli studiosi) “pubblicazioni sistematiche che offrano una visione ad ampio spettro del ruolo storico e degli usi culturali della fotografia, e che costituiscano dei punti di partenza per studi ulteriori”, stante la povertà del “panorama degli studi italiani (o di traduzioni) sulla fotografia che intendono fornire approfondimenti di carattere storico o teorico, o analizzare il nostro patrimonio fotografico non solo attraverso la presentazione sia pur ragionata di un corpus di immagini”. In questo panorama il Dizionario si segnalava “per la sua impostazione metodologica (…). In tal senso la novità più rilevante dei volumi che proponiamo sta nelle voci relative alle storie fotografiche nazionali e alle voci tematiche”, non considerando però che un analogo impianto connotava anche il volume curato da Hannavy. Il Dizionario avrebbe quindi dovuto “contribuire anche in Italia sia alla conoscenza degli ambiti e degli approcci disciplinari che con la fotografia hanno a che fare spesso da molti decenni (storia, antropologia, sociologia, storia dell’arte, semiologia, media studies), sia a delimitare un settore di studi, specificamente fotografico, che comporta la ricostruzione storica, la teoria fotografica, la ricerca sociale, e anche competenze tecniche non superficiali.” Questo richiamo, quasi en passant, alle questioni tecniche era invece determinante per connettersi alle ragioni prime del progetto originario, che considerava innanzitutto la fotografia come “tecnica complessa, in cui intervengono conoscenze scientifiche che spesso non sono alla portata di tutti”, sebbene poi il disegno generale non intendesse proporsi come “una sorta di compendio che gareggiasse con opere come The Focal Encyclopedia of Photography o The Manual of Photography”, anche in virtù dei rapidissimi mutamenti tecnologici in atto. L’accentuazione degli aspetti storico culturali, che veniva presentata quasi come una cifra interpretativa dell’edizione italiana, era comunque ben presente anche nell’originale e costituiva un minimo comune denominatore di progetti analoghi, di carattere sia storiografico che enciclopedico, non potendo ormai mancare voci “dedicate a realtà nazionali o regionali o particolari aree del mondo” né “l’accento posto sulla fotografia come pratica socialmente diffusa”. In questo senso più che valutare presenze e assenze di singole voci biografiche, pur opinabili come la presenza di Giulio Parisio a fronte dell’assenza di Carlo Mollino, conveniva considerare i lemmi di contesto a partire da Italia, redatta da Molly Rogers, che individuava nella frammentazione politica le cause del ritardo italiano nella formazione di una cultura specifica, tanto che “si ebbe uno sviluppo apprezzabile della fotografia soltanto verso la fine dell’Ottocento.” Affermazione certo singolare e non supportata dalle stesse vicende successivamente descritte; di più, contraddetta da quanto illustrato in lemmi quali Grand Tour o Mezzogiorno, firmati rispettivamente da Benedetta Cestelli Guidi e Giovanni Fiorentino, che delineavano in maniera più convincente temi e problemi dei rispettivi ambiti[1375]. Alla dichiarata considerazione delle culture e delle pratiche diffuse corrispondeva l’inserimento di numerosi lemmi intitolati alle principali testate fotografiche (firmati da Fiorentino) ed ai più interessanti periodici illustrati come “Omnibus” , “Il Mondo” e “Tempo”, redatti da Luca Criscenti, mancando però una voce specifica per un periodico dell’importanza de “Il Politecnico” di Elio Vittorini. Al di là delle scelte, per definizione opinabili, l’opera si presentava a quella data come il migliore strumento di consultazione sulla storia della fotografia disponibile in Italia; forse l’ultimo possibile esempio di edizione cartacea in una fase storica in cui l’organizzazione enciclopedica del sapere è sempre più demandata – specie in termini d’uso corrente – alle fonti online, mentre purtroppo proliferavano ancora opere divulgative generaliste in cui il trattamento dei dati – non si dice dei problemi -connessi alla storia della fotografia era caratterizzato da un livello meno che accettabile. Si veda quale caso esemplare e paradigmatico la voce “Fotografia” dell’Enciclopedia edita da “La Biblioteca di Repubblica” che, come denunciava Zannier, era “talmente zeppa di errori da scandalizzare anche uno studente del primo corso di Storia della Fotografia”, motivando tale giudizio con un lampante esempio tra i tanti possibili[1376].
Di più recente pubblicazione un’altra monumentale opera collettiva in tre volumi sulla storia della fotografia europea del XX secolo[1377], esito di un progetto avviato nel 2006 dalla Stredoeurópsky Dom Fotografie (Casa della fotografia centroeuropea) – FOTOFO di Bratislava che ha visto la collaborazione di un nutrito gruppo di studiosi internazionali, tra i quali – per l’Italia – Gigliola Foschi e Roberto Mutti[1378]. L’opera si presentava con una struttura enciclopedica e quindi “anti gerarchica”, con voci ordinate alfabeticamente per paese e una impostazione che intendeva restituire l’intero mosaico di ciascuna storia. “Un mosaico in cui tutte le tessere devono essere presenti per ottenere la vera immagine”, scriveva Václav Macek ribadendo quanto fosse determinante per la qualificazione del progetto offrire una “descrizione dall’interno di ciascun Paese, non dall’esterno”[1379], ciò che eliminava alla radice ogni rischio di sguardo superficiale o involontariamente egemone. Ne risultava una inedita considerazione per territori solitamente considerati marginali; anzi crediamo che non per caso un simile progetto fosse nato proprio al di fuori dei centri dominanti della fotografia europea, in una nazione che aveva conquistato la propria indipendenza da poco più di dieci anni. Indicati in sintesi gli scopi e i pregi di questa impresa così complessa, altrettanti erano gli aspetti problematici, a partire dalle partizioni geopolitiche adottate[1380] come da quelle cronologiche, certo di diverso significato per le differenti realtà nazionali. Il trattamento discreto dei temi, proprio di ogni strutturazione enciclopedica, qui risultava inoltre particolarmente penalizzante lasciando al lettore il gravoso compito di individuare nessi e discordanze (anche storiche) tra le varie culture nazionali, senza che ci fosse un testo generale di inquadramento, un saggio unificante in grado di delineare le articolazioni del disegno complessivo. Anche la scelta di affidarsi a studiosi appartenenti ai singoli paesi, certamente meritoria dal punto di vista culturale e politico, ebbe come conseguenza il sensibile dislivello dei vari contributi; determinato non solo dalla disponibilità di studi antecedenti[1381] ma anche e forse prevalentemente dalle competenze di ciascuno dei redattori, di fatto portato a privilegiare ambiti e approcci distinti e nella più parte dei casi non coerenti, restituendo infine storie della fotografia tra loro troppo diverse[1382]. Limiti per più ragioni rilevanti ma forse anche consustanziali a un progetto di questo genere, al quale si poteva imputare solamente di essersi voluto dare un titolo eccessivamente definitorio, necessario però per aggregare le forze anche economiche indispensabili alla sua complessa realizzazione, dove la spinta ideale e gli sforzi concreti che ne erano derivati imponevano di comprendere (quasi fossero inevitabili) alcune non secondarie ingenuità.
Dopo la ricca serie di iniziative fiorentine del 2003, le celebrazioni per i centenario della firma Alinari offrirono l’occasione per la produzione di una mostra delle loro collezioni di fotografia italiana che si tenne a Parigi l’anno successivo sotto il titolo di Vu d’Italie: 1841-1941[1383]. Quel progetto, con poche varianti, venne poi riproposto anche in Italia con una titolazione che si riferiva più esplicitamente a Una storia della fotografia italiana nelle collezioni Alinari (1841-1941), aperto da due brevissimi testi di Italo Zannier e di Anne Cartier-Bresson[1384] e con un saggio portante a firma di Monica Maffioli[1385] che offriva un quadro sintetico delle vicende nazionali, costruito secondo linee interpretative ormai consolidate ma che nella sua chiarezza di discorso poteva costituire un agile strumento conoscitivo di base per il grande pubblico, nonostante i limiti esplicitamente dichiarati di “una selezione certamente non esaustiva e personale”. Il proposito di condurre il discorso secondo “un filo conduttore inedito, che tra ‘estetica’ e rimandi storici, propone un secolo d’Italia e di italiani”[1386] determinava uno svolgimento canonico e un’accentuazione dei temi più frequentati dalla firma fiorentina, ma offrendo interessanti spunti di riflessione storiografica a partire da “una prima verifica bibliografica relativamente alla pubblicazione di immagini appartenenti alla storia della fotografia italiana (…) in opere editoriali di riferimento per gli studi specifici pubblicate in Italia e all’estero”; ricognizione che confermò la “scarsa rilevanza che viene data dalla storiografia internazionale alla storia della fotografia italiana e ai suoi autori (…) forse da attribuire al fatto che in Italia gli studi dedicati alla fotografia nel nostro paese sono relativamente recenti, vedendo fiorire solo a partire dagli anni ’70 un vero e proprio interesse storiografico.”[1387]
Analoghe questioni, sebbene circoscritte al periodo delle origini, sono state poste recentemente da Beth Saunders che si è interrogata sul significato che l’Album Bertoloni può avere avuto per la storia delle origini della fotografia in Italia e della posizione che a questa viene generalmente riconosciuta dalla storiografia internazionale: “vale a dire quella dell’invisibilità.”[1388] La questione identitaria, lì appena accennata, ha rappresentato uno dei nodi significativi intorno al quale si sono misurati alcuni importanti progetti storiografici realizzati negli anni successivi, ponendo la questione in termini più articolati e complessi e provandosi a fornire risposte. Così Maria Antonella Pelizzari delineando i Percorsi della fotografia in Italia dichiarava di aver cercato a lungo “un modo per dimostrare che la fotografia in Italia non è il prodotto della patinata industria del turismo, ma il frutto della ricca cultura visiva di questo paese”, giungendo poi alla conclusione che “paradossalmente ciò che rende ‘italiana’ questa storia è il suo carattere policentrico, e perfino in qualche modo straniero”[1389], sviluppando così per certi versi una riflessione di Monica Maffioli che si era interrogata sulla corretta interpretazione del ruolo dei primi fotografi itineranti[1390]. Da quella rappresentazione policentrica derivava la stessa articolazione del volume di Pelizzari, strutturato “intorno all’idea che le pratiche fotografiche in Italia si siano sviluppate in risposta a una varietà di forze centrifughe, che prosperavano in assenza del ruolo centralizzato dello Stato moderno. (…) Quella che inizia a prender forma tra le righe di questa storia è la mappa di una modernità italiana ‘alternativa’ ai grandi Stati nazionali e industriali dell’Ottocento”[1391]. Il rapporto tra italianità e modernità costituiva il principale tema di indagine anche di Gabriele D’Autilia per il quale “la fotografia è fin dall’inizio un fenomeno transnazionale (…). Individuare l’ ‘italianità’ della nostra fotografia non è perciò un compito tanto semplice.(…) Dov’è dunque l’ ‘italianità’ della fotografia italiana? (…) nella storia stessa dell’Italia.”[1392] Affermazione che appariva, almeno di primo acchito, sostanzialmente tautologica e quindi insoddisfacente a meno di non esplicitare preventivamente la definizione del concetto e dichiarare le ragioni per cui sarebbe necessario ricorrere al concetto di ‘italianità’, non preferendo piuttosto parlare di storia della fotografia in Italia, facendone semmai derivare il qualificativo (come per il cinema, la letteratura, l’agricoltura, l’industria pesante e simili) ma liberato da ogni accezione troppo rigidamente essenzialistica e a rischio di stereotipo[1393].
Anche la raccolta di saggi di ‘cultural criticism’ di Pasquale Verdicchio[1394] intendeva verificare “l’influenza della fotografia nella costruzione di un ‘tipo’ italiano per soddisfare le direttive della nuova nazione negli anni 1860”, parlando di “Stati ‘rubati’ dell’immagi/nazione” per definire criticamente il ruolo svolto dagli Alinari “nell’elaborazione e nel mantenimento di un’immagine nazionale centrata sulla Toscana e su Firenze.”[1395] Per l’autore “il medium della fotografia, inventato dopo l’emergere del moderno stato-nazione (…), ebbe un’importanza fondamentale nella creazione di immagini e immaginari nazionalisti. La fotografia divenne uno strumento di primaria importanza nel delineare le caratteristiche nazionali e nella definizione di quelle categorie antropologiche che potevano favorire la costituzione di gerarchie nazionali e internazionali.”[1396] Ne risultava che “la fotografia nel contesto italiano (…) è servita a definire una figura normativa dell’italianità, ed anche a documentare e preservare le culture subalterne che avrebbero a loro volta negato questa raffigurazione essenzializzata.”[1397] In questa ricerca, che si misurava inevitabilmente con l’antecedente di Giulio Bollati, lo scopo era di verificare i contributi della fotografia alla definizione dei canoni (e dei luoghi comuni, quindi) dell’italianità, attraverso le immagini di autori attivi in Italia (Alinari, Giovanni Verga, Von Gloeden) ma anche di quelli che descrissero le condizioni dei nostri emigrati negli Stati Uniti come Lewis Hine e Jacob Riis (curiosamente chiamato Herbert per tutta la prima parte del libro, poi seguito in questo da alcuni recensori[1398]), mentre appariva meno giustificato l’interesse per Tina Modotti, il cui legame con l’Italia era poco più che biografico. Sebbene non esplicitamente richiamata dall’autore come categoria interpretativa, per Verdicchio la fotografia fungeva come “agente di storia” specie per quanto riguardava il suo apporto alla definizione e alla restituzione in immagine del “carattere degli italiani”. Era questa l’opinione anche di Gabriele d’Autilia che ne forniva una versione certo più articolata nella sua Storia, in cui considerava “la fotografia italiana [come] parte integrante della storia della cultura – quella d’élite e quella popolare (…) – il più potente strumento contemporaneo (perché più diffuso) in grado di raccontare l’ ‘immagine’ dell’Italia.”[1399] Lo scopo dichiarato era quello di realizzare “non dunque una storia della Fotografia, ma una storia delle ‘fotografie’, di tutte le immagini che hanno contribuito a modellare le scelte, i gusti, e quindi la mentalità e i ‘caratteri’ degli italiani” (dalla IV di copertina). Nelle dense pagine introduttive l’autore affrontava proprio la questione storica e storiografica di quello che chiamava “un difetto di costume ovvero la ‘maledizione’ del carattere”; categoria (nella variante “nazionale”) da lui preferita a quelle di “identità” e “mentalità” proprio perché più incerta, perché “grazie alla sua relativa ambiguità, essa si presta meglio all’ambiguità dell’immagine fotografica.” “Di questo italiano (di questi italiani) – proseguiva D’Autilia – la fotografia, anzi le fotografie, hanno modellato negli ultimi due secoli la cultura visiva e quindi le opinioni, inserendosi in un immaginario costruito dall’iconografia popolare laica e religiosa e contribuendo alla definizione di un’immagine di sé in bilico tra modernità e arretratezza.” Come già era accaduto nel progetto einaudiano di Bollati, qui ampiamente richiamato, l’interesse era per le intersezioni storicamente determinate tra le caratteristiche della società italiana e le fotografie che di questa sono state espressione e racconto a un tempo, sino a delineare il profilo di una possibile “fotografia italiana”, ciò che per certi versi risultava in contraddizione palese con gli assunti (anche metodologici) indicati dal titolo e che sembravano implicare, ma senza poi che la questione fosse affrontata, che le funzioni e gli usi della fotografia nel nostro paese fossero stati talmente dissimili da quelli riscontrabili altrove da definirne una specifica declinazione nazionale: quel trovarsi “in bilico” di cui scriveva D’Autilia forse confondendo tra “immagine di sé” restituita dalle fotografie e adeguato uso della fotografia come segno di modernizzazione. Era questo il nodo problematico centrale dei contributi raccolti nel progetto curatoriale di Sarah Patricia Hill e Giuliana Minghelli (Hill et al. 2014), che assunsero il saggio di Giulio Bollati per gli “Annali” e un più recente, importante contributo di Alberto Asor Rosa[1400] come riferimento esplicito e punto di partenza di un percorso storiografico ben intenzionato a procedere oltre per analizzare il mutare dei primi rapporti tra un’Italia immota e arcadica e la novità costituita dal medium della modernità visuale. Le curatrici si mostravano ben consapevoli del fatto che “per tracciare una storia della fotografia italiana dal suo inizio o per delineare una storia fotografica dell’identità nazionale italiana, è indispensabile considerare gli aspetti transnazionali tanto quanto le specifiche riproposizioni locali”[1401]. Non solo: “porre la questione della fotografia in Italia (…) vuol dire sollevare il tema, altrettanto problematico e inesplorato, di come l’Italia si sia posta in relazione con la modernità”, nella “convinzione che la fotografia non è un puro epifenomeno ma piuttosto un punto di accesso cruciale per comprendere l’esperienza della modernità”[1402], da collocare in un periodo storico ben antecedente a quello individuato da D’Autilia, per il quale era nel passaggio tra Ottocento e Novecento [il momento] in cui diventare moderni è una necessità.”[1403] La comprensione di una delle dinamiche principali di questo processo era quanto si proponeva anche David Forgacs analizzando i rapporti tra esclusione sociale, subalternità e formazione dello stato nazionale, che tra i cinque casi considerati comprendeva le rappresentazioni dell’area di San Lorenzo a Roma nei decenni successivi al 1871 e quelle dell’Etiopia negli anni dell’occupazione italiana. “Questo libro – scriveva nell’Introduzione – riguarda il modo in cui certi luoghi e certi gruppi di persone in Italia e nelle sue colonie sono stati visti come ‘marginali’ nelle fotografie e negli scritti prodotti dal momento dell’unificazione nel 1861. Nello scriverlo ho avuto due scopi principali. Il primo è stato quello di dimostrare che tali modi di vedere erano strettamente collegati al processo di costruzione della nazione moderna. Il secondo è stato quello di mostrare come essi comportino sempre un insieme distintivo di relazioni sociali e spaziali tra un osservatore e un osservato.” [1404]
Ancora intorno al tema della modernità ruotava il già citato volume di Pelizzari del 2011, il cui titolo originale, Photography and Italy, restituiva più efficacemente, nella congiunzione dei due termini, quale fosse il modello interpretativo adottato dall’autrice, che più volte si era misurata con temi di storia della fotografia in Italia e alla quale si doveva anche la curatela di un numero monografico di “History of Photography” sulla Nineteenth–Century Italy[1405]. Il lavoro si presentava articolato in otto capitoli tematici disposti con andamento cronologico, ciascuno dichiarando sin dal titolo la propria chiave interpretativa, a partire dal rapporto problematico tra antichità e modernità indicato nel primo (Immagini moderne di un mondo antico) e ulteriormente riconosciuto nelle varie fasi dell’industrializzazione come nelle “Italian Modernities” (ma per la traduzione italiana si scelse un più riduttivo singolare) tra ‘avanguardia’ futurista e fascismo, offrendo “una narrazione non lineare, inconsueta e a volte, interessante proprio per le sue contraddizioni”. A giudizio di Antonello Frongia, che dedicò all’opera un’importante recensione, il volume di Pelizzari costituiva “la prima opera storica del genere scritta in venticinque anni. Pubblicato nel pieno del dibattito sull’identità di questo linguaggio (…) il libro di Maria Antonella Pelizzari è un’impareggiabile opera di ricerca che promette di suscitare domande importanti su un piano più generale. Si possono ancora creare narrazioni culturali fondate sul concetto canonico di ‘fotografia’ come rappresentazione, autorialità e tecnologia?”[1406] L’aprirsi della ricerca “al contesto degli oggetti fotografici – compresi i luoghi di scambio intellettuale (dibattiti, riviste, associazioni) e i canali di ‘consumo’ (studi, mostre, giornali, libri)” – non poteva però dirsi (come riteneva Frongia) caratteristica della metodologia adottata dall’autrice, essendo quello un elemento riscontrabile non solo in numerosi studi monografici ma anche nelle altre Storie relative all’Italia edite in quel periodo[1407]. L’aspetto innovativo che le caratterizzava non risiedeva tanto nella tipologia delle fonti utilizzate quanto nella strumentazione metodologica e critica con cui quelle venivano analizzate e contestualizzate, come mostravano esempi tanto dissimili quanto la lunga Storia narrata da D’Autilia proprio “a partire da alcuni riferimenti e territori di ricerca molto precisi talvolta trascurati o ricondotti nell’ambito di una storiografia ‘minore’ (gli opuscoli tecnici, la pubblicità)”[1408] e quella che Antonella Russo dedicava alle vicende italiane “dal neorealismo al postmoderno”[1409]. In termini storici il dato più interessante era però rappresentato dalla coagulazione temporale che aveva portato alla pubblicazione in Italia di tre opere di grande rilevanza nell’arco di soli due anni e alla moltiplicazione di studi sulla nostra fotografia specie in area anglosassone in ambienti accademici prossimi ai cultural & visual studies.
La già ricordata Storia della fotografia in Italia dal 1839 a oggi di Gabriele d’Autilia era uscita per Einaudi nel 2012 con una Premessa in cui l’autore ci ricordava un po’ sorprendentemente che la fotografia “non è solo una curiosa e nostalgica immagine del passato”; anzi: la sua “è una storia di ‘visioni’, immaginate, scoperte, messe in scena, o fissate per caso, da professionisti e dilettanti, e dei loro usi, pratici, affettivi e persino morbosi. (…) Come si può raccontare la storia attraverso la fotografia, si può raccontare la fotografia attraverso la storia, una storia sociale e culturale in cui l’immagine ottica, aristocratica o popolare, ha avuto spesso un ruolo di ‘agente’. (…) Quella che si intende raccontare è dunque una storia della fotografia italiana che narri la vicenda di uno straordinario strumento tecnico di espressione e di conoscenza tenendo conto sia, sul piano storico, di ‘cosa la fotografia ha raccontato della storia d’Italia’ (…); sia, sul piano storiografico, di quali ‘storie’ è espressione la storia della fotografia: e dunque della storia sociale, della mentalità, delle rappresentazioni simboliche, del territorio. (…) Questo lavoro dunque è un tentativo, anche metodologico, di individuare quella che dovrebbe essere la ‘vocazione’ della storia della fotografia in quanto disciplina, una storia che non può limitarsi al confronto/scontro dell’immagine tecnica con l’arte[1410] o al racconto della produzione degli autori, ma deve mettersi alla prova con l’antropologia del produttore e del fruitore di immagini, con il contesto di produzione e con il contesto di ricezione, con la storia della cultura e la storia dei media, in cui la fotografia ha svolto tra Ottocento e Novecento, un ruolo di ‘basso continuo’. (…) È una storia quindi vista attraverso gli occhi dei fotografi o, più semplicemente, di chi fotografa.”[1411] “Provando a ricostruire la storia della fotografia in Italia – proseguiva D’Autilia – si toccheranno dunque (…) tre aspetti: la produzione, la diffusione e la ricezione della fotografia, quest’ultimo certamente l’aspetto più critico, sia per la difficoltà di reperire la documentazione sia per il complesso rapporto tra ricezione culturale e ricezione ‘psicologica’ ”.
Quelli espressi nella Premessa e qui estremamente sintetizzati erano assunti non solo condivisibili ma collocati in un quadro metodologico piuttosto solido e per certi versi nuovo per il panorama italiano[1412], certamente dovuto alla formazione di storico contemporaneista di D’Autilia [1413]; ciò costituiva certamente un vantaggio e un pregio del lavoro ma ne condizionava anche gli esiti, da qui derivando una manifesta difficoltà nel fare i conti proprio con la storia e la storiografia delle immagini, rispetto alle quali per altro riteneva indispensabile misurarsi addirittura sulla lunga durata, muovendo dai fiamminghi e dal primo Rinascimento italiano. Assecondando lo spirito dei tempi[1414] anche D’Autilia ricorreva, crediamo con troppa disinvoltura, alla categoria critica della “anticipazione” per risolvere in poche pagine alcuni secoli di storia dell’arte e di problemi iconografici: riusciva così a passare senza soluzioni di continuità dai bamboccianti seicenteschi ai personaggi pasoliniani, ma anche a scrivere che “la litografia mostra quindi risorse simili alla prima fotografia”, quando ci si sarebbe potuti attendere che fosse semmai accaduto l’inverso. Altri giudizi ancora risultavano sostanzialmente affrettati e sorprendenti come l’affermazione che “la percezione dell’Italia ottocentesca è condizionata da una sostanziale carenza di cultura figurativa” ed anche che “Italia e italiani hanno avuto a lungo storie iconografiche diverse. Nell’immagine arcaica coltivata dai viaggiatori stranieri, gli italiani sono figurine indistinte, offuscate dal peso di una natura selvaggia e da monumenti immortali”, ciò che potrebbe avere una sua verosimiglianza se non fosse che – avendo lo scopo di riconoscere l’eventuale italianità di queste vicende – sarebbe stato opportuno verificare per comparazione l’estensione geografica e culturale del fenomeno, per scoprire forse che era ben diffuso anche in altri contesti nazionali.
La consuetudine con le fonti tradizionali e l’illustrazione dei vari momenti storici mostrava le competenze dello storico ma i riferimenti alle fotografie e ai loro autori risultavano sovente di maniera, aneddotici quando non superficiali[1415], riducendo purtroppo la stessa comprensione dei fenomeni descritti. Si considerino affermazioni quali “sembra che questi professionisti evitassero di riprendere le persone o il traffico stradale per far sì che le foto non ‘invecchiassero’: non avevano alcun interesse ad affrontare un costoso rinnovo dei loro cataloghi dei monumenti” [1416], dimostrando in un sol tratto una totale ignoranza dei meccanismi produttivi e delle politiche commerciali dei grandi studi ottocenteschi, proprio quelle che avrebbero dovuto costituire il maggior elemento di interesse per uno storico attento alla storia culturale, politica ed economica delle fotografie. Più efficaci le analisi dei fenomeni sociali a larga scala, come nel delicato passaggio tra XIX e XX secolo, quando “la fotografia si consolida come strumento di espressione (attraverso il dilettantismo) della borghesia italiana, e anche come strumento di potere, in una forma ‘lombrosiana’ e in una ‘deamicisiana’ ”, o la corrispondente diffusione delle pratiche amatoriali di un ‘kodakismo’ (quasi) di massa, ed anche di quello che con un termine caro a Pierre Sorlin definiva come “Fascismo, regime della percezione”.
L’opera di D’Autilia, molto articolata e complessa, rappresentava l’esito ultimo di un progetto storiografico inteso a collocare la fotografia nel contesto della storia del nostro paese, avviato col lavoro redazionale per la “Storia fotografica della società italiana” e proseguito con l’Autobiografia di una nazione (D’Autilia et al. 1999), ma i limiti indicati mostravano come alle intenzioni non corrispondesse un risultato adeguato, e ciò proprio in conseguenza di una insufficiente dimestichezza con la materia trattata. Proponendosi di parlare di fotografie e non di Fotografia, di fenomeni e non di autori sarebbe stata più che necessaria una maggiore dimestichezza con la loro storia e con la loro materialità (anche tecnologica, in questo caso) di oggetti, senza la quale risultava difficile quando non pericolosamente fuorviante valutarne di volta in volta la loro eventuale funzione di agenti di storia. Una conferma di tali disequilibri veniva anche dal considerare altri due aspetti di non secondaria importanza: la bibliografia citata, che risultava molto aggiornata in relazione ai temi generali di storia contemporanea quanto piuttosto ridotta e datata quella fotografica, e l’assoluta mancanza di considerazione per la produzione storiografica italiana, quasi che questa non costituisse una componente significativa della cultura, almeno fotografica, del nostro paese. Era stato in apertura della sua recensione[1417] al volume di Miraglia, Specchio che l’occulto rivela che D’Autilia aveva ricordato che “la storiografia fotografica ha una vicenda tutta sua. Mentre gli studi storici, da quelli sul medioevo a quelli sull’età contemporanea, venivano ‘illuminati’ dalle provocazioni della scuola delle “Annales” (…) il mondo degli studi sull’immagine ottica (…) preferiva rimanere tra le pareti rassicuranti della galleria dei grandi maestri, autori di un repertorio canonico di capolavori (…). Solo alla fine dello scorso secolo gli storici iniziarono a guardare alla fotografia come a un fenomeno socioculturale complesso. L’Italia non ha fatto eccezione a questa impostazione; si possono tuttavia rintracciare alcuni percorsi autonomi, di storici e critici d’arte, di conservatori di patrimoni o anche di studiosi-fotografi, che hanno consentito la nascita se non di una vera e propria storiografia fotografica, almeno di una sorta di ‘antiquaria’, che a un lavoro sugli autori (talvolta oscuri) ha affiancato episodicamente una ricerca e una riflessione sulle tecniche, le pratiche e i contesti.” Questo giudizio severissimo, che addirittura negava l’esistenza di una produzione storiografica italiana degna di questo nome così come gli sforzi da tempo in atto per aggiornarla[1418], e che pareva derivare dalle lacune di cui sopra, avrebbe di necessità meritato di essere meglio articolato proprio nelle pagine di un saggio storico, ma nei due paragrafi intitolati “Cultura fotografica” e “Cultura e fotografia”, relativi agli anni 1945-1960 e 1978-2011[1419], pur parlando di formazione e di editoria non si faceva neppure lontanamente cenno a quella parte per quanto circoscritta e magari, a giudizio dell’autore, insoddisfacente di iniziative espositive ed editoriali che avevano progressivamente richiamato l’attenzione sul patrimonio storico, se non con fuggevoli cenni agli “Annali einaudiani” e alle opere di Settimelli e Gilardi.
Era stato ancora Einaudi a pubblicare nel 2011 la Storia culturale della fotografia italiana di Antonella Russo; un’opera ricca di suggestioni e di spunti che presentava alcune analogie sia metodologiche che storiografiche con gli autori sopra citati: oltre alla già ricordata concezione policentrica e non pacificata, ad una significativa estensioni delle fonti e dei fenomeni considerati, ricorderemo almeno, come quadro di riferimento generale di cui quelle indicate erano le specifiche declinazioni, quella concezione del “mezzo fotografico come espressione sia della cultura alta che della cultura popolare, come fenomeno a cavallo fra avanguardia e cultura di massa” di cui ha parlato Nicoletta Leonardi recensendo il volume[1420]. Diversamente dal testo precedente, Russo si soffermava ampiamente sulle vicende storiografiche, studiando il “passaggio dalla fotografia storica alla storia della fotografia” avvenuto negli anni Cinquanta del Novecento e riconoscendo a Silvio Negro il ruolo di “autore di studi pionieristici che si sarebbero rivelati fondamentali per l’elaborazione della storia della fotografia italiana”, mentre il principale contributo di Vitali, il cui capitolo compreso nella Storia di Pollack (1959) sarebbe servito da “traccia per le ricerche successive della prima generazione di storici della fotografia”[1421], era individuato nella monografia dedicata al conte Primoli, che “ebbe il merito di inaugurare una stagione di studi di storia della fotografia fondando un modello metodologico per certi versi dominante ancora oggi in Italia.” A questi temi erano destinati due paragrafi intitolati rispettivamente “Metodologia della fotografia: i modelli italiani” e “Il modello Vitali e altri paradigmi”, che pur confondendo a volte (pericolosamente) “studi storici” e “teoria della fotografia” offrivano spunti interessanti, come quello a proposito delle “prime monografie dedicate ai fotografi italiani”, considerate come narrazioni basate “su una scrittura affermativa, che puntava alla descrizione dello stile (…). In tal modo il critico diventava testimone e unico arbitro dell’opera di un autore, oltre che l’esegeta. (…) In questi studi, il contesto storico e culturale risultava appena delineato e ogni riferimento bibliografico era quasi del tutto assente (…). Si trattava di un metodo di ricerca storica che non s’interrogava mai sulla storia o sulla cultura di una data epoca ma la registrava e, periodicamente, la aggiornava.” Russo ricordava poi come a quelle ‘agiografie’ come alle ‘mitologie’ elitarie di Vitali[1422] si fossero contrapposti gli “Annali” einaudiani e gli interventi critici di Quintavalle; passando quindi a considerare i testi più significativi pubblicati sino alla soglia degli anni Ottanta. Ne conseguiva l’esclusione, non immediatamente comprensibile ma forse dovuta a un implicito giudizio negativo, di tutta la produzione successiva, quella che – per richiamare il titolo del volume di Russo – si collocava cronologicamente nel periodo posto sotto l’accogliente ombrello del ‘postmoderno’. Così la rassegna, dopo un cenno sintetico alla prima produzione storiografica di Zannier, comprendeva solo il fondamentale saggio di Miraglia (1981a), “uno dei primi studi scientifici validi per comprendere lo sviluppo nel nostro paese della fotografia intesa come disciplina autonoma”, e la Storia sociale di Gilardi (1976), della quale Russo apprezzava il tentativo di “scardinare quelli che lui stesso aveva definito i miti e gli stereotipi legati alla nascita della fotografia”, ma ne indicava al contempo il limite costituito da “quel marxismo ‘semplificato’, fondato su un determinismo ideologico, che permetteva a Gilardi di presentare la storia della fotografia in termini rigorosamente oggettivi. Gilardi inoltre (…) ometteva sistematicamente, tranne in rari casi, il riferimento a dibattiti e ricerche di altri studiosi, evitando di riportare le fonti delle sue argomentazioni. In tal modo l’autore risultava unico depositario del ‘sapere fotografico’.” Opinioni chiare, che avrebbero meritato il conforto di qualche ulteriore supporto esemplificativo ma che soprattutto avremmo desiderato che fossero estese alla produzione più recente, senza limitarsi ai primi fondamenti della storiografia italiana; nella convinzione che l’interesse per il patrimonio fotografico storico e per la storiografia siano una delle componenti fondamentali di questa cultura e della sua storia.
Al lessico gilardiano doveva aver guardato con grande simpatia anche Pasquale Verdicchio che intitolava Looters, Photographers, and Thieves il proprio volume, pubblicato negli Stati Uniti nel 2011, in cui affrontava l’analisi dei principali aspetti della cultura fotografica italiana nel diciannovesimo e ventesimo secolo, considerando l’opera di alcuni fotografi, ma anche di uno spettro molto ampio di intellettuali, per dimostrare la centralità del ‘visuale’ nella cultura letteraria italiana; tema particolarmente caro all’autore, all’epoca docente di Letteratura Italiana e Comparata alla University of California di San Diego. L’opera era frutto della parziale rielaborazione di una raccolta di saggi editi in occasioni e tempi diversi così che nei sette capitoli in cui si articolava non risultava semplice individuare un coerente quadro teorico e metodologico; anzi si manifestava un eclettismo che “come spesso accade, frustra”[1423]. Il lavoro di Verdicchio, sebbene privo della sistematicità degli studi italiani prima considerati, offriva comunque motivi di interesse, il primo dei quali risiedeva proprio nella posizione alternativamente interna ed esterna degli autori studiati, alla ricerca dei diversi processi che hanno contribuito a dare forma all’immaginario relativo all’Italia e agli italiani anche dal punto di vista specifico della formazione dell’idea di nazione. Due sembravano essere gli elementi principali sui quali Verdicchio fondava la possibilità stessa delle proprie analisi: il fatto che “la mancanza di una struttura narrativa apparente propria della fotografia si risolve a suo vantaggio come strumento insidioso di narrazione speculare, in quanto pretende di rispecchiare il mondo e di offrire un ampliamento del suo significato per mezzo delle sue immagini ‘riflesse’ “[1424], ma anche – conseguentemente – che la fotografia “documentando e museificando il corpo variamente definito della nazione, definisce anche, per contrasto, un modo di visualizzare un corpo nazionale invisibile e idealizzato”[1425], giungendo quindi – sulla scorta delle tesi benjaminiane – a riconoscere come questa possa lavorare per la dissoluzione delle categorie nazionaliste.
Un altro importante contributo al crescente corpus di studi in lingua inglese su storia e storiografia della fotografia in Italia è venuto dal volume collettaneo curato da Sarah Patricia Hill e Giuliana Minghelli nel 2014 che riuniva saggi, interviste e riflessioni teoriche[1426] che si collocavano al punto di intersezione tra “comparative, visual, and cultural studies” dando particolare rilievo alla vita sociale delle fotografie. Il tema, già al centro della Storia di D’Autilia, era affrontato disponendo di un più appropriato strumentario teorico e metodologico, derivato dagli studi di Benedict Anderson e in particolare dalla sua definizione di “comunità immaginata”[1427], qui declinata in relazione alle funzioni svolte dalla fotografia, e soprattutto sulla scia delle suggestive e problematiche posizioni teoriche di Mieke Bal sulla “visualità come oggetto di studio” [1428]. La studiosa olandese aveva infatti riflettuto a lungo sulle questioni poste dal riconoscimento delle “pratiche visuali che sono possibili in una determinata cultura, cioè i regimi scopici o visuali; in breve, tutte le forme di visualità” che la connotano, dove questa non era però da intendersi “come proprietà che definisce l’oggetto tradizionale”, poiché – nella più pura tradizione dei visual studies – “sono le pratiche del guardare implicate da qualsiasi oggetto che costituiscono il dominio dell’oggetto: la sua storicità, il suo ancoraggio sociale e la sua apertura all’analisi delle sue sinestesie. È la possibilità di compiere l’azione del vedere, non la materialità dell’oggetto visto, che stabilisce se un artefatto possa essere considerata dal punto di vista degli studi di cultura visiva.”[1429]
Sulla base di questi presupposti i saggi ordinati da Hill e Minghelli “accanto alla domanda su cosa la fotografia dica a proposito della cultura italiana (…)”, specie in relazione al fenomeno della modernità (seppure non precisamente definito dalle curatrici), ne ponevano una di ordine superiore che riguardava “cosa rivelano i rapporti italiani con la fotografia a proposito del medium, nella sua infinita riproducibilità, complessa temporalità e ambigua ontologia”.[1430]
Le possibili indicazioni e risposte giungevano oltre che dall’importante testo introduttivo delle curatrici da una serie di interventi organizzati in quattro gruppi tematici, intitolati rispettivamente a “National Beginnings and Modernist Fears”; “Modern Memory Objects: Social Histories of the Photograph”; “Photography and the Acceleration of Modernity: Reality-Commodity-Violence” e “Critiques of Modernity: Stillness, Motion, and the Ethics of Seeing”, che, come ha sottolineato Beth Saunders, richiamavano “l’attenzione sulla particolarità del caso italiano, mostrando come il rapporto dell’Italia con la fotografia e con la modernità sia sempre stato storicamente teso e ambivalente” [1431]. Dalla verifica delle questioni sopra indicate e dei modi in cui si sono manifestate nel nostro paese in alcuni momenti o fenomeni topici, dal Futurismo al Neorealismo, dai paparazzi agli anni di piombo, risultava quasi una storia generale italiana, della quale il primo contributo di Roberta Valtorta costituiva un’efficace sintesi, derivata da uno slittamento critico più che significativo, con consistenti implicazioni metodologiche. Certo schematizzando e semplificando molto si potrebbe dire che si passava dall’astrazione tutta modernista di uno ‘specifico fotografico’ libero da ogni connotazione storica, culturale e funzionale a una più complessa concezione che per contrapposizione potremmo definire poststrutturalista (ma consapevoli della riduttività classificatoria), nella quale il centro di interesse era costituito dalla relativizzazione del rapporto dinamico e diacronico tra uno specifico, o meglio una specificità ‘localmente’ connotata e la transnazionalità; un atteggiamento che rivelava “molteplici [concezioni di] fotografie e molteplici Italie.”[1432]
Il tema generale e la definizione storica dei rapporti tra cultura transnazionale e contesto locale, seppure non esplicitamente dichiarato ed espresso in termini dimostrativi, caratterizzava anche altri, più circoscritti studi e progetti espositivi realizzati in quegli anni, rivolti ad alcuni momenti nodali della formazione come delle trasformazioni della cultura italiana intorno alla fotografia. Nel febbraio del 2010 si era aperta al Petit Palais di Parigi la mostra Éloge du négatif: les débuts de la photographie sur papier en Italie (1846-1862)[1433]; un’iniziativa che si collegava esplicitamente a quella dedicata alla pratica del dagherrotipo in Italia (Bonetti et al. 2003) con cui condivideva due delle tre curatrici attuali, ma se ne distingueva in termini strutturali per non adottare un’articolazione su base geopolitica, sebbene anche in questo caso il periodo di riferimento fosse antecedente l’Unità. L’interesse era invece tutto rivolto alle caratteristiche tecniche e alle potenzialità espressive delle varianti del primo processo negativo/ positivo, tanto che Anne Cartier-Bresson poteva parlare dell’Italia “come terreno di esperienze”, luogo d’incontro di autori di diversa provenienza e formazione, riconoscendo come fosse stato proprio “questo dialogo tra loro ciò che ha costituito la fotografia italiana delle origini e che le ha fornito un proprio significato sul piano tanto artistico che tecnico”[1434]. Nel successivo contributo in catalogo Maria Francesca Bonetti[1435] metteva in chiaro le ricche relazioni come le occasioni mancate negli scambi tra Talbot e il mondo scientifico italiano, ciò che contribuì al significativo ritardo con cui il calotipo venne adottato in Italia. Rivolto all’analisi storico critica della produzione nel nostro paese era invece il saggio di Monica Maffioli, che ricordava come proprio l’inedito uso del negativo avesse rappresentato il primo momento di presa di coscienza delle potenzialità espressive del mezzo, favorendo “la formazione di una nuova ‘sensibilità estetica’ e di un lessico fotografico originale.”[1436] Ai vari contesti di provenienza e alle dinamiche relazionali e culturali che connotarono e condizionarono la formazione di alcune di quelle figure erano rivolti i due saggi successivi: quello di Silvia Paoli[1437], che indagava le relazioni – non sempre così chiaramente còlte – con le principali Accademie di Belle Arti Italiane, e quello di Sylvie Aubenas che ricostruiva con gusto letterario quegli ambienti romani “in cui si mescolavano l’arte e il bel mondo”, favorendo “scambi privilegiati di cui non si troverebbe traccia a Parigi nello stesso periodo.”[1438] Il successivo catalogo delle opere, organizzato in quattro sezioni, comprendeva nella prima (L’émergence d’une technique) anche alcune delle vedute realizzate da Flachéron dopo la battaglia della Repubblica romana; immagini che sarebbe stato utile e interessante confrontare con le analoghe di Lecchi, collocate invece nella sezione intitolata a Rome et l’École romaine, che di quel contesto forniva importanti esempi, in particolare di Giacomo Caneva[1439], sebbene poi – inspiegabilmente – dell’autore padovano non fosse pubblicata proprio la sua prima prova, proveniente dalla collezione di Silvio Negro[1440] e già a suo tempo esposta da Lamberto Vitali nel 1957. Molto interessanti erano anche le due sezioni successive, dedicate rispettivamente ai calotipisti italiani ed agli stranieri non assimilabili alla Scuola romana, ma segnate da troppe lacune e inspiegabili assenze, come quelle di Giuseppe Venanzio Sella, Enrico van Lint e Pompeo Bondini ma anche di quelli che Zannier considerava “i più antichi calotipi sulla città di Venezia”[1441], oppure, per gli stranieri, alla serie romana di Charles Scrase Spencer Dickins, gia ricordata da Becchetti[1442] e alle riprese italiane di John Shaw Smith[1443]. Ne risultava così un quadro certamente vario ma che per molti versi non portava elementi nuovi di conoscenza, impedendo di delineare compiutamente un tessuto di pratiche e di produzioni ben più esteso di quello qui indicato: quello, cioè, da cui prese avvio in senso compiuto la pratica fotografica in Italia.
Internazionale/ Transnazionale/ Nazionale/ Locale furono certo le condizioni e le declinazioni del Pittorialismo, primo dichiarato ‘movimento’ della storia della fotografia che visse anche in Italia una stagione significativa, poi lungamente declinante. Una nuova opportunità di approfondimento venne offerta dalla mostra curata nel 2004 da Italo Zannier, Pittorialismo e cento anni di fotografia pittorica in Italia, che induceva legittime aspettative di ridefinizione di un tema certo ampiamente studiato ma non più trattato sistematicamente dopo il catalogo della mostra veneziana del 1979 che aveva già avuto proprio Zannier tra i protagonisti. Il suo saggio di apertura, intitolato al Pittorialismo fatale offriva alcuni spunti etimologici e terminologici, leggendone criticamente anche le accezioni di tono dispregiativo formulate dalla storiografia italiana, come fu per la categoria di “pittoricismo” a suo tempo adottata da Miraglia, sebbene poi nel corso del testo l’autore dimostrasse di considerarli di fatto termini fungibili[1444], confermando ancora, seppure implicitamente, i suoi primi giudizi negativi nel momento in cui scriveva che “il confronto tra pittura e fotografia fu da allora assai intenso e comunque sofferto nel reciproco inquinamento figurativo, certamente legittimo oltre che inevitabile” (corsivo di chi scrive), ritrovandone tracce addirittura nella traduzione incisoria delle tavole delle Excursions Daguerriennes, ciò che appare un dato incontrovertibile ma – crediamo – riferibile a problematiche non assimilabili a quelle della “elitaria contraddizione pittorialista.” Di taglio più storico critico il contributo di Angelo Maggi Dal Pittoresco al Pittorialismo che ne individuava le matrici culturali nell’estetica del “pittoresco” di William Gilpin, di cui riconosceva tracce nella serie di alberi fotografati da Talbot e per certi versi anche nella produzione di Hill & Adamson. Ipotesi suggestiva ma non compiutamente svolta se poi poteva scrivere che “a questo punto i fotografi, avendo maturato una propria consapevolezza estetica e potendo vantare una tradizione pittoresca alla quale riferirsi, volsero lo sguardo verso la pratica artistica più simile alla fotografia”; affermazione apodittica e più che discutibile essendo difficile applicare le categorie di “tradizione” e di “consapevolezza estetica” riferendosi agli albori della pratica fotografica. Analoghe valutazioni si potevano fare a proposito di altri passaggi di un testo ricco di spunti ma scarso di approfondimenti e di rigore critico: che dire ad esempio della considerazione di Robinson, che sarebbe stato al contempo attratto dal pittoresco e dal classicismo o di quella descrizione del “pittorialismo che procede parallelamente alle ricerche delle avanguardie degli anni Venti e Trenta e che continua a svilupparsi nel dopoguerra”; constatazione condivisibile, se comprendiamo bene, ma rispetto alla quale sarebbe stato legittimo attendersi una qualche parola di interpretazione in un saggio specificamente dedicato al tema; provandosi almeno a confrontare (e gli studi su cui basarsi non sarebbero mancati) alcune delle principali situazioni nazionali, non ultima quella italiana. Era quella stessa schematicità semplificatoria che caratterizzava l’intervento di Monica Maffioli sulla Fotografia pittorialista italiana nelle Collezioni del Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, che in perfetta aderenza al titolo offriva poco più che un elenco di nomi, con inclusioni a volte più che forzate, come quelle di Pietro Masoero (che ne fu estraneo) o di Vittorio Sella, che a quella stagione si avvicinò solo negli ultimissimi anni, ma anche le improbabili ‘ridipinture’ di Antonio Trombetta già studiate da Settimelli e Weber, o le foto di stabilimenti industriali di Giancarlo dall’Armi, lontane dalla sua produzione ritrattistica, questa sì pittorialista ma di cui in tutta evidenza il Museo Alinari non possedeva esemplari significativi[1445]. Complessivamente un’occasione mancata per riflettere sulle caratteristiche culturali del fenomeno alle varie scale e, ora lo possiamo dire, un titolo ingannevole che corrispondeva più alle logiche mercantili degli eventi espositivi che non all’intenzione di offrire un contributo serio (e magari agile, le due caratteristiche non sono necessariamente incompatibili) alla conoscenza della storia della fotografia in Italia, specie considerando che la mostra venne ospitata dal CRAF di Spilimbergo.
A quella mostra poteva essere accostata un’altra occasione espositiva sui Fotografi pittorialisti (Armellin et al. 2009), sollecitata ancora da Zannier e prodotta dal FAST di Treviso nel 2009 con stampe tratte dalle proprie collezioni. Mentre l’intenzione di far conoscere una porzione poco nota del proprio archivio, perché “il genere di fotografie scelte per questa rassegna non è materiale oggetto delle richieste degli utenti” non poteva che essere considerata meritoria, la realizzazione risultava piuttosto incerta, a partire dagli autori proposti, in una selezione che è eufemistico definire eterogenea e criticamente poco controllata: oltre a Rey e Sella, alcune vedute dello Studio A. Garatti, un nudo femminile dello Studio Ferretto, un sontuoso (per l’abito) ritratto di sposa di Guigoni & Bossi, e una serie di stampe di qualità discontinua di Giulio Marino, ormai ben avanti negli anni Trenta ed equidistanti dal pittorialismo quanto dal modernismo. Insomma nulla che potesse non dico fornire approcci critici nuovi ma neppure informare correttamente sul fenomeno il pubblico dei curiosi, certo poco aiutato dai testi a corredo, tratti da due tesi di laurea[1446] che avrebbero però richiesto per l’occasione almeno una rielaborazione e un approfondimento; magari avvalendosi delle suggestioni metodologiche e degli esiti della mostra La Photographie pictorialiste en Europe, 1888-1918, prodotta dal Musée des Beaux-Arts di Rennes nel 2005[1447]. Dalla messa a confronto delle specifiche situazioni nazionali derivò in quel caso una sostanziale revisione della produzione e della cultura pittorialista, segnata da una fitta rete di relazioni tra riviste, mostre e associazioni[1448], in fruttuoso equilibrio instabile tra contesto transnazionale e declinazioni locali. Come aveva ricordato a questo proposito André Gunthert, “la dimensione europea appare come la scala più adatta per comprendere un’arte il cui rapporto col proprio tempo è stato più complesso di quanto espresso dall’antitesi riduttiva tra avanguardia e anti-modernismo. L’esplorazione delle ambiguità e delle contraddizioni dei riferimenti estetici del pittorialismo dimostra che è la nostra immagine dei primi decenni del secolo XX che pecca di eccessiva semplificazione.”[1449]
La rimessa in discussione delle interpretazioni più correnti e schematiche di una porzione ampia della produzione fotografica italiana caratterizzava anche il contributo di Martina Caruso (2011) rivolto alla produzione meno allineata negli anni del Fascismo, definita addirittura “Counter-regime Photography” , e riconosciuta come nucleo originario da cui si sarebbe sviluppata quella che la studiosa definiva, con terminologia inedita per il contesto italiano, fotografia “umanista”. Il lavoro di ricerca qui presentato, svolto per il conseguimento del proprio dottorato di ricerca presso il Courtauld Institute of Art di Londra e poi sviluppato in un volume autonomo[1450], si proponeva non tanto di identificare la presunta “italianità” di quella fotografia, ma di rivendicarne gli aspetti caratteristici e la relativa autonomia rispetto ai modelli francesi, riconoscendole quelle potenzialità di forza agente che solo la censura impedì di esprimere. In termini più specificamente storiografici lo scopo era poi quello di sottoporre a radicale revisione la definizione stessa di fotografia ‘neorealista’ assegnata alla gran parte di quella produzione a partire almeno dalle prime ricostruzioni proposte da Italo Zannier[1451], ricorrendo sia a una notevole estensione dell’arco cronologico considerato, già avanzata da Enrica Viganò e Guido Bertero[1452], sia alla più consolidata e meno ideologicamente connotata categoria di derivazione francese, sotto la quale faceva ricadere – forse con qualche forzatura[1453] – quelli che considerava gli elementi di continuità tra le culture fotografiche documentarie durante e dopo il fascismo.
L’ossimoro di solida tradizione italiana[1454] che compare nel titolo, derivato dalla geometria non euclidea (e quindi iperbolica) del politichese aiuta a leggere le vicende di due organismi importanti per la nostra cultura fotografica (specie di ambito storico) dell’ultimo quindicennio: la lista di discussione s-fotografie e la Società Italiana per lo Studio della Fotografia.
La prima proposta di avviare una lista di discussione, una modalità e una sede di confronto e scambio già ben presenti in altri paesi quali Francia e Stati Uniti, venne avanzata da Sauro Lusini, Oriana Goti e Luigi Tomassini nel corso del convegno di Prato del novembre 2000 per prendere corpo l’anno successivo con la collaborazione di Serge Noiret, e una gestione condivisa tra Archivio Fotografico Toscano e Università degli studi di Bologna, sede di Ravenna, e la collaborazione con la SISSCO. Lo scopo era quello di avviare e consolidare un confronto tra studiosi e addetti ai lavori variamente interessati alla storia della fotografia e alla fotografia storica, in particolare su alcuni temi che vennero individuati nel primo messaggio inviato da Tomassini agli aderenti il 13 giugno 2001: “La fotografia come bene culturale: conservazione, archiviazione, catalogazione, tutela; Storia della fotografia, intesa sia come storia delle tendenze artistiche e estetiche, sia storia dei processi e delle tecniche; La fotografia come mezzo di comunicazione visiva: sociologia e critica della fotografia, storia e problemi attuali; Fotografia e storia: uso della fotografia come documento e come materiale illustrativo per la storia; La normativa sulla fotografia storica: diritto d’autore, legislazione di tutela, ecc.”[1455] Il ventaglio di proposte era volutamente ampio e variegato, destinato a coinvolgere tutti i possibili ambiti disciplinari e di ricerca, ma anche ad essere sottoposto di lì a non molto a radicali revisioni e verifiche metodologiche.
Dopo alcuni mesi di necessario rodaggio, nel marzo 2002 si aprì un primo confronto tra gli iscritti sugli inediti problemi posti dalla digitalizzazione del patrimonio fotografico; tema ripreso nel 2003 con interventi di Fabrizio Celentano e Laura Gasparini[1456] e che si sarebbe poi ripresentato negli anni successivi. Nei messaggi alla Lista si alternavano questioni legate alla conservazione (materiali e metodi) e segnalazioni bibliografiche, una delle quali[1457], riferita alla discutibile Storia della fotografia di Angela Madesani (2005), determinava una lunga riflessione di Tomassini[1458] sulle condizioni della nostra storiografia e più in particolare “sulla insufficiente capacità di noi operatori del settore di sviluppare cultura intorno alla fotografia”. Ne scaturì un ulteriore stimolo ad attuare il progetto – auspicato da molti – della costituzione di “una associazione per la storia, conservazione e valorizzazione del patrimonio fotografico”, che avrebbe preso forma nel documento inviato il 10 febbraio 2006 da Goti e Tomassini, nel quale proponevano di destinare le recensioni critiche e gli interventi di più ampio respiro a “una newsletter o un sito dedicato”, che per i problemi organizzativi e redazionali che poneva sarebbe stato indispensabile “gestire con una struttura organizzativa adeguata, o una delle realtà istituzionali esistenti, o una associazione”; ciò che avvenne nel 2008 con la messa online della prima versione del sito della SISF. Una piattaforma che aveva identità e funzioni ben distinte, sebbene anche i più accorti osservatori e partecipanti intendessero la Lista come “organo ufficioso di diffusione della SISF e di tutti quelli che lavorano nell’ambito della fotografia”, come scrisse Silvia Berselli[1459] invitando i più giovani ad uscire dall’isolamento e dalla marginalità per confrontarsi e “far crescere il settore fotografia in Italia e portarlo a livello europeo.” Il dibattito che ne seguì affrontò aspetti deontologici e politici, di politica dei beni culturali, poi in parte ripresi un anno più tardi a seguito della comunicazione della redazione di “AFT” (23 luglio 2009) che il comune di Prato avrebbe sospeso le pubblicazioni della rivista e dei “Quaderni”. Con una dinamica che si sarebbe riscontrata più volte (quasi una costante) dapprima la notizia non produsse reazione alcuna, tanto da determinare un primo richiamo da parte di Silvia Paoli, che lamentava come “una breve comunicazione [fosse] passata sulla lista pochi giorni fa, inosservata. Sarà il caldo, o l’afa” e ricordava a tutti, qualora ce ne fosse stato bisogno, che “la rivista AFT è al centro della nostra storia, della storia di molti di noi, con un percorso lungo più di vent’anni. (…) Se la rivista AFT dovesse veramente cessare di esistere sarebbe un grave danno per la cultura fotografica italiana.” A quelle sollecitazioni risposero alcuni iscritti tra cui Giovanna Ginex che propose di definire una qualche forma di “azione diretta nei confronti del Comune di Prato, come privati studiosi / operatori / fotografi eccetera e soprattutto come Lista”, ma all’invito risposero solo Laura Gasparini e Adriano Favaro che per buoni motivi si provava ad accostare la chiusura di “AFT” alle analoghe vicende di “Fotostorica”, di cui era stato direttore. Nessun’altra voce si aggiunse, né venne presa alcuna iniziativa organica tale da poter anche solo delineare una posizione comune dei membri della Lista nei confronti della chiusura del periodico, poi regolarmente avvenuta nel più assordante silenzio generale anche di forme associative più strutturate e forse autorevoli come la SISF.
Fu ancora il problematico rapporto con l’universo digitale a costituire una vivace occasione di confronto, a partire dalla pubblicazione della Florence Declaration – Raccomandazioni per la preservazione degli archivi fotografici analogici, presentata in occasione del convegno Photo Archives and the Photographic Memory of Art History – Part II che si era tenuto al Kunsthistorisches Institut in Florenz nei giorni 29-31 ottobre 2009.[1460] L’argomento del contendere, forse non ben compreso dai primi lettori della Lista, pareva essere la contrapposizione tra le due categorie dell’analogico e del digitale, mentre invece si trattava di sollecitare gli studiosi e soprattutto i conservatori a riflettere sui rischi insiti nel ricorso poco meditato al trattamento informatico delle immagini storiche e alla loro diffusione in rete. Alle prime osservazioni di Cesare Colombo[1461] e di Carlo Bonazza, che sottolineava il fatto che con la digitalizzazione di un’immagine “si partecipa di nuovo alla produzione e inevitabilmente all’interpretazione. Fra le tante soggettività della fotografia si aggiunge in questo caso quella del secondo fotografo”[1462], rispondeva Costanza Caraffa, tra le autrici del testo della Declaration, ricordando che proprio “in questo momento storico (…) non sono certo le potenzialità della rete a essere messe in discussione e quindi a dover essere ribadite e difese, bensì talvolta addirittura l’esistenza stessa di collezioni fotografiche analogiche.”[1463] Per iniziativa di Luca Pagni il testo della Dichiarazione venne sottoposto anche ad Ando Gilardi, che fraintendendo tra archiviazione digitale del patrimonio storico e archiviazione dell’immensa produzione digitale rispondeva provocatoriamente (e sprezzantemente) che “una immagine non può durare più del tempo che ci è voluto per farla”; aggiungendo per soprannumero che “fra l’altro in Italia ci sono una dozzina di idiote pagate per custodire ed è la cifra esatta un centinaio di tonnellate di lastre negative fotografiche che mai mai mai avranno una utilità.”[1464] Può darsi che la grossolanità di queste dichiarazioni non meritasse risposta alcuna – come avvenne – ma opinioni non troppo distanti riemersero giusto un anno dopo in un intervento di Diego Mormorio[1465], secondo il quale “per poter creare degli archivi che abbiano senso archivistico, bisogna saper cestinare molta roba. Per conservare bisogna saper buttare! Cercare un’immagine tra milioni di fotografie è quasi impossibile. Conservare tutto equivale a non conservare niente. È un lavoro che serve soltanto a tenere occupato un piccolo esercito di ‘conservatori’. Serve soltanto a fare smarrire in un immenso mondezzaio qualcosa che potrebbe risultare utile.” Una migliore articolazione del discorso, per quanto limitata dalla sintesi di un messaggio di lista, consentiva uno scambio di opinioni con Fabrizio Celentano, che introduceva una distinzione quasi ‘vitaliana’ tra “buttafuori” e “studiosi”; i primi “al lavoro fin dai primi giorni della fotografia: gente che ritiene un’immagine brutta, sconveniente, inutile, ingombrante, contrapposti ai secondi “che studiano delle immagini e scrivono, o anche soltanto annotano, qualche risultato della loro ricerca e conservano il tutto, magari dopo averlo organizzato. Credo che la chiave per una risposta a Mormorio stia proprio in queste due osservazioni. Invece di pensare di buttare, e a come si fa a farlo, proviamo a considerare l’aspetto positivo della questione e pensiamo a conservare”[1466]. Ancora una volta la discussione non proseguì oltre, mostrando quale fosse il principale limite di funzionamento della Lista, vale a dire la scarsa partecipazione delle sue centinaia di iscritti che si mostravano restii ad utilizzare questo spazio virtuale per dibattere. Se ne ebbe una riprova nell’ottobre 2011 quando la segnalazione della ventilata minaccia di vincoli censori ai siti web contenuta in una proposta di disegno di legge in merito a “Norme in materia di intercettazioni telefoniche”, produsse dapprima solo scarse reazioni. Su questa impasse si articolò l’intervento di Veronica Lisino: “Discussione non c’è stata, se non per i commenti di pochi audaci iscritti. Questo è il problema. Che persone come noi, che oltre ad essere cittadini della stessa democrazia, siamo, in quanto iscritti alla lista, presunti ‘appassionati di beni culturali’ quando non professionisti che con la fotografia come bene culturale e mezzo di comunicazione visiva viviamo o vorremmo vivere, non ci indigniamo (termine inflazionato ma poco praticato in Italia), se non forse ognuno davanti al proprio computer. Penso che non si possa pensare a fare sistema se il sistema prevede che ognuno pensi per sé. (…) Che senso ha una lista di discussione senza discussione?”[1467] Considerazioni amare, che raccolsero adesioni e produssero una trentina di interventi in soli dieci giorni, a partire da quello di Cinzia Frisoni, che ricorrendo alla ‘parabola’ della rana a suo tempo utilizzata da Peter Senge[1468] manifestava la propria preoccupazione per una diffusa “assuefazione progressiva alle storture, ai continui attacchi alla democrazia, alla perdita di diritti, al peggioramento continuo delle condizioni lavorative. (…) Sembra che ognuno tenga stretta per sé la propria fetta di preoccupazione, che in fondo in questa lista sia difficile condividere anche questa. Questo è il punto.”[1469] A questa diagnosi sconsolata e alla voluta assenza della SISF[1470], altri iscritti si associarono nei giorni successivi, determinando l’intervento di Tomassini nella doppia veste di coordinatore della Lista e di Presidente della SISF[1471], che si premurava innanzitutto di “distinguere nettamente due cose (…) la lista e la SISF.” In particolare ricordava che “la lista non è assolutamente moderata[1472] (…) e riflette quindi esattamente e in tempo reale gli orientamenti e i pareri degli iscritti; i caratteri e i limiti delle discussioni dipendono solo da quello che decidono di fare effettivamente gli iscritti.” In termini più propositivi invitava (senza esito) tutti gli interessati a formare in ambito SISF “un gruppo di lavoro che potrebbe definire i termini di un possibile intervento qualificato e organizzato (…) [favorendo] la discussione e elaborazione di qualche riflessione comune e condivisa, che possa portare a proposte operative concrete, sotto forma di documenti, interventi o iniziative pubbliche o altro.” Con il consueto andamento carsico a cadenza annuale[1473], il successivo ampio dibattito si aprì nel novembre 2012 con un intervento molto articolato di Diego Mormorio a proposito del ventilato progetto per un Museo della Fotografia da realizzarsi a Roma, di cui metteva in discussione le ragioni sia di merito che di metodo. Nello stesso giorno lo studioso ventilava il rischio che le sue considerazioni non determinassero reazione alcuna, richiamando così le ragioni stesse di esistenza della Lista, riprese da Sara Filippin[1474] e in modo più dettagliato da Lusini, che riteneva (un poco curiosamente, diremmo) che “se il dibattito sulla lista non si sviluppa ne siamo tutti responsabili, intendo gli iscritti alla stessa, e non qualcuno sì e altri no”, senza distinguere cioè tra i pochissimi (poco più di una decina forse) che intervenivano con una certa regolarità e le centinaia di osservatori silenziosi[1475]. Di tale stato di cose Serge Noiret si provava a individuarne le ragioni sia di ordine generale, legate a una sostanziale inadeguatezza delle liste “al tempo dei blog e dei social networks”, sia più specifiche quali la mancanza della “figura del moderatore che esiste in tutte le mailing-list serie (…) Infine non si discute perché le liste chiamate ‘di discussione’ sono invece altro e ad altro servono: non si discute in lista tra messaggi che si sovrappongono nel tempo, si può invece molto giustamente informare i membri e questo ruolo è fondamentale e non ha, a parere mio, perso la sua importanza. Giustifica di per sé l’esistenza della lista.”[1476] Nonostante queste riserve fu ancora Noiret[1477], circa due anni più tardi a offrire un’ulteriore, importante argomento di discussione e confronto, originato dalla pubblicazione di un articolo comparso sul “Manifesto”[1478] a proposito del divieto di fotografare nei musei e in istituzioni analoghe. Dopo la consueta stasi iniziale il dibattito sul tema “Scatti nei musei” si sviluppò con numerosi interventi, tutti sostanzialmente favorevoli alla liberalizzazione delle riprese non professionali così come venne poi normata dal D.L. 31 Maggio 2014 (83/2014) – “Art Bonus”, sebbene poi nell’iter di conversione la Camera dei Deputati approvasse un emendamento che escludeva dalla libera riproduzione i beni bibliografici e archivistici. La successiva lettera inviata da alcuni ricercatori al Ministro Franceschini con l’invito a rimuovere l’emendamento non sortiva esito alcuno[1479], tanto che nel giugno 2015 ancora Noiret[1480] segnalava alla lista l’appello A favore della riproduzione libera e gratuita con mezzo proprio in archivi e biblioteche, lanciato dal movimento d’opinione “Fotografie libere per i Beni Culturali”. “Il ripristino dello spirito originario del decreto Art Bonus – ricordava Noiret riprendendo il comunicato dei promotori – agevolerebbe la ricerca scientifica condotta ogni giorno da centinaia di ricercatori e professionisti dei beni culturali già costretti ad operare in condizioni economiche assai precarie, spesso armati della sola passione. Hanno firmato sinora più di 3300 ricercatori da tutto il mondo insieme a numerosi esponenti di spicco [e] personalità della cultura italiana. (…) La ricerca non può essere un lusso per pochi.”[1481]
La “proposta di costituzione di una associazione per lo studio della fotografia in Italia (…) maturata nel corso degli anni attorno a una serie di iniziative successive e formalizzata al convegno di Ravenna del 2004” venne ufficialmente presentata il 17 febbraio 2006 a Prato in occasione della giornata di studio La cultura fotografica in Italia, organizzata per celebrare i vent’anni di “AFT”. Tra gli scopi principali vi erano “la promozione di approfondimenti, di occasioni di incontro e di confronto scientifico, di strumenti di ricerca, di iniziative per la tutela e valorizzazione e la circolazione del patrimonio storico”, ma anche “il riconoscimento del ruolo della fotografia a livello universitario [e] nella didattica ai vari livelli, la realizzazione di iniziative editoriali e scientifiche di alto profilo (…) il tema della formazione degli operatori e degli studiosi.”[1482] Dopo la presentazione dello Statuto di quella che si chiamava ancora ASFI, l’Associazione per lo Studio della Fotografia in Italia tenne la sua prima assemblea a Firenze nel giugno dello stesso anno, quando venne nominato il primo Consiglio direttivo e il sodalizio assunse il definitivo nome di Società Italiana per lo Studio della Fotografia. Seguirono nel 2007 alcune presentazioni[1483] della nuova realtà associativa, ma la prima importante occasione di confronto fu il convegno che si tenne a Cinisello Balsamo nei giorni 6 e 7 giugno 2008[1484] su La cultura fotografica nell’Università italiana: situazione, problemi e prospettive; avvio di una precisa strategia politica di valorizzazione delle culture fotografiche e primo tentativo organico di un loro radicamento in un universo accademico sino ad allora piuttosto disattento e forse restio, nonostante l’elevato numero di corsi a contratto allora presenti nelle università italiane. In quel periodo venne predisposta e avviata la prima versione del sito, che Giovanni Fiorentino considerava “una nuova partenza, ambiziosa e con prospettive – vogliamo crederci – a lungo termine (…) Un nodo aperto e inter-culturale, di interazione e scambio, strumento flessibile e collaborativo, segnato da una più ampia cultura visuale che intende allo stesso tempo ‘rompere’ e ‘aprire’, mettendo in connessione locale e globale, coinvolgendo e valorizzando le più diverse esperienze sull’intero territorio italiano e aprendo a una dimensione di scambio con le realtà internazionali. (…) Il sito è lo spazio dove la “Società” potenzialmente può farsi ‘comunità’.”[1485] A quelle intenzioni nobilmente ambiziose non corrisposero poi realizzazioni adeguate e il sito (oggi purtroppo non più accessibile nella sua prima edizione 2008-2012) solo in parte riuscì ad essere “un nodo aperto e inter-culturale”, tanto che nel primo anno di vita il solo evento di sostanziale e duraturo interesse fu la pubblicazione dell’importante saggio di Roberto Signorini Appunti sulla fotografia nel pensiero di Charles S. Peirce, esito di quello che fu il suo costante e faticoso impegno per l’accrescimento della nostra cultura. Proseguiva invece, anche se di necessità più sporadica viste le scarse risorse disponibili, “la promozione di occasioni di incontro e di confronto scientifico”, tra cui il convegno ravennate del 2010 “Forme di famiglie, forme di rappresentazione fotografica, archivi fotografici familiari”; un tema particolarmente caro agli antropologi visuali e agli storici contemporaneisti come testimoniavano le molte annate di “AFT” e la pubblicazione del terzo volume del progetto einaudiano L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia ( De Luna et al. 2005/2006), incentrato sugli album di famiglia, che aveva tra i curatori e gli autori dei saggi anche alcuni studiosi presenti a Ravenna come Fiorentino e D’Autilia[1486]. Il programma del convegno, con circa cinquanta relatori distribuiti in due sessioni dedicate a Forme di famiglie e forme di rappresentazione fotografica, 1950-1980 e Album di famiglia. esperienze in corso di conservazione, gestione, valorizzazione di archivi e fondi fotografici e filmici familiari (1850-2000) costituì, crediamo per la prima volta in Italia, una occasione pubblica di confronto interdisciplinare sulle fotografie e sulla molteplicità delle loro funzioni, da intendersi e leggersi in parallelo con quanto presentato nella successiva occasione costituita dal convegno che si tenne a Noto dal 7 al 9 ottobre dello stesso anno. Studi Forme e modelli: la Fotografia come modo di conoscenza (Faeta et al. 2013) aveva infatti quale proprio orizzonte epistemologico non tanto le scienze storiche, comunque ben rappresentate, quanto le scienze sociali e quelle cognitive, la semiotica e il cinema, nel tentativo di restituire e forse avere ragione (almeno provvisoria) di un oggetto di studio di “irrequieta e polimorfa natura”[1487]. L’ampio ventaglio di studiosi e di discipline coinvolte nei due convegni costituiva l’esito più rilevante e significativo degli sforzi compiuti dalla SISF per costruire una rete di relazioni conoscitive intorno al concetto e all’oggetto fotografia ben più ricco di quanto fossero riuscite a esprimere le precedenti (e anche per questo determinanti) sedi di elaborazione e discussione. Forse in più di un caso le pretese di interdisciplinarietà risultarono – contro ogni auspicio – non molto più che un “omaggio alle retoriche contemporanee (che surrogano, assai spesso, l’impotenza euristica ed ermeneutica, con una rituale invocazione di apertura interdisciplinare)”[1488], ma certo queste occasioni hanno testimoniato e certificato il superamento dei confini troppo angusti di un campo di studi sovente ridotto entro un perimetro che per troppo tempo sembrava quasi avere funzione difensiva.
Negli anni successivi le occasioni di studio ritornarono in un più consueto alveo storico archivistico, ma affrontando una serie di temi sino ad allora poco considerati dalla storia della fotografia, specie quella italiana, quali le funzioni e le vicende editoriali delle immagini fotografiche e degli archivi connessi[1489]. Organizzate per ‘cantieri’ tematici e sessioni poster le giornate di studio consentirono di fare il punto sullo stato delle conoscenze e sulle prospettive di ricerca in merito ai rapporti tra editoria, fotografia e comunicazione, ma anche di riconsiderare le relazioni tra “Istituzioni e network”, tra università e fotografia, tema già affrontato a Cinisello Balsamo nel 2008. Il terzo cantiere infine, sulle Prospettive e iniziative per lo studio della Fotografia comprendeva anche una sessione sulle Riviste di fotografia: modelli, prospettive e proposte operative per una rivista italiana di studi sulla fotografia[1490], coordinata da Tiziana Serena, nella quale si delinearono i primi elementi del progetto che avrebbe portato nel 2015 alla pubblicazione di “RSF”, di cui la studiosa sarebbe divenuta direttrice.
L’intensa opera di promozione e di aggiornamento culturale condotta dalla SISF proseguì con il convegno internazionale Fotografia e culture visuali del XXI secolo. La “svolta iconica” e l’Italia, che si svolse a Roma dal 3 al 5 dicembre 2014, organizzato per panel e sezioni plenarie affidate a studiosi quali Antonio Somaini, Mary Ann Doane, Philippe Dubois e Francesco Casetti. Più che variegati furono i temi affrontati nei dodici gruppi tematici che spaziavano (è il caso di dire) da “Fotografia e cinema dalle origini al digitale” (niente di meno!) a “Fotografia e teoria delle arti”; da “Avanguardie e autorialità” a “Fotografia, guerra, conflitti sociali” o “Fotografia e territori”[1491], in uno sforzo enciclopedico tanto titanico quanto ingenuo nella manifesta convinzione che questioni di tale rilevanza potessero essere produttivamente ridotte in quegli spazi di discussione. L’iniziativa costituì comunque un’occasione di confronto pubblico per una variegata schiera di studiosi, circa una settantina, di differenti generazioni e orientamenti disciplinari tra vecchi e nuovi media, analogamente a quanto è accaduto in anni recenti anche per merito del lavoro svolto da altri organismi internazionali come l’ASMI[1492], che nel novembre del 2013 aveva organizzato a Londra il convegno Iconic Images in Modern Italy: Politics, Culture and Society[1493] nel corso del quale vennero presentati alcuni studi poi riproposti anche a Roma l’anno successivo. Negli ultimi anni l’impegno della SISF prosegue anche con la pubblicazione di “RSF. Rivista di Studi di Fotografia”, preannunciata il 14 giugno 2015 con una mail alla Lista da Tiziana Serena, per la quale il nuovo periodico sarebbe stato votato ad “accogliere studi innovativi sulla fotografia [che] nel corso degli ultimi anni si è trovata al centro di molteplici interessi disciplinari, fra i quali quelli della storia, della sociologia, della filosofia e dei visual studies, che complessivamente contribuiscono a definirne nuovi orizzonti culturali. (…) La rivista si propone quindi di inaugurare un nuovo percorso editoriale aperto alle diverse discipline e metodologie che fanno della fotografia il loro centro di interesse, offrendosi come luogo di scambio per gli specialisti e come strumento scientifico per i vari operatori del settore.”[1494] Come ribadiva la stessa Editor in Chief nel presentare il primo numero, quello degli studi sulla fotografia “è un territorio che ha mutato fisionomia ridefinendo il profilo del proprio orizzonte, determinando conseguentemente la necessità di mettere a punto e verificare nuove forme d’interrogazione sugli oggetti delle proprie narrazioni. (…) la fotografia richiede oggi non solo sguardi differenziati, ma anche che essi siano dotati di un certo strabismo: le fotografie e i saperi ad esse collegati suggeriscono, cioè, di essere osservati come una costellazione, un sistema di organizzazione degli oggetti, dei saperi e delle riflessioni in cui i singoli elementi sono tra loro giustapposti piuttosto che integrati, frontali in una postura di dialogo e tuttavia non distanti.” Se “costellazione” appariva la parola chiave dell’editoriale inaugurale, a caratterizzare i contributi del secondo fascicolo della rivista erano “due principali chiavi di lettura: la transizione e lo sguardo. (…) il tema della transizione segna la conquista di un’altra dimensione, che appare allargata longitudinalmente. In essa lo spazio discorsivo è dato dalla possibilità di poter percepire e seguire il passaggio stesso nel cambiamento da uno stato all’altro, durante il quale agiscono diversamente -e dialetticamente – gli sguardi”, identificando poi nella “forma album” (come si direbbe forma sonata, per intenderci) il luogo in cui porre in atto nuovi discorsi. Il terzo editoriale considerato, infine, offriva “una traccia per una lettura trasversale che potremmo definire come una domanda aperta sull’interpretazione. Non si tratta di una interpretazione prettamente storiografica (come si interpreta tal fatto storico), quanto piuttosto ci s’intende domandare come si scopre e come si spiega quell’autore responsabile della creazione di una immagine o di una serie: il fotografo (qualunque sia la sua postura e la sua ideologia figurativa) o colui che monta un album fotografico costruendo, fotografia dopo fotografia, simbolo dopo simbolo, un senso.”
Lo spazio e l’occasione non consentono di entrare nel merito dei contributi pubblicati in “RSF” (alcuni dei quali comunque richiamati in altre parti del testo) ma non si può evitare di dar conto di una sensazione generale, più percepita che esplicita, che la lettura di quei primi editoriali suscitava. Mi riferisco a quell’idea di “costellazione” richiamata in apertura che sembrava infine tradursi solo in una eterogeneità di argomenti e di approcci variamente sensibili alle successive “svolte” che hanno coinvolto i discorsi intorno alla fotografia e alle fotografie, ma dei quali era più facile trovare traccia nelle ‘etichette’ che connotavano le presentazioni editoriali che nel corpo dei vari contributi. Analoghe considerazioni richiamava il ricorso al termine “transizione”, svolto semplicemente in una pluralità di declinazioni diverse, da quella temporale a quella tipologica; un minimo comun denominatore più lessicale che concettuale o metodologico, e altrettanto incerto pareva infine il riferimento alla categoria complessa di “interpretazione” a cui sarebbero stati improntati i contributi del terzo numero della rivista. Soprattutto risultava difficile comprendere la contrapposizione tra l’applicazione storiografica di quel concetto e la concezione qui espressa da Serena, quasi che il “come si scopre e come si spiega” l’attività di un autore (qualunque sia la sua postura) fosse pratica inedita, estranea all’elaborazione storico critica, e certo non solo in ambito fotografico. Restava il sospetto (ma lieve, certo) che la fascinazione lessicale ricoprisse una più che ovvia posizione: che oggetti e opere sono o possono essere intesi storicamente e criticamente secondo prospettive diverse, da legittimare ogni volta. Come del resto si è cercato di fare da sempre[1495].
Sul primo numero di “RSF” Sauro Lusini aveva colto l’occasione di una recensione per tracciare brevemente il profilo della fortuna storica del tema archivi fotografici in Italia a partire dagli anni Settanta del Novecento, ponendola in relazione con il “più ampio contesto di studi che collocava al centro la riflessione sul patrimonio fotografico, come bene in sé stesso da proteggere e come fonte per l’acquisizione e l’approfondimento di conoscenze utili anche per la ricostruzione di una identità sociale e culturale che si stava sgretolando”[1496]. Un tema che ha goduto nell’ultimo decennio di una considerevole attenzione, ben testimoniata dalla messe di contributi ospitati in alcune meritorie riviste di settore come “AFT” e i “Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande”, ma affrontato anche da pubblicazioni monografiche relative a questioni che spaziavano dalla storia dell’arte, certo l’ambito più sistematicamente indagato, alle istituzioni scientifiche[1497]; dalle raccolte civiche[1498] alle biblioteche e altri istituti culturali[1499]; dalle banche alle cooperative[1500], solo per citare gli esempi maggiori, mentre appariva meno rilevante la riflessione intorno ai musei di fotografia[1501]. Accanto a questi approfondimenti si segnalavano alcune importanti ricognizioni a scala territoriale che rispondevano all’esigenza tutt’ora sentita di disporre di una mappa generale se non di un vero e proprio censimento di tutte le raccolte italiane di interesse pubblico; strumenti indispensabili per accrescere la conoscenza della geografia storica dell’attività fotografica e della sua tutela, che la tecnologia digitale e la rete ormai consentirebbero di concepire e realizzare con relativa semplicità, ma in molti casi ostacolate da difficoltà istituzionali e soprattutto economiche.
Dopo un primo progetto del 1991 curato da Costantini e Zannier, purtroppo non disponibile nei suoi esiti analitici[1502], nel 2004 si avviava la Raccolta dati ed immagini finalizzata alla edizione di una guida ai fondi fotografici del Veneto, poi pubblicata a cura di Adriano Favaro, all’epoca responsabile della Fototeca Regionale[1503], che riproponeva in apertura un vecchio testo di Zannier, ricco di spunti operativi ma che – per non aver subito nel frattempo alcun aggiornamento – portava impressi gli impietosi segni del tempo[1504]. Meno sistematica si presentava una più recente iniziativa regionale come il volume sugli archivi fotografici piemontesi[1505]; secondo numero della collana “Archivi e Biblioteche in Piemonte” il cui primo titolo, dedicato agli archivi storici delle Case editrici[1506], conteneva a sua volta informazioni sui fondi fotografici posseduti da alcune di queste (SAIE, SEI, UTET), poi non richiamati nel volume specifico. Merito principale del volume non era tanto quello di descrivere l’insieme degli archivi fotografici presenti sul territorio, essendo segnato da ampie e poco comprensibili lacune[1507], quanto di fornire una ricostruzione delle attenzioni di cui quel patrimonio aveva goduto da parte della Regione Piemonte a partire dalla metà degli anni Novanta del Novecento, specie per il tramite dei finanziamenti alla Fondazione Italiana per la Fotografia, sebbene poi anche qui non corrispondesse al vero il fatto che a quella fosse stato assegnato il compito di “fornire consulenze per definire regole e standard per la catalogazione.”[1508] Accanto alle iniziative piemontesi[1509], altri e più efficaci sono stati i progetti regionali finalizzati alla conoscenza e alla tutela del patrimonio fotografico, tra i quali si segnalano per sistematicità e durata Imago, il catalogo online dell’IBC, messo in rete nell’anno 2000, nel quale sono confluiti i dati di un censimento avviato nel 1986 dalla Soprintendenza per i Beni Librari e costantemente aggiornato[1510]; il SIRBEC della Regione Lombardia, attivato nel 1992, che contiene 192.012 schede di beni fotografici e il SIRPAC del Friuli Venezia Giulia, in cui sono state catalogate ad oggi più di 120.000 fotografie e censiti oltre 2.500 autori[1511].
Altre Regioni hanno puntato su iniziative diverse, orientate al censimento degli archivi più che (o prima che) alla catalogazione dei fototipi, come quelli realizzati dall’Archivio Fotografico Toscano nel 1994, purtroppo non più aggiornati, o la già citata Guida ai Fondi Fotografici Storici del Veneto, ovvero alla catalogazione per ambiti tematici e istituzionali, come la messa online del ricco fondo del Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto, purtroppo dotato di una primitiva maschera di ricerca[1512], mentre in altri casi quali la Fototeca del CRICD di Palermo, forse la prima del genere istituita in Italia già alla fine degli anni Settanta del Novecento, alla raccolta e conservazione dei fondi fotografici non ha corrisposto la realizzazione di strumenti di consultazione online[1513].
Apparteneva purtroppo al panorama dei progetti nostrani di conoscenza e valorizzazione del patrimonio fotografico anche un organismo quale il CO.NA.FO. Comitato Nazionale “La fotografia italiana e la civiltà delle immagini”, istituito con D.M. 19 aprile 2005, posto sotto l’Alto Patrocinio della Presidenza della Repubblica e attivo tra il 2005 e il 2008, che aveva tra i propri obiettivi quello di “operare per una ricognizione dei fondi storici fotografici presenti nelle biblioteche e negli archivi italiani. Tale operazione produrrà un database con la segnalazione dei dati corrispondenti e per i quali si sta operando per una opportuna classificazione, seguendo le linee del Catalogo Unico per i Beni Artistici e Storici, scheda F.”[1514] Il progetto prevedeva anche la realizzazione di mostre e volumi di cui non è possibile a tutt’oggi reperire traccia nella base di dati SBN, con l’eccezione di Amitrano 2007, volume che raccoglieva gli interventi al convegno La Parola e l’immagine. La Tradizione e la sua riproposta fotografica (così in originale), tenutosi a Salerno nel dicembre 2012. Nelle intenzioni dei promotori tale opera avrebbe poi dovuto essere integrata da “una corposa bibliografia inerente alla Storia della fotografia, a cura del Prof. A. Manodori Sagredo (…) che terrà conto di tutto il materiale proveniente dagli archivi e dalle biblioteche statali italiani e confluito nel data-base in elaborazione”, oltre che da un Repertorio del patrimonio fotografico italiano dato come disponibile su supporto digitale e cartaceo ma del quale non è stato possibile individuare traccia, tanto meno sul sito del Comitato che risulta ormai irraggiungibile[1515].
Alle disamina delle problematiche poste dai nuovi orizzonti metodologici ed euristici determinati dallo sviluppo delle reti informatiche è stata indirizzata una serie di iniziative recenti, a partire dal seminario sugli Archivi fotografici italiani on-line organizzato dal MUFOCO in collaborazione con il MiBAC /Archivio Fotografico della Soprintendenza PSAE di Bologna nel maggio 2006. In quell’occasione sono state proposte importanti riflessioni in merito ai problemi connessi al “rapporto tra conservazione del patrimonio fotografico e sua fruizione allargata, la filosofia sottesa alle scelte di pubblicazione internet/intranet, criteri e metodi adottati nel passaggio da catalogazione a pubblicazione dei dati (usabilità, livelli di accesso, protezione), gli standard di qualità dei siti web di contenuto culturale, i problemi connessi alla tutela del diritto d’autore e delle banche dati.”[1516] In preparazione del seminario venne condotta un’indagine conoscitiva sugli archivi online, di cui fu offerta una sintesi quantitativa in grado di evidenziare le principali problematiche in atto, ma senza restituire un repertorio delle realtà censite, preoccupandosi semmai – in termini più generali e fondanti – di verificare quale fosse “il posto della fotografia, come collezione, raccolta, archivio multiforme delle nostre attività, nel suo essere nel mondo, del mondo stesso, e – non ultimo – quale è il suo posto nei processi di costruzione e produzione del nostro immaginario e della nostra memoria collettiva”[1517]. La realizzazione di un vero e proprio Atlante degli archivi fotografici e audiovisivi italiani digitalizzati era invece quanto si riproponeva il progetto di ricerca promosso da Guido Guerzoni (museo M9) e Fabio Achilli (Fondazione di Venezia) e curato da Giuliano Sergio (2015) nell’ambito del più complesso progetto M9 – Museo del Novecento a Venezia. Ancora più articolato e complesso il successivo progetto di Censimento degli archivi fotografici italiani definito da un protocollo d’intesa firmato il 15 dicembre 2015 tra ICCD e CAMERA allo scopo di “identificare i soggetti che a vario titolo detengono raccolte o archivi fotografici, raccogliendo informazioni su tipologia, consistenza e caratteristiche dei materiali conservati; la conoscenza sistematica di questo rilevante settore del patrimonio culturale costituirà l’elemento cardine su cui impostare le politiche per la sua tutela e valorizzazione.”[1518]
A conclusione del progetto di ricerca sulla “Storia dell’emigrazione italiana”[1519], promosso dal Comitato nazionale “Italia nel mondo” istituito presso il MiBAC, venne pubblicato un volume (Bevilacqua et al. 2002) con allegato un CDRom curato da Emilio Franzina intitolato alle Memorie visive degli emigranti: luoghi di partenza, il viaggio, paesi d’arrivo [1520], con circa 400 fotografie, che rimandava alla corrispondente sezione del libro, intitolata L’immaginario e le rappresentazioni, a testimoniare la diffusione anche in questo settore di studi di prospettive ‘culturali’ che avrebbero dovuto per questo fondarsi su di un accorto ricorso critico alle nuove fonti, e tra di esse certamente le fotografie, qui e là citate in alcuni contributi e raccolte e ‘catalogate’ nell’allegato multimediale. Nella realtà delle cose invece non solo non c’era alcun saggio loro dedicato, ma – come ebbe a notare Serge Noiret – neppure vi era traccia della promessa catalogazione, essendo nel migliore dei casi le immagini “accompagnate da una frase che le connota nel soggetto, quasi mai nel tempo e mai in riferimento al documento stesso: quale fondo di provenienza, autore eventuale, descrizioni filologiche del documento ecc.”[1521]. Ne risultava una clamorosa testimonianza dello scarso interesse di molti storici – ancora a quella data – a trattare in modo criticamente consapevole le fonti fotografiche[1522]. Da quel tipo di esiti si distingueva il progetto L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia[1523], che sin dalla scelta di quel sottotitolo tra singolare e plurale pareva significare non tanto che ‘la storia’ – diversamente dalle fotografie – sia una sola, quanto piuttosto il capovolgimento programmatico del tradizionale rapporto tra i due elementi. Come ebbe a ricordare Gabriele D’Autilia, uno dei curatori con Giovanni de Luna e Luca Criscenti, l’obiettivo era proprio “quello di ‘rovesciare’ il rapporto testo e immagini: doveva essere il primo a svolgere un ruolo ancillare rispetto alle seconde [per] sottolineare il ruolo di ‘agente di storia’ svolto dalla fotografia nel corso del Novecento”[1524]. In quel disegno storiografico la stessa eterogeneità delle fonti era ricondotta strategicamente a tre distinte categorie di “costruttori di identità” che corrispondevano agli sguardi (alle narrazioni) istituzionali, professionali e familiari: “una molteplicità di sguardi quindi, espressione di diverse consapevolezze, che hanno preso forma attraverso lo strumento tutt’altro che meccanico e tutt’altro che neutrale della fotografia.” Se questi erano gli intenti e i metodi, lo scopo comune a molti in quegli anni era quello di restituire storiograficamente “uno degli aspetti più controversi e sfuggenti della storia dell’Italia del Novecento, quello dei progetti di identità nazionale”. Intenzione ammirevole da parte di uno storico accorto come De Luna (già responsabile della non memorabile collana della Storia fotografica della società italiana, per gli Editori Riuniti) che solo pochi anni prima aveva espresso opinioni estremamente riduttive in merito alla possibilità di utilizzare le fotografie quali fonti, sostenendo ad esempio – a proposito di alcune notissime immagini della guerra del Vietnam – che “l’impressione è che più che raccontare la guerra, quelle immagini tendano a decontestualizzare l’evento che documentano, rendendolo unico, irripetibile, senza tempo, azzerando la capacità dello storico di spiegarlo.” [1525] Ora invece, meritoriamente, ciò che doveva prevalere era “l’attenzione alle modalità di produzione delle immagini, pubbliche e private, e alle motivazioni, agli stereotipi, alle intenzionalità, proprio perché nella fotografia non conta solo l’immagine e il suo contenuto, ma il suo produttore, i suoi diffusori e i suoi fruitori”. Così com’era accaduto nel 1979 con i primi “Annali” einaudiani curati da Bollati e Bertelli, questa serie di volumi avrebbe potuto segnare una svolta nell’utilizzo storiografico delle fotografie ma gli esiti – da questo punto di vista – non corrisposero alle intenzioni, come confermavano proprio i saggi di maggior spessore critico, nei quali venne adottato un modello narrativo caratterizzato da una relazione testo/figura ancora di tipo didascalicamente deterministico, istituendo legami diretti, impropriamente biunivoci tra affermazioni di carattere generale e singole fotografie, con funzione appunto dimostrativa, rinunciando volutamente[1526] a indagare le effettive e complesse interrelazioni (e le loro conseguenze) tra gli elementi costituenti la comunicazione per immagini, tra i meccanismi di costruzione e gli esiti dell’uso sociale delle stesse. L’occasione per tornare a riflettere sulle difficoltà epistemologiche e metodologiche riconoscibili nei differenti approcci degli storici contemporaneisti alla fotografia (come campo) e alle fotografie come fonti venne offerta dall’incontro celebrativo dei vent’anni di fondazione di “AFT” già richiamato, quando Adolfo Mignemi[1527] tornò a riflettere sui problemi specifici posti dalle quelle “particolarissime forme di accumulazione ed uso” delle fotografie che sono gli archivi, qui intesi come componenti del loro processo di valorizzazione economica. A segnare i mutamenti sostanziali avvenuti nel frattempo individuava poi “tre caratteri di rilevanza fondamentale per l’assunzione a pieno titolo della fotografia tra le fonti primarie del lavoro storiografico”: il suo riconoscimento come bene culturale, ciò che a noi pare però più effetto che causa della loro riconsiderazione; l’adozione di adeguate pratiche conservative e – infine -“l’avvio di una pratica di uso dell’immagine come elemento non solo decorativo affiancabile ad un elaborato storiografico.” Pur nell’obbligata sintesi imposta dall’occasione, quel richiamo quasi incidentale agli archivi da parte di uno storico autorevole e da sempre attento a questi temi era certo indicativo delle persistenti difficoltà a cogliere gli echi e le sollecitazioni di quel dibattito internazionale che sarebbe poi stato etichettato come Material Turn[1528], portando a considerare in maniera più consapevole e teoricamente fondata la materialità delle immagini e la necessità (tra antropologia e storia) di comprenderle come “oggetti circolanti in reti sociali”[1529]. Un passaggio che a sua volta avrebbe portato altri a parlare addirittura di “Photographical Turn in History”, indicando così l’opportunità di verificare “le possibilità di una metodologia relativa all’uso di fotografie nella ricerca storica che comporti non solo la concettualizzazione materiale e contestuale delle immagini, ma che consenta anche di riconoscere la loro performatività come evento, differenza e rottura.”[1530] Si chiedeva cioè alla comunità degli studiosi, in primis agli antropologi e agli storici, anche di settore naturalmente, di considerare le fotografie come “oggetti sociali” e “relazionali” ovvero come “intermediari”[1531] che “esistono nel tempo e nello spazio”, ciò che non possiamo però dire che non fosse mai accaduto: basti pensare alle pagine di molti semiologi ovvero – in termini pragmatici – alle svariate forme d’uso della fotografia propagandistica: da quella politica a quella pubblicitaria.
Precoci segnali di interesse per quegli approcci emersero dai contributi ospitati nell’inserto monografico di “Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ‘900” intitolato a Le prospettive del visuale: storia e immagini (Sorba et al. 2006), che richiamava ancora una volta le “forme di reticenza e di timore” degli storici nei confronti delle fonti visuali, riconoscendo opportuno adottare “una prospettiva che di necessità non può non essere anche antropologica”. Nello stesso anno anche una rivista come “Storia Urbana” dedicò un numero monografico all’uso delle immagini fisse e in movimento quali fonti per la storia della città (Ciacci 2006) adottando variegate prospettive, alcune delle quali esplicitamente orientate in senso “culturale” e non riduttivamente documentario, referenziale, mentre nel coevo numero di “Storia dell’urbanistica/Toscana” (Fanelli et al. 2006) i contributi si collocavano piuttosto nel segno della consapevolezza, ormai consolidata, che “l’immagine fotografica non è riproduzione della realtà. Piuttosto essa costituisce un’altra realtà (e si potrebbe anche dire una realtà altra), dotata di proprie specifiche caratteristiche” [1532] espressive e linguistiche, ma senza considerarne gli aspetti relazionali. Alcuni anni più tardi sarebbe stato Luigi Tomassini ad assumersi il compito di sintetizzare i mutamenti epistemici che avevano interessato il rapporto degli storici con la fotografia e le fotografie, e lo fece riprendendo il concetto di “dialettica ferma” a suo tempo formulato da Walter Benjamin, per verificare l’ipotesi che la fotografia costituisca un nodo problematico fondamentale per capire le questioni di metodo che si pongono agli storici in relazione ai visual studies, ma anche in generale ai cultural studies.[1533] Richiamando alcuni passaggi teorici e metodologici l’autore ricordava “che l’ingresso delle immagini nel territorio dello storico si annuncia, tramite le anticipazioni teoriche di Benjamin e la svolta delle ‘Annales’ molto prima del linguistic turn, e della svolta culturalista, e si può presentare quindi come un fenomeno riconducibile ad una dinamica interna del discorso storiografico”, anzi, pur riconoscendo come il linguistic turn avesse “determinato mutamenti decisivi per la diffusione effettiva dell’attenzione verso il visuale”, sosteneva che la fotografia “si presta ad essere usata dal punto vista storiografico non solo in un’ottica di ‘storia culturale’, ma anche in netta opposizione alla svolta culturalista” e ciò in virtù della sua “indessicalità (…) della sua natura cioè non di linguaggio, né semplicemente di icona, ma di traccia, di indizio”, di “impronta impressa dal reale visibile sull’emulsione sensibile sul fondo della camera oscura.” Nella sua interpretazione il ‘realismo’ ontologico della fotografia risultava essere l’elemento determinante per lo storico, quello “in grado di stabilire un nesso diretto, non solo linguistico, con il passato”, mettendo in secondo piano tanto gli aspetti culturali compresi nel concetto di rappresentazione[1534] quanto la natura di “oggetto sociale” che riconosciuta dagli antropologi visuali[1535]. La necessità di riflettere su queste questioni (sorprendentemente ancora e sempre nuove) era confermata dal numero 9/2013 di “OS – Officina della Storia”, tutto incentrato sui rapporti fra Storia e fotografia, che affrontava questioni legate al loro uso pubblico in ambito politico e alle relazioni tra questo e la sfera privata, individuando nel rapporto complesso tra intenzioni produttive, usi e ricezione uno dei nodi ermeneutici fondamentali. In questa prospettiva risultava interessante anche la questione dei nessi fra “la fonte fotografica e gli archivi”, considerati però piuttosto riduttivamente come “preziosi strumenti di conservazione di materiale per la ricerca storica” e non come dispositivi e fonti da affrontare criticamente, pur riconoscendo che alcuni custodivano “raccolte fotografiche in grado di assolvere non soltanto a questo ruolo, ma anche di trasmettere la memoria di un’identità politica, locale o nazionale.”[1536] In quel fascicolo le questioni storiografiche, di una storiografia attenta ai problemi e alle prospettive culturali, erano affrontate con chiarezza in due contributi riferibili a temi distinti ma certo connotati da preoccupazioni metodologiche per molti versi comuni. Nel primo Monica di Barbora[1537] apriva col ribadire che “la fotografia sfugge per sua natura a categorie e definizioni. Anche provare a stabilire una demarcazione tra rappresentazione pubblica e privata significa inoltrarsi su un terreno sdrucciolevole.” Ciò accadeva, secondo la studiosa, per ragioni complesse e diverse quali lo scarto tra intenzioni del produttore e usi dell’immagine, che determinavano successivi processi di ricontestualizzazione e di ‘risignificazione’ dei quali era indispensabile tener conto per comprendere appieno il senso e il ruolo che quell’immagine/ quelle immagini hanno svolto e possono svolgere”, considerando le mutevoli dinamiche tra rappresentazione pubblica e privata che vivevano (anche) della produzione di stereotipi di genere, “in cui si manifestano e cristallizzano i dispositivi di dominio, che si radicano fortemente nella costruzione, anche e soprattutto iconografica, dell’alterità”. Anche il saggio di Caterina Giannottu[1538], di taglio più antropologico, rifletteva sulle questioni complesse poste dall’uso del “materiale fotografico per un’analisi storico-culturale” nella doppia modalità della testimonianza referenziale e denotativa come di quella dell’analisi “della retorica dell’immagine, le rappresentazioni culturali e discorsive ad essa soggiacenti, l’uso a cui una simile immagine era destinata, gli elementi del potere, dell’immaginario collettivo, del momento storico”, seguendo in questo le sollecitazioni di matrice antropologica ma augurandosi che la combinazione con quelle più propriamente storiche potesse “svelare alcuni aspetti che né l’una né l’altra prospettiva da sole possono affrontare.”
Quei sacrosanti richiami alla necessità di considerare la biografia sociale e politica delle fotografie costituivano l’esito più evidente delle riflessioni teoriche e metodologiche che nell’ultimo decennio avevano caratterizzato il dibattito internazionale e nazionale, variamente intese come Archival e/o Material Turn[1540] e declinate con particolare riguardo alla posizione di studiosi come W.J.T. Mitchell, Gottfried Boehm o Hans Belting, comprese a loro volta sotto l’etichetta di Pictorial Turn e collocate nel più complesso orizzonte dei Visual Culture Studies. Un ambito particolarmente fecondo nella riflessione italiana sul tema degli archivi fotografici di storia dell’arte e dell’architettura.
“Benedetta la foto che lavora” aveva scritto Andrea Emiliani introducendo il volume dedicato all’acquisizione dei fondi Ragazzi e C.N.B. da parte dell’Archivio fotografico della Soprintendenza PSAE di Bologna[1541], riconoscendo che “la foto è per noi, quando siamo al lavoro, un verbale del procedimento complesso delle arti”, con un richiamo evidente all’antica (1863) definizione di Viollet-Le-Duc. A definire la complessità del lavoro con e intorno alla fotografia di documentazione delle arti erano rivolti i successivi testi di approfondimento, inquadrati da un saggio di Corinna Giudici[1542] che sin dal titolo (Arte tradotta in fotografie: oggetti e soggetti della tutela) dichiarava il mutato statuto dei fototipi che costituivano l’archivio, avvertendo però anche dei rischi culturali e politici, di politica della tutela, connessi non solo ad una interpretazione funzionale dello stesso come “succedaneo del territorio, la cui densa e complessa stratificazione viene surrogata dal percorso tra indici permutati, sistemi classificatorii, oppure cassetti, contenitori, faldoni”, ma anche alla mancata considerazione della necessità di indagare fino in fondo il nesso “tra la conoscenza e la fotografabilità.” Accanto a queste viveva il richiamo, ulteriore e necessario, a una concezione del “documento fotografico [come] sintesi della cultura, attitudine visiva, storicità tecnologica della ripresa (dei suoi autori e committenti, della fotocamera, della camera oscura) con il referente ineludibile della realtà presente davanti all’obiettivo. Sintesi ogni volta nuova e diversa, reale in quel momento, in quel contesto storicamente determinato.”[1543] Analoghe indicazioni e avvertenze erano state espresse da Massimo Ferretti a Prato nel 2006 a proposito della “nozione di patrimonio”, col conseguente invito a intendere “l’intero spazio della fotografia e della sua storia come tangibile organismo culturale, con gli ovvi corollari: studio dei materiali e delle tecniche storiche, conoscenza finalizzata alla conservazione e al restauro, dunque anche alle forme dell’organizzazione archivistica.”[1544] Il mutamento di statuto di quel patrimonio e l’interesse per le modalità (e le ragioni) del suo ordinamento archivistico vennero in quegli anni sottoposte a verifica storica indagando il formarsi di alcune ‘raccolte’ museali e riconoscendo un percorso che si era sviluppato in parallelo a quello della considerazione stessa della fotografia, e quindi delle fotografie[1545], ciò che aveva determinato negli ultimi decenni quello slittamento e poi scambio semantico tra i termini fototeca e archivio che più recentemente è stato considerato anche in termini epistemologici[1546]. Era quella un’ulteriore testimonianza del passaggio – credo irreversibile, dopo la mutazione digitale – della fotografia da puro strumento conoscitivo e ausilio mnemonico a prodotto culturale e materiale (di cultura anche materiale, cioè) a cui è ormai riconosciuta una valenza e quindi un valore di bene, con tutto quanto ne deriva in termini di mutate modalità di lettura, e di accesso, estese alle caratteristiche complessive del lavoro fotografico e degli oggetti che questo ha prodotto: alle fotografie. Ne è derivata una prospettiva ermeneutica più complessa e pertinente, compiutamente culturale, che implica il riconoscimento teorico e fattuale dell’opera fotografica non solo come bene culturale, quale forma particolare di documento/ monumento aperto e disponibile a letture plurime, ma anche quale prodotto e agente di una storia più intrecciata e complessa, a sua volta esito attuale di una cultura di massa fortemente segnata dalla fotografia e dalle altre forme di (ri) produzione e comunicazione tecnologica dell’informazione[1547].
La definizione dell’archivio come dispositivo e la discussione delle teorie che avevano portato a questa nuova concezione venne affrontata nel 2008 da Tiziana Serena[1548] in un contributo concettualmente molto articolato e complesso, che ha avuto il grande merito di sistematizzare per il lettore italiano i più stimolanti interventi a scala internazionale della Archival Science (Eric Ketelaar) a proposito di “attitudini e modalità operative di un sapere comune sugli archivi e sul loro funzionamento sociale, al di là delle concezioni disciplinari genealogicamente legate alla diplomatica”. Ciò che ne emergeva era la necessità di affrontare e definire alcune questioni teoriche e metodologiche fondamentali, “per misurare il ruolo dell’archivio come paradigma nello specifico delle sedimentazioni di fotografie”, augurandosi che queste riflessioni potessero “interessare anche il dibattito sugli archivi fotografici in ambito italiano”. Si trattava allora di ricondurre quelle sedimentazioni “al funzionamento dei dispositivi, dei quali è possibile tracciare alcune figure distinte che, rimandando all’insieme dei protocolli e delle prassi, delle misure e delle istituzioni, dei saperi e delle conoscenze, hanno lo specifico compito di governare, di ordinare e di determinare le opinioni e l’ordine dei discorsi sulla fotografia come accumulo, anche qualora questo non sia necessariamente spontaneo, ma abbia semplicemente e genericamente una ‘qualche unità di origine’ ”. Richiamo necessario ma segnato da qualche suggestione metafisica (“accumulo spontaneo”) e da una fascinazione forte per le ultime tendenze dell’archivistica ‘postmoderna’ (ampiamente richiamata nella densa bibliografia)[1549]; quella che (per citare Terry Cook) tendeva a “focalizzare sul contesto che sta dietro il contenuto”, ciò che appariva sacrosanto, fatta salva però la necessità di non dimenticare proprio quest’ultimo, specie a proposito di una fonte polisemica, polimaterica ma anche duramente referenziale come sono le fotografie[1550]. Ne derivava non solo una ingiusta disattenzione per il dibattito, anche italiano, specie nell’ambito degli studi storici in merito alle fotografie come fonti, ma anche una serie di affermazioni che proprio nel merito risultavano incerte e per questo discutibili; risultava infatti difficile condividere l’opinione che “considerare (…) la fotografia come parte integrata e integrante del dispositivo archivio” dovesse costituire la conditio sine qua non per “propendere definitivamente per uno studio di essa come fonte documentaria”[1551], mentre era innegabile che questa considerazione contribuisse ad accrescerne e riorientarne il contenuto documentale, come del resto la stessa studiosa riconosceva più oltre ritornando sul fatto che il “documento fotografico nel momento in cui viene collezionato o sedimentato in un contesto che per osmosi conferisce significati e autorità, ne acquisisce di nuovi.”[1552]
Questa concezione totalizzante (e quasi totalitaria) del dispositivo archivistico venne ribadita alcuni anni più tardi sostenendo che “il valore di documento di una fotografia non è determinato dalla sua natura, ma dalle sue relazioni con le pratiche di iscrizione. Io considero lo spazio dell’archivio come un dispositivo paradigmatico che produce strategie cognitive fondate sulla dualità ‘fotografia/ fotografie’, inestricabilmente legata alle iscrizioni connesse, nella forma di ‘arché-écriture’ [1553] e alle registrazioni; in sostanza: alle parole dell’archivio stesso.” [1554] Da questa visione post derridiana derivava per Serena che il valore documentario di una fotografia non può essere ascritto “a caratteristiche che sono universalmente riconosciute, ma invece a interpretazioni puramente storiche e culturali”, poiché “la natura di analogo della fotografia, insieme alla sua capacità di mostrare un evento, è una condizione necessaria ma non sufficiente per la sua trasposizione in documento”, che era un modo elegante per dire che l’oggetto e ciò che rappresenta devono essere accessibili all’enciclopedia di conoscenze di chi li considera; ciò che non pare troppo diverso da quanto affermavano antropologi e semiologi nei lontani anni Ottanta del Novecento[1555].
Il testo di Serena era stato presentato al secondo dei due convegni del progetto intitolato ai Photo Archives, che si erano tenuti a Londra e a Firenze nel 2009 [1556], in cui si affrontarono in una prospettiva nuova i molteplici aspetti del rapporto tra archivi fotografici e studi storico artistici. In apertura del proprio contributo al volume che raccoglieva gli atti di quei primi due incontri Costanza Caraffa aveva richiamato le suggestioni di André Malraux a proposito di una storia dell’arte come “histoire de ce qui est photographiable”, poi portate alle estreme conseguenze da Heinrich Dilly[1557], per estendere quindi il proprio sguardo all’insieme delle pratiche che informano l’archivio e determinano una sedimentazione di conoscenze di cui è indispensabile riconoscere il “potenziale epistemologico”. Richiamandosi agli studi di Terry Cook e di Joan M. Schwartz questo riconoscimento si accompagnava alla consapevolezza della ‘arbitrarietà’ ovvero della non neutralità[1558] delle operazioni condotte sui documenti conservati, dal che derivava che “negli archivi fotografici non troviamo solo informazioni, ma conoscenza (…) intere costellazioni di dati” che riguardano, con un concetto caro a Elizabeth Edwards[1559] , la “biografia” di ciascuna immagine fotografica, accrescendone di fatto la sua visibilità in quanto “oggetto materiale”. Era stato questo il passaggio cruciale di quel “material turn che ha caratterizzato gli studi sulla fotografia negli ultimi anni, portando a considerare le fotografie non solo come immagini bidimensionali ma come oggetti tridimensionali che esistono in una dimensione spaziale e temporale, in specifici contesti sociali e culturali.”[1560] Il quarto incontro del ciclo Photo Archives, tenutosi a Firenze nel 2011, era incentrato sulle “relazioni tra fotografia e idea di nazione, ma senza focalizzarsi su singole immagini iconiche per considerare ancora la dimensione dell’archivio”[1561], adottando la prospettiva indicata da Joan M. Schwartz, che faceva esplicito riferimento al concetto di “imagined community” di Benedict Anderson, particolarmente fecondo di sviluppi specie in area anglofona, qui utilizzato anche per la possibilità che offriva di “riconciliare i differenti significati di ‘nazione’.”[1562] Dal convegno fiorentino derivò anche, per iniziativa delle medesime curatrici, un numero monografico di “Ricerche di Storia dell’arte” rivolto ad un più ampio pubblico di studiosi[1563] in cui vennero raccolti alcuni fondamentali contributi dell’archivistica postmodernista e dell’antropologia visuale[1564] a proposito dei “presupposti fondativi della diplomatica e delle scienze archivistiche per misurare la specificità della fotografia nel contesto dell’archivio”, la cui incidenza culturale era riconosciuta “nella possibilità di offrire un supplemento di significato – un supplemento che è insito nella natura dei suoi materiali fotografici, nelle pratiche di scrittura che sono loro inerenti, e nella semantizzazione delle stesse fotografie.”[1565]
L’attualità delle indicazioni epistemologiche e metodologiche che caratterizzavano il Material Turn, specie nella sua declinazione archivistica, si rivelava determinante alle soglie della diffusione massiccia dei programmi di digitalizzazione del patrimonio fotografico storico e della sua immissione in rete, troppo sovente caratterizzata da inesistenti o insufficienti criteri di edizione che ne causavano una ulteriore, radicale perdita di identità, pericolosamente disponibile ad ogni risemantizzazione come all’oblio della propria materialità di oggetto. “Una situazione che è tardi per definire allo stato nascente, ma che pure non si è ancora stabilizzata”, come ricordava Dario Ragazzini introducendo un’importante raccolta di studi rivolti a quella che veniva variamente definita come storiografia digitale o storiografia di rete[1566] ovvero “storiografia che usa fonti digitali”[1567], mentre certo sarebbe (stato) meglio definirle “digitalizzate”, riconoscendo non tanto nuove modalità di produzione e comunicazione storiografica (ancora scarse) quanto le loro condizioni di trattamento e di acceso. Il contributo di Monica Gallai e Luigi Tomassini (Gallai et al. 2004) aveva affrontato nello specifico quelle fotografiche ricordando che “la fotografia storica in rete va vista come un capitolo specifico del problema più generale della digitalizzazione e circolazione in rete di materiale documentario di interesse storico, quindi non come un soggetto separato e avulso dal contesto e dai problemi che pone la documentazione iconografica e archivistica in rete”; questione che i due studiosi verificavano anche attraverso un sintetico excursus dei maggiori progetti internazionali degli anni precedenti, segnalando la condizione paradossale per cui in rete “il patrimonio archivistico e librario tradizionale è presente soprattutto attraverso una serie di strumenti destinati essenzialmente al reperimento delle opere e dei documenti, che vanno poi richiesti o consultati attraverso i canali tradizionali [mentre] per la fotografia accade il contrario [e] i fondi fotografici presentati su Internet sono quasi sempre accompagnati da una riproduzione digitale che permette di accedere alla gran parte delle informazioni fornite dall’originale.” Questo approccio referenziale, a cui pareva corrispondere la considerazione del web come “sostituto tecnologicamente avanzato di una rete archivistica prima inesistente”, celava “problemi non indifferenti di carattere metodologico” che si addensavano “attorno a tre poli, relativi rispettivamente al complesso della documentazione disponibile, alla gestione delle relazioni fra il documento originario e il contesto in cui è inserito, e infine al trattamento del singolo documento e delle relative informazioni di corredo”. Tutte questioni che avrebbero poi trovato un’efficace esemplificazioni nei casi di studio proposti in un successivo contributo nel quale Tomassini (2009e) riconosceva come il web, in modo non tropo dissimile dai media precedenti, offriva certo approcci divulgativi e magari superficiali, ma consentiva anche “percorsi di ricerca accurati, del tutto simili a quelli tradizionali dal punto di vista metodologico.”
In un quadro generale in costante mutamento il dibattito è ancora inevitabilmente in corso, ciò che non consente di darne conto nel dettaglio, ma credo sia utile richiamare almeno le opinioni espresse da Serge Noiret (2014) che affrontando il “Digital Turn” riconosceva quanto la rete avesse “rimesso in questione anche la conoscenza che si era costruita attorno all’apparato critico descrittivo e di riflessioni scientifiche che ruota attorno alla fotografia, al supporto che contiene le fotografie e, soprattutto, attorno alla loro conservazione negli archivi, fattore importante della sua leggibilità ma non certo l’unico nel mondo digitale.”[1568] A queste riflessioni credo si possano utilmente accostare quelle formulate da Roberto del Grande a partire dall’esperienza di gestione dei processi di catalogazione e messa online nell’ambito del SIRPaC del Friuli Venezia Giulia, nel quale confluiscono anche i dati dell’Archivio Multimediale della Memoria dell’Emigrazione Regionale. “La catalogazione – scriveva Del Grande – è oggi uno strumento privilegiato perché dà modo di osservare il proprio archivio da molti punti di vista e di mettere a disposizione di tutti, in primo luogo nel web, il frutto di queste osservazioni”[1569], attivando una politica di valorizzazione che assumeva come presupposto ineludibile quello della condivisione delle conoscenze, quindi anche della verifica dell’attendibilità dei dati di corredo e delle modalità di edizione, innescando così un processo virtuoso che risultava particolarmente efficace nel caso delle fotografie di famiglia. Un percorso di studio, valorizzazione e tutela certo favorito in modo determinante dall’utilizzo consapevole delle potenzialità della rete; una prospettiva che mostrava non pochi punti di tangenza con la Digital Public History, “la storia pubblica digitale filtrata dagli storici stessi ed orchestrata da ognuno con le sue memorie e le sue fonti del passato”[1570]; affrontata coniugando strumenti e metodiche storiche con quelle della più attrezzata antropologia e sociologia visuale ma senza dimenticare – infine – le cautele ancora recentemente espresse da Francesco Faeta, che invitava a distinguere tra intenzionalità del documento e disponibilità della fonte, da considerarsi a partire da una “accezione posizionale”, ben consapevoli di quanto sia “rilevante per l’elaborazione della propria riflessione e della propria narrazione”.[1571]
Un esempio significativo di applicazione metodologica di quelle indicazioni era già riconoscibile almeno in parte in una monografia che Faeta (2007) aveva dedicato alla produzione ritrattistica di Saverio Marra, nella quale, dopo averne ricostruito la formazione e la diversificata attività, analizzava la realtà sociale del paese “e, in particolare, il nesso inscindibile che lega il suo nucleo materiale e l’insieme delle sue elaborazioni simboliche”, chiedendosi in quali modi e con quali funzioni il farsi fotografare e le fotografie si inscrivessero in quella realtà, ben sapendo che risulta “a volte difficile comprendere a chi attribuire la responsabilità di una determinata scelta e soluzione figurativa”, se al fotografo o al soggetto ripreso. Ne risultava una fenomenologia di atteggiamenti e comportamenti non dissimile da altri analoghi contesti sociali ed economici, dai quali pareva emergere, ricorrente, un certo qual timore ‘metafisico’ nei confronti del ritratto fotografico che lo studioso circoscriveva al “mondo popolare del Mezzogiorno ottocentesco e della prima metà del Novecento, come per parte estesa del mondo primitivo coevo”. L’ipotesi non si poteva certo escludere ma andava avanzata forse con maggiore cautela, non solo considerando il fatto – testimoniato da migliaia di fondi fotografici pubblici e privati – che l’operazione non doveva poi essere ritenuta così rischiosa se molti aspiravano o almeno acconsentivano ad essere ritratti, ma che il timore della “cattura dell’anima” trovava credito e spazio anche presso intellettuali dei paesi più avanzati: valga per tutti il Balzac raccontato da Nadar[1572].
La riconsiderazione attuale dei rapporti materiali e simbolici tra fotografante e fotografato, delle ragioni culturali che rendevano possibile quell’atto e quei gesti resta problema complesso, da verificarsi ogni volta anche e forse soprattutto quando si pretende di fare un uso strettamente testimoniale di un corpus fotografico. Fu quello uno dei nodi centrali dell’analisi dell’opera fotografica di Scheuermeier che progressivamente emerse dagli studi sulle varie realtà regionali, ricavando dalla lettura dei diari e delle note di lavoro preziose indicazioni in merito alla disponibilità dei soggetti a essere fotografati o, meglio, ad esserlo in certe posture, in certe situazioni. Quei documenti rivelarono infatti il ricorso non occasionale alla ricostruzione e alla messa in scena, confermando quel “carattere spesso illusorio dello sguardo fotografico puro” già evidenziato da Giovanni Contini nel 1993[1573], ma che faticava ancora ad essere consapevolmente e criticamente considerato in alcuni dei contributi pubblicati nei primi anni del XXI secolo. Le questioni poste dal ricchissimo repertorio di Scheuermeier erano molteplici e riguardavano sia la fase della ripresa, in particolare le dinamiche tra i diversi attori presenti, sia la riedizione critica di quelle immagini. Aspetti e problemi certo determinanti per porre correttamente in relazione le fotografie con i diari e i questionari del grande linguista, ciò che solo di rado era avvenuto prima del 2007 con il volume sulla Lombardia occidentale. Qui, oltre a un paragrafo del saggio di Fabrizio Caltagirone e Italo Sordi comparve anche un puntuale e stimolante intervento di Ferdinando Scianna; nel primo, di carattere più descrittivo, si certificavano le buone relazioni intercorse tra lo studioso e i suoi soggetti, confermate dalle loro espressioni e gesti, tanto che “poco importa in fondo se ‘vere’ o messe in scena: crediamo insomma che le foto di Scheuermeier, quando sono ‘costruite’, lo sono con la attiva collaborazione delle persone ritratte”[1574]; distinzione invece non di poco conto per una corretta lettura di quelle immagini. Scianna invece riprendeva il discorso e la riflessione avviati da Roda nel 1999[1575] in merito alle possibili filiazioni propriamente fotografiche di Scheuermeier, provandosi a riconoscerne alcune specificità derivate non solo da una dichiarata concezione ostensiva e quasi di traccia “di una realtà non ritoccata” (Scheuermeier), priva quindi delle capacità sintetiche e di astrazione proprie del disegno, ma anche “dalla sua origine sociale e geografica”, caratterizzata da una cultura visiva che a ben guardare si riconosce senza troppe difficoltà nello sguardo da lui portato sulle cose. Una più circostanziata analisi di questi aspetti, condotta allo scopo di studiarne la formazione di fotografo, i modi e le soluzioni narrative adottate in fase di ripresa e poi di edizione delle immagini venne quindi condotta da chi scrive[1576], considerando anche il mutato e straniante contesto di ricezione costituito dalle attuali, doverose, riedizioni integrali del corpus, che proprio in quanto tali scardinavano le scelte da lui operate per il Bauernwerk; ciò di cui non paiono aver tenuto conto i curatori dei volumi più recenti[1577], che pur essendo nominalmente dedicati al tema della ‘rappresentazione’ che Scheuermeier fece del lavoro agricolo hanno ristretto (e sia detto senza ridurne la rilevanza) la loro attenzione al cosa e mai, neppure incidentalmente, al come e magari al perché delle scelte fatte dallo studioso in fase di ripresa e poi di edizione.
Un altro importante ambito di studi, ricco di riflessioni anche metodologiche, è stato quello che ha guardato alla storia psichiatrica e antropologico-criminale, entrambe unificate (almeno) da quella concezione della fotografia come “esperimento fisiologico offertoci dalla natura”, di cui scriveva il freniatra Arrigo Tamassia nel 1878. Come accadeva per altre scienze di formazione ottocentesca, anche in questi casi il ricorso sistematico alla fotografia aveva rappresentato una delle componenti essenziali per la stessa definizione disciplinare, tanto da poter dire che “l’immagine fotografica del pazzo diventò l’anatomia mitica della psichiatria.”[1578] Le origini della fotografia psichiatrica erano state oggetto di attenzione già verso la fine degli anni Settanta del Novecento, nel più generale clima politico di quegli anni e più in particolare sulla scia del movimento di Psichiatria democratica promosso da Franco Basaglia. Secondo una dinamica culturale nella quale era l’attualità a stimolare l’interesse storico per il tema, solo dopo che la fotografia in atto si era misurata con la condizione manicomiale in una serie di importanti realizzazioni[1579] si manifestarono l’interesse per le fotografie prodotte dalle istituzioni totali di uno storico sui generis come Gilardi[1580], i richiami alle collezioni lombrosiane contenuti nei primi annali einaudiani del 1979[1581] e soprattutto una mostra come Nascita della fotografia psichiatrica[1582], organizzata nel contesto della Biennale di Venezia e considerata dallo stesso Gilardi “l’unico esempio di esposizione seria e accurata (…) della storia della fotografia in Italia”. Nello stesso anno, a Roma, Renato Nicolini promosse Inventario di una psichiatria[1583]: sviluppando un’idea di Basaglia, scomparso qualche mese prima, la retrospettiva assumeva la forma di una operazione di mappatura del percorso compiuto dall’immagine della follia tra Otto e Novecento. Erano realizzazioni che per molti versi anticipavano le letture fornite da Georges Didi-Huberman[1584] e che avrebbero poi fatto scuola; confermate infine dal recente ritrovamento dei volumi della Iconographie Photographique de la Salpêtrière nella Biblioteca dell’Ospedale Psichiatrico di San Lazzaro di Reggio Emilia[1585].
Le raccolte antropologiche del Museo Lombroso di Torino erano state per la prima volta rese note al pubblico dei non specialisti da Giorgio Colombo nel 1975[1586] e fu in conseguenza dell’incontro con questo studioso, e con quell’opera, che quei reperti entrarono a far parte del fascinoso repertorio iconografico assemblato da Ando Gilardi negli anni che segnarono il passaggio dalla Storia sociale (1976) a Wanted! (1978). Mentre nel primo non vi era ancora traccia alcuna di quelle immagini e del loro significato[1587], nel secondo esse vennero trattate ampiamente, riscattandole dall’oblio in cui le avevano lasciate le “storie ‘ufficiali’ che non sopportano il peso della [loro] autenticità” (dalla Presentazione) sebbene costituissero “una delle più straordinarie raccolte mondiali che interessano la storia delle fotografia come tale.”[1588] Erano quelli anni in cui le funzioni e i ruoli delle istituzioni coercitive costituivano uno dei punti focali del dibattito culturale e politico: era del 1968 la traduzione itaiana di Asylums di Erving Goffman[1589] in cui per la prima volta si definiva il concetto di “istituzioni totali”, mentre datava al 1976 quella di Sorvegliare e punire: nascita della prigione di Michel Foucault[1590] e due anni più tardi sarebbe stata emanata la cosiddetta Legge Basaglia[1591]. In quel contesto, che si nutriva ancora del fervido clima del decennio precedente, poi affossato dalle varie forme di terrorismo, oltre a una valenza specifica il tema ne assumeva una specificamente culturale e propriamente politica, ciò che può spiegare in parte le semplificazioni e le approssimazioni con cui venne affrontato quello straordinario materiale, poco dopo sottoposto a una corretta analisi da parte di uno studioso come Adalberto T. Caffaratto (1980)[1592]. Forse anche in conseguenza della chiusura delle collezioni per il riallestimento in nuova sede del Museo (con varie conseguenze)[1593] questo tema venne quasi dimenticato sino al 2005, anno di pubblicazione del numero monografico di “Locus Solus” intitolato a Lombroso e la fotografia[1594], con un ricco apparato iconografico. Ne risultava una riflessione, ben esplicitata dall’intervento di Silvana Turzio[1595], sulle difficoltà poste dal definire un approccio efficace a quella documentazione stante la sua eterogeneità di contenuti, origini e ordinamenti semantici. Da qui la scelta dei curatori di offrire un’antologia di immagini su base tipologica, che consentivano però di avanzare alcune considerazioni in merito allo specifico uso delle fotografie, apparentemente circoscritto alla registrazione morfologica; una prassi che avrebbe anche potuto costituire elemento di smentita della stessa teoria fisiognomica lombrosiana, “fino a diventare – sottolineava Renzo Villa – la prova della sconfitta, ‘non riuscendo a fissare il delinquente nato con certezza diagnostica’ ” [1596]; più efficace e ‘positivo’ risultava essere stato l’interesse di Lombroso per la fotografia medianica o spiritica, lì discussa da Alessandra Violi[1597], ma con un approccio che appariva riduttivo, attento alle sole valenze ‘estetiche’ di quelle immagini[1598]. Il quadro teorico e metodologico più adatto ad affrontare i problemi posti da questi materiali venne individuato nel concetto di fotografia come oggetto sociale utilizzato da Nicoletta Leonardi (2015) nel proprio saggio su quelle raccolte fotografiche, ora meglio comprensibili anche in conseguenza del progetto di riordino e parziale catalogazione condotto su questi importanti quanto eterogenei nuclei di immagini. Come ricordava la studiosa riferendosi ai più recenti contributi, “le migliaia di fotografie raccolte da Lombroso e dai suoi allievi hanno dato alla maggior parte di coloro i quali le hanno fin qui studiate l’impressione di non poter ‘rinviare a nessuna storia, né grande né piccola, a nessuna scena o alcun fatto’, di non poter raccontare niente ‘non avendo nulla di cui render conto’, [proprio] perché non ci si è soffermati a sufficienza ad analizzarle, a studiarle una per una come oggetti scientifici e come oggetti sociali mettendole in relazione agli altri pezzi del complesso mosaico di cui esse fanno parte. Uno degli scopi di questo mio breve scritto è quello di cominciare a colmare questa lacuna”. Si trattava quindi – adottando le indicazioni teoriche e metodologiche formulate da Elizabeth Edwards – di considerare ogni fotografia “come un oggetto materiale dotato di una sua ‘vita sociale’, di una sua biografia” che la può collocare in una rete di relazioni e di funzioni che devono essere ricostruite e comprese in termini di produzione e ricezione, in particolare qui operando per ricostruire le “serie di fotografie giunte come tali a Lombroso e ai suoi allievi, e successivamente smembrate a causa del metodo comparativo basato sul raffronto di immagini fra loro diverse a supporto della ricerca e della didattica caratteristico della scuola lombrosiana (…) oggetti fotografici che non riflettono soltanto gli interessi e le volontà di un singolo individuo, ma testimoniano il dialogo fra scienziati all’interno di reti istituzionali operative nell’ambito dell’antropologia criminale, della psichiatria e della medicina legale lungo l’arco di quasi un secolo.”[1599]
Il rilievo assunto dalla fotografia nella messa a punto epistemologica della moderna storia dell’arte è stato riconosciuto da tempo e molti sono gli studi che hanno affrontato questo argomento, accostando progressivamente alle questioni disciplinari anche quelle relative al rapporto tra produzione artistica e fotografia. Alle ricerche relative ai rapporti storicamente dati tra fotografia e metodologia si sono affiancate quelle connesse alla sua funzione di strumento e dispositivo di conoscenza del patrimonio storico artistico e, in misura minore, archeologico e architettonico, con interventi che hanno interessato per più ragioni il tema degli archivi fotografici.
Ormai acquisiti i presupposti generali, gli studi più recenti si sono orientati all’analisi di specifici casi di studio, con una predilezione per le collezioni fotografiche di alcuni eminenti storici dell’arte. Le questioni connesse al primo affacciarsi in Italia del ricorso alla fotografia nelle pratiche storico artistiche sono state studiate da Marco Mozzo, che ha riconosciuto quanto “il settore della tutela e della salvaguardia del patrimonio monumentale” avesse prontamente accolto i vantaggi derivanti dall’uso della nuova tecnica, in virtù di caratteristiche che “paiono subito agli occhi degli esperti come le più adatte, rispetto alle tecniche di riproduzione più tradizionali, ad accogliere quelle istanze di rigore filologico e scientifico che nel corso dell’Ottocento stavano progressivamente informando le politiche di conservazione dei principali Stati europei”[1600]. Gli approfondimenti successivi hanno ulteriormente definito e verificato, specie alla grande scala, il rapporto tra tutela, restauro e uso della fotografia, segnalando il cruciale “passaggio dalla raccolta di fotografie intesa come laboratorio personale dello storico dell’arte ai primi tentativi di costituzione di un archivio ‘istituzionale’ come supporto all’inventariazione ed alla catalogazione. Un contesto ricostruito da Donata Levi[1601] a partire dal ruolo assegnato alla documentazione fotografica nei primi grandi cantieri di restauro pittorico di cui fu responsabile Giovanni Battista Cavalcaselle, la figura centrale di quella stagione in cui nacque “e fin dagli inizi del cantiere, l’idea di un archivio – e di un archivio centralizzato.” Nella ricostruzione storica di quelle modalità un momento cruciale è stato rappresentato dallo studio delle raccolte fotografiche di singoli studiosi, ciò che ha consentito di far emergere analogie e differenze metodologiche tra i primi tra loro che poterono confrontarsi con quel nuovo mezzo e quelli ormai nati con la fotografia, che avviarono la propria formazione e poi le proprie ricerche in anni in cui quel genere di documentazione non solo era ormai ampiamente disponibile ma poteva essere realizzata anche in prima persona. Esemplare in tal senso la vicenda di Pietro Toesca, uno storico dell’arte formatosi ormai pienamente nell’epoca di quella compiuta riproducibilità tecnica dell’opera d’arte prefigurata da Wilhelm Lübke ed Hermann Grimm già negli anni Sessanta del XIX secolo[1602]. Al grande storico dell’arte è stato intitolato un volume (Callegari et al. 2009b) che costituiva l’esito di un progetto di ricerca avviato nel 2006 dall’ICCD, che conserva il fondo dello studioso; nelle parole delle curatrici il progetto nasceva con l’obiettivo di “comprendere in che modo gli studiosi si pongano dinanzi alla fotografia in quello specifico momento storico, allorché tutto in fondo è ancora in gioco.”[1603] A queste intenzioni corrispondevano i testi lì raccolti, introdotti da un ampio saggio di Edith Gabrielli[1604] che svolgeva il doppio ruolo di inquadramento generale e di sintesi dei diversi contributi. Ne risultava una ricostruzione problematica e attenta, che utilizzava tanto la documentazione archivistica testuale quanto quella fotografica, analizzata con grande sensibilità ancora da Marco Mozzo nel proprio saggio[1605]. Emergeva così il costituirsi di una prassi innovativa, che intendeva ormai la fotografia come possibile strumento di lettura critica sul campo, affidato alla competenza congiunta del fotografo e dello storico dell’arte, uniti “da un rapporto molto simile a quello riscontrabile in ambito cinematografico tra regista e operatore di macchina”; avviando una prassi che avrebbe poi caratterizzato “tutte la campagne eseguite dagli operatori del Gabinetto Fotografico Nazionale.”[1606]
Più dispersi risultavano i contributi riguardanti i rapporti con le fotografie di un altro storico dell’arte come Iginio Benvenuto Supino. Era stato Italo Zannier, allora docente a Bologna, a richiamare per primo l’attenzione sul fondo conservato presso quella Università, studiato sotto gli aspetti conservativi da Silvia Berselli per la sua tesi di laurea[1607] e illustrato da Paolo Costantini pochi anni più tardi nel proprio contributo a un volume collettaneo[1608]. Solo a più di dieci anni di distanza, in occasione dello spostamento del Dipartimento di Arti Visive nella nuova sede, venne però avviato un progetto conoscitivo dell’insieme dei fondi della Fototeca del Dipartimento[1609], ciò che consentì di delinearne in maniera convincente i vari nuclei costituenti e di avviare una prima ricostruzione storica delle vicende del Fondo Supino[1610]. Mentre gli eredi dello storico dell’arte minacciavano di ritirare la donazione in conseguenza della mancata intitolazione allo studioso del nuovo spazio, ma anche delle pessime condizioni di conservazione dei materiali, si avviarono una serie di iniziative dedicate alla sua figura, considerandone anche gli aspetti legati all’uso della fotografia nello studio e nella didattica della Storia dell’Arte[1611] come nell’editoria di settore, in particolare lo stretto rapporto intrattenuto con gli Alinari[1612]. Un contributo alla conoscenza del tema era già venuto dalle ricerche di Paolo Giuliani (2010), che riconobbe un più che consistente nucleo di lastre riferibili a Supino comprese nel fondo fotografico di Francesco Malaguzzi Valeri della Soprintendenza per i Beni Storico artistici di Bologna, legate al suo progetto di costituzione in città di un “archivio fotografico artistico” sul modello del Ricetto fotografico di Brera avviato da Corrado Ricci ed ora ‘restituite’ da Giuliani con una attenta lettura filologica rivolta sia a identificarne la paternità archivistica sia a ricostruirne la ‘biografia’; ciò che consentiva di accrescere la nostra conoscenza dell’insieme di variabili e varianti che hanno caratterizzato l’uso della fotografia in ambito storico artistico nei primi decenni del XX secolo[1613]. Con Supino si era laureato a Bologna Aldo Briganti, le cui fotografie, raccolte per la tesi di laurea su Il Raffaellismo a Bologna (1914) costituiscono a oggi i materiali di più antica datazione della fototeca del figlio Giuliano, a sua volta laureatosi a Roma con Toesca nel 1940, oggi conservata presso il Centro Europeo di Ricerca sulla Conservazione e il Restauro di Siena[1614]. Ciò che interessa sottolineare qui a proposito di questa raccolta, come di altre analoghe di studiosi della stessa generazione, non è più la sua pura, scontata esistenza, ma la necessità sempre più sentita e condivisa, di considerarle come oggetti complessi, come “spazi del sapere” la cui indispensabile catalogazione non costituisce più (ammesso che possa esserlo mai stato) un semplice strumento descrittivo per l’accesso ai dati, ma una delle principali modalità di studio e di conoscenza della cultura del soggetto produttore[1615]. Esemplari in tal senso gli studi dedicati alla ‘fototeca’ di un altro allievo di Toesca come Federico Zeri, che a suo volta proprio a casa Briganti, nel 1944, aveva conosciuto Roberto Longhi. Al suo importante archivio fotografico venne dedicata una prima mostra nel 2009, promossa dalla Fondazione a lui intitolata[1616], nella quale erano presentati anche nuclei di fotografie di diversa provenienza, allo scopo di ricollocarle secondo “la ferrea coerenza dell’archivio cartaceo cui Zeri aveva dato un’impronta leggibile e filologica.”[1617] Una seconda occasione di approfondimento venne nel 2011 con la pubblicazione di un volume incentrato sulla documentazione fotografica di opere di pittura italiana riferibili a Lazio, Toscana, Marche, Umbria ed Emilia Romagna[1618], con contributi orientati alla ricostruzione dei meccanismi di formazione della fototeca e su alcuni casi critici che mostravano quanto le fotografie, ma ancor più il dispositivo complesso dell’archivio di Zeri avessero una funzione propriamente epistemologica[1619], lavorando con le immagini (e i modi della loro organizzazione) per considerare e comprendere il procedere stesso dello studioso. Nel 2014 è stata presentata una nuova serie di affondi storico critici[1620] caratterizzati dalla duplice considerazione della singolarità del fototipo e dell’opera descritta; fondata sulla “straordinaria attendibilità dei dati attinenti alle opere riprodotte, grazie al magnifico lavoro di catalogazione compiuto da Zeri stesso.”[1621] Sulle nuove prospettive, anche metodologiche e critiche, indotte dalla catalogazione online e dal passaggio dall’analogico al digitale interveniva in quella occasione Massimo Ferretti[1622] ribadendo la “necessità di non abbandonare i ferri del mestiere dello storico dell’arte, ma di farne buona manutenzione, usando bene anche quelli nuovi”, poiché essi possono “servire anche per ricerche di tipo iconografico o topografico che non erano consentite allo stesso Zeri. La digitalizzazione e l’informatizzazione hanno appianato piste che potevano riuscire accidentate perfino per la sua mostruosa memoria.” Accanto a questi vantaggi indubbi Ferretti richiamava, aggiornandole, alcune riflessioni già ben presenti agli albori della comparsa della fotografia nel laboratorio dello storico dell’arte: si trattava di valutare nel nuovo contesto i rischi “che la perdita di corpo fisico della riproduzione, trascinandosi dietro ogni residuo referenziale, sta avendo per una disciplina che non può essere intesa soltanto come studio delle immagini (mentali, ecc.) ma è innanzitutto conoscenza storica di cose materialmente realizzate e materialmente trasmesse”. Considerazioni (e preoccupazioni) che è possibile estendere tali e quali alla storia della fotografia; alla conoscenza, tutela e valorizzazione di tutto il nostro patrimonio fotografico. Proprio a quelle cose “materialmente realizzate e materialmente trasmesse” erano dedicati i sedici “percorsi” di approfondimento compresi nel volume; risultato di “una interpretazione compiuta da chi, per anni, ha avuto la possibilità – e il privilegio – di lavorare sulle foto dello studioso, al progetto di digitalizzazione e catalogazione (…).”[1623] L’insieme mostrava bene come l’integrazione di metodologie diverse e la considerazione delle fotografie nella loro materialità di oggetti che portano su di sé le tracce della propria storia consenta di ottenere risultati non altrimenti perseguibili, mostrando anche come lo studio attento dei materiali di una fototeca d’arte potesse (forse più di altre tipologie archivistiche) offrire importanti contributi conoscitivi e critici per una storia della fotografia intesa in senso compiutamente culturale[1624].
Un bilancio delle più recenti acquisizioni critiche e metodologiche a proposito del rapporto fra fotografia e storia dell’arte era stato tracciato da Ferretti in apertura del convegno per i vent’anni della rivista dell’Archivio Fotografico Toscano[1625], a partire dalla constatazione, quasi una confessione affettuosa (e certo non di circostanza), che “la fotografia è il principale [dei] ferri del proprio mestiere”.[1626] Le considerazioni erano però di ordine più generale e teorico, in un sintetico profilo che intendeva legare storia della fotografia e storia del’arte a partire dalla necessaria cautela “nel tracciare i confini fra fotografia ‘artistica’ e diversi tipi di fotografia ‘documentaria’. Separazioni del genere non aiutano a far crescere una storia della fotografia che sia adeguata alle reali esigenze di specificità.” Per Ferretti però il necessario riconoscimento della sua peculiare “natura di immagine” non poteva “portarla definitivamente fuori dalla storia dell’arte”, sebbene la fotografia si muovesse in un “raggio di consumo culturale” ben più ampio. Non si trattava insomma di aggiungere l’ennesimo tassello alla vieta questione del valore artistico della fotografia ma di individuarne possibili ragioni e fondamenti per una sua più efficace storiografia. Con un richiamo decisivo Ferretti ritrovava le ragioni “dell’affinità fra una storia della fotografia che non sia tutta rivolta ai risultati d’arte ed una disciplina che ha più lentamente sedimentato le sue pratiche ed i suoi metodi come la storia dell’arte [nella] nozione di patrimonio, con la dimensione concretamente materiale, fisicamente tangibile, non esclusivamente affidata alle gerarchie di valore estetico”. Da queste intersezioni emergevano indicazioni ulteriori, poiché lo storico dell’arte “è tenuto a conoscere l’evoluzione tecnica dei mezzi di riproduzione” mentre “lo storico della fotografia non deve ignorare certe strutture caratterizzanti e persistenti del linguaggio figurativo. Si può discutere sui dettagli o sulle strategie di approccio, ma resta il fatto che la fotografia è contrassegnata anche da convenzioni figurative di altra origine e di più lontana estrazione. (…) per converso non andrà mai perso di vista che alcuni tipi di fotografia documentaria (di certo la documentazione artistica) hanno avuto ricadute profonde, hanno cambiato i modi di percezione. La buona storia dell’arte fornisce strumenti utili a chi si occupa di fotografia senza sentire i morsi del giudizio di valore. Ci ricorda che ogni forma di fotografia, anche quella più dichiaratamente oggettiva, è sempre un linguaggio, con le sue regole.”
Riflessioni che avrebbero meritato maggiore attenzione e ulteriori approfondimenti proprio da parte di chi si occupa prevalentemente di fotografia e della sua storia, a partire dalla considerazione tanto determinante quanto disconosciuta della distanza paradigmatica, epistemologica, che separa l’archivio dello storico dell’arte da quello della fotografia, per il quale ogni fototipo è prima di tutto ed essenzialmente documento e fonte di sé stesso, prodotto culturale, ed eventualmente estetico, il cui interesse referenziale è per molti versi secondario, quando non addirittura ininfluente. L’archivio dello storico della fotografia rimanda ad altro da sé in modi e con dinamiche ben distinte e separate da quello dell’arte, qualificandosi semmai come una vera e propria collezione[1627], eventualmente mediata da intenti disciplinari e magari didattici, come è nel caso esemplare dei materiali appartenuti a Zannier acquisiti dalla Fondazione di Venezia[1628].
A quella che possiamo definire come fotogenia delle opere d’arte, distinguendola dalla più specifica fortuna visiva, sono stati dedicati una serie di interventi che hanno aperto un vasto campo di studi culturali, per buona parte inesplorato. Si tratta certo di un aspetto particolare del più vasto ambito della documentazione del patrimonio artistico, qui attento alle ragioni che hanno determinato il successo di alcune opere presso il grande pubblico a prescindere quasi dal loro valore specifico rispetto all’intero corpus di quell’autore. Un fenomeno che pare avere coinvolto prevalentemente opere scultoree, come se lì, intorno alla restituzione della tridimensionalità dell’opera, sorgessero più elementi da considerare, più questioni non immediatamente risolvibili in termini di ‘semplice’ documentazione; più disponibili a tradursi in narrazione concedendo uno spazio (per quanto asimmetrico) al dialogo tra autori. Non più e non solo problemi di efficace restituzione delle cromie, come nella documentazione pittorica, ma variabilità e significato dei punti di vista, delle illuminazioni, delle inquadrature. Fotografare la scultura da sempre ha posto maggiori problemi e offerto maggiori occasioni di riflessione, come mostrano anche i numerosi saggi e cataloghi di mostre sul tema[1629] e da noi gli studi esemplari di Paola Mola su Medardo Rosso o quelli di Maria Francesca Bonetti sulla fortuna fotografica del gruppo del Laocoonte[1630], nei quali il testo critico e le accurate schede catalografiche che lo corredavano erano ottimi esempi di applicazione filologica finalizzata alla comprensione della documentazione dell’opera quanto della fotografia, delle sue funzioni e dei suoi usi, qui colti in un momento emblematico quanto aurorale. A partire dalla constatazione che quelle immagini non fossero mai entrate “nello studio, nell’interpretazione, nell’analisi e nella ricostruzione filologica del Laocoonte vaticano”, Bonetti individuava le ragioni del fenomeno nel “ruolo più specificamente retorico e [nella] funzione essenzialmente celebrativa e divulgativa che le prime fotografie del Laocoonte svolsero nell’ambito del gusto, delle conoscenze e della diffusione culturale dell’epoca (…) un uso molto popolare, in un certo senso analogo a quello delle numerose piccole versioni del gruppo in bronzo e in terracotta.”
Di fortuna fotografica si poteva parlare, anche se in termini derivativi e più immediatamente funzionali, anche per alcuni cicli pittorici di Giotto, sui quale conversero alcune tra le prime campagne documentarie della storia della fotografia italiana, ora studiate nelle loro ragioni e nei loro esiti. Quella padovana realizzata da Carlo Naya negli anni Sessanta del XIX secolo era stata presentata a suo tempo da Paolo Costantini (1985c), ma il tema è stato ripreso più di recente da Sara Filippin[1631] con più attrezzati strumenti filologici nell’ambito di un progetto biennale di ricerca dell’Università di Padova dedicato a Naya, avviato nel 2006. Il serrato confronto tra fonti testuali e iconiche ha consentito alla studiosa di definire meglio il contesto e le ragioni di quei rilevamenti, rimettendo in discussione la “presunta precocità e lungimiranza padovane nell’uso della fotografia nei compiti di tutela”, specie per quanto riguardava il ruolo di Pietro Selvatico. Questa ridefinizione si fondava sulla corretta datazione delle “prime fotografie mai realizzate su quegli affreschi”, risalenti al 1863-1865 cioé ben prima di quanto sostenuto da Costantini[1632], che aveva individuato in Selvatico il committente mentre “i documenti rintracciati confermano quanto i materiali comunicano fin dal primo sguardo, cioè che quelle ipotesi mancavano dei motivi sostanziali per trovare credito.” Anche Costanza Caraffa avrebbe poi fatto riferimento a quella stessa campagna, sebbene per ragioni in parte diverse, studiando le stampe conservate nella Photothek del Kunsthistorisches Institut di Firenze per tracciarne una biografia ‘commerciale’ quanto culturale, destinata a comprendere da chi furono acquistate e come pervennero all’istituzione fiorentina, riconoscendo che “le fotografie sono divenute non solo rappresentazioni di opere d’arte, ma cose in sé stesse: sono diventare autonomi oggetti di ricerca.”[1633] Era l’assunzione della complessità strutturale (referenziale e culturale, materiale e tecnologica) della fonte fotografica che consentiva di aumentare la profondità dello spazio significante, consentendo di comprendere meglio e più a fondo lo stesso referente, la cosa rappresentata, come dimostrava lo studio della campagna documentaria dei cicli affrescati di Assisi su cui ritornava Marco Mozzo (2011), che sulla base di nuove indagini e ritrovamenti poteva precisare e approfondire gli esiti illustrati nei suoi contributi precedenti, in particolare per quanto riguardava il ruolo svolto da Giovanni Battista Cavalcaselle, sino ad avanzare “forti perplessità sulla tradizionale interpretazione di restauro filologicamente rigoroso che si è soliti riconoscere agli interventi cavalcaselliani.”
La necessità di estendere le conoscenze sull’uso della fotografia ha portato a considerare sistematicamente anche i rapporti tra storiografia artistica e imprese editoriali, nella consapevolezza in più occasioni ribadita da Massimo Ferretti che “nella storia della riproduzione delle opere d’arte, la vera cesura non corrisponde all’avvento della fotografia, ma a quello della sua riproduzione tipografica.”[1634] Un processo che si avviava ad essere tra le componenti non secondaria della cultura di massa; luogo di incontro “fra l’uso della fotografia degli storici dell’arte e quello del ‘pubblico’ (…), condizione del loro reciproco sviluppo”; un fenomeno in cui la dimensione quantitativa generava modificazioni anche qualitative: “la riproduzione della riproduzione segnò insomma una perdita conoscitiva, ma determinò anche una trasformazione di larghissima incidenza sociale (…). Fu la spinta colossale e diffusa che riorganizzò l’immagine del passato, la memoria, perfino l’esperienza scolastica. (…) La riproduzione fotografica riesce a trasformarsi in memoria delle cose assenti.”[1635] Era su questi presupposti che si fondava il progetto Le illustrazioni nelle riviste d’arte realizzato dal Laboratorio delle Arti Visive della Scuola Normale Superiore di Pisa diretto dallo stesso Ferretti, avviato nel 1995 con la schedatura sistematica dei corredi fotografici della rivista di Ugo Ojetti, intitolato a La fototeca di Dedalo e curato da Miriam Fileti Mazza. In quella prima occasione venne realizzata una banca dati[1636] il cui modello concettuale e operativo, in parte aggiornato nel 2014, avrebbe poi costituito il punto di riferimento per la successiva impresa intitolata ad “Emporium”, sempre per la cura di Fileti Mazza ma ora caratterizzata da una analisi integrata delle illustrazioni e dei testi, ciò che ha determinato una più complessa pubblicazione dei dati e dei documenti, rendendo disponibili online non solo le banche dati relative alla fototeca, agli articoli e alle pagine pubblicitarie ma anche la rivista nella sua interezza[1637]. Negli anni successivi il tema della diffusione tipografica dell’immagine delle opere d’arte è stato parzialmente ripreso in alcuni approfondimenti monografici[1638] e ha rappresentato l’argomento del progetto di ricerca Arte moltiplicata[1639], finanziato dal MIUR, a cui hanno collaborato le università di Firenze, Milano, Roma Tre e Udine. Gli aspetti considerati e restituiti dal volume collettaneo in cui si presentavano gli esiti di quei lavori spaziavano dall’individuazione di tipologie e generi alla cultura fotografica come vettore di informazioni sull’arte; dai modi della circolazione dei modelli della fotografia, tra editoria di genere e specialistica, all’utilizzo di opere d’arte novecentesche nella pubblicità e nelle fotografie di interni sulle pagine delle riviste di design e di moda. Certamente – come dichiaravano i curatori nell’Introduzione – tutti “temi di discussione critica e di fortuna visiva delle opere (…) abitualmente poco affrontati dagli storici dell’arte. La scommessa era di capire come si sia sviluppata un’idea intorno all’opera moderna e al suo creatore esterna allo stretto circuito degli attori e dei fruitori del sistema dell’arte”, basandosi sulla “moltiplicazione fotografica dell’immagine”. Quasi un’ulteriore smentita delle teorie benjaminiane: la descrizione puntuale di un fenomeno che potremmo dire della ‘ricostruzione dell’aura’ dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tipografica, attuata specialmente mediante l’assunzione dell’artista nello star system. Quell’insieme di contributi delineava una serie di contesti e problemi di notevole interesse ma soffriva di una disomogeneità di fondo[1640] e il lettore sentiva, forte, l’assenza di un intervento di sintesi, così come mancava una sufficiente, necessaria considerazione per quella che avrebbe dovuto essere una delle questioni nodali: la ricezione da parte del pubblico; solo accennata per agli anni più prossimi, augurandosi che potesse “trovare uno sviluppo in future ricerche sul mercato dell’arte contemporanea.”
Condotte nell’ambito dello stesso progetto ma caratterizzate dall’inclusione delle “riviste di storia della fotografia”[1641] tra le aree di scandaglio, furono le ricerche pubblicate in un numero di “Studi di Memofonte” per la cura di Barbara Cinelli e Tiziana Serena, che qui interessa considerare specialmente per il richiamo esplicito alla nozione complessa di “storia visiva della contemporaneità” e per gli aspetti metodologici che ne vennero fatti derivare, ponendo al centro della loro “attenzione critica (…) le immagini fotomeccaniche delle opere, nella loro fattualità, verificate con gli strumenti che la filologia riserva alle fonti primarie, con lo scopo di mettere a punto un modus operandi critico, per sollecitare chi studia l’opera, congelata spesso nel momento della sua nascita e creazione, al confronto con i problemi del suo consumo visivo, della sua ‘biografia sociale’ secondo la lezione dell’antropologia, che può diventare ‘biografia politica’ poiché l’uso dell’immagine fotografica, con la sua carica di verità documentaria e di trasferimento apparentemente innocuo dei significati, è parte di un campo di forze mai neutre rispetto alla storia che le determina.”[1642]
Due mostre internazionali realizzate nel 2009 e nel 2011 affrontarono il tema della ricostruzione dell’immagine dell’Italia quale si era manifestata in Europa nella fase di passaggio dalle tradizionali tecniche calcografiche alla prima produzione fotografica. Entrambe si erano proposte di dar conto della sostanziale permanenza di stereotipi, specialmente forti nel caso della rappresentazione delle figure e dei ‘tipi’ in costume, con continui travasi e prestiti tra pittura e fotografia, come nel caso di Edmond Lebel[1643], ma anche – ormai a cavallo tra XIX e XX secolo – nelle disparate declinazioni del “Sogno pittorialista”. Nella prima di quelle mostre, Voir l’Italie et mourir[1644] al parigino Musée D’Orsay, l’esposizione era organizzata in sezioni articolate su un duplice registro: ad una prima parte che leggeva in parallelo ambiti e tecnologie ne corrispondeva una seconda incentrata su temi specifici quali il Risorgimento, “L’oeil archéologique”, “Peuple italien et modèles pour artistes” o “Rêverie pictorialiste”, a cui rimandavano altre mostre parallele e minori che ne integravano i temi e il percorso, come la piccola monografica dedicata a Ernest Hebert[1645]. Dalle suggestioni della mostra parigina derivò la successiva esposizione di Wuppertal intitolata alla Bella Italia[1646], ancora costruita intorno a una serie di confronti iconografici condotti però con opere provenienti da musei e collezioni tedesche, dove l’espressione assunta come titolo, forse inappropriata al periodo storico considerato, suggeriva un sentire che collegava XIX secolo e contemporaneità, anche se poi questa non era testimoniata dalle opere esposte, che ruotavano tutte intorno alla Sehnsucht mitteleuropea, resa attraverso il dialogo e il confronto tra molteplici forme espressive: fotografia, pittura e letteratura.
Il tema godeva in quegli anni di un rilevante interesse anche in Italia dove per la duplice occasione delle celebrazioni per i centocinquant’anni anni dell’Unità e i cento della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, venne allestita nel 2011 la mostra Arte in Italia dopo la fotografia: 1850-2000, realizzata con opere di provenienza museale; da una collezione cioè che si era formata “dopo la fotografia” ed essendo questa “una chiave di lettura (…) applicabile a entrambi i secoli.”[1647] La sequenza dei contributi in catalogo apriva con un testo di Marina Miraglia[1648], “curato immediatamente a ridosso della stesura e della revisione” di Fotografi e pittori alla prova della modernità, a cui rimandava esplicitamente e col quale non poteva che condividere il problematico modello ermeneutico consuetamente adottato dalla studiosa, fondato sul presunto ruolo svolto dalla fotografia nel liberare la pittura dall’ansia mimetica che l’avrebbe sino a quel momento segnata. È ben nota l’esclamazione di Pablo Picasso, verso il 1910 e sotto l’effetto dell’haschish, “ho scoperto la fotografia, posso uccidermi, non ho più nulla da imparare”[1649], che potrebbe forse essere intesa in quel senso ‘liberatorio’ che corrispondeva genericamente a un sentire diffuso in quel periodo; quello che aveva portato Alberto Savinio a riconoscere che “le arti vanno divise in prefotografiche e postfotografiche” ma in un senso tutto affatto diverso: “come credere che Sartorio si è davvero servito di fotografie? La sua pittura (…) manca di quel ‘sapore di verità’ che la pittura ha preso dalla fotografia.”[1650] Brano esemplare in cui, oltre a sbagliare a proposito di Sartorio[1651], l’autore si mostrava propenso a considerare la fotografia quale responsabile dell’orientamento delle arti verso un maggiore realismo; un concetto del resto ribadito ancora a più di vent’anni di distanza, quando sostenne che “tutta quanta l’arte verista, e compresa la musica (vedi recente melodramma italiano) non si spiegherebbe senza l’invenzione della fotografia.”[1652] Anche André Breton aveva riconosciuto che “l’invenzione della fotografia ha sferrato un colpo mortale ai vecchi modi espressivi, tanto in pittura quanto in poesia”, ma certo in un senso ben differente e per certi versi assimilabiile all’inconscio benjaminiano come chiariva il riferimento successivo alla “scrittura automatica comparsa verso la fine del XIX secolo [che] è una vera fotografia del pensiero. Uno strumento cieco che permetteva di raggiungere a colpo sicuro lo scopo che si erano prefissi.”[1653]
Fotografi e pittori uscì nel 2012 offrendo una raccolta e una rielaborazione dei numerosissimi studi precedenti di Miraglia sul tema[1654]. La novità del lavoro e l’elemento di interesse non risiedevano però nella ricostruzione di dibattiti e vicende ormai per larga parte note, quanto nello sforzo dell’autrice di definire un quadro teorico generale in cui collocare le proprie posizioni critiche, qui sottoposte alla prova della postmodernità o – più riduttivamente e un poco fuori tempo massimo – del Postmodernismo, sebbene poi Miraglia riconoscesse “la difficoltà, per non dire l’impossibilità, a circoscrivere e a definire il concetto e la categoria”[1655]. Intenzione certo lodevole e rara, specialmente evidente nel primo capitolo intitolato a I ‘generi’ fra regola e creatività, nel quale però proprio la rapida sintesi mostrava i limiti di una tensione teoretica che troppo sovente portava a passaggi critici non chiariti o non chiari, come l’imputazione alla “cultura classicista” di “scarsa definizione scientifica del concetto di creatività” (corsivo di chi scrive), dove la perplessità riguardava non tanto il merito della valutazione quanto piuttosto, e soprattutto, la stessa possibilità di esistenza di una tale definizione in quel contesto. Alle posizioni più ‘conservatrici’ la studiosa contrapponeva, con uno slancio non privo di rischi, lo sguardo di “quei fotografi e di quei pittori (…) che seppero precorrere e preparare l’avvento dirompente della modernità, a volte, addirittura, aprendo la strada alle infinite possibilità estetiche che caratterizzano oggi il Postmoderno”. Indizio distintivo di quella loro “posizione di anticipatori dei tempi” sarebbe stata “l’incomprensione generale che caratterizzò l’accoglienza delle loro opere”, ciò che oltre ad essere una lettura, questa sì, fortemente velata di romanticismo risultava difficile sostenere storicamente proprio a proposito della più parte degli autori considerati. Ne risultava una densità di richiami e riferimenti non sempre opportunamente tenuti sotto controllo, tanto che lo sforzo di aggiornamento interpretativo portava Miraglia a mettere da parte gli strumenti che dovrebbero essere propri del lavoro dello storico e ad abbandonare uno degli scopi fondamentali di ogni ricerca che si voglia qualificare seppur modestamente di storica, vale a dire la ricostruzione e la comprensione del contesto. Ecco allora che da un articolo di giornale del 1860 vedeva affiorare “il potere di fondere iconicità e indexicalità”, mentre il “possibilismo infinito dell’informazione” sarebbe stato “svelato da autori come William Klein, Robert Frank e Diane Arbus”, in una lettura che più che all’Opera aperta di Eco (1962)[1656], più volte citata, pareva debitrice della vulgata del più spinto decostruzionismo, alla ricerca – che diremmo spasmodica – di continue tracce di anticipazione[1657], quasi che questo dovesse essere il parametro valoriale determinante per la comprensione storico culturale delle opere considerate. Più rilevante il capitolo concernente il genere fotografico del paesaggio, considerato la “chiave d’accesso” a tutte le problematiche affrontate nel volume, essendo l’elemento centrale “di tutte le tensioni estetiche dell’Ottocento, caratterizzate dalla ricerca convergente di pittura e fotografia nello sforzo della decostruzione dei codici della tradizione.” Affermazione forte e per molti versi discutibile considerando che dal punto di vista concettuale e critico l’idea di “ricerca convergente” implica un’intenzionalità che nessuna fonte coeva sembrava aver testimoniato, registrando semmai il costituirsi di una serie di rimandi e reciprocità più o meno consapevoli (e questa sarebbe già una distinzione fondamentale) con la produzione pittorica più convenzionale. Sintomatico di quella interpretazione, e delle conseguenze che ne derivavano, era il giudizio espresso a proposito della “Scuola di Posillipo, quando il rapporto fra pittura e fotografia vede convergere gli interessi dei due media nello sforzo congiunto del superamento della mimesi”[1658], non considerando però né il fondamentale scarto cronologico tra il momento pittorico e quello fotografico né il processo di sostituzione della mimesi (qualsiasi accezione si voglia attribuire al termine) con la costruzione semantica degli stereotipi, ancora ampiamente presente, ad esempio, in Giorgio Sommer e in certa produzione di Robert Rive. La disamina proseguiva lungo tutto il XIX secolo, specialmente muovendosi tra Roma, Napoli e la Sicilia per chiudere infine, con un passaggio piuttosto brusco, col piemontese Cesare Schiaparelli, al quale riconosceva un forte debito con gli insegnamenti di P.H. Emerson collocandolo però “vicino, unicamente per un fatto generazionale, alla coeva pittura paesaggistica piemontese” e semmai prossimo all’opera dei simbolisti e dei divisionisti. Una generalizzazione che non convinceva nel merito delle motivazioni e disconosceva, ben oltre il “fatto generazionale”, i forti legami e le esplicite influenze della cultura visiva di matrice fontanesiana su tutta la fotografia pittorialista piemontese e, più in generale, su quella mediata e promossa da un periodico come “La Fotografia Artistica”.
Un importante territorio di verifica delle ipotesi storico critiche espresse in quell’arco di tempo a proposito dei rapporti tra pratiche artistiche e fotografia venne definito dai numerosi approfondimenti in merito alla presenza e all’uso delle fotografie nei percorsi di formazione didattica delle Accademie e degli Istituti d’Arte successivi alle prime sollecitazioni di Pietro Selvatico Estense del 1852, verificando al vivo quelle influenze mediante lo studio dei fondi fotografici appartenuti agli artisti. Da quella nuova messe di conoscenze emergevano variegati atteggiamenti, declinati tra i due poli dell’ormai noto ricorso alla fotografia come analogo del vero[1659] e dell’assunzione della pratica fotografica come strumento analitico ed espressivo, come fu per Medardo Rosso, che usava della fotografia e delle fotografie per restituire una metalettura delle proprie opere. Accanto a questi si approfondivano le conoscenze sull’uso che molti artisti fecero della fotografia come strumento di vere e proprie strategie di comunicazione, come fu il caso di Domenico Morelli, Eugenio Zampighi o Giuseppe Graziosi.
Quella ricca e variegata messe di studi, più di venti titoli nell’arco di un decennio, certificò la definitiva caduta di qualsivoglia velo censorio nel riconoscimento del ruolo svolto dalla fotografia e in parte minore dai fotografi in relazione alla formazione e all’opera di singoli artisti, dei quali si andavano scoprendo e riconsiderando i relativi archivi e fondi[1660], procedendo in alcuni casi anche alla loro catalogazione. Si confermavano così alcune condizioni e si riscontrava nel concreto la progressiva estensione del fenomeno, in particolare quello della pratica diretta della fotografia, come nell’esempio precoce di Luigi Garibbo[1661] o in quelli più tardi di Zampighi[1662], di Giuseppe Graziosi[1663] o di un amateur borghese allievo di Morelli come Eugenio Buono[1664], dell’architetto e scenografo Luigi Manini[1665] e ancora, ormai in pieno Novecento, di Giovanni Colacicchi[1666].
Esemplari risultati produsse l’analisi dei rapporti che con la fotografia (e le fotografie) intrattennero due autori come Medardo Rosso e Umberto Boccioni. In particolare i contributi di Paola Mola[1667] illuminavano in modo convincente e affascinate l’esistenza di una condizione diversa e inedita rispetto alle categorie storiografiche più consolidate; la studiosa infatti presentava la fotografia di Rosso come “un equivalente” della sua scultura proprio a partire dalla considerazione della materialità degli assemblaggi da lui realizzati, ponendo in atto una ferrea analisi logica di quelle opere, ciò che le consentiva di individuare i processi di manipolazione del dato referenziale da lui operati. Ne risultava una definitiva perdita di senso della questione Rosso ‘fotografo’ se con ciò si doveva intendere l’autore delle riprese, essendo semmai un manipolatore di stampe fotografiche intenzionato ad aprire “inusate possibilità alla percezione. Fatto in fotografia, quasi invisibile sotto la veste della documentazione, nasconde nella facilità del suo organismo lunghi tempi di sperimentazioni e prove.” Ben prima delle teorizzazioni nostrane legate al material turn, il lavoro di Mola si fondava metodologicamente su di un’analisi serrata di tutte le fonti necessarie a comprendere e restituire la biografia culturale (e artistica) di quel corpus di fotografie: da quelle archivistiche e bibliografiche all’analisi dei fototipi in tutti i loro aspetti: materiali, tecnologici, ottici e di trattamento chimico e fisico. Analoghe strategie metodologiche vennero adottate anche da Giovanna Ginex che nel presentare una sintesi delle proprie ricerche sui rapporti di Umberto Boccioni con la fotografia[1668] offriva alcune “indicazioni [che] volgono verso la dimostrazione di un metodo. Quando si ha a che fare con materiali di questo tipo è necessario concentrarsi sul metodo con cui si raccolgono e si studiano, cercando di partire sempre dagli oggetti, dai fototipi, dai materiali e non da preconcetti o datazioni casuali.” Ne derivava una serratissima indagine delle fotografie, del loro contesto di produzione come del loro contenuto referenziale, per mostrarne la ricchezza di fonte in grado di chiarire le distinte modalità d’uso: come documento (per la storia dell’arte) e “come strumento e mezzo per la creazione o la divulgazione di un’opera”, soffermandosi in particolare sulla “possibilità di utilizzare le immagini scattate dall’artista stesso o da altri (…) per ricostruire aspetti della sua produzione che i documenti scritti non possono rivelare o che possono rivelare solo in maniera parziale.”[1669]
Il mai sopito interesse per il Futurismo e l’occasione celebrativa del centenario suggerirono ad Alinari di produrre l’ennesima mostra su Il futurismo nella fotografia, curata da Giovanni Lista (2009) che aveva dedicato almeno un trentennio di studi al tema, qui declinato però in forma cronologicamente e criticamente più ampia, che superava le riserve a suo tempo espresse[1670] in merito alla possibile “esistenza di una fotografia futurista quale categoria formale autonoma” sino a considerare e comprendere “le prime intuizioni formaliste e antinaturaliste di fine Ottocento”, trasformando così il “futurismo” da etichetta di movimento artistico a categoria dello spirito, applicabile a condizioni e produzioni storicamente inconciliabili. Questa accezione, sempre più ampia e slabbrata, ha caratterizzato anche una più recente iniziativa curatoriale di Lista (2015), che sotto l’imperativo titolo di Fotografia futurista raggruppava una produzione tanto culturalmente e storicamente eterogenea da comprendere i divertissement spiritisti di Francesco Negri (verso il 1865) e le opere di Mario Gabinio e Italo Bertoglio, due autori che certo avrebbero sdegnosamente rifiutato una simile qualifica, all’epoca considerata quasi infamante. Altrettanto libera da quei vincoli troppo rigidi che avrebbero impedito di allargare lo sguardo alla fotografia politicamente schierata del Ventennio la mostra curata da Massimiliano Vittori (2009), inaugurata a Latina con accompagnamento di “proclamazione di aeropoesie con intermezzi di aerodanza e da una conferenza sul nuovo abbigliamento futurista.”[1671] In quell’occasione vennero esposte le opere di “futuristi ‘transitori’ e fotografi che, pur non avendo militato nel movimento marinettiano, dal futurismo (o almeno dai dettati programmatici del Manifesto del 1930) vennero ‘contaminati’, sapendo interpretare le esigenze di un’arte fotografica che doveva affrancarsi dal pittorialismo, per rappresentare al meglio le esigenze della modernità.”
Meno spettacolari occasioni di confronto avevano segnato il rapporto dei Macchiaioli con la fotografia, a cui il MNAF di Firenze aveva dedicato una mostra compresa nel novero delle iniziative per il centenario dalla morte di Giovanni Fattori (Maffioli et al. 2008). Il progetto espositivo prendeva le mosse dai “modelli fotografici per gli artisti” tipici della produzione romana intorno alla metà del XIX secolo per rivolgersi poi ai confronti fiorentini tra i due universi di immagini e proseguire quindi con le fotografie realizzate da Banti, Cabianca e Signorini, accanto a quelle di Piero Azzolino realizzate a “La Marsiliana” e utilizzate da Fattori. Monica Maffioli[1672], dopo aver ricordato in apertura la lunga tradizione di “aspetti censori nei confronti della fotografia” propria della storiografia artistica novecentesca, restituiva la complessità delle relazioni tra macchiaioli e fotografia, riduttivamente considerate da Vitali (1960) e da Fernando Tempesti (1976) e ne offriva un’accurata ricostruzione collocandola nel contesto italiano del XIX secolo, riconoscendo che “la fotografia è anche, per i Macchiaioli, una componente essenziale o quantomeno di riferimento nella loro formazione visiva, se non, in alcuni casi, anche lo stimolo a sperimentare nuovi mezzi espressivi.” Meno sfumata la posizione espressa in catalogo da Silvio Balloni[1673], che sulle orme di Heinrich Schwarz considerava le questioni concettuali sottese al rapporto tra pittura di macchia e fotografia sottolineando il fatto che “il nuovo dispositivo” non produceva “una conferma dei risultati ottenuti dalle scienze positive agendo piuttosto l’isolamento dei valori tonali dell’immagine alla cifra chiaroscurale del bianco e nero”. Un uso che presentava forti analogie col diffuso ricorso di molti pittori al miroir de Claude nella “progressiva esigenza di definizione volumetrica dell’immagine” e che rivelava le influenze e i legami con le teorie neokantiane della “pura visibilità” espresse da Konrad Fiedler e Adolf von Hildebrand.
Sono molteplici le analogie che è possibile riscontare tra gli usi e le implicazioni disciplinari della presenza della fotografia (e delle fotografie) nella storia dell’arte e in quella dell’architettura, ma in questo ambito hanno avuto più fortuna le descrizioni fenomenologiche che non gli approfondimenti storico critici. Tra gli studiosi italiani il solo Zannier aveva già tentato una sintesi storica, ponendola in apertura di quel suo volume quasi manualistico intitolato Architettura e fotografia, nel quale aveva provato a misurarsi con una accezione molto ampia del genere, estesa sino a comprendere quelle immagini in cui l’architettura e la città non sono il soggetto esplicito bensì il contesto o lo sfondo in cui quello è collocato[1674]. Pur non dichiarandolo esplicitamente, diversa era la delimitazione, e più canonica la scelta fatta da Giovanni Fanelli nel compilare la propria Storia della fotografia di architettura (2009), realizzata in collaborazione con Barbara Mazza[1675]. Il tema aveva goduto di una recente fortuna internazionale di studi sia di taglio analitico che di sintesi generale[1676] ed era da tempo tra gli ambiti privilegiati di interesse di Fanelli, ordinario di Storia dell’Architettura presso l’Università di Firenze, dove aveva coordinato ricerche e assegnato tesi di laurea intorno alle questioni poste dall’uso della fotografia come fonte per la storia urbana. Diversamente da Zannier, la sua preoccupazione prima non era quella di definire o circoscrivere il proprio oggetto di studio quanto piuttosto di richiamare alcuni assunti di carattere generale a proposito di convenzioni (anche culturali e sociali) della rappresentazione, ricordando che “la fotografia di architettura corrisponde (…) alle regole, e alle inesattezze, della prospettiva centrale monoculare rinascimentale che prescinde dalle deformazioni laterali.”[1677] Il volume si presentava con una struttura narrativa complessa, che privilegiava gli aspetti problematici rispetto alle consuete periodizzazione su base tecnologica, sebbene questa fosse considerata sin dalle pagine introduttive per chiarirne i nessi e i vincoli linguistici ed espressivi con le modalità di lettura dei manufatti architettonici e ingegneristici. L’andamento appariva strutturato per categorie dualistiche (amatori/ professionisti; fotografia documentaria/ fotografia artistica; architetti/ storici dell’architettura e fotografia), con una inedita considerazione per il fondamentale ruolo svolto dall’editoria di settore nelle sue varie forme: dai libri ai cataloghi d’esposizione, dalla produzione stereoscopica[1678] a quella di cartoline postali, una tipologia di immagini (e di fonti) mai trattata in modo così sistematico. Da questa ricostruzione erudita e densa di informazioni emergevano alcuni temi nodali quali il ruolo svolto dalla committenza contrapposto all’autonoma attività imprenditoriale dei primi fotografi, di alcuni dei quali lo studioso analizzava più nel dettaglio le opere, introducendo continui salti di scala narrativa ma con efficaci analisi comparative tra le diverse soluzioni adottate nella restituzione dello stesso soggetto, penalizzate però da una qualità delle riproduzioni che per dimensioni e resa risultava inadeguata a sostenere opportunamente il discorso[1679]. L’analisi delle differenti modalità di edizione della documentazione dell’architettura, che costituiva uno dei punti focali dell’opera, era accompagnata da una serie di valutazioni di tipo più specificamente storico che avrebbero meritato maggiore sistematicità e approfondimento. Mi riferisco al rapporto tra diffusione delle pubblicazioni illustrate e decrescita degli archivi fotografici ma anche alla presa di distanza da quello “schema storiografico che vuole una equivalenza e un rapporto diretto fra Neues Bauen e Neues Sehen, affermatosi negli anni trenta e poi nella storiografia successiva” a partire dalle prime considerazioni di Giedion[1680], sebbene più oltre Fanelli riconoscesse che “nella seconda metà degli anni venti nacquero in Europa nuove riviste che concorsero all’autolegittimazione dell’architettura modernista”, nelle quali innegabilmente l’uso della fotografia e la sua impaginazione non potevano che definirsi a loro volta di impronta modernista[1681].
Il lungo paragrafo sulla cartolina postale costituiva lo sviluppo di un tema già precedentemente affrontato[1682] e il riconoscimento che la “funzione di ricordo (o anche, talvolta, di studio) dei luoghi e dei monumenti che a partire dai primi anni cinquanta dell’ottocento era stata svolta dalle vedute stereoscopiche e dalle carte-de-visite, venne soppiantata rapidamente dalle cartoline postali fotografiche”; una fonte con caratteristiche sue proprie, in grado di restituire immagini delle città anche nei loro aspetti più correnti, “esclusi generalmente da ogni altra fonte iconografica fotografica e non solo.” Indicazioni stimolanti e necessarie ma che si fermavano sulla soglia dell’approfondimento storico, senza interrogarsi sulle ragioni di quelle particolari scelte tematiche e su quella stessa diffusione globale così accuratamente documentata. Un’impostazione più descrittiva che problematica, più erudita che storica sembrava essere la cifra di tutta l’impresa, che per ciascuno dei temi e degli aspetti considerati offriva una messe incredibile di dati, nomi (l’indice ne conta più di 2.500), titoli di album, volumi e periodici, a cui si aggiungevano quelli delle fonti consultate, indicate in nota; mentre spiccava l’assenza di una bibliografia generale, certo sorprendente in un’opera di questo livello. L’articolazione dei titoli e dei paragrafi come il prevalere del dato informativo su quello interpretativo, ma anche un amore per il dettaglio a cui sovente era sacrificato il disegno generale[1683], facevano di questo lavoro qualcosa che si avvicinava più a un repertorio ragionato che a una ricostruzione storica in senso proprio, sebbene in quell’intenzione onnicomprensiva si potesse riconoscere lo sforzo di superare i modelli storiografici tradizionali. Questo intento costituiva certo uno dei pregi del progetto ma si sentiva infine la mancanza di una sintesi; dello sviluppo di quelle categorie interpretative che avevano efficacemente governato l’articolazione dei paragrafi, dei capitoli e la loro stessa titolazione.
Alcuni dei nodi critici e storiografici affrontati da Fanelli erano stati discussi in una serie di contributi raccolti in due fascicoli monografici di “Architettura & Arte”: nel fascicolo 1-2 della rivista Carlo Cresti aveva studiato il ricorso alla fotografia come mediatore piuttosto che come medium, essendo intesa da alcuni studiosi come surrogato di un rapporto diretto con l’opera; con il non secondario esito (tra gli altri) di produrre un racconto tutto fatto “di architetture desolatamente effigiate in bianco e nero, cioè defraudate dei loro effettivi caratteri cromatici”[1684], sebbene poi riconoscesse che la fotografia di architettura “è anche depositaria di qualche merito (…) strumento irrinunciabile e agevole per miniaturizzare, catalogare, archiviare e divulgare.”[1685] Più articolati e complessi altri interventi nello stesso fascicolo, quali il saggio di Miraglia incentrato sul tema a lei caro della veduta, qui considerato nello specifico della rappresentatività della scena urbana[1686], mentre ad un argomento solo apparentemente distante e altrettanto rilevante per le sue implicazioni in termini di cultura generale dell’immagine era dedicato un altro saggio di Cresti sui rapporti fra fotografia e turismo[1687], considerando come caso di studio la Toscana del secondo e terzo decennio del Novecento. Il rapporto, anche consumistico, tra questi fenomeni (non considerato nello studio di Fanelli se non tangenzialmente) era qui indagato mettendone in luce i condizionamenti politici e chiarendo i meccanismi e le dinamiche sottesi ad una pratica della fotografia, anche di architettura e di paesaggio, che si avviava per la prima volta ad essere di massa in senso proprio.
Le questioni poste dalla definizione dell’immagine delle città d’arte fra Otto e Novecento vennero affrontate da Luigi Tomassini (2004b) facendo sintesi della sua lunga riflessione storica sul tema e considerando i primi fondanti decenni della produzione di fotografie destinate al turismo colto. Si trattava di sottoporre a verifica la ben nota concezione della “fotografia come strumento di unificazione” introdotta da Giulio Bollati nel 1979[1688] , un fenomeno che Tomassini riteneva più opportuno collocare in una fase più tarda, nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo, “in un clima culturale teso a elaborare effettivamente una retorica nazionale che avrà il suo culmine nel 1911 con le celebrazioni del cinquantenario, ma che già mostra dall’inizio degli anni Ottanta (…) i segni sempre più evidenti di una politica nazionale desiderosa di affermare a livello simbolico i segni delle proprie aspirazioni di potenza.” Per studiare la percezione media dell’Italia come “luogo di cultura” l’autore rivolgeva la propria attenzione a due tipologie di fonti non troppo frequentate dagli storici come le guide turistiche e “i cataloghi dei fotografi [che] finiscono per essere l’equivalente, sul piano visivo, delle guide per i viaggiatori”, sviluppando in proposito alcune indicazioni metodologiche a suo tempo espresse da Massimo Ferretti e già applicate dallo stesso Tomassini a partire almeno dal 1989[1689]. L’analisi tematica dei cataloghi, privilegiando qui quelli dello stabilimento Alinari[1690], gli consentiva di individuare tre fasi, ciascuna connotata da elementi peculiari sebbene non esclusivi. La prima aveva visto i fotografi manifestare ancora forti legami con la tradizione iconografica, avendo come “elemento regolatore e ispiratore di tutto il processo” il mercato; a quella era seguita, a partire dagli anni Ottanta del XIX secolo, una fase più imprenditoriale, in cui gli autori non si limitavano ad adeguarsi alla domanda ma la sollecitavano e la promuovevano, anche attraverso un rapporto più stretto e sistematico con l’utenza qualificata degli studiosi. Risalivano a quel periodo anche le prime utilizzazioni di fotografie sulla stampa periodica, che costituivano un ulteriore mezzo di diffusione e di codificazione della conoscenza del patrimonio architettonico anche nelle sue manifestazioni minori, “nel tentativo di affermare un’identità specifica, locale, per ognuna di queste città, che nel loro insieme vanno poi a ricomporre un’identità nazionale, ma che sono in partenza autonome e originali.” In quel quadro si collocava anche la produzione di cartoline, quella stessa studiata da Fanelli e qui analizzata sottolineandone un aspetto poco considerato (e invece determinante) dal punto di vista della loro funzione e ricezione, trattandosi di immagini rivolte “ad un osservatore estraneo”; quel destinatario che “spesso neppure è presente e in grado di verificare con i propri occhi la rappresentazione offerta”. L’ultima in ordine di tempo delle periodizzazioni individuate da Tomassini corrispondeva alla fase di maggiore rilevanza dell’iniziativa statale, contrapposta ai decenni postunitari in cui “la presenza dello Stato nel settore era stata abbastanza blanda, in sintonia con il forte orientamento liberista prevalente”. Un giudizio che può essere ancora in parte condiviso ma che gli studi successivi hanno consentito di articolare meglio e per larga parte di correggere, anticipando le prime sistematiche iniziative statali di quasi un ventennio, con le prime campagne documentarie promosse dal Ministero della Pubblica Istruzione alla soglia degli anni Ottanta del XIX secolo[1691].
La verifica dell’ipotetica intenzione di “divulgare l’idea che l’unità culturale della nazione era preesistente rispetto a quella politica”[1692] sottesa alle campagne di documentazione del secondo Ottocento caratterizzò numerose iniziative di studio[1693] e descrizioni di archivi e fondi[1694], tra le quali spiccava per rilevanza quella dedicata alla costituzione del GFN e alla figura del suo primo direttore Giovanni Gargiolli[1695]. Il testo di apertura di Laura Moro, direttrice dell’ICCD, esprimeva con un titolo dagli echi carrolliani l’intenzione di superare la concezione della fotografia come “specchio muto del patrimonio culturale” e si interrogava sulla questione (doppiamente centrale) “dell’autorialità nell’atto del documentare”; anche in tal senso risultava necessario “guardare le fotografie” partendo dal “corpo materiale” dell’archivio[1696] che esse costituiscono, ponendole in relazione con gli altri insiemi archivistici prodotti dall’istituzione, qui analizzati da Anna Perugini[1697]. Dalla ricostruzione del metodo di lavoro di Gargiolli, condotta integrando varie tipologie di fonti emergeva una fitta rete di interlocutori (non solo istituzionali) “i quali si rivolgono direttamente a lui al fine di concordare tempi e modi per realizzare le fotografie (…)”, circoscrivendo così i limiti dell’autorialità del direttore-fotografo, la cui biografia venne ricostruita da Clemente Marsicola[1698]. Al magistero di Carlo Bertelli si riferiva invece sin dal titolo il primo dei saggi dedicati all’analisi della produzione del GFN sotto la direzione di Gargiolli, in cui Benedetta Cestelli Guidi[1699] intendeva verificare se e come “tra funzione pubblica [GFN] e commercio [Alinari e simili], si estende una divergenza di interessi e finalità che si riflette e si incarna nello stile stesso delle fotografie”, che quindi dovrebbero possedere “stile e struttura visive (…) proprie e peculiari”. Problema non semplice, già affrontato e solo in parte risolto a proposito di Alinari[1700], la cui impostazione qui risultava però viziata da almeno tre elementi: un idealismo di fondo, riconoscibile nell’assimilazione acritica del fotografare “all’atto artistico tout court”[1701]; l’assenza di ogni riflessione sulla questione dell’autorialità, senza la cui comprensione risultava arbitraria ogni altra considerazione, e infine una troppo mirata selezione di immagini, che per voler giungere ad una dimostrazione del proprio assunto considerava solo una delle tante e diverse modalità di ripresa e non teneva conto dell’insieme della produzione, che avrebbe semmai dovuto essere il luogo in cui riconoscere lo ‘stile’; un termine che (pur con tutte le virgolette del caso) la studiosa pareva far coincidere con quello di metodologia di ripresa quando parlava di “lenta e constante progressione della campagna ricognitiva”. Da queste incertezze derivano valutazioni improprie[1702], relative a quella che Cestelli Guidi chiamava (con bella definizione) “spensierata sporcizia delle immagini”, da intendersi piuttosto come precisa consapevolezza da parte degli operatori fotografi delle potenzialità e degli esiti del successivo processo di stampa, che contemplava di consueto varie manipolazioni del negativo (riquadratura, mascheratura, ritocco). “L’autorialità nell’atto del documentare” richiamata da Moro e Perugini non venne considerata in termini problematici neppure da Francesco Faeta[1703], per il quale “il valore di Gargiolli (…) può essere compiutamente apprezzato attraverso la stretta messa in relazione della molteplicità di soggetti che egli ha fotografato.” Difficile concordare senza aver preventivamente chiarito a chi tali scelte dovessero essere attribuite, intendendo con questo non solo le occasioni da cui nacquero le singole campagne ma, ben più determinante, il ruolo svolto dai soggetti produttori che via via condizionarono tutto l’operato del GFN, organismo pubblico ben più che permeabile alle richieste personali dei più autorevoli rappresentanti del mondo accademico. Per queste ragioni “la complessità della rilevazione fotografica che Gargiolli persegue” non poteva essergli immediatamente attribuita e così facendo si riduceva la pertinenza, non dico l’interesse, della sottile analisi svolta da Faeta di quella “strategia pubblica della condivisione patrimoniale” che lo studioso assegnava al GFN. Decisamente più centrato e convincente il contributo di Monica Maffioli[1704] che proprio analizzando gli aspetti stilistici rilevava che “l’assenza di schemi formali dettati dalla necessità di corrispondere alle regole visive codificate dalla fotografia commerciale restituisce alle fotografie di Gargiolli la dimensione di una composizione linguistica amatoriale”, in cui era possibile riconoscere una certa adesione al pittorialismo, “evidente anche nella produzione (…) nei primi anni di direzione del Gabinetto fotografico: qui la ‘purezza’ compositiva della fotografia di documentazione cede spazio al frasario poetico dell’immagine.”
In occasione della riapertura di Villa Getty a Malibu, ulteriormente rinnovata, venne presentata la mostra Antiquity & Photography: Early Views of Ancient Mediterranean Sites (Lyons et al. 2005), che offriva una selezione di opere provenienti dalle ricchissime collezioni fotografiche del Museo. Il volume che la accompagnava conteneva una serie di contributi preceduti da un ampio saggio di inquadramento da cui emergevano alcuni rilevanti elementi di riflessione a proposito della stessa definizione disciplinare dell’archeologia, che proprio nel corso del XIX secolo aveva modificato il suo precedente statuto antiquariale ed erudito grazie anche all’utilizzo sistematico della documentazione fotografica in sede di scavo e poi di studio. La fotografia consentì infatti “per la prima volta di dimostrare (…) come il passato potesse essere ricostruito attraverso i suoi resti fisici. Più importante ancora, ha fornito uno strumento per organizzare e interpretare questa nuova fonte di informazioni storiche.”[1705] Accanto a questo ormai acquisito riconoscimento della sua funzione epistemologica si trovava una considerazione nuova per la lettura “lirica” dei reperti e dei resti, fortemente impregnata dei valori propri della cultura coeva; un caso esemplare in cui la “logica visuale della fotografia – per definizione ‘vera’ e moltiplicabile senza sforzo – è stata un vero e proprio strumento con cui le potenze Occidentali hanno sfruttato vantaggi politici ed economici per stabilire un’egemonia eurocentrica sul dominio della storia universale.”[1706]
Al di là di questo schematismo per molti versi ingenuo, proprio di certe aree dei “cultural studies” statunitensi, e dell’interesse specialistico dei singoli contributi, ciò che emergeva da quella raccolta come posizione storico critica importante e ricca di conseguenze metodologiche era l’acquisita consapevolezza da parte degli studiosi (dell’arte, dell’architettura, della società: qui degli archeologi) della complessità della fotografia come pratica e come oggetto; della necessità quindi di saperla leggere e considerare ben oltre la sua pur innegabile e immediata capacità descrittiva, referenziale. Ne era importante testimonianza proprio il saggio di Claire Lyons, costruito a partire dal riconoscimento della singolare analogia tra archeologia e fotografia, entrambe considerate “arte e scienza, un viaggio nel tempo che ferma la storia in momenti incrementali”, di cui la studiosa tracciava una sintetica quanto accurata ricostruzione a scala mondiale, sottolineando ragioni e implicazioni della ricerca archeologica e dell’utilizzo della fotografia, a partire dal fatto che “differenti priorità condizionarono la fotografia di siti classici nel Mediterraneo occidentale, per il semplice fatto che il patrimonio artistico e letterario della Grecia e di Roma era stato al centro dell’attenzione europea quasi senza soluzione di continuità”[1707]; diversamente dai resti della Mesopotamia e dell’Egitto, le antichità greco-romane avevano infatti costituito uno dei pilastri della cultura europea sin dal Rinascimento. Per quanto riguardava in particolare l’Italia, Lyons ricordava che “nonostante le innumerevoli vedute realizzate dai viaggiatori e dagli studi commerciali – o forse a causa di questa sovrabbondanza iconografica -gli archeologi che lavoravano in Italia non fecero immediato ricorso alla fotografia per la documentazione degli scavi. Diversi fattori, pratici e politici, possono dar conto di questo fatto. (…) La politica ufficiale prevedeva limitazioni all’accesso dei risultati degli scavi [e] la maggior parte della responsabilità dei rilevamenti restava nelle mani di artisti e architetti. La rappresentazione fotografica minacciava di usurpare la loro posizione nei ranghi di quella che era già una burocrazia fortemente strutturata.”[1708] Accanto alle cautele burocratiche vigevano “le convenzioni pittoriche necessarie per l’apprezzamento estetico [che] dovettero fare i conti con un insieme di questioni teoriche e pratiche sollevate da archeologi e architetti che si proponevano di recuperare il passato costruito di Roma. Un passato da riscoprire ma, soprattutto, da rinnovare. (…) Le fotografie di monumenti architettonici erano utilizzate per comunicare uno spirito di rinnovamento, in cui l’antichità era uno stimolo per la modernizzazione.”[1709] Si delineava così una fase nuova nella quale alla interpretazione tardo romantica dell’archeologia come rovina, già riconosciuta da studiosi quali Szegedy-Maszak, Pelizzari e Miraglia[1710], si accompagnava e si sovrapponeva l’emergere di un insieme di motivazioni culturali con connotazioni politiche più o meno evidenti ed esplicite. Caso emblematico furono in tal senso le fotografie delle demolizioni del tessuto urbanistico interessato dalle multiple ‘invenzioni’ dei Fori Romani, di Via dell’Impero e del Mausoleo di Augusto nella Roma del terzo e quarto decennio del Novecento, la cui ricchissima documentazione, confluita nell’Archivio Fotografico del Museo di Roma a Palazzo Braschi, venne presentata con una accurata descrizione catalografica in una serie di volumi editi tra il 2007 e il 2011[1711]. Date come presupposte le motivazioni politiche del progetto e le funzioni assegnate alle campagne documentarie, ciò che si intendeva far emergere era proprio il progressivo “estendersi del campo di applicazione e del concetto stesso di fotografia, da veduta a modo di vedere”[1712]; tanto che “fra le maglie di questo impianto si fanno strada altre e più attuali chiavi di lettura che l’obiettivo fotografico (…) è in grado di registrare oltre il voluto (…) fotografie che ritraggono in secondo piano malinconici scorci della città (…) o a quelle che mostrano i preparativi per delle visite ufficiali (…). In queste immagini la realtà politica del momento viene a galla prepotentemente.”
Una lettura in chiave politica emergeva anche dalla quinta occasione espositiva che la British School at Rome dedicava alle campagne documentarie di Thomas Ashby (Le Pera et al. 2007), qui aventi per tema gli acquedotti della valle dell’Aniene, obbligata e quasi implicita nel confronto impietoso tra le conformazioni territoriali dei paesaggi da lui fotografati e le attuali condizioni di quei luoghi[1713]. Un caso di storiografia di esplicito impegno civile, analogamente a quanto era accaduto col progetto dedicato alla Via Appia da Rita Paris (2011) nel quale, con gesto curatoriale ancora più chiaro e proseguendo la passione civile di Antonio Cederna, erano state ricostruite le vicende drammatiche della tutela di quel patrimonio a partire dalle prime intenzioni di Luigi Canina; così la documentazione fotografica storica venne messa a confronto con le riprese dello stato attuale per denunciare i reiterati interventi speculativi che hanno interessato il sito. Realizzazioni importanti, che merita segnalare quali esempi concreti di una progettualità culturale in cui la pubblicazione della documentazione storica si è svincolata dagli opposti ambiti dello specialismo erudito e della rievocazione nostalgica per farsi strumento scientificamente corretto e stimolo per una riflessione civile e compiutamente politica sulla (mala) gestione del territorio. Un caso in cui la riproposizione critica della fotografia storica si fa agente attuale di storia.
Meno esplicitamente connotate in tal senso, ma pur sempre testimonianze di pratiche in cui la conoscenza specialistica si coniugava all’intenzione civile, qui nella forma della cessione pubblica dei propri archivi, le mostre tratte dalle campagne documentarie condotte dal domenicano Peter Paul Mackey[1714], mentre apparteneva alla buona tradizione di studio dell’iconografia storica dei monumenti e dei luoghi il contributo di Giovanni Fanelli (2014), che si proponeva di istituire una classificazione tipologica delle fotografie dei ‘templi’ di Baia realizzate nel corso del XIX secolo, riprendendo in modo sistematico le metodologie già adottate nelle due monografie di Giorgio Sommer e di Robert Rive per giungere a individuare le soluzioni compositive proprie della personalità di ciascun autore.
Anche i più recenti studi[1715] dedicati alle campagne fotografiche su Pompei hanno privilegiato l’analisi iconografica, considerando la produzione di singoli autori[1716] ma soprattutto ricostruendone per la prima volta analiticamente il quadro complessivo, come è accaduto nel 2015 nell’ambito del più ampio progetto espositivo dedicato ai rapporti tra Pompei e l’Europa 1748-1943. La mostra principale e il catalogo della sezione fotografica[1717] si proponevano “di restituire al lettore quello che il visitatore, anche il meno distratto, riesce difficilmente a comprendere a Pompei, ossia come i luoghi, gli spazi nei quali si trova immerso siano stati profondamente alterati nel tempo”[1718], ma anche di ricostruire le mutevoli coordinate culturali di quella produzione. Per questo il contributo di Miraglia[1719] era significativamente aperto, quasi un esergo, da una fotografia come Colloquio, 1898, di Guido Rey; una scena ‘neoclassica’ che però non poteva certo bastare per classificarlo come “un insuperabile e convinto fotografo neopompeiano” ma che risultava illuminante, quasi apodittica, per la comprensione e la messa a punto di una storia della fortuna culturale di Pompei sub specie photographica, qui avviata con i precocissimi dagherrotipi di Alexander John Ellis (primavera del 1841) e condotta sino alla contemporaneità, con puntuali riferimenti alla diffusione del gusto neopompeiano in pittura e architettura e una approfondita disamina della produzione dei principali autori che si erano misurati con quegli scavi nel XIX secolo, ed in particolare di Sommer, rispetto al quale però veniva ancora lasciato in secondo piano il problema storico dei nessi culturali e commerciali tra i diversificati ambiti della sua produzione: dalle fotografie ai calchi e alle copie; tutti facsimili nelle due e nelle tre dimensioni[1720].
Nel giungo del 1908 Gabriele D’Annunzio scriveva (“invidiando”) all’amico “Mario Nunes-Vais ‘uomo libidinosissimo’ che con arte magicamente perfida illumina e rivela le forme che egli vorrebbe palpare”. Una più casta citazione apriva il saggio introduttivo al volume in cui erano raccolti alcuni dei contributi al convegno dell’Università di Warwick del marzo 2009[1721] nel quale si intendeva indagare” i modi in cui la letteratura italiana ha reagito alla pratica e alle estetiche fotografiche a partire da una “vasta gamma di prospettive teoriche”, a testimonianza di un inedito accrescimento di studi in area anglofona per questi aspetti della nostra storia culturale[1722]. In quella che si proponeva come “la prima raccolta in inglese a concentrarsi sulle relazioni reciproche tra fotografia e letteratura italiana” erano le curatrici ad assumersi il compito di una breve sintesi storica delle principali occasioni di incontro, poiché i diversi studiosi coinvolti affrontavano prevalentemente temi e autori contemporanei, con l’importante eccezione del saggio di Sarah A. Carey dedicato al romanzo di Vittorio Imbriani Merope IV (1867), nel quale il ricorso alla fotografia rappresentava la metafora visuale del processo di scrittura, qui analizzato con grande finezza sebbene poi non si potesse concordare, in quanto antistorica, con la definizione proposta dalla studiosa che parlava di “una delle prime opere postmoderne della letteratura italiana.”[1723]
Negli anni immediatamente precedenti il tema aveva goduto di una considerevole attenzione con produzioni di carattere antologico, come il volume di Giuseppe Marcenaro (2004) sul XIX secolo[1724], la raccolta di saggi di Epifanio Ajello (2008), o i due importanti volumi curati da Anna Dolfi (2005, 2007), aperti sino alla contemporaneità e specialmente intesi a riflettere “su verità e menzogna, (…) sulla storia e le sue interpretazioni (…) sul bisogno, talvolta ossessivo, che si ha di accompagnare con parole (le didascalie, gli esergo …) le fotografie, o, in modo più complesso, di descrivere ciò che ci circonda e che ‘appare’ con la narrativa, la poesia, la pittura, la fotografia … o con loro banalizzate semplificazioni.” Ne derivava non tanto un repertorio enciclopedico “quanto piuttosto un catalogo di forme, generi e modalità differenti di dialogo fra letteratura e fotografia. Un modello reticolare, dunque, in cui ciascun esempio presenta con gli altri relazioni di somiglianza e discontinuità.”[1725] L’interesse accademico per questo territorio di indagine e di speculazione era confermato nel 2005 dal PRIN Letteratura e cultura visuale: dall’era prefotografica all’era del cinema, promosso dalle Università di Palermo, Bologna e L’Aquila e coordinato da Michele Cometa, i cui risultati, per quel che riguardava la letteratura e la cultura visuale nell’era della fotografia, vennero pubblicati nel 2008 rappresentando nel loro insieme una notevole testimonianza di Visual Culture, “interessata a uno studio contestuale delle immagini, dei mezzi che le producono (tipicamente i media, ma anche i dispositivi della visione più tradizionali) e delle forme della loro ricezione (lo sguardo individuale e collettivo).”[1726]
Rivolti alle più immediate relazioni interdisciplinari furono invece due importanti saggi pubblicati nel 2011, aperto da L’occhio della Medusa di Remo Ceserani, in cui il noto comparatista, da sempre attento ai rapporti tra letteratura e tecnologie[1727], si proponeva di verificare “la possibilità che il procedimento fotografico (con i suoi linguaggi e le sue connotazioni metaforiche) si tematizzi nei singoli testi e che al tempo stesso i vari temi (suggeriti da quel linguaggio) si facciano procedimento, offrendo esempi di rappresentazione e di possibili svolgimenti narrativi.” Una ricognizione ampia del “rapporto fra la letteratura e la fotografia, intesa quest’ultima al tempo stesso come tema e come procedimento della rappresentazione”, che escludeva programmaticamente aspetti quali l’uso ‘illustrativo’ delle immagini fotografiche, le questioni poste dalla fotografia documentaria e da quella pornografica e l’immagine digitale. Nonostante la grande fascinazione che questo lavoro esercitava, per l’intelligenza e le fatiche indispensabili per dar forma di parole a quell’indagine, qualcosa però non convinceva: l’imponente impegno comparatistico di Ceserani – testimoniato anche da una bibliografia di una ottantina di pagine, quasi un saggio a parte più che un apparato – non pareva aver prodotto qualcosa di troppo distante da una ricca e bella antologia ragionata (di cui certo si sentiva la mancanza, almeno in lingua italiana); un “prezioso atlante tematico”, come lo definì Andrea Cortellessa dal quale però risultava assente (quasi per definizione allora) ogni intento di contestualizzazione storica e la possibilità quindi di far comprendere meglio alcuni atteggiamenti, alcune opere lì analizzate. A ciò si aggiungano certe poco giustificabili lacune quali il totale silenzio, nel capitolo incentrato sui Miti delle origini, riservato a Giphantie, il romanzo fantastico di Charles-François Tiphaigne de la Roche (1760), ma anche, più oltre, al Musée imaginaire di André Malraux (1965), e – per la letteratura statunitense contemporanea – al corpus delle opere di Don De Lillo. Tutti sintomi, accanto ad alcune ingenuità specificamente fotografiche, della difficoltà ancora persistenti nella cultura umanistica italiana a misurarsi con quello che qui doveva essere uno dei due termini della comparazione, un oggetto (concettuale e storico oltre che materiale) che per la sua pervasività si tende a considerare sin troppo noto, e di cui pare che siano i riflessi lasciati nella produzione letteraria i soli a poter giustificare un qualche interesse, dimenticando però che anche di quelli, come di ogni traccia, è indispensabile conoscere precisamente l’origine e la causa se si vuole che assuma il valore di segno.
Più avvertito e convincente il saggio di Andrea Cortellessa, Tennis neutrale tra letteratura e fotografia compreso nel catalogo della mostra Arte in Italia dopo la fotografia[1728], strutturato in due grandi sezioni. A un primo inquadramento storico critico dei rapporti tra i due ambiti faceva seguito l’analisi di quella particolare tipologia di opere in cui la compresenza di testi e immagini non implica rapporti di subordinazione gerarchica ma piuttosto di interferenza; quelli che dalla fine degli anni Ottanta del Novecento sono identificati come iconotesti (da Nadja di Breton al Sebald di Austerliz) programmaticamente esclusi dalla rassegna di Ceserani. Nel descrivere Una partita che dura da centosettant’anni Cortellessa partiva dalla constatazione che quello tra letteratura e fotografia, fu all’inizio, “piuttosto uno scontro, qualcosa di simile a uno ‘scontro di civiltà’ ”, sottolineando l’ironia e l’ambiguità (diremmo il paradosso) dell’invettiva baudeleriana, di colui cioè che “fu l’iniziatore delle poesia moderna (…) perché illustrò e scandagliò la contemporaneità quotidiana”, che era quanto si apprestava a fare la fotografia. L’indagine proseguiva affrontando alcuni nodi che davano corpo e senso alla “duplicità” di questo rapporto, quali la relazione tra fotografia e morte, “che non poté essere priva di conseguenze sulla rivoluzione del linguaggio poetico e dell’arte in generale, come già aveva compreso André Breton” o quello con le poetiche del realismo, di cui sottolineava la messa in discussione legata ai divertissement alla Bayard di Luigi Capuana. E poi, ancora, inevitabile, il differente legame, le mutevoli declinazioni della questione della temporalità “attuale e metafisica” (Giorgio Agamben), dove si incrociano tempo della ripresa e tempo della percezione, e quindi della memoria,leggendo Proust attraverso Mieke Bal, per la quale fu lui a comprendere per primo che non ci sarebbe “nessuna garanzia ontologica e nessuna continuità o contiguità tra le fotografie e il mondo che rappresentano.”[1729]
Quando venne pubblicato il ventiduesimo annale della “Storia d’Italia” Einaudi, l’innovativa e discussa raccolta di saggi dedicati al Risorgimento[1730], si poteva comprendere sin dai titoli quale fosse stata l’influenza dei cultural e visual studies, comparendo più volte il termine “immagini” e addirittura la parola “grandangolo”, sebbene poi non venisse quasi fatto cenno alle fotografie né al ruolo che ebbero nella costruzione immaginaria di quell’epopea, preferendo ancora rifugiarsi nella più consueta analisi della pittura di storia[1731]. Da qui la loro assenza dallo scarno corredo iconografico del volume, nonostante la recente pubblicazione dei primi due “Repertori del Museo centrale del Risorgimento” dedicati rispettivamente ai fondi fotografici (Pizzo 2004b) e all’Album dei Mille di Alessandro Pavia (Pizzo 2004a); segno di un certo interesse per la storiografia ‘fotografica’ (o che ricorre a un uso privilegiato delle fotografie) di argomento risorgimentale che ebbe uno notevole sviluppo nel periodo 2007 (bicentenario della nascita di Garibaldi) – 2011 (centocinquantenario dell’Unità)[1732]. Si trattava di pubblicazioni che illustravano bene le diverse tipologie legate al complesso tema storico dei rapporti tra guerra e fotografia e ai problemi che questi pongono. Il primo aveva lo scopo di presentare antologicamente la ricca collezione del Museo, composta da circa 75.000 fotografie recentemente inventariate, mentre il secondo entrava nel merito della genesi e dei significati politici e culturali del progetto di Pavia, sottolineando come la forma album trasformasse il repertorio in una concettualizzazione della canonica e qui impossibile foto di gruppo; tramite narrativo di una storia che avrebbe disseminato di monumenti celebrativi tutta la penisola, mediando tra funzione privata e pubblica. Un importante esempio di strategia di comunicazione per immagini, forse il più noto e sistematico tra quelli prodotti in ambito risorgimentale, ma certo non il solo come ebbe modo di ricordare lo stesso Marco Pizzo in due contributi successivi che presentavano un sintetica rassegna di tipologie ed esempi di fotografie sul tema e ne illustravano finalità e contraddizioni derivanti dalla tensione ancora irrisolvibile tra intenzionalità documentaria e impossibilità tecnologica di registrazione dell’evento, in molti casi narrativamente surrogata dalla messa in scena[1733]. Era proprio quella soluzione narrativa a costituire il centro di interesse di un contributo dello stesso studioso intitolato allo “stivale di Garibaldi”[1734] (con una suggestione derivata da Andrea Camilleri) nel quale Pizzo raccoglieva una ricca messe di esempi di quelli che comunemente vengono definiti “falsi” e che proprio per questa loro connotazione possono costituire fonti più che rilevanti per lo storico interessato alle implicazioni sociali e culturali oltre che politiche[1735] della comunicazione per immagini. Una modalità strategica che si sarebbe ripresentata con motivazioni sostanzialmente identiche in ogni successivo contesto bellico, mutando semmai le forme narrative a seconda dei media in campo. A quello che definiva il “portato comunicativo dei periodici e della stampa”, sottoposto a importanti modifiche produttive e ricettive dall’introduzione della fotografia e di altre tecniche quali la cromolitografia, dedicava un breve intervento anche Giuseppina Benassati (2011) richiamando i nuclei documentari presenti nelle collezioni pubbliche dell’Emilia-Romagna[1736] e sottolineando – anche per questo particolare settore – il processo di democratizzazione dell’accesso all’informazione indotto dalle immagini ottico meccaniche. Il tema era insomma quello dell’uso e quindi del ruolo svolto dalle fotografie nella formazione e manipolazione dell’opinione pubblica; questione non nuova, che queste iniziative si proponevano però di dettagliare e verificare a scale diverse: da quella regionale scelta da Benassati a quella internazionale, e in particolare francese, che fu oggetto della mostra sui rapporti tra Napoleone III e l’Italia (Le Ray-Burimi et al. 2010), dove l’immagine oltre che oggetto di studio era anche mezzo di narrazione storiografica[1737], o lo studio degli “sguardi francesi sull’unità italiana” condotto da Giorgio Longo (2011), che si soffermava in particolare sul ruolo e sui modi della propaganda politica intesa a celebrare quella che l’autore, con definizione accattivante ma storicamente discutibile, chiamava la “guerra in diretta”.
Il più fecondo terreno di verifica delle questioni poste dalla costruzione iconografica del mito, e quindi anche dalla fotografia come agente di storia era ovviamente quello offerto dalla figura dell’eroe dei due mondi. Un primo contributo di ordine strettamente storico filologico venne offerto da Carmelo Calci e Leandro Mais in occasione di una mostra il cui titolo rendeva omaggio alla notissima biografia di Jessie W. Mario, Garibaldi e i suoi tempi, in occasione della quale i due collezionisti sottoposero a verifica la datazione cronica e topica di un notissimo ritratto di Garibaldi a cavallo, che fino ad anni recentissimi si riteneva eseguito a Palermo nel 1860, essendo stato invece realizzato da Alessandro Duroni a Cremona nel 1862[1738]. Le vicende legate a un altro ritratto fatto circa negli stessi giorni, quello firmato da Giacomo Isola a Parma il primo aprile 1862, vennero studiate da Romano Rosati (2008) contribuendo così a consolidare la base documentaria delle strategie comunicative di Garibaldi e del garibaldismo, testimoniate anche dalla grande generosità con cui si concedeva ai fotografi delle località che andava visitando. L’analisi della fortuna, dei modelli e delle dinamiche della formazione per immagini del culto dell’eroe, ma con evidenti connotazioni cristologiche di ascendenza popolare, aveva preso avvio con un articolo di Ando Gilardi (1973) per assumere forme più strutturate in un noto studio di Omar Calabrese, che ne aveva individuato le componenti costitutive nel suo Garibaldi tra Ivanhoe e Sandokan del 1982[1739], anno garibaldino se mai ve ne fu uno, celebrativo del centenario della morte, in cui vennero pubblicati numerosi contributi sulla costruzione iconografica (e fotografica in particolare) del mito[1740]. Le celebrazioni del bicentenario, e solo con un breve ritardo, offrirono l’occasione per interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio documentario del Compendio Garibaldino di Caprera[1741] e per ulteriori approfondimenti e studi rivolti alla comprensione dei meccanismi di formazione dell’iconografia dell’eroe, in particolare per quanto riguardava la diffusione dei ritratti in formato carte de visite, quando “la novità tecnica (…) permette di sperimentare vari possibili modi di costruzione della figura pubblica di Garibaldi (…) contribuendo a favorirne la presentazione in termini di ‘padre della patria’, di figura condivisa di riferimento per un vasto schieramento patriottico e nazionale”[1742]. La congerie di ritratti circolanti all’epoca, autentici, contraffatti, duplicati e falsi, non di rado corredati da didascalie e testi di varia e incerta attendibilità costituiva a suo volta un fenomeno che meritava di essere indagato sia dal punto di vista filologico che storico, provandosi a sottoporre a verifica l’assunto che “nella storia figurativa risorgimentale il rapporto tra la fotografia e la pittura è fondamentale”, ma ribaltandone la freccia di direzione consueta per provarsi a utilizzare quali fonti proprio i dipinti derivati da fotografie, come si era provato a fare Giulio Brevetti (2012a) in un contributo interessante ma fondato su di una poco plausibile considerazione a proposito della circolazione delle immagini fotografiche[1743].
Lontane da preoccupazioni metodologiche e più prossime alla tipologie delle ‘storie con’ fotografie erano due produzioni legate alle celebrazioni del centocinquantenario: la prima, sul Risorgimento dei romani (Betti et al. 2010) non offriva altro che una serie di ben note immagini della città e dei suoi monumenti, corredate di discutibili schede[1744], mentre la mostra curata da Walter Liva nel 2011, nominalmente dedicata ai “tesori dei grandi Musei italiani” in tema di fotografie risorgimentali si rivelava sostanzialmente occasionale e pretestuosa, quasi una non dichiarata storia della fotografia in Italia che mescolava documenti e immagini legate al primo diffondersi dell’invenzione nel nostro paese con i paesaggi e le vedute urbane destinate agli epigoni del Grand Tour, la Scuola Romana di fotografia e l’assedio di Gaeta del 1861 fotografato da Eugène Sevaistre[1745].
Nel proporre una densa rassegna critica della più recente storiografia fotografica sul tema della grande guerra Tiziana Serena riconosceva l’ancora eccessiva presenza di un “approccio utilitaristico nei confronti della fotografia come fonte storica confusa e impastata com’è con il suo referente reale”[1746], individuandone le ragioni non solo e non tanto nell’anonimato autoriale che connotava quelle immagini sino a farle percepire come “trasparente resoconto di un evento”[1747], quanto in due altri fattori condizionanti: il rapporto con la didascalia e “il fatto che le immagini di guerra si conservano soprattutto nella dimensione locale e questo favorisce un’identificazione dei luoghi e la costruzione di un’identità storica, non mediata dalle fotografie ma costruita per mezzo delle fotografie stesse: in fondo, noi non ricordiamo eventi e fatti grazie alle fotografie, quanto piuttosto ricordiamo le fotografie di eventi e fatti.”[1748] Questa interpretazione risultava per molti versi confermata da alcune produzioni dell’ultimo decennio, specie quelle di taglio più divulgativo come Le colonie e l’impero: dall’archivio fotografico del Touring club italiano (Lombardo et al. 2004), in cui però erano proprio le immagini (di diverso soggetto e provenienza) a essere oggetto di scarsa considerazione, ovvero – all’opposto estremo cronologico – La Grande Guerra degli italiani, 1915-1918 (Oliva 2015), distribuito in allegato ad alcuni quotidiani in occasione del centenario dell’entrata in guerra dell’Italia. Alla problematica “dimensione locale” e alla questione identitaria si richiamavano numerosi altri titoli[1749] che raccoglievano documentazione inerente sia alla vita al fronte che a quella dei civili, offrendo proprio nella loro precipua connotazione geografica (a volte anche molto circoscritta) uno degli elementi di interesse. Ciò risultava particolarmente vero quando l’impostazione metodologica e lo scopo stesso dell’iniziativa (in molti casi nella forma del catalogo di mostra) si collocavano in una prospettiva che potremmo definire in senso lato di “archeologia della guerra”, comprendendo in questa categoria quei progetti che raccoglievano e sistematizzavano le fonti fotografiche pertinenti a una certa area anche con l’intento di favorire il recupero, la tutela e la valorizzazione dei segni materiali lasciati dal conflitto[1750]; progetti nei quali erano proprio la sistematicità della raccolta e la tendenziale esaustività degli esiti a segnare le differenze con la produzione più memorialistica e illustrativa. Ne furono buoni esempi quello della Rete Trentino Grande Guerra sui Paesaggi di guerra (Grazioli et al. 2010), sviluppato in una ricca serie di allestimenti locali poi confluiti in una mostra a Trento nel 2011, così come i quattro volumi de La guerra per immagini in Fassa e Fiemme (Alliney et al. 2010-2013) in cui alla raccolta di fonti fotografiche si era affiancata l’indagine storica sulla costruzione identitaria di luoghi e popolazioni fortemente segnate dalla guerra e dalle sue memorie. Lavori che mostravano una forte consonanza con i progetti di valorizzazione delle testimonianze belliche superstiti promossi dalla Legge 78/2001[1751], che comprendevano produzioni di vario genere, tutte poste sotto l’egida collettiva dei Teatri di guerra[1752]. Altri contributi pubblicati in quell’arco di tempo richiamavano l’attenzione sui dispositivi narrativi delle vicende belliche, come quelli di taglio più repertoriale che raccoglievano “Immagini delle campagne coloniali”[1753] o il lavoro di montaggio realizzato per ricostruire visivamente le diverse fasi della cattura e dell’esecuzione di Cesare Battisti (Leoni 2008), che dimostrava la pervasività della pratica quanto la bulimia della appropriazione fotografica dell’evento, confermando l’inevitabile connotazione ideologica che trasuda dalla presunta oggettività di quelle riprese. Ancora più precisamente orientato all’analisi di questi fenomeni socio culturali e politici il numero monografico di “Memoria e Ricerca” del 2005 (About et al. 2005), tutto incentrato sulla rappresentazione della violenza in contesto bellico, in cui si affrontavano specifici casi di studio, alcuni dei quali nel contempo anche oggetto di mostra, come quella sul concorso fotografico promosso in Francia da “Le Miroir” e presentata al Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto nel 2005[1754]. Alle posizioni ideologiche sottese alla rappresentazione della violenza si dedicava Adolfo Mignemi con una serie di scritti scalati negli anni successivi: in “Memoria e Ricerca” l’attenzione era portata alla rappresentazione degli interventi italiani in area balcanica nel corso del secondo conflitto mondiale[1755], spostando poi lo sguardo a quelle veicolate dalle agenzie di stampa internazionali[1756] durante l’avventura coloniale in Etiopia; Enrica Brichetto[1757] interrogava sugli stessi temi la documentazione conservata nell’archivio del “Corriere della Sera”, collocandola nel contesto dell’impegno propagandistico del giornale e ponendola in relazione con i testi delle corrispondenze di guerra. Un duplice livello e un meccanismo narrativo che costituirono da subito uno dei nodi centrali e problematici della comunicazione per immagini e che del resto erano da tempo divenuti oggetto privilegiato della storiografia più avvertita; elementi che – nelle parole dello stesso Mignemi – avrebbero dovuto condurla “a un diverso approccio, che trova proprio nel documento fotografico una delle principali fonti disponibili”[1758]. Una fonte ben più ricca e complessa dell’insieme di dati offerto dalla sua semplice referenzialità documentaria, come testimoniava un’altra occasione di studio e pubblicazione a proposito di un caso piuttosto noto di dispositivo di narrazione fortemente ideologizzato[1759], quello delle mostre prodotte dal Corpo Volontari della libertà e dal CLN nel 1945-1947, destinate ad ampia circolazione in Italia e in Europa al fine di restituire l’immagine (e anche una forte dose di immaginario) della Resistenza appena compiuta, così come emergeva dal laboratorio politico in cui si andava definendo la ricostruzione del Paese. Un esemplare caso di studio che consentiva di “cercare di capire come le fotografie sono state prodotte, fatte circolare, come sono state recepite e usate socialmente, in una parola come hanno agito nella storia, prima di divenire oggetto di attenzione degli storici”, come avrebbe scritto qualche anno più tardi Luigi Tomassini riferendosi al primo conflitto mondiale[1760], ricordando inoltre – ed era rilievo metodologico fondamentale – che ogni “reperto” fotografico è dotato “almeno in parte di una propria irriducibile individualità (le fotografie non si possono trattare come le schede degli atti battesimali o come i registri di entrata e di uscita delle merci, il cui contenuto per la sua parte essenziale e significativa può essere normalizzato secondo schemi logici standardizzati).” [1761]
Rinunciando a quei criteri di edizione critica che soli avrebbero consentito di restituire pienamente a quelle immagini il loro valore di fonte non rari furono però i casi in cui i curatori – optando per un legittimo ma dubbio registro evocativo – scelsero invece di non precisare “luoghi, persone, date”[1762] nonostante le avvertenze metodologiche e i modelli editoriali a suo tempo proposti da Mignemi, a sua volta impegnato a realizzare una Storia fotografica della prigionia dei militari italiani[1763] nella quale per la prima volta si faceva ricorso a questa tipologia di fonte, ricostruendo opportunamente anche “la storia dell’origine, della trasmissione e dell’originario contesto di utilizzo dei differenti fondi iconografici.”[1764]
Tra i connotati di quella “irriducibile individualità” di cui aveva scritto Tomassini certo non era possibile escludere neppure quello della valenza estetica, sebbene poi un aspetto così complesso e delicato necessitasse di strumentazione ermeneutica più sofisticata di quella adottata per studiare L’occhio del nemico, una selezione del fondo di circa 3.000 fotografie anonime scattate al fronte e nelle retrovie austro-ungariche durante la Grande Guerra e rinvenute nell’Archivio dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano. “Può la fotografia di guerra essere un fatto artistico?”[1765] era la domanda retorica posta in apertura del testo in catalogo, a cui seguiva non solo l’inevitabile risposta affermativa ma addirittura l’individuazione di “una tradizione estetica che affonda le sue radici in Dürer e nei fiamminghi” e che quasi sembrava preannunciare – per il curatore – la Neue Sachlichkeit. Il tutto proposto senza l’impiego di alcun sostegno storico critico, confidando anzi su di una presunta evidenza iconografica, tale da giustificare una lettura superficiale degli stessi contenuti referenziali. Come spiegare altrimenti affermazioni quali “la guerra sembra lontana e se ne coglie un meditato riverbero solo osservando le armi, le medaglie sulle divise, i pugnali”, senza chiedersene le ragioni, senza considerare l’inevitabile parzialità delle scelte. Fu quella una delle occasioni in cui si riscontrava con palmare evidenza quanto i richiami metodologici, gli inviti a considerare criticamente forme e modi di produzione, uso e ricezione delle fotografie – certo non inediti – risultassero ancora quasi inascoltati anche in quei casi in cui oggetto di studio erano gli stessi produttori, qui da intendersi in senso lato e propriamente archivistico: dai singoli fotografi agli organismi di propaganda e ai responsabili di raccolte tematiche. Così quasi nessun cenno ai modi del racconto fotografico si poteva riscontrare nel volume dedicato alle riprese che Enrico Unterveger realizzò durante l’internamento a Katzenau[1766] o in quelli che raccoglievano la produzione amatoriale del tenente Luigi Marzocchi (Pianca 2009), del medico militare Alberto Piersanti (Candi 201) o del conte Guido Chigi Saracini (2015); tra i molti casi di dilettanti fotografi attivi nei territori di guerra che andavano riemergendo in quegli anni. Una predilezione per i ‘depositi’ privati, avrebbe caratterizzato anche una successiva ricerca incentrata sulla pratica della fotografia nell’Africa orientale italiana (Bertella Farnetti et al. 2013) originata dal progetto Returning and sharing memories; un censimento destinato a “raccogliere, restituire e condividere le tracce di memoria privata che testimoniano il passato coloniale del nostro Paese.” Poiché il materiale era essenzialmente fotografico, uno spazio adeguato fu riservato alle riflessioni metodologiche nella consapevolezza, che qualificava il progetto, di dover restituire e condividere “ricordi documenti foto che raccontavano la nostra storia ma anche la loro”[1767]. In una serie di ricchi contributi si offrivano riflessioni di ordine generale riferibili a modelli anche culturalmente distinti (dalla storiografia postcoloniale ai visual studies) ma accomunati dalla determinazione ad affrontare la complessità di quelle fonti nei loro distinti momenti di esistenza e di circolazione, mostrando (e dimostrando) la rete di competenze necessaria per transitare dal principio teorico e metodologico alla sua applicazione puntuale. Anche in occasione della mostra che il Museo nazionale del Cinema di Torino aveva dedicato ad alcuni cineoperatori e fotografi impegnati nella documentazione della Grande Guerra (Basano et al. 2015) ed in particolare a Luis Bogino, proseguì il lodevole tentativo di restituire una qualche identità alla massa di foto anonime prodotte nel corso del primo conflitto mondiale; racconti per immagini che sovente erano il controcanto aspro e tremendo delle rappresentazioni ufficiali prodotte dalle prime sezioni fotografiche e cinematografiche degli Stati Maggiori per le quali lavorava Bogino, del quale vennero presentate in mostra 160 fotografie inedite suggerendo anche elementi per un’analisi delle varie versioni delle didascalie di accompagnamento[1768], confrontandone le edizioni dell’immediato primo dopoguerra con quelle del 1935, in piena retorica nazionalista, quindi con le versioni messe a punto nel 1960 nell’ambito delle celebrazioni per il primo centenario dell’Unità d’Italia. Una ennesima, precisa conferma del nesso semantico, culturale e politico che lega immagine e testo in un insieme documentario di straordinaria ricchezza.
Le più articolate riflessioni teoriche intorno al concetto di “biografia sociale” delle immagini si erano sviluppate da noi soprattutto considerando archivi e raccolte fotografiche di storia dell’arte, ma i più interessanti sviluppi e le più efficaci realizzazioni si sono avuti nel più circoscritto ambito della “art protection photography”[1769], aprendo questioni molteplici, specie dal punto di vista storiografico. Oltre le prime, precocissime e quasi purovisibilistiche attenzioni per le protezioni antibelliche di una rivista come “Modo”[1770], la serie di iniziative che ha preso avvio col nuovo millennio ha scandagliato e studiato archivi fotografici di Soprintendenze e altri enti culturali[1771], sebbene in molti casi ricorrendo a un uso poco più che illustrativo della fotografia quale testimonianza oggettivante[1772]. Si sono così passate in rassegna le vicende delle maggiori città d’arte, ciascuna dilaniata “fra arte e guerra” e “pronta a difendersi”, con la fotografia chiamata ad essere null’altro che pura e drammatica “testimonianza”: da Firenze[1773] a Venezia[1774], da Pisa a Siena e Milano con i suoi musei[1775]; quindi Roma ed altri centri minori. Allo scandaglio di questi temi venne rivolto un progetto finanziato nel 2007 dal MIUR i cui esiti sono stati raccolti in un volume pubblicato nel 2011[1776]; la seconda sezione riuniva sotto il comune titolo di Istituzioni, associazioni, archivi dieci saggi incentrati sulle principali fonti disponibili, privilegiando i materiali prodotti dalle forze alleate[1777], poi restituiti con ben altri esiti nei contributi pubblicati nel numero monografico di “Ricerche storiche” del 2013, intitolato a L’immagine della città in guerra. Visioni e identità urbane, documenti visivi e saperi tecnici[1778]. Nel fascicolo si presentavano momenti e contesti in cui “fotografie e scritti che coinvolgono opere d’arte in assetto di guerra o danneggiate (…) sono divenuti, nelle occasioni della storia, parte integrante di universi interpretativi o proiezioni dell’immaginario assai distanti fra loro”[1779]; in particolare Michela Morgante affrontava le strategie politiche e culturali sottese alla mostra fotografica itinerante War Toll’s of Italian Art[1780], partita dal Metropolitan Museum di New York nel 1946 quale elemento portante della “operazione di marketing attuata dalle università americane per sostenere il recupero del patrimonio artistico bombardato già prima del varo dei programmi di aiuti governativi all’Europa; con scelte allestitive che risultavano funzionali alla formula del ‘madrinato’ privato sui monumenti”. L’analisi delle fonti consentiva così di identificare le diverse componenti strategiche del progetto di comunicazione: dalle stampe di grandi dimensioni destinate alla “spettacolarizzazione visiva del relitto monumentale” alle modalità di allestimento e a tutti quegli “amplificatori retorici” che meglio avrebbero potuto servire all’operazione propagandistica. Un discorso per immagini di cui veniva ricostruita la biografia politica e culturale, dove “un fondamentale aspetto di rinforzo era rappresentato dal fatto che i materiali in mostra fossero parte di quell’ampia, indiretta, photographical survey sui beni artistici italiani compiuta dagli addetti ai Monuments Fine Arts & Archives sul fronte di guerra.” La loro attività è stata successivamente studiata dalla stessa Morgante (2015) considerando anche gli aspetti censori e propagandistici della circolazione di quelle immagini, così come la messa a punto delle modalità e dei criteri della loro raccolta mediante il Photo Archive Project, sviluppato “dall’American Council for Learned Society tra il settembre 1945 e il giugno 1946, grazie ad un finanziamento della Rockefeller Foundation (…) Nella ricatalogazione si rielaborano le didascalie annotate dai militari, mantenendo il criterio della sequenza alfabetica per località, stato per stato, che rifletteva la survey funzionale alle operazioni di salvaguardia.” Ennesimo esempio della funzione attiva e significante del dispositivo archivistico e delle pratiche politiche e culturali di risemantizzazione delle immagini operata dai corredi testuali e dalle logiche espositive.
Nel 2013 la Fondazione Dalmine rieditava con un nuovo titolo il saggio di Duccio Bigazzi Gli archivi fotografici e la storia dell’industria, presentato vent’anni prima alla giornata di studi promossa dall’Archivio Fotografico Toscano[1781]; l’iniziativa confermava non solo il valore nel tempo delle tesi dello studioso scomparso nel 1999 ma anche, e forse più, l’assenza di aggiornamenti metodologici significativi. Nonostante una bibliografia non scarna, le opere pubblicate si offrivano infatti prevalentemente come repertori antologici o tematici, non di rado geograficamente circoscritti, mentre mancavano o risultavano di scarso rilievo i lavori di sintesi. Si consideri il saggio di Stefano Musso del 2006[1782], che a fronte dell’elegante apertura con una citazione lacaniana proseguiva riproponendo un dato ampiamente acquisito e qui assunto a modello interpretativo, vale a dire che “lo sguardo dei fotografi professionisti sul lavoro e sui lavoratori è stato ben poco ingenuo o inconsapevole. Nella secolare storia dell’Italia industriale esso è stato fortemente condizionato dai committenti (di volta in volta industriali, organizzazioni operaie, i lavoratori stessi) o legato alle sensibilità culturali e politiche di chi stava dietro l’obiettivo. (…) Attraverso le immagini del lavoro i fotografi hanno offerto interpretazioni a loro volta produttrici di emozioni, di culture, di storia in ultima analisi.” Affermazioni ormai scontate e – soprattutto – passibili delle più varie interpretazioni, ciò che corrispondeva del resto allo sviluppo del saggio di questo storico del lavoro[1783] che riusciva meritoriamente a concentrare in poche pagine di testo una vicenda complessa, lunga più di un secolo, ma dove la considerazione doverosa del contesto politico e sindacale sopravanzava la lettura dei modi e dei significati delle diverse narrazioni fotografiche, che ancora una volta erano utilizzate quali strumenti di certificazione del testo.
Confermava purtroppo questa disattenzione o – forse – questa persistente intenzione storiografica e narrativa una mostra di poco successiva sul lavoro femminile nella prima metà del Novecento (Chiarini 2008), nella quale il visitatore (e poi il lettore del relativo catalogo) era lasciato solo di fronte alle immagini, sempre e ancora intese come disponibili finestre temporali alle quali potersi affacciare per attingere al passato senza mediazioni. Nessuno degli importanti saggi in catalogo, firmati da alcune tra le migliori storiche italiane attente alle questioni di genere e certo non digiune di riflessioni sulla fotografia e sui suoi usi[1784], faceva il minimo cenno ai problemi posti dall’interpretazione iconografica del lavoro femminile restituita dalle immagini selezionate, alle quali per altro veniva negata ogni identità intellettuale e materiale, risultando assente ogni indicazione in merito non dico alla tecnica e alle misure della stampa originale (della fonte, quindi) ma agli stessi autori, anche in quei casi non rari in cui quelli erano noti e immediatamente riconoscibili. Se ne ricavava una doppia considerazione storiografica e museologica, l’una derivando conseguentemente dall’altra: la perdurante difficoltà degli storici a misurarsi con le fotografie non poteva che produrre un esito discorsivo condotto per ruoli nettamente separati, dove alla parola era affidata l’elaborazione del discorso storico nel quale le immagini (e non le fotografie) erano disposte come pure tracce fattuali; reperti non passibili di interpretazione in virtù della accettazione esclusiva, non dichiarata né indagata, dell’hic et nunc benjaminiano, di quell “è stato” di cui parlava Barthes, qui inteso come grado zero della testimonianza storica. Erano difficoltà sulle quali chiamava a riflettere Monica di Barbora[1785] considerando più nello specifico i rapporti fra fotografia e storia di genere, quando segnalava i pochi casi in cui si poteva riscontrare “un approccio metodologico all’incrocio tra sociologia, antropologia e storia”; le rare ricerche[1786] in cui “l’immagine fotografica va finalmente oltre il suo consueto ruolo di illustrare argomenti costruiti su fonti altre (…) La sensazione è che, paradossalmente, la vera assente in questi lavori sia proprio la fotografia. La ricerca si gioverebbe di un approccio che superi la pura analisi iconografica e iconologica che tende ad ignorare la rilevanza del supporto: cartoline, stampe fotografiche, fotografie stampate su un volume, su un periodico o su un manifesto non possono venire letti come testi omogenei e indifferenziati. Sarebbe fruttuoso porre maggiore attenzione anche al contesto in cui l’immagine è stata edita all’epoca oltre alle vicende che essa ha avuto, tanto rispetto alla sua produzione che alle diverse fasi e modalità della sua fruizione.”
Accanto, e non meno importanti delle questioni ermeneutiche si collocano però quelle euristiche, ben esplicitate da Pier Luigi Bassignana in un breve intervento (relativo al Piemonte ma di portata più generale) a proposito delle difficoltà di conoscenza e trattamento di un patrimonio per definizione eterogeneo pur nella sua monotematicità come quello proveniente dalle collezioni private. Ricordava opportunamente lo studioso che “documentare con un numero limitato, se pure non piccolo, di immagini, un tema articolato e complesso quale quello del lavoro (…) è impresa più che difficile, impossibile” [1787]. La difficoltà risiedeva proprio nel rispondere in modo esauriente all’idea stessa del “documentare”, sebbene poi fosse possibile “ritrovare più di un filo conduttore (…) così da ricomporre, alla fine del percorso, un quadro armonico e, per molti versi, omogeneo”, anche se – qui come altrove – la considerazione prevalente per non dire esclusiva era poi per i contenuti (la fatica, la presenza femminile, la diacronia della modernità tecnologica) e non per i modi del racconto e per le culture che da queste provenivano ed esprimevano. Questi aspetti furono invece considerati in alcuni interventi di Tomassini che applicava a questo specifico ambito le proprie riflessioni teoriche e metodologiche sulle fotografie come agenti e fonti per la storia[1788], richiamate anche nel contributo a una mostra che si tenne al Palazzo del Quirinale nel 2007 dal titolo politicamente corretto de Il rischio non è un mestiere[1789]. A motivare la sorpresa di Louis Godart, consigliere del Presidente della Repubblica Italiana per la Conservazione del Patrimonio Artistico, che in apertura di catalogo notava quanto “il sorriso [fosse] assente dalle labbra dei soggetti che i fotografi hanno immortalato per decine e decine di anni”, lo studioso ricordava come non fosse mai esistita “una figura professionale di fotografo analoga a quella del reporter di guerra (…) nella dura e incerta guerra che ormai da molto tempo si combatte contro gli infortuni e i rischi per la salute dei lavoratori”, individuandone le ragioni in quella che chiamava la “estetizzazione del lavoro”, ma a nostro parere non considerando in modo sufficiente il ruolo ideologico avuto dalle committenze in questo processo, né il rapporto dialettico tra queste e gli autori delle immagini. Come aveva segnalato lo stesso Tomassini, esisteva poi un’ampia categoria di fonti fotografiche in attesa di essere conosciute, considerate e studiate: quelle prodotte e raccolte in ambito medico legale e giudiziario, certo determinanti per affrontare aspetti comunemente esclusi dalle storie fotografiche dell’industria e del lavoro e per interrogarsi storiograficamente sulle ragioni di tali pervicaci assenze.
Liberi da preoccupazioni che non fossero quelle – meritorie – per la qualità delle riproduzioni erano i volumi che Niccolò Biddau, già noto come fotografo industriale, ha dedicato al patrimonio delle aziende piemontesi e lombarde[1790], nei quali “il filo conduttore [era] dato dagli archivi fotografici di impresa e dall’immagine che l’impresa stessa ha inteso dare di sé attraverso l’utilizzo della fotografia nel corso del tempo” [1791], nella presunzione (forse ideologica) che “sono le immagini con il loro forte impatto che sostituiscono le parole: è il linguaggio della fotografia che, anche grazie ai particolari, ci aiuta a comprendere e a scoprire ovvero a riflettere e a riscoprire mondi tanto lontani quanto a noi così vicini.” L’intento di sondare gli svariati utilizzi che l’industria ha fatto della fotografia caratterizzava anche la ricerca commissionata per celebrare i cento anni della Dalmine, che vide impegnato nella selezione dei materiali d’archivio un autore come Maurizio Buscarino[1792], tra i più noti fotografi di teatro, che ne trasse un racconto della storia delle modalità di autorappresentazione di quell’impresa, articolata nei tre ambiti del lavoro, dell’industria e dei prodotti. Altri ancora sono stati i volumi esplicitamente connotati quali storie industriali per immagini di singole aziende, specifici territori o aree urbane, come quello curato da Marcello Zane[1793] su Brescia, da leggersi in relazione alla prevista realizzazione del Museo dell’Industria e del Lavoro intitolato a Eugenio Battisti, o quello relativo a Udine[1794] basato sulla produzione degli studi Pignat e Brisighelli, i cui archivi sono oggi conservati presso la Fototeca dei Musei Civici cittadini. Quella della restituzione tematica di archivi e fondi fotografici pubblici fu una caratteristica comune a non poche realizzazioni di quegli anni: si pensi al volume sulla provincia di Pavia che Sergio Biscossa (2012) aveva realizzato a partire dall’archivio di Guglielmo Chiolini, che dal 2015 ha trovato collocazione definitiva nel castello Visconteo di Pavia dopo aver rischiato la dispersione; alla rappresentazione del lavoro industriale e artigiano fatta da Carlo Balelli, anche qui legata a un fondo conservato in una istituzione pubblica come la Biblioteca Statale di Macerata[1795] o ancora alle fotografie di vecchi mestieri trentini realizzate tra 1870 e 1950 circa, provenienti prevalentemente da archivi pubblici[1796] , con una interpretazione che coniugava lettura dei modi e delle forme di produzione di matrice etnografica e analisi delle modalità rappresentative. Si distingueva da questa varia produzione un’iniziativa della Fototeca Ansaldo (Lombardo 2013), certo tra le prime sedi di messa a punto e di riflessione metodologica[1797], che per raccontare centosessant’anni di attività produsse una mostra fatta prevalentemente di “fotografie multimedializzate”, qualunque cosa ciò voglia dire, o gigantografate o anche (eventualmente) “esposte in originale”, confondendo, direi, legittime e sacrosante istanze comunicative con quella correttezza d’uso delle fonti storiche che necessariamente deve sostenere ogni progetto conoscitivo e a maggior ragione divulgativo, per il quale non ci sembra adeguato ricorrere semplicemente alle “suggestioni multimediali quali lavagne touch screen, torce, postazioni interattive video, ma anche all’antico laboratorio fotografico di Antonio Campostano. Un patrimonio documentale che esce quindi dalle sale studio della Fondazione per essere conosciuto da un pubblico vasto e diversificato.”[1798]
Per la loro specificità vanno compresi tra gli studi dedicati al rapporto tra storia industriale (e imprenditoriale) e fotografia anche le monografie dedicate ad alcuni dei più importanti autori attivi nella prima metà del Novecento, in primis Antonio Paoletti, del quale vennero studiate le importanti campagne documentarie realizzate per l’impresa di costruzioni Girola[1799]; un’attività poi ottimamente restituita nell’approfondimento riguardante i suoi lavori in Valle di Viù, in Piemonte (Jakob et al. 2005), nel quale, con metodo quasi etnografico, l’intero repertorio di immagini era posto a confronto con le testimonianze di chi collaborò localmente a quelle realizzazioni. Il prezioso strumento dell’intervista, qui a Sandro da Re titolare di uno degli studi che più a lungo avevano lavorato per la Dalmine, venne utilizzato anche da Roberta Valtorta in preparazione del proprio saggio[1800], sottolineando il valore del dato di continuità che consentiva di studiare le relazioni fra la realtà industriale e la sua rappresentazione; una dinamica non immediatamente riconducibile né riducibile al rapporto tra domanda e offerta[1801]. Anche la produzione dello Studio Villani di Bologna, già studiata in più occasioni legate alle varie sedi di conservazione dei suoi archivi[1802], venne riconsiderata in occasione dei cento anni di attività, basandosi specialmente sulla ricca porzione di proprietà della Fratelli Alinari[1803], mentre riemergeva dai depositi del GFN il reportage realizzato per la Cirio da Luciano Morpurgo, parte del patrimonio lì conservato, di cui si fornivano per la prima volta informazioni attendibili in merito a consistenza e ordinamento archivistico (Zacchi 2006), stante il fatto che nell’urgenza dell’acquisizione (1970-1973) venne addirittura smarrito il registro dei negativi, rendendo così difficoltosa ogni ulteriore operazione di datazione[1804].
La letteratura fotografica del primo decennio del XXI secolo ha proposto alcuni repertori sistematici di fotografi attivi in specifiche aree territoriali, surrogando i compiti dei progetti istituzionali di catalogazione che pure dovrebbero contemplare la realizzazione di basi di dati relative agli autori. Caso esemplare il Biellese, un’area oggetto di precoci attenzioni per la presenza storicamente significativa di figure quali Giuseppe Venanzio e Vittorio Sella, attorno alle quali si erano sviluppate attività professionali e amatoriali di buon livello negli ambiti della fotografia alpina ma anche della documentazione delle infrastrutture territoriali e del patrimonio artistico, sebbene poi la storiografia ritornasse troppo spesso su di una ristretta serie di nomi, mancando ogni ricognizione sistematica che consentisse di delineare il contesto e di comprenderne le trasformazioni. A questo impegnativo compito si è rivolto il progetto più che decennale del DocBi – Centro Studi Biellesi, avviato nel 2003[1805] con un primo censimento dei fondi fotografici locali o di interesse biellese[1806] e proseguito nel 2006 con la compilazione delle schede biografiche di circa duecento fotografi “residenti o comunque esercenti in loco per un lungo periodo”, esito di un’ampia ricognizione dei materiali conservati negli importanti fondi locali ma anche dello spoglio di fonti archivistiche e a stampa, coordinata da Danilo Craveia e Giovanni Vachino. Da quelle indagini sono emersi interessanti elementi di ordine sociologico di cui sarebbe utile poter disporre anche per altre aree del Paese quali l’individuazione delle dinamiche genealogiche o parentali nelle filiazioni professionali, i processi di diffusione tra capoluogo e centri minori, la presenza di fotografi ambulanti ancora ben oltre la fine del XIX secolo o, ancora, la sparuta presenza di donne fotografe (non più del 2,5%), nella maggior parte dei casi vedove che proseguirono l’attività del marito. Ad oggi l’ultimo contributo è costituito dal terzo volume di “Studi e ricerche” realizzato in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Biella[1807], rivolto alla descrizione dei principali fondi conservati presso le istituzioni precedentemente individuate, quale “stimolo alla tutela e valorizzazione”; un progetto impegnativo e meritorio che ha prodotto esiti importanti ma che soffriva di una scarsa sistematicità metodologica, evidenziata anche dal ricorso a un tracciato descrittivo che non teneva conto delle esperienze e delle indicazioni normative messe a punto a livello nazionale, né considerava i problemi di standardizzazione della restituzione catalografica dei dati raccolti, riducendo così quelle possibilità di condivisione dei risultati che sarebbe derivata da un allineamento ai criteri ormai consueti nella definizione di basi di dati informatizzate. Ancora in forma cartacea venne edito il ricco repertorio dei fotografi piemontesi (1839-1915) pubblicato da Pierluigi Manzone (2008), versione aggiornata di un precedente progetto online, realizzato integrando con accuratezza le fonti secondarie disponibili a scala regionale e le ricerche di prima mano relative al cuneese, sino a restituire in forma diagrammatica la distribuzione geografica delle attività fotografiche in Piemonte. Un risultato che confermava la prevalenza assoluta e prevedibile del capoluogo, seguito a lunga distanza proprio da Biella: un dato che sembrava riflettere non solo una dinamica storica ma anche la geografia degli studi[1808].
Aggregazioni di storie che assumevano una andamento frattale a tre dimensioni, con estensioni e approfondimenti magari micrometrici ma continui, che corrispondevano e derivavano dall’ampliamento degli ambiti di interesse come dall’accrescimento delle conoscenze. Una storia in cui anche il dato quantitativo, solitamente poco considerato, contribuiva a dare consistenza al fenomeno “pratica fotografica”, toccando progressivamente realtà urbane di differente dimensione e non di rado derivando da interventi (non solo pubblici) di recupero e valorizzazione di archivi di professionisti locali, come nel caso di Ancona (Marzocchini 2015) o in quello dei Rossi a Gubbio, occasione per tentare anche un primo regesto storico dei fotografi attivi in città[1809]. Tra costruzione di un repertorio e indagine antropologica si era mossa invece l’indagine di Lello Mazzacane (2006) sui “ fotografi di famiglia” attivi a Napoli tra Otto e Novecento; l’idea di rilevamento e tutela di un patrimonio materiale e di conoscenze a rischio dispersione aveva segnato anche la nascita della collana “Scatti d’Epoca”[1810], avviata nel 1999 da Edigrafital per iniziativa di Fausto Eugeni allo scopo di promuovere “il censimento dei fotografi [abruzzesi][1811] e la documentazione relativa alla loro attività, l’individuazione dei fondi archivistici pubblici e delle collezioni private, la progressiva redazione, infine, di una bibliografia ragionata sull’iconografia storica locale [muovendosi] su un terreno praticamente inesplorato e assolutamente privo di riferimenti.”[1812] Un’iniziativa meritoria e rara, condotta su collezioni pubbliche e private e svolta con il preciso scopo di preparare un “lavoro da consegnare agli storici e ai teorici della fotografia che troveranno un primo corpus ‘abbastanza organizzato’ di informazioni di base e di materiali su cui iniziare il proprio lavoro critico”; un progetto che aveva già portato a un primo repertorio dei fotografi attivi in Abruzzo (Anelli et al. 2002), poi aggiornato con le successive uscite.
Studiando il “paesaggio urbano veneto in pittura e fotografia” Gabriella Bologna (2010) prendeva spunto dalla centralità delle riflessioni di Pietro Selvatico (poi di Camillo Boito) che determinarono il ruolo di primo piano assunto dal Veneto nel dibattito italiano ottocentesco in merito ai rapporti tra pittura e fotografia, anche in ambito didattico. Per definire meglio i termini e gli aspetti della questione la studiosa considerava alcuni casi singolari in parte già noti (Bresolin, Ruskin) in parte sostanzialmente inediti come l’indagine condotta sull’archivio fotografico di Lawrence Alma Tadema o il confronto tra le fotografie di Carlo Naya e i quadri dell’americano John Henry Twachtman, riconoscendo un uso della fotografia che non si limitava ad essere supporto alla pratica artistica per divenire strumento conoscitivo o enciclopedico repertorio iconografico. Analogo interesse suscitavano gli “itinerari ottocenteschi” toscani”[1813]: testimonianze preziose “dei caratteri della vita delle città e delle campagne fra Ottocento e Novecento, almeno nelle loro componenti fondamentali e transeunti”[1814], da leggersi considerando opportunamente le regole sintattiche e compositive dei canoni narrativi. Tra questi un ruolo importante era svolto dal progressivo passaggio “dalla veduta al paesaggio” su cui tornava a riflettere in quegli anni Marina Miraglia (2005a, 2005c) a proposito di immagini campane e siciliane; ancora altri furono i progetti che offrirono esempi e occasioni di approfondimento, come quello relativo all’immagine di Napoli “tra incisione e fotografia” (Iannone 2007); all’iconografia della Costiera Amalfitana studiata in due distinte occasioni da Maurizio Apicella[1815] avvalendosi anche dei preziosi fondi della Société Française de Photographie e della Bibliothèque Nationale de France o alle fotografie siciliane studiate da Sergio Troisi, Monica Maffioli e Davide Lacagnina[1816] in stretta relazione con la pittura e la letteratura coeve. In particolare Lacagnina si provava a smantellare il pregiudizio ‘verista’ auspicando “una storia per immagini da rimettere al filtro di una critica visiva al di là di ogni gerarchia di genere e di contenuto”[1817], ricordando che per molta parte delle vedute e paesaggi della seconda metà del XIX secolo “è molto difficile, se non impossibile, attribuire primogeniture e patenti d’invenzione originali”, sebbene poi “nelle relazioni fra fotografia e pittura lungo il corso dell’Ottocento spetti alla seconda la parte del leone, per quanto indubbiamente la prima continui ad agire sottotraccia. E in maniera quasi clandestina, come pungolo costante, ineludibile termine di paragone, utile strumento di ricerca.” Questione che restava quindi tutta da chiarire o almeno da precisare meglio, anche per quanto riguardava le eventuali ‘derivazioni’ fotografiche da dipinti, qui studiate a proposito di Francesco Lojacono[1818] ma insistendo sulle sole analogie formali, che, per quanto forti, non potevano essere sufficienti a certificarle in assenza di verifiche efficaci sulla effettiva conoscenza dei presunti modelli di riferimento[1819].
Maggiori cautele avrebbero giovato anche allo studio delle immagini calabresi conservate nell’archivio dell’ANIMI, a proposito delle quali risultava difficoltoso condividere le granitiche certezze del curatore quando affermava che le immagini “sono il sostegno della storia, in quanto confermano, dandone prova documentaria e visibile, controllabile ed effettuale, la realtà dell’evento di cui hanno conservato la traccia, unica e sola testimonianza, ma anche rappresentante tutta la vicenda, quale una scena per il tutto, secondo la migliore e consolidata tradizione dell’arte celebrativa e storica realizzata prima del 1939 [sic].”[1820] Nulla di più distante dalle indicazioni metodologiche espresse da Lucio Gambi (2002) a proposito del ricorso alla fotografia storica per lo studio del paesaggio[1821]; una ambito che ha di recente avuto uno sviluppo considerevole con “ricerche multidisciplinari attuate attraverso l’incrocio tra fonti documentarie e fonti di terreno”. In questa “prospettiva di ricostruzione diacronica regressiva del palinsesto paesaggistico basata sull’interpretazione di determinati fenomeni territoriali e ambientali attraverso l’individuazione dei loro esiti visivi”, risultava determinante la “riflessione sugli archivi dedicati alla conservazione [delle fotografie] e sul ruolo che essi giocano nell’interpretazione della fonte stessa” in termini di “conferimento di valore agli oggetti in essi raccolti” e di condizionamento della “interpretazione storico culturale data alle immagini.” (Gemignani 2011) Altri progetti particolarmente attenti all’immagine storica dei luoghi, nascevano dalla disponibilità di archivi e fondi di autori diversi, come quelli curati da Alberto Prandi per il Museo Alto Garda dal 2011 al 2013, attingendo rispettivamente alle campagne documentarie di un dilettante di inizio Novecento come il bolognese Alessandro Oppi, di uno studio professionale di grande qualità come quello dei Lotze e del fotografo carinziano Alois Beer[1822]. L’adozione di questo duplice intreccio tematico e il ricorso sempre più esteso e filologicamente accurato anche alla produzione amatoriale costituivano elementi nuovi della nostra storiografia, qui non tanto memore dell’affezione di Lamberto Vitali per gli “irregolari”, che erano fenomeno tipico di un altro momento storico e culturale, quanto di una estensione dello sguardo in prospettiva quasi sociologica, interessato a comprendere gli elementi emergenti di una produzione che si avviava ad essere di massa ma conteneva ancora in sé e presupponeva una formazione culturale che nei primi decenni del Novecento non poteva che essere per gran parte elitaria. Ne hanno mostrato buoni esempi – per restare all’Italia settentrionale – l’esposizione delle fotografie trentine di Giovanni Pedrotti, realizzate alla vigilia della prima Guerra mondiale e oggi conservate nell’Archivio Fotografico Storico della Provincia autonoma di Trento (Dal Pra et al. 2014), o i due volumi in cui è stata raccolta l’illustrazione di tutti i centri abitati friulani condotta attingendo dagli archivi Pignat e Brisighelli di Udine[1823].
In area centro meridionale sono state Sicilia e Sardegna le regioni in cui si sono maggiormente sviluppate le ricerche rivolte al tema della rappresentazione del territorio. Per quanto riguarda la prima va ricordato lo studio delle fotografie contenute nell’album omonimo di Eugène Sevaistre[1824], formato prevalentemente di stereoscopie, tra le quali, notissime, quelle di Palermo pubblicate in un volume di poco precedente[1825]. Alle soglie della prima crisi dello spettacolo tridimensionale apparteneva invece la serie Sicily, edita dalla Stereo-Travel Company di New York; pubblicata nell’anno del terribile terremoto calabro messinese era ancora priva di qualsivoglia riferimento alla catastrofe e segnata da una visione retorica del contesto siciliano che era difficile ascrivere – come riteneva invece il curatore (La Cecla 2008) – alla voglia di “conoscere a fondo i ‘siciliani’ che sbarcavano dalle navi affollate, provenienti dall’altra parte dell’Atlantico.” Un’interpretazione etnoantropologica che peccava di eccessivo ottimismo e non teneva sufficientemente conto della resistenza opposta dai luoghi comuni nelle varie forme e manifestazioni dell’esotismo[1826] e, in genere, di ogni sguardo esterno.
Era a quest’ultima categoria interpretativa che si rifaceva una delle più rilevanti pubblicazioni di questi ultimi anni: il volume sulla fotografia in Sardegna nel periodo 1854-1939[1827], curato da Marina Miraglia con contributi di Francesco Faeta e di Maria Luisa Di Felice, che colmava in parte le conoscenze su di una regione povera di studi[1828] sebbene non considerasse, per ragioni poco comprensibili, la produzione fotografica locale.
Il contributo della curatrice[1829] restituiva un disegno ricco e articolato, criticamente centrato sui “processi di ‘orientalizzazione’ interna”, per riprendere la categoria proposta da Faeta a partire da Edward Said, tanto da consentirle di parlare di “stereotipo orientalista” per classificare lo sguardo portato sulla cultura sarda, utilizzando però il concetto in modo schematico e non sufficientemente verificato. Quasi tautologica risultava infatti l’esplicitazione delle ragioni che l’avevano portata a privilegiare quello sguardo, dovute solo alla contiguità tra quella fotografia e la precedente produzione incisoria: “una postazione ideale d’osservazione proprio in relazione alla Sardegna e in particolar modo nello sguardo dei fotografi ‘continentali’ (…) su cui nel tempo è stata fondata ed è cresciuta l’immagine della Sardegna”, alla quale -parrebbe di capire – non devono aver contribuito in alcun modo i fotografi locali. Neppure il riconoscimento del contrasto tra la “infinita varietà delle forme documentarie della fotografia” e una produzione letteraria intenta a restituire una realtà arcaica e immobile sembrava portare alle necessarie valutazioni critiche e conseguenze storiografiche, prendendo ad esempio in considerazione ragioni e ruoli delle committenze[1830]. Il profilo storico critico risultava ancora meno chiaro nel momento in cui Miraglia riconosceva che “lo sguardo, benché continentale, non si allontana molto, anzi risulta estremamente coerente, rispetto all’ottica interpretativa isolana per il semplice fatto che ad essere privilegiata, anche là dove i referenti sono decisamente moderni, è soprattutto la permanenza, attitudine non solo interna (…) soprattutto a riguardo all’indole sarda e al tradizionale rifiuto di qualsiasi cambiamento”. Per le ragioni qui schematicamente indicate, e forse per la citata scarsità di studi precedenti, l’ampio saggio lasciava aperte più questioni di quante non ne risolvesse, né contribuiva alla chiarezza l’assenza di confronti, anche solo esemplificativi, con le rappresentazioni che della Sardegna hanno dato autori locali come Agostino Lay Rodriguez o Guido Costa, ovvero altri di più complessa definizione quali Evaristo Mauri e Luigi Pellerano[1831], che per la loro biografia personale e professionale sarebbe stato difficile collocare stabilmente tra “interni” o “esterni”, a riprova (forse) che il modello adottato, per quanto accattivante, dovesse essere maneggiato con cautela, pena il rischio di risultare inefficace[1832].
Il contributo di Faeta[1833] costituiva per certi versi il controcanto all’interpretazione fornita da Miraglia. “Avevo pensato – scriveva lo studioso – che sarebbe stato possibile rinvenire una cifra orientalista anche nelle immagini relative all’isola remota dell’Italia e avere conferma, con ciò, di una funzione in qualche modo univoca della fotografia nel processo di costruzione dell’identità nazionale. Così non è stato, tuttavia: le immagini sarde, per lo meno quelle del lasso di tempo considerato (…) dicono altre cose e devono essere analizzate, dunque, in una diversa ottica critica. Non che una componente orientalista non sia presente (…), ma non costituisce, a mio avviso, caratteristica dominante”. Era proprio il riconoscimento della compresenza di plurime articolazioni e funzioni dei discorsi fotografici, con la conseguente rimessa in discussione dei primi presupposti critici a costituire il punto di interesse, anche in termini storici oltre che metodologici di quel testo; un passaggio, la testimonianza di un mutamento di prospettiva in atto: dalla schematizzazione pregiudiziale alla complessità. “Ritengo che la fotografia – proseguiva Faeta – sia stata un potente mezzo per entrare o uscire a piacere dalla modernità (…) sulla base di precise strategie politiche e di rigorose scelte intellettuali. Ritengo ancora che la fotografia abbia concesso, a chi la produceva e a chi la consumava, il privilegio di giocare con il tempo, in rapporto e in risposta a una precisa strategia intellettuale, opposta, che era quella dell’allocronismo[1834] e dell’immobilizzazione del tempo sardo.” Qui l’elemento cardine sembrava essere proprio il tempo, e non solo quello dell’atto fotografico, ma il tempo storico, il contesto sociale e culturale nel quale il ‘dispositivo’ era ‘orientato’ (in modo non necessariamente ‘orientale’) dai diversi agenti in campo (produzione, edizione, ricezione). Meccanismi e dinamiche in cui si celavano e si fondavano le interpretazioni allocroniche o isocroniche della realtà, tanto che per gli autori maggiori “ricercare una specificità sarda (…) appare sterile oltre che, in questa sede, velleitario”; per questo risultava più utile occuparsi di “quelle immagini medie che, spesso scaturite da una committenza storicamente motivata, in modo più diretto rinviano a una relazione di carattere sociale e politico.”
Alla tutela e conservazione delle testimonianze degli sguardi ‘interni’ si sono rivolti progetti e attività istituzionali in diverse aree del paese, tutte caratterizzate da una qualche forma di marginalità geografica. Basti considerare in tal senso, anche per il suo interesse in prospettiva storica, la precoce attenzione valdostana per la fotografia di contenuto demoetnografico, certo dovuta alle ricerche promosse o prodotte dalla Regione autonoma sulla scia delle prime iniziative di René Willien (1976) e al ruolo svolto dal BREL a partire dal 1985, ma anche storicamente giustificata dall’interesse espresso da molti fotografi non solo locali[1835] per questi aspetti, come ebbe modo di chiarire Arianna Colliard mettendo in rilievo i temi identitari che mossero gli studiosi valdostani (molti dei quali appartenenti al clero[1836]) egualmente attratti “dallo studio delle tradizioni come dai recenti sviluppi scientifici e tecnologici.”[1837] A un’altra area alpina, già oggetto di un’indagine conoscitiva nata come tesi di laurea[1838], è invece riferito il più complesso progetto CarniaFotografia, avviato nel 2006 dal Circolo Fotografico Carnico per favorire l’incremento della Fototeca Territoriale della Carnia e supportato dal 2014 dalla collaborazione avviata tra la locale Comunità Montana e l’Istituto Regionale per il Patrimonio Culturale, finalizzata alla catalogazione degli archivi fotografici familiari[1839] recuperati in loco e alla partecipazione a progetti didattici che consentissero di sensibilizzare la popolazione in merito alla salvaguardia del patrimonio fotografico (Del Grande et al. 2015). Meno sistematico ma certo esito di un interesse di lunga durata per la fotografia ‘vernacolare’ quale fonte ed elemento di storia identitaria anche l’Archivio Fotostorico Feltrino, istituito nel 2008 presso la Biblioteca di Pedavena, che “si è reso promotore di un censimento sistematico di tutte le raccolte disponibili nel territorio a carattere pubblico (musei, biblioteche, scuole), associativo (club fotografici, pro loco, comitati di quartiere) e privato (fotografi e collezionisti).”[1840]
Alla storia e ai caratteri della fotografia familiare in territorio lucano si era rivolta la lunga ricerca coordinata da Alberto Baldi (2010), da leggersi nel contesto dell’ampio lavoro di raccolta, censimento e catalogazione condotto a partire dal 1987 dal Centro interdipartimentale di ricerca audiovisuale per lo studio della cultura popolare dell’Università Federico II di Napoli, diretto da Mazzacane, che ha prodotto negli anni un’ampia ricognizione degli studi fotografici operanti in area meridionale dalla seconda metà del XIX secolo. La ricognizione è stata condotta prevalentemente presso le famiglie, “paese per paese, operando casa per casa”[1841] al fine non solo di individuare “le caratteristiche strutturali e linguistiche per così dire seriali” di quella produzione ma anche “le forme e le modalità di diffusione-penetrazione di modelli culturali”; quelle che per lo studioso riproducevano “su scala interna e nel Mezzogiorno il modello propulsivo centro-periferia”, secondo una dinamica di espansione dell’attività fotografica “da Parigi all’Italia e, via via, dal Nord al Sud della penisola”[1842]. Si trattava in ogni caso di una produzione da considerarsi prevalentemente ‘interna’ anche quando era di tipo professionale, la cui analisi offriva elementi importanti per la comprensione dei significati della fotografia, dei suoi usi e funzioni in relazione alla costruzione identitaria sociale e individuale. Un insieme documentale più ermeneutico che euristico, aperto all’interpretazione dello studioso ben oltre le intenzioni esplicite degli autori[1843].
Non è questa la sede per provarsi a verificare le dinamiche e le funzioni, certo non univoche né costanti, svolte dalla fotografia nei processi di costruzione identitaria dei luoghi alle diverse scale, ma un elemento fondamentale risulta essere proprio la varietà dialettica dei rapporti interno/ esterno, intendendola magari conflittualmente in termini di appartenenza sociale e culturale ancor prima che geografica. In tal senso potrebbe rivelarsi utile fare ricorso alla concettualizzazione delle fotografie come “descrizioni dense” utilizzata recentemente proprio da Faeta[1844] riprendendo il concetto elaborato a suo tempo da Clifford Geertz per ricavarne elementi di connotazione e comprensione di una dialettica che sovente si è manifestata (e si manifesta) nella polarizzazione gerarchica centro/ periferia tra elementi posti alle diverse scale territoriali e quindi geoculturali, ciascuno per il solito caratterizzato da pratiche fotografiche dipendenti dalle rispettive dimensioni. Schematizzando molto si potrebbe dire che nei piccoli centri e nelle aree più marginali è stata la pratica media del ritratto a prevalere, semmai affiancata a partire dal Novecento dalla spicciola cronaca locale, mentre più rari sono stati i casi di produzioni autoriali di una certa rilevanza, tutte o quasi concentrate nei centri ‘maggiori’. In termini culturali si potrebbe dire che si è avuta una produzione tutta ‘interna’ (per riferimenti e committenti) cioè quella degli operatori locali, ben distinta da quella ‘esterna’ (permeabile e rivolta all’esterno) propria delle produzioni che riconosciamo come autoriali. Il nesso tra queste categorie e la dimensione dei centri di riferimento risulta evidente anche considerando distribuzione e geografia degli studi; così è accaduto ad esempio che le fotografie di famiglia siano state studiate nelle aree socialmente o geograficamente più marginali, come la Carnia o la Basilicata e magari il Lazio, ma non Roma, né Torino o Milano, dove invece hanno prevalso gli studi dedicati alle figure di singoli autori.
Si potrebbe dire che si tratta di diversi e specifici livelli di relazione in termini sia storici che storico critici ma ancor più interessante ed utile sarebbe comprendere se si tratta solo di ‘disponibilità’ dei relativi materiali o se invece questa distonia non rappresenti e descriva dal punto di vista storico e culturale la fotografia in Italia, e gli studi che la riguardano. Mentre la produzione autoriale è studiata attraverso una rete di rimandi e confronti esterni, senza porsi problemi di prossimità né di identità collettiva, per quella minore e diffusa, costituita dalla sommatoria delle produzioni dei piccoli professionisti locali, ciò che prevale è la rete di relazioni funzionali e sociali con la comunità di appartenenza, studiate con metodi più prossimi alla sociologia e all’etnografia, mentre risultano di secondario interesse i nessi con la cultura fotografica coeva.
Considerando l’insieme degli studi di ambito locale è facile rilevare quanto la fruizione illustrativa e documentaria prevalesse su quella storica; non che non siano state pubblicate ricerche incentrate su specifiche produzioni fotografiche, con sconfinamenti nella monografia vera e propria, ma nella più parte dei casi le immagini sono state utilizzate per imbastire una storia iconografica dei luoghi; con una cura più o meno adeguata per l’edizione delle fonti; con toni più o meno velatamente nostalgici. In troppi casi si è trattato ancora di “memorie fotografiche” associate a una concezione oggettiva della fotografia che ci si augurava fosse stata da tempo superata: “tutto questo i nostri fotografi hanno vissuto, visto e documentato con il crisma della verità e dell’imparzialità che solo la fotografia sa dare” si diceva ad esempio presentando una raccolta di fotografie milanesi (Aghina et al. 2008), aggiungendo per soprammercato la “convinzione che la fotografia ben si presta a documentare con immediatezza e onestà quelle vitali radici che ancor oggi nutrono la milanesità.” Un altro elemento da considerare, di non secondario interesse e che confermava tendenze già in atto, era quello della distribuzione geografica degli studi che dal punto di vista puramente quantitativo – senza distinguere tipologicamente tra articoli, cataloghi e saggi – ribadiva la rilevanza di alcune aree del centro nord, dalla Lombardia a Roma, ma con significative assenze, e l’arretratezza di altre in cui la messe di studi è stata quantitativamente ridottissima o nulla[1845].
La tipologia prevalente (ma qui il dato ha un significato culturale e quindi anche qualitativo) è rappresentata dai libri o cataloghi di mostre che hanno raccontato le città e le loro trasformazioni attraverso le immagini[1846]; una produzione piuttosto consistente e sostanzialmente omogenea almeno negli intenti, che ha riguardato centri urbani di dimensioni diversissime distribuiti su tutto il territorio nazionale: da Genova[1847] a Verona; da Bologna a Novi di Modena, Prato e Pistoia sino a Roma[1848], Napoli e Palermo.
Tra quelle realizzazioni si segnalavano per la loro singolarità due opere intitolate a Venezia, entrambe riferibili più o meno direttamente all‘ICCD: il primo, un numero monografico della rivista “Acta Photographica”, era connotato da un uso pervicacemente referenziale delle fonti fotografiche, in quella che ancora oggi ci appare come una palese contraddizione o almeno una concezione riduttiva rispetto alle stesse intenzioni espresse nel programma editoriale, che erano quelle di “diffondere la conoscenza dello straordinario patrimonio fotografico conservato nei propri archivi.”[1849] Una impostazione analoga caratterizzava anche il volume sulla tutela dei monumenti veneziani nel quale il solo contributo dedicato a quel patrimonio di immagini era quello della curatrice[1850], per altro – come dire – non privo di generalizzazioni ed errori fattuali e metodologici, quali la sistematica assenza, comune a tutti i saggi, di indicazione di autore, data, tecnica e misure delle fotografie pubblicate[1851]. Certo “un caso esemplare” come recitava il sottotitolo, ma proprio in quanto discutibilissimo modello di edizione, specie considerando il ruolo dell’autrice, all’epoca direttrice della stessa Fototeca Nazionale dell’Istituto responsabile dell’emanazione delle norme catalografiche. Più strutturato storiograficamente il lavoro condotto da Maria Sframeli (2007) su di un nucleo di fotografie conservate nel Gabinetto Fotografico della Soprintendenza del Polo Museale fiorentino e relative alla documentazione delle distruzioni attuate nel centro storico negli ultimi decenni del XIX secolo, realizzate per incarico della Commissione Storico Archeologica comunale, seguendo una consuetudine che però – diversamente da quanto suggerito nel testo – non era certo inedita ed anzi ormai ampiamente consolidata anche in ambito ministeriale con i lavori prodotti dalle Commissioni Conservatrici provinciali.
Un merito certo va però riconosciuto a questa tipologia di opere o almeno a non poche di loro, ed è quello di aver fatto emergere fondi e documenti poco noti e considerati, non di rado appartenenti a istituzioni locali[1852], provenienti da archivi familiari[1853] ovvero esito di caparbie ricerche a tappeto condotte in situ; un inedito patrimonio di reperti e documenti col quale si sono misurate in modi e con esiti variabili le più differenti pratiche: dall’erudizione campanilistica alla storiografia fotografica, ma specialmente, e con risultati interessanti, l’antropologia visuale nelle sue diverse declinazioni[1854]. Altre iniziative di ambito locale si sono invece rivolte all’operato di singoli fotografi e studi, godendo per questo solo motivo di una maggiore omogeneità degli esiti, come nel caso delle fotografie bresciane di Giovanni Negri e del figlio Umberto (Zane 2007, 2008), già ampiamente utilizzate da almeno un trentennio (Bresciani 1979), quindi ben prima della nascita dell’omonima Fondazione nel settembre del 1993. In particolare sono stati gli studi fotografici minori, quelli con un bacino di attività più circoscritto, ad essere valorizzati in questi ultimi anni, come quelli dei perugini Girolamo Tilli e Giuseppe Giugliarelli [1855] o del maceratese Tullio Bernardini, risultato parziale della catalogazione del fondo omonimo conservato presso la Biblioteca Mozzi Borgetti[1856]; possiamo ricordare ancora il volume con fotografie tratte dall’archivio di Emanuele Giuseppe, Umberto e Giuseppe Russi (Ianniello 2005), il primo e più longevo studio attivo a Caserta, o quello che ha raccolto le fotografie di Acireale fatte dal barone Domenico Scudero Papale[1857].
Una ‘categoria’ distinta, se non proprio un sottogenere specifico era invece rappresentata da quelle produzioni che utilizzavano archivi extralocali per narrare la storia o le emergenze architettoniche di un luogo. Oltre il notissimo caso delle collane Alinari altre sono state le realizzazioni che hanno attinto a fondi e archivi fotografici esterni, come il ‘problematico’ studio che Barbara Vetruzzini (2007) dedicò all’iconografia pisana nei repertori di alcuni fotografi ottocenteschi[1858]; Mantova nelle stereoscopie della raccolta Carbonieri, messe a confronto con gli apparati illustrativi delle guide turistiche (Meschieri 2013) o Bolzano nelle fotografie provenienti dai fondi del Museo Civico e della Fototeca Nazionale[1859]. E ancora: quello che Vincenzo Mirisola (2008) ha dedicato a Palermo, con opportuni riferimenti alle scelte collezionistiche che consentivano di relativizzare la proposta storiografica; il fatto che le didascalie alle immagini contemplassero “anche un indice di valore, sintetizzato da simboli grafici, ad indicare la fascia di prezzo a cui appartiene la fotografia originale” trasformava però quel volume quasi in un catalogo di vendita[1860].
Pur privilegiando il referente, altri studi e mostre si connotavano per una buona consapevolezza critica e storiografica nell’uso delle fonti fotografiche. Erano casi di studio circoscritti a singole opere, edifici o complessi architettonici, come la Fontana del Nettuno a Trento (Menapace 2004) o l’Ospedale Maggiore di Milano, al quale venne dedicato un volume (Galimberti et al. 2006) che costituiva un buon esempio di interazione tra valorizzazione archivistica, storia istituzionale, architettonica e storia della fotografia[1861]; ma anche la villa Barberini a Castelgandolfo prima della sua cessione al Vaticano (Romani 2009) o l’iconografia del cortile d’onore di Palazzo Mattei a Roma, studiato da Jean-Philippe Garric come “esempio particolare e marginale” di una produzione fotografica che intorno alla metà del XIX secolo era ancora fortemente debitrice delle gerarchie di valori e dei codici rappresentativi antecedenti, confermando “la filiazione diretta tra gli architetti pittori della fine del XVIII secolo e i primi fotografi romani.” [1862] La raffinata ricostruzione genealogica del tema offerta da Garric trascurava però proprio l’aspetto che si sarebbe detto determinante, vale a dire il fatto che la scelta compositiva di Adriano De Bonis (punto di vista, inquadratura) non aveva nulla a che vedere con quelle dei predecessori considerati dallo studioso proprio in virtù del mutamento paradigmatico determinato dal mezzo. Per questa semplice ma fondamentale ragione non si poteva che condividere l’auspicio finale dello studioso, per il quale la fotografia romana necessitava di “diventare un effettivo oggetto di studio”[1863], sebbene poi la corposa bibliografia esistente stesse lì a dimostrare che quegli studi fossero stati avviati da tempo.
È questo il genere di opere che più soddisfa chi abbia interessi specifici di storia della fotografia e consideri quella a scala locale come indispensabile momento conoscitivo per pervenire a una migliore comprensione del quadro generale. Basti considerare a questo proposito le ricerche svolte dal fotografo Domenico Lucchetti sui Fotografi pionieri a Bergamo (2004)[1864] o i numerosi contributi di Silvia Paoli su Milano[1865], nei quali la storia dei luoghi è stata costantemente ricondotta alle sue rappresentazioni fotografiche. Approfondimenti che poi trovarono sintesi nella mostra e catalogo dedicati allo “sguardo della fotografia sulla città ottocentesca”; un’impresa che la stessa curatrice collocava nella tradizione di studi che aveva avuto origine nel repertorio di Becchetti (1978), nelle mostre fiorentine e veneziane e nei fondamentali “Annali” einaudiani[1866]. Ciò che distingueva questo lavoro era il mutato impianto metodologico e il conseguente processo operativo, che ora implicava il ricorso ad una estesa varietà tipologica di fonti, affrontate da un gruppo coordinato di studiosi impegnati nell’analisi delle rappresentazioni delle architetture e della scena urbana, verificando il significato culturale dei soggetti selezionati e i singoli contesti di produzione, tra documentazione dell’arte e applicazioni scientifiche, sostenute da una trattatistica segnata anche da importanti produzioni originali. A questo primo registro si sovrapponeva intrecciandosi quello della fotografia come fonte per la storia della città, restituito dalla stessa organizzazione dei materiali in catalogo, ordinati per luoghi canonici. Sebbene la ricerca avesse “privilegiato lo studio delle fotografie (…) l’ ‘oggetto’ fotografia, nella sua materialità e nella sua esistenza storica”[1867] ciò che risultava però carente era proprio (e nonostante il titolo) una lettura critica di sintesi; il riconoscimento delle connotazioni espressive proprie delle disparate modalità di restituzione di quella città. Ancora in territorio lombardo vanno ricordati i numerosi studi che hanno interessato l’area cremonese[1868] e in particolare il capoluogo, letto sia attraverso l’opera di Ernesto Fazioli[1869] sia ricostruendone complessivamente le vicende fotografiche a partire dalle prima immagini note della città, datate 1868. Questo fu il tema di due studi pubblicati nello stesso anno, il primo dei quali (Caccialanza 2010) si presentava come un’inedita ricostruzione sistematica fondata sull’indagine integrata di fondi archivistici e di fonti a stampa locali; ne emersero, tra le altre, notizie relative a due dagherrotipi realizzati nel dicembre del 1839 dal marchese Antonio Maria Persichelli, mai reperiti[1870], e alla presenza di autori importanti come Alessandro Duroni, Ferdinando Brosy oltre a quella localmente più significativa di Aurelio Betri. Sulla sua produzione era incentrato il secondo volume (Bondioni et al. 2010) di taglio più divulgativo e documentario ma connotato da una qualche preoccupazione ‘filologica’ nella pubblicazione delle ristampe da lastre originali, alle quali venne applicato “un leggero viraggio bruno, al fine di distinguerle rispetto alle riproduzioni di stampe d’epoca”[1871], con una buona resa tipografica ed esaurienti note di contenuto, ma senza fornire i dati materiali (tecniche e misure) dei fototipi pubblicati.
Il Veneto è stato uno dei territori in cui si sono sviluppati maggiormente gli studi in questo arco di tempo, proseguendo del resto una tradizione già solida e diversificata, legata alla consolidata presenza di corsi universitari, all’attività di molte istituzioni[1872] e di studiosi indipendenti, non di rado collezionisti. Un primo contributo venne da Alberto Prandi[1873], che dava conto del più antico apparecchio per dagherrotipia conservato a Venezia, utilizzato da Francesco Zantedeschi per le sue prime sperimentazioni, adottando un metodo d’indagine che viveva del confronto tra fonti a stampa, fonti archivistiche e fonti materiali qui rappresentate dallo stesso apparecchio, studiato con una competenza specifica e rara tra gli storici della fotografia, più a loro agio con le immagini che con gli strumenti e le tecniche utilizzati per produrle. Quantitativamente più consistenti gli sguardi d’insieme dedicati alla storia della fotografia a Venezia, un tema che ha avuto da sempre (come per Roma, meno per Firenze) anche un notevole riscontro di pubblico; in quel contesto si collocava la mostra promossa dalla Associazione Trevigiana Antiquari (Vanzella 2008) sui primi due decenni di attività fotografica in laguna, realizzata con immagini provenienti in gran parte dalla collezione del curatore ma cogliendo l’occasione per interrogarsi – e lo fece ancora Prandi in catalogo -sull’effettiva conoscenza di quel patrimonio: “Dal tempo della prima sistematica ispezione alle vicende ottocentesche che hanno caratterizzato la fotografia di soggetto veneziano, apparsa nel 1979 (…) l’individuazione dei documenti fotografici relativi alla rappresentazione di Venezia nell’Ottocento ha registrato pochi episodi significativi” [1874]; come dire, insomma, che la storiografia fotografica di argomento veneziano era vissuta per larga parte di rendita o per meglio dire di stereotipi[1875], sebbene si segnalassero in quegli anni importanti approfondimenti rivolti alla definizione delle dinamiche di elaborazione del “paradigma di una nuova visione della città” come quelli firmati da Tiziana Serena[1876]. Il recupero di sguardi diversi, misurati sul mutare del contesto politico degli anni intorno all’Unità, era stato l’argomento della mostra curata da Sara Filippin nel 2011, che alle fotografie aveva accostato documenti d’archivio e apparecchi per la ripresa e la visione, suggerendo inoltre derivazioni e analogie tra fotografia e pittura ‘naturalistica’ nella Venezia di quegli anni. Il vero momento di verifica dello stato delle conoscenze e della storiografia fotografica veneziana fu però il convegno promosso nel 2012 dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti per la cura di Gian Piero Brunetta e Carlo Alberto Zotti Minici dedicato a La fotografia come fonte di storia, che comprendeva un panel di Contributi per una storia della fotografia a Venezia, tra i quali ricordiamo la ricognizione archivistica condotta ancora da Filippin[1877] e quello di Prandi di impostazione specificamente storiografica[1878]. Lo stesso studioso – certo lo storico più sistematicamente impegnato in quegli anni a indagare le vicende veneziane e venete[1879], purtroppo prematuramente scomparso nel novembre 2016 – contribuiva poi alla mostra monografica intitolata a Tomaso Filippi (Resini et al. 2013) attingendo al fondo a suo tempo donato all’IRE dalla figlia del fotografo, del quale lo stesso Prandi aveva definito le prime linee d’indagine già nel 1984[1880]. Era stato ancora lui, infine, a firmare la presentazione del volume sulla storia della fotografia a Treviso curato da Vanzella nel 2009; un’accurata ricostruzione estesa sino alla contemporaneità, con puntuali schede biografiche e tecniche, arricchita da una bibliografia ragionata relativa sia ai volumi contenenti iconografia fotografica trevigiana sia a quelli in cui fossero pubblicate immagini di autori trevigiani.
In area emiliana sono stati molti gli studi di storia della fotografia locale, specialmente al di fuori del capoluogo; in primis Modena, che godeva di una lunga tradizione[1881] rivitalizzata in questo periodo per impulso delle Raccolte fotografiche modenesi “Giuseppe Panini”. Dopo aver considerato gli anni del Ducato Estense (Marchesini et al. 2003), l’arco cronologico era stato esteso sino all’anno 1900 (Russo 2005) e quindi sintetizzato e ulteriormente accresciuto a dieci anni di distanza con il progetto della nuova Fondazione dedicato ai fotografi modenesi attivi dal 1870 al 1945 (Dall’Olio 2013), nel quale emergeva la qualità autoriale delle opere esposte, qui circoscritte ai nomi di Sorgato, Orlandini, Bandieri, Andreola, Testi e Carbonieri, ciascuno a sua volta oggetto di recenti monografie[1882]. Un diverso canale di pubblicazione è stato invece scelto per divulgare la storia della fotografia parmense: il portale dedicato alla Storia di Parma[1883] contiene infatti una sezione relativa a Fotografi e fotografia a Parma, curata da Roberto Spocci, che fornisce un sintetico inquadramento dell’attività fotografica, specie novecentesca, ma soprattutto rende disponibile l’importante Dizionario dei fotografi 1900-1920, esito in continuo accrescimento di un progetto avviato nel 2006 che prevedeva la “mappatura del territorio parmense al fine di reperire tutti i fotografi che vi hanno operato nel corso del tempo”, quindi ben oltre i limiti cronologici pubblicati online[1884]. Anche le origini della fotografia a Ravenna, sino ad allora poco note, si sono arricchite in questo arco di tempo di nuovi dati (Novara 2006b) desunti prevalentemente da una fonte come gli Atti dell’Accademia di Belle Arti, certo importante ma forse non esaustiva. Ciò che però più sorprendeva di quella ricostruzione, realizzata da una studiosa con una formazione archivistica, era il corredo di schede che cancellava d’un sol colpo una metodologia catalografica così faticosamente acquisita a scala regionale e nazionale, con i dati restituiti in forma arbitrariamente narrativa, dimenticando per altro proprio le caratteristiche materiali delle immagini riprodotte[1885].
L’area toscana, per ragioni non dissimili da quelle indicate per il Veneto, si confermava per molti versi come campo privilegiato di studi e verifiche con la pubblicazione degli esiti dell’importante indagine sui Fotografi a Firenze 1839-1914, di Sara Ragazzini (2004a), frutto di una ricerca minuziosa e sistematica, derivata dalla tesi di laurea discussa nel 1996[1886]. Al di là dell’imponente serie di dati raccolta risultava interessante dal punto di vista metodologico il ricorso a documentazione archivistica di tipo societario; una tipologia di fonti con la quale si misurava negli stessi anni anche Luigi Tomassini, che sottolineava la necessità non ancora soddisfatta di “un’adeguata analisi dell’attività propriamente economica della ditta Fratelli Alinari”[1887]; una considerazione che andrebbe estesa a molti protagonisti della storia della fotografia in Italia. Meno sistematiche ma sempre orientate a definire e precisare gli elementi costituenti delle pratiche fotografiche locali le iniziative di quegli anni relative ad altri centri toscani come Prato (Franceschini et al. 2007), Lucca[1888] e Siena (Calabrese et al. 2010).
Il catalogo dedicato a James Anderson e ad alcuni protagonisti della Scuola fotografica romana, con fotografie provenienti dalla collezione di Dietmar Siegert (Ritter 2005), non aveva offerto sostanziali elementi di novità, mentre la presentazione della collezione di Delaney e Bruce Lundberg aveva consentito – come si è detto – di conoscere un numero consistente di fotografie inedite di De Bonis, studiate da Francesca Bonetti[1889], che nello stesso periodo era impegnata con un’altra collezione di fotografia italiana dell’Ottocento, quella torinese di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. Fu quella l’occasione per riflettere anche sulle ragioni collezionistiche quale “programmatica dichiarazione di intenti, presentazione ed esplicitazione di un progetto [rivolto] in particolare alle ‘nuove generazioni di artisti, critici, curatori’ ”[1890]; quasi un memento a non dimenticare la Storia, proponendo ai collezionisti il modello alto di Lamberto Vitali, ma ben consapevoli che “assume in questo caso un carattere più assimilabile al modello istituzionale-museale, seguendo criteri di ricerca, di acquisizione e di organizzazione dei materiali, di tipo più rigorosamente scientifico e per quanto possibile sistematico”, dovuti alla presenza di un consulente come Filippo Maggia. La sua collezione fu oggetto della mostra Roma, 1840-1870 (Bonetti et al. 2008) in cui fin dal sottotitolo (La fotografia, il collezionista e lo storico) la curatrice ribadiva il ruolo storico e storiografico del collezionismo. Proprio la compattezza cronologica e tematica dell’insieme[1891] consentiva e quasi implicava la necessità di un approfondimento scientificamente accurato dei materiali presentati, così come del loro contesto di produzione[1892] e di successiva acquisizione collezionistica, lungo un arco cronologico che da Alexander John Ellis e John Henry Parker procedeva sino a Silvio Negro e Piero Becchetti, per citare i maggiori, giungendo quindi alla collezione Maggia. Ciò che caratterizzava l’impianto della mostra e del volume era lo svolgersi “attraverso un percorso iconografico piuttosto che non secondo successioni cronologiche o suddivisioni per autore”, sottolineando “attraverso un serrato confronto di soggetti analoghi, spesso identici, le diverse relazioni tra i fotografi e le numerose connessioni tra le opere, nell’intento di individuare volta per volta i reciproci debiti formali e stilistici, così come di verificare le caratteristiche delle diverse tecniche fotografiche e i risultati ottenibili con la loro messa in opera. Le qualità e le peculiarità che ne derivano, oltre che guida alla risoluzione di problemi identificativi e attributivi, possono costituire così la griglia di riferimento per una valutazione più generale e una più corretta contestualizzazione dell’opera di ogni singolo autore.” Ancora alle immagini romane di una collezione privata, quella di Marco Antonetto, era rivolto il successivo studio di Bonetti, qui impegnata a restituire piuttosto il contesto di produzione e ricezione di quelle opere così analiticamente affrontate nell’occasione precedente, alla quale del resto esplicitamente rimandava anche per quanto riguardava i criteri di presentazione, adottando qui “una sequenza che accosta e mette in continua relazione gli autori, in una sorta di itinerario ideale attraverso i luoghi più emblematici della città”[1893], ma instaurando una relazione biunivoca di rimandi che mentre celebravano la qualità delle scelte collezionistiche sottolineavano l’inevitabile parzialità dell’iconografia proposta, alla cui contestualizzazione era per l’appunto dedicato il saggio critico[1894].
La ricorrenza del centenario del terremoto calabro messinese del 1908 costituì l’occasione per la pubblicazione di specifici repertori iconografici, provenienti sia da archivi amatoriali, come quello del barone Nesci[1895], che istituzionali come quelli del Ministero per i Beni Culturali[1896], dell’Archivio Centrale dello Stato e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia[1897]. Nel proprio contributo al volume prodotto da questo Istituto Angelo Maggi[1898] leggeva quelle immagini misurandone la distanza da quell’estetica del sublime che improntava di sé i rilevatori settecenteschi, poiché con la fotografia “l’esperienza del terremoto” si era modificata offrendo “testimonianza del fatti accidentali”; il saggio proseguiva individuando ove possibile gli autori delle riprese e le numerose occasioni di pubblicazione nei mesi successivi al sisma, tra le quali l’album pubblicato dalla Società Fotografica Italiana nel 1909. Era sulle caratteristiche iconografiche di quelle immagini e sulle questioni che ponevano a proposito della cultura pittorialista di quegli anni, cioè sul rapporto tra questa e l’idea di documento, che si è più recentemente interrogata Tiziana Serena in una serie di riflessioni pubbliche poi confluite nel proprio contributo a un volume collettaneo dedicato alla rappresentazione delle catastrofi urbane nell’arte europea del XIV al XX secolo[1899]. Un esempio radicalmente diverso di studio e utilizzo di documentazione storica; uno specialissimo caso di storia della fotografia applicata a scala territoriale era rappresentato dalla riedizione dei materiali raccolti e prodotti da Robert Mallet in occasione della propria ricognizione nel bacino del terremoto che nel dicembre del 1857 aveva colpito vaste aree della Basilicata e della Campania, tra Potenza e Salerno. Le stereoscopie di Alphonse Bernoud che Mallet aveva acquistato a Napoli, prodotte autonomamente pochi giorni dopo il sisma, e quelle commissionate dall’ingegnere irlandese a Claude Grillet[1900] sono state nuovamente studiate da Piero Becchetti[1901] nell’ambito di un progetto di geomatica finalizzato all’educazione ambientale[1902] che prevedeva la rielaborazione digitale in grafica vettoriale 3D delle fonti fotografiche e cartografiche per restituire un’immagine virtuale del paesaggio storico.
Altri ancora sono stati i casi, diversamente concepiti e articolati, di confronto tra iconografia storica e contemporanea utilizzati per testimoniare trasformazioni e permanenze di uno spazio urbano e delle sue architetture ma anche, seppur meno esplicitamente, i mutamenti dello stesso linguaggio fotografico. Se ne è avuto un primo esempio con la mostra romana relativa a San Pietro (Margiotta et al. 2007) che si limitava però ad accostare esemplari provenienti dall’Archivio Fotografico Comunale con una serie di fotografie di autori della Magnum, mentre un vero e proprio pro getto di rephotography[1903] fu quello legato alla serie realizzata da Stefano Lecchi nel 1849 (Critelli 2011), inficiato purtroppo dalle nuove, modestissime riprese dello stato attuale dei luoghi dell’assedio romano. Più sistematico e meditato invece quello realizzato da Giampaolo Romagnosi misurandosi con i due volumi di Ferdinando Ongania Calli e Canali in Venezia (1891) e Calli, Canali e Isole della Laguna (1893), costruito sulla base di un progetto “scientifico di ricostruzione dei punti di vista individuati dai fotografi che lavoravano per Ongania. Le immagini realizzate da Romagnosi – scriveva il curatore[1904] – affiancate a quelle di Calli e canali in Venezia sono contemporaneamente arte e documentazione.”
La monografia autoriale, che pure continua ad essere ampiamente praticata con ottime ragioni, è considerata da alcuni un esempio obsoleto di storiografia più di altre debitrice di un certo procedere storico artistico, ma crediamo che la questione sia mal posta se formulata in questi termini. Come risulterà dagli esempi trattati di seguito, altri sono gli elementi (e i fattori di rischio) da considerare nel valutare un trattamento monografico. È innegabile che questo, saggio o catalogo di mostra che sia, implica e di fatto certifica di per sé il duplice statuto (per quanto incerto e magari implicito) di ‘autore’ e di ‘opera’, ma dovrebbe essere chiaro che muovendosi nell’ambito dei beni culturali i due termini non possono di per sé evocare né tanto più sottintendere alcuna dichiarazione di artisticità[1905], eventualmente da verificare con strumenti appropriati e specifici, chiamando semmai alla comprensione del contesto storico e culturale di cui quell’attività e quelle opere costituiscono al contempo una componente e un esito. Non solo: è bene ricordare che è stata proprio la comparsa della fotografia nella storia e nella filosofia delle immagini reali ad aprire il passaggio dall’artistico all’estetico, mentre l’acquisizione delle fotografie nell’orizzonte dei beni culturali ha determinato un ulteriore travalicamento e un’estensione del campo di interesse, che ora può confondersi sino a sovrapporsi (magari implicitamente, appunto) con quello storico documentario o variamente disciplinare (la storia dell’arte, l’etnografia). Questo cambio di paradigma rende ragione del ventaglio di autori considerati: non solo coloro che si proponevano esplicitamente come ‘artisti’ (si pensi a Cavalli o Vender) ma anche quelli a cui solo la critica contemporanea ha riconosciuto qualità autoriali (Gabinio); accanto a questi è cresciuto il numero di studi dedicati ai grandi professionisti attivi in settori quali la fotografia industriale (Paoletti, Villani) o il ritratto in studio (Ghergo, Carell) ed altri che hanno svolto un ruolo rilevante rispetto alle comunità di riferimento, svolgendo una funzione che potremmo indicare come di ‘autorialità locale’. E ancora: amateur e dilettanti novecenteschi, con una predilezione per il valore di testimonianza sociale che questi materiali sono in grado di offrire. Sebbene la storiografia fotografica paghi ancora lo scotto di un ritardo che solo da poco si inizia a colmare, se consideriamo gli studi monografici nel loro insieme vediamo che si distanzia da quella d’arte sotto almeno due aspetti di merito: l’interesse rivolto a figure che sono state importanti sebbene della fotografia non mai abbiano fatto una professione né avessero manifestato o avuto alcun ruolo nel dibattito ‘artistico’, e ciò specialmente per il periodo 1890-1950, e quello per la produzione di autori collettivi come gli studi; un fenomeno certo raro nella produzione artistica degli ultimi due secoli e semmai più consueto in quella architettonica. Non si tratta solo di una questione di scala ma di peculiarità propria della fotografia e della sua storia; quindi di una storiografia che necessariamente deve adattare i propri strumenti al proprio oggetto di studio. Tra i circa centocinquanta titoli pubblicati nel decennio 2004-2015, ma il numerò è certo approssimato per difetto, è prevalsa la forma editoriale in volume, specie i cataloghi di mostra, sulle pubblicazioni nei periodici di settore, progressivamente chiusi e solo recentissimamente surrogati dalla “Rivista di studi di fotografia”, mentre va segnalata la crescente disseminazione di contributi in riviste non specificamente di settore (certo di più complessa accessibilità e, per questo, meno immediatamente incidenti sulla cultura fotografica generale). Restano esclusi da questa rassegna gli studi nativi digitali, pubblicati solo in edizioni online.
Anche nell’ultimo decennio la fortuna editoriale e commerciale di alcuni autori non ha mostrato segni di cedimento, confermando l’esistenza di una specie di star system della fotografia storica, al quale appartengono di diritto due autori della stessa generazione tra loro tanto lontani quanto Wilhelm Von Gloeden e Vittorio Sella, ma senza dimenticare i Fratelli Alinari che sulla scia del centocinquantenario furono oggetto di due ulteriori iniziative di diversa impostazione e importanza come la mostra antologica alla Estorick Collection di Londra (Cremoncini et al. 2004) e l’accurata ricostruzione del contributo professionale che a quell’impresa diede Mario Sansoni (Couprie 2005).
Nel volume sulla “scuola di Taormina” Vincenzo Mirisola (et al. 2004) aveva proposto una genealogia di formazione che individuava in Giuseppe Bruno il maestro di Giovanni Crupi e di Von Gloeden, rammaricandosi però che si fosse “parlato molto, troppo a mio parere” della omosessualità di quest’ultimo, poiché “in arte, e in fotografia, valgono le opere, e solo queste hanno importanza”, tanto che “dire che l’estetica di Gloeden è un’estetica omosessuale è negare gli stessi valori fondanti dell’arte.”[1906] L’imbarazzante ‘scandalo’ mondano dell’identità sessuale del barone toccò poi anche la mostra che gli venne dedicata a Milano[1907] e costituì uno degli elementi centrali delle ricerche successive, a partire da quella condotta da Mario Bolognari, che considerava il rapporto tra poetiche omosessuali e rappresentazioni dell’erotismo siciliano tra Ottocento e Novecento muovendosi lungo le tracce metodologiche della “etnografia a domicilio” di Marc Augè e tenendo come costante punto di riferimento il saggio di Faeta del 1988. L’autore giungeva così a ribaltare l’interpretazione corrente per affermare che “i ragazzi di Von Gloeden da vittime designate della storia e da oggetto dello stereotipo più violento che si potesse loro attribuire, sono diventati i protagonisti della storia, con una modalità del tutto inattesa e rovesciando il rapporto di potere iniziale.”[1908] Il successivo studio di Raffaella Perna (2013) recuperava le intenzioni espresse da Von Gloeden in una serie di scritti, per aprire poi alle ragioni dell’interesse per la sua opera manifestato da molti artisti della postmodernità; in particolare – come scrisse Giovanni Dall’Orto[1909] – “l’opera di Perna aggiorna di almeno tre decenni quanto disponibile in italiano sulle vicende biografiche e critiche di Gloeden (…) aggiungendo materiale inedito frutto della ricerca originale dell’autrice”. Soprattutto “finalmente uno storico italiano della fotografia affronta Gloeden senza preconcetti e senza cercare di nascondere sotto il tappeto il fatto che la sua opera appartenne, anche, alla cultura omosessuale di fine Ottocento e inizio Novecento.”
Meno problematica l’opera e più convenzionale la critica impegnata nello studio delle grandi campagne documentarie di Vittorio Sella, a cui la Galleria civica d’arte moderna di Torino dedicò una mostra nel 2006[1910] accompagnata da un catalogo con saggi di Giuseppe Garimoldi e Marina Miraglia[1911], che stigmatizzava il “silenzio incomprensibile, certo poco informato [che] caratterizza quasi tutte le sintesi storiche della fotografia dell’Ottocento che espungono dal proprio contesto il nome di Vittorio Sella”, trovandone ragione nello “spirito e nella cultura positivista dell’epoca della sua attività”, che lo avrebbe quindi relegato in un ambito puramente documentario. Osservazione pertinente ma non esaustiva se consideriamo non solo che altri grandi autori di analogo impianto erano compresi in quelle storie, ma che quella era certamente la categoria a cui l’autore stesso aveva riferito la propria produzione prima di cogliere le suggestioni (sebbene mediate) di certo tardo pittorialismo. Più proficuo sarebbe stato semmai considerare e riflettere sulle vicende e sulla diffusione internazionale della storiografia italiana, ancor più in particolare di quella legata all’ambito della fotografia di montagna e di esplorazione; difficile infatti, a proposito di Sella, parlare in assoluto di scarsa informazione considerando che fu proprio in Gran Bretagna che venne pubblicata la sua prima biografia (Clark 1948) a soli cinque anni dalla morte e dove la sua notorietà fu sempre molto ampia e qualificata, come ha documentato la bella mostra alla Estorick Collection di Londra[1912]. Forse anche per queste ragioni il suo nome compariva nella Concise History di Gernsheim del 1965, accostato a quello del padre Giuseppe Venanzio, mentre l’opera del fotografo biellese non venne mai presa in considerazione da Beaumont Newhall, nonostante l’ammirazione di Ansel Adams (1946).
“Fotografie scattate da Giovanni Verga: un argomento di importanza non decisiva ma sempre attraente”, scriveva Guido Bezzola[1913] con una certa sorniona intenzione, introducendo un ennesimo contributo dedicato allo scrittore (Mutti 2004) in cui venivano sintetizzate le vicende che portarono alla scoperta delle lastre verghiane e descritto il contesto della pratica fotografica nella Sicilia di fine ‘800, ribadendo la necessità di confrontare la sua produzione con quella di altri amateur siciliani coevi[1914]. Un volume dall’evidente intento divulgativo che offriva il repertorio delle immagini ristampate dai negativi originali adottando un improbabile tono seppiato e corredandole con commenti tra l’aneddotico e il manualistico[1915], certo poco adatti a comprenderne il senso e il significato. Se la quantità di occasioni espositive ed editoriali dedicate a questi autori non faceva altro che confermare una tendenza già ampiamente consolidata, l’approssimarsi delle celebrazioni risorgimentali non poteva di per sé giustificare lo studio delle serie palermitane di Eugène Sevaistre, oggetto di almeno quattro contributi nel decennio 2004-2015[1916], forse sollecitati dalla pubblicazione dei preziosi esemplari appartenuti alla collezione di Lamberto Vitali. A quelli facevano esplicito riferimento due interventi di Emanuele Bennici (2015a, 2015d) che non solo metteva in dubbio l’identificazione di un ritratto di Sevaistre a suo tempo avanzata da Marina Gnocchi[1917], ma ne compendiava il corpus completo delle serie italiane e spagnole, documentando un altro caso di scambio e commercializzazione di immagini tra fotografi, testimoniato dalla presenza di stereoscopie di Sevaistre nei repertori di autori come Henri Plaut, Alexandre Bertrand o Ferrier, Soulier et Lévy[1918].
Dopo i primi lavori di Paolo Costantini (Costantini et al. 1986a; 1986b) e la mostra a Edimburgo nel 1992 (Lawson 1992), lo studio dei dagherrotipi veneziani di Ruskin era stato ripreso da Thordis Arrhenius nel 2005 in un saggio che a partire da quella raccolta rifletteva sul significato culturale dei mutevoli atteggiamenti del critico inglese nei confronti del nuovo mezzo, interpretati – sulla scia di Geoffrey Batchen – quali manifestazioni dell’incerto statuto (tra naturale e culturale) assegnato alla fotografia in un momento di crisi profonda dello stesso concetto di natura. Per Arrhenius “le ‘scoperte’ dell’architettura e della fotografia da parte di Ruskin possono essere viste come incontri interdipendenti nei quali uno stimola l’altro. (…) Questo studio ha considerato l’avversione di Ruskin per il restauro focalizzandosi specificamente sulla nozione di autentico e sulle sue relazioni con la nuova tecnologia della fotografia. Si ritiene che l’apparecchio fotografico non solo ha messo in questione il concetto di trascrizione fedele del mondo esteriore ma che la sua trasformazione del metodo di riproduzione abbia influenzato la stessa categoria di autentico.”[1919] Dovevano però trascorrere ancora dieci anni prima che la scoperta di un eccezionale corpus di dagherrotipi a lui appartenuti consentisse di comprendere meglio e ridefinire le condizioni di quel rapporto e delle diverse figure autoriali coinvolte nella loro produzione ed anche l’influenza che l’uso di quelle particolari immagini ebbe sulla realizzazione dei suoi rilevamenti architettonici[1920]. Nel 2006 Ken e Jenny Jacobson acquistarono in asta un lotto di 188 dagherrotipi poi scrupolosamente studiati con la collaborazione di Gabriella Bologna per realizzare il catalogo ragionato dei 325 dagherrotipi di Ruskin sinora noti[1921], 137 dei quali, di soggetto veneziano, costituiscono “forse il più grande insieme di dagherrotipi raccolti da un individuo che raffigurino qualsiasi città del mondo”[1922].
La storia della fotografia a Venezia si è arricchita in questi ultimi anni di altri preziosi contributi che vanno ben oltre gli interessi di merito, quali la serie di studi che Mariachiara Mazzariol ha dedicato all’attività editoriale di Ferdinando Ongania a partire dalla propria tesi di laurea discussa nel 2001 con Neil Harris. Nel presentarne la produzione la studiosa partiva dall’assunto che “la ricostruzione della figura e dell’attività di un editore non può prescindere dall’allestimento della lista accurata delle sue pubblicazioni”, notando quindi che “le 145 edizioni registrate nel catalogo gettano luce su una realtà ben più complessa e poliedrica, di cui finora è stata data una lettura parziale per la mancanza di una lista accurata delle sue pubblicazioni”[1923], da lei organizzate in tre sezioni ordinate cronologicamente e accuratamente catalogate. Da quei presupposti è derivata la pubblicazione del Catalogo storico dell’editore veneziano (2011), con una Introduzione in cui oltre a ricostruirne la biografia personale e commerciale collocandola nello specifico contesto culturale veneziano, Mazzariol si soffermava sulla novità produttiva costituita dall’utilizzo delle più aggiornate tecniche di riproduzione e di stampa fotomeccanica rilevando che “le denominazioni utilizzate al tempo per l’identificazione dei processi – una vera e propria ‘foresta’ terminologica in cui è facile perdere l’orientamento – risultano oggi fuorvianti e insufficienti a stabilire con certezza la tecnica adottata. Le ragioni di tale anarchia erano dovute principalmente alla consuetudine di molti ‘fabbricanti di immagini’, non solo di tenere nascosti i loro procedimenti o i miglioramenti apportati a quelli già esistenti, ma addirittura di fornire informazioni errate per confondere le idee.”[1924] Questa precisa e approfondita considerazione degli aspetti tecnologici e commerciali della produzione editoriale rappresenta un’importante e aggiornata indicazione metodologica per tutta la storiografia fotografica; un modo efficace di considerare il fototipo in tutti quegli aspetti che ne determinano e connotano l’identità storico culturale di documento, di fonte ed eventualmente di opera.
Il fenomeno editorialmente più rilevante (anche a scala internazionale) che in questi anni ha riguardato la nostra storia della fotografia è stato quello relativo all’attività dei primi fotografi italiani nel Vicino e nell’Estremo Oriente[1925].
Oggetto di segnalazioni e studi già a partire dai primi anni Settanta, con le ricerche di Angelo Michele Piemontese (1972), il ruolo svolto dai fotografi italiani in Iran intorno alla metà del XIX secolo aveva goduto di interesse discontinuo nei decenni successivi per poi riprendere con rinnovato vigore a partire dal 2001[1926]. Sono state però le ricerche di Maria Francesca Bonetti e di Alberto Prandi, e la cura posta nel catalogo della mostra che ne fu l’esito (Bonetti et al. 2010), a offrire una importante occasione di approfondimento e di sintesi e a rappresentare un esito significativo dal punto di vista storico e storiografico, restituendo con grande accuratezza un momento circoscritto ma notevole della storia della fotografia nel nostro Paese e delle sue relazioni internazionali; un esempio che vorremmo ritrovare più di frequente anche nelle realizzazioni relative all’Italia. Accanto a tre studi di contesto[1927], dovuti ad Angelo Michele Piemontese, Claudio Zanier e Roberto Poggi, il volume ospitava due interventi riguardanti specificamente questioni fotografiche a firma dei due curatori: Bonetti[1928] definiva il quadro dei primi contributi all’attività fotografica in Persia, ponendo a sua volte il tema della costruzione identitaria della fotografia iraniana, non solo perché “la presenza italiana ha giocato un ruolo centrale fin dal periodo delle origini” , ma specialmente considerando una questione ben più culturalmente profonda: quella costituita dall’innesto di “finalità e modalità rappresentative tipiche dell’Occidente in un paese islamico, con cultura, tradizioni artistiche ed esigenze espressive completamente diverse”. Intorno alle stesse fondamentali domande ruotava anche il saggio di Prandi[1929] che, riprendendo uno studio di Ali Behdad[1930], offriva la lettura iconologica di una miniatura in cui compaiono “un fotografo occidentale ‘iranizzato’ intento a riprendere un ritratto” al dagherrotipo. Si trattava di una testimonianza importante della consapevole intenzione di adottare “tecnologie occidentali come una delle condizioni necessarie al sostegno delle strategie di affrancamento dall’Occidente”, ma anche dell’occasione problematica per misurarsi con “una configurazione tracciata secondo regole che non appartenevano alla tradizione illustrativa, regole apparentemente non controllabili (…) una forma d’immagine suggestiva ma non familiare, poco docile sia da governare che da interpretare”, con la quale la cultura tradizionale (iconografica e politica) era indotta a confrontarsi e forse anche a scontarsi. Una condizione che richiamava alla mente i conflitti non solo culturali narrati da Oran Pamuk ne Il mio nome è Rosso (Benim adım Kırmızı, 1998), sorti nel XVI secolo al momento del primo affacciarsi nel mondo ottomano del disegno prospettico di matrice occidentale. Completavano il volume sulla Persia Qajar un ricco saggio bibliografico firmato da Prandi, la serie delle tavole, accuratamente riprodotte, e le esemplari schede degli album e delle singole immagini, precise nella descrizione catalografica quanto ricche nelle note di contenuto, che per accuratezza filologica e storico critica costituivano un effettivo complemento e approfondimento dei temi sintetizzati nei saggi. Ancora Francesca Bonetti ( et al. 2007b) era la cocuratrice della mostra che la Società Geografica Italiana dedicò alla spedizione in Tunisia guidata da Orazio Antinori nel 1875 e documentata da Lodovico Tuminello[1931]: un viaggio in un più prossimo altrove ma pur sempre per ragioni di politica commerciale. Ne emersero immagini poco note, alcune delle quali poi non comprese nell’album ufficiale, ma quel progetto ebbe soprattutto il merito di far comprendere attraverso l’attenta lettura della documentazione archivistica connessa, alcuni elementi nodali delle nascenti pratiche professionali, specie per quanto riguardava la proprietà delle negative prodotte nel corso della spedizione, spettante per contratto alla SGI.
Dopo le messe a punto anche biografiche della figura di Felice Beato nel corso del decennio precedente[1932], l’interesse degli studiosi occidentali per la sua produzione e per quella di altri autori italiani attivi in Oriente ha assunto una più matura e complessa connotazione storiografica a partire dalla mostra curata da David Harris (et al. 1999) per il Museo di Santa Barbara in California, che collocava nel quadro dell’imperialismo britannico le immagini realizzate in Cina nel corso della Seconda guerra dell’oppio contenute in un album appartenente alla importante collezione di Jane e Michael Wilson, notissimo produttore dei film di James Bond. Ad un analogo album venne quindi dedicata una mostra al Musée d’Histoire Naturelle di Lille[1933], che ne ribadiva la novità iconografica costituita dalla rappresentazione dei cadaveri sul campo di battaglia, ricostruendone anche le modalità di circolazione e di ricezione. L’insieme della sua produzione orientale fu poi oggetto della successiva mostra del Getty Museum (Lacoste 2010), in larga parte fondata proprio su di una recente acquisizione dal Wilson Centre for Photography, che a sua volta conteneva una specifica sezione incentrata sulle fotografie di guerra, discussa in catalogo da Fred Ritchin[1934], che ne sottolineava gli aspetti innovativi e ‘anticipatori’ di soluzioni narrative poi adottate anche dai fotografi del nostro Risorgimento e della Guerra civile americana. Nel proprio saggio Anne Lacoste si assumeva l’impegnativo compito di definire l’intera produzione di Beato, considerandone anche gli aspetti strettamente tecnici, affrontati con la consulenza degli esperti del Getty Department of Paper Conservation e del Getty Conservation Institute, così da dar conto della grande varietà di supporti sensibili negativi e positivi da lui utilizzati sebbene, come ha notato Eleanor M. Hight[1935], mancassero poi informazioni sui colori utilizzati per le notissime serie giapponesi. Nella sua recensione alla mostra la studiosa americana, curatrice a sua volta di un’altra esposizione dedicata a quelle immagini[1936] segnalava – oltre agli indubbi meriti – anche non poche lacune, specialmente per quanto riguardava l’analisi iconografica della produzione di Beato e più in particolare la questione dell’autorialità di immagini più volte passate di mano e ristampate da altri sotto il proprio nome o comunque prese quale modello da imitare stante la loro prolungata fortuna commerciale, per certi versi confermata anche da una edizione come quella proposta da Alinari 24 ore (Maffioli 2012), che si segnalava specialmente per l’inusuale formato in folio e per una accuratissima composizione cromatica delle doppie pagine, sostenuta da una adeguata qualità di stampa.
L’attenzione per un altro fotografo italiano attivo in Giappone come Adolfo Farsari risaliva ai primissimi anni Novanta del Novecento, quando per la propria tesi di laurea Elena Dal Pra ne studiò l’epistolario inedito, scoperto nella casa di famiglia[1937], ma fu solo nel primo decennio di questo secolo, a più di dieci anni di distanza da quella pubblicazione che venne avviato un progetto di ricerca dell’Università di Tokio finanziato in parte dalla Japan Society for the Promotion of Science formulato dallo storico dell’arte Osano Shigetoshi dopo che nel 2003-2004 era stato chiamato a Vicenza per studiare alcuni album di fotografie giapponesi conservati nelle collezioni pubbliche vicentine (Osano 2007), confermandone l’attribuzione a Farsari e giungendo a una prima mostra alla Basilica Palladiana[1938]. Alcuni anni dopo una nuova esposizione riuniva fotografie dei fratelli Beato[1939] e di Farsari (Di Siena 2011) accostandole a esemplari di autori diversi (da Bonfils agli Zangaki sino ad autori giapponesi come Kimbei, Matsusaburo e altri) in una accezione forse troppo generica di Oriente e orientalismi e inoltre – come ha osservato Quintavalle[1940] – senza affrontare in maniera appropriata le questioni attributive legate alla circolazione e riedizione di molte di quelle fotografie, già richiamate anche dalla Hight a proposito della mostra del Getty, né considerando le forme produttive e narrative della loro circolazione, vale a dire l’organizzazione per serie tematiche e l’edizione in album, ormai ben note proprio in virtù della ricca messe di studi internazionali sul tema.
Nel quadro della produzione storiografica di argomento italiano meritano un cenno a parte le ricerche monografiche condotte da Giovanni Fanelli nel corso dell’ultimo decennio, a proposito di alcuni autori ottocenteschi dei quali si è impegnato a definire i profili biografici ed a ricostruire i repertori. Nel realizzare il primo studio della serie, dedicato a Enrico Van Lint (2004), lo studioso si era potuto avvalere dell’archivio familiare conservato dagli eredi; occasione certo più che rara per la fotografia italiana del XIX secolo, ciò che gli aveva consentito di ricostruirne l’attività di scultore e soprattutto di figura di rilievo della prima calotipia italiana. Al profilo biografico faceva seguito l’analisi delle vedute urbane delle quali considerava il “livello di qualità formale” e soprattutto le modalità di ripresa, verificate spazialmente su base cartografica. Il volume era completato da esaurienti repertori dei timbri, marchi e iscrizioni e da un “elenco delle stampe rinvenute” che in assenza di cataloghi a stampa consentiva di ricostruire almeno virtualmente il complesso dell’attività del fotografo[1941]. L’analisi dei modi e delle soluzioni espressive adottate nella realizzazione di panorami, vedute urbane e riprese monumentali caratterizzava anche la successiva monografia intitolata a Giorgio Sommer, costruita su di un repertorio di immagini provenienti da collezioni prevalentemente italiane[1942], in cui risultava particolarmente efficace e innovativa l’analisi compositiva e linguistica delle singole fotografie e delle relative varianti di ripresa, ma soprattutto delle serie cronologicamente scalate dedicate allo stesso soggetto[1943]. Altrettanto rilevanti, e poi approfonditi in contributi successivi, i confronti diretti con la produzione di un altro fotografo attivo a Napoli in quegli anni come Robert Rive, le cui relazioni effettive con Sommer attendono ancora di essere precisamente definite[1944]. Anche in questo caso la lettura critica[1945] considerava i consueti dati cronologici di ripresa, sebbene non sempre verificati in modo sufficiente[1946], e le caratteristiche ottiche di costruzione dell’immagine (punto di vista, focale) e di realizzazione delle stampe; un processo nel quale potevano intervenire importanti manipolazioni quali le mascherature (certo una pratica comune a moltissimi autori) ma anche – più sorprendentemente – alcuni fotomontaggi (o, forse, fotocollage) realizzati con grande sapienza al fine di accentuare l’efficacia rappresentativa di certi paesaggi, pur mantenendosi volutamente nel consueto ambito della fotografia di ‘documentazione’[1947]. Sviluppando le ricerche e le questioni critiche poste dallo studio di Sommer fu proprio a Robert Rive che Fanelli rivolse il proprio interesse negli anni successivi[1948], realizzando con Barbara Mazza un volume monografico che presentava forti analogie di impianto con quello precedente, del quale costituiva quasi continuazione e completamento, tali e tanti erano i nessi e i rimandi tra loro[1949]. Anche gli studi successivi vennero dedicati a fotografi attivi (anche) a Napoli, come Alphonse Bernoud[1950] e Michele Amodio (Fanelli 2014); il primo presentava significative differenze rispetto alle monografie precedenti, specie per l’ampio spazio dedicato alla ricostruzione della biografia professionale di questo fotografo che fu il primo “a realizzare un’abile organizzazione commerciale”, mentre restavano determinanti il repertorio dei timbri e dei marchi e la riproduzione integrale delle pagine del catalogo del 1864. Nel secondo invece prevaleva – in particolare nell’edizione online[1951] – la ricomposizione del repertorio di questo autore certo meno noto dei precedenti, dei quali riprendeva punti di vista identici o molto simili quando non commercializzava immagini ottenute per controtipo da quelle di Sommer. Anche Amodio fu titolare di una fonderia artistica di bronzi il cui successo lo indusse ad aprire succursali a Roma e a Milano, sebbene (e quasi inspiegabilmente si direbbe) “non assunse mai la dimensione di quella di Sommer e neppure di quella di Rive”; un momento non secondario della storia dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che coniugava (almeno a Napoli e forse non a Roma né a Venezia o Firenze) riproduzioni di differente statuto: copie, calchi, fotografie[1952]; modalità di espressione dell’interesse e della cultura dell’antico nel contesto della prima industrializzazione italiana che attendono ancora di essere compiutamente studiate. Accanto alla tradizionale monografia a stampa alcuni di questi studi e approfondimenti sono stati pubblicati nella forma dell’editoria online sul sito www.historyphotography.org, avviato nel gennaio 2011 da Fanelli con la collaborazione di Barbara Mazza, destinato a rendere noti e liberamente accessibili gli esiti di ricerca del curatore. Il sito, recentemente aperto alla collaborazione di altri studiosi, si presenta articolato in sezioni destinate a contributi e materiali di varia natura e consistenza, dai più ampi testi in forma di saggio a brevi (o anche brevissime) note di tipo metodologico come quelle comprese nella sezione “Punti di vista”. Tra gli esiti più recenti e impegnativi si segnalano la ricostruzione del catalogo virtuale della produzione di Robert Rive[1953], con oltre 1600 soggetti e circa 1200 riproduzioni, accompagnato da un’accurata ricostruzione filologica relativa alla corretta restituzione di marchi, timbri, formati e varianti di ripresa, ciò che distingue immediatamente questo lavoro da altre iniziative pur meritevoli quali il ricchissimo Catalogue of Giorgio Sommer’s pictures disponibile sul portale Wikimedia Commons, che restituisce le immagini secondo l’ordine numerico assegnato dal fotografo nei propri cataloghi ma senza fornire ulteriori indicazioni. La responsabilità di questa raccolta e messa online, avvenuta nel periodo 2007-2009 ma in continuo accrescimento, è in larga parte di Giovanni dall’Orto, appassionato cultore di fotografia storica ma soprattutto noto come titolare di un importante sito web su omosessualità e cultura[1954], a cui si devono anche altre pagine relative a fotografi italiani del XIX secolo.
Anche il progetto che portò alla realizzazione della mostra intitolata a Pietro Poppi (Frisoni 2015), legato alla campagna di catalogazione, conservazione e messa online del suo archivio fotografico[1955] si caratterizzava per la ricomposizione almeno virtuale della produzione di quello Studio, condotta considerando sia i materiali conservati nel Fondo della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, di soggetto prevalentemente locale, sia quelli individuati con una apposita campagna di rilevamento che prevedeva ricerche online per le collezioni museali internazionali e ricognizioni in situ nei principali archivi e collezioni pubbliche e private italiane, secondo una metodologia di ricerca integrata che si va sempre più diffondendo in relazione allo sviluppo del web. Gli esiti di quelle ricerche, interrotte per mancanza di finanziamenti e quindi non esaustivi, hanno comunque consentito di individuare serie tematiche non registrate nei cataloghi a stampa di Poppi e quindi di conoscere più a fondo l’insieme della sua produzione e di comprendere criticamente anche le sue scene di genere campestre[1956]. L’analisi dei fototipi conservati in archivio[1957] suggeriva però anche altre considerazioni sui significati e sulle conseguenze (sul piano concettuale e materiale quindi) degli interventi condotti nel tempo sui negativi, mettendo in evidenza successive, massicce manomissioni; così che “l’analisi delle lastre Poppi ha riservato molte sorprese, in qualche modo sovvertendo l’assunto di una purezza originaria della matrice”. Per queste ragioni ora risulta più facile “recuperare una paternità autoriale il più possibile integra (…) non nei negativi, come avevamo immaginato, ma nelle stampe positive all’albumina”, portando così nuovi elementi a favore delle posizioni critiche che riconoscono la più compiuta espressione della “paternità autoriale” anche dal punto di vista filologico proprio nello stato finale del fototipo[1958].
La più nota e celebrata attività degli studi fotografici italiani del XIX secolo non fu certo quella del ritratto, sebbene fosse stata quella quantitativamente prevalente. Alla specificità del tema sono stati dedicati pochi titoli in questi ultimi anni, prevalentemente nella forma di repertori collezionistici[1959], tra i quali si segnalava per la sua particolarità quello nato dalla passione di Gabriele Chiesa e Paolo Gosio, dove il ritratto femminile rappresentava la costante iconografica ma non costituiva l’argomento del volume né il punto focale delle lunghe ricerche da cui quello era derivato. Il principale interesse degli autori, infatti, e il pregio dell’opera, era tutto per le specificità e la storia della grandissima varietà di antichi processi presentati nei loro aspetti storici e tecnologici[1960].
La produzione italiana del XIX secolo non ha offerto sinora, tranne rare e splendide eccezioni, esiti paragonabili ai grandi modelli internazionali almeno sino alla soglia del cambio di secolo, quando in un nuovo contesto economico e sociale si diffusero e consolidarono le mutazioni di gusto e di statuto autoriale proprie del pittorialismo. L’opera di Emilio Sommariva, uno degli autori più rappresentativi di quella stagione, è stata studiata da Giovanna Ginex (2004a) a partire dalla disponibilità dell’intero archivio[1961], condizione che ancora una volta si è rivelata determinante per costruire un profilo storico filologicamente e criticamente fondato[1962]. Con la consueta competenza la curatrice affrontava quella produzione ritrattistica considerando i diversi elementi che la caratterizzavano, dall’uso di fondali dipinti di elevata qualità ai debiti e scambi con la pittura coeva, fino alla messa a punto di quello “stile Sommariva” che si definirà compiutamente a partire dagli anni Venti del Novecento. Particolarmente illuminante il riferimento alle raffinate tecniche di stampa utilizzate, specie per quella considerazione metodologica e critica insieme che la portava a riconoscere che “la fotografia, e in particolare la fotografia d’autore, è anzitutto tecnica: senza una comprensione e una valutazione corretta dei procedimenti di ripresa e di stampa la sua lettura risulta incompleta.”[1963] Ancora a raffinatissime tecniche di illuminazione, ritocco e stampa si sarebbero affidati i più noti ritrattisti della generazione successiva: da Ghitta Carell ad Arturo Ghergo ed Elio Luxardo, questi ultimi a loro volta oggetto di alcune mostre monografiche che, forse per coerenza con l’estetica degli autori proposti, si sono affidate alla spettacolarizzazione del lavoro fotografico lasciando in secondo piano quell’approfondito studio critico di cui si sente ancora la mancanza[1964] e che invece è stato affrontato da Roberto Dulio (2013) a proposito di Ghitta Carell in occasione della mostra da lui curata alla Fondazione Portaluppi di Milano[1965], nella quale il ricorso a fonti documentarie e archivistiche sostanzialmente inedite gli ha consentito di proporre una revisione critica e storiografica della sua nota iconografica ritrattistica. Delle declinazioni più provinciali, e anche per questo culturalmente significative, di questi modelli si trovava testimonianza nel lavoro dei veronesi Tommasoli, ai quali venne intitolato un catalogo (Meneghelli 2007) con riproduzioni di buona qualità corredate di sintetiche indicazioni descrittive ma viziato da un equivoco critico: quello che aveva determinato una scelta curatoriale indirizzata “più a visualizzare la ricerca artistica e le preoccupazioni tecnico-stilistiche che la loro operatività prettamente professionale”; quasi che solo quelle potessero essere le ragioni necessarie a giustificare una proposta espositiva, scegliendo di non dar conto del ruolo che lo Studio Tommasoli ha svolto per tre generazioni nei confronti del contesto locale. Un equivoco ‘artistico’ che si ritrovava per certi versi anche nella monografia intitolata al ‘modenese’ Salvatore Andreola (Dall’Olio et al. 2010) nella quale il richiamo al pittorialismo presente sin dal titolo risultava quanto meno problematico per un autore che aveva avviato la propria attività nel 1920.
Nel 1995 Stefano Fittipaldi aveva rilevato dall’ultimo discendente lo studio di Giulio Parisio, avviando l’omonimo Archivio Fotografico e pubblicando le prime monografie sul fotografo napoletano[1966] a cui seguirono altre iniziative che hanno interessato il suo lavoro proprio negli anni del contenzioso con il Ministero dell’Interno[1967] che ha poi portato alla chiusura della sede. Di Parisio vennero dapprima esposti quaranta ritratti di artisti attivi a Napoli nei primi del Novecento (Spinosa 2008), già da lui selezionati per una mostra del 1929; in alcuni di quelli erano evidenti le influenze del secondo futurismo e a quella sua stagione espressiva si sono poi riferite sia la mostra realizzata nell’ambito delle celebrazione napoletane per il centenario del Movimento (Causa et al. 2009), sia una monografia che diremmo di approfondimento (Fittipaldi et al. 2010) nella quale Silvia Zoppi Garampi, rielaborando in parte il contributo già pubblicato in Corrente del golfo[1968] individuava i possibili nessi tra le fotografie con sagome di carta di Parisio e il romanzo allegorico di Marinetti Gli indomabili (1922), senza considerare però – e forse più opportunamente – quel “dramma di oggetti immobili e mobili (…) e delle ombre degli oggetti contrastanti” a suo tempo proposto dal Manifesto della fotografia futurista (1930) e, più in generale, altre analoghe produzioni coeve. Un altro caso di approccio storico critico nel quale all’intento di nobilitare la produzione di un fotografo corrispondeva una insufficiente integrazione dei saperi e delle culture, qui fotografiche, quelle che diremmo però indispensabili per provarsi nell’esegesi storico critica di questi materiali.
Si poteva ritrovava inaspettatamente traccia di quelle intenzioni nobilitanti anche in uno studio monografico raffinato e colto come quello che Francesco Faeta (2007) ha dedicato ad un gruppo di ritratti di Saverio Marra, nel quale invitava prudenzialmente il lettore a confrontare “con i dovuti distinguo e le dovute cautele”, l’operato del fotografo calabrese con quello del peruviano Martin Chambi ma anche (ed oltre) con i lavori di un altro autore di diversissima formazione, cultura e intenzioni quale August Sander, al fine di “verificarne le (molte) affinità e le (significative) differenze”[1969]. Non è possibile qui affrontare compiutamente le ragioni per cui quell’ipotesi critica non appariva sostenibile e vorremmo limitarci a segnalare almeno una distinzione fondante e paradigmatica, ricordando che Sander interpretava i propri soggetti come tipi sociali piuttosto che come individui, atteggiamento invece più consono a un fotografo fortemente legato alla propria comunità come Marra. A quella che appariva come una forzatura, per quanto avanzata con retorica cautela, corrispondeva la scelta di ristampare per la mostra le lastre non solo in grande formato ma ricorrendo a “stampe originali ai pigmenti di carbone (…) impresse su carta cotone” dopo che i file di riproduzione erano stati sottoposti “a un lavoro di pulitura delle numerose imperfezioni e abrasioni presenti sul negativo.” Gli aspetti problematici o propriamente discutibili di questa operazione erano molteplici, a partire dal disinvolto uso della qualifica di “originale” per una ristampa da file digitale tratta dalla scansione di un negativo analogico. Era però soprattutto l’intervento di postproduzione ad essere inaccettabile ben più della concessione modaiola alla tecnica di stampa, di cui Faeta si assumeva consapevolmente il rischio: un’operazione che negava d’un sol colpo la storia materiale e in parte identitaria di quegli oggetti che sono i fototipi, in cui anche le “imperfezioni” (e resterebbe da stabilire su quali basi e competenze fossero considerate tali) sono traccia e testimonianza della doppia biografia dell’autore e dell’opera. Se poi – come ricordava lo stesso Faeta per motivare gli ingrandimenti interpretativi – “l’etnografia è la disciplina del dettaglio”, allora sarebbe stata necessaria una maggiore consapevolezza del fatto che anche gli scarti da un possibile stato di ‘perfezione’, gli stessi segni di alterazione e degrado sono dettagli più che rilevanti per la conoscenza e la comprensione del proprio oggetto di studio, e non solo le tracce referenziali e i modi di rappresentazione del soggetto fotografato.
Ancora ad un corpus monografico, quello di Mario Nunes Vais, si riferiva lo stimolante contributo di Elio Grazioli che sotto un titolo forse fuorviante[1970] poneva alcune questioni centrali a proposito del ritratto, a partire dalla fondamentale domanda su “che cosa vedevano gli uomini agli inizi della fotografia? Evidentemente non la traccia oggettiva che oggi ci pare la più somigliante possibile alla realtà. Vedevano piuttosto ciò che volevano vedere (…) Volevano cioè che l’immagine assomigliasse non alla realtà in sé, ma a un’altra immagine, quella che avevano di sé stessi o che volevano o pensavano di avere per gli altri”. Sono considerazioni che possiamo estendere senza difficoltà a tutta la produzione affrontata nei saggi sopra citati, poiché il ritratto in senso proprio è da sempre segnato da una intenzione di rappresentazione almeno duplice, ciò che fa della fotografia in posa, da subito, come ricordava Grazioli, un’immagine ‘pubblica’ o altrimenti detto ‘esterna’, che trova il proprio senso solo in “uno spazio determinato dai ruoli, dalle relazioni e convenzioni sociali. Un genere di fotografia di cui importa comprendere la forma e l’evoluzione (…) e la loro estetica, se possibile”.
In un importante contributo del 2006 Giovanni Fiorentino considerava comparativamente il lavoro di alcuni fotografi e studi locali (Domenico Coppi a Prato, Domenico Nardini a Teramo, i Fratelli Troncone a Napoli) alla ricerca di “indizi e riflessi di processi sociali e storici più ampi e complessi”, testimoniati e riconoscibili in quella “geografia produttiva sterminata, eterogenea, discontinua, per molti versi rimossa, dei fotografi locali in Italia. Una produzione che oscilla costantemente tra serialità e creatività, regolarità e modulazioni infinite, stereotipo sociale e rivelazione indiziaria (…) che non può essere semplicemente liquidata secondo categorie estetiche insufficienti al confronto con la ricchezza e la complessità del medium fotografico”, individuando “nel cortocircuito tra occhio e immagine (…) nel lavorio dello sguardo” il terreno a cui si doveva applicare “il lavoro del sociologo e dello storico.” Pur non disponendo, nella più parte dei casi, della stessa attrezzatura metodologica sono stati molti in questi anni gli studi monografici relativi a fotografi e studi con un ambito di attività di carattere più circoscritto se non esclusivamente locale, per questo rilevanti e significativi per le comunità a cui appartenevano. Si consideri in tal senso il rinnovato interesse per l’attività di Giovanni Battista Unterveger in Trentino[1971]; per Guglielmo Sebastianutti e i vari componenti della famiglia Benque, che partendo da Trieste estesero la loro attività all’Europa e poi al Sud America, sino al 2010 più noti e studiati in area austriaca[1972]; per i Sorgato, titolari di una serie di attività distribuite in Veneto e Toscana ma specialmente in Emilia (Russo 2008). E ancora: l’udinese Giuseppe Malignani, che fu fra i primi fotografi friulani[1973] e la dinastia dei Bront a Cividale del Friuli (Giusa 2006), un piccolo centro in cui operarono numerosi studi a partire dal 1870 ca, ed anche – all’opposto confine geografico e ormai nel Novecento – ai palermitani Dante e Giuseppe Cappellani[1974], il cui archivio, ancora di proprietà privata, è stato dichiarato nel 2005 “di Interesse Storico Particolarmente Importante” da parte della Soprintendenza Archivistica per la Sicilia. Elemento comune alla maggior parte di queste iniziative, testimonianza di un nuovo atteggiamento culturale nei confronti del patrimonio fotografico, era la proprietà di questi archivi, pervenuti a istituzioni pubbliche per donazione o per acquisizioni diverse, e la loro funzione segnaletica di attività in corso di studio, tutela e valorizzazione[1975]. Così l’album realizzato nel 1924 da Rodolfo Zancolli, il più importante fotografo spezzino della prima metà del Novecento[1976], fa ormai parte del patrimonio dell’Archivio Fotografico del Comune della Spezia mentre quello dei Musei Civici del Castello Visconteo di Pavia comprende i fondi dei Fratelli Nazzari e quello ben più consistente di Guglielmo Chiolini, argomento rispettivamente di una monografia[1977] e di alcuni volumi tematici relativi alle architetture e ai paesaggi pavesi[1978].
Tra gli operatori locali, e in particolare quelli attivi in aree marginali del Paese, le ricerche hanno fatto emergere anche alcune (rare) figure di donne fotografe[1979]: due professioniste attive in piccoli centri alpini del Cuneese (Pamparato) e del Biellese (Pettinengo) nei primi decenni del Novecento e una dilettante colta appartenente a una famiglia di importanti fotografi come Caterina Unterveger (Malatesta 2007), la cui attività potrebbe per certi aspetti essere avvicinata a quella di un’altra fotografa attiva circa un secolo dopo e riscoperta in anni recenti come Eda Urbani (Danna et al. 2008). Ciò che caratterizzava in parte questi studi, specie quelli su Leonilda Prato e Clementina Corte, era il trattamento prevalentemente letterario del tema, forse da imputare a (e derivare da) difficoltà, per altro dichiarate, di contestualizzare i materiali superstiti non disponendo di strumentazioni metodologiche efficaci. Ne sono perciò risultate letture che coniugavano l’abbandonarsi “completamente all’incanto di questo universo apparentemente perduto”[1980] con il ricorso all’inchiesta orale per l’identificazione delle persone ritratte[1981]; imbastendo un percorso conoscitivo concepito anche quale parte di un progetto identitario, di ritratto collettivo di una comunità a un momento dato. Queste, si direbbe, le ragioni che hanno portato quelle iniziative ad essere sostenute e promosse da istituzioni pubbliche[1982], sebbene poi non fosse questo il solo tratto in comune. Da entrambe emergeva infatti l’adozione di un canone descrittivo inconsueto per le narrazioni al maschile, che contemplava l’accentuazione di aspetti peculiari di personalità per molti versi ritenute eccentriche. Così anche di Caterina Unterveger si ricordavano il “carattere bizzarro” e lo “spirito inquieto”, richiamando la testimonianza del pronipote Mario per collocarne le vicende nel quadro della condizione femminile nella seconda metà dell’ Ottocento, quando ancora la scelta di dedicarsi alla fotografia poteva costituire un segno di sospetta emancipazione.
Un ulteriore, ricco filone di studi di quest’ultimo decennio è stato quello rivolto all’attività degli amateur e dei dilettanti, distinzione non facile da stabilire, e certo dai confini sfumati e storicamente mutevoli ma che -molto schematicamente – possiamo far corrispondere alle pratiche amatoriali antecedenti o successive alla disponibilità commerciale delle emulsioni alla gelatina bromuro d’argento, e a tutta la tecnologia connessa[1983]. Certo tra i primi deve essere compreso il nobile calabrese Ferdinando Vercillo (Miceli Di Serradileo 2011): una piccola scoperta, una testimonianza interessante della diffusione della pratica calotipica in Italia, specie in un ambito poco frequentato come la ritrattistica, databile in questo caso ai suoi anni di esilio per attività antiborboniche, vissuti tra Torino, Pisa e Firenze. Paradigmatica figura di dilettante fu invece Giuseppe Beltrami, compreso nel gruppo tipologicamente variegato di fotografi milanesi attivi a cavallo tra XIX e XX secolo oggetto di uno studio a più mani[1984] che concordava nel riconoscere come momento di svolta la comparsa delle nuove emulsioni, in anni segnati anche dalla nascita dei circoli fotografici, vero luogo d’incontro e di confronto tra appassionati e professionisti. Il confluire in volume di contributi di studiosi di diversa formazione e competenze costituiva certo uno dei pregi dell’iniziativa, ma le tre figure eponime di Beltrami, Luca Comerio e Italo Pacchioni risultavano per molti versi incommensurabili tra loro né la narrazione storiografica riuscì a integrarle in un quadro che andasse oltre i dati contingenti; pochi infatti sembrano essere stati i nessi riconoscibili tra l’attività di Comerio e l’amatorismo (per quanto innovativo) di Beltrami o tra le sue stereoscopie e la strabiliante “macchina stereoscopica”[1985] del Cinematografo Pacchioni se non il comune riferimento a un fenomeno di massa alle soglie del suo esaurimento proprio in conseguenza dell’affermarsi della cinematografia.
Il Gabinetto Fotografico della Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino proseguiva l’opera di divulgazione del proprio patrimonio dedicando una piccola mostra a un importante autore fiorentino come Lodovico Pachò[1986], attingendo dal fondo a suo tempo da lui stesso donato, in anni in cui altri studiavano un borghese fotografo attivo in Toscana come Felice Andreis, anch’egli interessato a temi e soggetti di ambiente contadino[1987]. Di tono più dimesso, quasi da album di famiglia erano invece le fotografie di Giuseppe Michelini che le Collezioni d’arte e di Storia di San Giorgio in Poggiale di Bologna offrirono al pubblico nel 2006[1988]; quelle di Gennaro Matacena[1989] o quelle di Agostino Lelli-Mami, presentate in una nuova edizione dalla Biblioteca Malatestiana di Cesena[1990], attingendo dall’archivio donato nel 2000 dagli eredi, poi catalogato e digitalizzato. Analoga operazione venne condotta sui negativi e sulle autocromie di Licinio Farini donate alla Biblioteca comunale di Russi; immagini che per caratteristiche e cultura erano del tutto simili a quelle degli altri autori qui ricordati ma che vennero qualificate come “pittorialiste” nella mostra che gli venne intitolata (Benassati 2009), confondendo un lodevole intento di valorizzazione con quella correttezza storico critica che avrebbe dovuto avvertire (ed essere avvertita) che non può essere la cronologia delle opere a costituire una definizione stilistica né che questa possa essere compiutamente restituita se si espongono ristampe attuali dalle lastre originali, essendo da tempo noto che proprio l’estetica pittorialista si esprimeva prevalentemente se non esclusivamente nei modi della stampa[1991].
I sempre più numerosi conferimenti a istituzioni pubbliche hanno consentito di far emergere una ulteriore categoria di dilettanti fotografi, che si connotavano per un uso della fotografia nel quale le preoccupazioni o velleità espressive erano poste in second’ordine rispetto alle possibilità descrittive e referenziali del mezzo, utilizzate a supporto della loro attività di studiosi o di cultori del patrimonio storico locale. Si vedano ad esempio la produzione di un pubblicista come Jules Brocherel, attento a tutti gli aspetti della cultura valdostana; quella di un vulcanologo come Gaetano Ponte[1992], che riguardava la sua attività scientifica tanto quanto la sfera personale e familiare o anche le fotografie di Guido Costa[1993] e Giuseppe Palumbo, che hanno documentato non solo il patrimonio architettonico e archeologico delle rispettive aree geografiche ma le condizioni e i modi di vita di quelle popolazioni, assumendo così – oggi – un valore di ‘documento’ etnografico che va ben oltre le intenzioni degli autori[1994].
Il nome di Brocherel non era certo sconosciuto agli studiosi valdostani[1995] ma il volume del 2007 relativo a Courmayeur (À la cour du Géant) rappresentò la prima occasione per precisare alcune questioni sino ad allora non chiarite, a partire dalla distinzione di responsabilità di molte delle fotografie comprese nel fondo omonimo conservato presso il BREL, da assegnarsi invece ad un fotografo ed editore di cartoline come Luigi Broggi. In quella occasione due distinti contributi si assunsero il compito di ricostruirne il profilo biografico[1996] e di analizzarne la produzione fotografica, studiata da Enrico Peyrot, a sua volta fotografo particolarmente attento al racconto dei paesaggi valdostani, che ne offriva una lettura integrata degli aspetti tecnici e di quelli più propriamente iconografici, rilevando come le scelte di Brocherel fossero sempre l’esito di una precisa definizione del soggetto, nella quale riusciva a coniugare “indagine sul territorio e sperimentazione nell’attività fotografica”[1997], nonostante l’ovvia influenza delle precedenti tradizioni rappresentative.
L’attività di Guido Costa era stata resa nota in una mostra nuorese di taglio didascalico, in cui erano esposte anche pubblicazione ed esemplari di materiali e apparecchi provenienti dagli eredi (Cicalò 2007), mentre quella di Giuseppe Palumbo – basata sullo studio dell’intero archivio donato dallo stesso studioso al Museo Castromediano di Lecce – venne presentata nella più organica forma di una monumentale monografia, che restituiva l’intero corpus di immagini (1685) ordinate per categorie che riprendevano quelle utilizzate dall’autore[1998]. Di quelle poste e corredo degli articoli originali il volume offriva una lettura referenziale molto dettagliata, accompagnata da una riflessione metodologica sull’archivio come palinsesto (i diversi, successivi ordinamenti) e raccolta di palinsesti (le differenti didascalie e note al verso delle stampe), certo utile ma non affrontata con la necessaria competenza, come mostravano le difficoltà della curatrice nel tentativo di definire la cultura fotografica e visiva di Palumbo; uno sforzo tanto encomiabile quanto generico, che portava alla presunta scoperta di “tanti richiami a pittori di varie epoche (…) da Giotto a Manet, da Millet a Daumier”, per non dire – naturalmente, dati i temi – di Pellizza da Volpedo.
Una delle aree geografiche e culturali maggiormente indagate è stata in quegli anni quella torinese, certo anche in virtù del ruolo svolto nel contesto italiano sino alla metà del Novecento per la presenza di importanti periodici quali “La Fotografia Artistica” e il “Corriere Fotografico”, così come l’organizzazione di mostre ed esposizioni di rilevanza nazionale e internazionale. In un periodo caratterizzato da pochi titoli di sintesi[1999], numerosissimi sono stati gli studi monografici, nella più parte legati a occasioni espositive ma anche a collane editoriali tematiche, come quella intitolata a “I fotografi della montagna”, diretta da Giuseppe Garimoldi, edita in collaborazione col CAI e distribuita con “La Stampa” e “L’Adige”[2000]. L’interesse per la montagna, se non proprio la passione alpinistica esemplificata nell’attività di Vittoro Sella, si ritrovava anche in un autore più noto per le sue ricerche scientifiche e storico artistiche come Francesco Negri, a cui venne dedicata la prima monografia basata sulla catalogazione scientifica del suo fondo fotografico, archivistico e bibliografico conservati presso la Biblioteca civica di Casale Monferrato[2001], a distanza di quasi quarant’anni dall’iniziativa prodotta dal CIFe (Colombo 1969). Il volume comprendeva una ricostruzione della figura e dell’operato di Negri[2002], condotta con una strumentazione storico critica che sarebbe stato vano pretendere nel 1969, e un saggio in cui Barbara Bergaglio ricostruiva le vicende ‘conservative’ e catalografiche del fondo a partire dalla sua acquisizione pubblica nel 1938, sottolineandone i limiti in termini di tutela e soprattutto di possibilità di studio esaustive[2003]. Nella quasi totale assenza di stampe originali, le immagini pubblicate derivavano dal trattamento digitale delle lastre ovvero, per le riprese di più alta datazione, dalla stampa attuale dei negativi al collodio su carta sensibilizzata a mano[2004], mentre gli apparati comprendevano la bibliografia degli scritti editi ed inediti di Negri ed anche (condizione piuttosto rara) il repertorio dei titoli che costituivano la sua biblioteca fotografica.
Con stampe provenienti da un archivio, in questo caso familiare, era stata realizzata anche la mostra di un altro dei protagonisti della fotografia torinese e italiana come Guido Rey[2005]. In quel caso l’adozione di una metodologia innovativa, che implicava la lettura di quelle notissime immagini da un punto di vista quasi da album di famiglia, ha prodotto esiti di notevole interesse specialmente per quanto riguarda una serie di precisazioni cronologiche e di datazioni altrimenti generiche o errate. Ancora da un archivio familiare, poi passato per lascito al Museo della Montagna di Torino auspice la Società storica delle Valli di Lanzo, era nata la possibilità di studiare la figura e l’opera di un altro dilettante torinese come Ferdinando Fino (Cavanna 2010a), fortunato autore di autocromie ben presto dimenticato dopo la sua morte prematura, la cui produzione ha consentito di incominciare a comprendere meglio un fenomeno sinora poco studiato nella sua specificità quale quello del pittorialismo ‘a colori’, legato all’uso che delle lastre Lumière fecero altri amateur coevi quali Licinio Farini, Francesco Carbonieri[2006] o Luigi Pellerano. Di una fortuna critica priva di soluzioni di continuità, forse dovuta all’intreccio virtuoso tra autorevolezza istituzionale e gusto piccolo borghese, ha goduto Domenico Riccardo Peretti Griva i cui bromoli presentati a Modena provenivano in parte dalla donazione fatta dagli eredi al Museo Nazionale del Cinema di Torino nel 2011[2007]. Dalla donazione fatta dalla figlia alla Fondazione Torino Musei era nata anche la mostra che la Galleria d’arte moderna aveva dedicato nel 2005 alla figura più sfaccettata e complessa di Stefano Bricarelli, nella quale si dava conto di tutta la sua produzione, senza distinzione tra ‘artistica’ o salonistica e professionale, verificandone la ricezione da parte di critici e lettori di annuari e riviste[2008]. Negli anni successivi vennero prodotte due altre monografie che avevano come protagonisti due esponenti del nascente modernismo (torinese e non solo) come Cesare Giulio e Italo Bertoglio, entrambe concepite a partire dallo studio dell’insieme dei loro archivi; il primo conservato presso il Museo nazionale della Montagna e il secondo di proprietà degli eredi. Proprio l’analisi filologica dei materiali consentì ad esempio di riconoscere in Giulio il ricorso non occasionale a rilevanti manipolazioni dei negativi; un artificio espressivo destinato ad accrescere l’efficacia di un meccanismo compositivo e narrativo che si allontanava progressivamente dalla referenzialità. Un autore sino ad allora quasi dimenticato, la cui opera si è invece rivelata non solo paradigmatica di un momento importante della cultura fotografica italiana ma anche influente sul lavoro di alcuni autori della generazione successiva come Finazzi e Cavalli, sulle prime prove di Roiter e in misura minore di Paolo Monti. All’iniziativa privata degli eredi si doveva invece il riordino dell’archivio e la sintetica catalogazione delle stampe (essendo perduti i negativi) di Italo Bertoglio; su quella base la FIAF – di cui fu il primo Presidente – gli dedicò una monografia (Miodini et al. 2009) che si segnalava per il preciso intervento della curatrice, che ne ricostruiva la vicenda incrociando andamento cronologico e tematico per serie che vivevano di confronti con la produzione coeva come di analisi critiche delle varianti di stampa; adottando cioè un metodo purtroppo non così diffuso nelle monografie per dare conto di queste produzioni che vivono in un “teatrino delle apparizioni”, in bilico tra suggestioni tardo futuriste e pacatamente surreali; quelle stesse che si trovavano anche nella sua produzione pubblicitaria[2009]. Sempre a Torino, accanto a queste iniziative istituzionali va ricordata l’attività dell’Associazione per la Fotografia Storica[2010] che ha contribuito nel corso degli ultimi decenni a far conoscere autori locali poco conosciuti o dimenticati, producendo mostre e cataloghi monografici che si sono alternati a più generiche iniziative tematiche. Segnaliamo tra le altre la riscoperta di una figura eclettica di stilista e designer oltre che fotografa professionista di ascendenza modernista come Eda Urbani (Danna et al. 2008) o quella di Anselmo Bogetti (Mulatero et al. 2009), un dilettante di buon livello per certi versi prossimo a Bertoglio, che costituiva un elemento non secondario di quel tessuto esteso che faceva di Torino un centro ancora particolarmente vivo negli anni tra le due guerre. Era però proprio la precisa connotazione culturale di quell’autore che rendeva inopportuno il tentativo curatoriale di ‘nobilitarne’ l’opera provandosi ad accostarlo “come taglio e rilettura del reale, ad artisti come Peter Keetman, André Kertesz, Dorothea Lange” . Un puro elenco di nomi.
L’opera e la figura di Giuseppe Cavalli hanno sempre goduto di buona considerazione critica e il suo nome è stato una presenza costante nelle storie della fotografia italiana[2011], sebbene con un interesse prevalente per gli anni de La Bussola, a partire almeno dalla prima retrospettiva che nel 1980 gli dedicò Lucera, suo paese natale, a quindici anni dalla morte[2012]. Già nel 1994 però Enzo Carli, sollecitato da Mario Giacomelli, aveva parlato esplicitamente di “tre stagioni”, proponendo una più articolata periodizzazione e prendendo in considerazione tutto il lavoro realizzato negli anni 1935-1961, analogamente a quanto fece alcuni anni dopo Antonella Russo[2013]. Il centenario della nascita offrì poi l’occasione per varie iniziative che favorirono e confermarono la notorietà anche locale[2014] dell’autore ma che non si proposero più serrate verifiche critiche[2015]. Un’importante occasione di approfondimento fu invece rappresentata dalla mostra nata dalla donazione fatta all’Archivio Fotografico Toscano del fondo del fratello gemello Emanuele (Rizzuti 2008), pittore ma anche autore di fotografie che presentavano forti affinità e analogie con quelle sino ad allora più note di Giuseppe. L’analisi condotta in quell’occasione da Enzo Carli consentiva di individuare non solo una forte comunanza espressiva ma la presenza di varianti realizzate nelle stesse occasioni e contesti dai due fratelli in un arco di tempo compreso tra la fine degli anni Trenta e il secondo dopoguerra, e quindi anche di comprendere meglio la stessa genesi stilistica dei lavori più noti, poi compiutamente esposti in occasione della grande mostra monografica romana del 2006[2016] posta sotto lo stesso titolo della precedente di Lucera (Russo 1998) ma ora adottando una presentazione per generi. Alle sole nature morte realizzate entro il 1949 venne infine dedicato il volume curato da Angela Madesani nel 2009, comprensivo di una scelta antologica di scritti comparsi in gran parte su “Ferrania” e di corrispondenza con altri fotografi e critici, adottando così un approccio storiografico più complesso e maturo[2017] in grado di fornire elementi utili per una più puntuale comprensione critica dell’autore e della cultura fotografica del periodo[2018].
Sull’opera fotografica di Giuseppe Pagano era invece calato il silenzio dopo la monografia curata da Cesare de Seta (1979), anche in conseguenza delle insormontabili difficoltà poste all’accesso al suo archivio da parte di altri studiosi, così che ancora alla supervisione di De Seta si doveva la tesi di dottorato in cui quelle fotografie potevano essere nuovamente studiate proprio a partire dalla riconsiderazione del suo archivio[2019]. Operazione meritoria se non fosse stata viziata da una notevole ingenuità di fondo; da una concezione acritica che sorprendentemente adottava – ancora a queste date (2007) – la tesi dell’oggettività dell’immagine fotografica e della neutralità dell’autore, tanto da poter affermare non solo che “questo archivio ci regala la possibilità di mettere a nudo la realtà di quel periodo” ma anche che “quella che Pagano vuole restituire è una realtà quanto più possibile autentica, non filtrata e in qualche modo deformata dall’eventualità di un condizionamento soggettivo. (…) Pagano preferirà guardare il Paese per quel che è, alla ricerca della sua immagine più vera”. La sua avrebbe quindi dovuto configurarsi come una specie di “produzione spontanea”, sebbene poi la giovane studiosa tentasse di riconoscere possibili influenze della Farm Security Administration senza preoccuparsi troppo del fatto che non si potesse “essere certi che l’architetto, vissuto sempre in Italia, abbia avuto contatti con tali esperienze d’oltreoceano”. Meno sconfortante appariva il lavoro condotto sull’archivio e la ricostruzione delle poche occasioni di pubblicazione, le sole che riuscissero a fornire almeno un termine ante quem per la realizzazione di quelle fotografie, ma erano proprio questi dati a essere poi trattati con scarso rilievo, come dimostrava il fatto che solo di rado e quasi incidentalmente si riportassero in nota le date di ripresa ricavate dai fogli di provini, quasi fossero un elemento di secondario interesse per comprendere il lavoro di Pagano[2020].
L’architetto-fotografo (ma sarebbe meglio dire il personaggio) di certo più indagato in questi ultimi anni è stato però ancora Carlo Mollino, oggetto di iniziative legate sia al collezionismo che alla ricerca, così che – superato d’un soffio il centenario della nascita (1905) – il 2006 vide un’ampia serie di pubblicazioni e ben tre mostre torinesi (Archivio di Stato, Castello di Rivoli e Galleria d’Arte Moderna). Nel proprio contributo al catalogo della prima Federica Rovati dava conto dei rapporti di Mollino con la cultura artistica torinese nel periodo tra le due guerre, individuando le fonti letterarie e visuali di quelle immagini eccentriche e incomprese[2021] e misurandosi filologicamente con la fotografia da cui il saggio prendeva nome, quella “camera incantata” [2022] realizzata nello studio di Piero Martina di cui discuteva i nessi con le opere del pittore sino a proporne una datazione nuova e un poco più tarda rispetto a quella assegnata dal suo stesso autore. Ne risultava un convincente esempio di analisi critica di un’opera fotografica e più in generale (anche) di critica delle fonti, per quanto autografe o autoriali, non dissimile per interesse da un più recente contributo di Michela Comba (2014) che chiariva alcuni aspetti delle fotografie di architettura di Molino quali la trasfigurazione degli spazi domestici e il procedere per serie. Non molto più di una accurata ricostruzione generale dei suoi rapporti con la fotografia era invece ciò che offriva il testo di Napoleone Ferrari[2023] compreso nel secondo catalogo torinese, nel quale avanzava una singolare analogia sostenendo che la fotografia di Mollino per essere conosciuta avesse bisogno di essere spogliata “con pazienza e passione” come un corpo femminile, mentre più interessante e utile risultava semmai la pubblicazione di materiali inediti come provinature e negativi ritoccati posti a confronto con la stampa finale[2024]. Furono proprio i ritratti femminili a costituire il nucleo principale della successiva mostra fiorentina del 2009, organizzati cronologicamente in tre sezioni relative all’anteguerra, agli anni Cinquanta e alle Polaroid dell’ultimo suo decennio; destinati complessivamente – nell’intenzione dei curatori – a comporre proprio il profilo della sua donna ideale ma contemporaneamente “pezzi unici di indiscutibile interesse collezionistico”[2025]. Proseguendo nell’impegno di definizione di un presunto ideale femminino dell’architetto torinese, alla Kunsthalle di Vienna, nel 2012, venne esposto un migliaio di quelle Polaroid sotto un titolo tanto criptico da tingersi di connotazioni medianiche ma che in realtà intendeva riferirsi all’ipotesi curatoriale già avanzata nella mostra del 2009: delineare quella che sarebbe stata “una donna esclusivamente fotografica, l’autentico amore di Mollino”, di cui doveva essere paradigmatico esempio il bellissimo nudo di schiena in copertina. Da vecchi milleriani (nel senso di Henry) quali siamo, non è di quello che ci possiamo dispiacere, ma della scelta di quel titolo ambiguamente citazionista, privo di eleganza e di rispetto per l’intelligenza dell’autore, ciò che del resto ben corrisponde all’intenzione predatoria di questo genere di operazioni commerciali[2026].
[1] “Les inventeurs de la photographie n’attendirent pas les historiens pour faire rentrer leurs découvertes dans l’ordre de l’histoire écrite. Ils se chargèrent eux-mêmes de cette tâche. En situant ces découvertes dans l’évolution scientifique et technique, ils établirent une tradition qui devait influer sur tous les récits ultérieurs: l’histoire de la photographie serait l’histoire de sa technique.” In André Jammes, Eugenia Parry Janis, The Art of French Calotype with a critical dictionary of photographers, 1845- 1870. Princeton: Princeton University Press, 1983, p. XI, che accompagnava la mostra Masterpieces of the French Calotype presentata al Princeton Art Museum dal 6 febbraio al 27 marzo 1983 poi anche al Wellesley College Museum (ora Davis Museum and Cultural Center) nel maggio – giugno dello stesso anno.
[2] Citato in Negro 1943, p. 387. Si veda anche Belli 1978 (1839) in cui sono state riprodotte e trascritte alcune pagine di argomento fotografico tratte dallo Zibaldone. L’impronta nazionalistica permaneva ancora in occasione delle celebrazioni francesi per il Cinquantenario, quando venne forgiata una medaglia “Œuvre du sculpteur Émile Soldi, elle montre le profil de Niépce chevauchant celui de Daguerre avec une légende pour le moins explicite: ‘ Invention de la photographie * Nicéphore Niépce * L. J. Daguerre’ Le nom d’Henry Fox Talbot est totalement absent, ce qui rend la thèse claire: la photographie est une invention française.”, cfr. Eléonore Challine, La mémoire photographique. Les commémorations de la photographie en France (1880- 1940), “Études photographiques”, n. 25, mai 2010, pp. 42-69
[3] Durelli 1839 seguito dalla Descrizione pratica del processo lucigrafico di Daguerre, ivi, pp. 583-591. Poiché la Relazione di Arago era datata 3 luglio, se ne deduce che questo numero del periodico venne stampato ben oltre la data di pubblicazione. La redazione del testo, comunemente assegnata a Carlo Cattaneo, è stata attribuita a Francesco Durelli da Roberto Cassanelli (2009, p. 108, nota 17).
[4] Minotto 1839, consultabile all’indirizzo http://books.google.it/books? id=AX9LAAAAcAAJ&pg= PA404&lpg=PA404&dq= fabricius+%2B%22de+rebus+metallicis%22&source=bl&ots=M8go9uHYNG&sig=LEUFp9-wApvsSqWoa5ChnyhmtXQ&hl= it&sa=X&ei=yT6hT_iFN6bk4QTzrYStCQ&ved=0CCYQ6AEwAQ#v=onepage&q=fabricius%20%2B%22de%20rebus%20 metallicis%22& f =false [02 05 2012]. La voce venne chiusa redazionalmente il 20 ottobre 1839 (p. 428) con aggiornamenti sino al 16 dello stesso mese (“nel mentre che queste ultime pagine stanno per passare sotto il torchio” si affermava a p. 427 citando l’ultimo procedimento proposto da Albert Donné per trarre incisioni dai dagherrotipi). Lo stesso Donné aveva redatto la voce “Fissazione” tradotta per lo stesso supplemento ancora da Minotto (pp. 69-71), dedicata al solo dagherrotipo ma certamente redatta qualche tempo prima, caratterizzata da notevoli incertezze e gravi errori, forse di traduzione, (parlando ad esempio di “cartoni sui quali cade l’immagine” ) e certo da grande sciovinismo (“Talbot di Londra volle tentare di rapire al Daguerre il merito della sua scoperta”, p. 71). Piero Becchetti (1978 p. 14), che lo considerava “il primo trattato sulla storia della fotografia tradotto in italiano del quale si abbia notizia” non ne conosceva forse l’autore e per questa ragione, estendendo una caratteristica generale dell’opera alla singola voce, lo indicava come “tradotto”. Per Minotto cfr. Prandi 1979; Montemurro 1988; Montemurro 1991; Scomazzon 2007.
[5] Particolarmente efficace l’analogia utilizzata da Francesco Lampato (1850) per il quale “la scoperta di Talbot sta dunque al dagherrotipo come l’antica scultura xilografica in legno sta alla tipografia a caratteri mobili.”
[6] Nuova Enciclopedia 1859, p. 643, che riprendeva tempestivamente quanto pubblicato da Edouard Fournier, Le Vieux- Neuf. Histoire ancienne des inventions et decouvertes modernes, I, Paris: Dentu 1859, pp. 18–21, cfr. François Brunet, Inventing the Literary Prehistory of Photography: From François Arago to Helmut Gernsheim, “History of Photography”, 34 (2010), n.4, pp. 368-372. Per quanto riguarda l’Italia quel testo venne poi riscoperto da Anton Giulio Bragaglia, La fotografia dei colori e le grandi invenzioni moderne nel 1600 e nel 1700, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n. 12, dicembre, pp. 199-201.
[7] Eliografia. In Nuova enciclopedia 1859, p. 325.
[8] Caneva 1855, p. 8.
[9] Sella 1856, p. 30; sulla sua figura si veda Castronovo 2015.
[10] X 1853. L’articolo esplicativo faceva seguito all’attenta disamina siglata F.L., Il Bulino e la Fotografia, “L’Alchimista Friulano”, 4 (1853), n.31, 31 luglio, pp. 244-245, dell’opera di Benjamin Delessert, Notice sur la vie de Marc Antoine Raimondi, graveur Bolonais accompagnée de reproductions photographiques de quelques unes de ses estampes. Paris – Londres: Goupil – Colnaghi et Ce, 1853.
[11] Borlinetto 1867.
[12] I diversi contributi di Rizzardi 1890-1892 sono citati in Paoli 1990b, p. 50, nota 15.
[13] Sul contesto in cui nacque questa iniziativa, e sui proponimenti della sua dirigenza si vedanoTomassini 1985b; Tomassini 1992.
[14] Corsi 1889, ora in “Fotologia”, 11 (1989), settembre, pp. 107-115.
[15] Quale nota di colore vale la pena di segnalare il menù, diremmo di ‘sapore’ quasi futurista, previsto per l’occasione: “Il Potage era divenuto: Brodo al nitrato d’argento; il Boeuf braisé à la jardinière aveva preso il nome di Bue al fuoco con lenti acromatiche ed altri vegetali; il Sanglier aux épinards: Cignale istantaneo su fondo di verdura; il Gàteau: Pasticcio al pirogallico con solfito ed ammoniaca, ecc. Tuttavia, per quanto sappiamo, nessuno dei commensali (erano oltre a settanta) ebbe a soffrir nulla, anzi tutti si rallegrarono coll’albergatore per avere imbandito loro un banchetto cosi gustoso.”, Redaz., “Gazzetta Piemontese”, 1 marzo 1889, n. 60, p. 3.
[16] Beltrami 1892, poi ripubblicato con identico titolo ne “Il Dilettante di fotografia: Giornale Popolare Mensile Illustrato”, 8 (1897), n. 91, novembre, p. 3; Luigi Gioppi, Niceforo Niepce, “Rivista scientifico-artistica di fotografia”, 3 (1894), n.2, febbraio, pp. 242-245; Id., G.M. Daguerre, ivi, aprile-dicembre; Id., Fox Talbot, ivi, 5 (1895), n. 8, febbraio, pp. 236-239, cfr. Silvia Paoli, Il Circolo Fotografico Lombardo: associazionismo e cultura fotografica alla fine dell’Ottocento. In Miraglia et al. 2000, pp. 68-75 (p. 75, nota 46).
[17] Augusto Novelli, Su e giù per l’Esposizione. In La fotografia all’Esposizione nazionale ed internazionale di Firenze: (aprile e maggio 1899): storia dell’arte e sue applicazioni alle scienze di osservazione. Firenze: Tipografia Landi, 1899, p. 24, estratto dal “Bullettino della Società fotografica italiana”, 11 (1899), n. 5-7 maggio-luglio.
[18] Numero di catalogo 26, cfr. Esposizione generale italiana in Torino. Catalogo degli oggetti e documenti raccolti dalla Commissione Municipale e esposti nel padiglione del Risorgimento Italiano. Torino: Tip. Eredi Botta di Giovanni Bruneri, 1884; Giuseppe Tempia, Esposizione Generale Italiana in Torino 1884. Guida al Visitatore al Tempio del Risorgimento. Torino: G.B. Petrini, 1884.
[19] Catalogo dell’Esposizione Romana per la storia del Risorgimento. Roma: s.e., 1884, p. 167.
[20] Cfr. Aurelio Favara, Il Risorgimento italiano nella visione storico- iconografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, disp. 5-6, maggio-giugno 1911, pp. 135-144 (136). Sul ruolo svolto da Favara nell’ambito della Società si veda Caputo Calloud 1992, pp. 22-23.
[21] Si pensi alla comune logica delle acquisizioni del Gabinetto Fotografico Nazionale (1906: Lodovico Tuminello; 1913: Valeriano Cugnoni), dei Musei Vaticani (1913: Romualdo Moscioni) come a quelle più tarde del Civico Museo di Storia ed Arte di Trieste (1927), o ancora della Cassa di Risparmio di Bologna (1940: Poppi) e dei Musei civici di Torino (1940: Mario Gabinio; 1940-1942: Carlo Nigra), solo per citare alcuni esempi. Ancora ben addentro al Novecento è stato il riconoscimento del loro valore documentario a consentire il recupero e l’acquisizione di fondi fotografici di cui oggi si riconoscono anche le rilevanti qualità autoriali.
[22] Costantini 1990b, p. 94.
[23] La serie di sei articoli, che prese avvio nel numero di maggio 1905 e si concluse giusto un anno più tardi, era costituita da brevi interventi di storia tecnologica, con richiami alle figure dei principali inventori, tratte – nonostante l’impostazione francofona del periodico – dal “Photographic Journal” e dal “British Journal of Photography” oltre che da John Werge, The Evolution of Photography with a Chronological Record of Discoveries, Inventions, Etc. Contributions to Photographic Literature, and Personal Reminescences Extending over Forty Years. London: Piper & Carter – John Werge, 1890. A partire dal numero di gennaio del 1906 a quelli venne affiancata la pubblicazione in tre parti di un Tableau chronologique des différentes découvertes qui ont contribué au développement de l’art de la photographie.
[24] Fanny Dalmazzo, Un po’ di storia: I, Dalla camera oscura alla camera chiara, “La Fotografia Artistica”, 3 (1906), n.2, febbraio, pp. 30-32; II-III, Dagli alchimisti ai fotografi, ivi, n. 3, marzo, pp. 44-46; n.4, aprile, pp. 69-70. La giovane pubblicista, allora laureanda in Giurisprudenza e futura collaboratrice de “La Donna”, si sarebbe poi dedicata con grande impegno ai problemi della tutela minorile e del voto alle donne.
[25] L’intervento venne pubblicato in francese, in più parti, prima di essere edito in forma autonoma: Cesare Schiaparelli, L’arte fotografica all’Esposizione internazionale di fotografia. Dresda 1909. Torino: Momo, 1910.
[26] Nel 1893 Alfred Lichtwark aveva organizzato alla Kunsthalle di Zurigo, di cui era direttore, la Erste Internationale Austellung von Liebhabers photographen (Prima mostra internazionale di amatori fotografi) dove, nella sezione Museo, erano esposte fotografie storiche, tra le quali i calotipi di Hill e Adamson. In quella occasione Lichtwark ebbe modo di tracciare un breve bilancio di storia della fotografia che fu “alla base della nuova interpretazione di Benjamin”, Bertelli 1979b, p. 114. Di Lichtwark si segnala anche l’introduzione a Fritz Matthies-Masuren, Künstlerische photographie: entwicklung und einfluss in Deutschland, Berlin: Marquardt, 1907. La prima fortuna critica di Hill (e Adamson) è stata accuratamente ricostruita da Anne McCauley, Writing Photography’s History before Newhall, “History of Photography”, 21 (1997) n. 2, Summer, pp. 87-101 (93-101).
[27] Torino 1911: Esposizione internazionale delle industrie e del lavoro (…): catalogo generale ufficiale. Torino: Pozzo, 1911.
[28] Cfr. Miraglia 1990, ad vocem.
[29] Unterveger 1922a, in cui citava tra le fonti anche il Plico del fotografo di G.V. Sella, verosimilmente appartenuto al padre, fotografo a sua volta. Per Zannier 1993a fu Giuseppe Enrie che a Torino diresse per alcuni anni la rivista specializzata “Vita fotografica italiana: organo promotore della cultura e del progresso fotografico nazionale” il cui primo numero venne pubblicato nel febbraio 1921.
[30] Il contributo venne presentato sia al Congresso romano di Oftalmologia sia nella Sezionje storica del VI Congrès International de Photographie di Parigi (29 giugno – 4 luglio) di cui era Presidente (Albertotti 1926); a questi si possono aggiungere pochi altri contributi, di taglio piuttosto agiografico, come Rolla 1930.
[31] A rimarcare la particolare attenzione di Vitali per il medium ricordiamo che dal 1937 le copertine di “Emporium” erano sistematicamente illustrate da riproduzioni fotografiche di opere d’arte, anche contemporanea (una Ballerina di Degas nel numero di marzo ad esempio) o di loro dettagli, seguendo in questo le suggestioni del Piero della Francesca di Roberto Longhi (si veda l’apparato fotografico che dava corpo al saggio di Enzo Carli, Visto da vicino: la pala di Piero della Francesca nella Pinacoteca di Brera, v.88 (1938), n. 527, novembre, pp. 239-256. Il periodico, ampiamente illustrato con tecniche diverse sul modello del londinese “The Studio”, aveva già saltuariamente utilizzato la fotografia per le proprie copertine e ospitato articoli sul tema, in particolare sulla difesa della fotografia artistica di stampo emersoniano, sin dai suoi primissimi numeri: cfr. Anonimo [Bernard Alfieri?], La fotografia artistica: paesaggio, 1 (1895), v. I, n. 2, febbraio, pp. 127-131, con fotografie degli inglesi Ralph W. Robinson e Bernard Alfieri, entrambi membri della neonata Brotherhood of the Linked Ring. La trattazione proseguì al numero successivo con un articolo dedicato al ritratto per essere ripresa poi saltuariamente nel 1903 (v. 18, n. 108, p. 480).
[32] Secondo Carlo Bertelli (1993), “fu il suo interesse per un pittore del XIX secolo, Federico Faruffini, che portò Vitali alla protofotografia italiana. Faruffini era anche fotografo e Vitali si interessò a questo mezzo dopo aver scoperto e acquistato una serie di sue fotografie.” Per Miriam Fileti Mazza (2010) Vitali “dal 1935 al 1938 dedica alcuni saggi proprio al rapporto tra fotografia e arte, realizzando uno dei contributi più incisivi nell’articolo Federico Faruffini fotografo del 1935, dove assistiamo ad un critico che si pose di fronte alla fotografia come fosse in presenza di una tela macchiaiola. Faruffini infatti possiamo considerarlo il ‘fotografo macchiaiolo’, colui che alternandosi tra l’uso dei pennelli, il bulino e la macchina da ripresa, nella tristezza di un’esistenza piena di difficoltà, realizzò stupende opere lontane ‘da ogni abbellimento, da ogni variazione fantastica’, anche quando ormai padrone del procedimento tecnico, frenò ogni tentazione di manipolarne l’esito, rimanendo fedele a ciò che l’occhio vedeva e fermava.” (2).
[33] Ora in “Fotologia”, vol.11, settembre 1989, rispettivamente alle pp. 9-10, pp. 10-12.
[34] Il volume gli era noto nell’edizione inglese del 1932. La puntualissima bibliografia che concludeva il testo dichiarava esplicitamente i propri debiti con Schwarz, autore che a sua volta sarà tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia proprio a cura di Costantini nel 1992, ma che era noto da tempo agli studiosi più accorti, come Mario Verdone (1962), che nella bibliografia di un suo interessante saggio sulle origini della fotografia in Italia aveva citato il saggio comparso in “Magazine of Arts”, nel 1949. Anche un critico della generazione di mezzo ha considerato quel libro “the essential turning point in the historiography of photography, namely the change from exploring the histories of techniques to exploring the histories of the image.”, Martin Gasser, A Master Piece: Heinrich Schwarz’s Book on David Octavius Hill, “Image”, 36 (1993), Spring/Summer, n. 1/2, p. 33.
[35] Segnalo a questo proposito che tra la bibliografia citata da Vitali era compreso anche il volume di Andrew Elliot, Calotypes by D. O. Hill and R. Adamson Illustrating an Early Stage in the Development of Photography Selected from his Collection, prefazione di John M. Gray, “The Early History of Photography”, stampato a Edinburgo nel 1929 in una edizione privata di sole 38 copie. Ricordiamo che la fortuna italiana di questo autore proseguì ben oltre il contributo di Vitali: anche Mollino 1949 scelse di aprire la sequenza delle tavole con una serie di ritratti di Hill, il primo dei quali – con scelta significativa per un architetto – era quello di John Ruskin (t.96).
[36] Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n. 53, maggio, pp. 285-288.
[37] Si veda la sua recensione al volume dedicato ad Atget da Camille Recht, in cui impostava un confronto stilistico con Le Secq, Hill e Nadar, in “La Casa bella”, 4 (1931), n. 38, febbraio, pp. 50-51, ora in Edoardo Persico, Tutte le opere (1923- 1935), a cura di Giulia Veronesi. Milano: Edizioni di Comunità, 1964, pp. 269-280.
[38] Carrieri 1937, con illustrazioni tratte da album della collezione Vitali.
[39] Oltre alla riproposizione dei primi saggi pubblicati su “Emporium” e ad una selezione di sue fotografie, il fascicolo conteneva scritti di Ansel Adams e Beaumont Newhall (con due interventi dedicati a Vittorio Sella), H. Gernsheim (D.O. Hill), I. Zannier (Costanza Diotallevi), P. Becchetti (Michele Mang), A. Gilardi (L’umiliazione della fotografia), M. Miraglia (Il barone Nesci), W. Settimelli (Fantasmi fotografici) e P. Costantini (Una rivoluzione nell’arte del disegno, che parafrasava il concetto espresso in un articolo anonimo della “Gazzetta privilegiata di Bologna” del 1839, citato in Costantini et al. 1985, pp. 46-47), quasi una Festschrift per il grande studioso e collezionista, considerato da molti il primo storico italiano della fotografia.
Precedente di qualche anno era stato l’omaggio di Fernando Tempesti (1985b), non per caso compreso nel primo numero della rivista, quasi un nume tutelare, avendogli riconosciuto il merito della “fondazione di una, sia pur sintetica, storia della fotografia in Italia”; merito a cui pochi anni prima lo stesso autore non faceva però il minimo cenno, descrivendo Vitali semplicemente come “uno studioso di pittura e di fotografia, oltre che collezionista”,cfr. Tempesti 1976,p. 11. Anche Giulio Bollati e Carlo Bertelli avevano dedicato i loro “Annali” (Bertelli et al. 1979) “A Lamberto Vitali”, mentre Zannier avrebbe poi dedicato alla memoria del “primo storico della fotografia italiana”, anche il secondo volume della serie Segni di luce, del 1993. Paolo Costantini infine aveva in progetto, e in avanzata fase di realizzazione al momento della sua morte nel 1997, di editare gli scritti di Vitali, progetto “discusso con Paolo Fossati e poi archiviato nonostante questi si sia generosamente battuto perché fosse edito postumo e nonostante il dichiarato interesse di Giulio Einaudi”, cfr. Rosa Tamborrino, Di un archivio. In Serena 2003, pp. 13-16 (15).
[40] Questo testo venne escluso anche dalla raccolta antologica L. Vitali, Preferenze. Milano: Editoriale Domus, 1950, essendo forse già allora non più accettabile neppure come “documento del gusto di un determinato periodo.” Ricordo che all’epoca della sua redazione si era in piena fase di rinnovata fortuna critica di Faruffini, dovuta all’esposizione postuma delle sue opere a Milano, alla Galleria Pesaro, nel gennaio 1923, per la cura di Arduino Colasanti: cfr. Ugo Ojetti, Federico Faruffini. In Pittura italiana dell’800. Milano: 1930; Pietro Maria Bardi, Federico Faruffini. Roma: Istituto Nazionale LUCE, 1934. Su Faruffini si veda ora Miraglia 2012. Vitali fu certo tra i primi a comprendere quanto fosse stato rilevante il ruolo svolto dalle fotografie nelle pratiche pittoriche del XIX secolo, come dimostrò concretamente anche con l’acquisto dell’archivio fotografico di Telemaco Signorini, poi donato alla Marucelliana di Firenze insieme a quello di Cecioni, cfr. Matteucci 1997.
[41] Vitali 1960.
[42] Pur non potendo approfondire la questione credo sia utile rilevare l’ambiguità critica dell’apprezzamento di Hill da parte di Schwarz e Vitali: la riscoperta e l’interpretazione storiografica della sua opera erano avvenute proprio nell’ambito di quel pittorialismo che i due studiosi avversavano, apprezzandone invece, modernisticamente, la sua “arte antiretorica (…) libera da quella pseudo-pittoricità che ha forse definitivamente inquinato la fotografia, [che] tocca qualcosa di più di un grande realismo.”, Lamberto Vitali, Un primitivo della fotografia: David Octavius Hill, “Emporium”, 42 (1936), n. 84, luglio, pp. 24-32 (30). Questa posizione critica era assolutamente corrispondente a quella che avrebbe espresso l’anno successivo Beaumont Newhall, cfr. Marta Braun, Beaumont Newhall et l’historiographie de la photographie anglophone, traduction par François Brunet, “Études photographiques”, 16 (2005), mai, pp. 19-31, che ospitava le relazioni presentate al seminario internazionale Photographie, les nouveaux enjeux de l’histoire, promosso dal Musée d’Orsay e dalla Société Française de Photographie (Parigi, Musée d’Orsay, 13-15 novembre 2003).
[43] Bertelli 2001, p. 14, ricordava che la fotografia “per Vitali era soprattutto documentazione e andava giudicata come un romanzo o un articolo di giornale, mai come un quadro.”
[44] Una categorizzazione solo apparentemente simile venne adottata da Newhall nell’allestimento della mostra al MoMA di New York del 1937, e poi nella redazione della sua notissima Photography: a short critical history. New York: The Museum of Modern Art, 1938, pp. 20-39, in cui parlava invece di “Primitive Photography” comprendendovi le distinte pratiche del dagherrotipo e del calotipo. Come ha ben sintetizzato Anne McCauley, En-dehors de l’art, La découverte de la photographie populaire, 1890- 1936, “Études photographiques”, 16 (2005), mai, pp. 50-73, traduzione dall’inglese di Mathilde Leduc-Grimaldi, “Ce jugement positif qui, au XIXe siècle, s’inscrit dans une évaluation plus large des ‘primitifs’ , allant de la Grèce archaïque aux peintres italiens du Quattrocento, permettait au photographe vieillissant de caractériser la génération à laquelle il appartenait, par les traits de la sincérité, du travail et de l’honnêteté, rejetant l’esprit mercantile au profit de l’expression personnelle.”
[45] Lionello Venturi, Il gusto dei primitivi. Bologna: Zanichelli, 1926.
[46] Per la discussione di questo concetto, espresso per la prima volta da John Ruskin in Elements of Drawing, 1857, e per la sua genealogia cfr. Alexandra K. Wettlaufer, In the Mind’s Eye: The Visual Impulse in Diderot, Baudelaire and Ruskin. Amsterdam – New York: Rodopi , 2003, in particolare alle pp. 234-235.
[47] Credo sia di un qualche interesse, per comprendere il sentire intorno alla fotografia dei commentatori più attenti e qui, in particolare, di Vitali e dell’ambiente con cui era in contatto, ricordare che Giuseppe Pagano, circa gli stessi anni, parlava di “meccanica sincerità” e “generosa onestà della fotografia”; Giuseppe Pagano, Un cacciatore di immagini, “Cinema”, (dicembre 1938), pp. 401-403, ora in De Seta 1979, pp. 155-156.
[48] Era quella una posizione ben radicata nella più avanzata cultura europea dell’epoca se anche Benjamin poteva scrivere, giusto in apertura della sua Piccola storia, che “la letteratura più recente rileva il fatto, vistoso, che il periodo di fioritura della fotografia (…) coincide col suo primo decennio”, sebbene poi richiudesse in quello “l’attività di Hill e di Cameron, di Hugo e di Nadar”, Benjamin 1966 [1931], p. 59.
[49] Costantini 1997 ora in Id. 2004, p. 35. Risulta difficile condividere il giudizio lì espresso, considerando che il pubblico colto di “Emporium” cui si rivolgeva Vitali era per molti versi lo stesso di “Casabella” o “Domus” e che il tema veniva trattato, come si è visto, anche sul supplemento di un importante quotidiano come “Il Corriere della Sera”.
[50] La distinzione tra le “facoltà visive” della lente e dell’occhio richiamava quasi letteralmente quella tra “macchina fotografica” e occhio proposta da Benjamin 1966 [1931], p. 62.
[51] Georges Potonnièe, Note sur la date de l’invention de la photographie, “Bullettin de la Société Française de Photographie”, 3e série, 8 (1921), n. 11, novembre, p. 312-318, nel quale anticipava quanto poi sviluppato nella sua Histoire de la découverte de la photographie. Paris: Montel, 1925.
[52] Müller 1922; Unterveger 1922b.
[53] Citato in Zannier 1993b, pp. 158-159.
[54] Guida della Prima Esposizione Nazionale di Storia della Scienza, (Firenze, Palazzo delle Esposizioni, Parterre di S. Gallo, maggio-ottobre 1929). Firenze: Edizione dell’Ente per le attività toscane, 1929.
[55] Sala V, cfr. Guida della Prima Esposizione, citata alla nota precedente, p. 10. Lo studio fiorentino realizzò anche la documentazione dei principali apparecchi, strumenti e oggetti esposti, cfr. Pietro Pagnini, a cura di, Fotografie di apparecchi e strumenti alla Esposizione di storia della scienza, Firenze 1929. Firenze: Fratelli Alinari, 1930.
[56] Heinrich Schwarz, Per la storia della Camera Oscura, “Galleria”, 1 (1933), n. 2, pp. 16-17, non citato nella bibliografia curata da Costantini (Schwarz 1992, pp. 91-96), che pure costituiva un fondamentale contributo per la conoscenza e la comprensione dell’importante ruolo svolto dallo studioso austriaco nello sviluppo della storiografia fotografica. Il testo del 1933 è ora disponibile in Zannier 1993b, pp. 162-164.
[57] Ristampato in anastatica da Arnaldo Forni Editore (Gaudin 1987).
[58] Diversa fu ad esempio l’interpretazione di Arturo Valle, cfr. infra Nota 64 per il quale “Il primo Daguerrotipo era nato e con questo la fotografia”.
[59] Enrico Unterveger, A proposito del centenario della fotografia, “Il Corriere Fotografico”, 36 (1939), n. 2, febbraio, p. 46.
[60] Cfr. “Il Corriere Fotografico”, 36 (1939), n.6, giugno, p. 156.
[61] In una comunicazione di Unterveger pubblicata ne “Il Corriere Fotografico”, 36 (1939), n. 7, luglio, p. 181 si ricordava che oltre alla Mostra fotografica e alla Mostra sindacale d’arte “A commemorare il centenario della Fotografia avremo inoltre una mostra retrospettiva che si profila assai bene. Invito quanti sono in possesso di materiale utile, dagherrotipie in special modo, di volersi mettere in comunicazione con me.” Lo studioso fece poi sintesi di questi lavori in Unterveger 1940.
[62] “La nobile fatica del cav. Unterveger è l’unica iniziativa effettuatasi in Italia a celebrazione del primo centenario della fotografia.”, cfr. Red., Mondo fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 36 (1939), n. 11, novembre, p. 259.
[63] Nulla comparve sull’argomento in “Note Fotografiche”, mentre “Il Progresso Fotografico”, 46 (1939), n. 1, gennaio, p. 9 ospitò un breve intervento del direttore Gian Rodolfo Namias, 1939 – Cento anni della fotografia pratica, assolutamente generico e pieno di imprecisioni (anche nella citazione dei nomi), che ribadiva la paternità di Della Porta e poneva curiosamente Talbot tra gli epigoni di Niépce.
[64] Arturo Valle, Cento anni, “La Gazzetta della Fotografia”, 17 (1939), n. 194, febbraio, pp. 11-15. Ancora su questi temi il periodico palermitano riprese nel numero 202 di ottobre (pp. 19-21) sotto il titolo La prima fotografia a Torino, l’articolo omonimo tratto da “Stampa Sera”.
[65] La questione della paternità di G.B Della Porta era già stata avanzata, per ragioni nazionalistico celebrative, nel corso del I° Congresso dei Fotografi Professionisti del 1927: “E qui noi vorremmo che di G.B. Della Porta le nostre pubblicazioni si occupassero per sfatare l’idea che anche qualche anno fa ritornò, specialmente in Francia, ad alzare la testa , l’idea cioè che Egli non fu l’inventore della camera fotografica.”, Autore non identificato, G.B. Della Porta e una lampada votiva, “Rivista Fotografica Italiana”, 12 (1927), n. 9, 25 settembre, p. 143. A queste generiche asserzioni rispose vivacemente Giorgio Balabani, Porta non c’entra!, “Rivista Fotografica Italiana”, 12 (1927), n. 10, 25 ottobre, p. 148-150, innescando un aspro confronto che proseguì nei mesi successivi, testimoniato da alcune pagine del periodico, disponibili all’indirizzo http:// bencinistory. altervista.org/ 000%20SITO%20 ARGENTO%201/xx3%20della%20porta.html [07 04 2017].
[66] La prima fotografia eseguita a Torino, “Stampa Sera”, numero 232, 30 settembre 1939, p. 2. Il testo risulta purtroppo incompleto e senza firma poiché la colonna termina a piè di pagina e non prosegue alle successive.
[67] “F. R. [Felice Romani], Fotografia. Primo dagherrotipo in Torino, “Gazzetta Piemontese”, n.234, 12 ottobre 1839, ora in Miraglia 1990, pp. 15-16.
[68] Lo Duca 1939.
[69] Segnaliamo il ricorrente uso di questo concetto, come già in Schwarz.
[70] Cfr. Amélie Lavin, ed., Paul Valéry, Discours du centenaire de la photographie, “Études photographiques”, 10 (2001), novembre, online : http://etudesphotographiques.revues.org/index265.html [15 04 2013].
[71] R. D. 26 agosto 1927, n. 1917, Approvazione del regolamento per la custodia, conservazione e contabilità del materiale artistico, archeologico, bibliografico e scientifico, artt.1, 8. Si veda anche Laura Corti, Giuseppe Marcon, I beni culturali e la loro catalogazione. Milano: Bruno Mondadori, 2003, pp. 80-82.
[72] Mollino 1949 ma la nota editoriale posta a chiusa del volume è datata “gennaio 1950”. Il dattiloscritto del dicembre 1943 non comprendeva quella Storia breve del gusto nella fotografia che costituì la prima parte del volume, come ricordava Piero Racanicchi, Mollino e la fotografia. In Burkhardt et al. 1989, pp. 69-104 (p. 102 nota 1) in quello che resta il saggio più lucido e puntuale a proposito del Messaggio dalla camera oscura, nel quale il critico riconosceva che “i vuoti e le assenze sono infiniti e di non poco rilievo. Ma voluti” (69) richiamando per certi versi una delle prime recensioni, comparsa su “Cinema”, in cui si riconosceva l’opera come “una storia critica della fotografia corredata da una scelta esemplare di riproduzioni delle opere dei migliori fotografi, dai pionieri ai giorni nostri.”, cfr. “Fotografia”, 3 (1950) n. 3, maggio – giugno 1950, p. 25, ora in Zannier 1993b, p. 101. Recensendo la ristampa del volume [Torino: AdArte, 2006] ne “L’Espresso” 27 ottobre 2006 Giuseppe Berta ha suggerito che più che di una storia in senso proprio si trattasse di un museo ideale.
[73] Internationale Ausstellung des Deutschen Werkbundes, Film und Foto, catalogo della mostra (Stoccarda, 18 maggio-7 luglio 1929), Karl Steinorth, hrsg., Internationale Ausstellung des Deutschen Werkbundes Film und Foto. Stuttgart: Deutscher Werkbund, 1929.
[74] Riscoperta solo un decennio più tardi da Gernsheim, cfr. Helmut Gernsheim, The 150th Anniversary of Photography, “History of Photography”, 1 (1977). n. 1, January, pp. 3-8.
[75] Il solo possibile confronto coevo, sebbene su scala più ridotta, è costituito dal volumetto di Gianni Boni, Fotorealismo e foto surrealismo, “Anticipazioni,” (5). Roma: Bocca, 1944, che offriva al ristretto pubblico della collana diretta da Enrico Prampolini, oltre a quelle dell’autore, anche fotografie di Drtikol, Moholy-Nagy, Weston, Man Ray e altri, ma un significativo antecedente – almeno sul piano critico – può essere individuato nel contributo pubblicato su “Emporium” da Lo Duca nel 1939.
[76] Mollino 1949, p. 24, corsivo dell’autore.
[77] Negro 1942.
[78] Negro 1943; si veda in particolare l’Appendice I primi fotografi (pp. 387-406). Nella testimonianza di Valerio Cianfarani “Seconda Roma inizialmente fu concepito come un grande albo di fotografie in funzione delle quali fosse il testo. (…) Ma l’indagine accuratissima (…) per la mole stessa del materiale raccolto, tramutò inevitabilmente il chiosatore in storico.”, citato in Mormorio 1990, ora in Cavazzi et al. 1991 pp. 77-80. In un imbarazzante, tardo articolo di Carlo Bertelli si poteva invece leggere come “nel 1956, un famoso romanista, Silvio Negro, scrisse un libro affascinante, intitolato Quarta Roma [sic], [in cui] riscoprì una serie di fotografi attivi a Roma dall’inizio del 1900 e incluse nell’opera particolari della loro vita quotidiana, nonché immagini di questi pionieri.”, cfr. Bertelli 1993. Va ricordato che proprio l’attenzione per l’attività dei primi fotografi distingueva il volume di Negro da quello di poco precedente dedicato a Milano da Raffaele Carrieri (1945), nel quale si faceva ricorso alla fotografia quale fonte privilegiata per la documentazione iconografica delle trasformazionu urbane.
[79] Paoli 2004, p. 23.
[80] Anche Miraglia (1981, p. 467) riconobbe che “Negro, tra gli studiosi della fotografia romana è stato il primo a tracciare un giudizio critico puntuale, al di là degli interessi storico-documentativi, su cui in genere si erano appuntati gli interessi dei romanisti.”, ma va almeno ricordato il contributo celebrativo di Muñoz 1939, che fu anche il primo direttore del Museo di Roma (1930).
[81] Le parti relative alla fotografia sono state riedite in Belli 1979. La collezione Negro avviata nel 1937 e con una consistenza di oltre seimila esemplari, è pervenuta all’Archivio Fotografico Comunale di Roma a Palazzo Braschi nel 2003.
[82] Cfr. ora, Maria Francesca Bonetti, La Mostra della fotografia a Roma dal 1840 al 1915: collezionisti, studiosi e conoscitori intorno al 1953, “RSF”, 3 (2017), n. 6, pp. 50-70.
[83] Negro 1956, p. 391. L’esistenza di questi due dagherrotipi non è stata considerata in Bonetti et al. 2003; ci sia quindi consentito almeno di provare a immaginare che avrebbero potuto essere tra le prime, sconosciute prove di Caneva.
[84] Negro 1956, p. 405 che tra gli altri considerava proprio Faruffini, già studiato da Vitali e si direbbe in suo omaggio, la cui produzione veniva lodata in opposizione al “fastidioso manierismo [in cui] cadono invece spesso le fotografie di modelli vivi” (ibidem), ma senza tentarne poi una illustrazione critica e limitandosi a citare la notissima lettera del pittore all’amico Pio Ioris.
[85] Negro 1944, che costituì la principale fonte, non dichiarata, della monografia su Caneva di Becchetti nel 1989, si veda più oltre nel testo. Alla luce dei rapporti di collaborazione e amicizia con Vitali, l’assenza del nome di Caneva tra i primi fotografi attivi a Roma risulta ancora più sorprendente considerando che una sua carta salata da negativo di carta, Alte Brücke [Veduta col Tevere al Ponte Rotto], 1852 ca, appartenente alla collezione di Gabriel Cromer, era stata molto precocemente pubblicata in Recht 1931, t. 35, volume ben noto a Vitali, che ne possedeva una copia, cfr. Paoli 2004. Tra 1943 e 1944 Negro era entrato in possesso della veduta del Tempio di Vesta alla Bocca della Verità , firmato e datato 1847, che aveva pubblicato definendolo “tutt’altro che un capolavoro (…) una mediocre impressione” (p. 158); ricordiamo qui che Caneva aveva realizzato solo pochi anni prima un dipinto di analogo soggetto, oggi conservato al Museo d’arte medievale e moderna di Padova, databile sulla base di una lettera di Caneva a Pier Antonio Meneghelli, del 26 dicembre 1843, e di un articolo dello stesso abate su Il tempio di Vesta di Jacopo Caneva, “Giornale Euganeo”, 30 aprile 1844, citati entrambi in Vanzella 1997, p. 39 ma senza cogliere il nesso col dipinto, e ignoti a Rampin 2001, che ha pubblicato il dipinto senza data.
La veduta fotografica, di impostazione radicalmente differente rispetto al dipinto, venne esposta alla Triennale del 1957 ( Vitali 1957, n. 34) e passò a Valerio Cianfarani (Becchetti 1989 p. 23, n. 24), dopo la morte di Negro il 3 novembre 1959, essendo quella “una collezione fatta a quattro mani” tra i due amici e studiosi, cfr. Pietrangeli 1991; ora le due collezioni sono riunite presso l’Archivio Fotografico del Museo di Roma. A questa importante amicizia collezionistica è stata recentemente intitolata la mostra L’incanto della fotografia. Le collezioni Silvio Negro e Valerio Cianfarani al Museo di Roma; Roma,Palazzo Braschi, 14 ottobre 2015 – 28 febbraio 2016. Un’altra ripresa dello stesso luogo firmata e datata “Roma 1849” è compresa nella collezione del pittore spagnolo Bernardino Montañés, cfr. Becchetti et al. 1997, pp. 138-139.
[86] La denominazione di “Scuola fotografica romana” venne utilizzata da André Jammes nell’introduzione a Normand 1979.
[87] Negro 1953. Come ha ricordato Pietrangeli 1991, p. 18 passim, l’iniziativa, posta sotto il patrocinio del Comune di Roma e dell’Ente Provinciale per il Turismo, venne sostenuta dagli Amici dei Musei di Roma, l’associazione presieduta dal principe Ludovico Chigi Albani fondata nel 1948 “in casa della contessa Anna Laetitia Pecci Blunt”. Il comitato esecutivo comprendeva oltre a Carlo Pietrangeli, che se ne dichiarava l’ideatore, Urbano Barberini, Assia Busiri Vici, il giornalista Giuseppe Ceccarelli (Ceccarius), Valerio Cianfarani, Antonio Maria Colini, Alberto De Angelis, Giovanni Incisa della Rocchetta, Leone Massimo e Silvio Negro. “Possa questa esposizione servire a diffondere la passione che già esiste in Italia per la fotografia moderna ed a una migliore conoscenza delle sue passate conquiste, alle quali, salvo per l’importante ‘Mostra della fotografia a Roma 1840-1915’ tenutasi alcuni anni orsono, è stata prestata finora un’attenzione relativamente scarsa.”, avrebbero scritto i coniugi Gernsheim nel 1957 (Gernsheim 1957). Su quella mostra si veda ora il puntuale saggio di La Mostra della fotografia a Roma dal 1840 al 1915, citato Nota 82.
[88] Becchetti 1985, p. 24, il quale ricordava come quell’evento espositivo avesse sollecitato tra gli altri l’anziano Riccardo Bettini, appena rientrato dall’America Latina, a proporre al Museo di Roma ciò che rimaneva del proprio archivio, che comprendeva anche un importante nucleo di immagini di Henri Le Lieure e di Henry Zinsler.
[89] Pietrangeli 1991, p. 18. Molte delle opere presentate in mostra entrarono poi a far parte dell’Archivio Fotografico del Museo di Roma, cfr. Anita Margiotta, L’Archivio Fotografico del Museo di Roma: criteri conservativi e scelte divulgative. In Perna et al. 2012, pp. 35-42. Si vedano anche le pagine web realizzate in occasione del sessantesimo anniversario della mostra del 1953 all’indirizzo http://passatoprossimo.museodiroma.it/ [14 06 2014].
[90] La sezione Storia della fotografia a Roma, a cura di Silvio Negro e Carlo Pietrangeli, comprendeva alcuni dagherrotipi, varie stampe da negativo su carta di Caneva, Castracani, Borioni e diversi fotografi non identificati, alcuni apparecchi fotografici e obiettivi, diversi ritratti dei fotografi, i cataloghi di Macpherson, di James Anderson, e di Parker, una serie di marchi di fotografi, alcune fotografie stereoscopiche, elenchi di oggetti inviati all’Esposizione Internazionale di Dublino del 1865 e all’Esposizione Universale di Parigi del 1867, guide varie e guide commerciali con elenchi dei fotografi, campionari di fotografie con scelta di quadri e sculture dei Musei Capitolini, alcuni album rilegati. Tra le altre vennero presentate anche alcune decine di fotografie di Giusepe Primoli, comprese nella sezione “Usi e costumi” curata da Ceccarius, nelle categorie “Scene militari”, “La vita della famiglia”, “La vita della strada”, “Roma sparita”.
Di impostazione sostanzialmente analoga, nonostante il trascorrere del tempo fu anche la mostra Roma cento anni fa nelle fotografie del tempo, che si tenne sempre a Palazzo Braschi dal 17 dicembre 1970 al 17 marzo 1971, cfr. Becchetti et al. 1971, che riprendeva nel titolo una locuzione già utilizzata da Muñoz 1939, poi ulteriormente ripresa da Brizzi 1975.
[91] Già Diego Mormorio, nell’intervento al convegno La fotografia a Roma nel secolo XIX in cui ricostruiva affettuosamente le vicende che portarono alla compilazione dell’Album romano, aveva riconosciuto che “Silvio Negro non era uno storico delle immagini fotografiche, ma uno scrittore che, a partire dal suo interesse per Roma, fra le altre cose si è occupato di storia della fotografia.” (In Cavazzi et al. 1991, pp. 77-80, edito in versione ridotta in Mormorio 1990). Un più recente contributo alla sua figura è costituito da Margiotta 2004.
[92] A. N., Nostalgia della vecchia Roma ad una mostra di fotografie, “La Stampa”, n. 186, 6 agosto 1953, p. 3.
[93] Negro 1956, richiamato esplicitamente da Vitali in apertura del catalogo del 1957. Con innovativa scelta metodologica, lontana dalle incertezze delle pubblicazioni precedenti, l’Indice delle tavole relativo alle 250 fotografie pubblicate, era costituito da vere e proprie schede sintetiche, redatte dallo stesso autore, da Giovanni Incisa della Rocchetta e da Carlo Pietrangeli, con una sequenza descrittiva costituita da titolo, data, indicazione di responsabilità, tecnica e misure, collezione di provenienza e note di contenuto anche specificamente fotografiche, come quella intestata alle vedute di Stefano Lecchi, rispetto alle quali si notava come, pur essendo definite quali dagherrotipi dalla fonte a stampa, si dovesse trattare di esemplari originali non noti di stampe da negativi di carta. (Nota poi espunta nella scheda pubblicata in Negro 1964). Quelle carte salate vennero in anni recenti ritrovate e pubblicate in Critelli 2001. I debiti di riconoscenza e di affetto nei confronti di Vitali, Mario Pannunzio e Marino Parenti, esplicitamente citati, emergevano anche nell’appendice che conteneva Qualche dato biografico sui fotografi romani e che si apriva in modo altrimenti inspiegabile con una nota dedicata a Luigi Sacchi (cfr. infra Nota 1092); Numerose immagini romane di Sacchi sono state successivamente pubblicate e studiate in Miraglia 1996a, tavv. 21 e segg. Interessanti notazioni sulla genesi di Album romano, e in particolare sul ruolo svolto da Marino Parenti anche nella sua realizzazione editoriale sono state fornite da Canavesio 1998.
[94] Negro 1956, p. 14. Lo studio analitico della figura e dell’opera di Caneva si devono invece a Becchetti 1989a, cfr. infra nel testo.
[95] Negro 1956, pp. 24-25, che in quello stesso anno dedicava uno specifico contributo ai due fratelli fotografi (Negro 1956b), poi riedito con un diverso titolo (I Primoli, fotografi di Roma) in Id., Roma, non basta una vita. Venezia: Neri Pozza, 1962, pp. 316-320, che conteneva un corredo di tavole fotografiche fuori testo che, forse per scelta editoriale, erano prive di tutte quegli elementi identificativi che avevano rese così innovative le schede di Album romano. Non sappiamo se e in quale misura la mostra del 1953 e il successivo Album costituirono una suggestione e un modello, ma ricordiamo che nello stesso 1956 si tenne la mostra Sessant’anni di vita perugina nelle vecchie fotografie: 1855- 1915 (Perugia 1956), con una scansione cronologica certo simbolica sebbene non esatta se la più antica fotografia esposta, quella della facciata del Palazzo dei Priori di James Anderson, riportava al verso il “publicetur” in data 29 ottobre 1856.
[96] Iato 2004, p. 42.
[97] L’accentuazione degli aspetti descrittivi a discapito dell’interesse specifico per le fotografie è ciò che caratterizzava anche le recensioni sulla stampa periodica, cfr. a titolo di esempio, Paolo Monelli, Curiose immagini degli anni perduti: Roma ottocentesca in fotografia, “La Stampa”, n. 54, 3 marzo 1957, p. 3.
[98] Red., Preziosa documentazione fotografica: “Album Romano”, “Il Corriere Fotografico”, 54 (1957), n. 49, marzo, pp. 18-26. Anche Gilardi 1976, p. 278 riconobbe a Negro di “aver allestito nel 1953, in Palazzo Braschi, la prima eccellente mostra storica italiana dell’immagine ottica, poi raccolta nel primo e non meno apprezzabile fotolibro, Album romano apparso nel 1956, per il quale scriveva una succosa e intelligente prefazione.”
[99] Luigi Crocenzi, Iniziative culturali per la fotografia: il Centro per la cultura nella fotografia, “Ferrania”, 9 (1955), n. 11, novembre, p. 31. Pur non potendoci soffermare ulteriormente va almeno evidenziata la formulazione adottata nella denominazione del Centro, che intendeva favorire la cultura nella fotografia; una sottolineatura che molto dice del livello delle pratiche fotografiche di quegli anni, specie in ambito amatoriale.
[100] Luigi Crocenzi, Centro per la cultura nella fotografia, “Ferrania”, 10 (1956), n. 4, aprile, p. 10. Tra gli obiettivi principali del Centro vi era quello di procedere a un “lavoro di revisione storica e di critica verso il fotoreportage, il fotolibro e la fotonarrazione popolare”. Il passaggio dalla ‘conoscenza’ delle tecniche (e magari delle immagini) a quella “delle idee e delle poetiche” segnava il mutamento di paradigma storico critico.
[101] Si veda Paoli 2004. Quanto alla curatrice, va ricordato come sia stata allieva di Paolo Costantini, il quale a sua volta scrisse nel 1996 un breve saggio – qui riproposto – su Vitali per il convegno di Monaco La storia delle storie. Sulla storiografia fotografica, ma che già prima – nel 1989 non a caso – aveva curato con Italo Zannier l’undicesimo numero di “Fotologia” In onore di Lamberto Vitali.
[102] Gernsheim 1957; l’allestimento fu di Mario Tedeschi, all’epoca redattore di “Domus”, mentre la realizzazione del catalogo, impaginato da Antonio Boggeri e René Martinelli, venne curata da Vitali. A conferma del costante interesse di Mollino per la storia della fotografia ricordiamo che nel suo archivio è conservato il catalogo della mostra per la XI Triennale, della cui Giunta esecutiva faceva parte. La grande mostra, costituita da più di 600 pezzi tra testi, strumenti e immagini, venne immediatamente segnalata sulle principali testate fotografiche italiane, cfr. Giulia Veronesi, Un secolo di fotografia alla Triennale, “Ferrania”, 11 (1957), n.11, novembre, pp. 14-15; Red., La prima fotografia del mondo alla XI Triennale di Milano, “Popular Photography Italiana”, 1 (1957), n.2, agosto, p. 56. Ricordiamo che già nel 1953, che fu l’anno della grande mostra romana, si era tenuta a Milano una “Prima Mostra storica della fotografia”; iniziativa quasi dimenticata e di cui pare non esista traccia bibliografica, promossa dal pittore Mario Ballocco, nell’ambito della “2ª mostra delle arti e dell’estetica industriale” da lui curata, che vide la collaborazione di Pietro Donzelli e dell’Unione Fotografica.
[103] La sola opera paragonabile per notorietà e diffusione al volume di Newhall è stata The History of Photography: From the Earliest Use of the Camera Obscura in the Eleveth Century up to 1914 (Gernsheim 1955), riedita nel 1969 col titolo di The History of Photography from the Camera Obscura to the Beginning of the Modern Era; per l’edizione italiana si rimanda alle pp. 115-116.
[104] Già nel 1950 Maria Adriana Prolo, La George Eastman House, “Cinema”, n. 36 (1950), 15 aprile, p. 212, si era riferita “alla Mole Antonelliana di Torino, dove potrebbe sorgere senza troppe difficoltà un ‘Museo nazionale del Cinema’ con una sezione fotografica.”, cfr. Donata Pesenti Campagnoni, Maria Adriana Prolo. Torino: Museo nazionale del cinema Fondazione Maria Adriana Prolo, 2002, in particolare alle pp. 41-43. La Prolo, costituì nel 1953, anche grazie al sostegno di Henri Langlois, l’Associazione culturale Museo del cinema che si proponeva di “raccogliere, conservare ed esporre al pubblico tutto il materiale che si riferisce alla documentazione e alla storia delle attività artistiche, culturali, tecniche e industriali della cinematografia e della fotografia”, divenendo di fatto la prima vera pioniera della storia della fotografia in Piemonte, contribuendo sia al suo studio sia, e ancor più, alla salvaguardia di una enorme quantità di materiali (apparecchi, fototipi, testi) confluiti nelle raccolte del Museo di cui fu fondatrice e di direttrice.
[105] Gernsheim 1957, corsivo di chi scrive. Fin troppo semplice segnalare la ricorrenza più che ventennale del termine. Pare possibile ipotizzare che questo rilevante nesso critico potesse essere stato suggerito dalla recente pubblicazione del libro di Paul Strand, Cesare Zavattini, Un paese. Torino: Einaudi, 1955 o forse, in termini più estesi, dal successo internazionale di una mostra fortemente ideologizzata come The Family of Man, curata da Edward Steichen, a Roma nel 1956, ma a Milano (con Vitali tra i promotori, avendo avuto modo di vederla a Zurigo l’anno prima) e Torino solo nel 1959, che specialmente in area statunitense aveva sollevato forti critiche. Anche per quanto riguarda Un paese la critica italiana fu tutt’altro che favorevole, cfr. Giuseppe Turroni, Interpretazione fotografica di un testo, “Fotografia”, 9 (1956), n. 3, marzo, pp. 18-19.
[106] Roma 1953; Negro 1953.
[107] Nel 1954 Helmut e Alison Gernsheim avevano curato per il British Council of Rome una mostra dedicata a Macpherson, avendo l’iniziativa degli Amici dei Musei di Roma dell’anno precedente come elemento di confronto, cfr. Gernsheim 1954.
[108] Per Ongania si rimanda a Mazzariol 2011, e alla bibliografia ivi citata. Come mi ha segnalato Giovanni Fanelli, che ancora una volta ringrazio, la veduta da calotipo del Bargello a Firenze prima dei restauri, compresa nelle quattordici riproduzioni in catalogo riservate alla sezione italiana, attribuita ai “Fratelli Alinari o Brogi” è in realtà di John Brampton Philpot.
[109] La definizione è di Gernsheim 1979, corsivo di chi scrive, a sottolinearne la novità e il valore: un vero e proprio segno dei tempi. Per la ricostruzione delle vicende legate alla realizzazione della mostra cfr. Paoli 2004d, pp. 24-29.
[110] Vitali 1957, p. 47. Questa attenzione pareva contraddetta o almeno sminuita da comportamenti che oggi appaiono incredibili, quali – nelle urgenze della preparazione – l’invio a Vitali per posta (in rotolo e in plico) da parte di Marino Parenti (con Negro e lo stesso Vitali tra i principali prestatori) delle stampe di Luigi Sacchi, cfr. Canavesio 1998. Ricordiamo che, per quanto rare, altre ricognizioni erano allora disponibili oltre a quelle romane di Negro: mi riferisco alle ricostruzioni relative al Trentino di Unterveger 1940 e alla più recente indagine sulle origini della fotografia a Milano (Dell’Oro 1955).
[111] Vitali 1957, p. 48. Il regesto, organizzato cronologicamente, forniva indicazioni in merito ad autore, titolo, data e collezione di provenienza ma i dati relativi alle caratteristiche materiali e tecniche delle opere esposte non andavano oltre la macrodistinzione tecnologica tra dagherrotipi e fotografie, aggiungendo – ove noto – “da negativa su carta”. Sui rapporti Gernsheim Vitali cfr. Paoli 2004, in particolare alle pp. 24-29.
[112] Vitali 1968.
[113] Vitali 1959.
[114] Pollack 1959. Molto critica fu la recensione di Pietro Donzelli nella rubrica “Nuovi libri”, “Popular Photography Italiana”, 4 (1960), n.4, aprile, pp. 60-61, così come il commento, tardivo ma per altri versi interessante, di Giuseppe Turroni, Per una storia della fotografia, “Fotografia”, 14 (1961), n.9, settembre, p. 23. Ancora più drastico Renzo Chini (1968, p. 74) a proposito della sezione curata da Vitali, poiché considerando che “la nostra fotografia non ha storia e non fa storia”, quel capitolo “si giustifica soltanto per ragioni di campanile.” Ancora nel 1979, in occasione della pubblicazione di una nuova edizione ridotta (New York: Harry N. Abrams, 1977) Lafranco Colombo, “Il Diaframma Fotografia Italiana”, (1979), n. 247, marzo, p. 17, dichiarava che “la qualità di storico di Peter Pollack non ci ha mai convinto.” Buon ultimo anche Carlo Bertelli avrebbe molti anni dopo ricordato quella collaborazione, ma citando il titolo del volume di Pollack in forma assolutamente fantasiosa (History of Photography from Antiquity to Today [sic]) e fornendo un’errata data di edizione (1961), cfr. Bertelli 1993.
[115] Adhémar e Jammes ricordavano icasticamente che Newhall e Gernsheim “ont renouvelé la question, ce que n’a pas fait Peter Pollack dans sa Picture history of photography “, Jean Adhémar, André Jammes, État des questions sur l’histoire de la photographie, “Bulletin des bibliothèques de France”, 1962, n. 7, p. 345-350 (345), online http://bbf.enssib.fr/ [ 30 3 2017]. Il volume di Pollack, fu un buon successo editoriale nonostante il prezzo di vendita molto elevato (L. 14.000, corrispondenti a circa 190 € del 2017), cfr. Giuseppe Tedeschi, Il libro fotografico. In Astaldi 1967, pp. 152-157.
[116] A titolo di esempio ricordiamo che tra i fotografi attivi a Firenze considerava ancora anche Luigi Bardi, compreso tra gli autori della collezione Gernsheim.
[117] Per le vicende attributive di questa notissima immagine, per lunghissimo tempo assegnata ad Agricola e “trasformata in una sorta di pietra miliare della fotografia friulana”, si rimanda a R.C. [Roberto Cassanelli], Luigi Sacchi (1805/1861), Veduta animata dell’atrio della basilica di Sant’Ambrogio a Milano, 1849/1851. In Paoli 2010, pp. 218-219.
[118] Vitali 1959, p. 272. La considerazione degli “irregolari” era prossima a quella espressa pochi anni prima da Jean Adhémar, che aveva utilizzato molte fotografie anonime per l’esposizione da lui curata per la Bibliothéque Nationale di Parigi, nella convinzione che “les amateurs, en effet, on joué un rôle dans l’histoire de la photographie; (…) En réalité, ces amateurs, pour qui techniciens et professionnels ont beaucoup travaillé, peuvent être, malgré leur naïveté et peut-être à cause d’elle, à l’origine de certaines formes nouvelles. ’, Adhémar et al. 1955, p. 9.
[119] Nello stesso 1959 avrebbe avuto occasione di definire il fotografo come “un uomo che veda ciò che gli altri non vedono (…) che sappia, per ripetere la frase di Cartier-Bresson, cogliere il momento decisivo, il preciso istante e non un altro (…) che sappia essere un fotografo e non uno pseudo pittore”, mostrando così, oltre l’aggiornato riferimento bressoniano (Images à la sauvette era del 1952) di riconfermare le posizioni e i giudizi espressi già nel 1936. Cfr. L. Vitali, Un punto di vista a proposito di fotografia. In Rassegna della fotografia italiana, catalogo della mostra, Biblioteca Civica di Sesto san Giovanni, ottobre 1959, ora in “Fotologia”, vol. 11, settembre 1989, p. 12. Anche Paoli 2004d, p. 21 ha riconosciuto come “Vitali, nonostante i suoi profondi interessi storici, non si dedicò in particolare alla ricerca filologica. (…) Il suo punto di vista è prevalentemente quello del collezionista”, in ciò distinguendosi dal giudizio espresso da Paolo Costantini, che aveva invece parlato di “moderno approccio storico alla fotografia” (Costantini 1997, ora in Id. 2004), opinione difficile da condividere, anche volendo intendere quel “moderno” come un qualificativo culturale piuttosto che cronologico, quasi fosse – per essere espliciti – “modernista”.
[120] In realtà si trattava di Bringing Home the May, di Henry Peach Robinson, allora nella collezione milanese di Elena Bozzi, poi acquistato da Vitali, già esposto nella sezione italiana della mostra alla Triennale con la stessa attribuzione sebbene nella stessa occasione comparissero ai nn. 443-445 della collezione Gernsheim ben tre opere significative dello stesso Robinson, che nell’opinione del curatore costituivano “un tipico esempio della cosiddetta fotografia d’arte dell’Ottocento [la cui] influenza è ancora sensibile in tutte le esposizioni fotografiche del mondo”, mentre Vitali giudicava negativamente la presunta fotografia di Silo perché “pretendeva di competere con la pittura e per giunta con la peggiore pittura sentimentaleggiante dei soggetti di genere.” Al di là delle questioni attribuzionistiche quell’esemplare testimoniava l’ampia circolazione internazionale delle opere di Robinson.
[121] “Dans l’article ‘De l’art au kitsch’, paru en 1930 dans l’ouvrage Aus der Frühzeit der Photographie, 1840- 1870, Helmut Bossert opposait le réalisme caractéristique des daguerréotypes ou des épreuves de Nadar et Le Gray à la décadence des productions postérieures, gâtées par la retouche.”, Anne McCauley, En- dehors de l’art, citato, cfr. supra Nota 44.
[122] Il brevissimo testo, originariamente compreso in Giovanni Semerano, a cura di, Omaggio a Marino Parenti. Scritti vari dedicati a Marino Parenti per il suo sessantesimo anniversario. Firenze: Sansoni antiquariato, 1960, pp. 251-257, venne quindi edito autonomamente al n. 57 della “Biblioteca degli eruditi e dei bibliofili”, sempre per Sansoni antiquariato, diretta da Parenti stesso, poi ripubblicato nella sezione “Dibattito”, n. 13, “Foto Magazin”, 9 (1964), n. 11, novembre, a ulteriore testimonianza dell’attenzione per temi di storia della fotografia prestata da questo importante inserto curato da Antonio Arcari, Tranquillo Casiraghi e Cesare Colombo (cfr. Patriza Regorda, La Concerned Photography in Italia: fotografia e impegno civile. “Quaderni di Villa Ghirlanda” 8. Cinisello Balsamo: Museo Fotografia Contemporanea – Silvana Editoriale, 2010, pp. 57-63). L’interesse di quelle note non risiedeva tanto nella novità del tema dei rapporti tra pittura e fotografia, affrontato pochi anni prima nella mostra della Bibliothèque nationale di Parigi (Adhémar et al. 1955) e non sconosciuto neppure in Italia per merito dello stesso Vitali e poi di Carlo Mollino (1949), che aveva offerto puntuali confronti relativi all’opera di Toulouse Lautrec e di Degas, considerato anche da Vitali, ma per la precisa testimonianza documentaria offerta a proposito dell’elaborazione su base fotografica de l’Omino nel bosco di Telemaco Signorini; del resto Vitali aveva già pubblicato fotografie di De Gori nel volume da lui curato, Lettere dei macchiaioli. Torino: Einaudi, 1953 e molti anni prima aveva acquistato le carte di Adriano Cecioni e l’album di Signorini all’asta tenuta a Firenze il 20 maggio 1938 dalla libreria antiquaria di Luigi Gonnelli, cfr. Matteucci 1997, in cui sono state riproposte anche alcune delle immagini pubblicate per la prima volta nel 1960, e Irene Calloud, Sulla digitalizzazione dell’archivio di Adriano Cecioni nel fondo Lamberto Vitali, “Studi di Memofonte”, n.4, 2010 (http://www.memofonte.it/home/files/pdf/IV_2010_CALLOUD.pdf) [04 09 2018]. Si vedano anche Documenti dei Macchiaioli dal Fondo Vitali: carte edite e inedite, catalogo della mostra (Firenze, Biblioteca Marucelliana, 10 dicembre 2008 – 15 febbraio 2009), a cura di, Monica Maria Angeli, Silvio Balloni. Firenze, s.n., 2008 e – sul tema specifico – il catalogo della più recente mostra fiorentina (Maffioli et al. 2008).
Sulla figura di Parenti si vedano i diversi contributi e la bibliografia contenuti in Angelo D’Orsi, a cura di, Un uomo di lettere. Marino Parenti e il suo epistolario. Torino: Provincia di Torino, 2001.
[123] Eugène Delacroix, Diario, a cura di Lamberto Vitali. Torino: Einaudi, 1954.
[124] Solo nel successivo testo su Primoli Vitali avrebbe fornito una prima, ricercatissima bibliografia relativa al tema dei rapporti tra “pittori e fotografia” (e la puntualizzazione era densa di senso), a partire da H. Schwartz , Art and Photography e B. Newhall, The Daguerreotype and the Painter, entrambi del 1949, sino al testo di una conferenza di Kenneth Clark del 1953, poi pubblicata in “Aperture”, esplicitamente dedicata a The Relations of Photography and Painting, cfr. Vitali 1968, p. 30, nota 2.
[125] Costantini 1997.
[126] “Un rassemblement d’œuvres très variées, d’époque très diverses qui fait apparaître les liens, les rapprochements et les oppositions entre la photographie et la peinture”, Adhémar et al. 1955. Il catalogo elencava 226 titoli tra documenti, volumi, fotografie (tra gli altri di Aguado, Atget, Cameron, Cartier-Bresson, Delmaet et Durandelle, Demachy, Disderi, Le Gray, Man Ray, Weston, Puyo, Steichen, Stieglitz) accanto a dipinti di Bonvin, Carrière, Courbet, Daumier, Degas, presente anche come fotografo, Guys, Manet, Monet, Renoir, Seurat, Signac, Redon, Toulouse-Lautrec, Vallou de Villeneuve, Villon (da Duchamp). Si veda ora Dominique de Font-Réaulx, Les audaces d’une position française: L’exposition ‘Un siècle de vision nouvelle’ à la Bibliothèque Nationale (1955), “Études photographiques”, 25 (2010) mai, pp. 70-105.
[127] Cfr. Anselm Wagner, Integrating Photography into History of Art. Remarks on the life and scientific estate of Heinrich Schwarz, “Photoresearcher” n. 11, aprile 2008, pp. 14-26 (25 nota 37).
[128] Heinrich Schwarz, L’arte e la fotografia, “Fotografia”, 1955, n. 4, p. 20, da mettere in relazione con Id., Art and Photography: Forerunners and Influences, “Magazine of Art”, 42 (1949), n. 11, novembre, pp. 252-257 , ora disponibile in italiano (Schwarz 1992, pp. 34-43) nella traduzione di Paolo Costantini, che non citava l’edizione italiana.
[129] Ragghianti 1958. Sebbene di necessità ridotto, l’apparato iconografico era ricco di suggestivi accostamenti (Marey, Duchamp, Balla) così come di clamorose assenze: quelle fotodinamiche che proprio Ragghianti (1959) avrebbe riscoperto di lì a poco, cfr. infra Note 130, 131. Anche Racanicchi avrebbe poi scritto un breve saggio sulle fotodinamiche (Racanicchi 1963), certo in anticipo sui tempi, essendo la riedizione del volume di Bragaglia di quasi un decennio più tarda (Bragaglia 1970).
[130] Edoardo Balbo Bertone di Sambuy, La fotodinamica futurista di Anton Giulio e di Arturo Bragalia, “La Fotografia Artistica”, 10 (1913), n. 5, maggio, pp. 71-75. Le sperimentazioni dei Bragaglia dovevano essere piuttosto note tra i redattori del periodico torinese, come confermava un articolo dell’anno precedente in cui si faceva riferimento ai “curiosi lavori di questi ultimi tempi [dei quali] parleremo altra volta riproducendo le opere bizzarrissime e non per ciò meno profondamente artistiche”, Giovanni di Iorio, L’arte fotografica dei fratelli Bragaglia, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n. 7, luglio, p. 109.
[131] Ragghianti 1959, che si connetteva sin dal titolo (pur invertendone i termini) a Ragghianti 1958, e ricordava “come queste esperienze dei Bragaglia siano scomparse dalla memoria degli studiosi d’arte non solo, ma di fotografia, ed evidentemente senza giustificazione, data la rilevanza estetica del fenomeno.” (6) Si veda anche Bulgarelli 2010.
[132] Bragaglia 1970, così recensito da Pier Paolo Preti (“Popular Photography Italiana, 1970, n. 157, dicembre, p. 19): “Questo volume non può essere recensito. Va letto e basta. Va studiato. Qualunque cosa se ne dica, se non ne è la riproduzione letterale, gli fa torto. (…) Il volume, integrato da immagini poco viste o addirittura inedite, identifica il ponte estetico-culturale tra la immagine ottica primitiva e quella moderna, sottolineando, se ve ne fosse bisogno, l’importanza del Futurismo nel divenire artistico di oggi.” Di segno opposto era stata l’opinione in merito al ruolo dei Bragaglia espressa da Ando Gilardi sulle pagine dello stesso periodico: “Ogni tanto tornano di moda gli studi sul futurismo, i documenti sul futurismo, i manifesti futuristi. Accade proprio in questi giorni: e nuovamente si presentano come straordinarie, quasi al di fuori del tempo e della storia, le fotografie di Bragaglia sulla ‘analisi del movimento’. Si tratta in realtà di fotografie stroboscopiche mal riuscite per mancanza dell’arnese adatto.” Giudizio provocatorio, com’era suo costume, che forse nasceva da una mancata conoscenza delle fonti e quindi delle intenzioni e della poetica dei Bragaglia ma soprattutto risultava funzionale alla redazione di un testo che sotto l’apparenza del contributo ‘storico’ serviva a pubblicizzare uno “Stroboscopio da Atelier”, prodotto dalla Photo Electronics di Verona, il cui “costo non supera le 400 mila lire” e “alla cui progettazione il Laboratorio Sperimentale di Popular Photography Italiana ha partecipato.”, A. Gilardi, La più fantastica delle fantasmagorie: Vita,miracoli e avvenire della fotografia stroboscopica,“Popular Photography Italiana”, 13 (1969) n.139, aprile, pp. 37-40.
[133] Enrie 1960. Era stato lo stesso Enrie a firmare la presentazione del piccolo catalogo della Mostra sperimentale di fotografia futurista: dal 15 marzo al 6 aprile 1931 in Torino. Torino: Fedetto, 1931.
[134] Italo Zannier, ad vocem, “Dizionario Biografico degli Italiani” , vol. 42, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1993, ora disponibile online all’indirizzo http://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-enrie_(Dizionario_Biografico)/ [10 01 2013].
[135] Cfr. Costantini et al. 1987.
[136] “Cielo radioso del dagherrotipo/ ed inizio del suo tramonto/ dinanzi al sorgente astro del negativo/ William Henry Fox Talbot e la ‘calotipia’,” recitava l’esergo al capitolo quinto, p. 49.
[137] La serie venne citata per la prima volta da Gilardi 1976, p. 31 e più recentemente commentata da Maurizio Rebuzzini. In http://www.fotographiaonline.it/blogmr/?p=2530 [28 07 2012]. Altri richiami alla storia della fotografia e in particolare al fotogiornalismo nella serie Liebig Il pericolo è il mio mestiere, 1970, in cui il n. 4 era dedicato a Robert Capa.
[138] Si vedano Anton Giulio Bragaglia, L’Arte nella fotografia (1912), “Museo Nazionale del Cinema – Notiziario”, n. 3-4 (1967), gennaio, pp. 9-12; Pietro Masoero, Decalogo del dilettante fotografo (1901), ivi, n. 13 (1970) gennaio-aprile, pp. 5-8; [Documenti] Per una futura storia della fotografia in Italia, ivi, n. 19 (1972), gennaio-aprile, pp. 5-12, tra i quali: Ottavio Baratti, Della necessità di una società fotografica in Italia (1866), p. 5; Antonio Montagna, Le associazioni, pp. 8-10; Ai Cultori dell’Arte Fotografica in Italia (1870) pp. 11-12; G.V. Sella, Introduzione al Plico del fotografo (1856), ivi, nn. 37-39 (1980) , gennaio-dicembre, pp. 11-32. Nel 1970 il Museo nazionale del cinema di Torino aveva prodotto la mostra Documenti sulla dagherrotipia per la Sezione culturale del SICOF.
[139] Gernsheim 1966. Da una lettera inviata a Vitali si ricava che i coniugi Gernsheim, che avevano da poco venduto la loro collezione all’Università di Austin, in Texas, avevano trascorso “several more busy months right through the summer [1964] writing a Concise History of Photography for Thames & Hudson’s World of Art series. It is to appear in six languages later this year.” Lettera di Helmut Gernsheim a Vitali datata Londra 16 gennaio 1965, AST. Archivio Einaudi, “Corrispondenza”, m. 220, fasc. 3094/2, c. 294.
[140] Intervista rilasciata ad Angelo Schwarz nel 1977 e pubblicata ne “il Diaframma – Fotografia Italiana”, ora in Schwarz 1983, pp. 64-68 (68), della quale merita citare altri passi: “Schwarz: Durante le giornate di Arles del 1977 è stato ribadito che un collezionista è anche uno storico, è d’accordo con questa affermazione? Gernsheim: Sono d’accordo perché io, in un certo senso, ho creato la storia della fotografia del secolo xix, trovando tanti fotografi sconosciuti prima. Uno storico che non sia stato lui stesso un collezionista non ha avuto qualcosa di essenziale. Io penso che Berenson sia stato un buono storico della pittura, perché era anche un collezionista. Io sono stato chiamato il Berenson della fotografia: collezionando e allo stesso tempo scrivendo libri, acquisendo una conoscenza storica. S: In qualità di storico a quale metodologia di lavoro ha fatto riferimento, sia per il suo mestiere di storico, sia per organizzare la sua collezione? G: Quando si scopre un campo nuovo e, fino al momento delle mie ricerche, sconosciuto, non occorre un ‘metodo’ inesistente, ma duro lavoro, pazienza, intelligenza, occhio, gusto… e qualche soldo ! Ho cercato dappertutto, ho raccolto delle fotografie, ho fatto delle ricerche su ciò che avevo trovato e raccolto, in seguito ho scritto dei libri e ho curato delle esposizioni attraverso le quali ho aperto gli occhi al pubblico, e agli addetti ai lavori dei musei.”
Per più ampie considerazioni sulla sua figura si vedano i diversi contributi raccolti in Anna Auer, Alistair Crawford, eds., Helmut Gernsheim reconsidered. The proceedings of the Mannheim symposium, ESHPh; Forum Internationale Photographie (FIP), Reiss-Engelhorn Museum, Mannheim, 12 ottobre 2003. Passau: Dietmar Klinger, 2004.
[141] Gilardi 1978, p. 162.
[142] Forse in omaggio alla nazione che aveva recentemente accolto la sua collezione Gernsheim apriva piuttosto curiosamente i paragrafi della sezione incentrata sul dagherrotipo con gli Stati Uniti, seguiti dalla Gran Bretagna e, infine, dalla Francia e dai paesi di lingua tedesca.
[143] Si veda la riproduzione a piena pagina (78) del “Dagherrotipo di una signora milanese, 1845 circa”, in collezione Gernsheim, forse proveniente da Vitali.
[144] Gernsheim 1966, p. 72.
[145] L’interesse per questo autore era già stato espresso in Gernsheim 1954.
[146] Che i criteri collezionistici si tramutassero e trasmigrassero senza soluzione di continuità in quelli storico critici, e poi storiografici, venne confermato anche a proposito “delle poche restanti vedute romane” di James Anderson, rispetto alle quali non aveva timore di affermare che “le più belle ed originali sono senza dubbio [quelle] che suo nipote presentò alla Collezione Gernsheim”, Gernsheim 1986, p. 22.
[147] Chini 1968; alcune di quelle riflessioni vennero poi riprese in una serie di interventi pubblicati su “AFT”: Chini 1986a; Chini 1986c; Chini 1987b.
[148] Astaldi 1967. Nello spirito programmatico che caratterizzava il periodico, quel numero faceva seguito a quelli dedicati al cinema in Italia, alle riforme istituzionali dopo due decenni di esperienza repubblicana e ai problemi posti dall’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966 (Dopo il diluvio).
[149] Renzo Chini, Considerazioni sulla tecnica fotografica. In Astaldi 1967, pp. 116-126; Ando Gilardi, La fotografia a scopi scientifici, ivi, pp. 131-143; Piero Berengo Gardin, Esperienze (e riflessioni) di un fotoamatore, ivi, pp. 164-167.
[150] Helmut Gernsheim, La fotografia come mezzo di espressione artistica, ivi, pp. 9-17; Jean Keim, Fotografia e arte, ivi, pp. 33-40; l’autore stava lavorando in quegli anni alla sua Histoire de la photographie. Paris: Presses Universitaires de France, 1970, poi pubblicata da Einaudi (Keim 1976; Settimelli 1976b).
[151] Emilio Servadio, Psicologia e psicopatologia del fotografare. In Astaldi 1967, pp. 63-67. Utile e dilettevole è il confronto tra i comportamenti analizzati da Servadio e quelli descritti da Italo Calvino, La follia nel mirino, “Il Contemporaneo”, 2 (1955) n.18, 30 aprile, p. 12, (poi rielaborato narrativamente ne L’avventura di un fotografo. In Id., Gli amori difficili. Torino: Einaudi, 1958, pp. 34-35) che aveva scatenato le ire del mondo fotoamatoriale, cfr. Franco Cocchi, Incontri fra fotografia e vita: il fotografo dilettante a caccia delle immagini senza presunzione, “Ferrania”, 9, (1955), n. 12, dicembre, p. 11.
[152] Bollati 1979, p. 10, che pur non citando Servadio considerava quello di Freud “uno di quei testi [che] ci sembra sia stato particolarmente trascurato dagli studiosi della fotografia, mentre è probabilmente da considerare fondamentale.”
[153] Settimelli 1969. In quell’anno cruciale il giudizio doveva sottendere anche un contrasto ideologico e politico tra il ‘comunista’ Settimelli, redattore de “L’Unità”, e il cattolico Schwarz, che negli anni immediatamente successivi avrebbe collaborato, anche con propri reportage, a “L’Osservatore Romano”, “L’Osservatore della Domenica”, “Famiglia Cristiana”, e “Dimensioni Nuove”.
Almeno quale testimonianza di costume e, purtroppo, dell’infimo livello riservato da certa pubblicistica fotografica ai propri lettori, vanno ricordate le due scarne paginette, non firmate (Massimo Casolaro o Giuseppe Turroni) di ‘storia’ de La fotografia in Italia. In Casolaro 1969, nelle quali – memori di tempi che si credevano ormai dimenticati – si affermava che “la fotografia si può dire che sia nata nel nostro paese, però non ha avuto da noi quegli sviluppi che ha invece avuto in altri paesi. Leonardo da Vinci fu il primo”.
[154] A.S. [Angelo Schwarz], “I padri della fotografia”, di Wladimiro Settimelli, “Il Diaframma – Fotografia italiana”, n. 249, aprile –maggio 1980, s.n., a cui riconosceva comunque “il pregio di valersi di una ipotesi pedagogica, la quale può essere più o meno aggiornata, ma non certo priva di fascino, foriera di altre attenzioni e comunque mediatrice di significati invece che di noia.” Molti anni dopo Fernando Tempesti avrebbe definito amichevolmente Settimelli “inventore di un certo tipo di storiografia fotografica o di immagine della storia della fotografia un po’ Far West, un po’ pauperistica, ma molto interessante e molto ispirata”, richiamando senza apparente ironia il concetto gramsciano di nazionalpopolare, cfr. Fernado Tempesti, L’Archivio Fotografico Toscano e la rivista “AFT”. In Lusini 1996a, pp. 176-178. Lo stesso Settimelli aveva del resto affermato: “Ho metodo di lavoro, anche per quel che riguarda la storia della fotografia, che risale al periodo nel quale, come giovane cronista di un quotidiano, vagavo da un capo all’altro della città parlando con decine di persone (…) per poi fare la somma di quanto avevo trovato e scrivere, quindi, il ‘pezzo’.”, Wladimiro Settimelli, Immagini di ieri, “Popular Photography Italiana”, 12 (1968), n. 133, ottobre, p. 13, narrando un gustoso aneddoto a proposito della ricerca degli eredi di Giorgio Sommer.
[155] Keim 1976. Jean A. Keim (1904-1972) storico dell’arte e docente all’lnstitut d’Art et d’Archéologie de l’Université de Paris e all’École nationale de Photographie. Dopo l’Historie de la Photographie nella collana ‘Que sais-je’, aveva pubblicato La photographie et l’homme: sociologie et psychologie de la photographie. Paris: Casterman, 1971 (ediz. italiana, Alba: Edizioni Paoline, 1974)
[156] J. A. Keim, Fotografia e arte. In Astaldi 1967, pp. 33-40; edizione originale La photographie est aussi un art, “Critique”, n. 207-208 (1964), août – septembre, pp. 730-749.
[157] Keim 1971, p. 47. Il breve testo conteneva anche una suddivisione tipologica per generi storiografici, considerando le storie svolte dal punto di vista della tecnica; quelle intese come “storia delle utilizzazioni” e quelle in cui “l’immagine fotografica è utilizzata come complemento al testo. Ciononostante si è avuto qualche buon esperimento, come ad esempio il ‘Nuovo album romano’ di Silvio Negro”. Seguivano quelle che consideravano la fotografia come strumento di ricerca (aerea, microscopica, astronomica, etnografica, ecc.; quelle – esemplificate dal saggio della Freund – che la analizzavano come mezzo di comunicazione orientata alla costruzione di una storia sociologica e infine quelle che intendevano la fotografia come mezzo di espressione, che “non può essere studiata senza riferimenti a quella della pittura” (citando Scharf) o, viceversa, “l’influenza della fotografia sulla pittura”, con riferimenti a Adhémar, Van Deren Coke e Malerei nach Fotografie. Ribadiva infine che “tutte le storie parziali, per quanto interessanti, non sono ‘storie della fotografia’ ” e giudicava come “la più completa quella di Newhall”, sebbene poi qualificasse come “più scientifica” quella di Gernsheim, pur imputando a entrambe un eccessivo sbilanciamento nazionalistico. Non essendo disponibile alcuna storia della fotografia italiana, segnalava però che “gli italiani cominciano a pubblicare eccellenti monografie, come quella di Lamberto Vitali Un fotografo fin de siècle, il conte Primoli e quella di Cesare Colombo Francesco Negri fotografo a Casale.”
[158] Keim 1976, rispettivamente alle pp. 3 e 104.
[159] Gilardi 1976. FernandoTempesti, Ando Gilardi: si fa presto a dire porno, “AFT”, 3 (1987), n. 6, dicembre, pp. 72-74, ancora a dieci anni di distanza dalla sua pubblicazione lo considerava “un bel libro” (72) ricollegandone gli interessi e l’impostazione a “Photo 13”, che fu una iniziativa importante “nella storia della storiografia fotografica” (72). Altri riscontri alla pubblicazione del volume in Russo 2011, pp. 224-225. Presso lo stesso editore, ma nella collana “Universale Economica” veniva pubblicato Arborio Mella 1976. Il manualetto, ricco di grafici e schemi illustrativi, si proponeva di “ripercorrere anche e soprattutto le premesse che nei secoli precedettero” l’avvento della fotografia a partire dal Rinascimento e comprendeva una seconda parte dedicata all’illustrazione delle principali nozioni di ottica e della visione, a partire dalla fisiologia dell’occhio. Alla seconda edizione del volume di Gilardi si riferiva la recensione di Giovanni Chiaramonte, Gilardi il fotomeccanico, “Alias”, n. 4, 27 gennaio 2001, p. 21, prendendo radicalmente le distanze, anche quale parte in causa, cioè in quanto fotografo, dall’impostazione del volume: “Analizzata unicamente dal punto di vista materiale, ovvero industriale, la vicenda culturale e sociale della fotografia è davvero impossibile da comprendersi. La pretesa di Gilardi è, a tutti gli effetti, quella di uno storico della letteratura che volesse farci capire il cammino del romanzo, dall’Ottocento ai giorni nostri, dal punto di vista dell’invenzione e della produzione industriale della penna stilografica o della macchina da scrivere. La storia della fotografia è, soprattutto, storia di visione, di scoperta concettuale ed esistenziale di punti di vista sempre nuovi sulla realtà. Proprio l’industrializzazione della fotografia ha permesso ai veri fotografi, da Stieglitz a Wenders, da Ghirri a Meyerowiz, di concentrarsi sull’unica cosa che conta: la profondità dello sguardo e della coscienza. Perché questo è innanzitutto la fotografia: traccia vivente del soggetto che è l’uomo e dell’oggetto che è il mondo. Come ricorda Wenders, ‘attraverso il mirino colui che fotografa può uscire da sé, ed essere dall’altra parte, nel mondo, può meglio comprendere, vedere meglio, sentire meglio, amare di più’.”
[160] Problematica risultava non solo la possibilità di definire quell’opera come una storia, ma anche l’accezione con cui andava inteso il termine qualificativo, che si prestava a molteplici e contraddittorie interpretazioni. Per Angelo Schwarz la formulazione del titolo appariva “subito citazione di un’altra ‘storia sociale’, cioè quella Storia sociale dell’arte di Harnold Hauser che ha rappresentato e rappresenta un punto di non ritorno nel suo ambito”, ma le ragioni dell’autore dovevano essere in parte diverse, a giudicare da quanto scriveva a commento di una serie di fotografie segnaletiche: “Sono fra i documenti più validi ed eloquenti della fotografia che poi si disse ‘sociale’ con un equivoco non ancora risolto, siccome conveniente alla promozione dell’industria fotografica ed al recupero delle vecchie icone.”, Gilardi 1976, p. 243. Si veda inoltre quanto dichiarava lo stesso in una intervista rilasciata a Schwarz nel 1977 e pubblicata ne “il Diaframma – Fotografia Italiana”, ora in Schwarz 1983, pp. 14-20 (17-18): Schwarz: E veniamo alla tua Storia sociale della fotografia: nel titolo ci sono due termini, un sostantivo e un aggettivo, che anch’io ti contesto. Tu dici storia e io ti chiedo qual è la metodologia che hai impiegato per scriverla. Dici sociale e io ti domando che significato ha l’aggettivo nel tuo titolo? Gilardi: Mi sarebbe piaciuto per il mio libro un altro titolo. Come: ‘Riflessioni di un fotografo su alcuni fondamentali aspetti della produzione e dei consumi fotografici dal giorno dell’invenzione dei procedimenti fino alla loro definitiva omologazione industriale, con amare considerazioni relativamente al mito di sinistra che è servito a nascondere l’espropriazione di un’arte la quale poteva essere di massa ma si è alla fine trasformata in un qualunque consumismo di prodotti fotografici’. Il titolo non avrebbe sollevato nessuna contestazione da parte tua, ma forse non avrei venduto il libro che si sta invece esaurendo. Ho dovuto scegliere, Angelo Schwarz, fra il sentirmi accusare da te, con qualche ragione, d’aver stravolto il significato classico del sostantivo storia e usato a mia volta l’aggettivo sociale come imballaggio [corsivo di chi scrive], oppure farmi apprezzare per una coerenza suicida; perdonami, ho scelto la via dell’opportunismo pedagogico. Ma alla tua contestazione voglio dare un’altra risposta: sindacale. La tua domanda si direbbe rivolta ad un professore di storia. Dimentichi che io sono invece tuo collega: un fotografo così vecchio che è stato tutto quello che un fotografo può essere. (…) Non esisteva, e tu lo sai, una storia del mio e tuo mestiere vista dall’interno del mestiere: e i fotografi che la leggono la sentono, a cominciare da te. Naturalmente possono non essere d’accordo, perché dico cose atroci su come hanno ridotto il nostro mestiere. Ma nessuno si offende e mi disistima: perché parlo il loro linguaggio, uso la loro terminologia, scrivo della loro attrezzatura, alla fine: ho dato alla categoria un suo autore e un suo personaggio. Una storia da professore la scriveranno i professori. S.: Ma perche delegare la scrittura di una storia, che è la nostra, ai professori? G.: Per due ragioni. Una l’ho detta: conoscono i metodi storiografici più corretti. L’altra, forse la più valida: il professore, e la sua scuola, sono il miglior canale per trasmettere cultura fotografica alle nuove generazioni, e per rielaborarla in sintesi, insomma fare il loro mestiere. Ideale sarebbe un fotografo-professore, o un professore-fotografo: ma non si vive abbastanza per imparare veramente bene un mestiere, figurati due. La soluzione potrebbe essere… illuministica: una bella, grande, profonda, divertente – tutto insieme – enciclopedia della fotografia. Insisto: di taglio illuministico, dove la cultura si sposa con la tecnica, la tecnica con l’arte e con la storia. Un prodotto che può nascere dalla unione di molti specialisti.”
[161] Gilardi però ricordava male: il volume venne effettivamente pubblicato nel dicembre 1976, ma era già in avanzato stato di lavorazione da tempo e la sua uscita era prevista esattamente per il Natale dell’anno precedente, come indicava la segnalazione di Angelo Schwarz, “Skema Il Diaframma Fotografia Italiana”, (1975), n. 208, ottobre, p. 9.
[162] A. Gilardi, a cura di, Primo Maggio, “Popular Photography Italiana”, 13 (1969), n. 140, maggio, pp. 19-40; Gilardi 1976, ad voces Popular Photography Italiana; Incontro di Verbania.
[163] Per Mantegazza credo sia sufficiente rinviare alle pagine scritte da Gilardi in quella stessa Storia, mentre per quanto riguarda il meno noto Domenico Vallino, amico e sodale di Vittorio Sella, segnalo come, in una sua recensione del testo di Lugi Borlinetto, I moderni processi di stampa fotografica. Milano: Pettazzi, 1878, affermasse che “i miracoli della moltiplicazione dei pani e dei pesci sono una fanciullaggine rispetto alla moltiplicazione dei prodotti dell’ingegno a’ giorni nostri e la fede nella scienza la quale verrà a sostituire la fede teologica, riceve oggidì in questi miracoli il suo nutrimento. Dopo la stampa a mano, la stampa a macchina, la stampa celere, la litografia, l’incisione, ora si aggiunge un’arte novella per moltiplicare il pane eucaristico della nuova fede. Alludo alle recentissime applicazioni della fotografia alla stampa e queste si chiamano: fotolitografia, fotogliptia, foto-incisione, fototipia, eliografia ecc. ecc.”, D.Vallino, Un’arte novella, “L’Eco dell’Industria”, 28 febbraio, 7 marzo, 10 marzo 1878.
[164] La discutibile accuratezza storiografica che attraversava purtroppo tutto il volume (si pensi alla definizione di “Camera Work” come “promotrice, fino dal principio del secolo, della fotografia ‘pura’, non ‘corrotta’ da personali manipolazioni”, p. 351) venne immediatamente segnalata da A.C.Quintavalle, il quale – come ha ricordato Russo 2011, pp. 224-225 – “pur apprezzando il volume, a cui riconobbe il merito di aver demitizzato le storie della fotografia ‘elitarie’ assegnando un giusto rilievo ai vari contesti culturali e alle produzioni fotografiche popolari, colse però una contraddizione, annunciata già nel titolo dell’opera: Gilardi considerava la fotografia come un mezzo di espressione sociale tout court mentre, in realtà, a essere sociale era l’uso che ne veniva fatto e la sua diffusione. Uno dei limiti di Storia sociale della fotografia consisteva dunque in quel marxismo ‘semplificato’, fondato su un determinismo ideologico, che permetteva a Gilardi di presentare la storia della fotografia in termini rigorosamente oggettivi. Gilardi, inoltre, usando una scrittura giornalistica, uno stile affabulatorio e spesso polemico, ometteva sistematicamente tranne in rari casi, il riferimento a dibattiti e ricerche di altri studiosi, evitando di riportare le fonti delle sue argomentazioni. In tal modo l’autore risultava l’unico depositario del “sapere fotografico”.
[165] Ando Gilardi, Lo specchio della memoria: fotografia spontanea dalla Shoah a YouTube; a cura di Patrizia Piccini. Milano: Bruno Mondadori, 2008, p. 15.
[166] L’attenzione per le istituzioni totali era in quegli anni molto forte anche da parte della fotografia militante, in particolare per quanto riguardava i reclusi negli ospedali psichiatrici, cfr. infra Nota 1579 e pp. relative.
[167] Gilardi 1976, p. 8, corsivi dell’autore. Il richiamo sin troppo evidente era non solo al Point de vue de Gras, 1826, di Niépce nell’interpretazione di Gernsheim ma più in generale al dagherrotipo. Una posizione analoga venne espressa pochi anni dopo da Ian Jeffrey (2003 [1981]) escludendo la figura di Niépce e citando quasi di sfuggita di Daguerre.
[168] Abel Buguet, Luigi Gioppi, La bibliothèque du photographe en français, italien, anglais, allemand, espagnol. Paris: Société d’éditions scientifiques, 1892.
[169] Colombo 1969; Gilardi 1976, p. 110 in cui a proposito delle lastre circolari utilizzate dal fotografo casalese forniva dati di assoluta fantasia.
[170] Becchetti 1978.
[171] “Arte nata da un raggio e da un veleno …” ovvero “Le disgrazie della fotografia”.
[172] Gilardi 1978.
[173] Pietro Antonacci, Repertorio generale delle più ovvie e più utili operazioni fisico- chimiche ed industriali per comodo di tutti ma singolarmente delle missioni straniere. Roma: presso Bourliè, 184
[174] Oscar F. 7Ghedina, Fotografia, “Enciclopedia Europea”, IV. Milano: Garzanti, 1977, pp. 1053-1067. Il solo richiamo, quasi per dovere, alla scena italiana era costituito dai riferimenti, per altro gravemente imprecisi, a Vittorio Sella, che risultava attivo dal 1865 al 1900, a Enrico Giglioli e “soprattutto” al Conte Primoli (1058). Un’altra voce, non firmata ma verosimilmente riferibile allo stesso autore, era dedicata alla Dagherrotipia, ivi, III, p. 989, considerata “come l’antefatto dello straordinario sviluppo della fotografia” anche in virtù del fatto che si impose “come mezzo di informazione giornalistica [sic] e di vera e propria espressione artistica.”
[175] Freund 1976. Da una lettera di Paolo Fossati a Bertelli del 5-5-1972 si ricava che il saggio Photographie und burgerliche Gesellschaft, era stato segnalato a Giulio Bollati proprio da Bertelli. La Einaudi ne decise quindi l’acquisto dei diritti ma condizionandolo alla disponibilità dello studioso alla curatela dell’edizione italiana, compresa la stesura della prefazione, ipotizzandone la pubblicazione per l’inverno seguente. In una successiva missiva Fossati comunicava di essere “entrato in contatto con l’autrice. La quale annuncia per la fine del prossimo anno una nuova stesura radicalmente riscritta del libretto (…). L’autrice sconsiglia di usare la precedente edizione.” Entrambe le lettere in ICCD – Archivio storico. GFN, busta 19 (1969-1971).
[176] Quintavalle 1979. Sugli scopi generali dell’opera e sull’innovativa funzione svolta dagli inserti intesi come “un ritratto antropologico del nostro paese”, si veda l’Intervista per l’Enciclopedia pratica per fotografare. In Id. 1983, pp. 401-404.
[177] A.K.K. [Andor Kraszna-Krausz], Pittorialismo. In Enciclopedia 1979, IV, pp. 1793-1794, da leggersi in parallelo con le voci relative a Pigmento, processi al (ivi, p. 1774, non firmata) e Pittura e fotografia (ivi, pp. 1794-1795 ) firmata da Helmut Gernsheim.
[178] A. Co. [Attilio Colombo]. In Enciclopedia 1979, ad vocem. A questo tipo di pubblico erano rivolti altri analoghi prodotti editi in quell’arco di tempo: l’Enciclopedia della fotografia, curata da Gualtiero Castagnola, Cesare Colombo e Alberto Fioravanti, pubblicata a dispense settimanali, Sesto San Giovanni: Alberto Peruzzo Editore, 1969; Corrado Marin, Enciclopedia fotografica italiana. Trieste: Edizioni tecniche fotografiche, 1969; Il mondo della fotografia: la più grande enciclopedia tecnica e pratica dell’immagine artistica e pubblicitaria. Sesto San Giovanni: Alberto Peruzzo Editore, 1980; Enciclopedia della fotografia Curcio/Kodak: la creatività, le idee, la tecnica dell’immagine, edizione italiana a cura di Antonello Manno. Roma: Curcio, 1983. Segnaliamo inoltre che anche il Dizionario Biografico degli Italiani. Roma: Istituto dell’Enciclopedia Italiana, concepito nel 1925 e avviato nel 1960, ospita voci legate al mondo della fotografia; online: http://www.treccani.it/biografico/elenco_voci/ [12 04 2017].
[179] Quintavalle 1979, p. 5.
[180] A.K.K. [Andor Kraszna-Krausz]. In Enciclopedia 1979, ad vocem; corsivo di chi scrive.
[181] Calvenzi et al. 1985.
[182] Newhall 1969.
[183] A puro titolo di esempio si consideri la presenza di una voce Alinari e l’assenza di quelle relative ad Anderson o Brogi; la presenza di Francesco Negri contro l’assenza di Caneva, Naya, Ponti, Sommer e Tuminello. Si segnalavano invece per la novità della proposta le voci concernenti l’industria fotografica italiana: Bencini, Cappelli, Ferrania, ma dimenticando almeno Tensi.
[184] Italo Zannier, “Fotologia”, vol. 3, 1985, p. 111. Chini stigmatizzava invece “il fatto che in questo dizionario sono state omesse tutte le voci culturali come, per esempio, photo secession, nuova oggettività e simili. È un’evidente scelta programmatica ma può essere discussa sul piano dell’organicità informativa.”, Renzo Chini, La ‘Nuova Enciclopedia dell’Arte Garzanti’, “Fotologia”, vol. 6, dicembre 1986, pp. 96-97.
[185] Ibidem. Un’altra questione centrale chiudeva l’articolo: “Il problema più vero tuttavia non sono le omissioni bensì la metodica per le inclusioni. (…) Un’altra questione di metodica è se le poetiche di certe associazioni fotografiche sono da prospettare come correnti estetiche. Penso a ‘La Bussola’ e a ‘La Gondola’ che per l’Italia sono state quasi un analogo della subjektive fotografie in Germania o del gruppo f:64 in America.” Certo quel “quasi” avrebbe potuto essere oggetto di ampio dibattito ma la questione era tutt’altro che marginale.
[186] Ibidem. Nel successivo numero Valtorta rispondeva a quelle osservazioni riportandole non tanto a questioni di impianto metodologico ma, più prosaicamente, ai vincoli della concezione editoriale del volume, ricordando come “il criterio adottato per le voci di fotografia non è diverso da quello adottato per tutte le altre voci (…). È buffo. Va visto con simpatia.”, Roberta Valtorta, Le voci di fotografia nella Nuova Enciclopedia dell’Arte Garzanti (piccola riflessione a margine), “Fotologia”, vol. 7, maggio 1987, pp. 104-105. Una funzione per molti versi differente connotava Zannier 1994; un contributo compreso in una Enciclopedia Dell’Orientamento (EDO) nata all’interno dell’Enciclopedia Tematica Aperta dell’editore Jaca Book, destinato a presentare una disciplina o un ambito scientifico come se fosse “una lezione inaugurale” di fronte a studenti e colleghi universitari, quindi in maniera esplicitamente personale, indicando inoltre “i luoghi e le istituzioni, a livello internazionale, che l’autore stesso voglia consigliare a colleghi o studenti per iniziarsi alla sua disciplina.” (dalla seconda di copertina).
[187] Della rivista, progettata da Michele Provinciali come un contenitore di sperimentazione grafica e visiva e diretta da Raffaele Bassoli, vennero pubblicati quattordici numeri, dal maggio 1960 al dicembre 1971, con la collaborazione di Antonio Arcari, a cui era a sua volta affidata la direzione della collana di libri fotografici “I Quaderni di Imago”.
[188] A.G.[Ando Gilardi], Imago n. 11: il museo in busta, “Popular Photography Italiana”, 12 (1968), n. 125, gennaio, p. 15.
[189] Gilardi et al. 1967.
[190] Il testo è stato ripubblicato in Zannier 1993b, pp. 236-237; Colombo 2003, pp. 55-56. In Porretta 1976, p. 10, nota 2 veniva citato anche il catalogo della mostra Il diavolo fotografo: Roma 1870 – Roma 1970. Roma: 1970, di cui non si sono reperite tracce, neppure bibliografiche.
[191] Gilardi 1976, p. 274. Su questa interpretazione hanno poi concordato tutti gli storici successivi, cfr. Becchetti 1983a; Zannier 1986b; D’Autilia 2012.
[192] Settimelli 1976b. Secondo quanto indicato in una breve nota redazionale de “L’Unità”, 3 luglio 1976, nello stesso anno Settimelli curava e presentava su RAI2, la trasmissione Flash, dedicata ai diversi aspetti della fotografia, la cui “sigla [curata da F.C. Crispolti ] nell’arco delle dieci puntate [formava] una vera e propria piccola storia della fotografia.”
[193] Pierre Bourdieu, a cura di, La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media. Rimini: Guaraldi, 1972, ma il testo era già noto ai sociologi italiani nella sua edizione originale (Un art moyen: essai sur les usages sociaux de la photographie. Paris: Minuit, 1965), cfr. Enrico Fulchignoni, Appunti per una sociologia dell’immagine fotografica. In Astaldi 1967, pp. 68-86.
[194] Settimelli 1976, p. 109, corsivi di chi scrive.
[195] Riuniva ad esempio in una sola persona i Sella padre e figlio, parlando di un inesistente Giuseppe Vittorio Sella, che sarebbe stato autore di un manuale edito nel 1863 (in realtà 1856) ma anche pregiato fotografo di montagna (p. 116); i fratelli Primoli giravano per Roma “con un grande apparecchio fotografico e carrozza con tanto di servitori” (p. 115), notizia evidentemente tratta dall’immaginifico racconto pubblicato dalla “Tribuna Illustrata” del 22 febbraio 1891, ampiamente ripreso da Vitali (1968, p. 20), in cui si descriveva il fotografo “seguito da una specie di carovana di servi, recanti centinaia di lastre, e una collezione di macchine fotografiche”; resoconto che pare poco coerente con l’agire quasi fotogiornalistico di Giuseppe Primoli così come con i formati e le caratteristiche delle immagini che di lui conosciamo, a cui meglio si addice la descrizione sostanzialmente coeva che ce ne ha lasciato Romain Rolland nel 1890, che ha parlato di “son ridicule appareil de photographie”, cfr. Vitali 1968, p. 20, nota 1. L’affidamento a Settimelli per l’integrazione italiana del volume di Keim, era nato da un suggerimento di Carlo Bertelli su richiesta di Paolo Fossati, che scriveva “Poiché la parte italiana era decisamente scadente, avevamo proposto all’autore un’appendice breve e autonoma sulla fotografia italiana. A questo punto si tratta di mandare in porto l’iniziativa. C’è tra i tuoi amici o discepoli qualcuno che potrebbe buttar giù seriamente una quindicina di cartelle sul tema, come una voce d’enciclopedia, ma intelligente?” Bertelli rispondeva il successivo 29 ottobre “Non mi viene in mente nessuno, per ora, per la sezione italiana del libro di Keim. Forse Vladimiro Settimelli saprebbe scrivere rapidamente una cosa chiara e informata. Lo trovi all’Unità di Roma.”, AST. Archivio Einaudi, “Corrispondenza”, m. 20, fasc. 291, cc. 42 e 44.
[196] Zannier 1978c.
[197] Roberto Spampinato, Corso Matteotti (e dintorni). In Colombo 2004, pp. 268-273. Della Carell si salvarono solo i negativi su lastra (circa 50.000) mentre nei casi di Luxardo e Badodi l’acquisizione di parte dei loro archivi comprese anche stampe e provini. Quelle acquisizioni costituirono poi occasione per alcuni articoli: Gilardi et al. 1970; Turroni 1972.
[198] Tempesti 1985a, p. 71.
[199] Lettera di Carlo Bertelli, all’epoca direttore del GFN prima di passare al neonato ING nel 1975, indirizzata alla Direzione generale Antichità e Belle Arti, s.d. [ante aprile 1973], ICCD – Archivio storico, busta n.20 (1971-1980); nella sua segnalazione Bertelli pareva non tener conto del fatto che era stata la stessa Frick Library ad affidare a Sansoni, uno dei più importanti e noti professionisti italiani del settore, l’incarico di documentare le testimonianze artistiche europee già nel corso degli anni Trenta del Novecento, non di rado accompagnato dalla stessa Helen Frick.
Una prima, allarmata segnalazione in merito all’Archivio Alinari era giunta da Guglielmo Matthiae, Soprintendente alle Gallerie del Lazio, già nel maggio 1972, che comunicava al Ministero di essere venuto a conoscenza dell’intenzione di “vendere la loro raccolta di negativi di fotografie di opere d’arte e, sembra, già siano in corso trattative con Istituti americani.”, Lettera di G. Matthiae al Ministero della Pubblica Istruzione/ Direzione generale Antichità e Belle Arti, datata Roma, 31 maggio 1972, ivi. Settimelli si era invece prodigato affiché fosse il Comune di Firenze ad acquistare l’Archivio, “ma la richiesta di quattro miliardi di lire formulata dagli attuali proprietari tagliò corto alle trattative: il Comune non poteva permettersi una cifra del genere”, Settimelli 1976a, p. 37.
In una successiva occasione Bertelli aveva fornito una spiegazione in parte differente della questione Alinari: “Pensa che nel ’72 proposi al Consiglio Superiore l’acquisto di alcune raccolte fotografiche importanti, a prezzi vergognosamente bassi. Finalmente nell’ottobre il Consiglio Superiore delibera. E come? Di sospendere gli acquisti delle fotografie per il Gabinetto Fotografico finché l’Istituto non sarà ristrutturato. Nel frattempo mi sono state fatte altre offerte, ma il Consiglio Superiore non è tornato sulle sue decisioni. A questi storici dell’arte tradizionale sfugge completamente che momento sia questo per formare una raccolta pubblica di fotografie e come, perdute queste occasioni, mai più altre se ne presenteranno.”, cfr. Chiapatti 1973. Per Gilardi (1976 p. 222) “Fra le tante … colpe fotografiche dello Stato italiano: non aver rilevato l’archivio da essi [Alinari] accumulato, di eccezionale valore.” Come ha ricordato Massimo Ferretti (2014, p. 22) già negli anni Cinquanta Federico Zeri si era prodigato senza esito per assicurare al pubblico gli archivi Alinari.
[200] Il “Museo della Fotografia” fu la sola istituzione italiana presente nella sezione culturale del SICOF 1973, che aveva come tema La fotografia e le sue istituzioni, e ospitava mostre prodotte da Inter Nationes di Bonn, Uměleckoprůmyslové muzeum (Museo di Arti decorative) di Praga, Moderna Museet di Stoccolma e Stiftung für Photographie di Zurigo. Il “Museo” aveva preso forma solo l’anno precedente sulla base di una serie di riflessioni e confronti condotti da Quintavalle con alcuni dei principali studiosi italiani ma anche a partire da sollecitazioni diverse, non ultime quelle derivate dallo stretto rapporto con Ugo Mulas e dalle principali esperienze statunitensi, conosciute di prima mano in occasione dei corsi tenuti negli USA dallo studioso a partire dal 1974.
Alla fine del decennio l’organismo parmense era presieduto da Giulio Carlo Argan e diretto da Quintavalle, con un Comitato esecutivo composto da Maurizio Calvesi, Roberto Campari, Corrado Maltese, Massimo Mussini, Domenico Pesce, Nello Ponente e Quintavalle stesso, a cui poi si aggiunse Manfredo Tafuri, mentre del Comitato scientifico del Dipartimento di fotografia fecero parte, in momenti diversi, Carlo Bertelli, Lanfranco Colombo, Oreste Ferrari, Paolo Fossati, Nino Migliori, Massimo Mussini, Piero Racanicchi, Wladimiro Settimelli e Lamberto Vitali, a cui si aggiunsero Luigi Ghirri e Paolo Barbaro.
Già nel 1958, nell’ambito della costituzione di una sezione Arte contemporanea nel Gabinetto Disegni e Stampe dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Pisa, Carlo Ludovico Ragghianti aveva scritto a Fulvio Roiter, anche come tramite per il circolo fotografico La Gondola, per segnalargli la costituzione di un una specifica sezione, convinto che “la fotografia sia un’espressione artistica autentica e totale come le altre indicate” e che “sino ad oggi, in Italia, non esisteva nessuna raccolta pubblica museale destinata organicamente e sistematicamente all’arte fotografica. L’Istituto, anche nell’intento di portare la fotografia nell’Università od alta cultura e nei musei, si propone di estendere le raccolte grafiche alla fotografia italiana.” Per la costituzione di quella raccolta sollecitava la generosa collaborazione dei fotografi ai quali garantiva “a) conservazione delle fotografie in una Sezione speciale; b) disponibilità per la consultazione degli studiosi e del pubblico; c) esposizioni permanenti e periodiche di gruppi e di artisti; d) pubblicazione di cataloghi scientificamente e criticamente elaborati, a cura dell’Istituto; e) eventuali manifestazioni d’arte fotografica, nel Gabinetto e nella sala di esposizione. Se questo programma è apprezzato nella sua obbiettiva utilità per il prestigio e per l’apprezzamento dell’arte fotografica rivolgo un appello ai Sodalizi fotografici ed agli Artisti fotografi, perché diano il loro prezioso contributo.”, lettera dattiloscritta, datata Pisa, Museo Nazionale, Istituto di Storia dell’Arte, 15 novembre 1959, inviata a Fulvio Roiter; CAF. Archivio Monti, “Fondo archivistico: Corrispondenza”, busta 2,f. 11.
[201] In occasione della mostra dedicata allo Studio Orlandini di Modena (Mussini 1976) “arrivarono in dono all’Università un nucleo importante di fotografie dal periodo pictorialist in avanti”, mentre con la successiva di Bruno Stefani (Campari 1976) il patrimonio, attualmente costituito da circa 9.000.000 di fotografie, si arricchì di 150.000 fototipi, cfr. Gloria Bianchino, Fotografia come immagine media. In Perna et al. 2012, pp. 65-76. Già intorno alla metà degli anni Settanta il CSAC – su segnalazione di Nino Migliori – era riuscito a salvare dal macero una parte importante dell’archivio Villani, costretto ad abbandonare per ragioni economiche la propria sede storica. Come ricordava Quintavalle, Il commercio del senso. In Berengo Gardin et al. 1978, p. 378, “Quando, una decina di anni orsono, occupandoci di fotografia, cominciammo a raccogliere presso l’Università di Parma decine di migliaia di immagini, non avevamo ancora chiara l’idea dei modelli da impiegare, ma, certamente, avevamo quella che si doveva uscire dal gioco delle personalità e quindi della fotografia intesa come ‘arte’, uno strumento interpretativo ormai usurato e quindi da negare per le palesi implicazioni idealistiche.” Una più recente ricostruzione delle motivazioni che portarono alla fondazione e poi allo sviliuppo del CSAC è stata offerta dallo stesso Quintavalle, CSAC quarant’anni: l’archivio del Novecento. In Quintavalle et al. 2010, pp. 15-55.
[202] Berengo Gardin et al. 1978. Per certi versi costituì un precedente di questa iniziativa la rubrica di “Photo 13” L’antiquariato della fotografia, nella quale la redazione commentava, anche dal punto di vista della tecnica di realizzazione, le immagini di famiglia inviate dai lettori.
[203] Le sezioni di cui era composta erano: La prima guerra mondiale, L’emigrazione, Il lavoro, Il socialismo e il fascismo, Bonifiche latine, Umbertide (intesa come vita del principe ereditario Umberto di Savoia), Guerre d’Africa, Moda – tempo libero – terme, Veicoli d’epoca e sport, L’ambiente, Capri, La seconda guerra mondiale, I profughi, Gioco d’armi, Gruppi, I ritratti: i bambini, Nudi, Jolanda d’Ormesson, Patrica (fotografie sulla vita del paesino in provincia di Frosinone), Borgo Tossignano: un paese e il tempo, il pittore napoletano Nicola Biondi.
[204] A.C. Quintavalle, Il commercio del senso. In Berengo Gardin et al. 1978; ora In Id. 1983, pp. 365-378.
[205] Ivi, p. 372. Agli strumenti interpretativi dello studioso mancavano ancora le indicazioni metodologiche della prima antropologia visuale, quella che sulla scorta di Richard Chalfen, Studies in the Home Mode of Visual Communication, “Working Papers in Culture and Communication”, 1 (1976), n. 2, pp. 39-61, incominciava ad interessarsi sistematicamente, applicando metodiche di tipo etnografico, alla produzione fotografica di tipo famigliare e in particolare agli album di famiglia; un tema che da noi sta ora godendo di rinnovata attenzione. Si vedano ad esempio i diversi saggi contenuti in De Luna et al. 2006b, nei quali, pur non tenendo ancora conto in modo pienamente soddisfacente della cultura visuale propriamente fotografica, si ribadiva in più punti il concetto di fotografia come messa in scena per sé e per gli altri, dove la comunicazione si fondava necessariamente sul ricorso a codici (sociali, formali, iconografici) condivisi. All’idea di fotografia come messa in scena di interesse sociologico avevano già fatto riferimento due progetti di poco antecedenti che avevano indagato i modi in cui nel corso del tempo generazioni di frequentatori avevano costruito i propri ricordi fotografici di Villa Borghese a Roma (Lunadei et al. 2003 ) e del Borgo Medievale a Torino (Cavanna et al. 2005a). Quelle fotografie risultavano disponibili ad altri racconti, ad altre costruzioni, ben oltre l’inevitabile registrazione dello stato di fatto a un momento dato, proprio per l’assenza originaria di ogni intenzionalità documentaria riferita ai luoghi. Il loro insieme rappresentava una piccola porzione di quella “sfera immateriale” formata dalla sommatoria delle immagini virtuali prodotte in cento anni da una innumere schiera di “conformisti stagionali”, come Pierre Bourdieu aveva definito i fotografi famigliari. Perfetto campo d’indagine per una antropologia visuale attenta ai modi di porsi di fronte all’apparecchio fotografico, anzi, dell’essere fotografati: “Un esercito di sguardi in macchina – li definì Abruzzese – Nulla può dimostrare in modo più imponente ed efficace di questa massa di occhi il significato storico dell’avvento della fotografia. Nulla può dire meglio la posizione dell’essere umano di fronte al carattere ‘divino’ di una intrusione inattesa e sconosciuta.”, Alberto Abruzzese, Storia e antropologia dello sguardo in macchina: Villa Borghese e i suoi abitanti. In Lunadei et al. 2003, pp. 31-32
[206] La mostra, realizzata in occasione del III Convegno nazionale di Antropologia Culturale del 1968 presso l’Università di Perugia, costituiva a sua volta l’esito della selezione operata su più di trentamila fotografie raccolte attraverso “La Domenica del Corriere” con il progetto Un mondo ritorna attraverso una vecchia fotografia. L’iniziativa voleva essere “una semplice proposta, un primo esempio di reperimento e organizzazione volti alla sistematica esplorazione di un patrimonio tuttora in gran parte disperso” ed era organizzata intorno a una serie di grandi temi: Il rituale matrimoniale; il tempo libero; il lavoro; l’emigrazione; la disgregazione; il rituale funebre; la fotografia ricordo; l’utilizzazione dell’immagine familiare per: la propaganda bellica, la propaganda politica, la pubblicità, presentati in mostra su pannelli tematici composti secondo una schema a matrice che prevedeva in ascissa le fasce cronologiche e in ordinata le classi sociali. La convinzione ferrea che “una immagine fotografica è anzitutto la registrazione visiva di una realtà” (Seppilli 1968) si traduceva nella sistematica assenza di elementi identificativi, primo dei quali l’indicazione di responsabilità, accostando liberamente ad esempio il ritratto di coppia di un piccolo operatore locale con La famiglia Lusetti di Paul Strand. Accompagnava la mostra un fascicolo di “Popular Photography Italiana”, 12 (1968), n.128, aprile, intitolato Immagini della famiglia italiana in 100 anni di fotografia che conteneva a sua volta, come in un gioco di scatole cinesi, la recensione al catalogo della stessa, pubblicato dopo la prima tappa perugina con un titolo destinato poi a maggiore notorietà (Macchieraldo 1968). Tale recensione si segnalava, anche e ben oltre il merito, per essere una significativa testimonianza dell’ideologia espressa, e non per caso, dalle riviste fotografiche dell’epoca: “È il soggetto che stabilisce il valore di una immagine ottica, e poi la tecnica di ripresa. La quale tecnica diventa merito personale solo nel punto in cui chi l’usa ce la spiega. Altrimenti tutti siamo autorizzati a credere che quella foto sia dovuta al caso.” A.G. [Ando Gilardi], “Popular Photography Italiana”, 12 (1968), n. 135, dicembre, p. 19. Presso l’Università di Perugia si era già tenuta nel febbraio 1958 la Prima mostra italiana della fotografia etnografica e sociologica, sui “maciari” lucani fotografati da Gilardi nel corso dell’inchiesta condotta nel 1957 da Ernesto de Martino con Emilio Servadio e altri, seguita l’anno successivo dalla Seconda mostra italiana della fotografia etnografica e sociologica, con immagini legate all’inchiesta sulla festa contadina di Sega la Vecchia in Umbria, diretta da Diego Carpitella e Seppilli, con fotografie ancora di Gilardi, di Urbano Medici e Rosita Pedretti. Una selezione di immagini realizzate nel corso della spedizione lucana venne immediatamente presentata da Gilardi, Una tecnica di avvicinamento: Fotografie di ‘maciari’ lucani e della loro clientela, “Ferrania”, 11 (1957), n.12, dicembre, pp. 27-40. Per un’analisi specifica si rimanda a Clara Gallini, Francesco Faeta, a cura di, I viaggi nel Sud di Ernesto de Martino. Torino: Bollati Boringhieri, 1999, in particolare alle pp. 20 e 78-85, che contengono anche alcuni riferimenti all’inchiesta umbra.
[207] Seppilli 1968.
[208] Ivi, p. 73, corsivo dell’autore. Il permanere di questo atteggiamento ‘positivista’ in una parte della cultura antropologica italiana è testimoniato anche dall’intervento di Alberto Baldi al convegno di Prato del 1992, nel quale – richiamando Seppilli – dichiarava che la documentazione fotografica, opportunamente corredata di informazioni desunte da altre fonti e quindi contestualizzata, “alla stregua di un periscopio, può consentirci di tornare ad osservare ‘direttamente’ contesti ed eventi, realtà fisiche e culturali di un passato il senso del quale non è più oscuro e inintelleggibile. L’immagine, metaforicamente, può acquisire una ‘tridimensionalità’ e ridare ‘profondità di campo’ ad accadimenti prima sfuggenti o poco comprensibili”, A. Baldi, Foto familiare e ricerca antropologica: un tentativo di analisi. In Lusini 1996a, pp. 147-169 (p. 148). Su questi temi e più in generale sulla ‘questione documentaria’ mi permetto di rimandare al mio contributo Mostrare i documenti: una questione diplomatica. In Paoli et al. 2013, pp. 174-193.
[209] Valtorta 1979; si vedano a questo proposito gli interventi della stessa Valtorta, Due esperienze italiane di fruizione collettiva di immagini private: La famiglia italiana in cento anni di fotografia (1968) e Album. Fotografie dell’Italia di ieri/L’Italia nel cassetto (1977/1978) e di Lucia Valente, Il manifesto di una nuova dimensione fotografica: le esperienze di Ando Gilardi e Virgilio Tosi. In Forme di famiglie, forme di rappresentazione fotografica, archivi fotografici familiari, giornate di studio a cura della SISF – Società italiana per lo studio della fotografia e della Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali dell’Università degli Studi di Bologna, Ravenna, 22-23 aprile 2010.
[210] I termini qualificativi sono qui usati in senso ampio e quasi generico, anche in conseguenza del fatto che quelle stesse iniziative non costituirono un precedente per i successivi studi e ricerche italiane di storia né di antropologia visuale, come testimonia – ad esempio – il fatto che non gli venne dedicata se non una fuggevole citazione in nota in De Luna et al. 2006b, p. 251.
[211] Ando Gilardi, [Recensione], “Popular Photography italiana”, 13 (1969), n. 143, agosto, p. 11. Il riferimento interno era al Primo incontro nazionale di fotografia che si era tenuto a Verbania dal 31 maggio al 2 giugno di quell’anno, organizzato dal CIFe in concomitanza col XXI congresso della FIAF, durante il quale si consumò un duro scontro tra il mondo fotoamatoriale e una nuova concezione della pratica fotografica, fortemente connotata in senso politico, cfr. L.C. [Lanfranco Colombo], Un Calendimaggio della fotografia, “Popular Photography Italiana”, 13 (1969), n. 140, maggio, p. 20; Russo 2011, pp. 261-264.
[212] Fortini 1978.
[213] Miraglia et al. 1979b.
[214] Mentre il Fondo Cugnoni era entrato a far parte del patrimonio GFN già nel 1914, tutte le successive acquisizioni si scalarono tra 1968-1970 (duplicazione del Fondo Michetti) e primo lotto del Fondo Nunes Vais; 1971: Morpurgo e 1972: Fondo Valenziani, cfr. Anna Perugini, Le collezioni dei negativi storici. In Romano 1996, pp. 27-34. Già nel 1968 Bertelli aveva sollecitato il Ministero della Pubblica Istruzione, da cui dipendeva il GFN prima dell’istituzione del Ministero per i beni culturali nel 1975, all’acquisto del fondo di lastre realizzate dai fotografi fiorentini Bencini e Sansoni per la collana “Artis Monumenta Photographice Edita” curata da Pietro Toesca, che lo studio fiorentino era costretto a vendere in conseguenza delle perdite economiche subite con l’alluvione del 1966. La seconda parte del Fondo Morpurgo venne acquisita nel 1973, cfr. Morpurgo 1980. Ancora nel 1973 Bertelli propose alla Einaudi, per il tramite di Paolo Fossati, “un pacco di notevolissime fotografie per (…) un altro libro fotografico, un po’ fuori forse dalla linea che avevamo progettato, ma che mi sembrerebbe straordinario. Ne ho parlato a Luciana Castellina che sarebbe entusiasta di scrivere l’introduzione. Mi sembrerebbe, effettivamente, un libro importante per un tipo nuovo di informazione su Israele.”, Lettera di Bertelli a Fossati datata 1 marzo 1973, AST. Archivio Einaudi, “Corrispondenza”, m. 20, fasc. 291, c. 7. Del libro non si diceva di più, ma dalla risposta di Fossati a Bertelli, datata 7 marzo 1973, (ivi, c. 20) si comprende che si trattava del lavoro di Luciano Morpurgo sulla Palestina. La proposta non venne accolta e quel reportage venne pubblicato solo molti anni più tardi in Borghini et al. 2001. L’impegno per la conservazione e la tutela del nostro patrimonio fotografico storico venne proseguita da Bertelli anche nelle nuove vesti di Soprintendente per i beni artistici e storici della Lombardia, favorendo nel 1979 l’acquisto da parte della Biblioteca Braidense, allora diretta da Letizia Pecorella, dell’importante Fondo di Emilio Sommariva, costituito da circa 48.000 fototipi, dopo il netto rifiuto opposto dalla Pinacoteca di Brera, cfr. Ginex et al. 2004.
[215] Direttore del GFN dal 1963 al 1973, quindi direttore della Calcografia Nazionale, di cui promosse la fusione (1975) con il Gabinetto nazionale delle stampe creando l’ING. Anticipando l’acquisizione dei duplicati del Fondo da parte del GFN (1970) e su forte sollecitazione di Vitali, Bertelli, aveva intitolato una mostra proprio a Michetti nel 1968, promossa dagli Amici di Brera e con un “catalogo elegantissimo che Vitali aveva affidato, per l’impaginazione, ad Albe Steiner.”, cfr. Bertelli 1968; Bertelli 2001, p. 13. Anche a Nunes Vais era stata dedicata una mostra promossa dal GFN, curata da Bertelli e Vitali, a Firenze nel 1974 (Bertelli et al. 1974). Fu ancora Bertelli a proporre a “Popular Photography” la “collaborazione regolare di Marina Miraglia e Sebastiano Porretta sulle ‘novità’ del Gabinetto Fotografico”, cfr. Lettera di Carlo Bertelli a Pier Paolo Preti, datata 15 novembre 1971, ICCD – Archivio storico, busta n.21 (1971- 1974). Miraglia avrebbe poi pubblicato un breve articolo su Michetti nel numero di dicembre di quell’anno. La mostra del SICOF sul pittore e fotografo abruzzese venne riproposta anche nella edizione del SICOF – Sud che si tenne a Bari, ma senza concordarlo preventivamente col GFN (Lettera di Carlo Bertelli a Pier Paolo Preti, s..d. [1972], ICCD – Archivio storico, busta n.21 (1971- 1974); secondo una bozza manoscritta, non datata e non firmata, conservata nello stesso faldone, si era formulata l’ipotesi di presentare le mostre monografiche di Chigi, Morpurgo e Cugnoni per la terza edizione della rassegna, quindi Giovanni Gargiolli per la quarta.
[216] Carlo Bertelli, Progetto per un servizio fotografico nazionale delle Antichità e Belle Arti/ Per Popular Photography, dattiloscritto, s.d. [1972], ICCD – Archivio storico, busta n.21 (1971- 1974).
[217] Lettera di Carlo Bertelli ad Ando Gilardi, datata 9 maggio 1970, ICCD – Archivio storico, busta n.19 (1970).
[218] Lettera di Ando Gilardi indirizzata a “Egr. Dr. Carlo Bertini” [sic], datata Milano 19 maggio 1970, , ICCD – Archivio storico, busta n.19 (1970).
[219] Lettere del 19 maggio e del 20 giugno 1970, ICCD – Archivio storico, busta n.19 (1970).
[220] Lettera di Carlo Bertelli a Lanfranco Colombo, datata Roma 14 maggio 1971, ICCD – Archivio storico, busta n.21 (1971-1974). Dai documenti successivi si apprende che la pubblicazione ebbe corso ma l’iniziativa non riuscì poi a decollare. Per analoghi progetti si rimanda al paragrafo Archivi e raccolte: verso il censimento del patrimonio fotografico (pp. 319-322).
[221] Lettera di Lanfranco Colombo a Carlo Bertelli, datata Milano 19 maggio1971, ICCD – Archivio storico, busta n.21 (1971-1974).
[222] A quanto risulta il titolo della rubrica venne utilizzato solo per Grossi 1971.
[223] Bertelli inviava la bozza del questionario alla Direzione generale Antichità e Belle Arti in data 6 agosto 1971, ICCD – Archivio storico, busta n.21 (1971-1974).
[224] In un breve omaggio a Lanfranco Colombo, datato 2005, Bertelli avrebbe ricordato con affetto che “tutti avevano usato il Gabinetto Fotografico come una miniera di informazioni sull’arte; ma non erano ancora i tempi per guardare alle decine di migliaia di fotografie raccolte come testimonianze della fotografia. Fu Lanfranco a incoraggiarmi in quella direzione, ospitando al SICOF una nostra manifestazione su Michetti fotografo. Un tema che oggi fa parte della storia della fotografia, ma che grazie alla generosità di Lanfranco incominciava allora ad essere conosciuto.”, testimonianza di Carlo Bertelli in: www.lanfrancocolombo.it [24 01 2014]. In realtà Bertelli non aveva certo atteso Colombo per far conoscere Michetti, da lui presentato nel 1968 a Brera.
[225] Lettera di Bertelli a Lanfranco Colombo, non datata ma post ottobre 1971, ICCD – Archivio storico, busta n.21 (1971-1974).
[226] Lettera di Pier Paolo Preti a Bertelli datata Milano 12 novembre 1971, ivi.
[227] Lettera di Bertelli a Lanfranco Colombo, non datata ma post ottobre 1971, ivi.
[228] La Sezione culturale del SICOF andò poi progressivamente riducendosi a vantaggio di quella merceologica. Sulla figura e l’attività di Colombo si vedano: Fotografi italiani: diario immaginario di Lanfranco Colombo, catalogo della mostra (Bergamo, Accademia d’arte moderna e contemporanea, 4 giugno – 18 luglio 1993), a cura di Mario Cresci. Bergamo: Bolis, 1993; Luigi Erba, Roberto Mutti, a cura di, L’occhio di Colombo: il Diaframma, Milano 1967- 1972. Savignano sul Rubicone: Colpo di fulmine, 1997. Il diaframma di Lanfranco Colombo: i Maestri della fotografia, “il Diaframma – Fotografia italiana”, n. Omega, novembre 2005.
[229] Il grande brigantaggio del sud 1860- 1865, a cura di Oreste Grossi, da cui sarebbe poi derivato Gilardi et al. 1971.
[230] Lanfranco Colombo, Alcune considerazioni. In Colombo 1977, p. 6.
[231] Una breve storia e un’antologia della rivista vennero pubblicati in Diciotto anni di idee fotografiche, “Skema. Il Diaframma Fotografia Italiana”, 7 (1975), nn. 199-200, gennaio – febbraio. Sulla storia di questa testata si vedano anche Serravalle 2006; Russo 2011, pp. 178-181; 259-261.
[232] Dal numero 148, febbraio 1970, con una certa attenzione per i rapporti tra fotografia e arti visive (Il pittorialismo, “Popular Photography Italiana”, 14 (1970), n. 149, marzo, pp. 51-54; Esperimenti fotografici evocati dalla pittura dei primi due decenni del secolo, ivi, 14 (1970), n. 154, settembre, pp. 43-46. Solo un decennio più tardi si sarebbe pubblicata in Italia la sua Storia della fotografia del 20° Secolo (Tausk 1980).
[233] Dal 1976 la rivista venne affiancata da supplementi monografici dedicati anche ad un variegato ventaglio di figure storiche come Talbot, Beato, Michetti, Ghergo ed altri.
[234] Gilardi 1976, p. 410. Direttore tecnico della rivista dal 1967, Gilardi si dimise nel novembre del 1970 comunicando la propria decisione con una lettera aperta a Lanfranco Colombo, pubblicata nel n. 156, novembre 1970, in cui dopo i dovuti ringraziamenti per averlo chiamato a scrivere di fotografia (“Adesso, alle mie spalle, ho trentatre numeri di Popular e quasi un centinaio di articoli”) si proponeva di ritornare alla professione di fotografo (“Torno dunque, caro amico, a fabbricare immagini e spero rinnovato, migliorato da questa esperienza triennale [anche se] forse del mestiere di scrivere non sono così stufo come pare…”). Il tono scherzoso della missiva nascondeva però forti contrasti e dissidi, oltre che l’intenzione di Gilardi di fondare un proprio periodico, “Photo 13”, forse ironicamente in un primo tempo qualificata come “Italiana”, pur non esistendone altre edizioni, per analogia proprio con “Popular Photography”.
[235] B. Newhall, Prefazione. In Racanicchi et al. 1963, p.n.n.
[236] Vittorio Sella nel 1961, Giuseppe Primoli e il Fotodinamismo dei Bragaglia nel 1963; quest’ultimo importante contributo venne poi riprodotto, anche nell’impaginato, in Diciotto anni di idee fotografiche, cit. pp. 23-34.
[237] Racanicchi 1961. La lunga consuetudine del critico con questo autore sarebbe poi proseguita in occasione dell’edizione 1977 del SICOF, cfr. Id., Le alte montagne di Vittorio Sella. In Colombo 1977, p. 64 e ancora Id., Vittorio Sella fotografo, alpinista, esploratore. In Fiory Ceccopieri 1981, pp. 6-33 e infine le note introduttive a Pelosi 1989.
[238] Racanicchi et al.1961; Racanicchi et al. 1963. All’iniziativa del critico torinese si doveva anche la presenza tra i collaboratori della rivista di Maria Adriana Prolo e di Lamberto Vitali, chiamato a far parte del Comitato consultivo nel 1964.
[239] Chini 1968, p. 19, n. 34. Come ha ricordato Antonella Russo (2011, p. 207) “La pubblicazione di queste brevi antologie critiche fornì a Turroni l’occasione per riflettere sulla scarsità di testi teorici dedicati alla nostra fotografia e di traduzioni di saggi stranieri, lacuna che invece la cinematografia aveva superato da almeno un decennio. Il critico espresse qualche perplessità su quei ‘saggi mosaici’ (cosi come li aveva definiti Racanicchi stesso) e su quelle narrazioni prive di dubbi, ma soprattutto prive di tensioni storicistiche, tendenti a fornire un tipo di documentazione conclusa ed esaustiva, in linea con la critica fotografica dell’epoca che confondeva storia e critica, giornalismo e resoconto biografico.”, cfr. Giuseppe Turroni, Critica e storia della fotografia, “Ferrania”, 18 (1965), n. 1 gennaio, p. 26. Poiché quelle note critiche comparvero a ben due anni di distanza dalla pubblicazione del secondo quaderno, possiamo supporre che le questioni storiografiche e le riserve espresse – sostanzialmente condivisibili – non dovessero far parte delle più impellenti preoccupazioni di Turroni, e forse neppure dei suoi lettori.
[240] L’interesse ancora nascente per la ricostruzione storica delle vicende e degli autori più significativi, magari di ambito locale, era testimoniato da pubblicazioni diverse: penso alla rinnovata attenzione per Unterveger (Maroni 1973) o alla scoperta di un pittore fotografo come Attilio Brisighelli (Manzano et al. 1977), mentre si assisteva alle prime manifestazioni di interesse per un autore poi molto studiato come Giorgio Sommer (Van Deren Coke 1976; Miraglia et al. 1976).
[241] Piloni 1963, con una interessante introduzione in cui si ricostruiva la fortunosa scoperta dell’album, segnalato per la prima volta nel catalogo di vendita della Libreria Pregliasco di Torino del 1960 poi passato a privati, ragione per cui l’esemplare che venne riprodotto fu quello ritrovato, dopo molte ricerche, presso la Biblioteca Reale di Torino. Su Delessert in Sardegna si vedano anche N.V. [Nicola Vassallo], Edouard Delessert: Album della Sardegna, 1854. In Castelnuovo et al. 1980, 3, pp. 1359-1360; Maccioni 1982; Rombi 1997; Rombi 2002; Miraglia 2008.
[242] Becchetti et al. 1971.
[243] Si vedano rispettivamente Becchetti et al. 1975; Roma dei fotografi 1977.
[244] Nori et al. 1974. In Roma dei fotografi 1977 ad esempio il solo contributo strettamente fotografico era costituito dal testo di Piero Becchetti, I fotografi a Roma, pp. 41-53 e dalle schede da lui redatte.
[245] Avigdor et al. 1977. In Piemonte, in quegli stessi mesi si stava riflettendo sulla possibile sistemazione dei musei scientifici locali, in cui sarebbero dovuti entrare “come protagonisti della comunicazione i materiali della fotografia dell’800, che era stata determinante per l’analisi scientifica”, ma di quel progetto, che per Giulio Einaudi avrebbe dovuto coinvolgere gli spazi della Reggia di Venaria Reale, poi non si fece nulla, cfr. Andreina Griseri, La fotografia in Piemonte e i Musei Scientifici, “Studi Piemontesi”, 6, (1977), n. 2, novembre, p. 137. Ancora al 1977 risaliva la mostra dedicata agli studi fotografici Cicala e Chiolini (Ragazzon 1977), mentre ebbe minore risonanza, forse per la specificità del tema, lo studio monografico sulla storia della fotografia di montagna nel Trentino firmato dai fratelli Pedrotti, i più importanti e noti fotografi di cultura modernista attivi in regione, cfr. Pedrotti et al. 1973. Di poco successivo fu poi il Primo dizionario dei fotografi di montagna, compilato da Giuseppe Garimoldi e Angelo Schwarz, Garimoldi et al. 1976.
[246] Picone Petrusa 1981, p. 52 nota 11.
[247] “Per i dati tecnici sono di grande utilità i listini delle ditte distributrici di carte, lastre e materiali fotografici che possono essere di guida e orientamento nelle analisi chimiche per identificare i materiali per la stampa positiva, analisi assolutamente necessarie prima di qualsiasi intervento di pulitura, restauro o eventuale rinforzo [chimico] dei positivi.”, G. Avigdor, ‘Fotografi del Piemonte’: la ricerca. In Avigdor et al. 1977, p. 12.
[248] Ibidem.
[249] Cfr. Chiapatti 1973; in realtà in quella occasione Bertelli faceva propria una riflessione di Scianna (che curiosamente continuava a chiamare Leonardo, attribuendogli il nome del suo più illustre mentore: Sciascia), il quale dopo aver visto al SICOF le mostre di Tuminello, Cugnoni e Morpurgo “disse che in quelle mostre si rivelava una cosa fin qua insospettata, l’esistenza di una scuola italiana di fotografia, capace di proporre dei maestri importanti per la giovane fotografia italiana proprio perché quei fotografi avevano esplorato lo stesso paesaggio, le stesse facce, le stesse bestie, pietre, alberi e bambini.”, Lettera di Carlo Bertelli a Lanfranco Colombo, non datata ma post ottobre 1971, ICCD – Archivio storico, busta n.21 (1971-1974).
[250] M.A. Prolo, Alcune notizie sulla dagherrotipia a Torino. In Avigdor et al. 1977, pp. 13-16, con ampie citazioni di fonti a stampa. L’autrice aveva già pubblicato un primo Elenco di fotografi in Piemonte nel secolo XIX, (Prolo 1976b) e delineato un quadro dell’attività fotografica a Torino nei primi decenni del Novecento (Prolo 1976a), ma il primo contributo monografico era venuto da uno studioso di orientalistica come Angelo Michele Piemontese (1972) che aveva riscoperto l’album di Ricordi del Viaggio in Persia della Missione Italiana 1862 di Luigi Montabone; degli esiti di quelle ricerche aveva dato tempestiva notizia, addirittura anticipandone la pubblicazione, Wladimiro Settimelli, 1862. Luigi Montabone da Torino alla Persia sulla via della seta, “Fotografare novità”, 1 (1972), n. 7, luglio, pp. 34-37.
[251] R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo D’Andrade del Museo civico: appunti sulle cartelle piemontesi. In Avigdor et al. 1977, pp. 13-16. A quelle fotografie avrebbe fatto riferimento Miraglia discutendo alcune serie di immagini di Giuseppe Pagano, cfr. Marina Miraglia, Forme. In De Seta et al. 1979, pp. 132-154 (134). Sul Fondo D’Andrade e sulla figura del suo titolare si vedano ora: Cavanna 1981; Lucília Verdelho da Costa, Alfredo de Andrade: 1839- 1915: da pintura à invençâo do património. Lisboa: Vega, 1997; Paolo Marconi, Il Borgo medievale di Torino: Alfredo d’Andrade e il Borgo medievale in Italia. In Enrico Castelnuovo, Giuseppe Sergi, a cura di Arti e storia nel Medioevo, 4, Il Medioevo al passato e al presente, Torino: Einaudi, 2004, pp. 491-520.
[252] Miraglia 1980.
[253] Settimelli et al. 1977. La produzione Alinari era già stata oggetto di una prima mostra compresa nell’edizione del 1970 della Sezione culturale del SICOF, I Fratelli Alinari: un secolo più uno di fotografia, oggetto anche di uno speciale di “Popular Photography Italiana”, 14 (1970), n. 156, novembre, pp. 31-30, in cui le immagini facevano da corredo all’intervista a Nicola Gandini, “giovane direttore della società.” La grande mostra era stata voluta da Vittorio Cini per celebrare il 125° anniversario di fondazione dello stabilimento, ma già nel 1970 Lamberto Vitali aveva proposto alla Einaudi la realizzazione di un volume dedicato agli Alinari; il suggerimento venne accolto ma lo stesso Vitali ritenne necessario “prima di prendere un impegno (…) vedere e studiare a fondo il materiale d’archivio e fotografico”, dopo di che l’ipotesi non ebbe sviluppo alcuno, cfr. Lettera di Vitali a Giulio Bollati in data 10 dicembre 1970, AST. Archivio Einaudi, “Corrispondenza”, m. 220, fasc. 3094/2, c. 386. Il nuovo assetto proprietario e il grande successo della mostra determinarono negli anni successivi, a partire dal 1978, un capillare programma editoriale basato sul ricchissimo repertorio di immagini Alinari delle più note città e regioni italiane, con circa quaranta titoli, alcuni dei quali più volte riediti.
[254] In un efficace accordo di scambio la mostra Fotografi del Piemonte venne ospitata a Firenze, a Palazzo Pitti, nel settembre di quell’anno.
[255] Citato in Carlo Moriondo, Torino secondo le foto Alinari, “Stampa Sera”, 23 luglio 1977, p. 13, che da buon fotografo considerava rispettosamente discutibile quella scelta. Anche nella precedente esposizione fiorentina (Tempesti 1976) si era scelto di esporre ristampe attuali dalle lastre originali, per altro puntualmente descritte nella Nota editoriale, accanto alle riproduzioni di stampe originali provenienti dalle collezioni Corsini e Vitali allo scopo di darle degna collocazione nell’ambito delle manifestazioni celebrative de I Macchiaioli nella cultura toscana dell’Ottocento.
Non si era ancora formata, da noi almeno, se non in rari casi, una consapevolezza storica e filologica per la fotografia originale, per il valore in senso lato documentario della sua materialità di oggetto, privilegiando il contenuto puramente referenziale dell’immagine; una concezione che si sarebbe poi ritrovata anche nell’impostazione di “AFT”, il periodico dell’Archivio Fotografico Toscano di cui fu direttore lo stesso Tempesti. Ancora trent’anni dopo Massimo Ferretti avrebbe ricordato di essere stato uno di quelli che “non seppe apprezzare, né prima né dopo, la scelta di esporre in larga prevalenza ingrandimenti ristampati per l’occasione.”, Ferretti 2007 p. 12. Alcuni degli ingrandimenti realizzati in quell’occasione per la sezione dedicata a “La documentazione dell’arte” sono oggi conservati nel Fondo Supino del Dipartimento delle Arti Visive dell’Università di Bologna, a cui appartenevano parte degli originali riprodotti, cfr. Cinzia Frisoni, Rosaria Gioia, Giorgio Porcheddu, a cura di, Rilievo della consistenza e dello stato di conservazione dei fondi fotografici del Dipartimento delle Arti Visive, Università degli Studi di Bologna, febbraio luglio 2005. Bologna: Scuola dei Specializzazione in Storia dell’Arte, Soprintendenza PSAE Bologna, dattiloscritto, p. 67.
[256] Ciascuna sezione tematica era preceduta da una serie di note critiche che utilizzavano i cataloghi di vendita e i registri di commissione quali fonti per la ricostruzione delle modalità produttive dello Stabilimento.
[257] La mostra ebbe circa 600.000 visitatori nella sede fiorentina e 240.000 nella tappa torinese, con circa 100.000 copie del catalogo vendute nei soli mesi dell’esposizione, cfr. Tomassini 2012. Quale esito di una precisa strategia di comunicazione commerciale, altre immagini Alinari furono presentate quello stesso anno alla Sezione culturale del SICOF (Settimelli, Alinari ovvero l’illusione dell’immortalità), in una edizione, intitolata Contributi per una storia della fotografia italiana, che comprendeva altre mostre, per la cura di C. Bertelli, A. Zanolli, S. Massotti (Architettura e fotografia in Italia); Marina Miraglia (Dall’archivio Naya: Venezia com’era), Maurizio Rebuzzini (Storia della fotografia raccontata dagli apparecchi fotografici dal 1925 al 1977), Angelo Schwarz (Iginio Muzzani), Roberto Predali (Lorenzo Predali fotografo di provincia ) e Piero Racanicchi (Le alte montagne di Vittorio Sella ), riflettendo in un certo modo il doppio registro di interesse per le vicende storiche della fotografia italiana, tra autorialità e documentazione di costume, cfr. Colombo et al. 1977.
[258] Ferretti 1977, corsivo dell’autore.
[259] A questi aspetti tecnologici, e alle loro implicazioni linguistiche si riferiva in particolare il saggio di Alessandro Conti, Storia di una documentazione (In Settimelli et al. 1977, pp. 148-170), che coniugava competenza tecnologica e acribia critica, in modi che sarebbe stato difficile riscontare nella letteratura fotografica italiana di quegli anni.
[260] Arnaldo Salvestrini, Fernando Tempesti, Luigi Tomassini, Lorenza Trionfi Honorati.
[261] Il curatore precisava in catalogo come “gli inizi ai quali in questa sede ci rifacciamo non sono dunque quelli dei pionieri, ma quelli meno eroici e, volendo, più ‘positivistici’ e ‘mercenari’, della fotografia come artigianato e di lì a poco come industria, quali ci sono dati ricostruire attingendo per il grosso della documentazione dall’archivio Alinari (…) un materiale fotografico senza eroiche ambizioni” (Tempesti 1976, pp. 9-11), alle cui vicende era per buona parte dedicato lo scritto. Di fatto la mostra era il frutto dei lavori in corso per la grande esposizione Alinari dell’anno successivo.
[262] Carlo Brogi, Il ritratto in fotografia: appunti pratici per chi posa. Firenze: Salvadore Landi, 1895.
[263] Stefano Reggiani, Il mondo com’era, “Tuttolibri attualità”, 3 (1977), n. 34, 17 settembre, p. 5. Anche lo stesso Filippo Zevi aveva mostrato, meritoriamente, alcune perplessità sull’opera degli Alinari, rilevando che “certo i risultati sono talvolta diseguali. Spesso la città non è sentita, le fotografie risentono di una freddezza che, ad una attenta ricerca, si presenta spesso come parziale abbandono dei canoni.”, F. Zevi, Le altre città e il paesaggio italiano. In Settimelli et al. 1977, pp. 247-255 (250).
[264] Quei fotografi “che hanno formato la cultura ‘media’ di immagine che ha determinato poi il nostro modo di accostarci ad un edificio, ad un dipinto, ad una scultura.”, A.C. Quintavalle, La fotografia e i suoi modelli. In Cesare de Seta, a cura di, Quale storia dell’arte. Napoli: Guida Editori, 1977, pp. 59-70 (p. 63), ora In Id. 1983, pp. 333-338.
[265] Becchetti 1978; Italo Zannier, Presentazione. In Menapace 1981, pp. 9-12 (10), gli avrebbe riconosciuto di lì a poco il merito di aver “scavato nel marasma della nostra fotografia ottocentesca, per trarne una stupenda, nitida sinopia, sulla quale è ora possibile comporre organicamente uno studio storiografico.”
[266] “Il fotografo più significativo dell’antica fotografia italiana” scriveva ad esempio a proposito di Gioacchino Altobelli (Becchetti 1978, p. 31).
[267] Per Becchetti (1978, p. 22) “se l’interesse per la fotografia è da noi oggi così vivo e se gli studi su di essa, sempre più numerosi, hanno consentito una più ampia conoscenza di quest’arte troppo trascurata, il merito dev’essere in parte attribuito allo scalpore suscitato anni or sono da una fotografia. Questa fotografia, di circa quattro metri di lunghezza, fu presa dall’alto del Gianicolo a completo giro d’orizzonte e rappresenta i luoghi dove più aspra infuriò la battaglia per la difesa di Roma del 1849.” Il riferimento era alla (presunta) “panoramica di Roma, ripresa da un fotografo ignoto nel 1848 [sic] dall’alto del Gianicolo mentre infuriava la battaglia per la difesa della Repubblica Romana [che] rappresenta, crediamo, la più sensazionale scoperta della storia della fotografia italiana.” (Red., “Popular Photography Italiana”, 1967, n. 119, giugno, pp. 17-19). L’immagine che, chissà per quale motivo, avrebbe rappresentato “il primo e più illustre esempio – fino ad oggi conosciuto – dell’applicazione del principio negativo/ positivo” (ibidem) era stata ritrovata nel maggio 1967 da Gilardi e Settimelli nei depositi del Museo del Risorgimento al Vittoriano, e venne esposta a Milano, quindi a Roma nel febbraio successivo, essendo in quell’occasione celebrata in un numero monografico della rivista “Capitolium” (43, 1967, n.3/4,); venne infine ripresa in “Imago – Proposte per una nuova immagine”, n. 11, Milano 1967 ma, nello spirito della rivista, trasformata dal grafico Enzo Belfanti in un gioco della tombola, riconducendola così involontariamente alla sua originaria natura grafico pittorica. Solo le ricerche e le minuziose analisi condotte da Alessandro Cartocci (1998) hanno poi consentito di comprendere come quelle undici lastre non fossero altro che riproduzioni della grande tela panoramica (120 x 14 metri) dedicata alla caduta della Repubblica Romana, realizzata dal pittore belga Léon Philippet, esposta per la prima volta nel 1883, che fu anche l’anno di realizzazione delle riprese, in un edificio apposito costruito al Foro Bonaparte di Milano e oggi perduta, mentre i dodici bozzetti preparatori sono conservati dalla municipalità di Seraing, in Belgio. Ancora nel 1976 Settimelli aveva sostenuto non solo la datazione al 1849 ma si era addentrato in una stupefacente analisi filologica, che lo portò a individuare ‘perfettamente’ il punto di ripresa ma anche “la tecnica [che] è quella fotopittorica. La gigantesca stampa è stata, cioè, ottenuta da un negativo di carta e si tratta quindi di una talbotipia. Poi il fotografo sconosciuto ha dipinto a mano gambe e braccia che, per la mancanza dell’otturatore all’apparecchio fotografico, sono venute mosse o non sono venute per niente.”, Settimelli 1976a, p. 38. Dopo quel primo clamoroso equivoco degli ‘scopritori’, anche l’analisi condotta da Becchetti nel volume che stiamo analizzando accoglieva senza riserve la tesi della precocissima ripresa di un teatro bellico, spostandone però la datazione al 1862 post, sulla base di riscontri documentari relativi allo stato dei referenti. Lamberto Vitali (forse nutrendo qualche sospetto) non ritenne invece di utilizzare quell’immagine per il suo saggio sull’iconografia fotografica risorgimentale (Vitali 1979), mentre Bertelli 1979a, t. 57 ne pubblicava una parte con una datazione al 1870 ca. Miraglia (1982, p. 303) condivise e ripropose la tesi della ripresa diretta, ma precisando che quella panoramica “animata da moltissime figure, frutto di un paziente intervento manuale sull’immagine meccanica” presupponeva “l’intervento di due autori oppure la paternità di un fotografo esperto anche di disegno e pittura”, che avrebbe aggiunto i personaggi e le scene all’originaria veduta. La prosecuzione dell’analisi la portava però ad avanzare una datazione al 1870 post di quella serie di “undici collodi (…) montati insieme, tranne l’ultimo, a due a due, con legatura in tela a mo’ di cinque cartelle”, offrendo cioè una descrizione delle caratteristiche tecniche dell’opera che avrebbe dovuto suscitare qualche perplessità, specialmente per quanto riguarda la possibilità più che la necessità di accoppiare con nastri di tela lastre di vetro di così grandi dimensioni, che tali sarebbero i collodi di cui parlava, trattandosi invece, e più coerentemente, di stampe all’albumina. Ulteriori, come dire, precisazioni e integrazioni storico critiche nella lettura di quella serie di immagini vennero poi fornite da Mormorio (1998, p. 50) a più di trent’anni di distanza dalla loro prima scoperta ed esposizione: per lo studioso romano “la veduta venne eseguita in due tempi diversi. Le prime quattro inquadrature (…) vennero eseguite subito dopo la caduta della Repubblica, in quanto mostrano, inequivocabili, i segni delle distruzioni avvenute durante i combattimenti. Le altre sette (…), come stanno a dirci diversi segni architettonici, furono invece riprese dopo il 20 settembre 1870 (…).” Questa interpretazione bizzarra, opportunamente sostenuta da un tono perentorio, non sembrava tener conto (tra molte altre cose) neppure delle specificità ontologiche e tecnologiche della fotografia e costituiva, in uno con gli altri casi sopra citati, un buon esempio di come sia indispensabile sempre, e forse ancor più per le fotografie, avere l’umiltà di misurarsi ogni volta con l’originale in tutte le sue componenti materiali e iconiche, di intrecciare i dati della ricerca storico archivistica (quando viene svolta) con la lettura iconografica e la comprensione materiale dell’opera che ci si presenta, provandosi almeno ad andare oltre il primo strato di queste superfici così sensibili. La lettura offerta da Mormorio venne immediatamente stigmatizzata da Alessandro Cartocci, Il Panorama di Roma nel 1849 di Léon Philippet: notizie su un dipinto perduto, un bozzetto ritrovato e un equivoco finalmente risolto. In Gori Sassoli 2000, pp. 242-255.
[268] A.S. [Angelo Schwarz], [Recensione], “Il Diaframma Fotografia Italiana”, (1980), n. 248, marzo, p.n.n.
[269] Becchetti 1978, p. 48. Analoga opinione venne espressa da Paolo Monti, riandando alla passione del padre Romeo: “Eppure una storia della fotografia italiana non potrà farsi senza lunghe ricerche fra i vecchi archivi dei dilettanti: vedremo allora che oltre agli Anderson e ai Brogi, ai fratelli Alinari, c’erano molti altri fotografi che hanno lasciato le loro nitide tracce.”, Paolo Monti, La scrittura della luce. In Fiory Ceccopieri et al. 1979, pp. 106-120 (117). Potrebbe risalire circa a quegli anni anche il piano di lavoro da lui redatto per una Storia della fotografia in Italia dal 1839 al 1939, non datato, verosimilmente da proporre alla casa editrice Electa, cfr. CAF. Archivio Monti, “Scritti di Monti, Dattiloscritti e manoscritti diversi”, busta 13, fasc. 15, pubblicato anche, ma senza segnatura archivistica, in: Roberta Valtorta, a cura di, Paolo Monti: scritti e appunti sulla fotografia. Milano: Lupetti, 2008, pp. 194-195. In questo breve schema progettuale Monti richiamava la necessità di considerare “tutte le categorie: dalla fotografia archeologica a quella di montagna, dalla foto di costume (…) alla foto di guerra”, prendendo in esame “sia le fotografie professionali che amatoriali. Queste ultime sono all’origine dell’attività fotografica in Italia”.
[270] Tra i membri del CIFe ricordiamo Cesare Colombo, Luigi Crocenzi, Ando Gilardi, Wladimiro Settimelli, Roberto Spampinato, Giuseppe Turroni. Il Centro Informazioni Ferrania costituiva uno dei principali elementi della strategia di comunicazione dell’impresa; nella sua sede di Corso Matteotti a Milano vi era una biblioteca specializzata ma anche spazi per mostre, convegni e incontri col pubblico, cfr. Roberto Spampinato, Corso Matteotti (e dintorni). In Colombo et al. 2004, pp. 268-273. Nella testimonianza di Gilardi 1976, pp. 355-356, “intorno al Muzi Falconi, un giovane socialista [di nobile famiglia] di notevoli capacità organizzative, si era formato un gruppo di altrettanto giovani ‘gauchistes’ della fotografia, due storici della medesima, Settimelli e Gilardi, notoriamente comunisti e non pochi fotografi militanti in partiti operai o comunque di sinistra, quali Cesare Colombo, Toni Nicolini e altri.” La vicenda del CIFe, finanziato dall’industria fotografica, “fu altresì esemplare della contraddizione fra cultura e promozione, la quale alla fine risulta insuperabile. L’attività del Centro fu troncata in piena fioritura: il tentativo di rinnovamento (…) venne portato avanti dalla rivista “Photo 13”, diretta in un primo momento dallo stesso Muzi Falconi, accanto a Roberta Clerici e Gilardi, “reduce da una lunga opposizione interna a Lanfranco Colombo nella redazione di “Popular Photography Italiana”, Colombo 2005, p. 45.
[271] Gilardi et al. 1967. Un’ulteriore edizione, filologicamente e storicamente aggiornata, curata da Roberto Mutti, è stata realizzata dalla Fondazione 3M in occasione delle celebrazioni per il centocinquantenario dell’Unità italiana.
[272] Diletta Zannelli, a cura di, Tra le carte di Antonio Arcari: fotografia, educazione visiva 1950- 1980. Milano: Lupetti, 2010. Ricordiamo che la Bozza di statuto della cooperativa prevedeva all’art. 3, oltre agli scopi editoriali, anche quello di “raccogliere e di mettere a disposizione anche di terzi fotografie d’archivio.” (CAF. Archivio Monti, “Fondo archivistico: Corrispondenza”, busta. 3, fasc. 14, f.1, s.d. [1965-1966]).
[273] Il nostro programma, CAF. Archivio Monti, “Fondo archivistico: Corrispondenza”, busta. 3, fasc. 14, non firmato, non datato ma certo redatto dopo la costituzione della cooperativa, il 14 aprile 1966.
[274] Bozza di statuto, cfr. supra Nota 272, f.6.
[275] Garra Agosta et al. 1970. Lo studio del rapporto tra verismo letterario siciliano e fotografia, avviato da Corrado di Blasi (1967) e nuovamente affrontato da Settimelli 1976c, venne in quegli anni proseguito in termini divulgativi da Francesco Carlo Crispolti, curatore del programma Letteratura e fotografia , in onda su RAI Uno nei giorni 24 novembre, 8 e 15 dicembre 1977, che a sua volta aveva contribuito alla prima valorizzazione delle fotografie dello scrittore, cfr. Crispolti et al. 1977. Nel 1969 un’altra rubrica televisiva, Un volto una storia, curata da Gian Paolo Cresci, aveva dedicato un servizio a Ghitta Carell.
[276] Bertelli 1979b, p. 91.
[277] Enzo Siciliano, Verga fotografa i suoi personaggi, “La Stampa”, 2 aprile 1971, citato in Settimelli 1976c, p. 26.
[278] Settimelli 1976c, p. 11.
[279] Colombo et al. 1969.
[280] Serrafero 1967.
[281] Più accurato in tal senso il contributo di Enzo Greco, Immagini per la scienza. In Colombo et al. 1969, pp. 128-133, che sintetizzava quanto presentato in Greco 1969, Greco et al. 1969.
[282] Vitali 1968. Da una lettera di Lucilla Negro a Vitali, si ricava che nelle intenzioni dell’editore Neri Pozza, a cui si doveva la prima ideazione di un volume monografico intitolato a Primoli, quello doveva essere un “Libro romano [sic], di vita romana visiva, più ‘spiritoso’ come tono, di quello che sia il Nuovo Album Romano (…) Uscita del volume nel 1966. Come era prevedibile ha posto con Pietrangeli la pregiudiziale di uscire in ogni caso prima di voi.”, Lettera in data Roma 7 dicembre 1964, AST. Archivio Einaudi, “Corrispondenza”, m. 220, fasc. 3094/2 c.293. Già nel novembre precedente Vitali, che stava lavorando a L’opera grafica di Giorgio Morandi. Torino: Einaudi, 1964, scriveva a Bollati: “Io, come al solito, sono sempre combattuto fra la voglia di fare questo libro e il timore di imbarcarvi in una impresa non redditizia o addirittura passiva. Certo si è che il formato dei Saggi [nella cui collana sarebbe poi stato pubblicato] non sarebbe assolutamente conveniente; se non volete adottare il formato dello Strand-Zavattini [ Un paese. Torino: Einaudi, 1955] si potrebbe studiare una via di mezzo.”, Lettera in data Milano 7 novembre 1964, AST. Archivio Einaudi, “Corrispondenza”, m. 220, fasc. 3094/2 c.291.
Il primo a dedicare uno specifico studio ai fratelli Primoli, e in particolare a Giuseppe, era stato Negro 1956b, che aveva portato l’attenzione su di una serie di stampe, “sufficienti a richiamare l’interesse del pubblico sull’opera sua ed a far riconoscere in lui un vero e geniale pioniere della fotografia cronistica e del reportage”. Un recensore segnalava anche come quel patrimonio fotografico fosse stato in parte distrutto (circa 10.000 lastre) per incuria e disinteresse del primo direttore della Fondazione, quindi recuperato per iniziativa di Achille Bertini Calosso, suo successore e Soprintendente ai Musei e Gallerie di Roma e del Lazio negli anni 1948 – 1952, deceduto nel 1955 “prima che quel tesoro [avesse] potuto essere compiutamente esplorato e conosciuto [mentre] le lastre per sua iniziativa recuperate non sono ancora state stampate.”, Corisanda, Il “Tesoro fotografico del Conte Primoli”, “Il Corriere Fotografico”, 53 (1956), n. 39 aprile, pp. 45-46. Certo in dipendenza della monografia di Vitali, e – crediamo – dell’intermediazione di Gernsheim – l’opera di Primoli fu immediatamente conosciuta e apprezzata anche all’estero; si veda a questo proposito l’ampia scheda a lui dedicata in Beaton et al. 1975, pp. 82-83, in cui si ricordava che “[he] depicted the high court life with an amateur’s camera but a most unusual eye”, per procedere poi a una sintetica ma puntuale analisi delle sue fotografie, in cui “doorways play a large part in the Count’s evocations. He gives an empty wall an air of mystery by the inclusion of a door. (…) Primoli photographed everything from disasters to beggars, circus artists to society. (…) Occasionally the Count allows himself an elaborate joke (…) but most of his shots are candid.”
[283] In realtà dopo la mostra romana del 1953 l’attenzione per Primoli non era mai venuta meno, anche se nella maggior parte dei casi espressa sotto forma di semplici citazioni, almeno sino a Negro 1956b e all’importante articolo di Piero Racanicchi per “Popular Photography Italiana” (ora in Racanicchi et al. 1963) che ne diede una prima lettura critica contribuendo alla conoscenza, anche al di fuori del ristretto ambito fotografico, di “questo bizzarro personaggio della Roma umbertina, che già conoscevamo per la vasta fama che gli venne dalla sua attività di mecenate svolta a favore dei letterati, [e che] ci ha sorpresi non poco presentandosi a noi nella veste inconsueta del fotografo appassionato, intelligente e prolifico.”, Giovanni Romano, [Presentazione]. In Racanicchi et al. 1963, p.n.n. Il grande ‘amateur’ fu anche il protagonista di un programma a cura di Francesco Carlo Crispolti, ed Ernesto Ferrero, Il conte Primoli, messo in onda da RAI Uno il 5 marzo 1969. Tra l’edizione del 1968 del saggio di Vitali e quella successiva, “riveduta e aumentata” del 1981, furono ben cinque i titoli, tutti di taglio memorialistico illustrativo: Palazzoli 1979; Crispolti F.C. 1980; Becchetti et al. 1981; Becchetti et al. 1982; Innamorati et al. 1982.
Altri titoli in cui compaiono sue fotografie sono registrati in http://www.fondazioneprimoli.it/Ar.Foto/bibliografia.htm [non accessibile 04 09 2018] a questo elenco va aggiunto il progetto, poi non realizzato, di un volume strenna sulla Venezia del conte Primoli. Fotografie 1889- 1902, messo a punto da Paolo Costantini nel 1987-1988, cfr. Serena 2003, p. 120. Sulla ricezione italiana e internazionale del volume di Vitali, molto ampia e favorevole sebbene piuttosto superficiale, si veda Russo 2011, pp. 208-209, ma devono essere ricordate anche le riserve di Gilardi 1976, p. 298, che liquidava Primoli come un semplice “scattista blasonato”, riconoscendo però in Vitali “uno dei migliori studiosi delle opere del conte”, e di Quintavalle, che si soffermava su questioni di metodo: “la pubblicazione di fotografie di archivi come quello del Conte Primoli, pure benemerita, non muove dall’analisi dell’insieme del corpus ma semplicemente da una scelta di immagini piacevoli, o importanti storicamente, oppure utili a livello di lettura di una civiltà, di una cultura del vivere, e dunque è costruita secondo quelle scelte ‘di gusto’, si sarebbe un tempo detto, che sono veramente problematiche.”, Quintavalle 1983 p. xl. Per il breve fenomeno dell’attenzione per la fotografia nobiliare cfr. infra Nota 290.
[284] Il qualificativo sembra rimandare alla stampa scandalistica e all’attività dei “paparazzi”, celebrati da Fellini ne La dolce vita, 1960.
[285] Gernsheim 1966, p. 164 la cui interpretazione del fenomeno coincideva sostanzialmente con quella di Newhall, per il quale “Many of these ‘true amateurs’ produced outstanding photographs. They worked for their own satisfaction and did not regularly exhibit their pictures nor publish them to any extent; only recently have we discovered them.”, Beaumont Newhall, The History of Photography: from 1839 to the present day; revised and enlarged edition. New York: The Museum of Modern Art, 1978 (1964), p. 94. La mancata citazione di Primoli tra questi amateurs era dovuta, come ebbe a dichiarare lo studioso, al fatto che il suo lavoro (così come quello di Bragaglia) gli era del tutto sconosciuto prima della lettura degli articoli di Piero Racanicchi pubblicati in “Popular Photography Italiana”, cfr. B. Newhall, Prefazione. In Racanicchi et al. 1963, p.n.n.
[286] Citato in Jean-Luc Nancy, La nascita dei seni. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2007, p. 91.
[287] Vitali 1968, p. 26. Su queste valutazioni concordava anche Pier Paolo Preti che recensendo il volume in “Popular Photography italiana”, 13 (1969), n.136, gennaio, pp. 11-12, ne sottolineava “il nuovo modo di vedere e capire che anticipa soluzioni modernissime”. Per quanto sorprendente, l’analogia Primoli – Cartier Bresson non era inedita: “Ora è entrato sulla scena di Roma un fotografo di grande talento: quel Giuseppe Primoli, che per il taglio delle scene, l’incisività del tratto e l’originalità del momento luminoso non è indegno precursore di Cartier-Bresson”, dal risvolto di copertina, non firmato, di Negro 1964, mentre ancora nel 1979 Daniela Palazzoli avrebbe parlato di “ladro di immagini”. Anche John Phillips,uno dei primi fotoreporte di “Life”, avrebbe indicato Giuseppe Primoli come “precursore del reportage fotografico”, John Phillips, La mia storia di fotografo. In Testimone del secolo: John Phillips fotografie 1936- 1982, catalogo della mostra (Milano, Pinacoteca di Brera, 28 novembre 1986 – 11 gennaio 1987). Milano: Olivetti, 1986, pp. 13-25 (19).
[288] Bertelli 1979b, pp. 101-102, che invece stigmatizzava “la formula che racchiude il conte Gegé Primoli nella Bella Epoque [che era il titolo scelto da Daniela Palazzoli per la sua monografia appena pubblicata], benché carica di nostalgia per un momento felice della storia europea, [poiché] non ne riconosce tutta la grandezza.” (101). Notiamo qui che, per una clamorosa disattenzione, forse imputabile a una certa fretta redazionale, nelle didascalie e negli apparati del saggio di Bertelli al conte venne sistematicamente attribuito il nome di Giovanni.
[289] “Come tutti i veri fotografi, Primoli trova d’istinto le giuste inquadrature; lo confermano le prove qui riprodotte, alle quali di proposito non è stato apportato il benché minimo taglio” ribadiva Vitali 1968, p. 32, fornendo anche da questo punto di vista un autorevole esempio di correttezza metodologica, certo opposto a quanto praticato dall’amico Negro nel curare l’Album romano, sebbene invalesse ancora l’uso, oggi ove possibile abbandonato, di ristampare le lastre e non di pubblicare le stampe originali; un metodo che sarebbe stato adottato anche per il volume su Nadar.
[290] Amendola 1978; Chigi 1978. A proposito di queste iniziative così scriveva Lanfranco Colombo: “fotografo men che mediocre, il nobile uomo Chigi non rappresenta che sé stesso. Va bene l’erudizione ma perché esercitarla sui cascami quando resta tanto da fare?”, “Il Diaframma – Fotografia italiana”, 8 (1979) n. 244, dicembre, p. 16. Altri progetti analoghi non ebbero esito: nella riunione editoriale della casa editrice Einaudi del 12 luglio 1978 Giulio Bollati comunicava di aver ricevuto “una proposta di libro fotografico: sono fotografie fatte da un nobile veneto che ha ritratto amici, parenti, vita di campagna, la città … Sono belle, ma farei vedere il materiale a un esperto, per esempio Bertelli. Il proponente non lo conosciamo, si chiama Guido Lorenzon, e ci ha mandato il materiale dopo aver visto l’archivio Chigi.”, AST. Archivio Einaudi, “Riunioni editoriali”, m. 7/ter, fasc. 8, cc. 141-142).
[291] Castiglione 1980; Abita 1982; Fusco 1982b; Mormorio et al. 1982; Giarrizzo 1985; Falzone del Barbarò et al. 1987.
[292] Silvestri 1987. Il numero monografico di “AFT” sui Lorena si segnalava anche per un approssimativo trattamento descrittivo delle immagini pubblicate, quasi sempre in formato maggiore dell’originale, delle quali non erano sistematicamente indicate né la tipologia originaria (negativo, positivo) né la tecnica, rispetto alla quale si fornivano solo indicazioni relative al supporto dei negativi mentre per i positivi ci si riduceva alla pleonastica (in presenza di una riproduzione) indicazione “stampa”.
[293] Tra le scritture dedicate alla piccola nobiltà fotoamatoriale vanno segnalati i contributi di Gesualdo Bufalino a far data dall’introduzione del 1978 al libro Comiso ieri: Immagini di vita signorile e rurale, pubblicato da Sellerio, da cui nacque una mostra che costituiva a sua volta lo sviluppo di una precedente iniziativa espositiva (Bufalino 1977). Quel testo introduttivo suscitò la curiosità di Elvira Sellerio e di Sciascia, i quali riconoscendo le qualità di un possibile scrittore inedito, chiesero all’autore se per caso non conservasse nei suoi cassetti un romanzo, dando così avvio alla sua carriera letteraria. Il saggio incentrato sulle immagini di due notabili di Comiso, Gioacchino Iacono Caruso (amico di Bufalino) e Francesco Meli Ciarcià, ma anche di altri autori attivi a Ragusa e a Chiaramonte Gulfi come Carmelo Arezzo di Trifiletti e Corrado Melfi, conteneva affascinanti riflessioni sulla fotografia e su alcuni aspetti della sua storia: “La fotografia è a un tempo certificato di decesso e promessa di resurrezione; documento impassibile e fontana di lacrime esistenziali; ubbidisce al tempo e lo fulmina; sanziona una perdita e vi sostituisce un simulacro immortale”, Gesualdo Bufalino, Due fotografi a Comiso, cent’anni fa. In Bufalino 1992, pp. 25-26; a proposito dell’attenzione di Bufalino per la fotografia si veda anche Verdicchio 2011, pp. 54-66.
[294] Il Fondo Nunes Vais conservato presso l’ICCD è costituito da circa 20.000 fototipi; altre fotografie vennero donate nel 1988 all’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti”, del Gabinetto Viessieux di Firenze dai coniugi Giuseppe e Lionella Viterbo, per incarico dalla figlia del fotografo, Laura Weil Nunes Vais. Alcune centinai di immagini, tra le quali un interessante nucleo di nudi femminili, fanno parte delle RMFA – Archivio Nunes Vais, Firenze.
[295] Oreste Ferrari, Il valore di una donazione. In Vannucci 1975, pp. 11-12. La prefazione al volume, di taglio memorialistico, era firmata da Giovanni Spadolini, titolare del neonato Ministero per i Beni Culturali e Ambientali (D.L. 14 dicembre 1974, n. 657, convertito nella legge 29 gennaio 1975, n. 5). Il vagheggiato progetto si tradusse in un primo abbozzo concreto, poi non ulteriormente sviluppato, con la realizzazione presso l’ICCD, del Museo della fotografia (poi M.A.FO.S. – Museo/ Archivio di fotografia storica), nel 1996, cfr. Romano 1996.
[296] Carlo Bertelli intervistato da Angelo Schwarz (1978), ora in Schwarz 1983b, pp. 78-82. Verosimilmente un refuso a stampa impedì la corretta trascrizione di parte della risposta di Bertelli, che per mantenere un senso compiuto doveva essere stata così formulata: “dove la fotografia avrebbe avuto un posto diverso [da] quello documentario”.
[297] Si trattava evidentemente di Francesco Chigi (1881-1953) il cui archivio venne donato al GFN nel 1970, direttore Bertelli, dal figlio Mario: da qui lo scambio di nomi.
[298] Peyrefitte 1958.
[299] Von Gloeden 1964.
[300] Beaton et al. 1975. Quella fotografia, utilizzata anche per la copertina di Barthes 1978, è ora identificata come Giovani nudi su una terrazza panoramica, 1900 ca. In Zannier 2008b.
[301] Goffredo Parise, Nota introduttiva. In Falzone del Barbarò et al. 1980, pp. 3-4, in cui ricordava come fosse stato Giovanni Comisso a mostrargli per primo quelle fotografie, vent’anni prima. Il volume in cui compare lo scritto di Parise considerava solo immagini provenienti dalle collezioni di François Braunschweig, Parigi, e Nino Malambrì, Taormina. Si sarebbero dovuti attendere ancora molti anni per avere una lettura critica dichiaratamente omosessuale della produzione di Von Gloeden (Dall’Orto 1993), in un periodo che vide ulteriormente confermato il successo editoriale di questo autore (Janssen 1991, Albers 1993, Malambri 1998, Pohlmann 1998, Caputo et al. 2000, Weiermair et al. 2000, Maffioli 2001, Mormorio 2002). Un altro aspetto interessante del lavoro di Dall’Orto era rappresentato dalla questione dell’autenticità, a fronte delle numerose attribuzioni interessatamente false che circolavano all’epoca. Come ricordava nella Prefazione, (pp. 3-5) “I problemi che deve risolvere chi vuole proporre un nuovo libro di foto di Wilhelm von Gloeden (1856-1931) sono due: il primo è trovare foto autentiche, il secondo trovare foto inedite. Il primo nasce da una serie di circostanze, non ultima la disinvoltura con cui dopo gli anni Cinquanta (dopo cioè che Roger Peyrefitte rilanciò nel suo Eccentrici amori [1949] la figura ormai dimenticata del ‘Barone di Taormina’) chiunque possedesse foto di nudo d’inizio secolo le spacciava per opera di von Gloeden. Spesso laddove mancava la sua firma i collezionisti o i commercianti hanno trovato ‘simpatico’ aggiungerla, anche perché in questo modo il valore commerciale aumentava (…) Il problema è ulteriormente complicato dal fatto che Gloeden iniziò a fotografare a Napoli sotto la guida del cugino Wilhelm von Plüschow (1852-1930), e quando si trasferì a Taormina portò con sé foto in cui appaiono modelli e oggetti di von Plüschow. (…). Il lavoro di catalogazione e selezione ha riservato alcune sorprese. La prima è la scoperta del fatto che le distruzioni di negativi di Gloeden avvenute in epoca fascista, di cui si è tanto scritto in passato, potrebbero non avere inciso sulla sopravvivenza della sua produzione tanto quanto si era temuto. (…) Una seconda sorpresa emersa dal lavoro di catalogazione è stata una più giusta collocazione della produzione di nudo di Gloeden nell’ambito della sua più vasta produzione fotografica.” Osservazioni complessivamente interessanti ma che non esauriscono la questione della ‘parzialità’ nella restituzione della produzione di Gloeden, di cui si continuano a dimenticare le castissime Scene di vita e di lavoro ampiamente pubblicate ne “Il Progresso Fotografico” all’inizio del Novecento.
[302] Tra il 1977, quando il gallerista napoletano Lucio Amelio aveva acquistato da Pancrazio Buciunì l’archivio Von Gloeden, segnalando l’acquisizione con una mostra di ristampe da lastre originali, presentate da Miraglia 1977a, e lo scadere del decennio vennero pubblicati almeno sette titoli a lui dedicati. Il Fondo di proprietà Amelio è poi passato agli Alinari nel 1999, cfr. Monica Maffioli, L’Archivio von Gloeden conservato nelle Raccolte Museali Fratelli Alinari. In Zannier 2008b, pp. 173-177.
[303] Raffaello Delogu, a cura di, Mostra dei disegni, incisioni e pastelli di Francesco Paolo Michetti. Francavilla al Mare: Fondazione premio di pittura F. P. Michetti, 1966.
[304] Bertelli 1979b, p 102-106 (103). Tutto il paragrafo era teso a restituire “il senso di un recupero che è bene ricondurre ai suoi limiti storici, prima di farne un testo esemplare per la storia della fotografia in Italia”, avanzando interpretazioni e ipotesi che si discostavano in parte da Miraglia 1975.
[305] Bertelli 2001. A quell’epoca “nessuno dei due [Bertelli e Delogu] sapeva, come appresi molto tempo dopo, che delle fotografie di Michetti si era già occupato Franco Russoli”, allora soprintendente di Brera (Bertelli 1979b, p. 103). Di tale contributo non vi è memoria neppure in Miraglia 1975.
[306] Giuseppe Turroni, Michetti a Brera, “Popular Photography italiana”, 13 (1969), n.137, febbraio, p. 11. La mostra venne segnalata anche nel corso della trasmissione televisiva L’Approdo, con due interventi di Carlo Bertelli e di Marco Valsecchi e in un successivo servizo di F.C. Crispolti su Michetti fotografo ma, come avrebbe poi lamentato lo studioso, “l’unico telespettatore che ha scritto all’Ufficio Opinioni della Rai per notizie sul mio servizio (…) lo ha fatto per sapere il titolo del motivo popolare usato come colonna sonora.”, F.C. Crispolti, Cronache da Roma, “Popular Photography Italiana”, 14 (1970), n. 147, gennaio, p. 14.
[307] In quell’occasione Bertelli aveva “trasformato una presentazione di Michetti in un giornale di notizie, dove ‘Michetti nominato senatore’ appariva nei titoli di prima pagina come una novità di rilievo” (Bertelli 1979b, p. 103); fu quello stesso foglio ad essere inviato a Giulio Bollati, riprendendo faticosamente antichi contatti, per proporre alla Einaudi il lavoro su Ignazio Cugnoni (Porretta 1976), Lettera di Carlo Bertelli a Giulio Bollati, datata Roma, 3 settembre 1971, AST. Archivio Einaudi, “Corrispondenza”, m. 20, fasc. 291, c. 7.
[308] Dell’articolo, non citato in Miraglia 1975, che segnalava “il lavoro compiuto da Miraglia per indagare e valorizzare Michetti”, scriveva Pier Paolo Preti in una lettera a Bertelli del 14 dicembre 1971, ICCD – Archivio storico, busta n.19 (1970).
[309] Novembre 1971, significativamente non citato in Miraglia 1975.
[310] Lettera di Bertelli a Marina Cacciò, redattrice di “Photo 13”, datata Roma 31 dicembre 1971, ICCD – Archivio storico, busta n.19 (1970).
[311] Si veda la bibliografia citata in Miraglia 1975.
[312] Come si deduce da una breve nota editoriale in calce a Miraglia et al. 1976, il piano editoriale prevedeva anche un volume dedicato a Sommer curato da Miraglia e Porretta, poi non realizzato, di cui l’articolo in questione costituì l’unico esito.
[313] Dopo alcune considerazioni di carattere generale il capitolo forniva sinteticamente i dati catalografici del fondo (tipologia e quantità relative, soggetti, formati, apparecchi di ripresa). Tali indicazioni andavano lette in parallelo con quelle analitiche contenute nell’Elenco ragionato delle immagini pubblicate, di ciascuna delle quali l’autrice forniva, oltre al titolo e alla datazione topica e cronica, anche indicazioni a proposito del negativo, del positivo e gli eventuali rimandi interni o all’opera grafica e pittorica di Michetti.
[314] Aaron Scharf, Art and Photography. London: The Penguin Press, 1968 (ed. italiana Scharf 1979), alla quale si rimanda per una puntuale indicazione della bibliografia precedente sul tema. L’edizione originale di questo saggio, che non conteneva alcun cenno alle vicende del nostro Ottocento, era indicata come “di imminente pubblicazione” in Vitali 1968, p. 30, nota 2. Lo studioso aveva già affrontato alcuni di questi temi in Id., Painting, Photography and the Image of Movement, “The Burlington Magazine”, 104 (1962), n. 710, May, pp. 186-195; Id., Creative Photography. London – New York: Studio Vista – Reinhold Publishing, 1965; Id., Futurism: States of Mind + States of Matter, “Studio”, 173 (1967), n. 899, May, pp. 244-249 e in A. Scharf, André Jammes, Le réalisme de la photographie et la réaction des peintres, “Art de France”, (1964), n.6, pp. 174-189. Ricordiamo che l’uso della fotografia da parte dei pittori europei e americani venne in quegli anni sviluppato in alcune tesi di dottorato statunitensi, cfr. Frank Van Deren Coke, The painter and the photograph. Albuquerque: University of New Mexico Press, 1964, p. 305.
[315] Carluccio et al. 1973, cfr. infra nel testo.
[316] La citazione di alcuni esempi credo possa contribuire a far meglio comprendere i limiti di quel sistema di conoscenze: mi riferisco al concetto di “sperimentazione” adottato a proposito del ricorso da parte di Michetti alle diverse tecniche di stampa fotomeccanica, dalla fototipia alla zincografia allora comunemente utilizzate (32-33) oppure alla improbabile descrizione di un presunto “effetto soft, già tipico della calotipia [che] si accresce enormemente con i negativi su vetro, per l’effetto rifrangente dello spessore della lastra, capace di aumentare in maniera macroscopica il potere corrodente della luce.” (27).
[317] Secondo Porretta 1976, p. 9, il fondo venne acquisito nel 1932-1938 per iniziativa del direttore Luigi Serra ma le ricerche successive hanno dimostrato che si trattò di un acquisto in data 23 maggio 1914, direttore Giovanni Gargiolli, dietro segnalazione di Corrado Ricci, cfr. Cestelli Guidi 2015.
[318] Porretta 1976, p. 20.
[319] Il primo a segnalare che “pur non escludendo l’attività del dilettante Cugnoni, che potrebbe essere rappresentato solo marginalmente in questo fondo, l’insieme deve considerarsi eseguito da più professionisti”, avanzando quindi i nomi di Belli e Simelli, fu Becchetti 1983a. Nella stessa sede (pp. 17-18) lo studioso ebbe inoltre modo di precisare che il “nucleo più antico e forse più bello” del Fondo Tuminello, studiato da Porretta 1977, era da attribuirsi a Giacomo Caneva sia sulla base di riscontri oggettivi sia perché molte delle calotipie di soggetto romano ivi conservate risultavano eseguite negli anni in cui Tuminello fu costretto all’esilio in conseguenza della sua adesione alla Repubblica Romana. Con una considerazione che si adattava perfettamente a entrambi i casi, e che vale ancora oggi come avvertenza di metodo, Becchetti ricordava infine che “gli archivi fotografici sono spesso passati di mano in mano”, ragione per cui può non essere sufficiente, anzi a volte è fuorviante, far corrispondere senza altre verifiche responsabilità collezionistica e autoriale. Alcune riserve sull’operazione editoriale condotta su Cugnoni furono espresse anche da Angelo Schwarz, per il quale “qualche perplessità sorge in noi nel considerare che a Cugnoni è dedicato tutto un fotolibro. Se un’impresa come questa testimonia una lodevole attenzione, uno sforzo editoriale egregio, vista la carenza di materiali per una storia della fotografia in Italia, è un fatto che certe attenzioni e certe esigenze forse si potrebbero sfruttare più proficuamente, come è il caso della collezioni Cugnoni, per esempio, dedicata a più autori di un certo periodo e attivi in un certo contesto.” A. Schwarz, [Recensione], “Il Diaframma Fotografia Italiana”, 5 (1976), n. 217, agosto, p. 7. Per una convincente analisi del Fondo Cugnoni, ora opportunamente assegnato a Valeriano e non a Ignazio quale soggetto produttore si veda Cestelli Guidi 2015.
[320] Adhémar et al. 1955.
[321] Ragghianti 1958; Ragghianti 1959.
[322] Racanicchi 1963, che riprendeva alcuni temi già affrontati in Ragghianti 1959. Altre riflessioni sui rapporti tra pittura e fotografia vennero esposte da Racanicchi in La figura umana nell’arte figurativa e nella fotografia: considerazioni, introduzione al catalogo della II Mostra nazionale di fotografia La figura umana, Bergamo, 20/31 ottobre 1963, ora in Colombo 2003, pp. 15-24. La produzione fotografica futurista venne poi discussa anche in Verdone 1965; Crispolti 1969; Crispolti 1972, oltre che nei saggi a corredo di Bragaglia 1970.
[323] Astaldi 1967. Vanno qui segnalati almeno quello di Mario Praz, Pittura di ritratto e fotografia, ivi, pp. 18-24, che pur in un contesto più ampio relativo alla questione della somiglianza (o della oggettività) richiamava alcuni confronti ottocenteschi tra Europa e Stati Uniti, traendoli in parte da Recht 1931, riconoscendo come la fedeltà alla natura fosse “proprio l’ideale dei pittori Biedermeier e vittoriani poco prima dell’avvento della fotografia, sicché potrebbe dirsi che la nuova scoperta giunse proprio al momento giusto, quando la pittura s’era avviata a una resa meticolosa dei dettagli” (23), che era esattamente la tesi poi sviluppata da Peter Galassi con la mostra del 1981 al MoMA di New York (Galassi 1989). Anche Cesare Brandi, La fotografia come sia da considerare, ivi, pp. 25-32, si interrogava sulla natura del medium a partire dal riconoscimento del “ricorso esplicito che una notevole parte della pittura contemporanea fa (…) alla fotografia, usandola scopertamente come un inserto, e non già, come fu ai suoi inizi, come un mezzo preparatorio per desumere e fissare un’impressione colta sulla realtà esterna.” Riflettendo sulle reciproche e comuni influenze così come sul rapporto con la realtà, lo studioso riconosceva che “il transito da fotografia a pittura o la preminenza di pittura su fotografia o viceversa, diventa assai più difficile ad essere affermato in modo unidirezionale. Diventa chiaro allora che tanto per la fotografia che per la pittura si tratta di un passaggio obbligato, di un’estrazione dal flusso della realtà esistenziale, estrazione a cui si ferma la fotografia, oltre cui procede la pittura.” (26) Questa chiusa quasi baudeleriana non toglieva però interesse alle analisi brandiane e specialmente alle sue considerazioni finali: “La storia della fotografia, che pareva potersi scrivere in margine a quella della pittura, si rivela come la fonte più autentica per arrivare a capire la trasformazione che si è operata nel campo delle arti. (…) Senza l’insorgere del nuovo modo di porsi in relazione con l’oggetto, iniziato dalla fotografia, il naturalismo ottocentesco non avrebbe oltrepassato la verifica dell’oggetto sulla natura (…). La possibilità di impadronirsi dell’oggetto nello stesso flusso esistenziale fu offerta e esemplata solo dalla fotografia.” (31) Nello stesso fascicolo segnaliamo anche il breve saggio di Mario Verdone che sintetizzava alcuni temi già affrontati in Verdone 1965.
[324] André Vigneau, Une brève histoire de l’art de Niepce à nos jours; prefazione di Jean Cassou. Paris: Robert Laffont, 1963; Beaumont Newhall, The photographic revolution in the visual arts. (Second Bertram Cox memorial lecture), “Photographic Journal”, 103 (1963), n.9, September, pp. 245-260; Van Deren Coke, The painter and the photograph, citato; Otto Stelzer, Kunst und Photographie: Kontakte, Einflusse, Wirkungen. München: Piper, 1966, mai tradotti in Italia. Il volume di Vigneau era noto da noi per le interessanti considerazioni svolte dal filosofo cattolico Étienne Gilson, Fotografia e bellezza. In Astaldi 1967, pp. 41-56.
[325] Scharf 1979.
[326] Lettera di Fossati a Vitali datata Torino 31 gennaio 1969, AST. Archivio Einaudi, “Corrispondenza”, m. 220, fasc. 3094/2, c. 368.
[327] Schmoll et al. 1970.
[328] Daniela Palazzoli, storica dell’arte e critica militante, figlia di Peppino, imprenditore e grande collezionista, che nel 1957 aveva aperto a Milano la Galleria Blu, con una programmazione particolarmente attenta alla produzione contemporanea (Burri, Dubuffet, Fontana, Hartung, Klein e Vedova, tra gli altri) e delle avanguardie storiche. Lei era stata a sua volta titolare della Galleria 291 nel 1973-1974, collaborando poi con lo Studio Palazzoli, aperto sempre a Milano, dal fratello Luca. Già l’anno precedente la studiosa aveva inaugurato una “rubrica sui rapporti arte e fotografia” sulle pagine del periodico diretto da Lanfranco Colombo, cfr. Daniela Palazzoli, Ray- grafia di una artista, “Popular Photography Italiana”, 13 (1969), n.140, maggio, pp. 44-45, a cui aveva fatto seguito un numero sostanzialmente monografico dello stesso periodico (1970, n. 152, giugno) intitolato Ottica Immaginazione Arte Fotografia, ancora curato da Palazzoli che nel proprio intervento introduttivo (p.n.n.) lo giustificava soprattutto in termini di suggerimento di nuovi soggetti per un pubblico di fotoamatori a cui il professionismo aveva sottratto “tutti i campi di più o meno facile consumo. (…) Da queste considerazioni è nato questo numero il cui messaggio è: se non sapete cosa fotografare, inventatelo. (…) è quello che hanno fatto questi quattro fotografi, quasi pionieri in questo campo in Italia”, che rispondevano ai nomi di Ugo Mulas, Franco Vaccari, Piero Berengo Gardin e Claudio Abate.
[329] La tavola rotonda, svoltasi al Palazzo dell’Arte di Milano il 22 novembre 1970, apriva il Secondo incontro nazionale di fotografia organizzato dal SICOF.
[330] Gillo Dorfles, Visualisti contestati, “Corriere della Sera”, 29 novembre 1970, ora in “Popular Photography Italiana”, 15 (1971), n. 158, gennaio, p. 8. Ricordiamo che per lo studioso la stessa fotografia alle sue origini venne considerata un’arte prima di assumere il valore di documento, cfr. Dorfles 1958, p. 436.
[331] Giorgina Bertolino, Intervista a Daniela Palazzoli. In Gregorio Mazzonis, Mario Verdun di Cantogno, a cura di, Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea: Quarantanni. Torino: Fondazione Torino Musei, 2008, pp. 139-153 (143). Una più dettagliata serie di informazioni è contenuta nell’ulteriore contributo allo stesso volume di Bertolino, Nota: Le interviste all’incrocio dei documenti dell’Archivio dei Musei Civici di Torino, ivi, pp. 172-181. Palazzoli aveva già consuetudine con Carluccio critico d’arte e consulente di ATAC, presieduta da Marella Agnelli, in quanto buon amico del padre.
[332] Carluccio et al. 1973. L’ipotesi di una rivalità, se non proprio di un “combattimento” caratterizzava in quegli anni molte delle interpretazioni offerte dalla storiografia fotografica, ma, vista retrospettivamente, risulta essere non solo un portato tardo della categoria modernista di specifico ma anche viziata da una ancora insufficiente conoscenza storica del fenomeno: non solo del costante e sistematico ricorso degli artisti alla fotografia (di cui erano ben consapevoli i più avveduti storici dell’arte del XIX secolo) ma anche dei rapporti, sempre complessi e sfumati, tra denotazione documentaria e connotazione espressiva, con quanto ne derivava in termini di funzioni socialmente svolte, e quindi anche di rapporti tra le arti.
[333] A testimonianza della sua diffusione e fortuna, specie in testi di carattere divulgativo, ricordiamo che ancora a quasi trent’anni di distanza, ad esempio, Marra 1999 sentiva la necessità di richiamare quella formulazione nel sottotitolo del suo saggio (Una storia senza combattimento).
[334] Le oscillazioni nella scelta erano tali che ancora il mese precedente Daniela Palazzoli, presentando l’iniziativa sulle pagine di “Bolaffi Arte”, indicava il più brutale Lotta per un’immagine: pittura e fotografia come titolo della mostra che “ricostruisce nelle sue fasi essenziali le immagini della lotta ingaggiatasi fra due tecniche di rappresentazione della realtà esteriore, a partire dallo stesso linguaggio: la prospettiva”; aggiungeva inoltre che l’esposizione costituiva “un fatto nuovo (…) per la complessità del tema mai affrontato sinora globalmente”, dimenticando di aggiungere, per evidenti ragioni promozionali, che tale affermazione era valida solo se riferita all’Italia, cfr. Palazzoli 1973, p. 42.
[335] In Carluccio et al. 1973, pp.n.n. La strenua volontà di dialogo portò però i curatori a non insistere troppo sulle differenti tecniche utilizzate per la realizzazione delle singole opere, così mentre per i dipinti e la grafica queste erano esaustivamente descritte, per l’altro schieramento in battaglia venne usato quasi esclusivamente il pleonastico termine di “fotografia”, eventualmente declinato al plurale, sebbene poi quelle dei Bragaglia fossero indicate come “fotodinamica” e “fotogrammi” quelli di Veronesi, ma non le analoghe produzioni di Moholy-Nagy e Man Ray.
[336] Russo 2011 , pp. 237-241. Ad ulteriore conferma e testimonianza della incommensurabile distanza nella strumentazione critica ed ermeneutica che separava il fronte artistico da quello fotografico ricordiamo che solo pochi anni più tardi un critico fotografico sensibile come Antonio Arcari avrebbe parlato di “felice titolo di una grande mostra del 1973”, (Recensione a Miraglia 1975, “Il Diaframma Fotografia Italiana”, 5 (1976), n. 213, aprile, p. 9), opinione condivisa, ormai fuori tempo massimo si direbbe, anche da Marra 1999, p. 7 che la riconobbe come “la prima grande mostra con la quale, nel nostro paese, si cercava di fare il punto sui rapporti, gli scambi, le reciproche implicazioni e influenze che dall’invenzione della fotografia in avanti, si erano appunto avute fra questo mezzo e la pittura. Un’iniziativa altamente meritoria, non c’è dubbio, capace tra l’altro di valicare per risonanza i limitanti confini nazionali, meritevole dal punto di vista storico perché con essa si cominciava a riempire un vuoto pressoché totale di studi sulla materia”, evidentemente non essendo a conoscenza di quanto accadeva al di fuori dei nostri confini. Anche Miraglia 2001, p. 121, avrebbe definito Combattimento come la mostra “che, con acume critico, per prima focalizzò nel momento giusto (1973) la nuova problematica dei rapporti arte-fotografia in epoca postmoderna”, mostrando di non tener conto dell’ampio dibattito critico che si era svolto proprio in ambito torinese e neppure della discutibile analisi storico critica riservata all’opera dell’amatissimo Michetti; per Luigi Carluccio (1973, p.n.n.) infatti “le opere di Francesco Paolo Michetti, per fare un esempio italiano, che è vistoso ma non spregevole, sono state minuziosamente elaborate, nella loro struttura figurativa portante come nei particolari, con l’aiuto della fotografia.”
[337] Lettera di Fossati a Bertelli datata Torino, 5 maggio 1972, ICCD – Archivio Storico, fald. 19 a proposito della pubblicazione di Freund 1976.
[338] La recensione di Paolo Fossati, pubblicata in “Paragone arte”, 24 (1973), n. 285, novembre pp. 116-121, è ora compresa in Gianni Contessi, Miriam Panzeri, a cura di, Paolo Fossati: la passione del critico. Scritti scelti sulle arti e la cultura del Novecento. Milano: Bruno Mondadori, 2009, pp. 38-42 (39). Anche il giudizio di Lamberto Vitali dovette essere negativo se nella seconda edizione del volume su Primoli (1981, pp. 30-31, nota 3) non ne faceva cenno, mentre invece ricordava la mostra di Zurigo curata da Erika Billeter.
[339] Cfr. Chiapatti 1973, p. 42. In realtà la vis polemica fu in quel caso specifico mal indirizzata, poiché nella riproduzione in catalogo la paternità al Gabinetto Fotografico Nazionale era precisamente indicata, anche se la sintassi e la datazione potevano indurre in equivoco, cfr. Carluccio et al. 1973, p.n.n. Alcuni anni più tardi Bertelli (Bertelli et al. 1989, p. 21), forse desideroso di esprimere cortesie per gli ospiti, avrebbe però ribaltato quel giudizio asserendo che la cultura fotografica torinese era stata “rianimata (…) dalla mostra Conflitto [sic] per un’immagine, dedicata da Carluccio ai rapporti fra arte e fotografia”.
[340] A.C. Quintavalle, Foto/grafia, “Il Fotografo”, agosto settembre 1977, ora In Id. 1983, pp. 324-332 (329). Lo stesso testo, con la correzione di alcuni rilevanti refusi e l’eliminazione dei brevi paragrafi su altri autori (Schifano, Mattioli, Vaccari, Cresci, Guerzoni, Di Bello, Vimercati, Chiaramonte) venne utilizzato per la presentazione di Luigi Ghirri alla mostra FotoGRAFIA alla Galleria Rondanini di Roma del 1977, ora In Id. 1983, pp. 438-444.
[341] Piergiorgio Dragone, Arte e fotografia, “Il Diaframma – Fotografia italiana”, n. 249 (1980), aprile-maggio, consultato in estratto.
[342] Zannier 1969.
[343] Fascismo 1952; Caporilli 1961. Per ulteriori indicazioni sull’uso storiografico delle immagini da parte di autori prossimi od organici alla cultura di destra si veda Mignemi 1995, pp. 23-27.
[344] Recensione a Laura 1973, siglata B., “Il Diaframma – Fotografia italiana”, 3 (1974), n.193, giugno-luglio, p. 8. Quale fosse allora il disinteresse storiografico per il tema del fascismo e del suo uso delle immagini è ben testimoniato dall’opera di Renzo de Felice che nel corso di lunghi anni di studio riuscì a “compilare (…) più di 5.600 pagine di biografia di un personaggio contemporaneo [Mussolini], la cui esistenza fu dominata e caratterizzata dalla immagine fotografica e cinematografica, senza dedicare alla questione una sola riga.”, Adolfo Mignemi, La fotografia come fonte: i suoi criteri di edizione: l’esperienza degli Istituti storici della Resistenza. In Lusini 1996a, pp. 113-118 (113).
[345] UFO 1974.
[346] Crocenzi et al. 1976. La ricerca era stata condotta nell’ambito del Centro per la cultura nella fotografia (cfr. supra Nota 99) di cui Ricci faceva parte.
[347] Il tema scelto per quell’anno fu Momenti ed aspetti della fotografia italiana – Contributi, con mostre dedicate a Lodovico Pachò; 1955: L’occupazione delle terre; Tripoli bel suol d’amore; 1922/1943; Il pianeta dei fotoamatori; La stampa specializzata. La proposta di Zannier costituì un modello pionieristico di attenzione per il tema ma ebbe scarsa influenza sull’operato degli storici contemporaneisti che negli anni immediatamente successivi affrontarono analoghi temi. Si pensi alla Storia fotografica del fascismo (De Felice et al. 1982) o alla Storia fotografica dell’Impero fascista (Goglia 1985), “opere di indubbio carattere pionieristico [che] sottraevano l’immagine fotografica alla funzione decorativo-giornalistica a cui era stata ‘costretta’ nelle numerose opere a fascicoli, di carattere scientifico divulgativo, affermatesi a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta. Dal punto di vista della valorizzazione documentaria della fotografia esse erano tuttavia decisamente carenti fornendo al più indicazioni sommarie sulla produzione dell’immagine, assai scarse sulla reperibilità archivistica delle stesse, nulle sulle modalità di riproduzione dell’opera” (Mignemi 2003, p. 198 nota 18), per non dire del piano specifico della lettura dell’immagine. Si vedano anche i duri rilievi critici avanzati da Raffaele Messina (1987) nella sua recensione a Goglia 1985.
[348] Franco Solmi, Presentazione. In Solmi et al. 1975. Di poco precedenti erano state le prime attenzioni critiche per alcuni autori che avevano costruito la propria fama a partire dal quel periodo, come Ghitta Carell (Gilardi et al. 1970) ed Elio Luxardo (Turroni 1972), mentre nel 1974 Zannier e Roberto Salbitani avevano ricordato Ferruccio Leiss per il circolo fotografico La Gondola di Venezia a pochi anni dalla sua scomparsa (1968).
[349] Zannier 1975.
[350] Zannier 1966, ora in Veronesi 1975a, pp. 49-53. Ricordo che dall’anno precedente Veronesi e Zannier insegnavano al Corso Superiore di Disegno Industriale e Comunicazione Visiva nella sede di Venezia, dove si formarono tra gli altri Diego Birelli, Mario Cresci, Guido Guidi, Luigi Ricci.
[351] Maurizio Fagiolo dell’Arco, Avvertenza. In Fossati 1970, p.n.n. Nella stessa sede Fossati forniva un’interpretazione in parte differente distinguendo tra un interesse generico “verso tutte le tecniche dell’immagine” e quello proprio di Veronesi, “verso la complessità di un’immagine che ha le sue tecniche di linguaggio plurime e sfalsate”; un autore che si confrontava con “la difficoltà stessa a riconoscere [la realtà] al di là del suo gioco di approssimazioni con altre realtà, al di là delle attese e della sua ovvia finzione, del suo gioco di parvenza e illusione.” (55).
[352] Paolo Fossati, Per Veronesi ‘fotografo’. In Veronesi 1975a, pp. 11-31 (11-12).
[353] L’adesione di Veronesi, per molti versi anomala nonostante la sua presenza redazionale a “Ferrania”, che di quel gruppo fu portavoce, non è stata affrontata criticamente neppure in Forme di luce: il gruppo “La Bussola” e aspetti della fotografia italiana del dopoguerra; catalogo della mostra (Firenze, Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, settembre-novembre 1997) a cura di Italo Zannier, Susanna Weber, collaborazione di Daniela Cammilli. Firenze: Alinari, 1977.
[354] Si veda anche il lavoro critico condotto su Antonio Boggeri (Fossati et al. 1974): certamente ne venne chiarito il fondamentale ruolo innovativo nei confronti della progettazione grafica nella moderna comunicazione industriale italiana, prima disgiunta tra cartellonistica e tipografia, con richiami non secondari anche all’interesse specifico per la fotografia, da lui stesso testimoniato, ma senza fare neppure un cenno, o pubblicare un solo esempio delle numerose realizzazioni grafiche per il regime, quali le belle tavole per “La Rivista illustrata del Popolo d’Italia”.
[355] Campari 1976. Un breve portfolio di immagini di questo autore venne presentato anche da A. C. Quintavalle, Milano 1927- 1960 di Bruno Stefani. In Enciclopedia 1979, 3, F-M, pp. 1327-1333.
[356] A.C. Quintavalle, Il sistema dei generi fotografici e Dorothea Lange, in Id., a cura di, Dotothea Lange, catalogo della mostra. Parma: Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Parma, 1972, ora In Id. 1983, pp. 139-147.
[357] L’imponente documentazione del patrimonio artistico realizzata da Villani era stata precocissimo oggetto di un intervento di Andrea Emiliani, che nella seconda metà degli anni Cinquanta aveva lavorato “alla redazione e alla ovvia classificazione di un catalogo generale e specifico dell’archivio fotografico Villani, consultabile per ‘Autori’ e, a proseguire, predisposto anche per una ricerca per ‘Luoghi’ e per ‘Soggetti’ (…) allo scopo di rimpinguare le [sue] sempre esauste finanze di salariato.”, A. Emiliani, L’apparizione della fotografia come servizio pubblico e conoscenza tecnico- scientifica del patrimonio artistico. In Giudici et al. 2010, pp. 60-67 (64). Quel catalogo, con successivi aggiornamenti, venne poi pubblicato in Bondoni 1981.
[358] Quintavalle 1980, p. XX, corsivo dell’autore. Un portfolio di immagini dello Studio Villani venne pubblicato anche in Id., L’industria dell’archeologia 1948- 1954. In Enciclopedia 1979, 3, pp. 1101-1114. Si veda ora Menzani et al. 2014.
[359] Il desiderio totalizzante di individuare modelli ‘alti’ e (forse) non ideologicamente compromessi si manifestava anche nelle schede critiche anteposte da Paolo Barbaro ai diversi lavori dello studio, per altri versi esemplari: così presentando i pannelli prodotti per la Mostra di Agricoltura del 1935 si individuavano i riferimenti alla “grafica costruttivista e [alla] pratica Bauhaus del fotomontaggio” (105) senza neppure richiamare l’antecedente costituito dalla Mostra del decennale della Rivoluzione Fascista del 1932 e successive (a proposito delle quali si veda Morello 2004), né sorte interpretativa migliore toccava alle riprese dedicate alle miniere sarde dell’ILVA (dal 1935), dove, per alcune muscolose figure di minatori era indicato quasi di sfuggita un sin troppo ovvio riferimento alla statuaria “del Foro Imperiale” [Italico] appena realizzata, dimenticando tutta la mistica del corpo atletico, uno dei topoi della fotografia e della cinematografia di quegli anni, a cui faceva invece giustamente riferimento Roberta Valtorta, Studio Villani: immagini di committenza industriale alla “Pilotta” di Parma, “Progresso fotografico”, 88 (1981), n. 1, gennaio, p. 44. Queste diversioni apparivano talmente forti da far nascere il sospetto che “l’ipotesi che la fotografia dell’archivio, che l’archivio lungi dall’essere strumento della memoria, sia invece dell’oblio, della memorizzazione, della cancellazione delle tracce” (Quintavalle 1980, pp. XIII-XIV) si potesse adattare a volte anche alla scrittura critica.
[360] De Seta et al. 1979. Data la scarsità di stampe originali, in mostra vennero presentate ristampe in formato 30×30 realizzate da Roberto Bossaglia e Mimmo Jodice. Parte dell’Archivio Pagano (disegni e progetti, fotografie, corrispondenza) era stato consegnato dalle figlie alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano nel 1977 per passare, in modi poco chiari e tuttora discussi all’architetto Riccardo Mariani, mentre l’archivio fotografico su cui venne condotta la selezione per la mostra era ed è nella disponibilità di Cesare De Seta; la possibilità di studiare liberamente e approfonditamente l’Archivio Pagano è ancora oggi (2018) limitata dalla conservazione delle sua carte come delle sue fotografie in mani private.
[361] Cesare de Seta, Introduzione. In De Seta et al. 1979, pp. 5-12 (9).
[362] Maria Teresa Perone, Architettura contemporanea, ivi, pp. 32-41 (32). Se si può estendere il concetto sino a comprendere la ricognizione degli spazi costruiti, allora potevano rientrare tra le fotografie di architettura anche quelle realizzate nello studio di Felice Casorati e poi comprese in un album donato al pittore, magistralmente interpretate da Maria Mimita Lamberti (1985).
[363] Giuseppe Pagano, Un cacciatore d’immagini, “Cinema”, 2 (1938), dicembre, ora in De Seta et al. 1979, pp. 155-156.
[364] Federica di Castro, Il fascismo e la guerra, ivi, pp. 98-121.
[365] La genesi di questo volume è stata studiata da Valeria Iato, Vitali e la straordinaria trilogia einaudiana. In Paoli 2004d, pp. 41-47, ma va corretta l’opinione della studiosa quando, riferendosi al 1960 (p. 42), parlava di “un progetto o forse soltanto un’idea del libro di Nadar”. In realtà emerge dalla corrispondenza intercorsa con Giulio Bollati che i contatti con Juillard per procedere alla traduzione italiana del titolo su Nadar, che doveva uscire nella collana “Kiosque”, erano già molto avanzati nei primi mesi del 1961 e lo stesso Vitali aveva parlato “con il direttore di Camera [Romeo Martinez] molto accademicamente a proposito di Nadar e lui riteneva che un libro su Nadar dovrebbe avere le riproduzioni in seppia, il più possibile fedeli all’originale; infatti riprodurre una foto di Nadar in rotocalco, per esempio, è una vera eresia.”, Lettera di Vitali a Bollati, datata 17 maggio 1961, AST. Archivio Einaudi, “Corrispondenza”, m. 220, fasc. 3094/1, c. 207. L’edizione francese uscì però solo nel 1966: Jean Prinet, Antoinette Dilasser, Nadar, “Kiosque” 15. Paris: Armand Colin, 1966. Fu questo testo a costituire l’elemento portante del volume italiano assemblato da Vitali, che infatti non se ne attribuì la curatela, Nadar. Torino: Einaudi, 1973, pp. 13-121.
[366] “Quando lavorava al Nadar che uscì da Einaudi, era scontento perché le sole fotografie con didascalia non bastavano al suo gusto”, ha ricordato Roberto Cerati, Pensando a Lamberto. In Brera 2001, pp. 20-21. Già per l’edizione dei Diari di Delacroix Vitali aveva proposto di arricchire il testo con “una serie di ritratti fotografici dei principali personaggi citati, serie curiosa e veramente rara”, che raggiunse il totale di 52 nei tre volumi pubblicati nel 1954.
[367] Di cui aveva acquistato a Londra nel 1977 una serie di stereoscopie; “sarà questa la base – ha scritto il figlio – su cui lavorerà per organizzare il successivo volume sulla fotografia durante il Risorgimento.”, Enrico Vitali, La passione del fare. In Paoli 2004d, pp. 15-20 (20).
[368] Si veda ad esempio la sequenza narrativa della fuga di Felice Orsini, pubblicata anonima, il cui autore, il mantovano Amilcare Sangalli, era stato puntualmente individuato da Italo Zannier in occasione della grande mostra sulla Fotografia italiana dell’Ottocento (Miraglia et al. 1979a, p. 99, p. 176).
[369] Per queste ragioni risulta impossibile condividere l’opinione dell’anonimo recensore del volume in “RSCF”, 1 (1980), n.1, ottobre, p. 79, secondo il quale “Vitali dimostra come la precisione filologica e la dedizione artigianale possono fare da supporto a realizzazioni di qualità significativa.”
[370] Gilardi et al. 1967. Avvicinandosi il primo centenario dell’Unità d’Italia Gilardi aveva curato un numero sostanzialmente monografico di “Ferrania”, dedicato alle fotografie di argomento risorgimentale (Gilardi 1960), prestando un’importante e innovativa attenzione critica (passata sostanzialmente inosservata) per il fenomeno della ‘traduzione’ e conseguente diffusione degli originali fotografici con tecniche calcografiche o fotomeccaniche. Le ricerche condotte in quell’occasione costituirono a loro volta il punto di partenza per la realizzazione della mostra prodotta dal CIFe nel 1967 (Gilardi et al. 1967), avendo poi larga circolazione in Italia. La mostra era organizzata in nove sezioni: La battaglia del Gianicolo (panoramica); La battaglia del Gianicolo dopo [sic]; La fuga di Felice Orsini (“il primo fotoromanzo della storia”); 1859. Seconda Guerra d’Indipendenza; L’uomo legato alla sua immagine – la condizione del fotografo; La Battaglia di Palermo; I Mille e una macchina fotografica; I briganti e i killers [sic]; La breccia di Porta Pia. Per l’edizione torinese si veda il resoconto di Angelo Dragone, Le fotografie del Risorgimento in una singolare mostra a Torino, “La Stampa”, n. 228, 6 ottobre 1968, p. 3; l’iniziativa non era solo storico celebrativa ma intendeva anche sollecitare l’opinione pubblica a “salvare dalla distruzione o dalla dispersione materiale storicamente valido e costituire un archivio che ampiamente documenti il sorgere e l’affermarsi della fotografia nel nostro Paese”, ma la mostra venne realizzata con riproduzioni di immagini conservate al Museo Centrale del Risorgimento di Roma e presso la Raccolta Bertarelli di Milano.
[371] Come ricordato da molti, si trattava di “un materiale per lo più non ignoto a studiosi e divulgatori, che ne hanno fatto in passato oggetto di numerosi interventi, ma che viene qui per la prima volta, raccolto in un ‘corpus’ organico.”, Giorgio Avigdor, Le foto- verità del Risorgimento, “Tuttolibri” speciale, n. 24, 23 giugno 1979, p. 12, che così proseguiva: “È un omaggio al nostro Risorgimento giocato su una misura di scelte, di rapporti tra testi e immagini che si colora e si dispone nel segno di una partecipazione diretta. Non a caso Lamberto Vitali nella breve introduzione usa termini come ‘commovente’ e si augura di risvegliare con il suo lavoro nei lettori non solo interessi ma soprattutto ‘affetti’.” Nella stessa pagina era ospitato il breve stralcio di un’intervista allo stesso Vitali, il quale alla domanda su quali fossero stati i criteri progettuali dell’opera così rispondeva: “Le fotografie raccolte nel volume sono per lo più note agli specialisti, sono state pubblicate su riviste specializzate. Io stesso, sporadicamente, ne ho pubblicate molte. Ho fatto un volume quasi esclusivamente fotografico, integrando le immagini con didascalie (alcune relativamente lunghe, altre brevissime) in cui ho inserito brani di autobiografie, di ricordi, di epistolari”. – Quali caratteri assume il Risorgimento attraverso queste fotografie? “Io ho 83 anni. Sono rimasto uno dei pochi che abbia avuto la ventura di conoscere personaggi risorgimentali. Quindi il rapporto uomo-Risorgimento che ho avuto non può averlo nessun altro. Ed è questo carattere di umanità che ho cercato di far affiorare dal libro”. — È stato difficile reperire le fotografie non pubblicate prima d’ora? “E’ stato, più che altro, un lavoro di pazienza. Ho cercato di esplorare i fondi fotografici dei musei del Risorgimento italiani. È tutto lì, basta avere voglia e tempo per andare a metterci le mani.”, O. G., Le foto verità del Risorgimento, ibidem.
[372] Il volume ebbe numerose, autorevoli e generalmente encomiastiche recensioni, specialmente estranee all’ambito propriamente fotografico, si vedano: Giuseppe Galasso, Messo in posa il Risorgimento generoso ed eroico, “Il Corriere della Sera”, Milano 17 agosto 1979; Paolo Spriano, Vedere è più che leggere, “L’Unità”, Roma, 23 settembre 1979; Nicola Tranfaglia, Eroicamente in posa davanti all’obbiettivo, “La Repubblica”, Roma, 23 agosto 1979; Floriano Boccini, Lamberto Vitali, Il Risorgimento nella fotografia, “Rassegna storica del Risorgimento”, 1981, p. 86. Riserve vennero espresse, ormai molti anni dopo, da Arturo Carlo Quintavalle che imputava a Vitali la selettività di un’operazione che gli aveva impedito “di comprendere la realtà e l’importanza dei singoli studi fotografici”, mostrando però a sua volta di non comprendere lo scopo di quello studio, che era stato tutt’altro, cfr. Quintavalle, Introduzione. In Id., 1983, xvi.
[373] Cfr. Gilardi et al. 1971; Caruso et al. 1973; Di Pace 1984 e – per quanto riguarda la Sicilia – Morello 1999a, una ricerca in parte anticipata in Morello 1999b.
[374] Becchetti 1978, p. 46. Anche Miraglia (1990, pp. 47-48) sentì la necessità di considerare la “fotografia meridionale d’argomento brigantesco” studiando la produzione fotografica del Piemonte sabaudo.
[375] Bollati 1979, pp. 26-28.
[376] Citato in Russo 2011, p. 209.
[377] Ivi, p. 216.
[378] Quelle attenzioni entravano in perfetta risonanza con quanto ricordava Andrea Emiliani, Il recupero di edifici storici a funzioni culturali. In Giusa 2003b, pp. 79-93: “Negli anni Settanta erano quindi già evidenti tutte le ragioni a sostegno della fotografia, almeno sotto il profilo della sua portata di valore critico-storico e soprattutto antropologico. Direi che la fotografia ci consentiva di puntare verso l’antropologia non impegnando il giudizio storico su basi accademiche, perché la fotografia non è accademica.” (80).
[379] Cesare Zavattini, Passeggero che t’inoltri fra queste immagini… In Fiory Ceccopieri et al. 1979, pp. 41-44; Paolo Monti, La scrittura della luce, ivi, pp. 106-120.
[380] Monti, La scrittura della luce, citato alla nota precedente, pp. 106-107, aggiungendo poi che “la parola documento forse non basta a valutare degnamente il loro [dei fotografi] lavoro.” (108)
[381] Rapporto internazionale 1976. Nello stesso anno venne pubblicato anche il Catalogo nazionale Bolaffi della fotografia n.1. Torino: Giulio Bolaffi Editore, 1976, con un “comitato di consulenza tecnica” formato da Lanfranco Colombo, Manuel Gasser, Michele Ghigo, Jean-Claude Lemagny, Daniela Palazzoli, Piero Racanicchi e Italo Zannier, che assegnò il Premio nazionale Bolaffi della fotografia 1977 a Mario Cresci, segnalando anche l’opera di Gianni Berengo Gardin, Mario de Biasi, Franco Fontana e Luigi Ghirri. Nella seconda ed ultima edizione del 1977 il comitato era composto da Carlo Bertelli, Helmut e Irene Gernsheim, Michele Ghigo, Daniela Palazzoli e Italo Zannier e il Premio venne assegnato a Salvatore Mancini, mentre i segnalati furono Pino dal Gal, Mario Giacomelli, Guido Guidi, Cesare Leonardi e Pepi Merisio. L’editoria italiana è ritornata piuttosto di rado su questi temi, almeno sino al recente Denis Curti , Sara Dolfi Agostini, Collezionare fotografia: Il mercato delle immagini. Roma: Contrasto, 2010 (20142).
[382] Ad esempio per Gualtiero Castagnola, Il Dizionario della fotografia, II, i termini tecnici. In Rapporto internazionale 1976, ad vocem, “Niépce inchiostrava col bitume (…) una lastra di rame argentato”; Allo stesso, noto tecnologo, si dovevano le minuziose indicazioni per il ‘restauro’ e il ‘ripristino’, nelle quali pur avvertendo che “guasti irreparabili possono venire fatti dagli inesperti nel tentativo di pulire e restaurare vecchie fotografie”, l’esperto non si peritava di fornire le formule per il restauro chimico dei dagherrotipi e per l’eventuale rinforzo dell’immagine, cfr. Gualtiero Castagnola, Le fotografie d’epoca: quello che si può e quello che non si deve fare. Come si conservano e si restaurano, ivi, pp. 81-83. A distanza di anni può solo turbare il ricordo che proprio a Castagnola fosse affidato nel 1978 l’unico intervento sulla conservazione delle fotografie nell’ambito del corso di aggiornamento Il restauro fra metodo e prassi , organizzato dall’Assessorato alla cultura della Regione Emilia-Romagna in collaborazione con l’IBC, cfr. Castagnola, Conservazione e restauro delle fotografie d’epoca. In Orlando Piraccini, a cura di, Il restauro fra metodo e prassi: materiali di lavoro del corso regionale di aggiornamento 1978. Bologna: Ufficio stampa e pubbliche relazioni dell’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, 1980, pp. 212-221, con significative correzioni di rotta rispetto a quanto affermato nel 1976 ma continuando a comprendere tra gli interventi di ‘restauro’, processi quali il viraggio, il rinforzo, la sbianca, lo schiarimento con indebolitore di Farmer e altre analoghe amenità. I tremendi rischi che il restauro chimico poteva apportare ai fototipi vennero di lì a poco denunciati da Grant Romer, Some Notes on the Past: Present and Future of Photographic Preservation, “Image”, 27 (1984), n. 4, dicembre, pp. 16-23.
[383] A.C. Quintavalle, Merce e fotografia, “Paese Sera”, 7 gennaio 1976, ora in Id. 1983, pp. 358-361.
[384] L’espressione venne adottata per la prima volta in Italia ad opera della “Commissione Franceschini” istituita nel 1964 su proposta del Ministero della Pubblica Istruzione, che fece propria la formula utilizzata dalla Convenzione dell’Aja del 1954 “per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato”, cfr. Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, Per la salvezza dei beni culturali in Italia: atti e documenti della Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio. 3 voll. Roma: Colombo, 1967. Quale testimonianza e contributo fondamentale al dibattito di quegli anni si rimanda a Andrea Emiliani, Una politica dei beni culturali; con scritti di Pier Luigi Cervellati, Lucio Gambi e Giuseppe Guglielmi. Torino: Einaudi: 1974.
[385] Zannier 1978, p. 168, che così dava corpo al progetto anticipato in un breve contributo dell’anno precedente: “Un catalogo si dovrà ben fare, prima o poi, che sia una cronistoria organica della nostra fotografia (…) al fine di precisare tutti i caratteri della produzione fotografica italiana (…) impresa non facile ma che potrà consentire una analisi critica documentata, se vorremo uscire dall’empirismo e dall’occasionalità dell’indagine.”, Italo Zannier, Silvio Maria Buiatti un protagonista del secondo “pictorialism”. In Colombo 1977, p. 72.
[386] Zannier 1978, p. 10. Tale giudizio veniva confermato ancora pochi anni più tardi scrivendo di “voga elegante e kitsch del pittoricismo”, I. Zannier, Per una estetica della fotografia. In Costantini et al. 1985, pp. 265-277 (265), e si comprende a fatica come questo potesse convivere con la sua attenzione per autori quali Domenico Riccardo Peretti Griva (Zannier 1960b) e Silvio Maria Buiatti (Zannier 1967); si veda anche nota successiva.
[387] L’edizione 1977 della Sezione culturale del SICOF aveva ospitato una mostra dedicata a Buiatti, curata da Zannier, che – piuttosto contraddittoriamente – leggeva le opere di questo autore come testimonianza qualificata “di un periodo che troppo di frequente viene liquidato nella sua totalità.”, Zannier 1967. Su questo autore si veda ora la monografia pubblicata nel 1989 (Toffoletti et al. 1989) in corrispondenza della donazione di 350 lastre alla Fototeca dei Civici Musei di Udine fatta da Tito Maniacco.
[388] Testori 1977. Nell’intervista rilasciata in occasione della prima Summer School SISF di Pieve Tesino Miraglia avrebbe ricordato le sue prime difficoltà ad affrontare certa produzione fotografica con gli strumenti che le venivano dalla sua formazione di storica dell’arte: “C’era solo un unico scritto che avrebbe dovuto illuminarmi e non mi illuminava affatto, anzi era uno scritto, mi dispiace dirlo, di Italo Zannier, che parlava di un orologiaio fotografo [Amanzio Fiorini], banalizzando la figura del fotografo amatoriale naif.”, cfr. Giovanni Fiorentino, Monica Maffioli, Marina Miraglia in dialogo con la Summer School, Pieve Tesino, 16 luglio 2015, Summer School SISF, online http://www.sisf.eu/sisf/wp-content/uploads/2016/02/IntervistaMarinaMiragliaPIeveTesino.pdf [28 03 2017].
[389] Cfr. Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943. In Serena 1998, pp. 99-128.
[390] Uliano Lucas, Invito al dialogo – Seminario AIRF, “Progresso fotografico”, 86 (1979) n. 7-8, luglio – agosto, pp. 69-70.
[391] “Alfred Stieglitz è stato senza dubbio il primo, a cui si potrebbe aggiungere una lunga lista, qui certo non esaustiva, che va da August Sander a Walker Evans, da Berenice Abbott a Emmanuel Sougez, da Otto Steinert a Lee Friedlander o piu recentemente Martin Parr”, Quentin Bajac, Un’idea e un progetto. Luigi Ghirri e l’attività curatoriale. In Laura Gasparini, a cura di, Un’idea e un progetto. Luigi Ghirri e l’attività curatoriale. Guida alla mostra. Reggio Emilia: Biblioteca Panizzi, 11 maggio – 30 giugno 2012, pp. 9-11 (9).
[392] Lanfranco Colombo, [Presentazione]. In Colombo 1979, pp. 4-5; tra le iniziative collaterali anche la conferenza di Ando Gilardi, Meglio ladro che fotografo e un incontro con Arturo Carlo Quintavalle.
[393] Angelo Schwarz, Materiali per una ricerca sulla fotografia nei periodici illustrati italiani. In Colombo 1979, pp. 62-79, affiancata dalla tavola rotonda La fotografia nei periodici illustrati italiani dal 1846 al 1978, curata dallo stesso Schwarz, che già precedentemente aveva rivolto la propria attenzione al tema (Schwarz 1974) ed ebbe poi successivamente occasione di ritornare sull’argomento con diversi contributi: Schwarz 1985; Id., Il fotogiornalismo. In Zannier et al 1993c.
[394] Piergiorgio Dragone, Il ritratto: ipotesi di lettura. In Colombo 1979, pp. 90-131.
[395] Ivi, p. 93 dove questa carenza di competenza critica era così esemplificata: “Non c’è quindi da stupirsi se (…) in vari testi di fotografia, a proposito degli esponenti del ‘pictorialism’ e di alcuni autori della Photo-Secession, si afferma che essi si rifacevano alla pittura impressionistica: certo in alcuni casi il riferimento è corretto, ma molto più spesso si dovrebbe invece parlare di cultura preraffaellita, o simbolista, o liberty e così via; va anche detto che talvolta basterebbe prestare più attenzione alle date o avere un minimo di informazioni sulle vicende artistiche per evitare sviste così clamorose.”
[396] Manenti et al. 1979a; Romeo Martinez, Eugène Atget; Palazzoli 1979a; Italo Zannier, a cura di, Ferruccio Leiss fotografo a Venezia; con un testo di Paolo Monti; tutti pubblicati da Electa nel 1979, mentre erano previsti ma non vennero realizzati i volumi dedicati a Felix Mann, Ugo Mulas e ai Sella. Di quello stesso programma editoriale faceva parte l’edizione di portfolio monografici in mille esemplari numerati, con 12 tavole ciascuno stampate in heliogravure, intitolati a una scelta eterogenea di autori che per il 1979 comprendeva Henri Cartier-Bresson, Lewis Hine, Diane Arbus, Nadar, Tina Modotti e Robert Capa, a cui fecero seguito negli anni successivi Erwin Blumenfeld, Edward Muybridge, Man Ray, Fox Talbot, Lewis Carrol e altri.
[397] Come si ricava dal repertorio bibliografico, e non considerando testi fondamentali ma di interesse più generale quali ad esempio i saggi di Scharf o l’Enciclopedia pratica per fotografare, furono più di quaranta i titoli che videro la luce in quell’anno, oltre a quelli connessi al progetto Electa e alla pubblicazione degli “Annali” einaudiani, determinando di fatto una ‘sovraesposizione’ fotografica che colpì il panorama culturale italiano come il classico fulmine a ciel sereno: un fenomeno che aspetta ancora di essere studiato analiticamente dal punto di vista culturale, economico e produttivo. Sebbene non rientrino nei temi di questo saggio vanno segnalate anche altre importanti iniziative espositive ed editoriali dell’anno 1979 legate alla fotografia contemporanea, quali le mostre Iconicitta/1: una visione sul reale, a Palazzo Massari di Ferrara, a cura di Ennery Taramelli; il catalogo della prima importante mostra antologica di Luigi Ghirri, premessa di Arturo Carlo Quintavalle; saggio introduttivo e schede di Massimo Mussini. Parma: Università di Parma – Centro Studi e Archivio della Comunicazione, 1979, poi utilizzato in occasione della mostra monografica Vera Fotografia, tenuta a Ferrara, Palazzo dei Diamanti dall’11 maggio al 24 giugno 1980; Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico. Modena: Punto e virgola, 1979 (nuova ed. Torino: Einaudi, 2011, a cura di Roberta Valtorta); Carlo Gentili, Fotografia gestuale di Nino Migliori. Bologna – Mantova: Edizioni del Verri, 1979. Per una prima rassegna dell’editoria fotografica di quell’anno si veda il numero monografico Fotografia e editoria, “Progresso fotografico”, 86 (1979), n. 12, dicembre. Sintetici cenni ai programmi di editoria fotografica delle principali case italiane anche in Alessandro Rosa, Apri il tuo catalogo ai maestri dell’obiettivo, “Tuttolibri attualità”, 5 (1979), n. 25, 30 giugno, p. 5; Claudio Savonuzzi, Mettiamoci tutti in posa, “Tuttolibri” speciale, 5 (1979), n. 46, 8 Dicembre, p. 11.
[398] Più di un miliardo di lire, la metà circa a carico del Comune, corrispondenti a quasi tre milioni di euro del 2017.
[399] Come è noto l’iniziativa non si concretizzò e venne invece istituito il Centro di documentazione di Palazzo Fortuny poi confluito nel Museo omonimo.
[400] Il Comitato era così costituito: Cornell Capa, coordinamento artistico; Maria Teresa Rubin de Cervin, Carlo Bertelli, Romeo Martinez e Marcello Lago per l’UNESCO; l’assessore Paolo Peruzza, Italo Zannier e Daniela Palazzoli per il Comune di Venezia; a quest’ultima in particolare si dovette l’inserimento in programma delle mostre sui fotografi italiani contemporanei, sebbene con una cronologia che escludeva gli anni del fascismo, e la curatela delle mostre su Michetti, in collaborazione con Marina Miraglia, e Primoli, sul quale stava preparando una monografia (Palazzoli 1979), avendo ‘scoperto’ “che Primoli è stato uno dei primi fotografi che, in un’epoca in cui si usavano macchine a lastre, faceva il racconto fotografico, delle vere e proprie sequenze di immagini”, dimenticando però che queste erano gia state rese note da Vitali 1968, cfr. Attilio Colombo, Intervista a Daniela Palazzoli, “Progresso fotografico”, 86 (1979) n. 7-8, luglio – agosto, pp. 38-42. La “redazione scientifica del catalogo” fu affidata a Palazzoli, Zannier e Vittorio Sgarbi. Molti anni più tardi il noto storico dell’arte avrebbe ammesso di aver “accettato di fare l’assistente di fotografia a Zannier, un incarico proseguito al Dams di Bologna fino al ‘78”, essendo quello l’unico modo “per restare all’università” dopo avere litigato col suo “relatore, un professore di arte medievale e moderna [Carlo Volpe].”, cfr. Marina Paglieri, La Biennale di Sgarbi alle Ogr, “La Repubblica”, “Cronaca di Torino”, 12 gennaio 2014, p. ix.
[401] Carlo Bertelli [Presentazione]. In Palazzoli et al. 1979, pp. 3-4.
[402] Italo Zannier, Venezia ’79 la Fotografia: Fotografia italiana contemporanea. Milano: Electa. 1979.
[403] Il workshop di Gernsheim era “concepito come corso e anche come serie di colloqui sulle modalità e le tecniche per la ricerca delle vecchie fotografie”. Tra i temi trattati vi erano: “documentazione e datazione, conservazione, restauro, prevenzione dalle imitazioni, archiviazione. Vengono anche analizzate le tecniche di ricerca per la costruzione di una collezione.” Quello di Settimelli era invece orientato ai “metodi di ricerca che si servono della fotografia come strumento per la ricerca sociale” e prevedeva “un confronto fra i metodi tradizionali della narrativa e la fotografia come strumenti per la ricostruzione storica, dall’album di famiglia agli eventi importanti.” Di diversa impostazione infine quello tenuto da Veronesi, che affrontava “il fotogramma come essenza primaria della fotografia creativa”, considerandone storia tecnica e materiali. A questo era idealmente connesso il workshop tenuto da Nino Migliori, Esperimenti senza macchina fotografica; cfr. Roberta Valtorta, a cura di, I workshop, “Progresso fotografico”, 86 (1979), n. 7-8, luglio – agosto, pp. 16-24.
[404] Gernsheim 1981.
[405] Picone Petrusa 1981, p. 52 nota 14.
[406] Piero Berengo Gardin, Venezia – la fotografia, “Progresso fotografico”, 86 (1979) n. 7-8, luglio – agosto, p. 69. Tutto il fascicolo risulta utile per ricostruire le fasi del progetto e le polemiche di quei mesi.
[407] Lanfranco Colombo, La fotografia è continuità, ivi, p. 65.
[408] A.C. Quintavalle, Venezia Polaroid ovvero: “Polezia”, ivi, pp. 67-69, ora in Id. 1983, pp. 395-400. Anche Uliano Lucas, tra i più forti e motivati oppositori al progetto, aveva sottolineato come a fronte del “fatto positivo di un contatto con il grande pubblico” risultasse “un po’ sacrificata proprio la fotografia italiana: di fronte ai grandi nomi americani, inglesi, francesi, non ci sono italiani che stiano alla pari. In realtà in Italia c’è poca gente che sappia o a cui interessi sapere che cosa è stata la fotografia italiana. E poi c’è sempre il problema di queste fotografie presentate così, isolate dal contesto, senza indicare le circostanze e i perché dello scatto”, Nico Orengo, A colloquio con Uliano Lucas. Il reporter è un artigiano per la storia del futuro, “Tuttolibri attualità”, 5 (1979) n. 25, sabato 30 giugno, p. 5. Lo stesso Lucas fu tra i promotori del convegno L’informazione negata (che riprendeva nel titolo, qui riferito alla situazione italiana, un precedente saggio di Edgardo Pellegrini, L’informazione negata: controgiornale afro- americano. Bari: Laterza, 1969) organizzato proprio a Venezia dal 7 al 10 settembre 1979 in concomitanza con la manifestazione espositiva, organizzato dall’AIRF – Associazione Italiana Reporters Fotografi, e della successiva mostra omonima, tenutasi a Bari nel 1981, su Il fotogiornalismo in Italia 1945- 1980, il cui catalogo, pubblicato a Bari da Dedalo libri, venne curato da Lucas e Maurizio Bizziccari.
[409] La forte impronta mercantile e di promozione industriale dell’iniziativa veneziana era un elemento criticamente rilevato anche al di fuori dell’ambito strettamente specialistico, come indicava bene questo intervento di Claudio Savonuzzi, Mettiamoci tutti in posa, cfr. supra Nota 397: “Ma come nasce, com’è nato questo boom? C’è in questo ‘furore’ per la fotografia (che si vorrebbe non finisse come sempre all’italiana: tutti a buttarcisi sopra, cioè tutti a ingolfare fino all’inflazione e al discredito) una parte diciamo cosi ‘di mercato’ e un’altra più semplicemente ‘di lettura’. E che poi inevitabilmente (o abilmente) si confondano, non cambia. Diciamo che il ‘collezionismo’ fotografico, la circolazione delle foto firmate, le cento gallerie intitolate generalmente alla varia meccanica delle ‘camere’, ha cominciato a muoversi concretamente solo alcuni anni fa: quando i dipinti, le sculture, la grafica entrarono in crisi e le vendite per molti finirono vicino allo zero. Bocce ferme, insomma, e si tentò allora la soluzione ‘popolar-snob’ dei ‘multipli’: il mercato d’arte moderna, in Italia, è sempre stato di qualità artigianali, piuttosto fragile, capace di esaurimenti come di imballature drogate. (…) Forse fu Man Ray esposto (e ristampato) a Venezia a fornire l’idea, il pretesto, l’esempio di un altro modello di ‘multiplo’; ma stavolta con un vero mercato internazionale alle spalle; con connessioni che arrivavano fino a Sotheby’s, a Christie’s, per non dire dei colossi dei ‘prodotti da clic’ americani [la Polaroid]. Via allora da una parte le ‘vere’ foto firmate e numerate, scambiate a migliaia di dollari al pezzo. E dall’altra tutta una terziaria attività di sostegno identica a quella che, ai bei tempi, esisteva per dipinti, grafica, scultura: pubblicazioni e dunque critici in grado di fornire una prefazione, una rubrica sulla stampa o in televisione. Intendiamoci: non si parla male di queste cose. Se ne accenna, semmai, con preoccupazione.”
[410] Il piano complessivo prevedeva le mostre Fotografia italiana dell’Ottocento (Firenze, Palazzo Pitti, ottobre – dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio – marzo 1980); Fotografia pittorica 1889/1911 (Venezia, Ala Napoleonica, ottobre- dicembre 1979; Firenze, Palazzo Pitti, gennaio – marzo 1980); Apparecchi fotografici italiani : 1839- 1911 ( Firenze, Palazzo Pitti, gennaio – marzo 1980); il convegno di Modena La fotografia come bene culturale e il ciclo di seminari annessi; il seminario di studi Cineteche e cultura cinematografica: conservazione, distribuzione, promozione (Castelmaggiore, Villa Salina, 21-23 aprile 1980) e infine il convegno Fotografia e istituzioni (Napoli 1-5 ottobre 1980) tenutosi alla Mostra d’Oltremare nell’ambito del Salone della Fotografia, della Cinematografia e delle Apparecchiature elettroniche e affini.
[411] Miraglia et al. 1979a; Renato Minore, La memoria del click, “Il Messaggero”, 3 novembre 1979, ricordava che in mostra erano esposti circa 70 dagherrotipi e più di mille stampe; “si direbbe che soltanto ora si imponga [in Italia] il problema della memoria e della conservazione fotografica da porre sullo stesso piano (e non in posizione subordinata, come è sempre avvenuto) della memoria e della conservazione dei beni artistici e culturali.” In questo contesto dovevano essere intese quelle grandi iniziative, che costituivano “una sorta di indispensabile tessuto connettivo entro cui far rifluire le tante pubblicazioni che si vanno accumulando, con un po’ di inevitabile disordine (…) Un mosaico di volontarismo, di entusiasmo assai poco finalizzato, di seriosità e velleità accademica.”
[412] Giorgina Bertolino, Intervista a Daniela Palazzoli, cfr. supra Nota 331, p. 151.
[413] Palazzoli 1979b, che costituì la base per il contributo della studiosa al volume di Helmut Gernsheim sulle origini della fotografia (Palazzoli 1981).
[414] Palazzoli 1981, p. 13; in realtà si trattava di Giacomo Tassinari, ma altre prove su carta dovevano essere allegate in origine al fascicolo di Carlo Passerini, Notizie sopra le immagini fotogeniche, con invio autografo a Giuseppe Bertoloni (e non Antonio Bertolini, come indicava Palazzoli confondendo figlio e padre e storpiando il cognome) conservato nello Harris Brisbane Dick Fund del Metropolitan di New York e segnalato alla studiosa italiana da Weston Naef, cui l’autore aggiunse “un informe saggio di esperimento da me fatto sopra un pezzetto di carta inargentata, sgualcita, che dimostra potersi ottenere su di essa iodata, nella camera oscura, le immagini Fotogeniche, cosa che il signor Cini di San Marcello mi disse avere anch’esso sperimentato felicemente.”, consultabile online all’indirizzo http://www.metmuseum.org/collections/search-the-collections/190043119?img=0 [04 09 2018]. Sulle vicende che portarono all’identificazione delle opere di Tassinari, si vedano Roberto Spocci, Angela Tromellini, Ricerca e catalogazione: problemi di normalizzazione di uno “sguardo profondo”. In Lusini 1996a, pp. 273-278 (274); Daniel 1992; Smith 1993; Saunders 2015.
[415] Miraglia 1979a.
[416] Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico, 1979, cfr. supra Nota 397.
[417] Zannier 1979c, p. 85, individuando in Disderi piuttosto che in Eastman la figura che ne segnava simbolicamente l’inizio.
[418] Era di pochi anni prima la traduzione italiana del saggio di Jean Baudrillard, Per una critica della economia politica del segno. Milano: Mazzotta, 1974, in cui, in forma ancora fortemente politicizzata, si affrontavano alcuni nodi centrali del suo pensiero, poi sviluppati nelle opere degli anni successivi. Di lui ricordiamo, oltre alla sua passione per la fotografia, cfr. almeno, Jean Baudrillard: fotografien 1985- 1998, catalogo della mostra (Graz, Neue Galerie am Landesmuseum Joanneum, 9 gennaio – 14 febbraio 1999), Peter Weibel, hrsg., Ostfildern-Ruit: Hatje Cantz, 1999, anche la raccolta e la presentazione dei testi a corredo del volume di René Burri, Les Allemands. Paris: Robert Delpire, 1963, compreso nella stessa collana in cui nel 1958 era stato pubblicato il fondamentale lavoro di Robert Frank, di cui riprendeva l’impostazione.
[419] Ferretti 1980, p. 39.
[420] A.C. Quintavalle, Introduzione. In Id. 1983, p. xxxv.
[421] Bertelli et al. 1979.
[422] Era questo il termine adottato anche da Bertelli 1979b, pp. 86-87.
[423] Mario Tamponi, La Fotografia Artistica, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909) , n. 1, gennaio, pp. 4-5. Credo risulti evidente che non si trattava di una semplice precisazione filologica ma della definizione di una diversa posizione critica; per l’autore il termine ‘pittorica’ sanciva una dipendenza dalle “arti maggiori” che non era disposto a condividere; a ciò si aggiunga che in quegli anni la distinzione tra fotografia artistica e documentaria non sempre risultava in modo così netto, né in fondo era considerata veramente significativa. Si veda a titolo di esempio questa considerazione a proposito di un genere (il ‘reportage’) e di un tema (la guerra) che a noi pare agli antipodi delle scelte pittorialiste, rispetto al quale si suggeriva però che “volendo copie fotografiche di bell’effetto e stabili, da destinare ai musei del Risorgimento, si farà ricorso al processo al pigmento o – ancor meglio – al processo al bromolio che può permettere ad un operatore artista di rimediare alle manchevolezze della fotografia ed aumentarne l’effetto”, Rodolfo Namias, Per la documentazione fotografica della nostra guerra, “Il Progresso Fotografico”, 22 (1915) n. 6, pp. 161-166. Anche la critica più recente, a un secolo esatto di distanza, pare aver abbandonato quella distinzione manichea tra le due ‘intenzioni’. Si veda, sempre a proposito di immagini realizzate in un contesto bellico, la qualificazione di “documentary pictorial” attribuita al lavoro di Luc Delahaye da Mark Durden, Documentary Pictorial: Luc Delahaye’s Taliban, 2001. In Geoffrey Batchen, Mick Gidley, Nancy K. Miller, Jay Prosser, eds., Picturing Atrocity: Photography in Crisis. London: Reaktion Books, 2012, pp. 240-248.
[424] Raymond Lécuyer, Histoire de la photographie. Paris : L’Illustration/ Baschet et Cie, 1945, che dedicava un capitolo a La vogue de la “photographie artistique”.
[425] In quegli stessi anni anche Beaumont Newhall, inedito in Italia, avrebbe progressivamente modificato il proprio giudizio critico nei confronti della fotografia artistica.
[426] Gernsheim 1966, pp. 166 passim. Anche Renzo Chini (1968, p. 64), usava lo stesso termine per designare “tutta la fotografia artistica”, cioè quella caratterizzata da “una malintesa intenzione d’arte che costituisce l’essenza, o meglio la non-esistenza del pittorialismo [che è] il massimo peccato della fotografia, perché è la compiacenza dell’inautentico.” Gernsheim avrebbe poi ulteriormente raffinato, e rivisto, la propria posizione in merito alla fotografia ‘d’arte’: “In realtà si tratta di un problema futile perché gran parte della produzione fotografica non ha pretese artistiche, e quella piccola parte che ne ha va giudicata per i suoi meriti come avviene per la pittura e la scultura e non in astratto.”, Gernsheim 1987, pp. 36-37, in cui procedeva a una disamina più meditata delle più note opere di Lake Price, Rejlander e Robinson.
[427] Carluccio et al. 1973.
[428] Turroni 1960b; Turroni 1960c; si veda anche Russo 2011, pp. 198-204.
[429] J. A. Keim, Fotografia e arte. In Astaldi 1967, pp. 33-40. (36), in cui citava sinteticamente alcuni autori e opere. Nella redazione della successiva Histoire (1970, Keim 1976, p. 59) mostrava però di aver cambiato opinione se nelle pagine sulla fotografia artistica, per l’Italia ricordava solo “Gatti Casazza, coi suoi crepuscoli sui laghi in cui uomini e paesaggi si confondono, [e che] si contrappone alle luminose immagini di alta montagna riportate (…) da Vittorio Sella.”
[430] Sebbene Zannier 1974a parlasse ancora di “cattivo gusto della ‘fotografia d’arte’, non ancora scomparso”, fenomeno che “sviò molti fotografi dalle capacità espressive del linguaggio fotografico”, da altri punti di vista, come quello relativo alle tecniche, lo considerava invece “particolarmente interessante”. In realtà, come ci informa la bibliografia in terza di copertina, l’interesse di Zannier per il fenomeno risaliva almeno alla metà degli anni ’60 con due diversi articoli a proposito di Henry P. Robinson e i dogmi del ‘pictorialims’, “Foto”, 1966 e di José Ortiz- Echagüe, “Foto”, 1968, oltre che – per quanto riguardava la scena italiana, Zannier 1960b; Id. 1967. La rinnovata attenzione al fenomeno a scala europea era testimoniata dalla pubblicazione del numero monografico di “Camera”, 49 (1970), dicembre, Pictorialisme 1890/ 1914, che faceva seguito a due altri numeri dedicati rispettivamente alla fotografia vittoriana e a “Camera Work”. Oltre ad un ricco repertorio di immagini, corredate di brevi schede biografiche, il fascicolo conteneva un importante contributo di Romeo Martinez, Propos sur le pictorialisme en Europe, 1890- 1914, pp. 8, 25-26, che ben delineava quanto la maggior parte degli storici contemporanei detestassero tale fenomeno mentre rivendicava la necessità di praticare una “estetica aperta”, non pregiudiziale, che doveva “prendere in considerazione gli elementi fondamentali dell’espressione fotografica, considerarli nel suo insieme e anche ritenere come egualmente possibili tutti i generi e tutti gli stili, e comprenderli attraverso le opere.” (8)
[431] Miraglia 1979b, p. 9.
[432] Gernsheim 1966, p. 161.
[433] Miraglia 1981a, p. 497. Alcuni anni prima l’autrice aveva coniato un vero e proprio neologismo a proposito di “fasi aberranti del ‘pittorealismo’ europeo e della ‘Photo Secession’ americana” , Miraglia 1975, pp. 33, 39. A conferma del fatto che non si trattasse di un refuso ma dell’espressione verbale della coniugazione tra tensione all’immagine pittorica e realismo ontologico della fotografia, il termine venne ancora utilizzato in Miraglia 1977, (ora in Id. 2011, p. 141) quale sinonimo di pittorialismo, per poi cadere rapidamente in disuso.
[434] Bollati 1979.
[435] Bertelli 1979b, p. 115, corsivo di chi scrive.
[436] Francesca Alinovi avrebbe infatti avvertito di lì a poco che “I Linked Ring (…) formularono una concezione di foto artistica che solo in parte si rifaceva al pittoricismo di Rejlander e di Robinson. Anzi, si può dire che furono loro i responsabili dell’equivoco che tuttora pesa sul termine pittoricismo. Perché l’artisticità delle loro fotografie non consisteva nella artificialità dei contenuti (che di regola erano invece naturalistici), bensì nel virtuosismo della tecnica e della resa formale (che imitava la softness dei pittori impressionisti).”, F. Alinovi, La fotografia: l’illusione della realtà, V, Nostalgia e revivalismo: il post- modernismo fotografico. In F. Alinovi, Claudio Marra, La fotografia. Illusione o rivelazione?. Bologna: Il Mulino, 1981, pp. 101-111 (104). Il lungo saggio di Alinovi, certo tra i più importanti e teoricamente attrezzati contributi di quegli anni, offriva rilevanti spunti critici e storiografici in merito anche ad alcuni temi e figure che più strettamente riguardano l’oggetto del nostro studio. Si consideri la lettura di Von Gloeden come “citazionista”, condotta adottando una categoria critica mutuata da una delle tendenze pittoriche tipiche del recupero postmoderno della figurazione e formulata da Renato Barilli, del quale la Alinovi fu allieva, curatore della collana di “Quaderni di culturologia” in cui era apparso il volume. L’elemento qualificante della poetica di Gloeden e di autori consimili era, per Alinovi, l’assenza di ogni drammatizzazione della scelta tra l’arte e la natura, compiacendosi semmai “di stare beffardamente in mezzo tra le due cose, incrociandole, mescolandole, sovrapponendole (…) ponendosi con ironia tra arte e scienza, idea e natura, finzione e verità, e, si potrebbe aggiungere, tra tecnologia e manualità, citazione e invenzione e, non ultimo, tra fotografia e non fotografia.” (105) Posizione questa che avrebbe poi contraddistinto anche i fotografi post-moderni. L’interpretazione di Von Gloeden come autore addirittura “concettualmente vicino alla poetica citazionista di De Chirico”, venne più tardi ripresa in Marra 1999, pp. 82-86, ma senza fare alcun riferimento alle anticipatrici letture di Alinovi. Anche un più recente contributo di Miraglia, Wilhelm von Gloeden e il Postmoderno. In Miraglia 2012, pp. 151-166, che sin dal titolo riprendeva le tesi di Alinovi, richiamava Marra 1999 ma non citava il precedente costituito dal contributo della studiosa scomparsa nel 1983, pur riconoscendole il merito di aver individuato nella produzione dei “pittoricisti (…) i più precoci segni concettuali del Post-moderno.”
[437] Miraglia 1979b, p. 11. Concetti analoghi erano già stati da lei espressi ma in un testo di più ridotta circolazione: “Sfrondando il Pittorialismo dagli aspetti negativi che, per la sua durata ad oltranza, ha esercitato nella storia della fotografia, esso rappresenta comunque il primo momento attraverso cui la fotografia ha acquistato coscienza di sé. (…) l’uso di processi di stampa (…) che smorzano il realismo della mimesi, significano infatti, in prospettiva storica, un orientamento decisamente importante, cioè il diritto del fotografo di creare una realtà autonoma rispetto al reale e soprattutto a fondarla come immagine. È in questo momento – tutto da scrivere e indagare nella sua complessità di momento di trapasso – che il fare fotografia comincia a sganciarsi dai meccanismi chimico/ottici della macchina, è in questo momento ancora che, virtualmente, la fotografia non più considerata esclusivamente sotto il profilo tecnico ma come espressione, comincia ad entrare in una storia più ampia e nel campo dell’arte.”, Miraglia 1977b, ora in Id. 2011, pp. 148-149.
[438] Quella stessa data venne poi utilizzata come termine ante quem anche per Miraglia 1990.
[439] Zannier 1979d.
[440] Ivi, p. 24, corsivi di chi scrive.
[441] L’ING, proprietario di buona parte dell’archivio di Rocci, gli dedicò una mostra monografica (cfr. Miraglia 1987a) che si caratterizzava per il considerevole utilizzo di ristampe da negativo, operazione quanto meno opinabile trattandosi di un autore definito come operante in ambito pittorialista.
[442] Bertelli 1979b, pp. 84-87; 109-28.
[443] Ivi, p. 112, che così immediatamente proseguiva: “a Londra si definisce nel gruppo Link”, assimilando a una qualsiasi band punk dell’era tatcheriana i sussiegosi membri de The Linked Ring Brotherhood.
[444] Bertelli 1979b, pp. 122-128 (124). Valutazioni non dissimili sono state espresse da Giovanni Lista 2001a, in particolare alle pp. 148-172, sebbene non considerasse tanto i rapporti con la fotografia coeva quanto piuttosto la genesi di quelle opere e i rapporti col movimento futurista, notando tra le altre cose come “la prima rivoluzione moderna della fotografia, cioè la fotodinamica, cominciava attraverso la cartolina postale [Salutando, spedita da Bragaglia nel luglio 1911], confermando la strategia fondamentale del futurismo che, con il rifiuto del museo, concepiva l’arte come comunicazione.” (151). Quella rottura, così densa di conseguenze per tutta l’arte del Novecento e oltre, si sarebbe consumata solo con le pratiche dadaiste, che avrebbero messo in chiaro quali fossero i termini concettuali della questione, come ben dimostrava l’equivoco, anche storiografico, del “cosiddetto pittorialismo. Se il problema fosse realmente stato quello di rivendicare una diversità rispetto alla pittura, non ci si doveva limitare al rifiuto delle modalità esteriori relative a un certo periodo della storia dell’arte, ma piuttosto occorreva mettere in discussione il quadro come oggetto generale. Al contrario, si è pensato, pasticciando teoricamente, che sarebbe stato sufficiente contestare taluni stilemi che scopertamente si rifacevano ad una determinata pittura per determinare in maniera generalizzata, ed una volta per tutte, le differenze tra quadro e fotografia. Ma se le vere intenzioni erano queste, occorreva mettere sotto accusa la pittoricità come categoria generale e non il pittorialismo come svolgimento parziale e limitato, altrimenti, per coerenza, sarebbe giusto dire che la maggior parte dei fotografi del Novecento sono pittorialisti, salvo che anziché rifarsi agli stilemi dell’impressionismo si sono adeguati ai vari razionalismi astratti, o all’informale o ad altro ancora.”, Claudio Marra, La fotografia come oggetto concettuale. In Lusini 1996a, pp. 196-199 (196).
[445] L’eccezionale ciclo di iniziative, frutto di un’attenzione per la cultura fotografica che aveva negli anni precedenti prodotto altre occasioni come gli Incontri dibattiti e proiezioni su la fotografia: storia, linguaggio, comunicazione, con interventi di Antonio Arcari, Cesare Colombo, Ando Gilardi, Angelo Schwarz, realizzati a cura del Gruppo fotografico della Biblioteca San Cataldo, e pubblicati dal Comune di Modena – Assessorato alla Cultura nel 1976, comprendeva, oltre al convegno, altre proposte che riteniamo utile richiamare stante la damnatio memoriae che ne è seguita: un Seminario per ricercatori (5- 10 novembre) che affrontava un ampio ventaglio di argomenti, organizzato nelle seguenti sezioni: Storia della tecnica fotografica – Igiene e conservazione dell’immagine fotografica; Esperienze di ritrovamento e indagine; Economia di catalogazione della fotografia; Fotografia e riproduzione; Conservazione e restauro delle apparecchiature fotografiche; Legislazione della tutela e sui diritti d’autore. Il seminario per operatori fotografi Fotografia, misura e descrizione, nelle stesse date, con interventi connessi alle diverse accezioni di foto rilevamento, tra urbanistica e etnografia (Cervellati, Monti e Cresci), ma anche fotogrammetria e foto interpretazione (Lucio Gambi, Giulio Schmiedt, Giorgio Gullini tra gli altri); ricerca antropologica e fotografia (Annabella Rossi, Marialba Russo). La proiezione di alcuni cortometraggi di Michele Gandin di argomento fotografico, tra cui alcuni dedicati a fotografi: Baglioni [sic, ma Bavagnoli per Gente di Trastevere]; Giacomelli, Scianna e Malpurgo [sic per Morpurgo]. Le mostre Antiche fotografie nelle collezioni civiche modenesi, che dopo questa prima, dell’autunno 1979, ebbe una riedizione ampliata e dotata di catalogo (Ruggeri et al. 1981); Immagine in posa e immagine realistica della fotografia popolare: l’Emilia all’inizio del secolo nel fondo Loria del Museo di Arti e Tradizioni Popolari; Italia tra 800 e 900, dalla fototeca del Touring Club Italiano; Fotografia francese dalle origini ai giorni nostri, curata da Claude Nori, con un catalogo tradotto da Olivo Barbieri e pubblicato dalle edizioni Punto e Virgola, gli stessi editori che curarono in quell’occasione una rassegna sugli Aspetti dell’editoria fotografica internazionale. Presentando il convegno sulle pagine de “L’Unità” Settimelli lo definiva “il punto più alto, culturalmente parlando, di questo esplodere di iniziative nell’ambito del complesso mondo della fotografia italiana e non solo italiana. (…) La fotografia come ‘bene culturale’: è questo, non ci sono dubbi, il punto in discussione. Se è così, il problema successivo diventa quello di quale fotografia sia, in realtà il ‘bene culturale’ da recuperare, salvare e conservare.”, W. Settimelli, L’Italia forse ha un primato: dodici milioni di fotografi, “L’Unità”, 30 novembre 1979. Nei mesi immediatamente successivi presero avvio e si concretizzarono non poche iniziative di enti locali finalizzate alla conoscenza e conservazione del patrimonio fotografico, quali l’istituzione nel 1980 dell’Archivio Fotografico Toscano, per iniziativa del Comune di Prato e della Regione Toscana, e della Fototeca della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, con un’attività originariamente indirizzata alla documentazione della realtà locale, mentre si rendevano noti i primi esiti d’indagine sui fondi fotografici in Emilia Romagna (Fanti et al. 1980) e a Roma (UIIASSA 1980), città in cui la condizione degli archivi destava più di una preoccupazione: “La kermesse editorial- espositiva da Venezia a Modena va di pari passo con l’imporsi del mercato antiquario e con l’abbandono e la dispersione degli archivi di proprietà pubblica. A Roma il patrimonio di lastre del Luce va marcendo nei sotterranei e, qualche settimana fa, l’invasione dei topi ha fatto chiudere la Fototeca nazionale” scriveva Francesco Perego, Un secolo di trasformazioni sfuggite alla fotografia, “Il Corriere della Sera”, edizione romana, 12 gennio 1980, consultato in estratto.
[446] Andrea Emiliani, Una città, le immagini. In Ruggeri 1981, pp. 6-7, poi ripreso in Andrea Emiliani, L’archivio totale della città. In Benassati et al. 1992, pp. 9-12.
[447] Dino Motta, Premessa. In Ruggeri 1981, p. 5.
[448] A.J. [Andrea Jemolo], Appunti su “Aspetti e immagini della cultura fotografica in Italia” (Convegno/ Seminari), “Il Diaframma Fotografia Italiana”, n.248 (1980), , marzo, p. n.n.
[449] Realtà e progetto: dalla fotografia alla nozione di bene culturale, edito con diverso titolo in Emiliani 1997.
[450] Si vedano i numerosi richiami compresi nei diversi saggi raccolti in Quintavalle 1983, volume che portava in esergo la seguente dedica: “Questo libro è per chi/ non fa mercato della fotografia.”
[451] A.J. [Andrea Jemolo], Appunti, cfr. supra Nota 448.
[452] Bertelli et al. 1979; il volume in due tomi ebbe una eccezionale tiratura iniziale di 50.000 copie. La scansione cronologica adottata per questo studio non ci consente di affrontare nel modo dovuto, e di confrontare con quelli i volumi curati da Uliano Lucas, L’immagine fotografica 1945- 2000, “Storia d’Italia”. “Annali” 20. Torino: Einaudi, 2004, che si proponevano quale “storia visiva” ma anche “storia della visione” del Paese; “una storia dell’immagine più che della fotografia”. Il necessario richiamo – pur con le dovute differenze – al precedente di Bertelli e Bollati era evidente e certo voluto, ma di tutta la fruttuosa ambiguità della fotografia, venne qui utilizzato quasi esclusivamente solo l’elemento irrimediabilmente (e felicemente) documentario, il suo contenuto ‘realistico’, ponendo gli aspetti linguistici e narrativi decisamente in secondo piano e svolgendo poi il discorso per ambiti definiti, se non proprio per generi: la famiglia, l’architettura, la moda, la mafia ecc. Ciò risultava particolarmente evidente nei primi capitoli in cui – per fare solo un esempio – si accennava appena e si pubblicava una sola immagine di Giuseppe Cavalli, autore tra i più importanti per la storia della fotografia, e quindi anche della cultura italiana del secondo dopoguerra, ma il cui intento documentario era programmaticamente irrilevante. Una altrettanto scarsa attenzione per gli aspetti linguistici connotava la pubblicazione delle immagini di Luigi Ghirri, non solo presentate in un incongruo b/n, ma per le quali la triste indicazione “originale a colori” era fornita solo nell’elenco a fine volume e non nella didascalia, quasi fosse un elemento secondario del suo universo espressivo. Questa impostazione ‘riduttiva’ ha avuto importanti conseguenze anche nella presentazione dell’opera di autori di più esplicito impianto concettuale come Ugo Mulas e Franco Vaccari, il cui lavoro continuava a essere illustrato senza istituire confronti con quanto accadeva contemporaneamente sulla scena internazionale, in una specie di reiterato esercizio di autarchia critica.
[453] I contatti di Bertelli con la casa editrice torinese risalivano almeno alla metà degli anni Cinquanta. In un Promemoria Bertelli, databile al 1956 e firmato da Giulio Bollati, si ricordava che “ancora l’anno scorso Bertelli ha cercato di lavorare per noi proponendoci tramite [Carlo] Muscetta un libro fotografico su Roma e Venezia nell’Ottocento, libro che non convinceva. Bertelli è amico di Argan e di Zeri.”, AST. Archivio Einaudi, “Corrispondenza”, m. 20, fasc. 291, c. 5. Se la data – come credo – è corretta, la proposta di Bertelli per quanto distante nei contenuti, giungeva a ridosso della prima, isolata e allora fallimentare iniziativa einaudiana legata alla fotografia: la pubblicazione di Un paese, di Strand e Zavattini (1955), nella nuova collana “Italia mia”, che prevedeva “un volume su Roma, prima affidato a Rosselini e poi a Carlo Levi, uno su Napoli affidato a De Sica, e uno su Milano da affidare a Visconti.”, Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta. Torino: Bollati Boringhieri, 1999, p. 736, nota 462. Come è noto, nessuno di quei volumi ‘neorealisti’ venne poi realizzato, ma nel 1960 Einaudi pubblicò l’edizione italiana di un libro che l’editore Belser di Stoccarda aveva commissionato a Carlo Levi sul finire del 1958, Alles ist gewesen, alles ist Italien /Un volto che ci somiglia: ritratto dell’Italia,(edizione americana Eternal Italy. New York: Studio Book – Viking Press, 1960), con fotografie dell’ungherese János Reismann (1905-1976). Il successo editoriale spinse Reismann ad estendere la propria ricognizione alla Sardegna nel dicembre del 1959, mentre Levi ritornò sull’isola nel 1962; da quella duplice esperienza nacque Carlo Levi, Aller Honig geht zu Ende: Tagebuch aus Sardinien; Aufnahmen von János Reismann. Köln: Du Mont Schauberg, 1965 (Tutto il miele è finito. Torino: Einaudi, 1964); si veda oraJànos Reismann 1959. Un fotografo ungherese in Sardegna. Nuoro: Imago, 2010.
Tracce di quel primitivo progetto si potevano ritrovare ancora nel 1968, quando lo stesso Zavattini curò il volume Napoli e i suoi personaggi. Milano: Rizzoli, 1968, con testi di Vittorio De Sica e fotografie di Herbert List, che a sua volta aveva già dedicato un volume a Roma (Rom; Aufnahmen von Herbert List, Einführung und Bilderläuterungen von Hans Mollier. München: Hanns Reich Verlag, 1955) esattamente nello stesso anno in cui si progettava la collana einaudiana.
[454] Di Bollati, che ebbe un ruolo anche nella progettazione della prima monografia intitolata a Mario Gabinio (Avigdor 1981), va ricordata la passione en amateur per la fotografia, cfr. Rosa Tamborrino, a cura di, Giulio Bollati. Intermittenze del ricordo. Immagini di cultura italiana. Torino: Fondazione Torino Musei, 2006, che conteneva anche un breve ricordo di Carlo Bertelli a proposito dell’esperienza condivisa della progettazione degli Annali, Questa ultima arrivata, ivi, pp. 133-135. Dopo aver abbandonato la Einaudi nel 1979, Bollati fu invitato a collaborare con l’ATAC nella progettazione del ciclo di mostre La fotografia vista da …, poi coordinate da Daniela Palazzoli, per la cui curatela invitò Italo Calvino, che oppose un cortese rifiuto, Alberto Arbasino, Leonardo Sciascia e Josif Brodskij, cfr. Ernesto Ferrero, La fotografia come scrittura. Giulio Bollati e La fotografia vista da … In Mazzonis, Verdun di Cantogno, a cura di, Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea: Quarantanni, cfr. supra Nota 331, pp. 73-82.
Anche nella nuova veste di editore in proprio, dal 1987, Bollati avrebbe considerato con particolare attenzione la fotografia pubblicando Galassi 1989; Costantini 1990b; Schwarz 1992; Robert Adams, La bellezza in fotografia: saggi in difesa dei valori tradizionali, edizione italiana a cura di Paolo Costantini. Torino: Bollati Boringhieri, 1995; Mignemi 1995b; De Luna et al. 1997; Bassignana et al. 1998.
[455] N.d.E. [Giulio Einaudi, Nota dell’Editore]. In Bertelli et al. 1979, p. xli.
[456] Lettera di Giulio Bollati a Carlo Bertelli, datata Torino, 1 febbraio,1977, AST. Archivio Einaudi, “Corrispondenza”, m. 20, fasc. 291, c. 65. Nella testimonianza di Lanfranco Colombo fu lui per primo, in occasione della conferenza stampa di presentazione del volume della “Storia” intitolato a I Documenti, a chiedere conto del fatto che nel piano dell’opera “non si fosse trovato un buco per la storia della fotografia o la fotografia come documento storico”, ricevendone una risposta “imbarazzata”, cfr. L. Colombo, [Recensione] Storia d’Italia, 4, Dall’Unità a oggi, “Skema Il Diaframma Fotografia Italiana”, 7 (1975), n. 208, ottobre, p. 11. I due tomi di quel volume contenevano infatti due ‘saggi’ per immagini, non registrati all’indice, il primo relativo a Arretratezza e sviluppo: Immagini di vita italiana, ed un secondo destinato a indagare quale fosse “il luogo della cultura nel tessuto della vita di un paese, quali i suoi legami nel contesto”, utilizzando “immagini nate da occasioni diverse”; soluzione “naturalmente troppo facile che non sia l’argomentare le infinite interconnessioni fra le strutture (…) ma è un esercizio che se tenuto con discrezione dentro i suoi evidentissimi limiti, può portare a qualche risultato non privo di interesse e talvolta suggestivo.”, Giulio Bollati, La cultura di una città: Torino, “Storia d’Italia”, 4.2, Torino: Einaudi, 1975, p.n.n. Va ricordato che, nonostante alcune prestigiose eccezioni, i volumi di argomento fotografico costituivano sino a quella data una percentuale irrisoria del catalogo Einaudi, contrariamente a quanto avveniva per il cinema, con progetti editoriali (Georges Sadoul, Ejzenštein) avviati già nel 1947-1948, cfr. Mangoni, Pensare i libri, cfr. supra Nota 453, p. 440.
[457] Lettera di Bollati a Bertelli, datata Torino, 21 novembre 1978, AST. Archivio Einaudi, “Corrispondenza”, m. 20, fasc. 291, c. 77.
[458] Riunione editoriale del 6 dicembre 1978, AST. Archivio Einaudi, “Riunioni editoriali”, m. 7/ ter, fasc. 8, c. 190.
[459] Il riferimento era al volume di Otto Stelzer, Kunst und Photographie: Kontakte, Einflusse, Wirkungen. München: R. Piper & Co, 1966 (II edizione 1978) del quale non venne poi approntata alcuna edizione italiana. Stelzer aveva fornito anche il poscritto per l’edizione tedesca di Lazlo Moholy-Nagy, Malerei, Fotografie, Film. Mainz: Florian Kupferberger, 1967, della quale Einaudi pubblicò la traduzione italiana solo vent’anni più tardi ma con una inedita presentazione di Beaumont Newhall.
[460] Dovrebbe trattarsi del volume del fotografo e studioso praghese Petr Tausk, Die Geschichte der Fotografie im 20. Jahrhundert. Von der Kunstfotografie bis zum Bildjournalismus, Köln: DuMont Buchverlag, 1977, poi pubblicato in Italia da Gabriele Mazzotta (Tausk 1980).
[461] Promemoria di Bollati per Giulio Einaudi in data 22 gennaio 1979, AST. Archivio Einaudi, “Corrispondenza”, m. 20, fasc. 291, c. 77.
[462] Pur senza entrare nel merito di un confronto analitico tra questa prima ipotesi di lavoro e l’articolazione finale va indicato il notevole mutamento di prospettiva intervenuto nel frattempo, che portò a una concezione più specificamente fotografica nelle scelte e nell’organizzazione dei temi e dei materiali. Basti pensare alla presenza di paragrafi ‘tecnologici’ come quelli intitolati al dagherrotipo e al collodio (ma non al calotipo né alla gelatina bromuro), prima assenti; alla significativa presenza di altri intitolati a vari autori (Primoli, Michetti, Morpurgo o Bragaglia) mentre nella prima versione il solo titolare di una voce era Von Gloeden o ancora al diverso trattamento di temi fungibili, così che – ad esempio – se nel Promemoria si parlava di “Personaggi”, negli “Annali” il paragrafo divenne “Libertà del ritratto”.
[463] Carlo Bertelli, Questa ultima arrivata, cfr. supra Nota 454.
[464] N.d.E. [Giulio Einaudi, Nota dell’Editore]. In Bertelli et al. 1979, p. xli
[465] Basti ricordare ad esempio i richiami a Un Paese di Strand e Zavattini fatti da Ruggiero Romano, che fu il coordinatore della “Storia d’Italia” con Corrado Vivanti, nel saggio Una tipologia economica. In I caratteri originali, “Storia d’Italia”, I, Torino: Einaudi, 1972, pp. 255-304, a proposito del quale ricordava che “se le citazioni sono tratte dal testo, non è per un meccanismo rituale, è perché era più facile che tradurre le impressioni che mi venivano dalle fotografie di Strand. È stato a causa delle immagini del fotografo che ho citato Zavattini” (dall’intervista rilasciata ad Angelo Schwarz, ora in Schwarz 1983b, pp. 36-42). A conferma dell’importante ruolo svolto dalla casa editrice torinese nel favorire la conoscenza italiana di fondamentali saggi di argomento fotografico, già in più occasioni richiamato nel testo, ricordiamo che nel 1978 aveva pubblicato Sulla fotografia, di Susan Sontag, mentre nel 1980 avrebbe edito La camera chiara di Roland Barthes.
[466] Poiché nell’accezione editoriale corrente il termine “apparato” indica un insieme organico e strumentale di elementi conoscitivi, quasi un macro paratesto, quella scelta pareva rivelare e sottendere una latente concezione sostanzialmente strumentale delle fotografie: non (ancora) argomento del discorso storico critico ma (quasi) mero supporto a sostegno e dimostrazione delle tesi sviluppate nei saggi.
[467] Il concetto e la stessa terminologia rimandavano per certi versi alla cultura psicanalitica e freudiana in particolare, esplicitamente richiamata poco oltre da Bollati, sulla scia di Ernest Gombrich, che rifletteva sul passo de L’interpretazione dei sogni in cui Freud instaurava una possibile analogia tra “lo strumento che serve alle nostre attività psichiche [e] un apparecchio fotografico o simili.” (12). Tale passo era già stato considerato da Emilio Servadio, così giungendo a considerare “la macchina fotografica (…) come una estensione, o come la esternalizzazione concreta, dell’apparato psichico in quanto serva – specialmente attraverso l’organo della vista – ad effettuare un collegamento col mondo esterno, a fissare un oggetto o un rapporto con l’oggetto, e a trattenerlo mediante un meccanismo d’introiezione o incorporazione. Da questo punto di vista, la macchina fotografica si può considerare come il prolungamento e l’ampliamento di un’importante funzione dell’io.”, Emilio Servadio, Psicologia e psicopatologia del fotografare. In Astaldi 1967, pp. 63- 67 (63), corsivi dell’autore.
[468] Bollati riconosceva Benjamin come “punto di riferimento obbligato” per quella “sua disponibilità assoluta a lasciarsi affascinare dai fantasmi della fotografia (…) [poiché] egli ci insegna che senza una intima disposizione a coglierne la magia peculiare, che ci rende primitivi, la fotografia non ha da dirci nulla che già non sappiamo dalla cattiva pittura” (Bollati 1979, p. 16), mentre Roland Barthes, La camera chiara. Torino: Einaudi, 1980 ( stesso anno dell’originale) affermava che “davanti a certe foto, volevo essere selvaggio, senza cultura” (9), e ancora: “sono un selvaggio, un bambino – o un maniaco; io mi spoglio di ogni sapere, di ogni cultura, mi astengo dal raccogliere il retaggio di un altro sguardo” (52), assumendo criticamente il senso del diffuso atteggiamento riconosciuto da Bollati. A proposito della genesi e del significato di questo importante, ultimo lavoro si veda almeno Hubert Damisch, L’intraitable, “Critique”, n. 423-424, août-septembre 1982, numero monografico dedicato a Roland Barthes, pp. 680-687, ora in Id., La Dénivelée. A l’épreuve de la photographie., Paris: Seuil, 2001, pp. 14-24 e i diversi contributi raccolti in Gilles Mora, dir., Roland Barthes et la Photo: le pire des signes. Paris : Les Cahiers de la Photographie -Contrejour, 1990. Per le ragioni che abbiamo cercato di illustrare nel testo ci risulta incomprensibile il giudizio sul saggio di Bollati espresso in Russo 2011, p. 221, secondo la quale “il testo trascurava le implicazioni che l’invenzione della fotografia ebbe sulla nascente ‘civiltà’ visuale, privilegiando piuttosto l’analisi dei primi topoi che caratterizzarono la produzione fotografica italiana dall’Unità d’Italia fino al fascismo e alla caduta del regime.”
[469] Bollati 1979, p. 31 passim. Mentre non si può che concordare sulle linee generali, è bene però ricordare, per quanto riguarda questo aspetto, che i più di trent’anni di ricerche e conoscenze acquisite che ci separano da quell’analisi non siano passati invano, tanto che oggi si ha una maggiore consapevolezza dell’articolazione e della complessità di quel quadro culturale e produttivo.
[470] In un altro contesto, ma con accenti analoghi, Gertrude Stein aveva ricordato che “nel Novecento tutto si distrugge e niente continua, il Novecento quindi ha uno splendore tutto suo. Picasso è di questo secolo. Ha la singolare qualità di una terra che nessuno ha mai veduto, di cose distrutte come non sono mai state distrutte.”, G. Stein, Picasso (1938), citato in Stephen Kern, Il tempo e lo spazio: la percezione del mondo tra Otto e Novecento. Bologna: Il Mulino, 1999 (nuova ed. 2007), p. 395.
[471] La formula richiamava, sebbene con diverse intenzioni, quella adottata da Emanuele Sella, “Il Fotografo”, 4 (1922) , n.3, p. 10, che rispondendo al quesito rivolto ai lettori del periodico affermava: “La fotografia? È la documentazione dell’inesistente.” Non abbiamo per ora elementi certi che consentano di identificare l’autore della definizione con l’omonimo membro della famiglia Sella, economista e poeta, poi Rettore dell’Università di Genova, al quale venne dedicato il numero monografico Emanuele Sella (1879- 1946), “Rivista Biellese”, 1 (1947), n.5, settembre-ottobre. Due fotografie di un non meglio identificato E. Sella, di Torino, Nouvelle lune, e Sérenité marine, vennero pubblicate nel numero di maggio-giugno 1915 de “La Fotografia Artistica”.
[472] Bollati 1979, p. 54. Da segnalare quel riferimento alla “fotografia sicura di sé”, che sarebbe stato assunto come categoria da Colin Osman, La Photographie sûre d’elle- même (1930- 1950), nel suo contributo a Jean-Claude Lemagny, André Rouillé, dirs., Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1986, pp. 164-185, (ed. it., Lemagny et al. 1988). Non è possibile qui ripercorrere la fortuna critica e l’influenza del saggio di Bollati sulla storiografia fotografica italiana, ancora determinante nel recente saggio di Roberta Valtorta, con Sarah Patricia Hill, Giuliana Minghelli, Photography and the Construction of Italian National Identity. In Hill et al. 2014, pp. 27-65.
[473] Bertelli 1979b, p. 60. Corsivo di chi scrive, a sottolineare anche qui – e non poteva essere altrimenti – il rimando esplicito all’idea complessa di documento derivata dalla storiografia degli “Annales” e non, come potrebbe apparire a una lettura superficiale, a un’idea ‘documentaria’ della fotografia.
[474] Miraglia 1975; Porretta 1976.
[475] Bertelli 1979b, p. 67, corsivi di chi scrive. Sarebbe meschino voler proporre un elenco ragionato delle lacune informative presenti nel testo, ma credo non inutile segnalarne alcune non solo perché da quelle derivarono considerazioni errate, ma anche perché risultavano in palese contraddizione con alcune affermazioni di Bertelli, in particolare quelle a proposito dal fatto che “la fotografia è strettamente legata alla produzione industriale e cioè agli strumenti che la produzione le mette a disposizione” (109). Se concordiamo con la necessità per la fotografia (anche per la fotografia) di considerare sempre la tecnologia e la materialità come una componente strutturale e quindi imprescindibile per la comprensione dello stesso documento analizzato, anche quando il ragionamento è condotto a grande scala, allora risulta doloroso meditare su affermazioni come “gli sgraffi e le lacune di un’ambrotipia rivelano il supporto della stampa (…) gli sgraffi sulla superficie di un dagherrotipo lasciano invece intravvedere l’immagine che è al di là di quei segni superficiali.” (61); affermazioni che lasciano interdetti ma che aiutano a meglio comprendere le ragioni per cui il regesto e le didascalie non contenessero alcun riferimento alla tecnica delle immagini riprodotte.
[476] “Se la fotografia interrompe la realtà in segmenti non correlati, allora ogni fotogramma è un sondaggio della realtà, uno scandaglio o un prelievo.”, Bertelli 1979b, p. 68.
[477] “È la prima fotografia d’attualità, indifferente alle leggi compositive, calata nelle cose, immediata (…) così la fotografia sportiva diventa entusiasmante scuola della visione moderna.”, Bertelli 1979b, p. 129.
[478] Roberto Longhi, Piero della Francesca. Roma:Valori Plastici, 1927, con 184 riproduzioni in fototipia (nuova edizione aumentata, Milano: Hoepli, 1946, con 207 tavole). Anche Quintavalle 2003, p. 524 avrebbe poi riconosciuto che questa porzione del saggio di Bertelli “per quanto concerne gli Alinari e la foto dell’arte appare in sostanza limitativa e deludente.”
[479] Mario Accolti Gil, L’autoritratto del Bel Paese: cento anni di fotografia italiana. Intervista a Giulio Bollati, “Mondo operaio”, 32 (1979), n. 12, dicembre, pp. 73-86.
[480] Ivi, p. 79. La domanda dell’intervistatore rivelava una concezione tradizionalista dell’immagine come prova testimoniale ancora accessoria al testo, ma anche una certa imprecisione terminologica se non proprio concettuale, essendo paradigmaticamente impossibile tradurre un dato statistico in una sequenza di fotografie (e viceversa).
[481] Nicola Tranfaglia, [Recensione], “Tuttolibri”, 17 novembre 1979, p. 12.
[482] Paolo Spriano, Foto ad alta infedeltà, “L’Unità”, 16 dicembre 1979. Per Franco Cardini, Quando l’obiettivo non è sempre obiettivo, “Industria Toscana”, 26 (1980), 21 marzo, pp.n.n. “da questa alternanza [di fotografie ufficiali e private] si riceve una costante immagine di un’Italia ufficiale lontana dalla reale, scollata da essa, insomma d’una costante vocazione al posticcio, al magniloquente, alla cartapesta, cui si contrappone una ben più umile sintassi quotidiana.”
[483] Anne Marie Boetti, Fotografia: catalogo degli italiani, “Il Manifesto”, 22 dicembre 1979, p. 4.
[484] Rosario Romeo, Plutarco usa l’obiettivo, “Il Giornale Nuovo”, 27 gennaio 1980, consultato in estratto.
[485] Giuseppe Galasso, L’obiettivo sulla storia, “Il Corriere della Sera”, 14 dicembre 1979, consultato in estratto.
[486] Cardini, Quando l’obiettivo, cfr. supra Nota 482, che poneva un’altra questione di non poco conto ricordando che “rimane, alla base di tutto, il dubbio circa l’obiettività d’una scelta che per sua natura non può che essere antologica, e di un antologismo ben più parziale, ben più lacunoso di quello cui siamo abituati attraverso le fonti scritte”; una questione per molti versi non dissimile da quella posta da Mario Accolti Gil.
[487] Cesare de Seta, Italia sommersa, “Paese sera”, 21 novembre 1979, p. 3.
[488] Federico Zeri, [Recensione], “L’Europeo”, 31 gennaio 1980, p. 79.
[489] Guido Bezzola, [Recensione] “Il Giorno”, 24 novembre 1979, consultato in estratto, che ricordava come “La foto 346, ‘Colonna di sbandati dopo Caporetto, tra i Carabinieri’, l’ho già vista come ‘Colonna di prigionieri austriaci avviati a Milano’, il che mi sembra più probabile, anche data la forma del chepì.”
[490] Roberta Clerici, Ando Gilardi, Due Annali attorno alla fotografia, “Phototeca”, gennaio 1980, pp. 184-188.
[491] Ando Gilardi, Meglio ladro che fotografo, “Photo”, 6 (1980), n. 1, febbraio, p. 104. Il titolo riprendeva la formula adottata in una sua vecchia conferenza poi riutilizzata in Id., Meglio ladro che fotografo: tutto quello che dovreste sapere sulla fotografia ma preferirete non aver mai saputo. Milano: Bruno Mondadori, 2007.
[492] A.S. [Angelo Schwarz], [Recensione], “Il Diaframma – Fotografia italiana”, 9 (1980), n. 248, marzo, p. n.n. Sulla fruibilità dell’opera si era espresso favorevolmente anche un altro recensore, per il quale si era “di fronte, infatti, al classico libro che resta, gustoso passatempo casalingo che non stancherà mai, fruibile in continuazione, e da tutti, come lo può essere l’immancabile album di famiglia.”, Massimo Donelli, Cent’anni in posa, “Il Mondo”, 4 aprile 1980, consultato in estratto.
[493] Di tono più encomiastico risultava la recensione non firmata pubblicata nel primo numero di “RSCF”, 1 (1980), n.1, ottobre, p. 78, diretta dallo stesso Schwarz in cui si sottolineava come quell’iniziativa costituisse “il capitolo mancante di una storia d’Italia finalmente vista attraverso la fotografia. (….) Quest’opera (…) non considera la fotografia e la sua storia come isolate, avulse da un contesto, portate avanti per autori come si è soliti fare, ma al contrario la fotografia è vista come uno strumento di comunicazione all’interno di un quadro di relazioni storico – culturali che risulta essere estremamente ampio. (…) È per la sua organicità che questo libro, che è pur sempre uno degli annali della Storia d’Italia, riesce a dire sulla storia globale della fotografia molto di più di quanto non dicano i libri o i saggi su questo o quell’autore, su questo o quel genere, su questa o quella scuola fotografica.”
[494] A.C. Quintavalle, Introduzione. In Id. 1983, pp. xi-lix (xvi). È interessante rilevare come l’individuazione dell’impianto metodologico dell’opera di Bertelli e Bollati condotta da Quintavalle non riscontrasse alcuno degli elementi positivi segnalati dal recensore di “RSCF” di cui alla nota precedente.
[495] Talbot 1977; Talbot 1980; Talbot 1981; Sella 1980; Gaudin 1987; Daguerre 1989. Altri furono gli intenti e i metodi delle antologie documentarie allegate a più di un testo di storia o delle raccolte criticamente commentate, quali Costantini et al. 1985.
[496] Settimelli 1979. Un intento divulgativo caratterizzava anche Settimelli 1982, pubblicato nella collana “Libri di base” (42), diretta da Tullio De Mauro, volume che, muovendosi tra teoria, storia e manualistica, comprendeva anche due capitoli su Una protagonista della vita moderna e Storia di una scoperta collettiva.
[497] A puro titolo di esempio segnaliamo come a p. 21, nella didascalia del ritratto del Cardinale D’Amboise si potesse leggere “A destra un disegno fotogenico famosissimo di Niépce”, mentre poco oltre, a proposito dei disegni italiani di Talbot si parlava del ricorso a “una camera oscura o camera lucida”. E ancora: “Hippolite Bayard (…) piazzava nella camera oscura [dei fogli di carta] ottenendone dei negativi dai quali stampava copie” (73), non riuscendo evidentemente a distinguere tra il procedimento negativo/ positivo di Talbot e i positivi diretti del francese. E come dimenticare poi gli “americani David Hill e Robert Adamson” (78). Nella sommaria bibliografia che chiudeva il volume non erano comprese le fonti ampiamente utilizzate nel testo né i titoli italiani più recenti quali il repertorio di Becchetti e la storia di Zannier, entrambi del 1978, mentre – pur con qualche imprecisione (Gian Maria invece di Giuseppe Maria) – citava e utilizzava il saggio dedicato a Bayard. Der erste Lichtbildkünstler, [Bayrad. Il primo artista a disegnare con la luce]. Paris: Prisma, 1943, scritto da Lo Duca “nella lingua degli occupanti”, che dobbiamo supporre gli fosse particolarmente ostica. Quel testo venne ricordato anche da Gilardi 1976, p. 5, secondo il quale Lo Duca dimostrava “con una quantità di prove indiscutibili, o almeno altrettanto attendibili di quelle che provano i meriti di Niépce e Daguerre” che “Bayard sia stato il primo ad aver ottenuto disegni fotogenici.”
[498] Arborio Mella 1976.
[499] Gernsheim 1981.
[500] Gilardi 1978, p. 162.
[501] “All’invenzione della fotografia l’Italia era stata preparata dall’utilizzazione diffusa presso gli artisti della camera obscura”, affermava la studiosa – non senza una qualche forzatura – per introdurre la citazione da Algarotti, ma poi il pensiero si troncava, cfr. Palazzoli 1981b, p. 151.
[502] Ivi, p. 162. Questa affermazione sorprendente costituiva l’ennesimo sintomo della difficoltà dei primi studiosi italiani a coniugare ricostruzione storica e comprensione delle implicazioni tecnologiche del loro oggetto di studio.
[503] Gernsheim 1954.
[504] Non tradotto in Italia e caratterizzato da una prospettiva che aveva però ragioni più editoriali che metodologiche, determinate dall’inserimento in una collana particolarmente attenta alle tecniche artistiche (il disegno, la stampa, il pastello) il volume dedicato alla fotografia dallo storico dell’arte svizzero Jean-Luc Daval (1982) strutturato nelle tre grandi sezioni intitolate “Reproduire”, “Produire”, “Exprimer”, che dovevano corrispondere alle tre funzioni fondamentali del mezzo. Al di là delle contraddizioni interne, l’aspetto interessante e per molti versi innovativo era costituito da un abbandono delle classiche partizioni tecnologiche e dal costante confronto tra fotografie, dipinti, disegni e grafica, estendendo il modello costituito dai precedenti studi di Scharf (1979) sino a proporre una sintetica storia della cultura visiva del XIX e XX secolo.
[505] Wiesenthal 1983, edizione originale Historia de la Fotografía. Barcellona: Salvat, 1979. Per quanto possa apparire singolare, le didascalie alle immagini pubblicate a corredo dei vari capitoli e delle brevi schede monografiche per autore solo occasionalmente indicavano la data di realizzazione, mai la tecnica o il formato. Da segnalare anche l’assoluta mancanza di riferimenti bibliografici o di una bibliografia di supporto.
[506] Chiaramonte et al. 1983.
[507] Segnaliamo a puro titolo di esempio le considerazioni a proposito dell’esperienza “pittorialista che non deve essere semplicisticamente liquidata come momento di imitazione della pittura da parte della fotografia. (…) Il pittorialismo è insomma un primo tentativo di sottrarre la fotografia alla sua originaria funzione realistica.”, Bonini 1983, p. 280.
[508] Tale intenzione divulgativa era ben chiara nel titolo dell’edizione americana: The story of photography. An illustrated history. Millerton, NY: Aperture, 1983.
[509] Sfuggivano a quella efficacia alcuni errori madornali, quali il presentare un ambrotipo come esempio di dagherrotipo nell’illustrazione della scheda n. 11 La nascita ufficiale della fotografia, p.n.n.
[510] Nonostante la vasta esperienza di traduttrice, anche di testi di fotografia, si trovavano a volte tracce di un certo sussiegoso ritegno che oggi fa sorridere; come spiegare altrimenti che nelle didascalie alle immagini si ricorresse alla locuzione “stampa su carta imbevuta di una soluzione salina” per indicare una carta salata?
[511] Newhall 1984, Prefazione, p. IX.
[512] Costantini 1985f.
[513] Cfr. New Topographics: Photographs of a Man- Altered Landscape, catalogo della mostra (Rochester, NY, International Museum of Photography at the George Eastman House, ottobre 1975 – febbraio 1976), William Jenkins, ed. Rochester, NY: International Museum of Photography, 1975. Sull’influenza determinante di quel progetto anche per la scena italiana degli anni Ottanta e per il ruolo svolto da Paolo Costantini, si veda William Guerrieri, Attualità del documentario. In Roberta Valtorta, a cura di, Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea. Torino: Einaudi, 2013, pp. 193-256.
[514] “the most prolific jotter of the Stieglitz era (…) an impious predecessor to the photo-journalism of the 1930s.”, Jeffrey (2003 [1981]), pp. 107-108. Anche Daval 1982 lo aveva ricordato, accanto ai soli Alinari e Bragaglia (citando tra i contemporanei Franco Fontana ma non Luigi Ghirri).
[515] De Paz 1986. Con ben diversa impostazione e competenza critica, la considerazione per i problemi teorici e le poetiche della fotografia è stata ulteriormente approfondita da un altro studioso di area bolognese come Claudio Marra, Pensare la fotografia. Teorie dominanti dagli anni Sessanta a oggi. Bologna: CLUEB, 1992, che ha anche affrontato i temi del rapporto con le arti visive in Fotografia e pittura nel Novecento. Milano: Bruno Mondadori, 1999, e ancora la storia e le idee della fotografia di moda (Id., Nelle ombre di un sogno, Milano. Bruno Mondadori: 2004).
[516] De Paz 1986, p. 114.
[517] Quelle pagine riproponevano quanto già pubblicato in A. De Paz, Tesi per una sociologia dell’immagine fotografica, “Fotologia”, vol. 3, luglio 1985, pp. 76-81; vol. 4, dicembre 1985, pp. 120-127, ma con una variazione lessicale di cui non sembrava aver colto le implicazioni teoriche e metodologiche, come se si potesse indifferentemente parlare di fotografia o di immagine fotografica.
[518] De Paz ne individuava le principali nella insufficiente analisi teorica che “è soltanto ai suoi inizi e lascia spesso libero corso a dei discorsi fantastici ricalcati sull’analisi testuale”, e “nei dibattiti interni alla fotografia che hanno a lungo mascherato – e continuano parzialmente a mascherare – le poste e le prospettive storiche.”, De Paz 1986, p. 113.
[519] De Paz 1986. Tale posizione era esplicitamente espressa alla nota 15 (p. 279) in cui affermava che “non è nelle intenzioni di questo lavoro fare un panorama specifico della fotografia italiana. Tuttavia ci preme evidenziare nominativamente (…) alcuni fotografi la cui attività (in un arco temporale che dal secondo dopoguerra arriva fino al presente attuale) ha avuto un rilievo non marginale nell’ambito della cultura italiana e spesso anche internazionale”. Non ha senso entrare qui nel merito critico delle scelte, non sempre condivisibili, con cui De Paz aveva stilato l’elenco, ma almeno segnalare che da quello andava certamente escluso Giuseppe Pagano, deceduto tragicamente – com’è noto – nel 1945.
[520] Lemagny et al. 1988. Nella carenza generale di strumenti e stante i limiti ancora maggiori della Storia di Newhall il volume curato da Lemagny-Rouillé divenne uno dei testi di riferimento per la didattica dei corsi italiani di Storia della fotografia.
[521] Jean-Claude Lemagny, Introduzione. In Lemagny et al. 1988, p. 9. Di diverso avviso fu Naomi Rosenblum nel dare alle stampe A World History of Photography. New York: Abbeville Press, 1984, non tradotto in italiano, che già nel ricorso all’articolo indeterminativo mostrava di voler relativizzare la propria proposta. Un libro “is designed to distill and incorporate the exciting findings turned up by recent scholarship in a field whose history is being discovered daily. It summarizes developments in photography throughout the world and not just in Europe and the Americas – areas that in the past received almost exclusive attention. (…); this book is intended to present a historical view that weaves together the various components that have affected the course of photography, revealing an overall design without obscuring individual threads.” (10). L’assunto fondamentale era costituito dal riconoscimento del ruolo determinante svolto dalla fotografia nella definizione della cultura moderna e contemporanea, sia come forma di comunicazione sia come elemento di riflessione sui problemi posti dalla stessa percezione e interpretazione del reale. “To do justice to these objectives, the material in this book is structured in a somewhat unusual way. The chapters are organized chronologically around themes that have been of special significance in the history of the medium – portraiture, documentation, advertising and photojournalism, and the camera as a medium of personal artistic expression.” (ibidem). Anche il trattamento editoriale delle immagini era posto quale problema critico, quindi per evitare che “the viewer assumes that the original print and its image in printer’s ink are interchangeable”, le fotografie vennero tutte riprodotte in bianco/nero demandando alla descrizione verbale e ad un piccolo inserto intitolato in modo un poco fuorviante “The Origins of Colour” il compito di illustrare la ricchissima gamma cromatica e tonale delle immagini fotografiche monocrome, che dovevano essere ‘viste’ “in the mind’s eye.”
[522] André Rouillé, Conclusione. In Lemagny et al. 1988, pp. 255-256.
[523] Fernando Tempesti, Storia e fotografia, “AFT”, 5 (1989), n. 9, giugno, p. 63; di più ampie dimensioni ma sostanzialmente descrittiva e più attenta alle “imprecisioni filologiche” che non alle questioni di metodo la recensione di Italo Zannier, “Fotologia”, v. 10, autunno/ inverno 1988, pp. 103-104. Fortemente critico nei confronti dei presupposti concettuali che presiedettero all’impostazione dell’opera la recensione del fotografo e studioso canadese Jean Lauzon, “Horizons philosophiques”, 4 (1993), n. 1, automne, p. 117-123 , URI: https://www.erudit.org/fr/revues/hphi/1993-v4-n1-hphi3178/ [14 08 2017], che dopo aver sottolineato il malcelato idealismo del progetto di cui era più che un indizio la mancanza dell’articolo nel titolo, che rimandava a un’idea assoluta di storia, condannava senza appello “la notion épistémique d’à priori [que] nous semble omniprésente; de l’histoire d’abord, perçue comme autorité, et de ses caractéristiques: ‘étapes’, ‘personnalités phares’, dont découlera la méthode. Elle sera basée sur la continuité, sur l’enchaînement ‘d’étapes’ successives comprises en termes de cause et d’effet, la causalité étant l’instrument choisi pour ‘comprendre’.”, (117).
Va qui almeno ricordato il contributo a una ridefinizione del quadro teorico di interpretazione della fotografia e della sua storia culturale offerto da Diego Mormorio (1985) con una saggio ricco di ambizioni antropologico filosofiche, fondato sull’assunto che “soltanto l’uomo occidentale poteva realizzare una macchina siffatta ed entusiasmarsene.” (16) E ancora: “Attraverso la nascita e l’affermazione della rappresentazione prospettico – matematica si costituiva definitivamente qualcosa che possiamo definire ideologia dell’istantanea.” (21, corsivo dell’autore); posizione per molti versi interessante se non fosse per un certo implicito determinismo teleologico ma, soprattutto, per una assunzione di coincidenza tra la dimensione spaziale (la prospettiva) e quella temporale (l’istantanea) che risultava incomprensibile e inaccettabile al di fuori della fisica quantistica. Per più approfondite riflessioni su questi temi, secondo prospettive diverse, si vedano almeno Ruggero Pierantoni, L’occhio e l’idea: fisiologia e storia della visione. Torino: Bollati Boringhieri, 1981; Ruggero Pierantoni, Forma fluens: il movimento e la sua rappresentazione nella scienza, nell’arte e nella tecnica. Torino: Boringhieri, 1986; Stephen Kern, Il tempo e lo spazio, cfr. supra Nota 470; Martin Kemp, Immagine e verità. Milano: Il Saggiatore, 1999; Jean-Jacques Wunenburger, Filosofia delle immagini. Torino: Einaudi, 1999; Martin Kemp, Seen/unseen: art, science, and intuition from Leonardo to the Hubble telescope. Oxford: Oxford University Press, 2006; Andrea Pinotti, Antonio Somaini, a cura di, Teorie dell’immagine: il dibattito contemporaneo.Milano: Raffaello Cortina, 2009; Hans Belting, Antropologia delle immagini. Roma: Carocci, 2011.
[524] André Rouillé, La fioritura della fotografia (1851- 1870). In Lemagny et al. 1988, pp. 28-51(42).
[525] Molly Nesbit, Fotografia, arte e modernità (1910- 1930), ivi, pp. 102-123 (105-106).
[526] Angelo Schwarz, L’Italia fascista, ivi, pp. 136-140. A sostegno di questa lettura Schwarz considerava l’enorme quantità di immagini utilizzate per la Mostra del decennale della rivoluzione fascista del 1932 che non comprendeva riproduzioni di fotografie d’autore; sulla quella mostra cfr. Russo 1999; Morello 2000b.
[527] A.C. Quintavalle, Introduzione. In Id. 1983, p. xi.
[528] Carlo Bertelli intervistato da Angelo Schwarz (1978), ora in Schwarz 1983b, pp. 78-82 (81).
[529] Quintavalle, Introduzione, citato, p. xi; se non diversamente indicato tutte le citazioni seguenti sono tratte da questo testo, segnato “da accenti di partecipazione e di indignazione che hanno una levatura biblica”, come aveva rilevato, non senza una sottesa ironia Fernando Tempesti nella recensione a questa raccolta di scritti pubblicata nel primo numero di “AFT”, p. 58.
Il riferimento sembrava essere agli esiti della Circolare n° 369 del 21 ottobre 1970 del Ministero della Pubblica Istruzione, che aveva formalizzato l’insegnamento della fotografia nelle Accademie di Belle Arti, includendo tra i primi titolari Mimmo Jodice a Napoli, Vittorugo Contino a Roma (poi Roberto Bossaglia dal 1981) e Giorgio Avigdor a Torino. Solo nel 1990 venne poi messo a punto uno specifico programma didattico da parte di una commissione composta da Daniela Palazzoli, Mimmo Jodice e Angelo Schwarz.
[530] Più oltre il concetto veniva ribadito affermando che, a proposito di fotografia, “il primo restauro da condurre è quello degli insiemi che sono continuamente distrutti (…); intendo dire che gli archivi vengono selezionati sulla base del possibile mercato dei pezzi, che alcuni testi vengono di regola quindi scartati, anche se l’interesse antropologico, certo non quello commerciale, sarebbe enorme.” (xv)
[531] Quintavalle et al. 1980, p. VII. Sullo studio Villani si vedano ora anche Bondoni 1981; Mazza et al. 1988; Guerra 2005.
[532] Nel corso del convegno di presentazione di “AFT” del 1985 anche Oreste Ferrari si sarebbe scagliato contro quella ipotesi accentratrice, notando che “chi se ne è più assiduamente interessato ha anche sovente avviato operazioni di indiscriminato accaparramento, quasi punto dalla tarantola di un nuovo e personale centralismo.”, O. Ferrari, Istituzioni e fotografia. In Materia e tempo 1985, pp. VII-IX.
[533] Jeffrey (1981) 2003 p. 7.
[534] Le diverse accezioni del qualificativo “documentario” in relazione alla fotografia sono state discusse in una serie di incontri, curati da Silvia Paoli e Giorgio Zanchetti, che si svolsero al Civico Archivio Fotografico di Milano al Castello Sforzesco, poi raccolti in Paoli et al. 2013.
[535] Quintavalle et al. 1980; ora In Id. 1983, pp. 25-52 (44).
[536] Nicola Tranfaglia, [Recensione], 1979, cfr. supra, nota 484.
[537] Cardini, Quando l’obiettivo, 1980, cfr. supra Nota 482; corsivo di chi scrive.
[538] Rosario Romeo, Plutarco usa l’obiettivo, 1980, cfr. supra Nota 484.
[539] Giordano 1981.
[540] La qualificazione si doveva a Luigi Goglia, Brevi considerazioni sull’album fotografico privato come documento storico. In Lusini 1996a, pp. 119-121. Ortoleva (1983 p. 1135), pur qualificando come “ingenue” le riflessioni di Giordano gli riconosceva di aver espresso “esplicitamente convinzioni diffuse nella professione storiografica”, mentre per Adolfo Mignemi (1992 [1988], p. 77) Michele Giordano aveva manifestato “ una scarsa conoscenza di cosa sia in realtà un’immagine fotografica”.
[541] Rino Mele, Il mago e il chirurgo. In Fotografia etnofotografia 1983, pp. 9-13, corsivi dell’autore.
[542] Clara Gallini, Fotografie di fantasmi, ivi, pp. 30-32, corsivo dell’autrice.
[543] Goglia 1985.
[544] Goglia 1983.
[545] Papagno 1983, p. 6. Una concezione per certi versi analoga venne espressa anche da Franco Cardini (1986), che dal riconoscimento che le fotografie sono “autentiche opere storiche esse stesse” faceva derivare il curioso concetto che esse debbano essere considerate “non fonti, bensì elaborazioni di fonti.”
[546] Luigi Tomassini, Ricerca storica e documenti fotografici. In Lusini 1996a, pp. 44-49 (46).
[547] Ortoleva 1983.
[548] Max Kozloff, Photography & Fascination: Essays. Danbury (New Hampshire): Addison House, 1979. Va ricordato che “cultura fotografica” era categoria tutt’altro che nuova; semmai sottoposta nel tempo a un processo di risemantizzazione che ne ha progressivamente modificato i primitivi contenuti tecnici e tecnologici.
[549] In una successiva occasione lo studioso avrebbe poi richiamato i pericoli insiti nel generico appiattimento di questa tipologia di fonti con l’uso indistinto del termine “fotografia”; rischio analogo – scriveva – a quello di chi pretendesse di assimilare “i Promessi Sposi e magari le istruzioni scritte sul retro di una lavapiatti perché sono entrambi fonti a stampa.”, Peppino Ortoleva, Fotografia come fonte storica, trascrizione dell’intervento al seminario di studi La fotografia nella ricerca e nella didattica della storia, Vercelli, 19 marzo 1987, dattiloscritto, Archivio storico dell’ISRSC Bi-Vc, Varallo.
[550] Tomassini 2012, p. 102.
[551] Cardini 1986, p. 42.
[552] Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico. Torino: Einaudi, 1950, (nuova edizione, a cura di Étienne Bloch: Torino: Einaudi, 1998), citato in Fanti 1986, dalla ristampa del 1975, p. 39.
[553] Fanti 1986, p. 81.
[554] Ivi, p. 82.
[555] Sega 1988.
[556] Ivi, p. 63 in cui si poteva riconoscere una eco di questo notissimo passaggio di Susan Sontag: “Un quadro falso (cioè un quadro con un’attribuzione sbagliata) falsifica la storia dell’arte. Una fotografia falsa (cioè una fotografia ritoccata o manomessa, o accompagnata da una falsa didascalia) falsifica la realtà.”, Susan Sontag, L’eroismo della visione. In Id., Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società. Torino: Einaudi, 1978, pp. 74-98 (75); un passaggio certo ben presente anche a Fanti 1986 per il quale “lo stesso falso fotografico diventa un’importante testimonianza di una vera intenzione”, (p. 85, corsivo dell’autore).
[557] Fanti 1986, p. 83.
[558] Mignemi 1992, p. 76. Ancor prima delle sistematizzazioni teoriche e metodologiche, Mignemi aveva avuto occasione di proporre due importanti modelli operativi con la curatela di una mostra (Mignemi 1982) e di un libro (Mignemi 1984) dedicati al ruolo dell’immagine nell’avventura etiope del 1935-1936, la cui novità risiedeva proprio nel sistematico ricorso a una lettura critica di queste fonti, compresi gli album fotografici di produzione privata, quale veicolo di comprensione dei fenomeni studiati. Le prime riflessioni furono di poco successive: cfr. Adolfo Mignemi, Fotografi dell’insurrezione. In L’insurrezione in Piemonte, atti del convegno di studi (Torino, 18- 20 aprile 1985), a cura dell’Istituto storico della Resistenza in Piemonte. Milano: Franco Angeli, 1987, pp. 493-495.
[559] Mignemi 1992, p. 78.
[560] Miraglia 1981a, che nella nota posta in chiusura del saggio avvertiva che “per motivi editoriali questo studio viene pubblicato a distanza di due anni dalla sua stesura”, aggiungendo inoltre che “per questo motivo” aveva deciso di lasciare “inalterato il testo”, aggiornandolo solo mediante opportuni riferimenti richiamati in nota e nella Bibliografia consultata, posta in appendice, che per ampiezza e una certa ridondanza (specie per quanto riguardava la manualistica tecnica) si proponeva semmai come repertorio. Seguendo quelle istruzioni il testo andava considerato in parallelo con quanto pubblicato dall’autrice nei cataloghi delle mostre del 1979, di cui per complessità e articolazione avrebbe dovuto in un certo qual modo costituire la matrice.
[561] Come rilevava non senza una punta di sottile acredine un recensore: “Il primo indubbio pregio dei saggi di Marina Miraglia (…) è di vedere la luce nel tomo II della terza parte della eccellente Storia dell’arte italiana edita da Giulio Einaudi. Il secondo pregio dei due interventi è, in un certo senso, il loro essere metodologicamente contrapposti, di rappresentare due possibili modi di approccio alla (…) storia della fotografia, là dove la Miraglia, per l’appunto, privilegia il rendiconto di sue e altrui ‘ note ‘, il Gilardi privilegia un tentativo di sintesi. Resta comunque il fatto che tutti e due gli apporti potrebbero essere citati a mo’ di esempio a molti saggisti d’oltralpe, d’oltremanica, d’oltre oceano, usi a considerare la fotografia come qualcosa chiuso in sé stesso. Qua e là nei due testi appare qualche dato nuovo anche per i cultori della fotografia, pur se la validità precipua di questi due saggi è quella di rendere giustizia all’immagine meccanica, protagonista recentissima delle cronache dell’arte italiana.”, Red., [Recensione], “RSCF”, 2 (1981), n.2, febbraio, pp. 78-79.
[562] Cfr. la bibliografia citata alla voce Filippo Rocci, redatta da Miraglia. In Miraglia et al. 1979b, pp. 86-91 (p. 87). Segnaliamo l’analogia, certo casuale, col titolo “Note di storia della fotografia” adottato dal “Corriere Fotografico” nel secondo dopoguerra per una sua rubrica.
[563] Lettera non datata, ma “post 1977”, citata in Russo 2011, p. 222, che ha pubblicato stralci della corrispondenza in merito intercorsa tra Fossati e Miraglia, qui ripresa. L’appendice non venne poi realizzata, verosimilmente in conseguenza della pubblicazione del repertorio di Becchetti 1978.
[564] I curatori furono Giovanni Previtali per la prima parte, relativa a “Materiali e problemi”, e Federico Zeri per la seconda, “Dal Medioevo al Novecento” e per la terza, “Situazioni, momenti, indagini”, che comprendeva anche il volume con i contributi di Miraglia e Gilardi.
[565] Lettera di Fossati a Miraglia, datata Torino, 29 marzo 1976, citata in Russo 2011, p. 222.
[566] Spalletti 1979.
[567] Fernando Mazzocca, L’illustrazione romantica, “Storia dell’Arte Italiana”, IX- 2. Torino: Einaudi, 1981, pp. 321- 419.
[568] E. Spalletti, La documentazione fotografica degli Alinari sull’arte del XIX secolo. In Settimelli et al. 1977, pp. 184- 197.
[569] Spalletti 1979, p. 457. Lamberto Vitali aveva già ricordato a suo tempo le parole di Eugéne Delacroix, che considerava “il dagherrotipo (…) come un traduttore incaricato di iniziarci più addentro ai segreti della natura, perché, ad onta della sua stupefacente realtà in certe parti, non è che il riflesso del vero, che una copia in un certo senso falsa a forza d’essere esatta.”, cfr. Vitali 1960, pp. 8- 9, che così chiosava: “Osservazione, quest’ultima, davvero acutissima.” E come non essere d’accordo.
[570] In particolare emergeva un’impropria metodologia di identificazione, che rimandava alla tecnica (ipotetica) della matrice, del negativo originario, e non descriveva quella della stampa, cioè dell’opera effettivamente riprodotta. Si veda a titolo di esempio la (presunta) assenza totale di stampe su carta salata, anche in riferimento ad autori come Caneva o Sacchi, le cui opere erano identificate come “calotipia” pur trattandosi con tutta evidenza di positivi. Analogamente stupiva l’assoluta eccezionalità di stampe all’albumina, tutte molto tarde (es. Michele Bovi, 1894 ca., tavv .659-660), mentre la maggior parte delle opere era identificata come “collodio”, eventualmente associato alla qualifica di “umido”, il che di nuovo non solo lasciava intendere che il riferimento fosse al negativo originario, di cui allora sarebbe stata riprodotta senza dichiararlo una stampa moderna, ma ne presupponeva la conoscenza diretta, probabile o possibile solo in rarissimi casi. Per un ulteriore esempio con significativa rilevanza critica cfr. infra Nota 579.
[571] Filibero Menna, La linea analitica dell’arte moderna: le figure e le icone. Torino: Einaudi, 1975.
[572] Citato in Miraglia 1981a, p. 441. Ad Algarotti si era già riferito Alberto Prandi, Veneto. In Miraglia et al. 1979a, pp. 123-126 (124) ma in quegli stessi mesi la citazione venne utilizzata anche da Palazzoli 1981b, p. 151; cfr. infra Nota 725.
[573] Miraglia 1981a, p. 438. Più in particolare risultava difficile individuare nella produzione fotografica ottocentesca un qualsivoglia processo di liberazione dalla costruzione prospettica lineare, così intrinseca all’apparato per usare la terminologia di Vilém Flusser; neppure pare di poter riconoscere una connessione necessaria e sufficiente tra l’essere la fotografia una “visione alternativa del mondo” rispetto alla pittura e la propria capacità espressiva, da ricercarsi altrove: quantomeno nella consapevolezza dei propri mezzi.
[574] Si vedano, ad esempio, Bordini 1990; Cavanna 2005d.
[575] Miraglia 1981a, p. 497. Anche Quintavalle 2003, pp. 530-531, pur considerando il saggio di Miraglia “il maggior contributo sulla storia della fotografia dell’Ottocento in Italia” ne aveva contestato le considerazioni storico critiche a proposito di pittorialismo. “Sostenere questo [il pittoricismo come “malattia infettiva”] vuol dire porsi di fronte alla storia delle immagini con un modello a priori, un modello che privilegia altre icone, per esempio quelle straight (…) o quelle realistiche, o altre ancora, respingendo tutte le altre. (…) Il nodo critico è nelle ideologie, esistono infatti in Italia ideologie diverse nelle diverse aree culturali e nelle diverse epoche, come esistono in Europa ideologie differenti collegate alle immagini; la immagine del Pictorialims non è una corruzione della ‘vera’ fotografia perché la vera fotografia non esiste, esistono le culture delle diverse fotografie, delle diverse immagini, e le idee che stanno a monte di esse.” Per Quintavalle questa concezioni aprioristica del fenomeno pittorialista accomunava gli interventi di Miraglia e di Zannier (ivi, p. 548).
[576] Questi temi sarebbero poi stati approfonditi particolarmente in Costantini 1990b e in Id., I congressi fotografici nazionali, luoghi dello scambio intellettuale. In Zannier 1993d, pp. 53-68, cfr. infra Nota 733.
[577] Miraglia 1987a.
[578] Avigdor 1981, con dedica a Giulio Bollati, che per ammissione dello stesso autore tanta parte ebbe nella realizzazione del volume. La studiosa avrebbe successivamente rovesciato quella prima impressione riconoscendo più correttamente che Gabinio comprendeva “nell’immagine e nella maggior parte dei casi anche la figura umana” (Miraglia 1990, p. 72) ma purtroppo assegnando la sua “appassionata e capillare investigazione” agli ultimi anni del XIX secolo quando invece si sviluppò piena nel primo trentennio del successivo. Le immagini lì pubblicate (tavv. 163-166), con data 1900 devono quindi più opportunamente essere riferite al 1925-1930, cfr. Cavanna et al. 1996.
[579] Miraglia 1981a, pp. 476-477, tavv. 637-639. Nessuna di quelle immagini poteva però essere descritta come «calotipia, 1839», trattandosi in tutta evidenza di positivi, cioè di carte salate ricavate da calotipi, secondo il procedimento messo a punto da Talbot nel 1840 e reso noto nel 1841.” Il ritratto maschile (t. 637), non è un Autoritratto (?) ma raffigura John Frederick Goddard, ed è datato sul negativo 9 aprile 1842 (https://talbot.bodleian.ox.ac.uk/search/catalog/schaaf-1826). La Statua marmorea di nudo femminile (t. 638), siglata al verso, non compare nel catalogo delle opere di Talbot, sebbene Miraglia 1990 nota 123 p. 36, ricordasse che “un altro esemplare (datato al 1840-1842) figurava nella mostra curata da Hubertus von Amelunxen, Die aufgehobene Zeit. Dier Erfindung der Photographie durch William Henry Fox Talbot, Nishen Verlag, Berlin, 1989. Il Disegno con armigeri (t. 639), siglato in basso a destra, è la copia di una stampa di Johann Strixner tratta da un disegno di Adriaen Brouwer (https:// talbot.bodleian.ox.ac.uk/ search/catalog/ schaaf-4106) ricavata da un negativo di carta cerata ottenuto per contatto. Nell’Archivio della Fondazione Sella di Biella non sono stati ad oggi reperiti documenti che consentano di stabilire occasione e provenienza di questa serie di carte salate. La tradizione suffragata da Vittorio Sella vorrebbe che queste immagine fossero pervenute al padre Giuseppe Venanzio dal conte bolognese Giovanni Battista Ercolani, che le avrebbe a sua volta ottenute da Michael Faraday, ma le successive ricerche condotte da Laura Gasparini per incarico di Marina Miraglia non hanno potuto offrire alcuna conferma in tal senso. Sebbene resti irrisolto il nesso Ercolani – Faraday, il riferimento sembra però essere troppo preciso per risultare completamente errato. Si potrebbe allora supporre che se il tramite fosse stato veramente Ercolani, grande studioso di veterinaria (in contatto anche con Charles Darwin) e membro della Costituente romana nel 1849 in quanto deputato di Bologna, quindi profugo a Torino dopo il 1851 dove divenne direttore della Regia scuola di medicina veterinaria, quelle fotografie potevano far parte del nucleo inviato da Talbot a Giovanni Battista Amici, che costruì uno dei suoi notissimi microscopi per Ercolani, a sua volta legato anche ad Antonio Bertoloni, altro corrispondente di Talbot, a cui si deve l’Album di disegni fotogenici oggi al Met di New York . In un momento successivo, collocabile tra il 1856 e il 1863, data di pubblicazione delle due edizioni del Plico, quelle preziosissime stampe sarebbero state donate da Ercolani a Giuseppe Venanzio Sella per il tramite del fratello Quintino, per ragioni che potremmo anche supporre ‘politiche’. Le verifiche e le ipotesi formulate in questa nota, oltre al fondamentale The William Henry Fox Talbot Catalogue Raisonné e all’altrettanto determinante The Correspondence of William Henry Fox Talbot (http://foxtalbot.dmu.ac.uk/), si fondano sui dati tratti da Albertotti 1926; Zannier 1978b; Smith 1991; Daniel 1992; Meschiari 2001; Smith 2002; Meschiari 2003; Saunders 2015; Discorso inaugurale letto dal prof. Gio. Battista Ercolani e parole del rettore per l’inaugurazione del monumento ad Antonio Bertoloni. Bologna: Società Tipografica dei Compositori, 1873; Angelo Varni, Giovanbattista Ercolani: il “Risorgimento” di uno scienziato, in “Percorsi Storici”, 5 (2017) [http://www.percorsistorici.it/numeri/] (29 11 2019).
[580] Il mercato avrebbe poi fatto valere le proprie esigenze in altra forma, ben più condizionante ed efficace, attraverso le sempre più numerose riviste fotografiche, luogo determinante di orientamento del gusto e di promozione pubblicitaria dei prodotti fotografici.
[581] Miraglia 1981a, p. 494. L’utilizzo della categoria benjaminiana appare qui quantomeno riduttivo se non addirittura in contrasto con l’accezione originaria poiché per Benjamin non si trattava affatto di “casualità dei meccanismi fotografici” ma, all’opposto, di “spazio elaborato inconsciamente” dall’apparato fotografico, cioè di una strutturazione linguistica da cui è esclusa la consapevolezza dell’uomo, cfr. Benjamin 1966 [1931], pp. 62-63. Della sterminata bibliografia sull’argomento citiamo almeno, per la specifica pertinenza a questo tema e per la rilevanza che hanno avuto nel contesto italiano, i saggi di Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico, 1979, cfr. supra, nota 397 e di Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia. Torino: Agorà, 1987 (nuova ed. Milano: Bruno Mondadori, 2006).
[582] Russo 2011, p. 222, la quale aggiungeva che per la sua impostazione basata “sull’analisi della tradizione non solo pittorica ma anche delle altre arti grafiche costituiva, dunque, uno dei modelli metodologici più conformi all’impostazione di Newhall, che tra l’altro lo apprezzò molto”, ciò che testimonia una buona (e per noi inedita) conoscenza della lingua italiana da parte dell’insigne studioso. Mentre non possiamo che condividere, modestamente, l’apprezzamento di Newhall ci pare improprio sia riconoscere nella sua impostazione un ruolo rilevante nell’analisi della tradizione iconografica sia attribuire a questo eventuale modello l’impostazione di Miraglia, che ci sembra più consono assegnare alla sua formazione di storica dell’arte; al confronto continuo – culturale e professionale – con altri storici dell’arte, in primis Carlo Bertelli e, infine, allo stesso progetto editoriale in cui il suo lavoro era collocato.
[583] Sulle vicende della rivista si vedano Gilardi 1976, ad vocem; Zannier 1993b; Scanferla 2003; Colombo 2005.
[584] Gilardi 1981, p. 547
[585] Gilardi 1981, p. 549.
[586] Ivi, p. 582. Meno convincente pareva l’applicazione di questo modello interpretativo all’analisi delle fortune dei grandi stabilimenti fotografici come Alinari e simili, che “non ebbero quello sviluppo che forse i fondatori sognarono.” (ibidem) Se è vero che l’editoria si servì in modo massiccio della loro produzione, è altrettanto vero che le grandi fototeche istituzionali e quelle degli studiosi privilegiarono sempre le stampe fotografiche, ricorrendo alle copie fotomeccaniche solo in modo sussidiario.
[587] “Abbiamo trascurato di chiederci quale potesse essere il rapporto tra fotografia e arretratezza in un paese come il nostro”, aveva ricordato Bollati 1979, p. 17.
[588] Gilardi 1981, p. 575, dove risultava incomprensibile quel riferimento alla “sconfitta Germania”, considerando che quegli annuari cessarono le pubblicazioni nel 1934.
[589] Ivi, p. 569. La citazione era tratta da A.G. Bragaglia, Fotodinamismo futurista, Roma: Nalato Editore, 19133 , “pezzo” 8, p. 12 (nuova ed. Torino: Einaudi, 1980, p. 18).
[590] 1980: “RSCF”; 1984: “Fotologia”, 1985: “AFT”.
[591] Bertelli, Bollati 1979. Ancora Zannier 1993b avrebbe offerto un’ulteriore antologia di testi tratti da periodici fotografici italiani dal 1863 (“La Camera Oscura”) al 1989 (“AFT”), preceduta da una nuova Breve storia, ma con scelte scarne e poco motivate.
[592] Mormorio 1988. La Relazione sulla dagherrotipia di Arago, Balzac e il dagherrotipo di Nadar, l’altrettanto nota invettiva baudeleriana del 1859, Fotografia di Apollinaire e i Fasti e nefasti della fotografia di Savinio erano stati pubblicati in Mormorio 1985 ma apparentemente privi di una necessità che non fosse quella di dare corpo editoriale a un breve saggio che si proponeva di definire per rapidi cenni quella “rete culturologica” che avrebbero consentito, un po’ tautologicamente si direbbe, di “risolvere quel bisogno della fotografia, cresciuto come particolare espressione della cultura occidentale nella tecnica della fotografia.” (12). Nel volume dedicato agli scrittori (Mormorio 1988) vennero raccolti brani di quarantasette autori che in un qualche modo avevano a che fare col tema della fotografia, senza però distinguere sul ruolo o sulla funzione che questa avesse avuto nella concezione o nello svolgimento del testo. Come ebbe a segnalare un recensore, “sarebbe giovata una selezione più severa, a costo di non inserire dei bei nomi, ma a vantaggio di una maggiore incisività di contenuti; perché il tema messo a fuoco nel titolo dell’antologia è bello, tuttavia lascia insoddisfatto chi, senza pretesa di trovare risposte, s’aspetta almeno stimolanti interrogativi.”, Patrizia Guarnieri, Gli scrittori e la fotografia, “AFT”, 6 (1990), n. 11, giugno, pp. 76-77.
[593] Paolo Costantini, Letteratura fotografica. In Costantini et al. 1985, pp. 21-29, corsivi dell’autore.
[594] Ivi, pp. 23-24.
[595] Italo Zannier, Evoluzione della saggistica sulla fotografia: dal manuale tecnico alla proposta di un’estetica specifica. In Costantini et al. 1985, pp. 9-21 (10).
[596] Ibidem, corsivi dell’autore.
[597] Italo Zannier, Manuali, trattati, massificazione. In Costantini et al. 1985, pp. 131-139 (134).
[598] Ibidem, corsivi dell’autore, che identificava nel “memorabile saggio” Ritorno all’antica fotografia (1936) di Lamberto Vitali l’avvio di quella “ricerca dei significati storici della fotografia, sospesa tra arte e scienza, con una sua incerta identità, nonostante le sue radici avessero ormai cent’anni.” Completava il volume l’indispensabile, ricco Regesto bibliografico, “un impegno straordinario curato particolarmente da Paolo [Costantini]”, come avrebbe ricordato anni dopo Zannier, Un’avventura di amicizia. In Serena 1998, pp. 9-12. “Un primo sondaggio per la preparazione di una bibliografia retrospettiva della produzione letteraria italiana sulla fotografia [in grado di rivelare] una notevole quantità di informazioni di ogni genere (emergenze di temi, legami culturali, sequenze cronologiche,ambiti geografici, centralità di alcuni autori e di particolari editori)” essenziali “per una corretta fondazione disciplinare della storia della fotografia” italiana, cfr. Paolo Costantini, a cura di, Regesto bibliografico. In Costantini et al. 1985, p. 319.
[599] La definizione si doveva a Italo Zannier, Presentazione. In Menapace 1981, pp. 9-12 (9). Nel gennaio 1977 era uscito a Londra il primo numero di “History of Photography: An International Quarterly”, diretta da Heinz. K. Henisch, noto studioso di fisica dei semiconduttori e appassionato collezionista di fotografia, che in un primo momento avrebbe voluto per la rivista il titolo “Oudadate Pix”, cfr. Heinz K. Henisch, Bridget A. Henisch, The photographic experience 1839- 1914. Images and attitudes. University Park, PA: The Pennsylvania State University Press, 1994. Una mostra dallo stesso titolo, costituita da immagini della collezione Henisch, venne presenta al Palmer Museum of Art della Penn State University nel 1988. Nelle intenzioni del suo fondatore il periodico “avrebbe dovuto essere un giornale eminentemente internazionale, per contrastare la diffusa e del tutto indesiderabile tendenza a considerare lo studio della storia della fotografia come un esercizio nazionalistico. (…) Quindi l’internazionalismo è la nostra testata. La tesi è che non possiamo veramente conoscere la storia della fotografia sino a che non la conosciamo ovunque.”, Heinz K. Henisch, Trials and triumphs; myths and merriments, “Fotologia”, 6 (1986), dicembre, pp. 68-70.
[600] Schwarz 1996.
[601] Ibidem.
[602] Anche per Antonio Arcari, La stampa specializzata, “Skema – Il Diaframma Fotografia Italiana”, 7 (1975), n. 203, maggio, pp. 38-45, “il principio che ha animato i nostri storici [Gilardi, Racanicchi, Settimelli, Zannier] non è mai stato quello della mera erudizione, bensì quello di uno stimolo a conoscere la storia della fotografia per meglio operare nell’attualità.”
[603] Tra le rare eccezioni Schwarz ricordava Ruggiero Romano, lo storico italiano più vicino ai modelli e alle esperienze della “École des Annales”, docente all’École pratique des hautes études di Parigi, direttore della “Enciclopedia” e coordinatore con Corrado Vivanti della “Storia d’Italia”, entrambe pubblicate da Einaudi.
[604] Rudolph Arnheim, On the Nature of Photography/ Sulla natura della fotografia, “RSCF”, 2 (1981), n. 2, febbraio, pp. 6-23 (10-11), traduzione di Renata Aldovrandi, con modifiche di chi scrive, già in “Critical Inquiry”, 1 (1974), n. 1, September, pp. 149-161 ora in Schwarz 1983b, pp. 216-227. Questi temi vennero successivamente sviluppati dallo studioso nel saggio Splendor and Misery of the Photographer, “Bennington Review”, 14 (1979), September, pp. 2-8, pubblicato nel successivo n. 6, dicembre 1984, della “RSCF”, ma senza testo a fronte.
[605] Boris Kossoy, Hercules Florence. La scoperta della fotografia in un’area periferica, “RSCF”, 5 (1984), n. 6, dicembre, pp. 24-40, traduzione di Titti Cappa Bava, che riprendeva gli esiti delle sue ricerche già pubblicati in Id., Hercules Florence, Pioneer of Photography in Brazil, “Image”, George Eastman House, Rochester, USA, 20 (1977), n. 1, March, pp. 12-21; Id., Hercule Florence. 1833: a descoberta isolada da fotografia no Brasil. São Paulo: Livraria Duas Cidades, 1980 (ed. francese Hercule Florence: la découverte isolée de la photographie au Brésil; préface de Jacques Leenhardt. Paris: L’Harmattan, 2016; ed. inglese The Pioneering Photographic Work of Hercule Florence. London: Taylor & Francis, 2017).
[606] Il tema, pur non essendo inedito, costituiva una relativa novità, sollecitata anche dalla recente traduzione del volume di Barbara Jones, Bill Howell, Popular Arts of the First World War. New York: McGraw-Hill, 1972 (trad. it. Le arti popolari della prima guerra mondiale. Torino: Cooperativa editoriale Studio Forma, 1976). Nel 1976 era stato pubblicato il numero monografico Il gioco della guerra, “Il Diaframma Fotografia Italiana”, 5 (1976), n. 213, aprile, con articoli di Ando Gilardi, Arturo Neri, Piero Raffaelli, Edo Prando e dello stesso Schwarz, con un titolo (Il soldato fotografo) che per la sua icasticità sarebbe poi stato ripreso anche nella “RSCF”. Il fascicolo venne edito in occasione della mostra dallo stesso titolo prodotta dal Comune di Asti a partire dalla documentazione compresa nel Fondo Angelo Gatti, ma non si faceva in alcun modo riferimento all’occasione espositiva che ne aveva determinato la realizzazione, seguendo in questo una consuetudine non nuova, ma non per questo meno sgradevole. La mostra ebbe una discreta circolazione in Italia negli anni successivi (Venezia, luglio-settembre 1981) e in occasione del convegno di Rovereto venne esposta a Palazzo Alberti (10 maggio – 1 giugno 1985) col nuovo titolo di Una pocket per l’alpino: la guerra rappresentata, adattando quello utilizzato da Dario Reteuna in “RSCF” (Una pocket per l’alpino, il bersagliere e il marinaio e alcune fotocamere da sparo, pp. 33-39), che a sua volta richiamava una pubblicità della Kodak italiana del 1915. Come ha ricordato Luigi Tomassini (2013) la relazione presentata al convegno da Paul Fussell, che invitava gli storici a rivolgere la loro attenzione alle fonti letterarie, costituì “un momento cruciale per l’introduzione di una prospettiva culturale negli studi storici sulla Grande Guerra”. Si veda La Grande Guerra: esperienza memoria immagini, atti del convegno internazionale (Rovereto, Teatro Zandonai, 26-28 settembre 1985), a cura di Diego Leoni, Camillo Zadra. Bologna: Il Mulino, 1986.
[607] Angelo Schwarz, La retorica del realismo fotografico, pp. 3-9. Può essere di un qualche interesse, e non solo filologico, confrontare le due versioni del testo, quella anonima pubblicata da Schwarz a p. 3 (“Forse una guerra, soprattutto se grande, può sfuggire alle dogane ideologiche, ma sempre dopo. Quando le barriere sono state abbattute, si può verificare un azzeramento delle convenzioni, ivi comprese quelle visive”) con quella originale di Bertelli (“Ma una guerra, soprattutto se grande, sfugge sempre alle dogane ideologiche, a quelle dei vincitori come a quelle dei vinti. E già nel suo corso si verifica un azzeramento delle convenzioni, comprese quelle visive.”) In Bertelli et al. 1979, I, a riscontro della tav. 323). La stessa scelta dei temi di quel primo numero corrispondeva a una considerazione di Bertelli 1979b, p. 134, il quale aveva ricordato che “La guerra costituì un’accelerazione di tutte le tecniche della comunicazione fotografica giornalistica.”
[608] Secondo Tomassini 1995, p. 36 nelle modalità di analisi proposte dai diversi interventi “con l’eccezione assai rilevante di alcune osservazioni – accennate più che compiutamente sviluppate – di Schwarz, l’approccio (…) era tutto concentrato sul problema, espresso in termini espliciti in alcuni saggi, di ‘stabilire il valore storico’ delle fotografie di guerra; ovvero, di stabilire o ristabilire il nesso fra l’immagine tramandata e conservata – e oggi analizzata dagli storici – e la realtà della guerra. (…) In altre parole, una riduzione del ruolo della fotografia durante il conflitto al problema della fotografia come fonte per la storia della guerra: un aspetto come si può capire essenziale per lo storico, ma che, se preso isolatamente e esclusivamente, costituisce un impoverimento inaccettabile della problematica aperta del rapporto guerra – fotografia.” Più in particolare “nel saggio iniziale di Schwarz erano contenute alcune intuizioni a nostro parere fondamentali per l’inquadramento del tema fotografia – grande guerra. In primo luogo la concentrazione dell’attenzione sulla fotografia comunicata, ovvero su alcune testate di giornali illustrati dell’epoca; sull’estetizzazione della guerra come cornice di riferimento ideale del discorso fotografia – guerra; sul rapporto fra la peculiare ‘psicologia del soldato’ e l’immagine fotografica che esso produce; sul passaggio da un uso prevalentemente ‘estetico’ della fotografia ad un uso come canale di comunicazione visiva.”, ivi, p. 45, nota 8. Per altri studiosi invece i diversi saggi pubblicati in quel numero sembravano “negare qualsiasi utilizzo dei fondi fotografici di guerra come documento storico” in senso lato, a favore di una lettura di questi documenti solo dal punto di vista della definizione “dell’immaginario bellico nel suo farsi, quale emerge dallo sfondo culturale e sociale dell’epoca.”, Fabi 1993, p. 38.
[609] Schwarz, La retorica, cfr. supra Nota 607, p. 7.
[610] Il riferimento è ai due informatissimi e complessi saggi di Claudio Fontana intitolati rispettivamente Cronache di pittori, disegnatori e incisori, soldati fotografi, ambulanti e fotografi commerciali nelle Indie della Regina Vittoria e Cronache di commercianti, ambulanti e indigeni fotografi [sic] nella Cina imperiale, “RSCF”, 2 (1981), n. 3, luglio – ottobre, pp. 8-36; 37-50, che costituivano, come dire, l’adattamento italiano non dichiarato di due saggi di Clark Worswick, Notes on Photography in the Nineteenth- Century India. In Id., Ainslee Embree, The Last Empire. Photography in British India 1855- 1911. New York: Aperture, 1976 e Clark Worswick, Jonathan D. Spence, Imperial China. Photographs 1850- 1912. New York: Pennwick/ Crown, 1978, integrato con altre informazioni e note critiche tratte, con lo stesso metodo, da contributi apparsi nella prima annata (1977) di “History of Photography”.
[611] Limitatamente alla vicenda etiopica questi temi erano stati affrontati per la prima volta in modo sistematico in Mignemi et al. 1982; si veda anche Morawski 1982.
[612] Papagno 1983.
[613] Maria Teresa Sega, Maria Magotti, L’immagine coloniale nella stampa illustrata del bel paese: 1882 – 1913, “RSCF”, 4 (1983), n. 5, giugno – ottobre, pp. 13-22.
[614] Jacque Le Goff, La mentalità: una storia ambigua. In Id., Pierre Nora, Fare storia. Torino: Einaudi, 1981, pp. 239-258.
[615] Si vedano a questo proposito il saggio di Alberto Baldi, L’impiego della fotografia nell’indagine di carattere etno- antropologico all’interno del periodo coloniale italiano, “RSCF”, 4 (1983), n. 5, giugno – ottobre, pp. 23-53 e quello di Gabriella Campassi, Maria Teresa Sega, Uomo bianco, donna nera. L’immagine della donna nella fotografia coloniale, ivi, pp. 54-62.
[616] “RSCF”, 1 (1980), n. 1, ottobre: La guerra rappresentata; 2 (1981), n. 2, febbraio: Sulla natura della fotografia; 2 (1981), n. 3, luglio – ottobre: fotografia e colonialismo [sic] / 1; 3 (1982), n. 4, febbraio – giugno: fotografia e ideologia latente [sic]; 4 (1983), n. 5, giugno – ottobre: fotografia e colonialismo [sic] / 2 ; 5 (1984), n. 6, dicembre: il tempo e le cose [sic].
[617] La redazione, Nota per il lettore, “RSCF”, 2 (1981), n. 3, luglio – ottobre, p. 1.
[618] Quintavalle 1983, p. XXXVII.
[619] Schwarz 1996, p. 180.
[620] Joan Fontcuberta, Fotografia e ideologia latente: Considerazioni sull’opera di José Ortiz- Echague, “RSCF”, 3 (1982), n. 4, febbraio – giugno, pp. 25-30.
[621] Italo Zannier, Un’avventura di amicizia. In Serena 1998, pp. 9-12. Nel n. 18/19 di “Fotologia”, autunno 1997, Zannier aveva affettuosamente ricordato la scomparsa recente di Costantini, il 3 settembre, riconoscendolo come “primo vero, specifico storico della fotografia in Italia”, ripromettendosi di “presentare e commentare la sua opera nel prossimo numero di Fotologia”, ma poi il progetto non venne realizzato. Un analogo impegno, ed esito, era stato assunto nel vol. 12, della primavera estate 1990, nei confronti di Giuseppe Turroni, deceduto il 31 maggio di quell’anno.
[622] Paolo Costantini, Fotografie e altri estranei (Barthes, Benjamin e la critica fotografica), “Fotografis, rivista di storia e cronaca della fotografia”, 1 (1982) n. 1, giugno, pp. 37-60, citato in Serena 2003, p. 297. Il numero ospitava anche il saggio di Zannier su Le rivelazioni impunitarie della pentita Costanza Diotallevi, poi riproposto nel numero 11 di “Fotologia” (1989) e, sempre di Zannier, Darwin e l’espressione dei sentimenti, poi riedito in “Fotostorica”, N.s. 5 (1999), n. 3-4, pp. 36-43. In realtà la collaborazione tra i due risaliva al 1981, quando Zannier aveva chiesto a Costantini di prendere parte alle ricerche per una monografia su Carlo Naya (cfr. Zannier 1981). Le vicende che portarono da “Fotografis” a “Fotologia” vennero sintetizzate da Italo Zannier, Fotologia 1-15 (1984-92): List of Contents. In Pelizzari 1996b, pp. 65-68.
[623] Il precedente più illustre fu certamente quello costituito dalle interviste condotte da Anton Giulio Bragaglia, L’Arte nella Fotografia. Interviste con Biondi, Venturi, Sartorio, Bonaventura, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n. 2, febbraio, pp. 17-19.
[624] Italo Zannier, Editoriale, “Fotologia”, 2 (1985), Inverno/ Primavera, p. 1. Nella stessa occasione Zannier manifestava l’intenzione di promuovere un Centro o una Società di Studi sulla Storia della Fotografia, un organismo che avrebbe preso forma concreta solo molti anni dopo, nel giugno 2006, con la costituzione della SISF con obiettivi analoghi ma senza la partecipazione di Zannier. Quel meritevole proposito si tradusse di fatto nella assunzione della testata quale organo ufficiale del neonato Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, con la precisa intenzione di “contribuire a colmare certe lacune” derivate “dalla mancanza di precisi indirizzi di insegnamento, di una didattica specifica ad ogni livello, di un certo tipo d’impostazione adottato per le mostre fotografiche”, come scrisse Claudio de Polo, Editoriale, “Fotologia”, 3 (1985), luglio, p. 11. La fondazione del Museo costituì di certo un episodio importante delle vicende culturali della fotografia in Italia, sulle quali però non riuscì poi ad incidere significativamente nonostante l’ampia politica di acquisizioni di collezioni e di fondi e la produzione di oltre 200 esposizioni, risentendo forse del vincolo che lo legava alla firma commerciale, ma anche in conseguenza della sua breve vita: dopo un primo trasferimento nell’ottobre 2006 nel complesso delle ex Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella, il MNAF è stato chiuso nel 2014.
[625] All’uscita del n. 16/17 del 1995 erano trascorsi tre anni dalla pubblicazione del precedente numero e le successive uscite ebbero tutte cadenza biennale.
[626] Segnalo a puro titolo di esempio: Becchetti 1985; Costantini 1985b; Varignana 1985; Cavanna 1986; Falzone del Barbarò 1987c; Zannier 1988b; Miraglia 1989; Gasparini 1990; Smith 1995; Settimelli 1997. Nei successivi volumi le difficoltà redazionali ed economiche portarono a una drastica riduzione dei saggi, sostituiti nella maggior parte dei casi da brevi testi, poco più che schede informative.
[627] Abbozzo Heuser 1986; Bricarelli 1988; Galante Garrone 1988; Sesti 1988.
[628] Zannier 1985c, che anticipava Costantini et al. 1986; Lassam 1986 che anticipava la mostra dello stesso titolo (Lassam et al. 1988). A questi stessi meccanismi editoriali erano connessi anche gli articoli pubblicati in “Fotologia” n. 9/ 1988, a proposito di fotografi quali i membri del Gruppo piemontese per la fotografia artistica (Baravalle, Bologna, Bricarelli) che furono i promotori degli annuari “Luci ed ombre”, oggetto di una mostra con catalogo dell’anno precedente (Costantini et al. 1987), nonché l’ampia sezione dedicata ai paparazzi compresa nel n. 7/ 1987 che anticipava l’omonima mostra dell’anno successivo.
[629] La tesi venne poi pubblicata in memoria della giovane studiosa, deceduta nel 1993, cfr. Puorto 1996.
[630] Pur non potendo in questa sede entrare specificamente nel merito è necessario almeno ricordare che la sede universitaria a cui afferivano, pur in modi diversi, Costantini e Zannier era lo IUAV di Venezia e come il racconto dei luoghi fosse anche il principale elemento di connotazione, il denominatore comune degli autori contemporanei a cui lo stesso Costantini guardava con maggior interesse critico, da Lewis Baltz a Guido Guidi.
[631] Cfr. Costantini 1985b; Id. 1988.
[632] Costantini 1984a; Id. 1985a; Cavanna 1986; Cova 1987b; Zannier 1988a.
[633] Costantini 1985d; ai temi indagati in questo saggio vanno riferiti anche i successivi contributi di Roberto Cassanelli, Morris Moore, Pietro Selvatico e le origini dell’expertise fotografico, non per caso compreso nel primo dei due volumi dedicati alla memoria di Paolo Costantini (Serena 1998, pp. 41-47) e di Serena 1997, che hanno ampliato significativamente le nostre conoscenze intorno alle riflessioni critiche e alle iniziative prese da una delle figure centrali della prima cultura italiana attenta ai problemi posti dalla documentazione fotografica del patrimonio storico artistico e architettonico.
[634] Stinchi 1985, che pur nella sua sintesi costituiva il primo contributo a un tema ampiamente frequentato ma non sempre correttamente indagato a partire dal decennio successivo, cfr. Eugenio Leoni, Corrado Ricci e la fotografia: tra documento e sensazione. In Cozzi et al. 1998, pp. 71-80; Claudia Giuliani, Il Fondo Fotografico di Corrado Ricci alla Biblioteca Classense di Ravenna. In Serena 1999, pp. 171-173; Lombardini et al. 1999; Cestelli Guidi 2003; Benedetti 2009. In particolare risultava più che problematico ma proprio per questo paradigmatico il contributo di Curzi 2008, nel quale lo storico dell’arte mostrava involontariamente quale fosse la distanza tra le petizioni di principio e l’adeguata strumentazione metodologica e filologica indispensabile per porle in atto; in particolare l’analisi combinata della tecnologia dei fototipi e dei referenti rappresentati avrebbe dovuto suggerire allo studioso maggior cautela nell’assegnare la più parte delle immagini studiate a Corrado Ricci, qualificandole di inedite, mentre si trattava di opere ben note realizzzate dallo studio paterno.
[635] Maria Beltramini, L’oggetto che vedo e che non c’è. Riflessioni sul rapporto tra riproduzioni fotografiche e opere d’arte, “Fotologia”, vol. 12, primavera/ estate 1990, pp. 76-81.
[636] Falzone del Barbarò 1988a, p. 7.
[637] Faeta 1988; una prima versione del saggio era stata presentata al VI Congresso internazionale di studi antropologici di Palermo, del dicembre 1984, a proposito di Amore e cultura: ritualizzazione e socializzazione dell’eros, cfr. Faeta 1989.
[638] Caruso 1964; Puig 1977 ; Barthes 1978; Nicolosi 1979; Falzone del Barbarò et al. 1980; Barthes 1986; Pilat 1987; Pohlmann 1987.
[639] Cavanna 1992a.
[640] “I problemi che si pongono quando si esegue una stampa con criteri filologici possono essere di varia natura, ma quello che per la sua complessità in genere supera tutti gli altri è la scelta della tecnica da adottare per ogni singola negativa” affermava Lorenzo Scaramella, La ristampa filologica. In Miraglia 1993, pp. 288-289. Per un’ più complesso approccio a problemi non troppo dissimili si veda Lusini 1986.
[641] “Autentico significa storicamente originale. Provare che un oggetto è originale significa considerarlo come segno delle sue proprie origini ”, Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione. Milano: Bompiani, 1990, p. 184, corsivo di chi scrive.
[642] Pietro Montani, Riproduzione/riproducibilità, “Enciclopedia Einaudi”, 12. Torino: Einaudi, 1981, ad vocem, pp. 112-131 (129).
[643] Cfr. Les multiples inventions de la photographie, Actes du colloque (Cerisy-la-Salle, 29 septembre -1 octobre 1988) Jean-Pierre Bady, dir., “Actes des colloques de la Direction du Patrimoine” 5. Paris: Mission du Patrimoine Photographique, Ministère de la Culture, de la Communication, des Grands Travaux et du Bicentenaire, 1989. Al colloque presero parte, in ordine di apparizione, Jean-Pierre Bady, Pierre Bonhomme, Andreas Haus, A. D. Coleman, Jerzy A. Wojciechowski, Bernard Marbot, Sylvain Morand, Mike Weaver, Italo Zannier, Boris Kossoy, Paul Jay, Weston Naef, Michel Frizot, Sylvie Aubenas, Larry J. Schaaf, Peter Galassi, Pierre Schaeffer, John Szarkowski, Mark Haworth-Booth, Jean Clair, Ian Jeffrey, Hubert Damisch, Aaron Scharf e Alain Desvergnes.
[644] Una prima redazione del saggio era comparsa col titolo Lentil Soup, “Et Cetera: A Review of General Semantics”, 42 (1985), n.1, Spring, pp. 19–31, quindi come Lentil Soup: A Meditation on Lens Culture, “Impact of Science on Society”, 36 (1986), n. 142, Autumn, pp. 213–222, da cui derivava la versione italiana.
[645] Rationalism and the Lens, “Impact of Science on Society”, 39 (1989), n. 154, pp. 101-112. Id., Depth of Field: Essays on Photography, Mass Media, and Lens Culture. Albuquerque: University of New Mexico Press, 1998. Ricordo qui che A.D. Coleman è stato anche il fondatore nel 2002 del Photography Criticism CyberArchive (http://photocriticism.com/) [04 09 2018] ed è titolare di un blog molto attivo: http://www.nearbycafe.com/artandphoto/photocritic/ [24 05 2017].
[646] La formula utilizzata da Coleman si doveva a Jay David Bolter, Turing’s Man: Western Culture in the Computer Age. Chapel Hill: University of North Carolina Press, 1984, p. 11 (ed. italiana,L’uomo di Turing: la cultura occidentale nell’età del computer. Parma: Pratiche, 1985).
[647] Per una breve sintesi delle vicende che portarono all’istituzione dell’Archivio si vedano Fernando Tempesti, L’Archivio Fotografico Toscano e la rivista “AFT”. In Lusini 1996a, pp. 176-178; Oriana Goti, L’Archivio Fotografico Toscano. Una realtà regionale pubblica dedicata alla fotografia. In Serena 1999, pp. 193-197. La periodicità, sostanzialmente rispettata per il primo decennio di vita, subì negli anni successivi oscillazioni anche significative, alle quali si tentò di porre rimedio con la pubblicazione di alcuni numeri doppi. La nuova iniziativa venne puntualmente segnalata da Paolo Costantini sulle pagine di “Fotologia”, n. 3/ 1985, p. 115, rimarcando come alla base dell’istituzione del servizio e del corrispondente organo di stampa stava la “consapevole acquisizione del significato che la fotografia può avere come ‘bene culturale’, ben al di là dell’attenzione occasionale e della generica curiosità che le viene generalmente assegnata.”
Fra le attività più significative dell’Archivio vanno ricordate le numerose occasioni di incontro e confronto come seminari e convegni da questo promossi, quasi i soli in quegli anni ad essere di rilevanza nazionale.
[648] Oltre a questi, il gruppo comprendeva anche Armando Meoni, Sergio Romagnoli e Guido Sansoni, cfr. Luigi Tomassini, Luoghi, pratiche e progetti/ Presentazione. In Lusini 2007, pp. 68-70.
[649] Luigi Tomassini, Introduzione. In Materia e tempo 1985, pp. iv-vi (vi).
[650] Ben esemplificativo in tal senso il contrasto tra l’argomento del lungo saggio di Luigi Tomassini (1985a), intitolato a Fotografia, pornografia e polizia e le immagini che lo corredavano, di tutt’altro tenore, tratte dal fondo del Seminario Vescovile di Prato, contrasto poi ampiamente discusso in Gilardi 2002, pp. 53-54.
[651] Editoriale, “AFT”, 10 (1994) n. 19, giugno, p. 3.
[652] Ibidem.
[653] Editoriale, “AFT”, 11 (1995), n. 21, p. 3.
[654] Mi riferisco, a puro titolo di esempio, a Contini 1991 in cui si dichiarava di voler utilizzare le immagini per “ricostruire la storia della famiglia (…) La storia, infatti, permetterà di spiegare le immagini e queste ultime saranno utilizzate per ottenere altre informazioni (44), ma poi ben undici delle dodici pagine di testo riguardavano di fatto la ricostruzione di “una vera storia (…) all’interno della più vasta storia delle bonifiche maremmane.” (53).
[655] Contini 1993, p. 11.
[656] La rivista cessò le pubblicazioni con il n. 50 del dicembre 2009, il numero del venticinquennale. Per una sintesi delle prime reazioni alla chiusura si rimanda al paragrafo La lista di discussione s-fotografie, pp. 312-315. Ricordiamo che dal settembre 2009 è disponibile online (http:/ /rivista.aft.it/ aftriv/controller) [04 09 2018] la collezione quasi completa (nn. 1-47); mentre degli ultimi tre numeri (48-50) vengono forniti solo il sommario e l’editoriale (http://www.aft.it/rivista/home.htm) [17 08 2017]. La versione digitale è arricchita, rispetto alla pubblicazione a stampa, da brevi e sintetici abstract abbinati ai singoli articoli e già nei sommari dalla segnalazione bibliografica dei testi recensiti. Risulta così possibile scorrere le annate e visualizzare (ma non stampare) i sommari e le singole pagine. La banca dati può essere interrogata per titoli, autori, liste analitico – tematiche, e per termini liberi, includendo abstract e segnalazioni bibliografiche ma escludendo il corpo dei testi e le didascalie. La scelta di rendere disponibile un’edizione online di “AFT” si poneva nella prospettiva di realizzare la versione born digital, poi vanificata dalla chiusura della rivista nel 2010.
[657] Nell’impossibilità di affrontare analiticamente i numerosi esempi mi limito a citare quelli a mio parere maggiormente rappresentativi in tal senso: Corsini 1992, in cui si parlava esclusivamente di assistenza all’infanzia; Chiozzi 1991 e i due interventi di Guarnieri nei quali le sole pagine a commento di una fotografia (Guarnieri 2002) si riferivano a un’immagine pubblicata in Guarnieri 1999.
[658] Ledda 2001, in cui – per scelta redazionale crediamo – l’apparato fotografico assumeva una equivoca funzione referenziale e meramente illustrativa.
[659] Chiozzi 2002. Le fotografie di Anne Müller Paoli sono state poi ben analizzate e utilizzate in modi più convincenti da Chiara Saraceno, Interni (ed esterni) di famiglia. In De Luna et al. 2006b, pp. 2-86.
[660] Tale atteggiamento costituì purtroppo una costante, non risparmiando neppure quegli esemplari in cui l’intenzione descrittiva era più esplicita, come nel caso degli album composti dall’antropologo Lidio Cipriani, “AFT”, 6 (1990), n. 11, pp. 30-53, o quelli prodotti in contesti familiari molto strutturati come quello degli eredi dei granduchi di Toscana , “AFT”, 3 (1987), n. 6, ed anche quello della famiglia Paoli di San Donato in Collina, “AFT”, 18 (2002), n. 36, che pure apriva con un breve intervento che considerava L’album nella storia della fotografia. Aspetti, ruolo e funzione (Coppa 2002).
[661] Labanca 1988; Mignemi 1988; Triulzi 1988. Sul testo di Labanca si vedano i duri giudizi espressi da Goglia 1989 (p. 48 nota 32) che parlava di “una conoscenza scolastica e angusta dell’Africa coloniale” e di “evidenti danni alla serietà filologica del lavoro” derivati dalla mancata considerazione dei materiali conservati in alcuni importanti archivi.
[662] Si vedano i diversi interventi pubblicati in “AFT”, 16 (2000), nn. 31-32, giugno/dicembre.
[663] Tomassini 1985a.
[664] Tomassini 1985b; Id. 1992.
[665] Tomassini 1987.
[666] Tomassini 2004d.
[667] Bollati 1979, p. 5.
[668] Il contributo di Zannier 1978c, era programmaticamente troppo esteso per poter offrire altro che una parziale sintesi del periodo, desunta di fatto da suoi precedenti interventi giornalistici, cfr. Zannier 1969; Id. 1975.
[669] Zannier 1980b.
[670] Turroni 1959, p. 12 . Anche per Bertelli 1979b, pp. 152-155, la fotografia artistica nostrana aveva scelto “una strada solitaria, lontana dalla propaganda e dall’uso, in un certo senso aristocratica e nostalgica”, ma, avvertiva, “la lunga durata della fotografia pittorica è un fenomeno sociale internazionale, non un ritardo italiano.”
[671] Marra 1980, p. 663, che riprendeva il notissimo brano proustiano (da Le côté de Guermantes) analizzato per la prima volta da Sigfried Kracauer, Film: ritorno alla realtà fisica. Milano: Il Saggiatore, 1962 (nuova ediz., Teoria del film. Milano: Il Saggiatore, 1995, pp. 68 passim), che era stato a sua volta richiamato da Renzo Chini (1968, p. 27). L’attenzione di Marra per le suggestioni proustiane si era già manifestata in Proust e il riscatto estetico dell’ambiente urbano, “Rivista di Estetica”, 4 (1980), pp. 101-113, mentre quella “citazione prestigiosa”, insieme a numerose altre dalla Recherche, tornerà nel lungo saggio pubblicato in Alinovi et al. 1981, p. 209 e ancora successivamente e con maggiore attenzione critica in Marra 1999, p. 77. Ricordiamo qui che tra i progetti di Roland Barthes interrotti dalla morte vi era quello di un seminario intitolato a Proust et la photographie. Examen d’un fonds d’archives photographiques mal connu, dedicato a un fondo di fotografie di Paul Nadar appartenute allo scrittore, cfr. Roland Barthes, La préparation du roman I et II : notes de cours et de séminaires au Collège de France 1978- 1979 et 1979- 1980; texte établi, annoté et présenté par Nathalie Léger. Paris: Seuil, 2003, pp. 385-457. Per una analisi approfondita del progetto si rimanda a Isabella Pezzini, Barthes e il romanzesco: il seminario Proust e la fotografia. In Augusto Ponzio, Patrizia Calefato, Susan Petrilli, a cura di, Con Roland Barthes: alle sorgenti del senso. Roma: Meltemi, 2006, pp. 625-646.
[672] Marra 1980 p. 663. L’autore sarebbe ritornato sulla questione alcuni anni più tardi offrendo un’ulteriore articolazione di questo pensiero: “l’effettiva mancanza di una pratica fotografica stilisticamente riconducibile ai modelli di quella pittura” non poteva costituire un ostacolo critico poiché “il problema insomma è quello di un eventuale contributo a un nucleo di idee, a una poetica complessiva e trasversale, non la confluenza omogeneizzante delle opere su un unico modello formale.”, Marra 1999, p. 75, p. 82.
[673] Crispolti 1980.
[674] Se l’analisi del corposo catalogo non ci inganna, e datosi che la memoria non ci soccorre, segnaliamo quale indice della disaffezione il fatto che le fotodinamiche e le altre fotografie fossero esposte esclusivamente nella forma della riproduzione in gigantografia.
[675] Per Gilardi 1976, p. 307 il Manifesto di Marinetti e Tato fu invece “un estremo insulto all’unico teorico della fotografia artistica che ha avuto l’Italia”, ricordando inoltre che “Bragaglia, aimé [sic], si ebbe un giudizio sbrigativo anche da Gramsci, che in una lettera a Trotskij che gli chiedeva informazioni per il suo saggio sul futurismo, scrive nel 1922 (…) ‘A Roma esiste una galleria permanente di pittura futurista, organizzata da un fotografo fallito, un certo Anton Giulio Bragaglia’ ”. Forzando l’interpretazione del testo, per Gilardi il giudizio negativo di Gramsci sottendeva una condanna della fotografia in sé, piuttosto che di quel fotografo, “siccome ‘fallita’ socialmente in quanto strumento attivo di persecuzione poliziesca.”
[676] Lista 1979, p. A passim.
[677] Ivi, p. B, p. C. Sulle difficoltà o reticenze critiche manifestate dagli studiosi italiani nella definizione di “fotografia futurista” si veda ora Carey 2010.
[678] Lista 1981. Il testo critico in catalogo, molto interessante e innovativo non considerava però le eventuali ricadute sulla fotografia ‘artistica’ di quegli anni. Gli apparati comprendevano: schede biografiche con riproduzione delle opere di ciascun autore, ma senza tecniche e misure; elenco dei documenti in mostra; cronologia e antologia di testi.
[679] Il ruolo di Arturo Bragaglia, già segnalato da Maurizio Calvesi, Dinamismo e simultaneità nella poetica futurista. Milano: Fabbri, 1967, p. 130, era stato ricordato anche da Zannier 1978c, p. 34, ma in successive occasioni il più giovane Carlo Ludovico se ne era poi in parte attribuito il merito. Una prima ricostruzione della vicenda era stata tentata da Scimé et al. 1986 (cfr. anche Marra 1986), ma nonostante le numerose riserve e perplessità espresse dagli studiosi, il più giovane dei fratelli confermava ancora in anni successivi che “la tecnica completamente nuova è di Arturo e mia”, cfr. Sergio Frau, Noi Bragaglia, famiglia futurista, “La Repubblica”, martedì 19 novembre 1991, p. 33. Tale affermazione, del resto non suffragata da altre prove, era stata estesa dai curatori della mostra a lui successivamente dedicata (Semerano et al. 1994) che gli assegnarono addirittura il ruolo di “inventore del fotodinamismo”; da qui una causa intentata da Antonella Vigliani Bragaglia, figlia ed erede di Anton Giulio, che si concluse col riconoscimento dei suoi diritti di tutela (sentenza tribunale civile di Roma 8 giugno 1995), cfr. anche Luigi Carlo Ubertazzi, a cura di, “AIDA. Annali italiani del diritto d’autore, della cultura e dello spettacolo”, 2006. Milano: Giuffrè Editore, 2007, pp. 396-398. Non pare aver tenuto conto di questa vicenda, né della bibliografia che ne fu all’origine, Marra 1999, che nelle pagine sul fotodinamismo assegnava ad Arturo e Carlo Ludovico la paternità della realizzazione materiale delle fotodinamiche, nella convinzione che “rispetto al problema dell’identità, la produzione materiale delle immagini poco importa. ” (31)
[680] Lista 1985; Si veda la breve segnalazione di Zannier, “Fotologia”, vol. 5, estate-autunno 1986, p. 99, che descriveva il catalogo come “una suggestiva photo-story sul futurismo, assemblata come in un accattivante album di famiglia”, accostando sulla stessa pagina la dura recensione alla mostra veneziana Futurismo & Futurismi (Hulten 1986), che giudicava “un’altra occasione mancata per la fotografia italiana (…) Nella spettacolare rassegna di Palazzo Grassi a Venezia, la fotografia è stata mortificata, nonostante la presenza di Muybridge o di Marey (…). La fotografia è stata comunque irrimediabilmente annientata, in questa mostra, da un allestimento che non ha previsto per questa spazi appropriati, separati innanzitutto da quelli riservati alla pittura”, segnalando infine alcuni errori di attribuzione e datazione. Nel catalogo, in effetti, alle fotografie (pur presenti in molte pagine della sezione “Dizionario”) si faceva cenno solo nelle schede biografiche degli autori e in una scarna voce specifica, firmata da Germano Celant (p. 479), rivolta però all’interpretazione delle sole fotodinamiche.
[681] Lista 1985, p. 10. Marra 1999, pp. 44-48, riprenderà questa categoria, a suo parere erroneamente interpretata da Lista, considerando quelle immagini “veri e propri tableaux- vivants che in qualche modo anticipano certe esperienze degli anni sessanta-settanta riferibili all’area del Concettuale e della Body Art.” (44) Questa lettura prospettica fondava il disaccordo: poiché “qui non si è di fronte a un particolare genere fra i tanti possibili generi fotografici, quanto piuttosto a una pratica artistica globale (in nuce certo, ma non per questo meno chiara) dove la fotografia entra costitutivamente in modo nuovo, a fianco del concetto e del gesto, in stretta connessione con essi, non per documentarli a posteriori ma per offrirgli la possibilità stessa di essere.” (48)
[682] Zannier 1980d, p. 306, che riproponeva, qui come altrove, concetti già espressi in Id. 1978c.
[683] Alinovi 1982.
[684] Alinovi et al. 1981. Il titolo collettivo del volume, La fotografia. Illusione o rivelazione?, riprendeva concettualmente e quasi letteralmente quello del contributo di Zannier (Illusion et réalité …) alla mostra Les Réalismes dell’anno precedente, cfr. Zannier 1980d.
[685] Anche quelle che ora paiono contraddizioni, stimolanti e mai gratuite, non sono che uno degli elementi che davano valore al contributo di Alinovi, che doveva essere letto e considerato in parallelo con le puntuali schede biografiche redatte per lo stesso catalogo. Meno comprensibile risultava invece, proprio a fronte dell’articolazione del saggio, la scelta di ordinare le riproduzioni semplicemente secondo l’ordine alfabetico degli autori, rinunciando così a costruire un secondo percorso critico, tutto visuale.
[686] Una scarsa attenzione per il contesto politico connotava del resto tutta la mostra, come avevano stigmatizzato non pochi recensori: “La caratteristica più evidente (…) è il contrasto tra la sua ambizione di dare un’immagine globale degli anni trenta e del regime fascista nel suo periodo di maggiore successo e la scelta di approfondire soltanto determinati aspetti del decennio, ritenuti più interessanti e comunque sufficienti. (…) Si può parlare degli anni trenta e del regime fascista lasciando da parte praticamente tutti i problemi politici, sociali ed economici?” si chiedeva Giorgio Rochat, Due mostre sugli anni fascisti , “Italia contemporanea”, 34 (1982), n. 146-147, giugno, pp. 153-157 (154).
[687] Pur senza presumere l’esaustività credo sia da considerare significativo il fatto che la bibliografia del periodo 1980-1988 riporta circa sessanta titoli concernenti indagini a scala territoriale o locale e quasi centocinquanta monografie.
[688] Willien 1976. Cenni al patrimonio storico fotografico di soggetto valdostano erano già presenti in Avigdor et al. 1977; Miraglia 1980; Cavanna 1981.
[689] Maccaferri et al. 1986.
[690] Dall’intervento di Pasolini alla “Conferenza stampa della Lega italo-araba”, Roma, ottobre 1974, ora in Laura Betti, Michele Gulinucci, a cura di, Pier Paolo Pasolini: Le regole di un’illusione. I film, il cinema. Roma: Associazione ‘Fondo Pier Paolo Pasolini, 1991, pp. 267-268.
[691] Gianfranco Maccaferri era in quegli anni fotografo professionista, attivo ad Aosta.
[692] Con legge n. 35/1985 la Regione autonoma Valle d’Aosta aveva già istituito il BREL, che comprende tra i propri archivi e servizi anche una ricca fototeca, in cui negli anni sono confluiti anche numerosi fondi fotografici di autori valdostani.
[693] Lanfranco Colombo, Presentazione. In Maccaferri et al. 1986, pp. 9-13 (p. 9)
[694] In alcuni casi anche l’indicazione di responsabilità risultava errata, frutto di una troppo superficiale identificazione tra appartenenza a un fondo e autorialità. Si vedano a questo proposito il Ritratto di Umberto e Margherita di Savoia (p. 35), attribuito ad Alessandro Bonda, che fa invece parte di una nota serie realizzata dal cuneese Giacinto Garaffi per l’Album Ricordo della Real Casa di Savoia (1883 – 1901) o le tre riprese (pp. 39, 41, 44) relative al Monte Bianco attribuite a Luigi Broggi e realizzate invece da Joseph Tairraz di Chamonix.
[695] Emile Bionaz, su cui aveva attirato l’attenzione Lanfranco Colombo nel suo contributo in catalogo, fu di lì a poco oggetto di una monografia, cfr. Janus et al. 1987.
[696] Colliard 2012, cfr. infra Nota 1836.
[697] Castelnuovo et al. 1980.
[698] Documentazione fotografica diversa era presente nell’ampia sezione dedicata all’Immagine del territorio, che comprendeva tra le altre fotografie di Le Lieure, Bisson, Vialardi, Godard, Hodcend e Degoix, Noack, Cretté, Delessert, Fabre.
[699] “Le nom du noème de la Photographie sera donc (…) l’Intraitable”, Roland Barthes, La chambre claire: note sur la photographie. Paris: Cahiers du Cinéma – Gallimard – Seuil, 1980, p. 120 (ed. ital. Torino: Einaudi, 1980, p. 78).
[700] Colombo 1969; Greco 1969; Piemontese 1972; Settimelli 1972; Antonetto 1976; Azzoni 1976; Besio 1976; Gilibert et al. 1976; Orsi 1976a; Id. 1976B; Prolo 1976b; Schmuckher 1976; Willien 1976; Avigdor et al. 1977; Chiambaretta et al. 1977; Ciruzzi et al. 1978; Falzone del Barbarò 1978; Chiambaretta et al. 1979; Chioma 1979; Gatti 1979; Pisani et al. 1979.
[701] Miraglia 1981a.
[702] La sezione apriva col primo apparecchio dagherrotipico realizzato a Torino da Jest e Rasetti e, finalmente, con il più antico dagherrotipo italiano superstite – la Veduta della Gran Madre di Dio, di Enrico Federico Jest, datato all’ 8 ottobre 1839 sulla base di fonti a stampa coeve – già esposto alla mostra del 1977 ma non pubblicato perché ritrovato nei depositi della Galleria civica d’Arte Moderna di Torino a catalogo ormai chiuso. Le schede analitiche degli apparecchi e delle immagini erano molto accurate (tecnica, misure, anche del supporto secondario, iscrizioni, collezione di provenienza) ma, per ragioni forse connesse a un discutibile concetto di ‘originale’, piuttosto diffuso in quegli anni, il redattore si riferiva alle caratteristiche del presunto negativo matrice e non a quelle della stampa positiva esposta e pubblicata. Ecco allora comparire i termini “collodio”, “collodio su carta albumina”, addirittura “collodio umido colorato a mano” ( sic, sch. 1101, p. 924) invece del più appropriato “albumina”; analogamente si utilizzava il termine “calotipo” per indicare i positivi su carta salata; e ancora, genericamente, “calotipia stampata su carta albuminata” a proposito delle stampe di Marville realizzate secondo il metodo di Blanquart-Evrard o anche “stereoscopia”, confondendo la tipologia con la tecnica di stampa. Anche nel contributo di Miraglia si riscontravano imprecisioni non prive di conseguenze, quali il confondere carta salata e calotipia, che sosteneva fosse stata presentata a Londra il 31 gennaio 1839 (899); da qui anche l’errata datazione delle tre calotipie di Talbot conservate presso la Fondazione Sella di Biella ( vol. 2°, sch. 1076, p. 916), adottata poi anche nel saggio compreso nella “Storia dell’Arte Einaudi”, Miraglia 1981a, tavv. 637-639. Cfr. supra Nota 579.
A riprova della scarsa considerazione di molti studiosi di quegli anni per questi aspetti, ma forse anche dell’insufficiente consapevolezza filologica e tecnologica (cfr. infra Nota 766), ricordiamo che un analogo trattamento ‘catalografico’ era riservato ad esempio alle immagini pubblicate in Zannier 1979b, mentre in Miraglia et al. 1979a il problema venne elegantemente risolto alla radice non considerando in alcun modo le tecniche delle fotografie presentate. Nella mostra torinese e nel relativo catalogo una diversa attenzione connotava invece le schede redatte da uno studioso di formazione archivistica come Nicola Vassallo che a proposito delle stampe di Bisson (3° vol., sch. 1435, p. 1326) o Vialardi (3° vol., sch. 1436, p. 1330) utilizzava la più appropriata formula “albumina da negativo su vetro al collodio umido” o secco. Le ricerche condotte da Miraglia in quell’occasione produssero anche esiti indiretti quali la pubblicazione, in un formato inadeguato però, dell’album della contessa di Castiglione da lei ritrovato al Museo del Risorgimento di Torino, appartenuto a Costantino Nigra, cfr. Castiglione 1980.
[703] Miraglia 1980, p. 901. Una analoga tensione tra istanza pittoresca e esigenza documentaria era stata riconosciuta ed espressa in termini non dissimili da Picone Petrusa 1981, p. 41.
[704] Simonelli 1980.
[705] Audisio et al. 1981.
[706] Cassio 1980, p. 9. A fronte di quelle riserve emergeva positivamente il richiamo metodologico all’uso delle guide commerciali quali fonti privilegiate, sebbene problematiche, per la ricostruzione dell’attività dei fotografi, cfr. p. 137.
[707] Resta ovviamente solo un’ipotesi non dimostrabile, e che forse neppure merita di essere dimostrata, ma non è da escludere che la scelta di dedicarsi solo alla ritrattistica fosse stata fortemente condizionata dalla collezione di riferimento, quella del torinese Sergio Chiambaretta, citato al frontespizio come responsabile della “ricerca fotografica”. Tale ipotesi è rafforzata dal fatto che nelle didascalie mancava qualsivoglia riferimento alle collezioni di provenienza delle fotografie pubblicate.
[708] Tamburini et al. 1981, cfr. anche Borio et al. 1989, Boschiero 1998; Zaccone 1998, questi ultimi editi nella ricorrenza del centenario della prima ripresa fotografica della Sindone. “Dello specialissimo apprezzamento della Chiesa del procedimento fotografico negativo-positivo, la prova maggiore e più solenne ci viene offerta dalla Sindone”, scriveva Gilardi 1976, pp. 288-292, riconoscendo che “a nostro avviso le fotografie più importanti restano quelle dell’amatore Pia, almeno da un punto di vista storico.”
[709] Buone riproduzioni a colori erano riservate a dagherrotipi, ambrotipi e ferrotipi così come alle carte de visite e, naturalmente, alle fotocromie.
[710] Queste ultime erano indicate nel sommario in appendice al volume, quasi fossero crediti fotografici. Ciononostante la lettura di questo arido elenco di numeri forniva indicazioni interessanti: pochissime erano le fotografie provenienti da archivi pubblici (Accademia Ligustica di Belle Arti, Biblioteca di Sanremo, Museo di Storia naturale di Genova, Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici della Liguria) e nessuna dall’Archivio fotografico del Comune di Genova. La stragrande maggioranza apparteneva a collezioni private, tra le quali emergevano per quantità di esemplari forniti quella del fotografo sanremese Alfredo Moreschi e quella indicata genericamente come “privata”, da far coincidere verosimilmente con quella dell’autore. La grande, evidente passione e il profondo coinvolgimento personale di Marcenaro non furono però sufficienti a dare corpo a un progetto tanto utile, per le informazioni che rese disponibili, quanto contraddittorio e incerto sul piano storiografico e critico, a cui certo non giovarono i numerosi errori che, più che presentarsi come inevitabili refusi sembravano essere indizi di incertezza, quali il confondere l’iconologia con l’iconografia (13) o l’attribuire a John Ruskin un improbabile “Stories of Venice” (285) in cui avrebbe denunciato “quell’analisi delle strutture architettate attraverso fonti accertate”, che resta tra le altre cose un bell’esempio di linguaggio criptico. Anche una troppo circoscritta considerazione del proprio ambito e delle proprie fonti non fu senza conseguenze: si veda quello che veniva definito (125) “l’unico dei fotografi liguri del XIX secolo a firmare di pugno le proprie opere, del quale si riconosceva “la buona qualità della sua produzione, per altro non vasta” che faceva presumere che fosse “un abile dilettante”, mentre si trattava del non ignoto Pietro Santini, attivo a Pinerolo, a cui era stata riservata la giusta attenzione già in Fotografi del Piemonte 1852- 1899 e in Cassio et al. 1980 e di cui sarebbe stato di lì a poco ripubblicato un album in facsimile (Pinerolo 1986).
[711] Marcenaro 1984.
[712] Marcenaro 1984, p. 11. Una particolare attenzione per i problemi posti dalle ricostruzioni storiche e dalle biografie culturali segnava anche un successivo contributo: “Come nella tradizione, abbastanza comune, per numerosi grandi fotografi, la biografia di Noack si può percepire soltanto, in allusione, attraverso le opere” (Marcenaro 1989a, p. 11), sebbene poi i dati biografici salienti fossero desunti da più tradizionali fonti archivistiche e dalla tomba del fotografo nel cimitero di Staglieno a Genova. Per i rapporti fotografia – letteratura si veda Marcenaro 2004.
[713] Di tono puramente rievocativo erano Panazza et al. 1980; Simonelli 1980b.
[714] La documentazione del lavoro e delle lotte politiche nel Cremonese venne presentata in Persico Dosimo 1982 e Betri 1983, occasione anche per avviare lo studio dell’opera di Aurelio Betri (1834-1904), cfr. Betri et al. 1983.
[715] Di Marzo 1982a.
[716] Di Marzo 1982b. Analogamente agli altri della stessa serie, anche questo volume era stampato con scarsa attenzione per quelle immagini che pure intendeva far conoscere e valorizzare, non di rado tagliate per adattarle all’impaginato e senza alcuna indicazione a proposito di date di ripresa e di misure degli originali riprodotti. Significativamente, crediamo, questo volume non venne considerato tra le fonti citate in Paoli 1990a, mentre una precedente, analoga, produzione editoriale (Vicoli di Milano 1976) era stata celebrata per quelle “immagini che hanno in sé l’incanto che è proprio dei frammenti sottratti alla corrosione del tempo”, Daniela Palazzoli, [Recensione], “Bolaffi Arte”, 7 (1976), n. 59, aprile – maggio, p. 79.
[717] Florio et al. 1985.
[718] Ginex et al. 1985. Le ricerche sugli studi fotografici, e in particolare sulla Ditta Ganzini, condotte in quell’occasione confluirono poi, con ampi approfondimenti. In Ginex et al. 1986. Una prima rassegna di immagini dei fatti milanesi del 1898 era stata presentata su “Ferrania” giusto vent’anni prima, cfr. Bezzola 1965, e quelle vicende narrate da John Berger, G. Milano: Garzanti, 1974.,
[719] Paoli 1989; Id. 1990a; Id. 1990b; per alcune più circoscritte analisi tematiche si vedano Id. 1991, Id. 1993; Id. 1994b.
[720] Paoli 1989, p. 65.
[721] Di questa pratica, che per molti versi possiamo definire protofotografica, non si coglieva però (qui come altrove) la dinamica, sia tecnologica che culturale, che determinava un riassorbimento, e quindi un annullamento, della meccanicità nella manualità della traduzione calcografica.
[722] Paoli 1990a, p. 65.
[723] Paoli 1990b, p. 44.
[724] Sulle vicende delle raccolte fotografiche di Brera si vedano Cassanelli et al. 1996; Miraglia et al. 1996; Agosti et al. 1997; Cassanelli 2000a; Miraglia et al. 2000.
[725] Francesco Algarotti, Saggio sopra la pittura. Livorno: per Marco Coltellini in via Grande, 1763, p. 71, citato da Alberto Prandi, Veneto. In Miraglia et al. 1979a, pp. 123-126 (124). Credo utile ricordare che il fascino esercitato sullo studioso veneziano ed espresso in quel saggio richiamava irresistibilmente le condizioni narrate da Tiphaigne de la Roche, Giphantie. À Babylone [Paris], 1760. Già Van Deren Coke 1964 aveva richiamato sinteticamente l’attenzione sulle opinioni di Algarotti citando dal suo An Essay on Painting Written in Italian. London: L. Davis and C. Reymers, 1764. Va segnalata qui anche la notevole coincidenza tra la definizione di Algarotti della camera obscura (Dialoghi sopra l’ottica neutoniana: Dialogo secondo. In Opere scelte, II, Milano: Società Tipografica de’ Classici Italiani, 1823, p. 55) nella quale i raggi luminosi “vengono, quasi punte di pennello, a dipingere sopra un foglio di carta” e le metafore ottocentesche della fotografia, a partire da The Pencil of Nature.
[726] Zannier 1981, che si occupava però anche di altri studi veneziani; Buerger 1983.
[727] Naya’s Italy, Rochester, George Eastman House, 11 marzo – 29 maggio 1983; le immagini vennero pubblicate in Buerger 1983.
[728] “General histories of photography for other countries do not always establish the best way for dealing with the Italian photographic community. The huge commercial success of certain larger firms, the number of prints they sold, the low buyer’s price, and the enormous crew necessary to operate have all limited the feeling that real artistic personalities existed or, if they did, that they were distinguishable amid the massive amount of shop work surrounding them.”, Buerger 1983, p. 1.
[729] Costantini 1985d, p. 54.
[730] Tra le notazioni interessanti contenute in quei testi segnaliamo quella di Costantini 1984a, p. 9 poi non sufficientemente sviluppata, a proposito dell’integrazione tra disegno e fotografia: una relazione che era (stata) paradigmaticamente incommensurabile tra i distinti ambiti della pratica artistica coeva e di quella architettonica, in particolare per quanto riguardava il rilevamento e il restauro degli edifici, cfr. Cavanna 1981; Cavanna 1986; Cova 1987b; Cova 1987c. Ulteriori informazioni sul Fondo Ongania, conservato nell’Archivio storico della Procuratoria di San Marco a Venezia in Zannier et al. 1986. Sulla figura del grande editore si vedano Mazzariol 2008; Favaretto et al. 2011; Mazzariol 2010; Id. 2011.
[731] Alla nota affermazione di Ellis, databile al 1841, “la mania di abbellire innata in ogni artista (…) ha così allargato gli spazi in cui si trovano che uno straniero che arrivi a Roma con l’aspettativa suscitata da queste stampe, rimarrà infallibilmente deluso”, corrispondevano pochi anni più tardi le parole di Pietro Selvatico a proposito dei “prospettivi [che] non più comporranno a loro talento vedute de’ monumenti e de’ siti famosi, né ingrandiranno alle proporzioni del Colosseo la gentile Alhambra, né abbatteranno muri e fabbriche per lasciarne trionfante una sola.” Le considerazioni di Ellis, segnalata per la prima volta in Becchetti et al. 1979, pp. 34-35, sono state da allora più volte riprese da autori diversi, seguendo un destino analogo a quello dell’altrettanto nota prolusione inaugurale dell’anno scolastico 1852 tenuta da Selvatico all’Accademia di Belle Arti di Venezia, poi pubblicata in Id., Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte. In Scritti d’arte, Firenze, Barbera, Bianchi e C., pp. 337-341 (338).
[732] Costantini 1985b.
[733] Costantini 1988, che richiamava esplicitamente e sintetizzava i precedenti interventi apparsi in “Fotologia”, rielaborando in parte le considerazioni già espresse in Milleottocentotrentanove. In Costantini et al. 1985, pp. 33-40. Il tema venne ulteriormente approfondito dallo studioso (I congressi fotografici nazionali, luoghi dello scambio intellettuale. In Zannier 1993d, pp. 53-68) in un contributo più marcatamente teorico in cui leggeva la tradizione della veduta ottica della camera obscura, e in particolare le note considerazioni di Algarotti, utilizzando una lente benjaminiana, sostenuta poi storicamente dalla constatazione che quella rivelata dal dagherrotipo “è un’Italia che si rivela nella sua immobilità (…) il dagherrotipo non propone letture ‘diverse’ o eccezionali di quelle che sono ormai le convenzioni illustrative delle città italiane”, ma – proprio per il cambio di paradigma da loro costituito – quelle prime immagini si presentavano “come oggetti di consultazione, e non di evocazione.” (60).
[734] Costantini 1988, letto nella versione pubblicata in “Fotologia”, 11 (1989), settembre, p. 82.
[735] Zannier 1979b. Nella “assenza quasi totale di studi riferiti a questo ambito territoriale” i lavori di Zannier costituivano il riferimento imprescindibile per ogni successiva ricerca, come quella relativa a Gorizia nel periodo 1860-1915 (Brambilla et al. 1987); una ricerca condotta in archivi pubblici (tra i quali la fototeca dei Musei provinciali di Gorizia) e privati, con una lettura “che privilegia l’autore” da cui emersero alcuni dati interessanti, anche se non sempre restituiti correttamente e che dopo una ricerca più che decennale prese la forma sistematica del repertorio (Brambilla 1999).
[736] I.Z., G.S. [Italo Zannier, Guido Sedran], Friuli – Venezia Giulia. In Miraglia et al. 1979a, pp. 127-129. Alle sollecitazioni indotte da quelle prime ricerche va ricondotta anche la redazione di una delle prime tesi di laurea a proposito di archivi e collezioni fotografiche, Zen 1980, relativa a un’area sino a quel momento poco studiata come Trieste. Va almeno ricordato, anche se per evidenti ragioni risulta impossibile restituirne una mappa per quanto imprecisa, che il decennio successivo al 1979 fu connotato da numerose ricerche commissionate dagli enti pubblici alle diverse scale territoriali, che ebbero in alcuni casi significativi risvolti operativi in termini di tutela e conservazione del patrimonio fotografico storico locale pur senza pervenire ad alcun esito pubblico.
[737] Italo Zannier, Presentazione. In Menapace 1981, p. 9.
[738] Ivi, p. 11.
[739] Realizzato di fatto circa vent’anni dopo, con una sistematica messe di ricerche sulle fonti archivistiche e bibliografiche in Menapace 1996.
[740] Oltre ai pionieristici scritti di Enrico Unterveger una buona sintesi era stata fornita dai fratelli Pedrotti nel 1973.
[741] Menapace 1981, p. 15. Anche qui, come nel precedente volume della stessa collana, curato da Zannier, l’arco cronologico considerato si estendeva sino alla contemporaneità, mescolando quindi storia e repertorio in un unico flusso narrativo.
[742] Per una disamina dei più recenti contributi su questo argomento si rimanda al paragrafo L’eredità di Giulio Bollati: fotografia, identità nazionale e modernità (pp. 298-311) e più in generale a Pelizzari 2011a: D’Autilia 2012, Hill et. al 2014.
[743] Marcenaro 1984, p. 47.
[744] Si vedano ad esempio le due autocromie di Giulio Garbari, stampate in monocromo seppia, Menapace 1981, p. 79.
[745] Italo Zannier, Presentazione. In Menapace 1981, pp. 9-11 (10).
[746] Fanti 1980; Varignana 1980; Ruggeri 1981; Gasparini 1988.
[747] Pierluigi Cervellati, Fra documento e strumento operativo: i censimenti Alinari. In Cervellati et al. 1980, pp. 9-12.
[748] Ibidem, corsivo dell’autore.
[749] Franco Farinelli, Il paesaggio tra fotografia e geografia: l’immagine degli Alinari. In Cervellati et al. 1980, pp. 15-24 (22). Questa importante notazione sul ruolo egemone svolto dall’immagine Alinari non spiegava però le ragioni per cui tale egemonia si fosse prodotta, non essendo possibile ridurla alla “capillarità e all’intensità della sua circolazione e diffusione”, che furono semmai l’esito di un processo che doveva avere più profonde e complesse radici.
[750] Carlo Gentili, Fotografia e percezione urbana. In Cervellati et al. 1980, pp. 27-33 (30).
[751] Ferretti 1980, p. 40.
[752] Ibidem. In quel periodo proseguirono anche le indagini sull’attività fotografica nei principali centri della regione (Bologna, Modena, Piacenza, Reggio Emilia, con i lavori di Bertuzzi et al. 1982; Capizzi et al. 1986; Gasparini 1987b, da affiancare ai primi titoli che, pur con impostazioni critiche e metodologiche molto dissimili, furono dedicati al fenomeno delle immagini in cartolina (Brighetti et al. 1986; Emiliani et al. 1988.) e le riflessioni sul “lavoro della fotografia” realizzato da fotografi e studi attivi lungo un arco cronologico ormai aperto al XX secolo (Quintavalle et al. 1980, che proseguì l’indagine sugli studi fotografici anche negli anni successivi in Quintavalle 1981).
[753] Dall’Introduzione. In Mormorio et al. 1984 p.n.n.
[754] Oreste Ferrari, Presentazione. In Becchetti 1983, pp. 5-6. Più articolata fu invece la posizione assunta alcuni anni più tardi ricnoscendo che “sarà pur da scrivere, ed anche presto, una ‘storia della critica della fotografia’ che ripercorra, analizzandone passo per passo i differenziati moventi, quel tortuoso e già non breve cammino di studi che dalle prime sollecitazioni d’un più o meno giustificato rievocazionismo delle immagini di cose, fatti e persone a noi ancor accostati nel tempo, è poi passato alla presa di coscienza di un vero e proprio patrimonio di ‘beni culturali’, ha suscitato un collezionismo pubblico e privato (e, con questo, talvolta ha perfino sconfinato sugli scenari degli interessi mercantilistici), s’è impegnato nella valutazione estetica e documentaria, per approdare poi – finalmente! – alla effettiva indagine filologica, mestiere della quale è il ricercare e catalogare, vedere e rivedere, distinguere e ricomporre, dipanare e ritessere le vicende, ed insomma storicizzarle, così come si fa per qualsiasi altro fenomeno di vera portata culturale.”, O. Ferrari, [Presentazione]. In. Cavazzi et. al. 1987, p. 11.
[755] Il significato, anche programmatico ed esplicitamente sottolineato, delle ultime affermazioni assumeva un peso e un valore rilevante anche per il ruolo di Direttore dell’ICCD ricoperto da Ferrari, che su questi temi era già intervenuto in più occasioni, indicando anche il problema “ancor quasi del tutto aperto” della catalogazione e rivendicando la necessità di “un corretto comportamento culturale, diciamo pure una elementare deontologia storiografica nei confronti della fotografia [che] si fonda (…) sul non consentire che venga stralciata dal contesto e privilegiata questa o quella chiave di lettura del documento fotografico, e sull’operare invece affinché resti integra l’accessibilità a tutte indistintamente le virtuali letture che esso documento stimola.”, Oreste Ferrari, Prefazione. In Amendola 1978, pp. 9-12 (10). Va però ricordato che proprio in quegli anni, in area romana, erano state realizzate o erano in corso ricerche e indagini che corrispondevano positivamente a quelle cautele metodologiche: si vedano UIIASSA 1980; Callegari et al. 1984; Miraglia 1984c.
[756] Becchetti 1983a. Il ricco, insostituibile repertorio risultava pero il frutto più della passione collezionistica dell’autore che di una indagine sistematica delle fonti e della produzione coeva; significativa in tal senso la mancanza di riferimenti all’opera di Pompeo Sansaini, uno dei più importanti fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e di architettura attivo già nei primi anni del Novecento, collaboratore tra i più qualificati di Danesi e a sua volta editore in proprio.
[757] Becchetti et al. 1971.
[758] Altobelli, Cuccioni, Molins, essendo tutte le altre di autori romani a firma Miraglia.
[759] Becchetti 1983a, p. 28. Tale considerazione rendeva ancora più incomprensibile la mancanza di una Bibliografia generale tra gli apparati del volume, relegando le citazioni delle fonti alle note ai capitoli e alle schede dei fotografi, con ciò non solo rendendo difficoltosa la consultazione, ma privando il lettore di alcune, implicite, indicazioni metodologiche, quali il ricorso ai cataloghi di vendita e d’asta quali fonti per l’identificazione e la conoscenza di un patrimonio per sua natura, ancora prima che per ragioni storiche, disperso.
[760] Da qui la scarsa attenzione anche per il significato culturale delle aggregazioni e delle relazioni interpersonali, come mostrava ad esempio l’accenno quasi fugace a quel “circolo fotografico romano (…) detto anche Scuola Romana” a cui solo pochi anni più tardi avrebbe dedicato una più puntuale attenzione, soffermandosi in particolare sulla figura di Giacomo Caneva (Becchetti 1989a).
[761] Porretta 1976. Come si ricavava dai Ringraziamenti, il saggio – e quindi anche l’identificazione attributiva all’architetto Cugnoni – era nato da un “proficuo e continuo scambio di idee” con Carlo Bertelli, Oreste Ferrari e Marina Miraglia, che firmava la scheda relativa a questo autore anche in Miraglia et al. 1979a. Ricordo che il volume, e il curatore, erano stati proposti nel 1971 alla Einaudi proprio da Bertelli, cfr. AST. Archivio Einaudi, “Corrispondenza”, m. 20, fasc. 291, c. 7.
[762] Del Pesco 1981, p. 68.
[763] Ivi, p. 65. Tra gli esiti di quel lavoro vi fu anche la messa a punto di un ricco repertorio di nomi di fotografi, ricostruito a partire principalmente dalle fonti a stampa.
[764] Gaetano Macchiaroli, Premessa. In Del Pesco et al. 1981, pp. 7-8.
[765] Picone Petrusa 1981, p. 21.
[766] Ivi, p. 22. Se Daniela Palazzoli aveva definito, in modo metaforico e intrigante il negativo come “il subconscio della fotografia” (in Carluccio et al. 1973, p.n.n.), in termini più prosaici le differenti opinioni italiane in proposito erano esemplificate da Settimelli (et al. 1977, p. 10) che riteneva che “i negativi sono gli unici e veri originali” e da Miraglia, per la quale era corretto invece parlare di “stampa originale intendendo con questo termine una positiva stampata dallo stesso fotografo che ha prodotto il negativo.” (Miraglia 1977b, p. 25, riedito con alcune significative varianti in Id. 2011, pp. 141-142, nota 3). Anche Zannier qualche anno più tardi avrebbe indirettamente sostenuto quest’ultima posizione ospitando sulle pagine del primo numero di “Fotologia”, 1984, un documento redatto nel 1981 dall’APO, Association pour la Défense et la Promotion de la Photographie Originale, costituita da nove gallerie parigine, in cui si dichiarava al primo punto che “la fotografia, oggi, è generalmente una immagine su carta fotografica industriale (…) o artigianale”, introducendo la distinzione efficace tra “immagine multipla” in quanto ricavata dalla matrice negativa e “immagine unica” (dal dagherrotipo ai chimigrammi e fotogrammi sino alla polaroid). Quest’ultima definizione terminologica sarebbe poi stata adottata anche dalla normativa catalografica messa a punto dall’ICCD che tra le possibili definizioni tipologiche del bene fotografico, del fototipo prevedeva e prevede proprio l’ “unicum”. L’analogia tra negativo e spartito musicale utilizzata dall’APO si ritrovava anche in Picone Petrusa, 1981, p. 22, per la quale “il rapporto fra negativo e positivo è (…) paragonabile a quello che intercorre tra spartito musicale ed esecuzione”, suggerendo quasi un rapporto di tipo allografico nella accezione formulata da Nelson Goodman, I linguaggi dell’arte. Milano: Il Saggiatore, 1968.
Segnaliamo infine come, nonostante la crescita qualitativa della riflessione critica sulla fotografia degli ultimi decenni, permangano residui di approssimazione che pure trovano spazio editoriale: “i negativi (…) sono invece i veri originali della registrazione del fatto fotografico, i soli e i primi che hanno ricevuto l’impronta luministica della realtà [e] le stampe positive (…) non sono altro che ricostruzione virtuale (…) dei fatti accaduti” scriveva Manodori Sagredo 2006, p.n.n., che nella stessa sede proponeva un discutibile ‘dizionario’ delle tecniche dal quale estrapoliamo, a puro titolo di esempio, alcune indicazioni a riguardo della gomma bicromatata che per l’autore sarebbe “un composto ottenuto con la gelatina [sic] unita al bicromato di potassio” (ad vocem).
[767] Si veda anche il successivo Picone Petrusa 1991, pp. 52-74.
[768] Miraglia 1977b.
[769] Se in 1979a, p. 45 Miraglia aveva affermato che “uno dei motivi che maggiormente contribuì all’affermarsi della fotografia fu (…) il suo carattere conservativo nei confronti della tradizione rappresentativa dello spazio”, nel più impegnativo saggio edito due anni dopo (Miraglia 1981a), ricorreva – se non andiamo errati – a un uso poco più che nominalistico del termine: “il vedutismo e la riproduzione d’arte [come] generi [che] più di altri impegnano di fatto i protagonisti della nostra vicenda fotografica” (p. 453), parlando ancora di “fotografia di genere e di costume” a proposito di certe produzioni di Sommer, Ponti e simili (p. 483). In una successiva occasione la studiosa avrebbe invece precisato meglio la propria posizione critica indicando come “la fotografia di ‘genere’ (…) esibisce come propria caratteristica costante e più saliente un’accesa propensione realistica e naturalistica che espunge e rigetta come non pertinente ed estranea qualsiasi invadenza idealista. (…) Più importante dell’esaltazione del pittoresco (…) si rivela infatti, fin dall’epoca del collodio, quell’acceso realismo referenziale che al nuovo mezzo viene imputato come implicito limite del suo statuto di arte meccanica.”, Marina Miraglia, “Genere” e “Tableau vivant”: appunti veloci su due opposte tendenze dell’età del collodio e della gelatina bromuro d’argento. In Zannier 1993d, pp. 107-130. Interpretazione interessante ma forse non pienamente condivisibile, specie per le prime produzioni in studio, quando l’inevitabile realismo referenziale non poteva che essere per l’appunto “implicito” e la stessa ambientazione rivelava la teatralità della messa in scena; altrettanto discutibile appariva l’adozione della categoria descrittiva di “protoreportage” applicata alle immagini di genere realizzate sul finire del XIX secolo da autori e studi come Alinari, Brogi e Sommer, lontanissimi ad esempio dalla sensibilità dimostrata almeno due decenni prima da Thomas Annan nella realizzazione di Old Closes and Streets of Glasgow (1868-1871) o, paradigmaticamente, e circa gli stessi anni da Robert Rive, ovver,o in altro contesto, da Luca Comerio o da Alessandro Perelli. Silvia Paoli ha ben chiarito le differenze concettuali tra serie e reportage in relazione alla fotografia sociale e a quella dei teatri di guerra nella seconda metà del XIX secolo in alcuni importanti contributi (Paoli 1990b; Id. 1999a).
[770] Quintavalle 1983, p. xxxviii.
[771] Arturo Carlo Quintavalle, Il commercio del senso. In Berengo Gardin et al. 1978, ora in Quintavalle 1983, pp. 365-378 (375).
[772] Già nel 1972, rifacendosi a Victor Sklovskij, Quintavalle aveva riconosciuto come questo sistema di convenzioni si mantenesse “al di là e al di sopra (ma in precisa dialettica) con la creazione individuale”, facendo propria inoltre la posizione di Northrop Frye che considerava “il genere quale mediatore tra creatore e pubblico”, A.C. Quintavalle, Il sistema dei generi fotografici e Dorothea Lange, 1972, cfr. supra Nota 356. Più fenomenologico risultava un suo precedente riferimento alle “diverse tradizioni di racconto – generi – appunto: e troviamo così la fotografia amatoriale, quella pubblicitaria, quella cinematografica, quella cosiddetta di cronaca, quella di ripresa di paesaggio e di architetture (cartoline), e, su tutte, la fotografia di élite, la sola che oggi si definirebbe – foto d’arte.”, A.C. Quintavalle, Fotografia e immagine di massa, Dispense realizzate per la Fondazione Artistica Poldi Pezzoli di Milano, marzo 1976, ora In Id. 1983, pp. 350-357 (353). Il riferimento tipologico ai generi era stato ampiamente utilizzato anche da Bertelli 1979b, p. 67.
[773] Cfr. Fiorentino, Maffioli, Marina Miraglia in dialogo con la Summer School, cfr. supra Nota 388, in cui la studiosa riconduceva al proprio percorso di formazione riflessioni che molti anni più tardi sarebbero state problematizzate da Geoffrey Batchen, Snapshots: Art history and the ethnographic turn, “Photographies”, 1 (2008) n.2, pp. 121-142: “This essay is about art history’s worst nightmare: boring pictures. I’m speaking, of course, about snapshots, that most ubiquitous and familiar of photographic genres.” (121) L’analisi propriamente fotografica era stata infatti svolta da Miraglia (1988e), esito lungo del corso monografico di Storia della fotografia, dedicato alla rappresentazione delle plebi urbane e contadine del Mezzogiorno dopo l’Unità, che la studiosa tenne nel 1985 nell’ambito della cattedra di Storia delle tradizioni popolari dell’Università della Calabria, di cui era titolare Luigi Lombardi Satriani. A Miraglia e Faeta, con Marina Malabotti si doveva anche l’analisi della produzione del fotografo silano Saverio Marra (Faeta 1984), il cui lavoro esemplificava “la complessità e l’importanza delle questioni relative alle situazioni ‘periferiche’ nella produzione e nel consumo culturale e artistico, e per quanto ci riguarda anche fotografico, nelle aree di ‘ritardo’ sociale del territorio nazionale”, in un contesto di “crescente interesse per la cultura materiale come deposito della memoria storica.”, Paolo Costantini, [Recensione a Faeta 1984], “Fotologia”, vol. 2, Inverno/ Primavera 1985, pp. 108-109.
[774] Francesco Faeta, Ordini reali e ordine immaginario. Famiglia e società nelle fotografie di gentiluomini calabresi del primo Novecento. In Faeta et al. 1988, pp. 11-18.
[775] Si considerino ad esempio le schede regionali comprese negli apparati del catalogo sulla fotografia italiana dell’Ottocento (Miraglia et al. 1979a) intitolate alla Toscana (non firmata, p. 130) o allo Stato Pontificio (Miraglia, pp. 130-132) che di fatto trattavano solo dell’attività nei due capoluoghi.
[776] Nel periodo considerato pochi e piuttosto circoscritti erano i contributi relativi alla fotografia nelle Marche, in Abruzzo e in Molise, in Basilicata o in Sardegna; una situazione analoga, se si eccettua Roma, si registrava anche per il Lazio.
[777] Nemiz 1982.
[778] Cfr. Cova 1986.
[779] A partire da quello del fotografo reggiano Amanzio Fiorini (Gasparini et al. 1980); il lavoro di questo fotografo era già stato considerato nella tesi di laurea di Guglielmo Rossi (1976), cfr. Zannier 1978c, p. 49.
[780] Fiory Ceccopieri 1981.
[781] Nel corso della riunione editoriale del 18 novembre 1981 Paolo Fossati, commentando il volume TCI, ricordava che la Einaudi aveva a suo tempo “avviato con Racanicchi e gli eredi Sella un discorso (…) generale. Ci interessa portare avanti il discorso con i Sella, tenendo o escludendo Racanicchi?” Giulio Einaudi rispose: “Insisto per il libro. Se Racanicchi è bravo non vedo perché non affidargli il lavoro. [Massimo] Mila potrebbe fare la prefazione”, poi però il progetto non venne sviluppato; AST. Archivio Einaudi, “Riunioni editoriali”, m. 7/ ter, fasc. 11, c. 7 [53].
[782] In conseguenza della fama acquisita non vi fu mai un calo d’attenzione nei confronti del suo lavoro, così che già negli anni immediatamente successivi alla sua morte (1943) si pubblicarono non pochi studi di diverso impegno e interesse: Ramella 1945, Adams 1946, Clark 1948, Michieli 1948, quindi Racanicchi 1961.
[783] Aldo Audisio, Vittorio Sella: perché la mostra. In Fontana et al. 1982, pp. 7-9.
[784] Claudio Fontana, Una mostra: il Caucaso di Vittorio Sella, fotografia e montagna nell’Ottocento. In Fontana et al. 1982, pp. 11-13.
[785] Ibidem. Le riflessioni, pur incerte, venivano estese anche alle modalità di pubblicazione, stigmatizzando la consuetudine di riprodurre le fotografie “in un uniforme e spesso arbitrario color seppia o, più comunemente, in bianco e nero [portando] a una educazione visiva distorta [perché] possono celare una conoscenza importante: la varietà delle colorazioni nelle fotografie dell’Ottocento e, a questo punto, l’errato e improprio uso del termine ‘bianco e nero’.”
[786] Ibidem.
[787] Contribuivano a qualificare il progetto le schede delle fotografie, redatte da Giuseppe Garimoldi e Silvana Rivoir, con puntuali indicazioni su modalità di ripresa e tecnica di stampa, desunte dagli stessi appunti di Sella e verificate per confronto con i negativi corrispondenti.
[788] I fratelli Piacenza oltre ad avere forti legami personali condividevano con Vittorio Sella l’interesse per le esplorazioni e la montagna, come del resto Guido Rey che era inoltre imparentato con la famiglia Sella, mentre l’attenzione per Gabinio era stata vivificata dalla pubblicazione della recente monografia di Avigdor (1981), su cui torneremo.
[789] Audisio et al. 1986, anticipata da Audisio 1982a; si veda anche Abbozzo Heuser 1986.
[790] Miraglia 1981a, p. 475, che comprendeva nel gruppo anche Giuseppe Venanzio Sella, Emilio Gallo e Vittorio Besso oltre, ovviamente, a Vittorio Sella, ampliando l’elenco già suggerito nella scheda dedicata a Rey in Miraglia et al. 1979b, pp. 76-80.
[791] Citato in Giuseppe Garimoldi, Cinquant’anni dopo. In Audisio et al. 1986, pp. 11-12.
[792] La prima ipotesi critica relativa a una ‘scuola biellese’ di fotografia alpina era stata avanzata dal geografo Dino Gribaudi, In memoria di don A. M. De Agostini esploratore e geografo, “Bollettino della Società Geografica Italiana”, 94 (1961), n. 7-8, luglio- agosto, pp. 305-324, e successivamente adottata da Schwarz in diversi contributi sul noto esploratore, cfr. Angelo Schwarz, Alberto de Agostini e la naturaleza en la América Austral: una scheda. In Garimoldi 1985, pp. 73-79 (p. 78, nota 14). Per quanto riguarda l’ipotesi formulata da Miraglia si deve ricordare che, a prescindere dall’esclusione – già rilevata da Schwarz – di altri autori più direttamente coinvolti nella pratica alpinistica come i fratelli Guido e Mario Piacenza, Domenico Vallino, Erminio Botta e lo stesso De Agostini, non sono note riprese di montagna attribuibili a Giuseppe Venanzio Sella; che i soggetti alpini costituivano solo una piccola parte del catalogo di Besso e che Rey all’epoca era internazionalmente noto per la sua produzione pittorialista e non certo per quella alpinistica, di livello amatoriale. Resta quindi difficile identificare questi autori, certo uniti da forti legami personali, come appartenenti a una comune “scuola”. Anche Michele Falzone del Barbarò, Fotografia e cultura fotografica a Biella 1850/1996. In Falzone del Barbarò et al. 1996, pp. 33-38, non fece alcun riferimento alla “scuola biellese”, sottolineando semmai le analogie tra studi attivi a Biella e quelli italiani in genere.
[793] Schwarz 1986a, p. 202, corsivo dell’autore.
[794] In questa prospettiva andava considerata come un prezioso antecedente la pubblicazione di Bricarelli 1976, nella quale il fotografo, ormai quasi novantenne, in un certo qual modo storicizzava la propria produzione, pur nella forma dell’album di memorie, nel quale trovavano posto anche fotografie, tra gli altri, di Henri Le Lieure e Guido Rey.
[795] Rivolto in particolare a questa produzione l’intervento di Abbozzo Heuser 1986 che sottolineava i legami con la cultura inglese, col milieu artistico torinese e più in particolare (ed era un dato inedito e precoce) col gruppo di artisti e studiosi che avevano collaborato con Alfredo d’Andrade alla realizzazione del Borgo Medievale a Torino in occasione dell’Esposizione Generale del 1884, tra le più influenti occasioni di affermazione del gusto medievaleggiante in area piemontese e non solo, cfr. Cavanna 1981; Cavanna 2013.
[796] Siegert 1984; Costantini et al. 1986c.
[797] Brugnoli et al. 1984; la mostra venne presentata nello stesso anno anche al Münchner Stadtmuseum Fotomuseum, 1 marzo -17 giugno, col titolo Moritz Lotze: von München nach Verona. Segnaliamo che tra le carte di Paolo Costantini è conservata “documentazione sul fotografo Maurizio Lotze e figli Riccardo ed Emilio, raccolta in occasione della ricerca commissionata dal Comune di Verona, nel settembre 1983, per la mostra su Lotze” (Serena 2003, p. 6), ma il giovane studioso venne citato nel colophon solo tra i ringraziamenti e non tra i collaboratori.
[798] Alberto Prandi, “È questo un mestier nuovo …”. In Brugnoli et al. 1984, pp. 9-21 (13).
[799] Miraglia 1985f, che segnalava anche l’esemplarità del trattamento catalografico delle immagini pubblicate.
[800] Diversamente da altri, sebbene illustri esempi precedenti (cfr. supra Nota 766) qui non vi era alcuna traccia né residuo della bizzarra concezione secondo la quale si pubblicava la stampa positiva facendo però riferimento, nella descrizione tecnica, alle caratteristiche della presunta matrice negativa.
[801] Prandi et al. 1985.
[802] Emilio Lippi, Un ‘nuovo fondo speciale’ in Biblioteca: la raccolta fotografica. In Prandi et al. 1985, p. 9.
[803] Giancarlo Roversi, La Raccolta Poppi. Storia, contenuti e note metodologiche. In Cristofori et al. 1980, pp. 145-162. A queste approfondite riflessioni corrispondeva però una strutturazione delle schede di catalogo farraginosa e incompleta a un tempo, che prevedeva un ampio ricorso ad abbreviazioni, acronimi e segni grafici e risultava più attenta alle segnature archivistiche che alla descrizione del fototipo catalogato, rispetto al quale non erano fornite nella maggior parte dei casi indicazioni fondamentali quali la datazione e la tecnica.
[804] Grandi 1983; Varignana 1985; Costantini 1989c.
[805] Si veda ora Cavanna 2015a, p. 21.
[806] Andrea Emiliani, La fotografia come bene culturale. In Cristofori et al. 1980 pp. 9-11 (9). Forse per questa ragione “il catalogo non include, almeno per ora, un’esatta ricognizione circa le tecniche di realizzazione delle immagini, ed è questo argomento che dovrà essere sollecitamente affrontato.” (9) Con un implicito omaggio a Vitali, Emiliani collocava l’acquisizione del Fondo Poppi in quello che definiva “questo ritorno e questa accentuazione di interesse verso la fotografia come una legittima ripresa di tralasciate tematiche culturali”, ma questa interpretazione credo fosse fuorviante poiché non si trattava tanto di un “ritorno all’antica fotografia” quanto di una conferma della concezione ottocentesca, riduttivamente referenziale, di questa tipologia di immagini, rispetto alle quali si ribadiva l’esclusivo interesse documentario.
[807] Ivi, p. 11. Considerazioni non dissimili, anzi nella sostanza coincidenti sarebbero state espresse di lì a poco da Rosalind Krauss, Photography’s Discursive Spaces: Ladscape/View, “College Art Journal”, 42 (1982), n.4, Winter, pp. 311-319; ora in Id. Teoria e storia della fotografia. Milano: Bruno Mondadori: 1996, pp. 28-49 (48-49).
[808] AST. Archivio Einaudi, “Riunioni editoriali”, m. 7/ ter, fasc. 8, c. 190, riunione del 6 dicembre 1978.
[809] Dal risvolto di copertina, non firmato, di Avigdor 1981.
[810] Nori et al. 1974. La mostra Torino anni ‘20: documentazione fotografica da materiali di Mario Gabinio promossa dalla Fondazione Agnelli era stata curata dallo stesso Avigdor con Enrico Nori a partire da una segnalazione di Andreina Griseri. Le immagini esposte erano infatti state accortamente scelte e scenograficamente presentate per parlare in un certo modo di una certa Torino, non del fotografo, come aveva ben compreso Paolo Fossati, che registrava l’impossibilità di far coincidere il sentimento di Gabinio con l’angoscia della scomparsa cogliendo “un attimo di stupore che va ben oltre la nostalgia per un ‘vecchio’ ordine distrutto (…). Sicché la tesi che ora si accredita nel libro è fatta per non convincerci, un immobilismo di fondo, culturale e morale, di Gabinio di fronte alla città in sviluppo.”, Paolo Fossati, Fotografia e città: la Torino di Mario Gabinio, “Il Corriere della Sera”, n. 68, 23 marzo 1975, p. 15.
[811] Avigdor 1981. Sollecitato da questa ‘scoperta’ anche il Museo nazionale della Montagna avrebbe dedicato di lì a poco una piccola mostra monografica a Mario Gabinio, cfr. Audisio 1983.
[812] Tra i documenti pubblicati risultava particolarmente interessante la serie di scambi epistolari con enti e istituzioni diverse (Alinari, Club Alpino Italiano, Città di Torino) in merito alla travagliata offerta di cessione dell’intero Fondo dopo la morte del fotografo; una documentazione che molto diceva su quell’aspetto non secondario della cultura e della storia della fotografia in Italia rappresentato dall’attenzione – sovente mancata o malintesa – per la tutela e la conservazione del patrimonio fotografico storico.
[813] Costantini et al. 1987. Il volume costituiva anche un’importante occasione di pubblicazione di fonti e repertori poiché conteneva l’edizione integrale dei testi compresi nei diversi annuari e il repertorio completo delle tavole. Un primo cenno agli annuari di “Luci ed Ombre” era contenuto in Prolo 1976.
[814] I. Zannier, La ‘fotografia artistica’ in Italia tra le due guerre. In Costantini et al. 1987, pp. 13-23. Al “Corriere Fotografico” e ai suoi annuari Zannier dedicherà poi alcune pagine anche in Zannier 1993b, pp. 32-39.
[815] Poco più che un repertorio antologico di autori e di immagini, privo di inquadramento storico critico del fenomeno e della produzione, era stata anche un’altra, precedente mostra relativa ad alcune vicende della fotografia amatoriale nella prima metà del Novecento, cfr. Tempesti et al. 1983.
[816] P. Costantini, Una “sana ed eclettica modernità”. L’esperienza di Luci ed Ombre tra conservazione e innovazione. In Costantini et al. 1987, pp. 25-35.
[817] Analoghe riserve vennero espresse da Lusini nella recensione al catalogo, riscontrando che i diversi saggi non offrivano sufficienti “riferimenti che permettano di capire le forme e i modi in cui cultura fotografica e più ampio contesto sociale, economico e politico entravano in relazione”, individuando le ragioni di tali lacune nella mancanza di dati e studi preesistenti “disponibili per rapidi bilanci e consuntivi”, Sauro Lusini, Fotografia d’arte, “AFT”, 4 (1988), n. 8, dicembre, pp. 69-70; considerazione incontrovertibile che conteneva però anche un riconoscimento dei limiti delle ricerche condotte in quell’occasione, o forse della loro impostazione.
[818] Costantini et al. 1985.
[819] Zannier 1986.
[820] Il ricco apparato illustrativo (289 figg. su 204 pp. di testo), forse anche per ragioni di produzione editoriale non sembrava corrispondere a un criterio di ordinamento facilmente riconoscibile. Lo si sarebbe detto tematico/ cronologico ma non sempre la sequenza confermava questa impostazione semplice, ulteriormente confusa da didascalie altrettanto eterogenee nel trattamento descrittivo delle fotografie riprodotte, sia in senso terminologico che sostanziale (l’uso indifferenziato di calotipo/ calotipia per indicare sempre e comunque dei positivi, ad esempio); la presenza casuale delle indicazioni di provenienza archivistica o collezionistica dell’immagine ecc.
[821] Anche Sauro Lusini, Fotografia/e tra cronaca e storia, “AFT”, 2 (1986), n. 4, dicembre, pp. 73-75, nel recensire positivamente il volume stigmatizzava “la mancanza di una bibliografia specifica per i singoli capitoli. (…) E questo è un difetto; un apparato bibliografico adeguato, pur senza le ambizioni della completezza e della sistematicità, si sarebbe rivelato coerente al piano generale dell’opera”.
[822] Avigdor et al. 1977; Falzone del Barbarò 1980.
[823] Zannier 1986, pp. 121-122; un breve testo che a dispetto del titolo (Fotografie per i pittori) trattava di quegli artisti che utilizzarono la fotografia per elaborare o verificare le proprie opere.
[824] Su questi temi si veda John Harvey, Fotografare gli spiriti. Il paranormale nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Bollati Boringhieri, 2010.
[825] Avigdor 1981. Sull’attività professionale di Bricarelli e Bertoglio si vedano: Cavanna 2005c; Miodini et al. 2009.
[826] Bertelli 1979b, p. 183.
[827] Ermanno Federico Scopinich, a cura di, Fotografia – Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia; con Alfredo Ornano e Albe Steiner. Milano: Editoriale Domus, 1943. Cfr. Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943. In Serena 1998, pp. 99-128.
[828] Roberto Maggiori, Introduzione. In Zannier 2012, citato in Pier Francesco Frillici, La fotografia italiana raccontata da Italo Zannier, “Linkiesta”, consultabile all’indirizzo http://www.linkiesta.it/blogs/blow/la-fotografia-italiana-raccontata-da-italo-zannier [03 07 2012]
[829] Paolo Costantini, [Recensione], “Fotologia”, 6 (1986), dicembre, pp. 98-99.
[830] Cfr. supra Nota 821. Un singolare, ulteriore momento di sintesi di storia della fotografia italiana dalle origini al modernismo di Veronesi venne poi offerto da Roberta Valtorta, Linee di sviluppo della fotografia italiana. Riflessioni e spunti, “AFT”, 5 (1989), n. 9, giugno, pp. 38-43.
[831] Nell’ambito del suo ciclo di lezioni tenute nel 1989-1990 presso l’Università del Progetto di Reggio Emilia, Luigi Ghirri aveva predisposto anche un progetto didattico di Storia della fotografia. Non interessa tanto, qui, entrare nel merito dello specifico svolgimento (piuttosto convenzionale e generico) quanto registrarne i presupposti, che contenevano più di un motivo di interesse. “L’idea – scriveva Ghirri negli appunti preparatori – è quella di tracciare una ‘storia’ non solo dello specifico fotografico, ma anche dell’aprirsi della fotografia in diverse direzioni; (…) dai diversi processi di pensiero alle opere che entrano direttamente o indirettamente in relazione con la realizzazione dell’immagine. (…) Il desiderio è quindi quello di tracciare un grande affresco degli ultimi 150 anni attraverso diversi sistemi operativi e reciproche influenze; non dimenticando ovviamente tutti i processi tecnologici e i relativi aggiornamenti. (…) In definitiva né una storia sociale della fotografia né la storia di una nuova arte, ma al di là di paralizzanti dialettiche tra forme e contenuti, la storia di tutte le possibilità che la scoperta della fotografia ha introdotto nella nostra vita.”, Ghirri 2010, p. 133.
[832] Paola Barocchi, Premessa. In Serena 1998, p. 7.
[833] Paola Barocchi, Storia moderna dell’Arte in Italia: manifesti, polemiche, documenti, 3.1, Dal Novecento ai dibattiti sulla figura e sul monumentale 1925-1945.Torino: Einaudi, 1990; Id., 3.2, Tra Neorealismo ed anni novanta: 1945- 1990. Torino: Einaudi, 1992.
[834] Poca diffusione in Italia ebbe invece il volume di Christian Bouqueret, François Livi, Le voyage en Italie. Les photographes français en Italie: 1840- 1920. Lyon: La Manufacture, 1989. Allo stesso anno risaliva anche la pubblicazione di importanti repertori bibliografici internazionali: Laurent Roosens, Luc Salu, History of photography. A bibliography of books. London – New York: Mansell Publishing Limited, 1989; Frank Heidtmann, Bibliographie der Photographie: Deutschsprachige Publikationen der Jahre 1839- 1984. Technik – Theorie – Bild, „Schriftenreihe der Deutschen Gesellschaft für Photographie“ (3). Berlin: Walter de Gruyter, 1989, mentre di poco successivo fu Eric Lambrechts, Luc Salu, Photography and literature. An international bibliography of monographs. London: Mansell Publishing Limited, 1992.
[835] Alcuni testi vennero raccolti in Richard Bolton, ed., The Contest of Meaning. Critical Histories of Photography. Cambridge Massachusetts: The MIT Press, 1989.
[836] Galassi 1989; Lemagny et al. 1988. Anni dopo Rouillé avrebbe preso radicalmente le distanze da quell’esperienza, cfr. André Rouillé La photographie. Entre document et art contemporain. Paris: Gallimard, 2005.
[837] In quella stessa occasione venne riedito il testo di Daguerre, Description pratique du procédé nommé le daguerreéotype, à Gènes, Antoine Bœuf, 1839 (nuova ed. Genova: Ansaldo, 1989, a cura di Alessandro Lombardo e Giuseppe Marcenaro). L’anniversario costituì anche l’occasione del convegno Sul fronte della fotografia, che si tenne presso la sede italiana delle Università di Michigan e Wisconsin a Sesto Fiorentino e a Firenze nei giorni 4 e 5 ottobre, con interventi di Zannier (Divenire della fotografia), Graham Smith (Talbot e Brewster), Becchetti (Caneva e Macpherson, oggetto di due monografie appena pubblicate), Andrew Szegedy-Maszak (Archeologia e fotografia a Roma), Costantini (Paul Strand a Luzzara, su cui aveva appena pubblicato una monografia firmata con Luigi Ghirri), Diane Kirkpatrick (La fotografia e la nuova tecnologia). Per molti versi connesso a questa iniziativa, non fosse altro che per la comune presenza degli Alinari tra i promotori, e di alcuni dei relatori, il corso La fotografia storica, coordinato da Zannier con interventi di Becchetti, Cesare Colombo, Costantini, Claudio De Polo, Gillo Dorfles, Maria Grazia Ciardi Duprè, Falzone del Barbarò, Ferruccio Malandrini, Emanuela Sesti e dello stesso Zannier, cfr. Corsi di fotografia a Castel di Poggio, “Fotologia”, n. 12, primavera – estate, 1990, p. 119.
[838] Solo molto più tardi, al momento di chiudere la propria esperienza al MoMA, Galassi avrebbe preso le distanze dall’impostazione storiografica da cui nacquero la mostra e il volume, riconoscendola frutto della propria “naïveté of youth. As I explained in the preface to Before Photography, it wasn’t my idea. ”, dall’intervista di Sabrina Moura per “La Lettre de la Photographie”, consultabile all’indirizzo http://lejournaldelaphotographie.com/archives/by_date/2012-02-13/5566/peter-galassi-30-years-at-the-moma [26 04 2013] e della diligente applicazione delle metodologie critiche derivate da Schwarz via Szarkowski, mostrando in parte di aver tenuto conto delle critiche radicali all’epoca mosse proprio a quell’impianto critico di derivazione primo novecentesca, richiamato sinteticamente da Anselm Wagner, Integrating Photography into History of Art. Remarks on the life and scientific estate of Heinrich Schwarz, “Photoresearcher” n. 11 (2008), April, pp. 14-26, a cui si aggiunsero le riflessioni di Rosalind Krauss, Gli spazi discorsivi della fotografia. In Id., Teoria e storia della fotografia. Milano: Bruno Mondadori, 1996. (ed. originale, Le Photographique. Paris: Macula, 1990), pp. 28-49, (32-33) che contestava proprio il concetto di “legittimazione (…) nello spazio discorsivo dell’arte” operato da Galassi affidandosi “alle strutture interne e formali più che ai dettagli congiunturali esterni. (…) E le fotografie reagiscono come viene loro chiesto.” Di tutt’altra opinione, sebbene solo implicitamente espressa, fu Paolo Costantini che nella sua recensione al volume pubblicata in “Fotologia”, 11, settembre 1989, pp. 89-90, ripercorreva e sintetizzava il lavoro di Galassi senza rimarcarne quelli che altri consideravano i limiti, anzi accogliendo la genealogia storiografica derivata da H. Schwarz, del quale lo studioso avrebbe di lì a poco curato per Bollati Boringhieri l’edizione italiana di Arte e fotografia (1992), esplicitando una precisa scelta di campo tra tradizione modernista e nascente critica postmoderna. In quella sede la puntuale Introduzione del curatore ricostruiva il percorso dello studioso praghese evidenziandone il ruolo determinante nella precoce messa a punto di “una concezione della storia della fotografia come storia di opere e quindi di autori, esplicitamente legata alla tradizionale interpretazione filologica delle opere d’arte” (XIV), da cui quindi non poteva essere escluso “il problema della tecnica come aspetto della ricerca artistica”. A Schwarz si doveva anche la definizione di “un problema del tutto nuovo per la critica d’arte, che cominciava appena ad ammettere la fotografia tra i propri oggetti di studio”, sulla scia delle riflessioni e delle iniziative di Alfred Lichtwark, esprimendosi esplicitamente per una considerazione della fotografia all’interno della storia dell’arte; anzi, rilevava Costantini, “la questione (…) che si ritrova come problema centrale in tutti gli scritti di Schwarz, è dunque proprio il rapporto tra l’idea della fotografia e la tradizione pittorica occidentale” (Paolo Costantini, Introduzione. In Schwarz 1992, p. XXIV) una concezione che sappiamo aver dominato buona parte della storiografia fotografica del XX secolo come pure di quella attuale. A precisare ulteriormente quelle posizioni culturali il curatore ricordava come, in realtà, nel volume dedicato a Hill e Adamson (1931) Schwarz distinguesse tra i ‘limiti’ propri della fotografia e “il mondo illimitato della pittura”, con ciò esprimendosi in termini assolutamente modernisti a favore dello specifico fotografico proprio della fotografia ‘diretta’, contrapposto alle contaminazioni di quella ‘artistica’; segnalava inoltre che quelle posizioni vennero ribadite anche nello scritto su Albert Renger-Patsch, omettendo però di rammentare (p. XXI) le notazioni critiche coeve, di segno opposto, espresse a proposito di quel volume da Benjamin (1931) 1966 p. 75. Nello stesso coerente orizzonte di interessi storiografici e posizioni critiche doveva essere inteso anche l’ulteriore ritorno di Costantini sulla figura di uno studioso che fu a sua volta influenzato da Schwarz come Lamberto Vitali, al quale nel testo destinato a “Fotogeschichte”, 17 (1997) n. 64, ora pubblicato nell’originaria stesura in italiano in Paoli 2004, pp. 35-40, riconosceva “preziose indicazioni di metodo [che] definiscono un moderno approccio storico alla fotografia come parte affatto trascurabile della nostra cultura.” (35).
[839] Tomassini 1989, p. 48.
[840] Si trattava in prevalenza dell’esposizione di risultati già noti e recentemente pubblicati quali la monografia di Falzone del Barbarò e Luciano Tamburini su Secondo Pia (Falzone del Barbaró et al. 1981), i dagherrotipi di Ruskin studiati da Costantini e Zannier (Costantini et al. 1986a), gli Alinari illustrati da Edoardo Sanguineti, che aveva iniziato la collaborazione con la firma fiorentina alcuni anni prima con la pubblicazione di Sanguineti et al. 1979, a cui erano seguiti i volumi dedicati alla Liguria (Sanguineti 1985a) e alla Valle d’Aosta (Sanguineti 1985b). Gli studi più interessanti e innovativi vennero dagli ospiti e promotori del convegno (Ansaldo e la fotografia industriale, di Luca Borzani, che più recentemente avrebbe firmato l’introduzione a Lombardo 2013) e dall’illustrazione di un aspetto particolare del grande tema della fotografia di guerra, con una relazione di Adolfo Mignemi a proposito di quel fenomeno tanto interessante quanto poco studiato per l’Italia, costituito dalla produzione diretta di fotografie da parte degli organi militari. A quelli si aggiunsero altre riflessioni di ordine più generale come quella sul rapporto tra fotografia e cultura scientifica, svolta da Angelo Schwarz analizzando il testo di presentazione di Arago agli accademici di Francia, considerato il primo testo ‘ideologico’ sulla fotografia; di Giuseppe Marcenaro sul tema del ritratto a partire dai “luoghi della riflessione letteraria”; di Gillo Dorfles con un intervento dedicato al Kitsch (che declinava in chiave fotografica il tema del suo notissimo saggio del 1972) e di Peppino Ortoleva, che tornava a riflettere sulle ragioni del “rapporto praticamente inesistente [della fotografia come fonte] con la storiografia”.
[841] Tomassini 1989, p. 48.
[842] F. Celentano, Nota introduttiva, dattiloscritto distribuito in copia fotostatica in occasione della tavola rotonda Conservazione e restauro delle fotografia: Iniziative in Europa tenuta a Milano, nell’ambito della Sezione culturale del SICOF (Fiera di Milano, 5 marzo 1989). La tavola rotonda era stata promossa da Lanfranco Colombo e dall’Associazione Italiana per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali, con interventi di Anne Cartier-Bresson, Robert Korchia, Paul Jay, Charles-Henri Favrod, Charles Brandt, Sauro Lusini e il coordinamento dello stesso Celentano.
[843] Il convegno si era tenuto a Savona il 15 e 16 maggio 1987 nell’ambito delle celebrazioni per i “100 anni dell’industria fotografica italiana”, promosso dalla Regione Liguria e dall’Università di Genova con la collaborazione di 3M Italia, che nel 1984 aveva inaugurata la propria Fototeca, dotata di un sistema di consultazione basato su schede meccanografiche corredate di riproduzioni fotografiche, su cui erano registrati il codice identificativo, il nome dell’autore, una breve descrizione del soggetto, il codice di soggettazione e la data di ripresa.
[844] Paolo Bassi, Anne Cartier-Bresson, Ezia Gavazza, Tea Martinelli Coco, Enrico Pedemonte, Marcello Puccini, Riccardo Redi, Laura Tagliaferro, Giovanna Terminiello. La tavola rotonda era stata preceduta dagli interventi di Lorenzo Valbusa (3M Italia), Immagini fotografiche in B/N: cause di deterioramento, e di Anne Cartier-Bresson, Problematiche di restauro di materiale fotografico.
[845] Tomassini 1989.
[846] Ivi, pp. 50-51.
[847] Zannier et al. 1985.
[848] “Un altro motivo di fragilità, è, paradossalmente, per l’artista, la fermezza e l’insistenza dello sguardo. Il potere, qualunque esso sia, perché è violenza, non può guardare; se guardasse un minuto di più (un minuto di troppo), perderebbe la sua essenza di potere.”, Roland Barthes, Caro Antonioni, “Cahiers du Cinèma”, n. 311, marzo 1980, ora in Id., Sul cinema. Genova: Il Melangolo, 1994, pp. 170-176.
[849] Costantini et al. 1989b. La locuzione che portava l’accento sul guardare ebbe in quell’anno particolare successo, come mostrava l’analoga iniziativa francese che vide collaborare Musée d’Orsay e Bibliotheque Nationale: cfr. Françoise Heilbrun, Bertnard Marbot, Phlippe Néagu, dirs., L’invention d’un regard (1839- 1918). Paris: Edition de la Réunion des musées nationaux, 1989, a cui aggiungere in altro contesto Le invenzioni dello sguardo: cinque fotografi interpretano la notte a Milano. Milano: AEM, 1989.
[850] L’incertezza dell’impianto critico e storiografico venne immediatamente segnalata da Fernando Tempesti, La Fotografia, “AFT”, 5 (1989), n. 10, dicembre, p. 76-77, per il quale se il campo illimitato della fotografia “è a volta a volta delimitabile in via provvisoria, in forza di un problema che ci poniamo, di un’ipotesi di lavoro. Qui, in mostra, se il problema c’è, ci sfugge.”
[851] Abruzzese et al. 1989.
[852] Alberto Abruzzese, Il nuovo immaginario. Premessa. In Abruzzese et al. 1989, pp. 1169-1177 (1175). Il tema dei rapporti fra letteratura e fotografia era stato trattato in modi più sporadici ed episodici nel primo e forse unico numero di “De Photographia: Giornale per la rivoluzione culturale dei fotografi”, Roma, 1975, che conteneva interviste di Michelangelo Giuliani ad Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Giuseppe Berto, Alberto Gatto e Cesare Zavattini sul rapporto che intercorreva tra chi scrive e chi fotografa, e nella serie di trasmissioni omonime.
[853] Abruzzese et al. 1989, pp .1187-1188, corsivo degli autori.
[854] Ferretti 1980, p. 38.
[855] Se ne fornisce di seguito, a puro titolo indicativo e senza pretese di esaustività l’elenco alfabetico, così come è stato ricavato dall’OPAC SBN, limitandoci a notare come sarebbe interessante e significativo analizzare la distribuzione geografica di queste iniziative: Accadia , Alleghe, Amalfi, Amelia, Avola, Bergamo (Redona), Bitritto, Bologna, Borgo San Lorenzo, Faenza, Forlì, Fucecchio, Gemona, Genova, Gorizia, Intra e Pallanza, Milano, Napoli, Orvieto, Pescia, Pianoro, Putignano, Rimini, Rolo, Roma, Trieste, Triggiano, Venezia (Cavallino Treporti), Viareggio, Zeri. Questi ed altri titoli, pubblicati in anni diversi, possono essere reperiti in OPAC SBN utilizzando la stringa di soggetto “Documenti fotografici”.
[856] Luigi Tomassini, Amelia allo specchio, “AFT”, 6 (1990), n. 11, giugno, pp. 77-79.
[857] Guagnini et al. 1989.
[858] Fernando Tempesti, Dentro la fotografia, “AFT”, 6 (1990), n. 11, giugno, p. 76. Questa tensione concettuale si manifestava in molti aspetti del lavoro redazionale di “AFT”, basti pensare al titolo utilizzata da Sauro Lusini per raggruppare le recensioni di alcuni volumi pubblicati nel 1990-1991, che per certi versi rasentava l’ossimoro accostando materialità del patrimonio e immaterialità, appunto, dell’immagine: S. Lusini, In difesa del patrimonio fotografico di immagini, “AFT”, 7 (1991), n. 14, dicembre, p. 77.
[859] Tomassini, Amelia allo specchio, 1990, citato, p. 79.
[860] “Une question d’ordre général posée aux témoignages que fournit un champ d’expériences restreint”, Marc Bloch, Problèmes d’ensemble, “Annales d’Historire Economique et Sociale”, 5 (1933), n. 23, septembre, pp. 471-478 (472).
[861] Colombo et al. 1989.
[862] Falzone del Barbarò et al. 1989a. Credo possa avere un qualche senso segnalare che la parola (e il concetto) di “itinerario” compariva anche nel titolo di un’altra grande mostra prodotta da Alinari dello stesso anno: 150 anni di fotografia in Italia: un itinerario (Costantini et al. 1989a).
[863] Già nel 1980 Ferretti aveva condotto alcuni raffronti in area emiliana, ma soprattutto aveva indicato alcune fondamentali cautele metodologiche a proposito del “collegamento fra letteratura guidistica e grandi campagne fotografiche”, poiché è vero che “esse testimoniano un indice di attesa culturale già con gli stessi criteri di incremento (…) Ma per considerare le campagne fotografiche come un Baedeker visivo, bisognerebbe aver prima inventariato in un registro unitario i cataloghi delle diverse ditte specializzate in fotografia dei monumenti. Certe esclusioni, certe scelte nel riprodurre oggetti d’arte hanno significato solo in ordine alle esclusioni e alle scelte compiute da altri fotografi – anche locali – in grado di commercializzare la loro produzione. Ma è anche chiaro che il ricorrere degli stessi soggetti (magari fotografati in modo del tutto simile), così come il rapporto selettivo fra ditte di taglio internazionale e ditte locali, fissa un indice orientativo della tipicizzazione artistica della regione.”, Ferretti 1980, p. 41. Anche Daniela del Pesco (1981, p. 93, nota 2) aveva confermato il ricorso degli Alinari alle guide quali tracce per la costruzione del loro repertorio, ricordando come “nel catalogo Alinari del 1873 si precisa che la campagna del 1864 relativa alle opere del Museo Nazionale si basa sulla Guida di Napoli e suoi contorni dell’Abate Luigi Galanti”.
[864] Luigi Tomassini, Vedere Firenze nell’Ottocento. Immagini e descrizioni della città nell’editoria per il turismo. In Falzone del Barbarò et al. 1989a, pp. 11-27 e 217-220 (12); sul tema si veda ora anche Smith 2006.
[865] Costantini 1988.
[866] Picone Petrusa 1991, p. 52. Qui la studiosa riprendeva, applicandoli all’analisi della produzione romana, temi che aveva già affrontato in altro contesto in Picone Petrusa 1981.
[867] Miraglia, I ‘generi’ fra regola e creatività. In Miraglia 2012, pp. 1-32.
[868] Ivi, p. 8. In questo senso non riusciamo a concordare neppure col fatto che il “passaggio concettuale dalla ‘veduta’ – dal carattere eminentemente scientifico – al ‘paesaggio’ il cui requisito principale risiede, all’opposto, nelle valenze sensoriali ed emozionali che esso trascina con sé (…)” abbia costituito un esempio “abbastanza esplicito” di modificazione delle definizioni tradizionali, di una “erosione, non sempre immediatamente apprezzabile, della legalità delle regole” (16). Non credo occorra riferirsi necessariamente a una ormai ricchissima bibliografia di studi per verificare che i due generi non solo hanno coesistito per lungo tempo (contemplando semmai una primogenitura del paesaggio rispetto alla veduta) ma permangono sostanzialmente immutati anche per tutta la breve storia della fotografia, solo che si voglia considerare l’importante produzione (invero poco ‘artistica’) dei rilevamenti fototopografici militari e civili, le vedute di grandi cantieri territoriali e simili. I generi non sono mai scomparsi; sono semmai transitati o – per meglio dire – sin sono estesi dalla pittura alla fotografia, dove nonostante tutte le liquidità di confine rimangono ben presenti e attivi: si potrebbe quasi dire che il genere ha bisogno dell’iconismo per esistere (ma anche la pittura ‘astratta’ è un genere) e che viceversa questo necessita del genere, delle sue regole e convenzioni, per esprimersi. Importanti riflessioni sul concetto fotografico di “veduta” sono state proposte anche da Rosalind Krauss, Gli spazi discorsivi della fotografia, cfr. supra Nota 838, pp. 37-40.
[869] Paoli 1989, p. 65.
[870] Paoli 1989, ricavato dalla sua tesi di laurea Aspetti della fotografia a Milano nell’Ottocento, Università Cattolica del Sacro Cuore, relatore Luciano Caramel, a.a. 1986-1987, da cui derivavano anche i contributi successivi: Paoli 1990a, Id. 1990b, poi ulteriormente sviluppati in Id. 2010.
[871] Si vedano Spocci 1989a e il successivo e ampio studio di Rosati 1990, che testimoniava ancora una volta il ruolo determinante del collezionismo privato nel recupero e nella valorizzazione del patrimonio fotografico locale (ma non per questo minore).
[872] Paolo Costantini, Qualche documento. In Guagnini et al. 1989, pp. 181-189 (181). Buona parte di quei ‘documenti’ erano però già stati pubblicati, con ben maggiore accuratezza in Botteri et al. 1984.
[873] Paolo Costantini, Qualche documento, citato alla nota precedente; tra i quali trovavano piuttosto incongruamente posto anche un ritratto di Marinetti, realizzato da Wanda Wulz nel 1932, un ritratto di Marion Wulz eseguito da George Tatge nello stesso 1989 e le copertine di alcune pubblicazioni recenti che ospitavano immagini della sorella maggiore.
[874] Si veda l’improbabile indicazione di “stampa all’albumina” riferita alle tre fotografie alle pp. 116-118, realizzate intorno al 1918-1920. Di ben altro livello, dipendente certo anche da una differente disponibilità di risorse economiche, il trattamento dell’apparato fotografico della monografia dedicata solo cinque anni prima al capostipite Giuseppe, e offerta dalla RAI ai delegati degli organismi aderenti alla XXXVI sessione del Prix Italia, dove la qualità delle riproduzioni derivava da fotoselezioni a cinque colori stampate su carta patinata da 170 grammi, conservando ove possibile le dimensioni dell’originale, cfr. Botteri et al. 1984, realizzazione che testimoniava come la storia della fotografia in quegli anni si avviasse ad essere un ‘prodotto’ sufficientemente qualificato, tale da attirare l’attenzione promozionale della più grande azienda culturale italiana.
[875] Tempesti, Dentro la fotografia, cfr. supra Nota 858, p. 76.
[876] Tale patrimonio non era peraltro a rischio di dispersione o degrado: “Il patrimonio dei Wulz, tuttora conservato e mantenuto in buone condizioni, è considerevole, e, nonostante la mia assidua e pluriennale presenza nello studio fotografico per eseguire la catalogazione di tutto il materiale (che comprende ben 113 anni di lavoro), coadiuvata sino a qualche tempo fa, dalle sorelle Wanda e Marion, la definitiva schedatura è ben lontana dall’essere ultimata. L’improvvisa scomparsa di Wanda [16 aprile 1984], infatti, ha interrotto questa operazione che però si vuole, comunque, continuare e portare a termine.”, scriveva Licia Zennaro, Testimonianze di un’epoca. In Botteri et al. 1984, pp. 133-139 (135). Un parziale ‘risarcimento’ è ora rappresentato dall’Alinari Image Museum AIM, aperto a Trieste nel 2016, con ampio ricorso a tecnologie digitali, fortemente voluto da Claudio de Polo Saibanti, triestino e Presidente di Alinari dal 1983.
[877] Elvio Guagnini, Trieste nella camera oscura. In Guagnini et al. 1989, pp. 11-55.
[878] Becchetti 1989a. La questione attribuzionistica, affrontata per la prima volta in Becchetti 1983a era poi stata sviluppata in Id., ‘La Scuola Romana di Fotografia’, Giacomo Caneva e il fondo ‘Tuminello’. In Cavazzi et. al. 1987, pp. 15-18. Ulteriori occasioni di approfondimento dell’attività di questo autore vennero offerte in Romano et al. 1994; Becchetti et al. 1997, ma già Silvio Negro (1964, p. 23) aveva ricordato, pur senza approfondire la questione, che “nel fondo Tuminello ci sono poi lastre di fotografi anteriori delle quali è impossibile una sicura identificazione.”
[879] Il riferimento era alla “escursione fotografica nel territorio di Napoli, dove riprese da par suo, stupende foto in calotipia di panorami sul mare sottolineati da barche di pescatori tirate a riva con il Vesuvio in lontananza e effettuò studiate inquadrature di rara bellezza delle rovine di Pompei.”, Becchetti 1989a, p. 21, peraltro non pubblicate e delle quali non si indicava neppure la sede di conservazione. Nessun riferimento a quelle riprese è compreso neppure nella scheda biografica firmata da Maria Francesca Bonetti in Aubenas et al. 2010, p. 220 o nel più recente titolo dedicato a Pompei, cfr. Miraglia et al. 2015.
[880] Si veda ad esempio la frase “godibile oltre misura il minuto racconto di barrozze, di stalle aperte negli umili caseggiati” (21) che è ripresa letterale ma non dichiarata da Negro 1944, p. 154. Nella monografia di Becchetti il nome del primo studioso ad aver segnalato Caneva compariva di sfuggita solo in una nota oltre che, necessariamente, in bibliografia.
[881] Becchetti 1989b. Molto interessante la documentazione qui pubblicata di una richiesta di brevetto inoltrata da Mang nel 1868, anche se definirla “riguardante la sostituzione del ‘supporto di cristallo per i positivi’ con una più maneggevole pellicola” (54) avrebbe potuto far nascere stupori ed entusiasmi non giustificati. Non si trattava in effetti di un procedimento che avrebbe potuto anticipare di almeno un ventennio una svolta epocale della tecnologia fotografica ma di una ingegnosa soluzione per preparare positivi stereoscopici da proiezione stampando a contatto lastra con lastra e provvedendo poi a staccare l’emulsione positiva.
[882] Per Alberto Prandi, È questo un mestier nuovo…. In Brugnoli et al. 1984, pp. 9-21, “i lavori della ‘Scuola romana di fotografia’ costituiscono una esperienza guida di risonanza internazionale, che non sfugge (…) agli artisti della colonia tedesca a Roma” (17). I nomi erano quelli di William Oswald Ufer, Michele Mang, Edmond Behles, Georg Sommer e August Alfred Noack, oggetto nello stesso anno di una monografia firmata da Giuseppe Marcenaro (1989a) che ne precisava alcuni dati biografici e chiariva l’influenza della formazione tedesca, tra Dresda e Deutschen Kunstvereins, sulla “artigianale professionalità” di questo autore, come ebbe a scrivere Italo Zannier, [Recensione] “Fotologia”, n. 12 (1990), primavera/ estate, p. 97.
[883] La biografia e l’attività fotografica di questo autore erano state presentate per la prima volta da Maria Francesca Bonetti, Francesco Saverio Nesci (1882- 1951). In Faeta et al. 1988, pp. 293-298.
[884] Citato in Miraglia 1989. Il saggio costituiva una ripresa di temi affrontati in Miraglia 1988e; anche le immagini a corredo costituivano una selezione di quanto pubblicato in quella sede (tavv. 125-159), ma in edizione in parte diversa, selezionando un diverso stereogramma della coppia stereoscopica originaria.
Pochi anni dopo la definizione di Gioppi il fenomeno amatoriale aveva raggiunto dimensioni tali da consentire un ulteriore, per quanto ironico raffinamento delle classi: ‘Questa grande famiglia – scriveva un redattore de “La Stampa”- come ogni altra dei tre regni della natura, si divide e suddivide in classi, generi, specie, gruppi ed individui (…)”, G[iulio] Ferrari, Esposizione Fotografica. La fotografia artistica, “La Stampa”, 34 (1900), n. 67, 8 marzo, p. 3.
[885] Borio et al. 1989. La parte di Archivio donata al Museo nazionale del Cinema nel settembre 1987 comprendeva oltre 13.000 fototipi tra negativi, stampe, diapositive e autocromie, 2450 dei quali attualmente consultabili online all’indirizzo http:// www.museocinema.it/collezioni/Pia.aspx [23 07 2013].
[886] Colombo 1989.
[887] Giuseppina Benassati, La catalogazione della fotografia, “IBC”, n.3/4 (1989), pp. 57-59, riedito in, Id., La catalogazione delle immagini fotografiche. Problemi di metodo e percorsi operativi, “AFT”, 5 (1989), n. 9, giugno, pp. 4-6, da leggersi in parallelo con l’intervento di Laura Gasparini, Archivi fotografici e indicizzazione delle immagini. Note e appunti, ivi, pp. 7-10.
[888] ICCD 1999. Come è noto la seconda parte del manuale non venne mai pubblicata.
[889] Tomassini 1989, p. 52.
[890] Occasione del convegno fu la presentazione di un progetto di schedatura informatizzata di una parte dei fondi di proprietà dell’ICCD, redatto dal consorzio IRIS nell’ambito dei cosiddetti “giacimenti culturali”, a cui si affiancava, senza integrarsi, un modello di scheda diagnostica degli stessi materiali messo a punto dallo stesso ente. I cosiddetti “giacimenti culturali” costituirono una discutibilissima e molto discussa iniziativa congiunta dei ministri del Lavoro Gianni De Michelis e dei Beni Culturali Antonino Gullotti, teoricamente destinata a promuovere la catalogazione informatizzata del patrimonio archeologico, archivistico, e storico artistico italiano, con uno stanziamento di 600 miliardi previsto dalla Legge 28 febbraio 1986, n. 41, art. 15 (Legge finanziaria) e una prospettiva occupazionale di 3.828 [sic] disoccupati, favorendo anche il processo di acquisizione di competenze informatiche da parte delle maggiori imprese italiane. Per un’analisi dettagliata del fenomeno si rimanda a: Centro di ricerche e studi sui problemi del lavoro dell’economia e dello sviluppo, I ” giacimenti culturali” tra innovazione e inefficienza. Roma: CLES, 1991. Nell’anno centocinquantenario dell’invenzione ufficiale della fotografia si ebbero in Italia numerose occasioni di dibattito sui temi della conservazione e della catalogazione quali il convegno milanese del 5 marzo 1989 su Conservazione e restauro delle fotografie. Iniziative in Europa; il più specifico seminario del 28-29 novembre organizzato a Roma dall’ING che presentava Il restauro delle fotografie Bonaventura; una sezione del già ampiamente citato convegno genovese; il seminario bolognese del 1 giugno sui Problemi di identificazione, conservazione, catalogazione della fotografia ed infine il convegno romano del 6 ottobre. Alcune delle questioni istituzionali erano invece state discusse in una occasione precedente, di cui si pubblicarono gli atti (Giorato 1989).
[891] Bertelli 1970 nel quale sottolineava inoltre che “un archivio fotografico è qualcosa di fondamentalmente diverso da qualunque altro tipo di archivio” poiché vive di un imprescindibile rapporto tra immagine e strumenti verbali di classificazione e commento cioè, più di altri, vive solo in virtù di un appropriato sistema di catalogazione, in assenza del quale l’immagine rimane sostanzialmente muta.
[892] Sauro Lusini, La fotografia dimenticata. Fotografie e beni culturali, “AFT”, 5 (1989), n. 10, dicembre, pp. 8-13.
[893] Carlo Bertelli, L’era dell’automobile dalla ricostruzione all’età post- industriale. In Bertelli et al. 1990, pp. 17-21.
[894] “Nous avons tenté de rendre justice à tous, aux formes pures de l’art comme à la spontanéité des vocations populaires: la photographie n’est que le produit fragile d’une boite noire plus ou moins orientée, plus ou moins stable, plus ou moins fiable; et c’est un individu plus ou moins habile qui manie le dispositif. À la limite, il nous importe plus de savoir ici pourquoi on photographie (bien ou mal) que de montrer comment on photographie bien. Cet ouvrage est donc une exploration d’un genre d’image tout à la fois considéré comme exotique malgré sa proximité, comme suspect de prélever une parcelle de l’être, comme porteur de mémoire, et qui produit encore des tensions, réveille des images mentales, provoque désir ou répulsion. (…) C’est dans ces entrecroisements présentés avec clarté que nous espérons avoir rendu justice à la fois à la séduction de chaque photographie et à la cohérence constante du médium.”, Avant- propos. In Frizot 1994, p. 5.
[895] “Faire l’histoire de la photographie aujourd’hui, c’est d’une certaine façon se comporter comme l’écrivain: rechercher des informations, recuellir des images, et écrire une manière d’aventure – la vie des photographies.”, Michel Frizot, Introduction. L’âge de la lumière. In Frizot 1994, pp. 9-13 (9).
[896] “L’objectif à atteindre, au-delà de la chronologie nécessaire des techniques et des usages, c’est d’abord l’histoire des fonctions – ce que l’on attendait de ces images -, l’histoire des faits optiques et des espaces traversés (et inventés) par la photographie; puis l’histoire du sens des photographies à chaque période de renouvellement des fonctions.”, Ivi, p. 13, corsivi dell’autore.
[897] Cito a puro titolo di esempio il passo in cui si affermava che “Nel 1833 (…) Daguerre continuò i suoi esperimenti con la camera oscura che gli era stata messa a punto dall’ottico parigino [non altrimenti indicato] presso la Société Française de Photographie.”, (De Seta 1999, pp. 344-345, corsivo dell’autore) che quindi – piuttosto singolarmente – risulterebbe essere esistita ben prima dell’invenzione della tecnica da cui prese nome.
[898] Nella prefazione alla sua Storia dell’arte Johann Joachim Winckelmann aveva dichiarato di voler parlare soltanto di quelle opere antiche che aveva potuto vedere e studiare direttamente: “Tutto ciò che ho citato come prova ho potuto vederlo personalmente e osservarlo molte volte, tanto i dipinti e le statue, quanto le gemme e le monete; per aiutare l’immaginazione del lettore, ho comunque citato insieme gemme e monete, incise direttamente, che ho ricavato dai libri.” Johann Joachim Winckelmann, Storia dell’arte dell’antichità [Geschichte der Kunst des Altertums, 1764], a cura di Fabio Cicero, con testo a fronte. Milano: Bompiani, 2003, p. 33. Il passaggio è citato parzialmente anche da Cicero nell’introduzione al volume, pp. v-xxii (viii).
[899] Guadagnini 2010; Id. 2012; Id. 2013a; Id. 2013b. In questa sintetica disamina va almeno segnalato il più interessante esperimento tra le pubblicazioni generaliste pubblicate in Italia: la Storia della fotografia che Diego Mormorio (già autore de Un’invenzione fatale, 1985) pubblicò nel 1996 tra i volumi dell’enciclopedia tascabile “Il Sapere” della Newton & Compton. Prodotto editorialmente singolare e massimamente divulgativo nei costi (costava allora millecinquecento lire, vale a dire poco più di un euro/2017) e nel formato, aveva un contenuto necessariamente sintetico ma accurato, che si preoccupava di seguire “gli sviluppi dell’invenzione vera e propria, per poi toccare alcune problematiche fondamentali”; “tralasciando ogni ragionamento sul cammino antropologico che portò alla nascita della fotografia” ma concedendosi il lusso di una Bibliografia e di una Cronologia così generosa da mescolare eventi di rilevanza assoluta con piccoli fatti di interesse locale o persino personale (“1985. Nasce Torino Fotografia”, di cui Mormorio era consulente).
[900] La cartolina, ad esempio, ma chissà perché non la stampa fotografica, era definita “oggetto statico, sguardo eternizzato su carta (…). Luogo immateriale, territorio virtuale di azione della retina.” (74, corsivo di chi scrive), con bella immagine tanto evocativa quanto generica poiché, crediamo, applicabile all’osservazione di qualsiasi raffigurazione, sempre che non ci si voglia ricordare che ogni oggetto, statico o dinamico che sia, appartiene inevitabilmente al territorio ‘reale’ di azione della retina.
[901] Si vedano, ancora, le affermazioni a proposito del fatto che “nello stesso 1839 William Henry Fox Talbot porta a soluzioni che rispondono poi alle esigenze di istantaneità, inalterabilità e riproducibilità” (54) o la notizia dell’improbabile presentazione delle “evoluzioni più recenti” del dagherrotipo e del calotipo (45) che sarebbe avvenuta all’Esposizione londinese del 1862, quando da circa un decennio si era ormai affermata la tecnica del collodio umido. Analoga incomprensione storico critica – ci pare – riguardava il confronto tra l’operato di Muybridge e di Marey, quest’ultimo presentato come responsabile della “semplificazione del procedimento” del primo (69), non cogliendo quindi le profonde differenze tra gli obiettivi e i metodi dei due autori.
[902] Magenta è uno dei tre colori sottrattivi primari, ma è altrettanto vero che la Magenta fu la prima nave italiana a compiere il giro del mondo, cfr. Enrico Hillyer Giglioli, Viaggio intorno al globo della R. pirocorvetta italiana Magenta negli anni 1865- 66- 67- 68; relazione descrittiva e scientifica; con una introduzione etnologica di Paolo Mantegazza. Milano: V. Maisner e Compagnia, 1875.
[903] “Melloni parla di Daguerre e Pontillo scrive una poesia”; “Delaroche interviene, ma Daguerre vince e Talbot s’arrabbia”. “Avedon e la Duse rincorrono D’Annunzio, che nell’ombra è a braccetto con Drtikol”.
[904] Si vedano i commenti al saggio introduttivo di Zannier 1993d, a proposito del quale Quintavalle affermava che “certo non si può chiedere a Zannier una dissertazione sulla tradizione idealista nelle sue varie forme, né sulle estetiche romantiche, ma una maggiore prudenza avrebbe forse giovato, limitando le periclitanti affermazioni sparse nel testo”; e ancora: “la applicazione di schemi antistorici appare troppo evidente, ma quello che più preoccupa è la scelta, per la fotografia, di un modello a priori che viene applicato alla storia dell’immagine per stabilire immagini da accettare e immagini da respingere.”, Quintavalle 2003, p. 548.
[905] Régis Durand, Quale storia (quali storie) della fotografia. In De Romanis 1994, pp. 65-75 (65). Muovendosi in modo non lineare tra Thomas Bernhard e Charles Baudelaire l’autore costruiva un percorso molto intrigante e ricco di suggestioni, rivolte specialmente a una storia della ricezione della fotografia (da parte degli intellettuali, prevalentemente), concentrandosi in particolare sulle concezioni negative, sui rifiuti, ma soffermandosi anche su quella che definiva “malinconia fotografica” (72), quando una stessa immagine è chiamata ad adempiere alla doppia funzione di presenza e assenza; “pletora e mancanza”, anche se – direi – per altri ciò è esattamente ciò che accade in ogni fotografia. Anche in contesto italiano il rapporto tra letteratura e fotografia ha goduto di un recente, ampio interesse: oltre al volume qui citato si vedano Marcenaro 2004, Rossetto 2004, Di Fazio 2005, Dolfi 2005 e 2007, Marzocchini 2005, Albertazzi et al. 2008, Ajello 2009, Ceserani 2011.
[906] “Seeing nature”, “Problems and advantages of instantaneity”, “Truths beyond Appearance”, “Self-asserted, Self-absent”.
[907] Identità e alterità: Figure del corpo 1895- 1995, catalogo della mostra (Venezia, sedi diverse,12 giugno – 15 ottobre 1995), a cura di Jean Clair. Venezia: La Biennale di Venezia – Marsilio, 1995. In quella stessa occasione venne allestita la mostra L’io e il suo doppio: cento anni di ritratto fotografico in Italia 1895- 1995, a cura di Italo Zannier (1995b), che sarebbe poi ancora ritornato sul tema (Id. 2003e), rispetto al quale si veda anche Danna Leonardo 2000.
[908] Secondo i dati forniti da Cosimo Chiarelli nel corso del convegno La cultura fotografica nell’Università italiana: situazioni, problemi e prospettive, che si tenne presso il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo nei giorni 6 e 7 giugno 2008, in quel periodo erano attivi nelle università italiane circa settanta corsi variamente dedicati alla Storia della fotografia, affidati prevalentemente per contratto. Dati aggiornati sono ora forniti da Cristiana Sorrentino, La didattica della fotografia nell’Università italiana. Confini e sconfinamenti disciplinari, “RSF”, 4 (2018), N° 7, pp. 116-129, online: DOI http://dx.doi.org/10.14601/RSF-23703 [18 09 2018].
[909] Tomassini 1985a, pp. 46-47; assunto interessante, sebbene fosse difficile credere che “la gioventù” genericamente intesa potesse, allora, accedere a quel genere di immagini.
[910] Come dichiarava l’editoriale del primo numero [1(1980), n. 1 marzo- maggio]: “Phototeca è un’operazione che ha lo scopo di capovolgere quel rapporto abnorme fra tempo di lettura e tempo di produzione delle immagini: il primo non deve più essere ritmato dal secondo, deve tornare ad essere una necessità di chi guarda e non dell’oggetto guardato. Phototeca è un’operazione che ha lo scopo di sgarbugliare i fili dei grandi generi dell’iconografia, isolarne i temi essenziali, individuare l’evoluzione delle forme che avvolgono i significati immutati. Phototeca contiene molte figure ma anche molte parole, testi e didascalie, cerca rapporti nuovi fra concetti ed immaginazioni. (…) Phototeca dedica ogni tre mesi un volume ad un grande tema dell’iconografia: al suo svolgimento storico con i mezzi della xilografia, della calcografia, della litografia e poi, naturalmente con maggiore ampiezza con il mezzo fotografico. Non propone sistemazioni definitive: non per l’archiviazione, non per l’analisi filologica, meno che mai per un giudizio estetico. Elenca ipotesi di ricerca, di catalogazione, di interpretazione. Raccoglie idee che meglio sarebbe chiamare spunti. Insomma, va alla ricerca del nuovo e di un bene perduto: la logica dell’immagine.”
[911] Becchetti 1983a; Costantini et al. 1985; Miraglia 1985e; Zannier, 1989c. L’esempio mostrava anche che il testo, redatto nel 1986 per il primo fascicolo di quella che allora si intitolava Storia infame della fotografia pornografica, non venne rivisto per l’edizione in volume. Una più recente ricostruzione di quella vicenda è stata offerta da Mormorio 2006b.
[912] Alla quale per altro non sfuggiva neppure Gilardi stesso: nella sua Storia infatti non prese mai in considerazione la produzione pornografica omosessuale.
[913] Tomassini 1985a. Come ricordava Gilardi (2002, p. 53) “A Luigi Tomassini (…) manifestammo allora, e oggi rinnoviamo, la nostra ammirazione. Tomassini, che è scienziato di storia, aveva scritto un saggio da par suo: erudito, coscienzioso, analitico e informato. Subito gli telefonammo, disposti a cedergli il passo per i prossimi fascicoli. Rispose con grande cortesia e generosità di non poter accettare l’offerta; però concedeva licenza di usare i suoi materiali, che lo citassimo o meno. Giunse a offrirci – ed è atto meraviglioso – una copia di altri suoi appunti che, per ragioni di spazio, nel saggio non aveva potuto inserire.”
[914] Secondo Emanuele Trevi quelle censure derivavano da “un motivo intrinseco allo stesso genere storiografico. Come tutte le storiografie, infatti, anche quella fotografica risente del conio umanistico. Non racconta, insomma, il passato tanto per raccontarlo, ma si prefigge sempre l’affermazione, attraverso il racconto storico, di qualche sorta di Valore: devoto, patriottico, stilistico.” Gilardi invece, “cambiando il perno dell’osservazione, contrapponendo saggiamente il fascino al valore, mette la pornografia al centro di quella Storia. (…) Qui, mi sembra, sta il punto più interessante del pensiero di Gilardi, e della sua storiografia del fascino: definire l’essenza del ‘pornografico’, alla fine, equivale a definire quella del ‘fotografico’ tout court: il suo cuore pulsante, le ragioni della sua esistenza sociale. Il suo destino estetico.”, Emanuele Trevi, Fotografia, mio desiderio, “Alias”, n.41 (2002), 19 ottobre, p. 17.
[915] “La fotografia d’architettura, se vogliamo per comodità accettare questa come un ‘genere’, riferendoci appunto al soggetto principale di cui si tratta nell’immagine” scriveva Zannier 1991, p. 42. Per ulteriori riflessioni sulle possibili definizioni di fotografia di architettura cfr. Cavanna, Architetture dello sguardo. In Cresti 2004, pp. 11-18; Fanelli 2009c.
[916] Di diversa opinione Giovanni Fanelli, per il quale Zannier aveva tracciato “con finezza critica i passaggi fondamentali della storia della fotografia di architettura dedicando attenzione particolare al passaggio epocale dalla fotografia dei primi fotografi professionisti (…), in cui l’architettura è ‘messa in posa’, la fotografia dell’architettura vista in ‘istantanea’, e alla serie di fotografie di una stessa architettura”, Fanelli 1998b, p. 5. Lo studioso avrebbe a sua volta pubblicato un’importante Storia della fotografia di architettura (Fanelli 2009c), discussa al paragrafo Storia dell’architettura e fotografia (pp. 347-352).
[917] Schwarz 1993, Karakoram 1995, Brower et al. 1999, Caucaso Georgiano 2000, Golin et al. 2002.
[918] Miraglia et al. 1979a nel cui catalogo, che pure ricordava i nomi di Besso e Sella, la sola veduta alpina era pubblicata in formato minimale in relazione alla scheda biografica intestata a quest’ultimo (p. 177, a firma di Michele Falzone del Barbarò). Il tema godette di maggiore considerazione in occasione della grande mostra torinese dedicata alla Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna 1773- 1861, non tanto nella specifica sezione fotografica (cfr. Miraglia 1980), che ospitava solo una ripresa di Besso (n.1161) e una di Vialardi (n. 1162), quanto in quella relativa all’Immagine del territorio, nella quale accanto alle riprese del Monviso realizzate da Vialardi erano esposte le stampe dell’album Souvenir de la Haute- Savoie/ Le Mont Blanc et ses Glaciers, dei Fratelli Bisson. Un primo tentativo di individuare nessi e ragioni delle prime riprese italiane di montagna venne compiuto da Miraglia (1981, p. 475) considerando congiuntamente il gruppo di fotografi biellesi appartenenti o vicini alla famiglia Sella; cfr supra Nota 792.
[919] Fondamentale in tal senso il ruolo svolto a Trento da Floriano Menapace come presidente del Circolo Foto-Cine Amatori Trentini e come funzionario responsabile dell’Archivio fotografico della Provincia autonoma di Trento e, a Torino, dal Museo nazionale della Montagna sotto la direzione di Aldo Audisio. Per una ricostruzione delle vicende e dei progetti museologici che portarono alla nascita dei “Cahier” del Museo si veda ora Aldo Audisio, Veronica Lisino, a cura di, Collezionisti di montagne: Museo Nazionale della Montagna a Torino dal 1874. Scarmagno, TO: Priuli & Verlucca, 2014.
[920] Silvana Rivoir, “Un fotografo alpinista”. In Rivoir 1992, pp. 11-26.
[921] Da qui, forse, la scarsa attenzione per gli aspetti materiali e tecnologici delle fotografie, risolti con una serie quasi imbarazzante di definizioni quali ad esempio “stampa dell’autore”, “stampa d’epoca virata in seppia”, per le albumine, o “stampa con cliché” per le fotomeccaniche. Una povertà di contenuti e di trattamento ben lontana dalla qualità delle schede redatte dalla stessa Rivoir per Fontana 1982.
[922] Garimoldi 1995. p. 6. Anche Angelo Schwarz, Un autore, un libro e due storie parallele, ivi, pp. 243-248, ricordava come il tema fosse stato in larga parte dimenticato dalle più note e autorevoli storie della fotografia, riconoscendo a quello studio il merito di offrire al lettore “non pochi esempi di criteri attraverso i quali valutare questa e quella fotografia, per l’appunto, di montagna e di alta montagna.” Ammesso che quello potesse rientrare tra gli scopi dell’autore, non risultava però chiaro rispetto a quali parametri o contesti questa valutazione potesse poi essere fatta. Più utile risultava una riflessione formulata in quella stessa sede a proposito della natura testimoniale della fotografia, condotta riferendosi alle note formulazioni di Jacques Le Goff: “Quell’oggetto bidimensionale che è un’immagine fotografica – scriveva Schwarz – non è né un documento né un monumento, piuttosto, citando il sociologo Escarpit, un semi-documento, cioè un ‘documento che mantiene la diacronia dell’evento che stabilizza nel tempo’ [Robert Escarpit, Teoria dell’informazione e della comunicazione. Roma: Editori Riuniti, 1979, p. 248]. L’immagine fotografica incomincia a diventare un documento quando è sottoposta, filtrata da una descrizione” (247). Una definizione che quindi teneva conto della distinzione tra piano ontologico e piano storico, attivato dall’entrata in gioco dello storico, escludendo o almeno minimizzando, si direbbe, la natura indicale della fotografia ed il ruolo stesso dell’autore. Una concezione non troppo dissimile da quella espressa da Franco Cardini (cfr. supra Nota 545) che sembrava ridursi a una semplificazione eccessiva della concezione dinamica delle fonti o della stessa distinzione tra fonte e documento.
[923] Sintetiche descrizioni archivistiche dei materiali raccolti e prodotti nell’ambito di queste associazioni vennero rese disponibili in Reteuna 1990c, Giusa 1995, Bergamini et al. 2000, Menapace 2002b, mentre numerosi esempi erano forniti da alcuni titoli della collana “Cahiers” del Museo nazionale della Montagna di Torino. Il volume avrebbe poi avuto una seconda edizione, presentata esplicitamente come “Storia” (Garimoldi 2007), che costituiva un buon aggiornamento e una profonda riscrittura dell’opera precedente, mantenendo però un’accezione circoscritta al solo fenomeno dell’alpinismo. Anche il nuovo saggio si segnalava per l’ampiezza delle informazioni fornite e per la competenza specialistica dell’autore, ma l’esito storiografico appariva penalizzato da almeno due elementi: una articolazione dei temi per molti aspetti artificiosa, poco adatta a comprendere lo svolgersi delle vicende narrate, e soprattutto un insufficiente aggiornamento rispetto a quel recente “vivace risveglio di attenzione [che] ha prodotto studi e ricerche” che lo studioso richiamava in apertura ma che doveva essere inteso più come una petizione di principio che una dichiarazione di metodo, come dimostrava – già nell’Introduzione – il vero e proprio incidente di percorso costituito dalla citazione del “caso tipico dell’albergatore Doyle”, attivo a Darjeeling e già ricordato da Paolo Mantegazza nel 1881 come “fotografo tra i più abili dell’India”, del quale – affermava Garimoldi – non sono note immagini, dimostrando così di non conoscere neppure il bellissimo album miscellaneo conservato presso la British Library e citato nel Biographical Dictionary of 19th Century Photographers in South and South-East Asia redatto da John Falconer, conservatore della sezione fotografica della India Office Collection della stessa biblioteca, ma anche il riferimento canonico a Ruskin quale pioniere della fotografia di montagna, dimenticando gli antecedenti costituiti da Choiselat e Ratel e da alcune tavole delle Excursions Daguerriennes. Altri aspetti ancora avrebbe meritato maggiore attenzione; mi riferisco all’assenza di un indice dei nomi, sostituito da un Repertorio biografico che comprendeva e mescolava nomi di fotografi, alpinisti e studiosi di vario genere, ampiamente lacunoso, come del resto la bibliografia inserita tra gli apparati a integrazione delle fonti indicate nel testo e, non per ultimo, la sistematica assenza di indicazioni tecniche delle immagini pubblicate.
[924] G. Garimoldi, Fotografi alpinisti. Alpinisti fotografi, “Il Diaframma – Fotografia Italiana”, 1976, n.217, agosto, pp. 34-41.
[925] Enrico Camanni, L’avventura fotografica alpina. In Rivoir 1992, pp. 27-34.
[926] Ricordiamo tra gli altri la monografia di Floriano Menapace (1998) dedicata a Giuseppe Garbari, le cui lastre superstiti erano state acquisite dall’Archivio fotografico della Provincia Autonoma di Trento nel 1994. Il volume, costruito secondo i canoni consueti della ricostruzione biografica, senza alcun tentativo di lettura storico critica delle immagini considerate, si rivelava però interessante dal punto di vista metodologico generale per il suo volersi proporre quale repertorio di tutto il patrimonio disponibile e costituiva inoltre una testimonianza dell’interesse costante che l’ente locale aveva per la fotografia, concretizzatosi nella costituzione di un Centro Catalogazione – Archivio Fotografico Storico, che derivava dal precedente archivio della Soprintendenza ai Monumenti e alle Gallerie di Trento, passato alla Provincia autonoma al momento della sua costituzione nel 1973, e che negli anni successivi venne arricchito con nuove acquisizioni, delle quali diede una prima volta conto il catalogo opportunamente intitolato La fotografia come bene culturale (Menapace 1996). Già in quell’occasione erano state presentate alcune fotografie di Garbari e di altri autori legati alla Società degli Alpinisti Trentini (SAT) oltre che dei Fratelli Pedrotti, a cui l’Archivio e lo stesso Menapace avrebbero intitolato un ampio studio monografico (Schwarz 2001) con interventi di autori diversi, che consideravano anche il ruolo del canto corale nella definizione di quella cultura della montagna di cui i Pedrotti erano parte non secondaria. In quella sede il contributo di Menapace, La fotografia oltre il mestiere, ivi, pp. 49-61, fornì una accurata ricostruzione di tutta l’attività fotografica dello studio, a partire dalla formazione tardopittorialista di Enrico e dalle sue, altrettanto tarde, collaborazioni con Fortunato Depero; quelle stesse che portarono Giovanni Lista a comprendere forse troppo sbrigativamente nell’alveo futurista alcune esperienze del fotografo trentino, cfr. Lista 2001a, pp. 201, 247, 271; Id. 2009. Quella attenzione delle istituzioni trentine era stata certo stimolata dalle iniziative che da decenni facevano di Trento un punto di riferimento delle manifestazioni legate alla fotografia alpina; ricordo che il Circolo Foto-Cine Amatori Trentini aveva dedicato due mostre a Enrico Unterveger (1980) e ai Fratelli Pedrotti (Floris et al. 1981) mentre già dal 1955 la Biennale internazionale fotografica della montagna, organizzata dal CAI di Trento e dalla SAT, aveva provveduto a valorizzare la produzione contemporanea.
[927] Audisio et al. 2003, che era il primo titolo di una nuova serie, progettata da chi scrive, che costituiva l’evoluzione di una precedente iniziativa che aveva già prodotto l’edizione italiana di due volumi intitolati rispettivamente a Gli archivi della Royal Geographycal Society: un secolo di esplorazioni e di fotografia. Novara: De Agostini, 2000, e di Pam Roberts, Gli archivi della Royal Photographic Society: uno straordinario documento sulla storia della fotografia. Novara: De Agostini, 2000, oltre alla pubblicazione di Mancini 2002. Dopo il volume sul Museo della Montagna venne pubblicato nella nuova serie solo Colombo 2004, mentre non andarono in porto i progetti relativi ai fondi fotografici dell’ICCD e del Museo Egizio di Torino. Il ricco patrimonio fotografico del Museo della Montagna, che a quella data consisteva di circa 140.000 fototipi, più analiticamente studiati nel corso degli anni attraverso le mostre e i cataloghi pubblicati nella collana dei “Cahier”, venne poi presentato nel secondo volume della collana relativa alle “Raccolte di documentazione del Museo Nazionale della Montagna” (Audisio et al. 2009). La selezione venne condotta intrecciando criteri di rilevanza documentale e interesse specificamente fotografico lungo un arco cronologico che dalle origini giungeva sino ai primi anni del XXI secolo, senza per questo ambire ad avere le caratteristiche di sistematicità di una vera e propria storia, ma consentendo di seguire con ricchezza di rimandi e di riferimenti lo svolgersi ramificato delle vicende legate alla rappresentazione fotografica della montagna, certo una delle manifestazioni più significative della modernità nata dalla seconda rivoluzione industriale; da studiare ponendo in essere un’archeologia e quasi una (psico) analisi dello sguardo che potessero rendere ragione del nostro modo di porci nel tempo di fronte alla spettacolarizzazione della natura. Una lettura delle fotografie come prodotto e indizio delle culture che le hanno espresse non meno che di quella di chi si prova a leggerle e interpretarle.
[928] Su questi temi si veda anche Cavanna 2004b.
[929] Ventidue stampe fotografiche, databili dal 1853 al 1868, che formarono il nucleo iniziale della collezione museale dedicata specificamente alla fotografia delle origini, erano già state oggetto di una mostra (Cavanna 2004a).
[930] Eugenio Turri, Il paesaggio degli uomini: la natura, la cultura, la storia. Bologna: Zanichelli, 2003, p. 23.
[931] Immagini che “fissano il momento in cui la natura entra – per dirla con le parole di Walter Benjamin – nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, per riportare la bella definizione di Giovanni Gozzini, Svelare i nomi, disegnare i confini. In Dall’Olio 2009, pp. 15-16.
[932] Facevano da necessario complemento a questa articolata lettura le riproduzioni a colori di buona qualità delle fotografie esposte, compresi i supporti secondari, e un accurato repertorio di schede catalografiche con note di contenuto che suggerivano e consentivano ulteriori percorsi di lettura e di approfondimento. La cura editoriale nella pubblicazione di fotografie di montagna, comprensiva quindi di indicazioni sulla loro natura materiale di oggetti (tecnica, viraggi, misure) si stava progressivamente affermando, come mostrava anche il catalogo della mostra modenese relativa alla collezione Fineschi (Dall’Olio 2009) con Vittorio Sella protagonista indiscusso. Più incerto nel metodo e nel merito un contributo degli stessi anni di Stefano Viaggio (2009) segnato da imprecisioni e gravi lacune conoscitive che neppure il riferimento esclusivo (ma implicito) alla propria collezione poteva giustificare. Il testo apriva con la discutibile affermazione che “dalle prime fotografie eseguite in alta montagna a quelle dei nostri tempi, lo stile non cambia”, per interrogarsi poi sulla specificità del genere ovvero sulla sua possibile assimilazione alla fotografia di paesaggio, senza per altro tentare almeno una risposta. Una sintesi antologica di autori, prevalentemente italiani, che si sono misurati con la rappresentazione del contesto alpino è stata fornita da Andorno 2014.
[933] B. Weber, Dal chiaroscuro al Photochrom: lo sfoggio di colori nelle arti grafiche. In Lisino 2012, pp. 9-24, con 24 schede relative alle diverse tecniche di stampa a colori.
[934] V. Lisino, Colore perfetto: un giorno qualunque. In Lisino 2012, pp. 27-51; alla stessa si dovevano anche la Cronologia e le accurate schede catalografiche di tutta le stampe in collezione, comprese quelle non esposte ma qui riprodotte in forma di utile repertorio. Quale efficace dimostrazione della necessità, filologica e culturale, di considerare le “opere nella loro attualità”, il nucleo centrale del saggio si misurava con l’indispensabile ricostruzione delle tecniche adottate e delle loro varianti, non sempre chiaramente esplicitate dai detentori dei brevetti; delle scelte industriali (formati, quantità, soggetti) e delle strategie commerciali adottate dai maggiori produttori, giungendo all’individuazione di alcuni fotografi fornitori, sino ad allora ignoti come aveva già lamentato Giovanni Fanelli (2005a) che era stato il primo in Italia a ricostruire sommariamente le vicende del marchio Photochrom e del loro procedimento fotocromolitografico, riconoscendone anche la funzione di tramite commerciale e di gusto con la successiva produzione di cartoline postali.
[935] Per provarsi a dipanare la “aggrovigliata matassa” del tema Grand Tour, a cui vennero dedicate più di duecento opere a stampa nel decennio 2004-2015, non si può che rimandare a Cesare de Seta, L’Italia nello specchio del Grand Tour. Milano: Rizzoli, 2014, che riprendeva già nel titolo il contributo pubblicato in Id., a cura di, Il paesaggio, “Storia d’Italia”, “Annali”, 5, Torino: Einaudi, 1982, pp. 125-263, successivamente sviluppato in Id. L’ Italia del Grand Tour: da Montaigne a Goethe. Napoli: Electa, 1992 ed edizioni successive sino al 2001. In molte produzioni, specie in quelle concernenti la fotografia storica, oltre a registrare un’evidente coazione a ripetere si assisteva all’applicazione di quella etichetta a un fenomeno e ad una stagione che furono semmai quelli dell’avvio del turismo borghese. Se a ciò aggiungiamo la sostanziale omogeneità delle immagini presentate e l’occasionalità dei testi a corredo, privi di aperture verso nuove prospettive di studio (orientalismo, postcolonialismo, etc.) non possiamo far altro che considerare quei volumi, nella più parte cataloghi, come esiti di una facile politica espositiva disinteressata a considerare la mostra come occasione di ricerca e di studio. Cito a puro titolo di esempio Margiotta et al. 2004 , con fotografie provenienti dai fondi dell’Archivio Fotografico Comunale di Roma e dalla Collezione Antonio Brescacin della Fondazione Italiana per la Fotografia (già pubblicate in Brescacin et al. 1996; Bergaglio 2003) e Maggi 2008, che costituiva una evidente gemmazione ‘istituzionale’ di Favrod et al. 2006, riadattata aggiungendo frettolosamente una sezione di fotografie di soggetto valdostano, prevalentemente con datazioni errate (Ecclesia, 1890 ca invece di 1882) anche per quanto riguardava le stesse campagne Alinari (1895 ca invece di 1898), oltre a disegni, stampe e incisioni delle collezioni d’arte della Regione Autonoma Valle d’Aosta.
[936] Si veda anche il suo contributo coevo pubblicato nel n. 12 di “Visual Resources” (Pelizzari 1996a). Nonostante le intenzioni dichiarate nel titolo, non può essere compreso nel novero delle produzioni di un qualche interesse il volume dedicato a “storia, attualità, costume, legislazione, giurisprudenza” in tema di fotografia di cui Arciero 1999 offriva un sintetico regesto, con ampi stralci, a partire da alcune leggi preunitarie, corredandole però di una ricostruzione storica inaccettabilmente generica: una Piccola storia della repressione del pensiero fotografico, da Solferino al Minculpop, risolta in sole quattro pagine (33-37).
[937] Costantini 1991, p. 62.
[938] Si confronti il passo appena citato con quanto scriveva la Krauss “a proposito della necessità di abbandonare, o almeno di sottoporre a seria critica, categorie derivate dall’estetica come quelle di autore, opera e genere”; Rosalind Krauss, Gli spazi discorsivi della fotografia, cfr. supra Nota 838, p. 48, corsivi dell’autrice.
[939] Costantini 1991, pp. 62-64, corsivi dell’autore.
[940] Bonetti et al. 2003. Tra i pochi studi antecedenti sul tema si segnalano Costantini 1991; Jacob 1992; Marcenaro 1996 che costituiva la traduzione italiana del saggio pubblicato in Photographie, ethnographie, histoire, “Le monde alpin et rhodanien”, 23 (1995), n.2-4, pp. 161-174.
[941] Penso al ritrovamento del bellissimo dagherrotipo di Giroux e Daguerre, donato alla Biblioteca di Imola da Anna Fanti nel 1843 insieme a una importante serie di testi a corredo, scoperto solo in occasione delle ricerche condotte in preparazione della mostra, a testimonianza indiretta – tra le altre cose – dei tesori ancora nascosti in archivi e biblioteche italiane e della scarsa o nulla attenzione loro dedicata per troppo tempo da queste istituzioni, cfr. Laura Gasparini, Il Ducato di Modena e Reggio Emilia e le Legazioni Pontificie. In Bonetti et al. 2003, pp. 216-223, in particolare la scheda relativa alle pp. 221-222.
Forse da attribuire ai condizionamenti operativi della ricerca l’assenza di qualsivoglia riferimento alla serie di ritratti borbonici conservati presso la Reggia di Caserta nel breve testo di Giovanni Fiorentino, Napoli e il Regno delle Due Sicilie. In Bonetti et al. 2003, pp. 252-255, a meno che il silenzio non corrispondesse a una serie di riserve intorno a questo nucleo di immagini, a suo tempo studiate da Ugo di Pace e Carlo di Somma del Colle (Di Pace et al. 1983), che le schede di catalogo redatte nel 1990 da C. Amoroso e poi trascritte su modello ministeriale (scheda F: NCT 15 00089202 e successivi) certo non aiutano a comprendere dal punto di vista tecnologico e linguistico datosi che al campo MTC – Materia e tecnica riportano “carta/ fototipia” , mentre in NSC – Notizie storico- critiche si afferma che “La fotografia è un dagherrotipo”, cfr. http:// www.catalogo.beniculturali.it/ sigecSSU_FE/ ricercaFaccetteGeneriche.action?sbiancaBreadCrumbs=yes&nomeBread=Beni%20Culturali&nomeAutore=Francesco%20Borgia%20Di%20Varona [04 09 2018].
[942] M. Maffioli, L. Tomassini, Il dagherrotipo nell’Italia del 1839. In Bonetti et al. 2003, pp. 15-30 (15). Il saggio procedeva quindi a ricostruire i tempi e i modi della ricezione italiana della nuova tecnologia correlandoli all’arretratezza della nazione preunitaria in ambito scientifico e specialmente industriale, sebbene poi nel nostro paese l’introduzione fosse stata “mediata dal mondo della scienza e, accanto ad essa, dal mondo dell’informazione e del giornalismo, che in forme spesso indirette e implicite, collegava la nuova invenzione piuttosto alla sfera della politica che non a quella dell’estetica” (19), diversamente da quanto era avvenuto in Francia.
[943] Costantini 1991.
[944] M. F. Bonetti, D’après le Daguerréotype… L’immagine dell’Italia tra incisione e fotografia. In Bonetti et al. 2003, pp. 31-40; si veda anche Bonetti 2014 in cui sono state discusse alcune importanti questioni filologiche e iconografiche in merito alle prime traduzioni calcografiche di vedute dagherrotipiche.
[945] Anche negli USA l’attenzione degli storici fu piuttosto tarda, cfr. William C. Darrah, Stereographs: a neglected source of History of Photography. In Frank Van Deren Coke, ed., One hundred years of photographic history. Essays in honor of Beaumont Newhall. Albuquerque, NM: University of New Mexico Press, 1975, pp. 44-46.
[946] Borghini et al. 1996. Al primo nucleo di 275 fototipi si aggiunse nel 1997 una più consistente acquisizione che portò il totale a 1154, tra cui erano comprese serie realizzate in proprio e altre prodotte da studi francesi.
[947] Per quanto riguarda le ricche collezioni della Biblioteca Vallicelliana si rimanda a Manodori et al. 1992; Id. 1994b; Del Corpo et al. 1996; a cui accostare Manodori Sagredo 2003b per le collezioni della Biblioteca Marciana di Venezia. Per la produzione stereoscopica di singoli autori si vedano Borghini et al. 1996; Fanelli 1999a; Maffioli 1999; Eugeni 2001; Bajamonte et al. 2006. La rappresentazione di specifici luoghi o regioni è stata studiata da Fanelli 2001; Manodori Sagredo 2003b; Zotti Minici 2003; Becchetti et al. 2004c; Pavia 2005. L’attenzione culturologica in ambito italiano per questo tema è testimoniata da Giovanni Fiorentino, a cura di, Il mondo fatto immagine: origini fotografiche del virtuale. Oliver Wendell Holmes. Genova: Costa & Nolan, 1995.
[948] Maffioli 1999, da integrare con quanto pubblicato in Fanelli 2001, pp. 11-16. In assenza di studi approfonditi relativi alla produzione Brogi, anche in conseguenza della loro acquisizione da parte di Alinari, l’intervento di Maffioli 1999 costituiva uno dei contributi di maggior rilievo, provandosi almeno a definirne le diverse caratteristiche di ripresa, che mostravano “un maggior interesse alla panoramica d’insieme, allo spazio urbano nel quale è inserita l’architettura, animando le scene di quel tessuto sociale e folclorico che, soprattutto negli ultimi decenni del [XIX] secolo, caratterizzerà il nuovo gusto della veduta.” (42). Sullo Studio Brogi cfr. infra Nota 961.
[949] Becchetti et al. 2004c, che aveva già fatto ampio ricorso a riprese stereoscopiche, pubblicate però come immagine singola, in Becchetti 1983a.
[950] Bajamonte et al. 2006.
[951] L’iniziativa espositiva costituì l’occasione per sistematizzare le conoscenze relative al periodo torinese e a quello romano di Le Lieure, ad opera rispettivamente di Marina Miraglia (1996b) e di Piero Becchetti (1996b). Non può essere qui proposta altro che come una suggestione, ma a motivare ulteriormente la scelta fotografica di un giovane esponente della piccola nobiltà di provincia francese, dotato di risorse economiche tali da aprire a Torino un lussuoso studio già ad inizio carriera, giova forse ricordare che tra le relazioni familiari dei Le Lieure de L’Aubepin vi era anche Maria Carolina di Borbone Sicilia, per il tramite del conte di Coislin, che fu ospite proprio nel loro castello di Charlière, presso Nantes (cfr. Auguste Julien Marie Lorieux, Précis historique des événemens de l’année 1832, Paris: Dumont, 1833, pp. 33-34). Sulla sua importante collezione di calotipie si veda il catalogo d’asta Promenade méditerranéenne: Collection photographique de la duchesse de Berry – les années 1850, vente aux enchères le 30 mai 2007, à Drouot-Montaigne, Paris.
[952] Fanelli 1999a, Id. 1999c, Id. 2011 e ancora Fanelli et al. 2013, in particolare alle pp. 16-19.
[953] Helmut Gernsheim, Presentazione. In Miraglia et al. 1979a, pp. 1-2, citato da Fanelli 2001a, p. 5.
[954] Fanelli 2001a, p. 5.
[955] Considerando che “alla stereoscopia (…) è stata sempre riservata una nicchia marginale nei vari testi di storia della fotografia che l’hanno considerata (…) poco più che una curiosità ottica di larga diffusione”, analoghe preoccupazioni e intenzioni didascaliche si ritrovavano nel saggio di Sandro Coppa, Ambizioni e limiti della fotografia stereoscopica, “AFT”, 15 (1999) n. 30, dicembre [maggio 2001]), pp. 3-9, un fascicolo sostanzialmente monotematico. Tra le poche monografie dedicate a fotografi editori di stereoscopie attivi anche in Italia ricordiamo quella sul viaggio italiano di Frantisek Krátký (Bletzo et al. 2010), mentre numerosi esempi di immagini stereoscopiche comparvero in volumi dedicati alla storia iconografica di alcune città, compresa Roma (Becchetti et al. 2004c).
[956] Già Mazza 1999, p. 43 aveva rilevato il “cambiamento particolarmente significativo nel modo di affrontare la rappresentazione dello spazio urbano ed architettonico [che] avviene verso la fine degli anni ottanta [del XIX secolo] a seguito del progresso tecnico che consentiva di realizzare immagini istantanee”, segnalando come questo rilevante fenomeno fosse stato anticipato di almeno un ventennio dalle riprese stereoscopiche.
[957] Fanelli 1999c (ma 2001), pp. 16-17, che riprendeva ampiamente il testo elaborato per Fanelli 2001, volume edito in occasione della mostra Luoghi toscani in stereoscopia, curata dallo stesso con Barbara Mazza, che si tenne a Prato nel maggio – luglio dello stesso anno.
[958] Si vedano i contributi di Giovanni Fanelli dedicati alle fotografie stereoscopiche di Antonio Hautmann, con impeccabili e innovative schede in cui di ciascuna immagine veniva analizzata la relazione col proprio referente: storia e fortuna iconografica, punto di ripresa e angolo di campo, elementi compositivi dell’inquadratura e verifica degli elementi rappresentati, intesa questa come operazione metodologicamente orientata tanto alla storia di quelle architetture e dei luoghi quanto alla storia di produzione di quella specifica immagine, essendo quelli termini certi e verificabili di datazione. Cfr. Fanelli 1998a (ma 2000), che costituiva una parziale rielaborazione di Fanelli 1999a. Un altro importante nucleo di fotografie non stereoscopiche dello scultore toscano venne pubblicato in Fanelli 1999b ma sorprendentemente, data l’elevata qualità delle immagini, non compreso in Fanelli 2005b.
[959] Per quanto riguardava Firenze, estendendo l’indagine oltre il consueto monopolio alinariano, Fanelli presentava le opere di Alphonse Bernoud e di Anton Hautmann, due autori da lui studiati in specifici contributi monografici; per Hautmann cfr. nota precedente; per Bernoud: Fanelli 2012; Fanelli et al. 2012, ma molti degli autori qui considerati avrebbero intercettato nel tempo l’attenzione dello studioso, da Van Lint (Fanelli 2004) a Sommer (Id. 2007a), agli amatori lucchesi (Fanelli et al. 2003).
[960] Maffioli 1999.
[961] All’attività dello Studio Brogi era stato riservato il numero quasi monografico di “AFT”, 10 (1994), n. 20, dicembre [giugno 1995], con interventi relativi alla storia dell’atelier (Silvestri 1994) e alle eccezionali caratteristiche tecniche delle loro più preziose riproduzioni d’arte (Berselli 1994), mentre Sauro Lusini illustrava la figura di Carlo, “instancabile organizzatore e impegnato uomo politico, oltre che fotografo”, collocandola in “quella fase della storia della fotografia quando la seconda generazione succede nella conduzione delle aziende, con i figli che prendono il posto dei padri e dei fondatori” (Lusini 1994, p. 34) negli anni in cui la disponibilità delle nuove emulsioni alla gelatina apriva all’industrializzazione del settore.
[962] Tomassini 1992, p. 53. Alcuni contributi di ricerca in tal senso vennero ospitati in Zannier 1993d: si vedano in particolare Maria Beltramini, Periodici fotografici a Milano tra Ottocento e Novecento, ivi, pp. 163-178; Nicola Leone, Guglielmo Weintraub, ivi, pp. 215-218; Dario Reteuna, Letteratura fotografica e società in Piemonte (1850- 1910), ivi, pp. 179-196. Risultava invece difficile comprendere in questa prospettiva metodologica il volume di Zannier (1993b) costituito da una breve cronistoria, preceduta da generiche divagazioni sulla fotografia come “arte pura” (17), nella quale era assente ogni pur minimo riferimento all’argomento del volume, cioè al ruolo svolto dalle riviste nel formarsi della cultura fotografica in Italia. I successivi paragrafi dedicati alle principali testate ne registravano i dati di pubblicazione e accennavano ai principali temi trattati su quelle pagine, offrendo così alcuni indizi orientativi sul significato della loro presenza nel panorama italiano, certo non arricchiti dalla pur corposa antologia di testi che dava sostanza al volume, organizzati per aree tematiche (Arte e cultura; Scienza e tecnica; Avvenimenti e curiosità) non di rado però tratti da pubblicazioni (“Il Brenta”, 1851; “Emporium”, 1895; “Domus”, 1932 ecc.) poi non comprese nel repertorio finale, costituito da schede non di rado incomplete, che sembravano essere tratte da numeri sparsi più che dallo spoglio sistematico delle annate, e con qualche clamorosa lacuna: penso a “Fotografia”, l’organo del Circolo Fotografico Milanese pubblicato dal 1932 dall’Editoriale Domus, che nel suo primo numero ospitò l’importante testo di Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, di cui si citava invece la sola serie successiva del 1948.
[963] Mariantonietta Picone Petrusa, Introduzione. In Puorto 1996, pp. 11-17. In anni recentissimi si segnala un rinnovato e sistematico interesse per il ruolo culturale svolto dai periodici: si veda il paragrafo Storia dell’arte, editoria, fotografia (pp.343-344) .
[964] Puorto 1996.
[965] Lello Mazzacane, Come una lettera aperta. In Puorto 1996, pp. 5-9, cfr. Puorto 1990.
[966] Caputo Calloud 1992.
[967] Tomassini 1985b; Panerai 1991.
[968] Tomassini 1992, p. 52.
[969] Da quelle premesse nacque il progetto, promosso da “AFT”, condotto in collaborazione con la Biblioteca Centrale di Firenze e finanziato dal CNR, relativo alle Riviste italiane di fotografia (1839- 1914), che prevedeva di costituire una banca dati ricavata dallo spoglio di tutti gli articoli pubblicati in quell’arco di tempo, corredata dalle corrispondenti riproduzioni in digitale, i cui primi e già ampi risultati vennero presentati e distribuiti su floppy disk in occasione del convegno di Prato del 1992. A quella data la schedatura comprendeva il “Bullettino della SFI” per le annate1889-1910; le annate 1894-1895, incomplete, de “La Camera Oscura” e l’annata 1892 della “Rivista Scientifico Artistica di Fotografia”. Per quanto è dato sapere il progetto non ebbe purtroppo ulteriori sviluppi, così come altri analoghi avviati in quegli anni, quali la riedizione su supporto digitale della “Rivista fotografica Universale” di Antonio Montagna (1870-1882), avviato nell’ambito del Corso di Storia e tecnica della fotografia (tenuto da chi scrive) della Facoltà di Beni Culturali dell’Università di Lecce, e ben presto interrotto per mancanza di finanziamenti. La diffusione e il raffinamento delle applicazioni digitali ha aperto però altre, allora quasi imprevedibili possibilità, e sono ormai numerosissimi i progetti di pubblicazione digitale di periodici storici offerti dalle emeroteche digitali, tra i quali si segnalano L’Emeroteca Digitale della Biblioteca Nazionale Braidense, sebbene ad oggi, per quanto ci riguarda, contenga solo gli indici della “Rivista Scientifico-Artistica di Fotografia” [03 06 2017].
[970] Penso in particolare ai già ricordati progetti di tesi sviluppati presso l’Università di Napoli sotto la guida di Mariantonietta Picone Petrusa, quali la tesi di V. Patanè, La politica culturale della rivista “La Fotografia Artistica”, Università di Napoli, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1980-1981; quella di Elvira Puorto (1996) dedicata al “Bullettino” della SFI e quella di Giovanni Fiorentino, relatore Alberto Abruzzese, correlazione della stessa Picone Petrusa, poi pubblicata in Fiorentino 1992. Alla stessa propensione metodologica va attribuita la pubblicazione del già citato volume dedicato alla Cultura fotografica in Italia (Costantini et al. 1985) e l’antologia dedicata agli annuari del “Corriere Fotografico” (Costantini et al. 1987).
[971] Alcune riserve in tal senso vennero manifestate già allora da qualche recensore: “alla forte unità tematica nelle fotografie valorizzate dalla rivista (…) si contrappone una parte scritta particolarmente articolata, frondosa, prolissa, che Paolo Costantini nel suo lungo saggio ripercorre passo passo con una attenzione e una sinuosa disponibilità a volte, per chi legge, torturante” scrisse Fernando Tempesti, La via italiana alla fotografia, “AFT”, 7 (1991), n.13, giugno, pp. 77-78, mentre per Picone Petrusa, Introduzione, 1996, cfr. supra Nota 963, p. 12, si trattava di “un bel volume dal taglio abbastanza complesso.” Pur riconoscendo l’importanza del ruolo svolto dalla rivista anche Piero Racanicchi (1995, p. 189) segnalava come “l’incapacità della giovane critica fotografica di acquisire padronanza e credibilità attraverso una metodologia di pensiero che non sia provvisoria o casuale rende negli anni questa pubblicazione aperta agli umori più diversi, specchio della complicità di un ambiente sempre più dominato dai vizi di una inerzia culturale che genera separatezza e isolamento.”
[972] A quella che fu “la prima e unica grande esposizione internazionale della fotografia artistica che ebbe luogo in Italia”, nell’ambito della grande Esposizione di Arte Decorativa e Moderna di Torino del 1902, dalla cui esperienza sarebbe poi nata anche “La Fotografia Artistica”, Costantini avrebbe dedicato uno studio pochi anni più tardi (Costantini 1994), ricostruendo accuratamente le fasi progettuali e presentando una selezione di una novantina di immagini provenienti dalle più importanti collezioni internazionali e da alcune collezioni private italiane, ciascuna descritta in catalogo da una accurata scheda.
[973] Miraglia 1990, pp. 81-83; per Tempesti cfr. supra Nota 971.
[974] Miraglia 1990, p. 82; affermazione condivisibile solo in rapporto al livello medio della pittura piemontese di quegli anni.
[975] A circa dieci anni di distanza ancora “AFT” propose gli esiti di una ricerca a più voci sull’editoria fotografica in Italia che si tradusse in una mostra (Editoria e fotografia. Il libro di fotografia in Italia, Prato, Le Antiche Stanze di S. Caterina, 10 settembre – 3 ottobre 2004) e in un fascicolo monografico della rivista, entrambi curati da Giovanna Chiti. Il fascicolo apriva con un contributo a firma di Carlo e Giovanna Bertelli che si offriva “non di dare una completa ed esaustiva trattazione sull’editoria, [ma] piuttosto di fornire spunti per una riflessione.” (12) Riflessione che non poteva essere che amara a leggere la serie impressionante di approssimazioni e inesattezze contenute nel ridottissimo spazio di quell’imbarazzante articolo (Bertelli et al. 2003), che in sole tre pagine conteneva affermazioni improprie o decisamente errate sia dal punto di vista tecnologico (solo a partire dal “1940 la tecnica tipografica era completamente in grado di eseguire riproduzioni fotografiche”; “il ‘retino’ ottenuto meccanicamente per trasferimento chimico [sic] su di una matrice di metallo dell’originale fotografico”, corsivo di chi scrive) sia da quello storico critico (Mollino autore di una Storia della fotografia edita nel 1950; la traduzione italiana, nel 1959, della Storia della fotografia di Newhall Beaumont [sic], in concomitanza con quella di Pollack, e simili). Più utili, per il periodo che ci riguarda, le schede delle riviste fotografiche curate da Vittorio Scanferla (2003) che pure riprendeva alcuni errori già evidenziati per Zannier 1993b, datando ad esempio al 1948 e non al 1932 l’avvio delle pubblicazioni di “Fotografia”, e quelle dedicate ai titoli più importanti dell’editoria fotografica italiana realizzate da Giovanna Chiti ancora con Scanferla, a partire dagli anni Quaranta del Novecento, quando “nel nostro paese crollano gli edifici e le ideologie, crolla il fascismo e il pittorialismo e tra le macerie lentamente spunta il nuovo.” (Chiti 2003, p. 78).
[976] Una rielaborazione della tesi venne poi pubblicata nel primo dei due volumi che la Scuola Normale di Pisa dedicò allo studioso prematuramente scomparso: Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943. In Serena 1998, pp. 99-128.
[977] Ermanno F. Scopinich, Considerazioni sulla fotografia italiana. In Id., a cura di, Fotografia: Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia; con Alfredo Ornano, Albe Steiner. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943, pp. 7-10 (7). Pur non potendo approfondire il tema va almeno rimarcata l’ambiguità politica di quel richiamo ai “valori etici e morali” nell’Italia del 1943.
[978] Come mi ha comunicato Monica Maffioli, che ringrazio, il volume derivava dalla sua tesi di dottorato di ricerca in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica, svolta mentre già collaborava con Alinari, avendo avuto i primi contati con la firma fiorentina in occasione della redazione della propria tesi di laurea e poi di specializzazione nel 1986-1988. Come ricordava la studiosa, la pubblicazione del “Il Belvedere” si doveva a Giovanni Chiaramonte, allora direttore della collana di fotografia della SEI di Torino.
Il 1996 fu anche l’anno di pubblicazione della tesi di Barbara Mazza dedicata all’iconografia fotografica di Lucca, discussa con Giovanni Fanelli, già in parte pubblicata in “Quasar” (Cozzi et al. 1998), quindi ampliata in un volume di analogo argomento (Fanelli et al. 2003), che costituiva il “primo esempio in Italia di una schedatura esaustiva e sistematica dell’iconografia fotografica urbana, ordinata con criteri tipologici, di una città di media grandezza”. Il lavoro di tesi fu anche occasione per definire il ruolo fondamentale della fotografia “nella storia dell’iconografia urbana (…) per due aspetti. In una prima fase essa è intervenuta anche come base e supporto di trascrizioni grafiche (…). Poi è venuta la massa delle immagini fotografiche che sono andate crescendo sempre più di numero con il procedere del tempo.” (9). A testimonianza della funzione prevalentemente referenziale “la schedatura [era] divisa per grandi sezioni tematiche: panorami, mura e porte urbane, passeggiata alle mura (…). All’interno di ogni sezione i soggetti sono ordinati in ordine alfabetico” (10). Nel 1999 Giovanni Fanelli e Barbara Mazza avevano già firmato congiuntamente il volume con le fotografie realizzate da Pier Niccolò Berardi, giovane allievo di Michelucci, per la mostra sulla casa rurale italiana organizzata da Giuseppe Pagano per la Triennale del 1936, analizzando il contesto culturale in cui nacque in Toscana l’attenzione per il tema. Le ricerche di Monica Maffioli e degli studiosi coordinati da Carlo Cresti (2000, 2004), più specificamente orientate in senso storico fotografico, e quelle del gruppo di studiosi attivi con Giovanni Fanelli, più attenti al valore documentale della fonte, facevano della Firenze di quegli anni il principale centro italiano per gli studi sui rapporti fra fotografia e architettura.
[979] Memore degli insegnamenti di Gabriele Morolli, il volume offriva una buona serie di profili biografici e un prezioso repertorio dei cataloghi editoriali dei fotografi, con indicazione delle loro collocazioni nelle biblioteche pubbliche italiane.
[980] Si vedano almeno Serena 1997, Cassanelli 1998a, Id. 1998b, Id. 2000 e Id. 2001, Cavanna 2003a, Cestelli Guidi 2003, Ferretti 2003a; Rossini 2003.
[981] Cavanna 1981; Basilico et al. 1984; Maffioli 1989.
[982] Cfr. ora Romualdo Moscioni. Apulia Monumentale, la mostra online prodotta dal Kunsthistorisches Institut in Florenz per la cura di Almut Goldhahn e Matthias Gründig, visibile all’indirizzo http://photothek.khi.fi.it/documents/oau/00000272 [03 07 2017].
[983] Roberto Cassanelli, Morris Moore, Pietro Selvatico e le origini dell’expertise fotografico. In Serena 1998, pp. 41-47.
[984] Cavanna 2003a.
[985] Miraglia 1991. Ricordo che in quegli anni la studiosa era impegnata nella redazione dei due volumi relativi a I disegni della Calcografia. Roma: MiBAC – Istituto Nazionale per la Grafica, 1995, che contenevano anche il saggio “Invenzione” e “traduzione” nei disegni della Calcografia Camerale e Regia, ivi, pp. 7-18, in cui sviluppava temi già affrontati in Miraglia 1977b, poi ripubblicato in Id. 2011, pp. 135-149.
[986] Citato in Spalletti 1979, p. 420.
[987] Ferretti 2003a, in cui sviluppava una serie di riflessioni critiche e storiografiche avviate in occasione della prima mostra Alinari (Id. 1977) e in Id. 1980.
[988] Ferretti 2003a, p. 218. Su questi temi si veda anche Dalai Emiliani 2002.
[989] Fernando Tempesti, Introduzione alla sessione Fotografia e storia della fotografia. In Lusini 1996a, pp. 194-195.
[990] Claudio Marra, La fotografia come oggetto concettuale. In Lusini 1996a pp. 196-199. I temi sintetizzati in questo intervento a partire da precedenti riflessioni critiche sarebbero stati poi compiutamente svolti in Marra 1999.
[991] Ivi, p. 196.
[992] Giovanna Ginex La fotografia negli ateliers [sic] dei pittori tra il 1860 e il 1914. Alcuni esempi italiani. In Lusini 1996a , pp. 232-242, (p. 232); è significativo che tra gli studi antecedenti sul tema Ginex non citasse Combattimento per un’immagine, rimandando invece, oltre che all’ormai classico studio di Scharf (1979), “al fondamentale volume di P. Galassi, Prima della fotografia” (Galassi 1989). Anche in Ginex 2001c un capitolo venne dedicato a La fotografia negli ‘atelier’ dei pittori, pp. 934-940. Cogliamo l’occasione per segnalare una questione che ci pare sia stata solo marginalmente affrontata dagli studiosi, vale a dire il ridotto ricorso alla fotografia da parte degli scultori, come se l’interesse espressivo per il tutto tondo rendesse più problematica se non inefficace la mediazione bidimensionale operata dalla fotografia.
[993] Cfr. Pallottino 1994.
[994] Affrontando il tema dei rapporti tra Felice Casorati e la fotografia Mimita Lamberti (1989) aveva ancora sentito la necessità di collocare questa pratica in una consuetudine d’uso che mostre e cataloghi andavano progressivamente scoprendo, quasi a giustificarne il ricorso da parte di “Casorati ottimo fotografo in proprio, come già si sapeva” (439); una cautela non del tutto scomparsa neppure un ventennio più tardi quando ribadiva che “l’ultradecennale silenzio intorno a questi procedimenti non ha ormai ragione d’essere e la sorprendente rispondenza tra quadri ormai notissimi (…) e alcune delle lastre di proprietà degli eredi Casorati, dimostra la funzionalità dello strumento fotografico nella costruzione del linguaggio pittorico casoratiano.”, Lamberti 2007, p. 40.
[995] Silvia Paoli, Linguaggio fotografico e opere d’arte: un problema di traduzione o interpretazione?. In Lusini 1996a, pp. 243-247.
[996] Ivi, p. 244. Quel giudizio venne considerato “piuttosto ingeneroso, o forse superficiale” da Karin Bull-Simonsen-Einaudi, Creatori e utenti di archivi di archeologia. In Lusini 1996a , pp. 253-255, dimenticando però che ancora a quella data il tracciato di scheda catalografica adottato dalla Fototeca Nazionale dell’ICCD prevedeva che il campo “Autore” fosse compilato con lemmi quali “Simone Martini” piuttosto che “Gino Coppedè”, mentre la tecnica poteva corrispondere, con evidente coerenza, ad “affresco” piuttosto che a “muratura mista”, senza che vi fosse alcun cenno ai dati autoriali e materiali del documento fotografico.
[997] L’intervento di Marina Miraglia, Fotografia e documentazione: questioni di metodo. In Lusini 1996a , pp. 211-217, era compreso nella sessione Fotografia e storia della fotografia.
[998] Bordini 1990. L’argomento venne contemporaneamente trattato, in modo più divulgativo, in Porretta 1990, facendo precedere il paragrafo sull’uso della fotografia da parte dei pittori da una brevissima storia del mezzo condensata in una decina di paginette; nonostante gli evidenti limiti di questo elaborato la sua collocazione nell’edizione italiana del Dizionario della pittura e dei pittori, pubblicato in quegli anni da Einaudi, risultava un’evidente testimonianza della fortuna critica del tema. Un aspetto specifico del rapporto tra pittura e fotografia e in particolare l’utilizzo strumentale di quest’ultima era già stato affrontato in Bordini 1984, pubblicato nella collana di Architettura diretta da un grande storico come Manfredo Tafuri.
[999] Miraglia 2000, p. 69. Un’occasione di verifica di quegli assunti avrebbe potuto essere la mostra genovese del 1999 sul “marinismo” (Scoperta del mare: Pittori lombardi in Liguria tra’800 e ‘900, a cura di Giovanna Ginex e Sergio Rebora), il cui catalogo ospitava, ma senza alcuna integrazione critica o almeno editoriale, quasi fossero vasi incomunicanti, anche un saggio dedicato a un protagonista centrale del vedutismo ottocentesco in Liguria come il fotografo Alfredo Noack, alla cui produzione, più che a quella pittorica, si doveva certamente la ridefinizione dell’immagine di Genova e di tutta la regione. In quella sede Elisabetta Papone (1999a), ne ricostruì le vicende professionali come il mutare delle soluzioni compositive e narrative, tutte riconducibili – secondo la studiosa – a “regole di derivazione accademica, presto codificate anche in manuali destinati in primo luogo alla dilagante schiera dei dilettanti” (202), ciò che non poteva però dare immediata ragione delle precipue qualità del lavoro di Noack; di quelle sue immagini che si distaccavano dalla tradizione nella misura in cui “la fotografia, sommando caratteristiche da ‘istantanea’ a una impostazione vedutistica, dà un saggio della propria originalità e peculiarità espressiva.” (203) In quel catalogo, la marginalità, quasi una estraneità, della fotografia al progetto iniziale, era evidente anche nel trattamento editoriale: mentre le opere pittoriche vennero riprodotte a colori, a piena pagina, le vedute di Noack, rispetto alle quali del resto non si fornivano indicazioni né tecniche né archivistiche, erano riprodotte in formati minimali e in monocromo grigio. Dopo la monografia di Marcenaro 1989a, la produzione di Noack venne successivamente illustrata in Papone 1996; Papone et al. 2000.
[1000] Bordini 2000.
[1001] Stupiva nei contributi di Miraglia e Bordini l’assenza di ogni riferimento a una figura centrale, anche per quei temi, come Medardo Rosso, di cui pure scriveva Pingeot in catalogo ma senza attribuirgli la paternità delle fotografie, cfr. Anne Pingeot, Medardo Rosso. In Piantoni et al. 2000, pp. 159-189. Era questo un ulteriore episodio della sfortuna critica di quel ciclo di fotografie, ben sintetizzata in Mola 2006, p. 27. Già in occasione della mostra Medardo Rosso, tenutasi al Centro Gallego de Arte Contemporanea di Santiago de Compostela nel 1996, la curatrice Gloria Moure ne aveva per prima riconosciuto la paternità all’artista, mentre Jane R. Becker, Medardo Rosso: Photographing Sculpture and Sculpting Photography. In The Artist and the Camera, catalogo della mostra (San Francisco Museum of Art, Dallas Museum of Art, Fundación del Museo Gugghenheim Bilbao, 1999-2000), Dorothy Kosinski, ed. Dallas: Dallas Museum of Art, 1999, pp. 156-175, sosteneva che “He used photography as an integral part of his working method and as a prime conveyor of the points he was trying to make about the possibilities for sculpture” (159) ma si dimostrava meno certa nell’attribuire a Rosso l’esecuzione materiale di quelle immagini. Come avrebbe poi dimostrato Paola Mola (2007, p. 25), “Rosso può solo riprendere da sé le sue sculture, aggirando la fissità dell’obiettivo e trasferendo l’incertezza della forma nello spessore della carta emulsionata.” Infatti ciò che distingueva Rosso dagli altri artisti erano sia il metodo che lo scopo: lui non utilizzava la fotografia in preparazione come uno schizzo o una memoria del vero ma fotografava le sue opere per leggerle e analizzarle, per studiarle e offrire agli altri il proprio sguardo. In questo senso il suo lavoro risulta fondamentale e spiace che non sia stato considerato dalle studiose sopra citate e che ancora recentemente Miraglia abbia potuto affermare che fosse stato l’ “istantaneismo veloce e trasgressivo di tagli e situazioni colte al volo nell’irripetibile fugacità di un attimo folgorante e rivelatore ad attirare (…) Medardo Rosso”, Marina Miraglia, Mimesi e modernismo: dalla metà dell’Ottocento all’esperienza pittorica e fotografica di Giulio Aristide Sartorio. In Fusco et al. 2011, pp. 14-23 (20). Di più aggiornata e corretta impostazione la lettura dell’opera fotografica di Rosso offerta da Stefania Frezzotti, Il valore della luce: alle origini del contemporaneo, ivi, pp. 178-183 (181-183).
[1002] Renato Barilli, Combattimento per un’immagine nell’ultimo Michetti. In Barilli 1993, pp. 7-16.
[1003] Lista 2001a; un rilevante limite storico critico del documentatissimo saggio di Lista era costituito dalla scarsa corrispondenza con quanto indicato dal titolo, poiché se è vero che ciascuna delle due sezioni era ricca di dati e di analisi, mancava poi ogni esplicita considerazione critica degli effettivi rapporti tra le due forme espressive, quasi appartenessero a universi totalmente separati. Datava allo stesso anno la produzione da parte del MART del Dizionario del Futurismo, curato da Ezio Godoli, che a sua volta conteneva un’importante voce relativa alla fotografia (Lista 2001b) e voci monografiche dei principali artisti che con quella si erano misurati, siglate da studiosi diversi.
[1004] “La fotografia assomiglia a un quadro ma di fatto funziona come un ready made”, Marra 1999, p. 15; tutte le successive citazioni – tranne ove diversamente indicato – sono tratte da questo testo. Per la disamina della storiografia della fotografia futurista si rimanda alle pp. 154-158.
[1005] Valtorta 2002, p. 10. Il testo corrispondeva all’intervento di apertura del seminario di aggiornamento La catalogazione della fotografia, tenutosi al Museo di Fotografia Contemporanea di Villa Ghirlanda a Cinisello Balsamo nel periodo 10 ottobre – 4 dicembre 2002. Pur nella necessaria sinteticità il testo offriva interessanti spunti di riflessione proprio in ambito storiografico. Certamente condivisibile, e opportuno in quel contesto, il richiamo alla necessità della messa a punto di una periodizzazione storiografica che “si colleghi agli sviluppi della cultura e della società” (12), anche se sarebbe poi stata necessaria una maggior cura nella scelta delle esemplificazioni, essendo assai improbabile che nella sequenza di eventi che portarono alle invenzioni della fotografia si potesse annoverare “Talbot preceduto da Hill e Adamson” (12).
[1006] Alla cultura ancora pienamente ottocentesca del viaggio, tra Grand Tour e orientalismo, ma anche alla funzione collezionistica, si riferì la mostra Obiettivo Mediterraneo (Brescacin et al. 1996) che presentava per la prima volta al pubblico la collezione di Antonio Brescacin che fu “curatore del Salone dei Beni Culturali di Venezia fino al 1999 e l’ideatore di Venezia Immagine, primo Salone italiano dedicato interamente alla fotografia.”, cfr. Barbara Bergaglio, La collezione Brescacin. In Margiotta et al. 2004, p. 19. Le fotografie del Grand Tour erano invece il tema di Zannier 1997a.
[1007] La selezione di immagini, accuratamente riprodotte e descritte, costituiva la seconda parte del volume, per certi versi meno articolata e ricca del testo che la precedeva.
[1008] Il comitato era costituito da Piero Becchetti, Pierangelo Cavanna, Giovanna Calvenzi e Filippo Maggia, ideatore del progetto e curatore di mostra e catalogo con Gabriella Roganti.
[1009] Walter Guadagnini, Introduzione. In Maggia et al. 2003, p. 7.
[1010] Cavanna 2005a.
[1011] Su 210 titoli individuati solo il 22 % si connotava, a diversi livelli, come storia della fotografia locale, mentre gli altri erano piuttosto “storie per immagini” di un luogo, con maggiore o minore attenzione per gli autori delle riprese.
[1012] Locuzione molto usata in contesti diversi, di cui abbiamo anche le varianti sguardo/ sguardi (6 occorrenze) ma ricordiamo che erano già comparsi titoli come Il silenzio, la memoria e lo sguardo di Luigi M. Lombardi Satriani. Palermo: Sellerio, 1979 e Sguardo e memoria (Faeta et al. 1988). Può risultare di un certo interesse ricordare che, a prescindere dal soggetto, il termine “memoria” compariva in 7.549 titoli editi tra 1990 e 2003 mentre erano solo 2.674 nel decennio precedente.
[1013] Avigdor et al. 1977.
[1014] Miraglia 1980; Cavanna 1992b; Cavanna 1995b; Racanicchi 1995; Cavanna 1999a; Cavanna 2000a.
[1015] Costantini et al. 1987; Costantini 1990b; Falzone del Barbarò et al. 1991; Costantini 1994.
[1016] Cavanna 1999a, p. 50, cfr. anche Cavanna 2013.
[1017] Come ricordava Hobsbawm nella sua Prefazione al volume (p. 7), il “concetto di Secolo breve” si doveva allo storico ungherese Iván Tibor Berend ma la sua notorietà italiana fu certamente dovuta ad averlo scelto come titolo della traduzione, discostandosi radicalmente dall’originale (Eric J. Hobsbawm, The age of extremes: a history of the world, 1914- 1991. New York: Pantheon Books, 1994 – ed. it., Il secolo breve: 1914- 1991: l’era dei grandi cataclismi. Milano: Rizzoli, 1995). A far data da quella prima edizione la formula ebbe una eccezionale fortuna editoriale nei più diversi ambiti: dalla fotografia (Troisi 2006) al cinema (Carlo Lizzani), dalla storia culturale (Umberto Eco) alla musica (Giovanna Marini) e al teatro (Odin Teatret) sono stati quasi un centinaio i titoli che la ripresero combinandola diversamente col proprio argomento.
[1018] Miraglia 1990: la struttura del volume ricalcava il modello già utilizzato per Miraglia et al. 1979a, prevedendo un saggio introduttivo, le tavole e gli apparati, che per la loro rilevanza assumevano qui un peso e una funzione niente affatto secondari ma anzi sostanziavano dialetticamente il saggio storico critico. La riproduzione delle immagini era piuttosto accurata, adottando ad esempio la stampa su fondo argento per le riproduzioni di alcuni dagherrotipi e il colore per le autocromie, mentre la più parte delle albumine era riprodotta (crediamo per ragioni economiche) in una monotona e sempre penalizzante bicromia. Ciascuna immagine era dotata di una accuratissima scheda descrittiva, arricchita ove il caso da esaurienti note di contenuto e riferimenti bibliografici specifici (una soluzione che divenne poi un modello), a cui si collegavano le biografie redatte da Claudia Cassio, che aveva già collaborato alle ricerche documentarie per la prima mostra dedicata ai fotografi del Piemonte (Avigdor et al. 1977) e aveva dato a sua volta alle stampe un volume sulla ritrattistica nella stessa regione (Cassio 1980). L’interesse di quel ricco apparato di schede venne sottolineato anche nella recensione al volume a firma di Italo Zannier, “Fotologia”, 1991, n. 13, primavera/ estate, p. 90, che ne riconobbe il valore di “opera scientifica (…) concepita con rigorosa filologia”, redatta “sulla scorta dei precedenti studi, ma con singolari integrazioni e correzioni, che rendono quest’opera assai importante per chi si occupa di storia della fotografia.” Accanto a questi rilevanti aspetti andava segnalata però una certa mancanza di rigore nella delimitazione del proprio ambito di studio Mentre l’imponente repertorio ricco di ben 628 nomi considerava “unicamente quei fotografi che esercitarono la propria professione o la propria attività amatoriale nella città di Torino”, mantenendosi così coerente al contesto individuato dal titolo, il saggio e l’apparato di immagini comprendevano non solo autori attivi in altri territori del Regno di Sardegna come Delessert, Godard o Noack – ciò che poteva avere una qualche giustificazione storica – ma anche fotografi della generazione successiva come Vittorio Sella, la cui isolata presenza risultava scarsamente giustificata a fronte di assenze quali Francesco Negri o Pietro Masoero. Scelte che apparivano più contingenti che meditate, come nel caso di Giuseppe Gallino (1879-1964), autore delle autocromie con cui si chiudeva la serie delle immagini (conservate alla Fondazione Sella), opportunamente datate dall’autrice proprio al 1911. Il nome di quell’autore risultava però “completamente assente nella stampa periodica d’interesse fotografico” (p. 385, ad vocem), così come dai cataloghi dell’Esposizione di quell’anno e delle successive, mentre sappiamo che tenne una conferenza con proiezioni “a colori naturali” alla Società Fotografica Subalpina di Torino il 27 aprile 1934, cfr. Società Fotografica Subalpina, Catalogo XII Esposizione sociale. Torino: s.n., 1934, p.n.n. Sul sito della Fondazione Sella di Biella, che le conserva, le autocromie sono oggi prudentemente datate “post 1911”, cfr. http://fondazionesella.org/online-shop/fotografie/1/gallino-giuseppe/ [27 12 2016].
[1019] Costantini 1990b.
[1020] Miraglia 1981a. La conferma di quella scelta anche per Miraglia 1990 venne discussa da Zannier, [Recensione], cfr. nota precedente, per il quale “quest’ultima data, sebbene con qualche motivazione – il cinquantenario dell’Unità d’Italia, o una rilevante rassegna di fotografia (…) – mi sembra comunque un po’ opinabile, ma la Miraglia ha da parecchio tempo concluso che quella data, il 1911, è un riferimento storico fondamentale.” Segnaliamo però che altri due studi pubblicati a breve distanza di tempo adottarono lo stesso termine cronologico, con motivazioni in parte coincidenti. Così Ginex 2001, p . 942, che scelse il 1911 “come data di chiusura dell’indagine”, riconoscendo poi il peso della “tragica parentesi della guerra (…) che ha segnato anche per la fotografia una profonda cesura tra l’ ‘antico’ e il ‘moderno’ della sua storia”, mentre per Lista 2001a, p. 137, quella data rappresentava “una nuova fase storica marcata dalla crisi del pittoricismo e dall’avvento della fotodinamica futurista, cioè dalla nascita dell’avanguardia fotografica italiana.” Sulla questione delle periodizzazioni storiografiche si veda Serena 2013b.
[1021] In Italia il concetto di “cultura fotografica”, forse con una lontana eco dei “Cultural studies”, si era andato progressivamente affermando in senso pieno negli anni immediatamente precedenti (Ortoleva 1983; Costantini et al. 1985; Spocci 1989c, per non citarne che alcuni), ma la titolazione adottata da Miraglia conteneva un richiamo esplicito, anche sul piano sintattico, al modello storiografico costituito dalla grande mostra torinese Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773- 1861), a cui la stessa studiosa aveva collaborato (Miraglia 1980).
[1022] Questa formulazione, direi inedita per la letteratura italiana sul tema, richiamava quella utilizzata da Benjamin nella sua Piccola storia, tradotta in italiano nel 1966, e adottata come titolo da Yvan Christ, L’ âge d’or de la photographie. Paris: Vincent, Freal et Cie, 1965, entrambi rifacendosi a Nadar che l’aveva introdotta per definire gli anni immediatamente successivi alla messa a punto delle lastre al collodio. Forse come forma discreta di affettuoso omaggio, la formula ritornava in Maria Francesca Bonetti, L’âge d’or della fotografia a Roma tra studio, arte e mercato delle immagini. In Mina 2015, pp. 12-37.
[1023] Miraglia 1990, p. 62.
[1024] Dall’adozione di quella categoria derivava l’impossibilità di operare le dovute distinzioni con la produzione dei “capiscuola di questa tendenza (già a partire dagli anni Cinquanta) Robinson e Rejlander che, con l’uso del fotomontaggio e l’abitudine al lavoro svolto prevalentemente in sala di posa, si erano ispirati agli ideali alti della pittura preraffaellita” (79). Inutile dire che proprio loro erano stati i campioni di quella tendenza contro la quale Emerson si era scagliato col proprio testo del 1889 Naturalistic Photography for Students of the Art. London: Sampson Low, Marston, Searle & Rivington, 1889, con un titolo dal significato sottilmente ma radicalmente diverso da quello indicato in Miraglia (Students of Art). Difficile inoltre condividere l’opinione secondo la quale “Il flou (…) diventa per Emerson – che è ancora fedele al mito naturalista dell’arte come imitazione del reale – il tramite più pertinente per una registrazione fedele e al tempo stesso interpretativa del reale” stesso. A nostro parere il teorico inglese era semmai più interessato alla restituzione naturalistica della percezione; era questa che doveva essere tradotta in immagine utilizzando gli elementi propri della sintassi fotografica.
[1025] Il riferimento implicito doveva essere a Zannier 1986, cfr. supra Nota 823 e testo relativo.
[1026] Miraglia 1990, pp. 82-83. Pur apprezzando questo “ottimo lavoro, segno di una storiografia fotografica italiana di grande livello (…) un paradigma per la storia della fotografia italiana”, alcuni espressero non secondarie riserve; in particolare “per quanto il titolo possa far pensare ad una storia sociale o ad una ambientazione sociale di una storia delle idee, il fattore tecnico è identificato al fondo come quello periodizzante.” Non solo: “nelle pagine forse più nuove del volume gli sviluppi tecnici e le trasformazioni sociali vengono messe in relazione con i cangianti gusti e le mutevoli necessità della borghesia (intesa in senso lato) locale” ma poi mancava un’attenzione adeguata al rapporto tra fotografia e industria, sugli opposti fronti dell’imprenditoria e dei ceti popolari. “A dire il vero, per ottant’anni di storia della fotografia torinese, ci saremmo attesi una chiusa ‘industriale’ o ‘operaia’ ma non una pittorica”, Nicola Labanca, Uno studio, “AFT”, 7 (1991), n.13, giugno, pp. 73-75. L’attenzione prevalente per la “fotografia d’autore” avrebbe caratterizzato anche il successivo contributo (Miraglia 2001) sulla scena fotografica torinese nel pieno Novecento, pubblicato in occasione della mostra Sguardi e immagini: Fotografia a Torino 1980- 2000, che si tenne a Roma a Palazzo Fontana di Trevi dal 25 maggio al 15 luglio di quell’anno. Esso costituiva il completamento di un disegno complesso che avrebbe dovuto delineare le vicende della cultura fotografica torinese sino alla contemporaneità, mantenendo però una prospettiva localistica, apparentemente inadatta a dare conto di un fenomeno complesso come la fotografia, che almeno dagli anni Trenta godeva di una mobilità internazionale, e poi globale. Superate le periodizzazioni tecnologiche utilizzate nel primo volume qui la scansione era cronologica, svolta in due ampi capitoli che affrontavano rispettivamente i decenni antecedenti e successivi al secondo conflitto mondiale, ciascuno a sua volta introdotto da un inquadramento storico generale, inteso a collocare la produzione torinese sullo sfondo di quella nazionale e internazionale coeva. Ad ogni capitolo seguiva la selezione antologica delle immagini, richiamate nel testo con rimandi numerici fuori colonna, ciascuna corredata però della sola indicazione d’autore e priva di titolo e di datazione cronica, elementi rinvenibili solo nelle schede di repertorio. A queste seguiva l’Elenco dei fotografi torinesi, presentato con la consueta partizione cronologica, che prendeva il posto del ben più ricco regesto biografico presente nel primo volume, essendo questo programmaticamente destinato a “tracciare, attraverso i vari esempi trattati, il quadro delle numerose coordinate storiche, critiche ed espressive che hanno caratterizzato l’ormai trascorso secolo XX.” (ivi, p. 153, nota 125). Anche per queste ragioni, dall’Elenco, per quanto ampio, erano esclusi “gli amatori attivi in seno ai gruppi dopolavoristici dell’O.N.D., ai foto gruppi amatoriali del C.A.I.” ma comprendeva “fotografi non nativi di Torino, iscritti, nella prima metà del Novecento, ad associazioni cittadine, o più in generale attivi in città e comunque riferibili alla cultura fotografica torinese”. (267) Precisazioni quanto mai doverose in termini di correttezza metodologica ma che non rendevano ragione di alcune inclusioni (come Ando Gilardi, ampiamente rappresentato anche nell’antologia di immagini con fotografie della serie dei “maciari” lucani) e ancor più di rilevanti esclusioni come Attilio Gigli, che proprio a Torino aveva iniziato la sua attività collaborando con Luigi Carluccio, e soprattutto Paolo Monti, da includersi non tanto per le sue origini piemontesi quanto per il mirabile lavoro realizzato proprio a Torino in occasione delle manifestazioni di Italia ’61.
[1027] Paolo Costantini, Il vaso di fiori. In Falzone del Barbarò et al. 1991, pp. 35-38. Un giudizio senza appello che non poteva certo riguardare l’opera eccentrica di Carlo Mollino, la cui complessità culturale era compiutamente sintetizzata, con modalità che avremmo voluto vedere applicate anche agli altri autori considerati, ne L’universo fotografico di Carlo Mollino. Intervista a Piero Racanicchi, a cura di Italo Zannier. In Falzone del Barbarò et al. 1991, pp. 133-136.
[1028] Mi riferisco in particolare alle opere di Cesare Scarabello, per altro attivo in Uruguay, a Montevideo, a partire dal 1914, e alla selezione di immagini di Mario Gabinio, che non considerava l’importante fondo conservato presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino. Altrettanto opinabile risultava la decisione di dedicare ampio spazio ad una serie tarda di fotografie di Renato Fioravanti, non considerando figure di ben altra rilevanza della scena fotografica torinese e italiana del periodo come Italo Bertoglio.
[1029] R. Cassanelli, Da modello a documento. Ruoli e funzioni della fotografia nell’Accademia di Brera nel XIX secolo. In Ceriana et al. 2000, pp. 49-57 (p. 53, nota 1). Per i temi lì richiamati si vedano Paoli 1999a e i numerosi e qualificati contributi dello stesso Cassanelli pubblicati in Agosti et al. 1996; Miraglia et al. 1996; Cassanelli 1997a; Cassanelli et al. 1997; Cassanelli 1998a, Id. 1998b; Cassanelli et al. 1998; Id. 1999b; Cassanelli 2000a, Id. 2000b, Id. 2000c) oltre a Silvia Paoli, ll Circolo Fotografico Lombardo: associazionismo e cultura fotografica alla fine dell’Ottocento. In Miraglia et al. 2000, pp. 68-75. La stessa Paoli fu autrice delle schede, ivi, pp. 160-198, che costituivano una forma ulteriore di contributo storiografico. Di taglio puramente compilativo era invece il testo di Maria Beltramini, Le origini della fotografia a Milano. In Zannier 1991e, pp. 162-177.
[1030] Ginex 2001c. Il volume era illustrato in copertina da una notissima fotografia di Ugo Mulas, Bar Giamaica, 1953, riproposta anche nell’inserto curato da Cesare Colombo, Fotografia. Una difficile identità (pp. 649-656, più 48 tavv. fuori testo), nel quale si offriva una sintetica ma precisa interpretazione storiografica delle vicende più analiticamente studiate da Ginex, non senza qualche significativo distinguo. Si consideri in particolare la definizione del “fotografo professionista [che] resta per decenni, almeno sino agli anni Venti del Novecento, una figura subalterna, e opera di riflesso rispetto alle convenzioni figurative che socialmente si impongono” (652), ma soprattutto la lettura della situazione negli ultimi decenni del XIX secolo: “Mentre altrove gli illuminati fotoamatori-artisti tracciavano con la produzione e l’associazionismo una via parallela ma estranea a quella degli studi professionali, a Milano (…) si operava una convergenza (…). Questa osmosi tra produzione delle fotografie, crescita culturale degli addetti, conservazione dei documenti, avrà contemporaneamente una conferma della sua unicità lombarda, o meglio milanese.” (653).
Va segnalato che quello di Ginex costituiva il solo contributo storiografico relativo alla fotografia dell’intera collana einaudiana, avviata nel 1977 col titolo dedicato al Piemonte e conclusa venticinque anni più tardi con quello sul Friuli Venezia Giulia. Sebbene i singoli volumi fossero (parcamente) illustrati anche da fotografie, al tema specifico della loro storia o della loro funzione nel processo di costruzione e diffusione delle diverse identità territoriali non venivano fatti che rari cenni, relegati in appositi inserti, nei quali anche l’adozione di un corpo tipografico ridotto stava a significare la marginalità del tema. Neppure in quei casi in cui il richiamo a “Le immagini” si faceva esplicito e storiograficamente rilevante, com’era per il saggio di Mario Isnenghi, I luoghi della cultura. In Silvio Lanaro, a cura di, Il Veneto. Torino: Einaudi, 1984, pp. 233-406, il ricorso all’iconografia come fonte e prodotto culturale trovava luogo, preferendo semmai ricostruire la formazione dell’immagine regionale seguendo gli indizi e gli elementi forniti dalla stampa periodica e dalla letteratura; dalla toponomastica e dalla costruzione del paesaggio come spazio simbolico. Facevano in parte eccezione gli inserti di due volumi pubblicati nel 1989, forse sotto l’influenza delle celebrazioni per il centocinquantenario dell’invenzione: quello curato da Luciano Giacché che adottava persino un titolo fotografico (L’Umbria in posa. In Renato Covino, Giampaolo Gallo, a cura di, L’Umbria. Torino: Einaudi, 1989, pp. 495-504) sebbene poi non facesse cenno alcuno alla restituzioni fotografica dei luoghi e dei contesti della regione, mentre in quello di Luciana Zingarelli (L’immagine della Puglia. In Luigi Masella, Biagio Salvemini, a cura di, La Puglia. Torino: Einaudi, 1989, pp. 275-278) i richiami alla produzione fotografica si facevano più espliciti, anche se estremamente semplificati, limitandosi a rilevare come “nei casi più interessanti la lettura fotografica della città [da parte degli autori attivi localmente] (meno esterna ed episodica, o anche meno specialistica di quanto non fosse per le campagne in Puglia dei grandi fotografi nazionali: Moscioni, Danesi, Guida, Alinari) diventava il primo passo per un recupero dei segni dell’architettura locale” (278), connotata in chiave quasi esclusivamente romanica a partire dalle scelte operate in occasione della partecipazione all’Esposizione torinese del 1898.
Più criticamente attrezzato, per quanto ridotto, il solo altro esplicito contributo comparso nella collana, a firma di Luca Borzani e Massimo Quaini (La Liguria visibile. In Antonio Gibelli, Paride Rugafiori, a cura di, La Liguria. Torino: Einaudi, 1994, p.n.n.), con un titolo che evocava Italo Calvino, così come il corrispondente contributo di Quaini in volume (La Liguria invisibile, ivi, pp. 43-102). Pur nella ridotta brevità del testo risultavano chiari almeno i principali momenti e i modi in cui la fotografia aveva contribuito nel XIX alla “invenzione della Riviera” (richiamando una definizione di Giuseppe Marcenaro 1989a), sino al momento in cui “nel corso del primo Novecento si interrompe la straordinaria unitarietà e omogeneità dei messaggi visivi che diffondono l’immagine della Liguria [e] l’autorappresentazione delle singole imprese, costruita sugli stereotipi della fotografia aziendale (…) veicola il messaggio aziendale e, insieme, una nuova ‘figurabilità’ e una nuova retorica del paesaggio regionale e dei suoi abitanti.”
[1031] Ginex 2001c. p. 904. In questa precisa attenzione per la produzione industriale era possibile risentire l’influenza di Duccio Bigazzi, curatore del volume con Marco Meriggi e col quale Ginex aveva collaborato già nel 1998 (Bigazzi et al. 1998).
[1032] Di questo particolare aspetto trattava il capitolo Produzione e distribuzione di materiali fotografici, pp. 920-924, studiate a partire dall’analisi dei cataloghi commerciali, e parte del successivo L’applicazione industriale delle nuove tecniche fotografiche (924-927).
[1033] Si vedano i contributi di Paoli (1989, 1990a,1990b) che si attenevano alla scansione consueta tra dagherrotipo, calotipo, gelatina ma consideravano opportunamente molti degli elementi poi ulteriormente sottolineati e sviluppati da Ginex in questa occasione, con preziosi riferimenti al clima risorgimentale in cui si svilupparono alcune delle prime iniziative milanesi e alle figure di Luigi Sacchi e di Stefano Lecchi.
[1034] Marina Miraglia, Collezionismo e mercato fotografico. In Benassati et al. 1992, pp. 17-27.
[1035] Benassati et al. 1992.
[1036] Il volume era completato da un ricco apparato di schede delle opere esposte, suddivise per ambiti corrispondenti ai saggi d’apertura, caratterizzate da una precisione descrittiva e da una ricchezza storico critica delle note di contenuto che erano evidente esito di accurate ricerche. Tutte qualità che avrebbero meritato una maggiore cura redazionale, ad evitare la pubblicazione di alcuni passi francamente imbarazzanti: si veda ad esempio il riferimento al “cosiddetto fenomeno dell’ ‘alone’ o indefinitezza dell’immagine, provocato dall’uso di lastre di vetro sensibilizzate” (r.c. [Roberto Curti?], Fotografia dell’Emilia, Bosco di querce con cacciatore, sch. I/15, p. 118) ma anche la cronologia di realizzazione “[esec. 1833-1859]” assegnata a una stampa su carta salata (g.b. [Giuseppina Benassati?], Bettini, Carlo Napoleone, Panorama di Bologna da fuori porta San Felice, sch. I/29, p. 132). Purtroppo l’assenza di un indice di esplicitazione delle sigle ha impedito di assegnare con sicurezza a ciascuna scheda la appropriata responsabilità redazionale.
[1037] Giuseppina Benassati, La tradizione incisoria e la fotografia. In Benassati et al. 1992, pp. 29-36.
[1038] Il Repertorio degli autori e stabilimenti fotografici. In Benassati et al. 1992, pp. 267-279), essendo circoscritto agli “stabilimenti (…) operatori fotografici, professionisti e dilettanti, le cui opere sono descritte in catalogo” conteneva solo venticinque accuratissime schede, senza perciò riuscire a restituire la dimensione anche quantitativa dell’attività fotografica nel periodo considerato, rispetto alla quale il primo regesto messo a punto nel 1980 indicava ben ottantacinque nominativi, cfr. Franco Cristofori, Fotografi bolognesi dell’Ottocento. In Cristofori et al. 1980, pp. 95-116.
[1039] Angela Tromellini, Roberto Spocci, La città rappresentata: note di storia della fotografia a Bologna nell’Ottocento. In Benassati et al. 1992, pp. 37-62. Questo saggio venne particolarmente apprezzato anche da chi considerava quel volume, pur meritevole, poco attento ai rapporti fotografia/ società e piuttosto orientato a celebrarla “per il suo valore tecnico (…) ed estetico”, cfr. Nicola Labanca, Fotografia e fotografi nella Bologna dell’Ottocento, “AFT” 8 (1992), n. 15, giugno, p. 77.
[1040] Tra i pochi antecedenti di rilievo in tal senso andava ricordata la ricerca da cui ebbe origine il volume Immagine e città: Napoli nelle collezioni Alinari e nei fotografi napoletani fra ottocento e novecento (Del Pesco et al. 1981).
[1041] Andrea Emiliani, La fotografia, per una rete di modelli di conoscenza. In Emiliani et al. 1993, pp. 11-35 (13).
[1042] Si vedano Pierluigi Cervellati, La fotografia come progetto. In Emiliani et al. 1993, pp. 271-276; Francesco Ceccarelli, A mano libera e passi andanti, ivi, pp. 277-282. L’intera attività del fotografo è stata recentemente presentata in Paolo Monti: fotografie 1935- 1982, catalogo della mostra (Milano, Castello Sforzesco, Sale dell’Antico Ospedale Spagnolo, 16 dicembre 2016 – 19 marzo 2017), a cura di P. Cavanna, Silvia Paoli. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2016.
[1043] “Questo libro non è una storia d’Italia attraverso la fotografia, né una storia della fotografia in Italia”, Bollati 1979, p. 5.
[1044] Italo Zannier, Fotografia e immagine della città. In Emiliani et al. 1993, pp. 39-52, con un riferimento implicito alle interpretazioni offerte da Paolo Costantini (1988).
[1045] Corinna Giudici, La tutela dei beni artistici come committenza. In Emiliani et al. 1993, pp. 151-165.
[1046] Ivi, p. 158. Erano quelle le ragioni che portarono due anni più tardi alla pubblicazione dei “Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande”, curati dalla stessa Giudici per una collana ideata da Emiliani, destinati a rendere conto dell’attività dell’Archivio e Gabinetto fotografico della Soprintendenza per i beni artistici e storici per le province di Bologna, Ferrara, Forlì, Ravenna e Rimini, che hanno ospitato nel tempo una serie di interessanti contributi; occasioni di riflessione e di verifica di temi di più ampia portata partendo da specifiche esperienze di catalogazione e recupero del patrimonio fotografico storico connesso alle azioni di tutela territoriale.
[1047] Cavazzi et al. 1991. In particolare il ruolo crescente svolto dall’istituzione proponente in termini di tutela del patrimonio fotografico venne illustrato da Carlo Pietrangeli, L’Archivio Fotografico Comunale: la sua formazione e la sua funzione stimolante nello studio e nella conoscenza dell’antica fotografia romana. In Cavazzi et al. 1991, pp. 18-25.
[1048] Negro 1943, p. 454, che a sua volta citava da Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico- ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, 31. Venezia: Tipografia Emiliana, 1846, p. 162, poi ripreso anche inNegro 1964, p. 5.
[1049] Miraglia 2003, p. 565, che confermava un giudizio precedentemente espresso (Miraglia 1990, p. 21). Il significato di questa continuità iconografica poteva essere ulteriormente approfondito ponendo in relazione quell’atteggiamento coi limiti tecnologici delle emulsioni del tempo, sino a riconoscere che “la modalità di ripresa fotografica con i suoi tempi lunghi di posa diede un contributo fondamentale nell’elaborazione di un’immagine della città lontana dall’accelerazione della storia”, Maria Elisa Tittoni, Il Caffè Greco: “le petit café le plus plaisant du monde”. In Cartier-Bresson et al. 2003, p. 13, cioè per certi versi cancellando proprio l’incombere di quel tempo presente (quell’hic et nunc benjaminiano) a cui la fotografia pareva essere deputata. Notazione più che interessante, anche se non andava dimenticato che, in molti casi, quelle considerazioni critiche derivavano dalle scelte operate a posteriori dagli storici nell’ambito di produzioni tematicamente molto più eterogenee.
[1050] Piero Becchetti, La veduta fotografica a Roma dalle origini all’età del collodio. In Cavazzi et al. 1991, pp. 28-30.
[1051] Nelle ricchissime schede a corredo di Miraglia 2003, infatti, quasi tutte le immagini erano indicate come vedute, ad eccezione dei Pini a Villa Pamphili di Pietro Dovizielli (sch. XI.5.20), a proposito dei quali la studiosa rilevava come tendessero “a scostarsi da qualsiasi intento descrittivo e documentario, per volgere verso un’interpretazione emozionale dei luoghi”. Non solo, vennero comprese nella stessa categoria sia la ripresa del Colosseo di Richard Calvert-Jones, datata 1846, in quanto caratterizzata da “un tipo di inquadratura decisamente arcaica, ossia molto stretta e ravvicinata, dovuta alla volontà di attenersi a una tipologia rappresentativa, quella della ‘veduta’, che più da vicino sottolinea il carattere scientifico dell’immagine” (sch. XI.5.5, p. 570), sia quelle di James Anderson del Foro Romano (1853-1854, sch. XI.5.16) o la Piazza Navona ripresa da Giorgio Sommer verso il 1857-1865 (?) (sch. XI.5.21) che presentavano con tutta evidenza concezioni e criteri compositivi assolutamente distanti dall’esempio di Calvert-Jones, le cui caratteristiche peculiari potevano anche essere condizionate dall’ottica e dal formato o – meglio – dal rapporto tra questi due elementi fondamentali per la determinazione dell’immagine. La difficoltà di procedere dalla categorizzazione critica alla ‘identificazione’ dell’opera rimase quindi aperta, tanto che Miraglia 2008, p. 14 avrebbe usato il termine “veduta paesaggistica” per indicare alcuni, inevitabili ‘paesaggi’ di Vittorio Alinari. Nel catalogo e nella mostra romana ciò che risultava veramente problematico era però, ancora una volta, l’assenza di ogni relazione tra la sezione relativa alle fotografie e il resto del corposissimo catalogo; mai un discorso critico né – almeno – un accostamento visuale a suggerire nessi tra vedutismo pittorico e fotografico, neppure nei casi più evidenti come quelli di Robert Eaton e Franz von Lehbach: ancora culture storico critiche e storiografiche separate; ancora il retaggio evidente di un pregiudizio gerarchico.
[1052] Szegedy-Maszak 1988a; 1988b; 1990; 1992. L’attenzione per quelle che potremmo definire le culture visive espresse dalle serie documentarie di soggetto archeologico risultò particolarmente marcata nei diversi contributi compresi nel numero monografico di “Visual Resources”, 8 (1992), n. 4, dedicato alla figura di J.H. Parker, in particolare quello di Breisch 1992 che ne analizzava puntualmente la cultura e i legami con Ruskin (ma anche con Viollet-Le-Duc e il modello costituito dalla Mission Héliographique) e la precisa progettualità fotografica, rivelando una sensibilità che lo avvicinava per certi versi a Pietro Selvatico, qui più analitica e consapevole. Alla sua figura si era già rivolta Anita Margiotta con due contributi ospitati in Cavazzi et al. 1989 e in Cavazzi et al. 1991, non ricordati da Breisch. Analoghe suggestioni erano emerse dallo studio di Karin Einaudi (1991) dell’archivio di Esther Bosie Van Deman; la figura di questa archeologa, che utilizzò la fotografia per illustrare le proprie pubblicazioni, ma fu autrice anche di ritratti e paesaggi, è stata più recentemente oggetto di una mostra a New York (Capodiferro et al. 2001), cfr. Wester 1992 , pp. 346-349; Katherine Welch, Ester B. Van Deman (1862- 1937). In Getzel M. Cohen, Martha Sharp Joukowsky, eds., Breaking ground: pioneering women archaeologists. Ann Arbor: University of Michigan Press, 2006, pp. 68-108. Maggiormente orientato verso la forma del repertorio fu invece il progetto pluriennale (1993-1998) Archeologia in posa promosso dalla Biblioteca Vallicelliana in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica di Roma allo scopo di delineare una specifica storia fotografica degli scavi, accostando, nella terza edizione presentata a Roma nel 1998-1999 e quindi a Brescia l’anno successivo, alle riprese propriamente archeologiche quelle di carattere più commerciale eseguite dai grandi studi fotografici. Ricordiamo infine che in anni di poco successivi vennero ripresi gli studi sull’attività di Thomas Ashby, direttore della British School at Rome tra il 1906 e il 1925.
[1053] Citato in Susanna Weber Mazzoni, Sul fronte della fotografia: Convegno internazionale 4/5 ottobre 1989, “Fotologia”, vol. 12, primavera/ estate 1990, pp. 119-120.
[1054] Lundberg et al. 2007.
[1055] Bonetti 2007. Da segnalare anche l’intervento di Marina Miraglia, Simelli e il paesaggio. In Lundberg et al. 2007, pp. 22-24, in cui, sebbene in modo troppo sintetico, veniva posta la questione filologica della definizione della paternità dei negativi della doppia coppia Simelli/ Chauffourier, Simelli/ Caneva, ulteriore esempio della complessità di scenari operativi ancora da conoscere in modo criticamente soddisfacente.
[1056] Bonetti 2008.
[1057] Preoccupazione questa che forse non apparteneva a quegli operatori in modo così marcato come il collezionismo e la la nostra stessa storiografia tendono invece a ritenere.
[1058] Miraglia, Collezionismo e mercato fotografico. In Benassati et al. 1992, pp. 17-27.
[1059] In questa sede non si può che accennare ai diversi problemi posti dal collezionismo, anche in termini di cultura e politica culturale, a partire dalla sua stessa definizione e dalle sue distinzioni tipologiche e patrimoniali, così come dai suoi rapporti col mercato che non sempre hanno inciso e incidono solo su quello privato. Il collezionismo ha costituito da sempre e contraddittoriamente una delle funzioni fondamentali dei processi di conservazione, trasmissione e conoscenza dei beni. Ciò risulta tanto più vero per le più antiche fotografie, prodotte in un periodo in cui scarsa o nulla era la considerazione riservata a questi oggetti se non per ragioni decorative o strumentali, quindi contingenti e mutevoli nel tempo. Per questo ha assunto e assume rilevanza culturale quanto pragmatica il ruolo collezionistico (anch’esso storicamente mutevole: l’artista, l’architetto, lo studioso, lo scienziato, sino al collezionista modernamente inteso) e più recentemente (ma ormai con storia almeno secolare) la funzione mercantile che ha consentito di mantenere o rimettere in circolo beni che – già dimenticati – rischierebbero di andare dispersi o distrutti. Resta aperta la questione politica del far mercato, rispetto alla quale vanno però avanzate almeno due considerazioni: la prima è di ordine generale e riguarda il nostro appartenere a una società mercantile e capitalistica, alla cui regole sarebbe quanto meno velleitario supporre che possa essere possibile sottrarre un singolo settore; la seconda è di ordine più specificamente storico e riguarda il fatto che molti degli autori di queste immagini facevano essi stessi mercato, vivevano cioè della loro produzione e vendita. Per queste complesse ragioni, qui pesantemente schematizzate, mentre dal punto di vista politico è bene continuare ad adoperarsi per una acquisizione pubblica di questi beni, sottraendoli ove possibile alle logiche mercantili, dal punto di vista della storiografia risulta indispensabile operare nella consapevolezza critica di questi fenomeni, del loro significato e influenza sulle stesse condizioni del fare storia.
[1060] Soluzioni tecnologiche e scelte iconografiche accomunavano tutti questi fotografi, in stretta relazione reciproca, tanto che “il ressort de l’étude de leur images une similitude de points de vue qui, dépassant largement le cadre des sujets stéréotypés de l’époque, rend souvent le problème de l’attribution particulièrement épineux, même si la plupart des membres du groupe avaient l’habitude de signer et de dater leurs productions”, come notava Anne Cartier-Bresson, La méthode romaine: entre prospection et adaptation. In Cartier-Bresson et al. 2003, pp. 15-21 (17), chiedendosi proprio in chiusura “Groupe, cercle ou école?” mentre Anita Margiotta, La Scuola Romana di Fotografia, ivi, p. 28-34, riprendendo una definizione ormai consolidata a partire almeno dal saggio di André Jammes dedicato a Alfred-Nicolas Normand (Brunel et al. 1979), parlava di “Scuola Romana di Fotografia”.
[1061] Cavazzi et. al. 1987, che a sua volta comprendeva, quale elemento innovativo che avrebbe per molti versi stabilito uno standard, un intervento specifico a proposito delle problematiche conservative dei materiali esposti: Anne Cartier-Bresson, Alcuni aspetti della conservazione delle fotografie: relazione tecnica sulla mostra dell’Archivio Fotografico Comunale di Roma ‘Pittori fotografia Roma 1845- 1870’, ivi, pp. 19-21.
[1062] Esulava da queste tipologie il volume sui Fotografi a Pompei nell’800 (Maffioli et al. 1990), il solo titolo con intenti storico critici dedicato sinora a questo importante argomento, ma con troppi contributi di taglio disinvoltamente divulgativo nei quali si potevano leggere affermazioni quali “Un primo gruppo di immagini fotografiche è relativo al primo periodo degli scavi borbonici (1748-1806)” (Ernesto De Carolis, Gli sviluppi dell’archeologia pompeiana, ivi, pp. 11-19 [11]) o che eludevano il tema, come nel caso di Gina Carla Ascione, Tra vedutismo e fotografia: la rappresentazione di Pompei nella seconda metà dell’Ottocento, ivi, pp. 21-29, che a dispetto del titolo proprio di fotografia non parlava. Un’operazione palesemente commerciale, con buone riproduzioni delle immagini, corredate dai dati identificativi fondamentali, ma con una sequenza di impaginazione confusa, della quale risultava difficile comprendere il senso, mentre disegni e dipinti vennero pubblicati senza indicare la data di realizzazione.
[1063] Leone 1991.
[1064] m. m. [Marina Miraglia], Regno delle Due Sicilie. In Miraglia et al. 1979a, pp. 132-135.
[1065] Alberto Abruzzese, Ai confini della civiltà: pre- testi sulla fotografia: vedere Napoli e poi morire… In Fiorentino 1992, p. 7.
[1066] Morello 1998; 1999a; 1999b.
[1067] Falzone del Barbarò et al. 1999.
[1068] Paolo Morello, Appunti per una storia della fotografia a Palermo. In Falzone del Barbarò et al. 1999, pp. 13-22. Il riferimento implicito era a Correnti et al. 1988, mentre le prime analisi accurate erano state svolte in Morello 1998 e in Morello 1999a, che costituivano elaborazioni parziali dei risultati di una più ampia ricerca destinata ad una serie di pubblicazioni sulla “Storia della fotografia a Palermo”, preannunciate per l’anno 2000, ma che, a quanto risulta, non videro mai la luce. Nello stesso 1999 Morello avviava l’Istituto Superiore per la Storia della Fotografia, una fondazione destinata a finanziare e produrre progetti di ricerca e mostre e ad editare pubblicazioni, cfr. http://www.issf.it/about.html [19 03 2017].
[1069] Vitali 1979. Lo scenario dei decenni successivi all’unificazione venne studiato da Monica Maffioli, Fotografi professionisti nella Palermo dell’Ottocento. In Falzone del Barbarò et al. 1999, pp. 23-31, considerando l’attività di autori quali Interguglielmi e gli Incorpora, sui quali era in preparazione una monografia (Morello 2000c), o che alla città avevano rivolto un’attenzione particolare come Robert Rive e Giorgio Sommer, con un buon numero di riproduzioni delle opere di questi ultimi e di altre tratte dai cataloghi Alinari e Brogi.
[1070] Bambi et al. 1983. Di Barbieri venne poi pubblicato in facsimile l’album La Provincia di Terra d’Otranto, donato a Umberto I e conservato presso la Biblioteca Reale di Torino, cfr. Barbieri 1991 (1889), per iniziativa di Gennaro Acquaviva, con una nota ‘storica’ di Daniela Palazzoli, caratterizzata da fantasiose ricostruzioni delle circostante che portarono alla realizzazione di quelle immagini e delle ragioni per cui vennero poi confezionate in album, a misura di quanto la storiografia fotografica ancora in quegli anni potesse essere più affabulazione che esito ponderato di indagine storico critica. Così nessun cenno storicamente fondato veniva fatto alla figura e all’attività di Pietro Barbieri, l’autore delle immagini, a cui pure era stato dedicato alcuni anni prima un catalogo monografico, che conteneva anche il ricordo dell’incontro di uno dei curatori, Giuseppe Vese, con Piero Becchetti, occasione da cui era nata quella monografia. Il volume del 1991 non conteneva neppure alcun riferimento alla fortuna di quelle fotografie, tale da farle divenire l’immagine ufficiale del Salento monumentale nei fascicoli de La Patria, cfr. Gustavo Strafforello, La Patria: geografia dell’Italia: cenni storici, costumi, topografia, prodotti, industria, commercio, mari, fiumi, canali, strade, ponti, strade ferrate, porti, monumenti, dati statistici, popolazione, istruzione, bilanci provinciali e comunali, istituti di beneficenza, edifizi pubblici; 27: Provincie di Bari, Foggia, Lecce, Potenza. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1899. Una prima analisi dei modi compositivi di Pietro Barbieri era stata avanzata nella recensione al volume del 1983 firmata da Arturo Carlo Quintavalle, “Panorama”, 18 aprile 1983, p. 26.
[1071] Miraglia 1985a.
[1072] Laudisa 1995, p. 3.
[1073] Laudisa 1995, p. 6. La locuzione “vecchie fotografie”, utilizzata già da Camille Recht nel 1931, aveva avuto ampia diffusione e successo editoriale tra la metà degli anni Settanta e i primi Ottanta del XX secolo, in corrispondenza di inedite manifestazioni di interesse per il patrimonio fotografico storico anche al di fuori o ai margini delle prime sistematiche attenzioni degli studiosi.
[1074] Il volume in quarto, rilegato, pubblicato in edizione limitata di 1.000 esemplari dedicati ad personam, presentava tutte le pagine in nero patinato pieno, su cui fluttuavano i riquadri bianchi del testo e le riproduzioni monocrome a singolo tono.
[1075] Questa produzione, ridotta ma certo interessante, venne sommariamente ricordata anche da Giovanni Fiorentino, Napoli e il regno delle Due Sicilie. In Bonetti et al. 2003, pp. 252-255.
[1076] Leonardi 1997.
[1077] Alla dotazione iniziale del FAST si sono aggiunti nel tempo nuovi acquisti, donazioni, affidamento di fondi in gestione. La consistenza attuale (2017) è stimata in oltre 500.000 fotografie, che riguardano prevalentemente il territorio veneto e ne documentano l’evoluzione urbanistica ed economica, i grandi eventi storici, le trasformazioni sociali, ecc. I 25 anni dell’archivio fotografico della Provincia di Treviso sono stati celebrati con la mostra FAST – Storie d’argento 1989- 2014 aperta da 3 ottobre al 9 novembre 2014 presso il Museo Civico di Santa Caterina di Treviso, cfr. Prandi 2014a, che colse l’occasione per tracciare un breve profilo storiografico delle più generali vicende connesse alla conoscenza e alla valorizzazione del patrimonio fotografico storico italiano.
[1078] Gli indici completi di “Fotostorica” sono stati pubblicati in Prandi 2014a. Il direttore responsabile di “AFT”, recensendo quella nuova serie riconobbe quale elemento di interesse la compresenza editoriale di pubblico e privato (Amministrazione Provinciale di Treviso ed Edizioni Canova), ciò che poteva “costituire l’elemento di garanzia sul piano dell’investimento finanziario e della progettualità culturale”, pur rilevando “una certa improvvisazione di fondo e soprattutto una sostanziale carenza di progettualità e di disegno costruttivo”; Sauro Lusini, Fotografia, storia, archivi, “AFT”, 14 (1998), n. 27, giugno, pp. 75-76.
[1079] Adriano Favaro, L’Archivio Fotografico Storico della Provincia di Treviso. In Serena 1999, pp. 109-129 (119-120).
[1080] Da quel numero la rivista venne pubblicata in coedizione con la S.V.E. Società Veneta Editrice, mantenendo però i ruoli di curatore scientifico (Zannier) e Direttore responsabile (Favaro). Per quel che riguardava le funzioni del Comitato scientifico va notato che, nonostante la presenza di Anne Cartier-Bresson e di Silvia Berselli tra i membri, furono rari e di scarso rilievo i contributi su temi specifici di conservazione e restauro poiché anche l’interessante rubrica, poi trasformata in interventi sparsi, “Come conservano i fotografi contemporanei”, descriveva piuttosto le modalità di archiviazione adottate dagli autori coinvolti. Un’altra rubrica di un certo interesse, almeno sociologico, era quella che prese avvio col n. 15-16, ottobre 2001 a proposito di Mercato e collezionismo, affidata a Giuseppe Vanzella; a partire dalla considerazione che “la nostra rivista, interamente dedicata alla Fotografia, non poteva non essere vicina a quello che è uno dei pilastri fondamentali della sua esistenza e cioè il mercato”, la rubrica offriva ai lettori la possibilità di “richiedere informazioni su fotografie di loro proprietà o sulle quali possano avere un qualunque tipo di interesse. Stime sul valore, opinioni sulla tecnica, attribuzioni sull’autore”.
[1081] Adriano Favaro, A.F.T. e FOTOSTORICA, una storia analoga, http://liste.racine.ra.it/mailman/listinfo/s-fotografie, 30-07-2009 [11 12 2015], che chiudeva amaramente il proprio intervento ricordando che la rivista “aveva tutti i numeri per rimanere, magari anche limitatamente all’ambito Veneto, una rivista culturale di rispetto. È scomparsa nell’indifferenza.”
[1082] Von Gloeden innanzitutto, con ben otto titoli, poi Plüschow, con quattro; Felice Beato con tre, ma uno solo per il meno avventuroso Antonio e per Giuseppe Primoli: Pietromarchi 1990; Janssen 1991; Philipp et al. 1991; Albers 1993; Dall’Orto 1993; Bayou 1994; Weiermair 1994; Pohlmann 1995; Zannier 1995c; Id. 1995d; Malambri 1998; Pohlmann 1998; Beretta 1999; Caputo et al. 2000; Harris et al. 2000; Weiermair et al. 2000; Mormorio 2002.
[1083] Zannier 1978; ricordiamo che a quegli stessi anni risalivano le edizioni italiane di The Pencil of Nature (Talbot 1978) e Some Accounts (Talbot 1980; Talbot 1981).
[1084] Smith 1993. L’album era stato da poco analiticamente presentato agli studiosi italiani da Malcom Daniel, L’Album Bertoloni. In Benassati et al. 1992, pp. 73-78. Si veda ora anche Saunders 2015.
[1085] In qualità di direttore e curatore dell’Edizione nazionale delle opere e della corrispondenza di Giovanni Battista Amici, istituita con D. M. 7 febbraio 2003 (http://gbamici.sns.it) [04 09 2018]. Per i contributi più strettamente inerenti la storia della fotografia si vedano: Meschiari 1999; 2000; 2001; 2003; 2009. Meschiari è inoltre “italian corresponding editor” del progetto The Correspondence of William Henry Fox Talbot, diretto da Larry J. Schaaf all’Università di Glasgow (http://foxtalbot.dmu.ac.uk/) [21 09 2018].
[1086] Un profilo dell’attività fotografica di Secchi è stato tracciato da Arciero 1979, Gasparini 1990.
[1087] Gray et al. 1988.
[1088] Schaaf 1990.
[1089] Michael Gray, Il reverendo Calvert Jones in Italia. In Benassati et al. 1992, pp. 69-70.
[1090] Cfr. Bergamini 1991; Ellero 1994; Zannier 1998a.
[1091] Cassanelli 2000c, p. 122, n. 28, con riferimento a Zannier 1998a e rimandando a Miraglia et al. 1996, pp. 133-134.
[1092] Dove venne pubblicata solo la ripresa relativa a Santa Maria delle Grazie a Milano (Miraglia et al. 1979a, p. 37). A questa si aggiunse un gruppo di tre fotografie pubblicate in Miraglia 1981a (tavv. 571, 573, 641), poste accanto alla Veduta dell’atrio di Sant’Ambrogio assegnata ad Agricola (tav. 572), e altre due sue fotografie successivamente pubblicate da Daniela Palazzoli (1985, p. 68). Già Silvio Negro (1956, p. 251) ne aveva parlato in termini encomiastici (“Se nessuno s’è occupato del milanese Luigi Sacchi, ch’è certamente il maggiore esponente italiano della fotografia del periodo delle origini, è ben logico che altrettanto sia avvenuto dei primi cultori romani della camera oscura, le cui prove raggiungono ben di rado il livello di quelle del milanese, e sono in ogni caso più tarde”) sulla base delle stampe appartenenti alla collezione di Marino Parenti, sei delle quali vennero poi presentate da Lamberto Vitali nella sezione italiana che integrava la mostra della Collezione Gernsheim alla Triennale di Milano del 1957 (Vitali 1957).
[1093] Il termine, di rara etimologia latina, sembra essere stato d’uso esclusivamente milanese, anzi, strettamente circoscritto al gruppo redazionale del “Politecnico”, cfr. Sulle scoperte lucigrafiche di Daguerre e Niepce (Durelli 1839).
[1094] Miraglia 1996a; Agosti et al. 1997. La parte relativa alla raccolta fotografica di Boito era invece illustrata in Agosti et al. 1996 e venne successivamente approfondita in Cassanelli 2000a.
[1095] Studiate da Maria Francesca Bonetti in occasione di una mostra a Colonia del 1994, cfr. Dewitz et al. 1994, schede nn. 178-180, con una attribuzione dubitativa a Pompeo Pozzi, formulata sulla base dei timbri a secco presenti sui supporti secondari.
[1096] Riteniamo che la precedente ipotesi attributiva a Pozzi non potesse essere liquidata semplicemente considerando che questi fu il distributore della produzione di Sacchi e che la Guida di Milano lo indicasse anche come fotografo solo a partire dal 1861. Fin troppo semplice ricordare che la stessa Guida registrava la presenza di Sacchi come professionista solo dal 1857, vale a dire dopo più di un decennio dall’avvio della sua attività di fotografo.
[1097] Cassanelli 1998b. Occasione e scopo di quel nuovo studio, pubblicato a soli due anni di distanza dal precedente, furono l’edizione critica e l’intervento conservativo sui fototipi di Sacchi (calotipi, carte salate e albumine) conservati nel Fondo Marino Parenti della Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte di Torino, a cui erano pervenuti al momento dell’acquisto dell’archivio e della biblioteca del grande cultore di memorie manzoniane, favorito da Luigi Firpo. Lo studioso ebbe poi modo di illustrare la figura e l’attività di Sacchi anche in contributi successivi; si vedano R. Cassanelli, Conservazione e restauro dei monumenti in Lombardia 1850- 1859. In Cassanelli et al. 1999, pp. 291-307; Id., Schede nn. 3,4, 22. In Ceriana et al. 2000; Cassanelli 2001; Id. 2002b.
[1098] Serena 2006b, da integrare con Id. 2006a. Un primo, breve, scritto era stato dedicato a L’Italie Monumentale da Leone 1999.
[1099] Ci riferiamo qui alle opere e alle posizioni critiche espresse dal gruppo dei cosiddette Nuovi Topografi, e in particolare da Robert Adams, presentati per la prima volta in Italia da Paolo Costantini, di cui Serena fu allieva. Negli anni della redazione del saggio su Piot la studiosa faceva inoltre parte del Comitato scientifico di Linea di Confine, che costituiva la più sistematica e duratura iniziativa italiana di rilevamento territoriale fondata su presupposti analoghi a quelli dei Nuovi Topografi, avviata a suo tempo proprio da Costantini con Guido Guidi, William Guerrieri e Roberto Margini.
[1100] Serena 2006b, p. 298. L’accezione qui utilizzata di paradigma (visivo) derivava dalla filosofia della scienza e in particolare da Thomas Kuhn attraverso la mediazione di Paolo Costantini (1988) che l’aveva a sua volta utilizzata proprio a proposito di immagini veneziane.
Altri scarti dalla linea maestra della tradizione iconografica, qui determinati dalla drammaticità di un evento bellico, furono quelli messi in atto da un altro protagonista misconosciuto della calotipia in Italia come Stefano Lecchi, dalla cui serie di immagini dedicate alle rovine prodotte dalla battaglia per la difesa della Repubblica Romana del 1849, primo esempio di “proto reportage”, vennero tratte numerose litografie che sostituirono nell’interesse degli acquirenti “quelle dei monumenti, delle vedute di Roma”, Maria Pia Critelli, Le “nuove rovine” di Roma: immagini, luoghi e memorie. In Critelli 2001, pp. 23-42. Una prima serie di quarantuno calotipie, sino ad allora parzialmente note in copie più recenti o in traduzione litografica, venne scoperta da Marina Miraglia nel 1995 nei fondi della Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma, mentre altre venti furono individuate l’anno successivo da Silvia Paoli nella Civica Raccolta delle stampe Achille Bertarelli di Milano. La loro pubblicazione costituì l’occasione per delinearne la fortuna iconografica e la corrispondente sfortuna critica (M. Miraglia, Come Simonide di Ceo. In Critelli 2001, pp. 13-22) e per la puntualizzazione dei dati di una biografia allora ancora incerta (S. Paoli, Vedute e “reportage”. In Critelli 2001, pp. 43-52), ora puntualmente ricostruita da Roberto Caccialanza, Stefano Lecchi, from Milan, Pupil of Daguerre: the Last Biography. European Society for the History of Photography (ESHPh), Vienna 16 March 2017, Open Access Article http:// www.eshph.org/blog/ 2017/03/17/roberto-caccialanza/ [16 04 2018]. Il contesto romano del 1849 è stato studiato da Anita Margiotta, Accanto a Stefano Lecchi: gli altri fotografi dell’assedio di Roma del 1849. In Critelli 2011, pp. 33-36, mentre un più recente contributo sul tema è stato offerto da Isotta Poggi, “And the Bombs Fell for Many Nights.” Stefano Lecchi’s photographs of the 1849 Siege of Rome in the Cheney Album. In Caraffa et al. 2015, pp. 203-220 in cui l’autrice poneva a confronto le foto di Lecchi con le illustrazioni contenute nella biografia di Garibaldi di Jessie White Mario e riscontrava “connessioni profonde tra le fotografie della campagna di Lecchi e la causa patriottica Repubblicana” (203), occasione in cui “l’uso della fotografia giocò per la prima volta un ruolo importante nella documentazione dei danni di guerra a fini propagandistici.” (204)
[1101] Numerosi esemplari di fotografia italiana del XIX secolo appartenenti a quella collezione erano già noti, cfr. Siegert 1984; Siegert 1985. Altri ancora furono successivamente presentati in Dewitz et al. 1994; Ritter 1996; Lenz et al. 1997; Ritter 2005; Rott et al. 2011.
[1102] Bonetti 2006; Cavanna 2011a.
[1103] Anche Fanelli 2007, p. 28, avrebbe poi utilizzato la formula “Sommer o i suoi operatori”, senza però approfondire la questione.
[1104] Nicola Labanca, Fra arte e mercato, “AFT”, 9 (1993), n. 17, giugno, pp. 78-79, che segnalava anche le “attente schede a cura di Maria Francesca Bonetti.”
[1105] Si pensi, per esemplificare, alla serie di costumi napoletani realizzata in studio che l’autrice interpretava troppo idealisticamente come esito dell’incontro “con l’umanità del popolo che, nella propria semplicità di costumi, sembrava conservare intatta, al di là di qualsiasi crasi temporale, una delle virtù più profonde e sentite del mondo antico.”, Marina Miraglia, Un tedesco in Italia. In Miraglia et al. 1992, pp. 11-32 (14). Quasi a margine si può notare come una simile interpretazione avrebbe potuto essere applicata anche a Von Gloeden, quasi senza nulla mutare.
[1106] Fanelli 2007a, per il quale si rimanda a p. 397.
[1107] Morello 2000c, p. II. Quella amara considerazione avrebbe avuto più di una ragione per essere riproposta alcuni anni dopo, quando venne pubblicato il volume di Roberta Valtorta, a cura di, Paolo Monti: scritti e appunti sulla fotografia, “Quaderni di Villa Ghirlanda”, 5. Milano: Lupetti, 2008 che riproponeva, senza per altro citarlo, i contenuti del precedente testo di Francesca Bertolini, a cura di, Paolo Monti. Tutti gli scritti, pubblicato nel 2004 dall’Istituto Superiore per la Storia della Fotografia di Palermo di cui Morello fu direttore dal 1999 al 2011.
[1108] In Morello 2000c, rispettivamente alle pp. 225-301 e 302-321.
[1109] La pubblicazione in trascrizione o in facsimile di fonti archivistiche aveva già caratterizzato altri titoli recenti, quali lo studio sulle origini della fotografia a Padova di Giuseppe Vanzella (1997), in cui il ruolo svolto da figure quali Tommaso Zannini, Giovanni Minotto, Sorgato, Caneva, Bresolin, Zantedeschi e Borlinetto all’Università, Pietro Selvatico all’Accademia, venne ricostruito con un puntuale ricorso a fonti manoscritte e a stampa. In quella sede Vanzella pubblicò anche sei lettere inedite di Caneva all’abate Pier Antonio Meneghelli e una di Louis-Alphonse Davanne a Luigi Borlinetto. Anche la ricostruzione delle vicende fotografiche di Bari (Leonardi 1997) si era avvalsa di approfondite ricerche archivistiche e sulle coeve fonti a stampa, in particolare per quanto riguardava la vicenda professionale che vide contrapposti Enrico Bambocci e Nicola De Mattia per la commessa delle campagne documentarie promosse dal Ministero della Pubblica Istruzione.
[1110] Tale accuratezza non caratterizzava purtroppo le riproduzioni delle fotografie, a volte decisamente scadenti.
[1111] Calcagni Abrami et al. 2002; Listri 2003; Pellegrino et al. 2003. Nello stesso contesto si deve leggere la ricerca sull’attività di Mario Sansoni per Alinari (Couprie 2005) svolta da uno studioso che già aveva curato la pubblicazione in microfiches del repertorio Alinari (Couprie 1988). Colpiva, in quella serie di pubblicazioni, l’assenza di un contributo di Zannier, certo lo storico della fotografia italiano più legato al marchio fiorentino, a cui venne affidata solo la cocuratela di un’opera di carattere divulgativo (Favrod et al. 2003), oltre alla responsabilità di quello che fu l’ultimo numero di “Fotologia”, nel quale – pur senza fare alcun riferimento all’occasione specifica – vennero raccolti brevi saggi storici d’occasione sulla produzione Alinari relativa ad alcune regioni o località italiane (Emilia Romagna, Sardegna, Venezia, Piemonte e Liguria, Milano) e una serie di portfolio di autori contemporanei (Battistella, Mimmo Jodice, Basilico, Gianni Berengo Gardin, Tatge, Guidi, Scabar e Fabio Gigli) a cui venne chiesto di misurarsi con l’iconografia Alinari.
[1112] Quintavalle 2003.
[1113] Maffioli et al. 2003.
[1114] Arturo Carlo Quintavalle, Per capire. In Maffioli et al. 2003, p.n.n.
[1115] Spiace constatare, in un saggio di quelle ambizioni, la poca attenzione rivolta non dico alla catalogazione ma almeno alla corretta presentazione delle singole fotografie; si vedano a questo proposito le stampe 114e / 130e, la prima indicata come Alinari e la seconda come Stabilimento Giacomo Brogi, datate rispettivamente 1890 ca e 1910 ca, che derivano dallo stesso negativo; le riprese di soggetto torinese (nn. 36e-39e, 41e-42e, pp. 363-364) prive di indicazione dell’operatore e con una datazione errata al 1895 ca. mentre è ormai da tempo assodato che quella serie di immagini, insieme ad altre di città del nord Italia, venne realizzata da Mario Sansoni nel 1898, cfr. Mario Sansoni 1987; Couprie 2005.
[1116] Lettere: frammenti di un archivio perduto. In Quintavalle 2003, pp. 121-134. Certo la sostanziale dispersione dei documenti archivistici ha ridotto quasi allo zero la disponibilità di fonti, qui circoscritte ad un importante gruppo databile al primo decennio di attività, a cui se ne aggiunsero poche altre, sostanzialmente più tarde (1898-1929) che pareva fossero state selezionate solo sulla base della notorietà dei corrispondenti (Telemaco Signorini, Vittorio Sella).
[1117] Bollati 1979, p. 31.
[1118] Per restare alle questioni di merito, certo andrebbe discusso quel richiamo a “un modo nuovo” che pareva assolutamente inappropriato se riferito, come in questo caso, ad attività inedite, prive quindi di possibili modelli o modalità antecedenti.
[1119] Citato in Tomassini 2003, p. 169.
[1120] Ivi, p. 147. La componente culturale fu certo rilevante ma fu anche quella meno specifica: basti pensare all’elevato numero di soggetti comuni ai cataloghi di altri autori. Ciò che forse fu progressivamente vincente, tanto da portarli ad una posizione di fatto monopolistica a scala nazionale, fu la loro sistematicità, a sua volta consentita e accresciuta dalle risorse che derivavano dal progressivo successo commerciale. Le indicazioni contenute in quel testo dovevano essere utilmente poste in relazione con l’intervento di Maffioli nello stesso catalogo, in particolare per quanto riguardava “la personalità di Giuseppe Alinari, rimasta sempre in ombra rispetto a quella di Leopoldo e di Vittorio, [che] è in realtà centrale se si considera che è proprio nei venticinque anni di sua direzione che il nome dall’azienda si consolida e si sviluppa.”, Maffioli 2003, p. 35.
[1121] Arturo Carlo Quintavalle, Per capire. In Maffioli et al. 2003, p.n.n.
[1122] Ibidem.
[1123] Quintavalle 2003, p. 139. Ulteriori conferme di questa ricostruzione della genesi del modello vennero fornite da Quintavalle facendo riferimento a precise “istruzioni che vengono date agli operatori e che devono essere scrupolosamente da loro seguite” (p. 285), senza però fornire alcun esempio né riferimento archivistico; tali affermazioni paiono per contro essere smentite dalle note di lavoro contenute nel diario di uno dei loro migliori operatori come Mario Sansoni (Mario Sansoni 1987), che Quintavalle pur citandolo (533) mostrava di non aver opportunamente considerato. Quelle stesse pagine, puntualmente commentate per altro da Tomassini 2003, p. 147, smentivano inoltre l’ipotesi formulata da Quintavalle che “almeno un sopralluogo il titolare dell’atelier lo abbia sempre fatto con gli operatori” (307) e toglievano validità alla conseguente ipotesi che individuava in quella presenza le ragioni per cui “vi è sempre una perfetta corrispondenza nei documenti analizzati (…) vi è sempre una coincidenza di modelli e soprattutto di scelte” (307), lasciando ancora così involontariamente aperta quella questione critica.
[1124] Maffioli 2003, p. 24.
[1125] Giovanni Fanelli, La fotografia di architettura degli Alinari 1854- 1865: oltre le convenzioni e gli stereotipi. In Maffioli et al. 2003, pp. 87-120 (87).
[1126] Ivi, p. 96. Considerazione storico critica molto interessante e di fatto non inficiata dall’impropria equiparazione tra obiettivi a lunga focale (tipo Petzval ad esempio, allora disponibili) e i teleobiettivi veri e propri, caratterizzati da uno schema ottico molto diverso e che sarebbero entrati in produzione solo negli ultimi anni del XIX secolo. Anche Quintavalle nel volume monografico aveva segnalato la necessità che la ricerca filologica dovesse considerare la “scelta delle inquadrature e delle loro sottili varianti. Si dovranno considerare quindi l’altezza del punto di vista, la direzione della camera, l’uso della luce, la composizione dentro l’immagine (…) e si dovrà considerare il tipo di obiettivo, di camera, di negativo, di carta da stampa usati”, (Quintavalle 2003, p. 205) senza però provarsi poi a mettere in pratica, anche solo per campioni, queste preziose indicazioni metodologiche, anzi incorrendo in una serie troppo ampia di fraintendimenti e imprecisioni, quali il confondere i diorami di Daguerre con i panorami fotografici (182); il ritenere che “usando l’albumina la sensibilità aumenta permettendo così di riprendere e fissare particolari che altrimenti col collodio sfuggirebbero” (129), ciò che non è vero: la lastra all’albumina offriva una maggiore risoluzione dei dettagli ma aveva (perché aveva) una sensibilità decisamente ridotta e quindi imponeva tempi di esposizione più lunghi, come dimostrava bene anche la vicenda delle riproduzioni dei disegni all’Albertina di Vienna ricordata in Maffioli 2003, p. 51 nota 38. Altri esempi potrebbero essere fatti, come la confusione tra sfocatura e mascheratura in stampa (457), tra stampe al carbone e lastre al bromuro (458) o l’attribuzione a un improbabile viraggio della colorazione rossastra di una zincotipia (475) che, come dovrebbe essere a tutti noto, è una riproduzione fotomeccanica, stampata quindi con inchiostro tipografico disponibile in una vasta gamma di colori a scelta. In anni di poco antecedenti un convincente esempio di analisi storico critica su basi filologiche era stato proposto da Milan Chlumsky, Espace et exactitude: la photographie d’architecture des frères Bisson (in: Chlumsky et al. 1999, pp.81-101) considerando le loro strategie commerciali come le scelte narrative (sia la monumentalità che il dettaglio; non le vedute urbane ma le architetture) ma anche offrendo una approfondita comprensione storica delle implicazioni tecnologiche risultanti da una accuratissima indagine delle caratteristiche ottiche e chimico fisiche delle stampe Bisson: la capacità di riconoscere varianti, per quanto minime, nel trattamento delle stampe, di chiedersene le ragioni, di formulare ipotesi storico critiche in risposta.
[1127] Illuminante in tal senso il paragrafo a proposito “del come essi stessi intendevano porsi, come rappresentarsi e come intendevano rappresentare il fare arte e soprattutto il dipingere”, tutto incentrato sull’interpretazione della ripresa della Sala della Trasfigurazione alla Pinacoteca Vaticana (n. 6431, sch. n. 299e, p. 353), intesa come immagine paradigmatica nella quale l’operatore Alinari avrebbe inteso “far vedere come, in un tempo brevissimo, il fotografo riprende originali e copie, e quindi che la fotografia è la nuova arte della copia, copia integrale, non parziale, copia che permette di fissare nella sua completezza l’originale e qualsiasi altra sua versione; se questo è l’intento, allora il discorso verte sulla funzione e sulla dignità della fotografia, ed è un discorso che quadra bene con la esperienza e con la storia intera della impresa Alinari.” Interpretazione interessante e concettualmente gratificante ma certo non qualificante la sola produzione Alinari, come avrebbe potuto suggerire con tutta evidenza il confronto con la stampa Anderson dello stesso soggetto (2500 – Roma Sala della Trasfigurazione Pinac. Vatic.), certo presente anche negli Archivi Alinari, ripresa in identiche condizioni di allestimento e dallo stesso punto di vista ma con un maggiore angolo di campo, tale da comprendere per intero, sulla destra, anche la Comunione di San Gerolamo del Domenichino. Altre inquadrature coeve e sostanzialmente identiche sono state recentemente pubblicate da Paolo Giuliani, La memoria fotografica della Pinacoteca Vaticana: gli allestimenti, i dipinti, le cornici. Esempi di fotografie tra recupero e documentazione, “ArtItalies”, 6 (2017) n. 23, juillet, pp. 119-130.
[1128] Quintavalle 2003, p. 181; al fine di correggere questa interpretazione generica e fuorviante giova almeno ricordare che non è certo sulla condivisione di una immagine netta e definita che si può considerare la vicinanza tra il gruppo dei preraffaelliti e Julia Margareth Cameron, come mostra la sua produzione.
[1129] Si veda per tutti il caso di Eugène Constant, discusso dall’autore nonostante il fatto che le sue immagini “esulano dalla iconografia degli Alinari” (Quintavalle 2003, p. 188).
[1130] Valga il confronto con le riprese pisane di John Brampton Philpot, Quintavalle 2003, p. 200.
[1131] Quintavalle 2003, p. 421. Piuttosto che richiamare improbabili genealogie sarebbe stato utile provarsi almeno a indagare le ragioni, e gli esiti, del passaggio dalle immagini di genere realizzate in studio alle riprese en plein air, certo intese ormai come un elemento qualificante, uno stilema ineludibile per un discorso fotografico professionalmente aggiornato e quindi ‘moderno’. Anche in altri passi la ricostruzione del contesto storico appariva non priva di disattenzioni, con effetti non secondari sulle considerazioni critiche conseguentemente espresse: penso alla questione del luogo in cui Vittorio Alinari avrebbe potuto conoscere ed essere influenzato dal miglior pittorialismo nascente, e alla categorica risposta “A Parigi” (468), in occasione dell’Exposition Universelle del 1900, dimenticando però l’Esposizione fiorentina dell’anno precedente; e ancora, a proposito del progetto di Vittorio dedicato a Il paesaggio italico nella Divina commedia (cfr. anche Zannier 1999a; Tamassia 2011; De Martino 2012) come giustificare (oltre a interpretazioni improbabili delle tecniche fotografiche, cfr. Fanelli, La fotografia di architettura degli Alinari, p. 96, nota) l’assenza di qualsiasi richiamo non dico al volume di identico titolo e argomento Il paesaggio italico nella Divina Commedia, di Francesco Cibele, pubblicato a Vicenza da Pastorio nel 1909, ma al precedente notissimo di Corrado Ricci, La Divina Commedia illustrata nei luoghi e nelle persone, pubblicata da Hoepli a Milano a partire dal 1896 ma edita a Firenze da quello stesso Landi che stampava anche il “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, ovviamente ricordato da Marina Miraglia, Vittorio Alinari e il paesaggio pittorialista. In Maffioli et al. 2003, pp. 253-264, e precedentemente studiato da Matteo Ceriana, Corrado Ricci e l’edizione della Divina Commedia Illustrata nei luoghi e nelle persone (1898). In Lombardini et al. 1999, pp. 135-168.
[1132] Diversa era invece l’opinione espressa da Monica Maffioli (2003, p. 22), per la quale “difficile è stabilire come avvenne la formazione fotografica di Leopoldo, ma è probabile che si sia realizzata in parte nell’ambito fiorentino (…), ma anche in seguito ad alcuni viaggi compiuti a Venezia e a Roma.”
[1133] Si vedano rispettivamente Cofano 1994; Cofano 2002; Parisio 1995; Fittipaldi 2002; Weber et al. 1994. Ancora a quel periodo risalgono occasioni di approfondimento di autori ‘minori’ già precedentemente considerati come ad esempio Furio del Furia (Guerzoni 1994), già studiato a partire da Seppilli et al. 1979; Tucci Caselli et al. 1988.
[1134] Riccardo Toffoletti, Tina Modotti: arte vita libertà. Trieste: Il Ramo d’Oro, 2001. Sulla figura dello studioso recentemente scomparso (1936-2011) si veda il catalogo della mostra prodotta dal Comitato Tina Modotti, Riccardo Toffoletti: Un mondo alla rovescia: fotografia, cultura e impegno, catalogo della mostra (Udine, 2013), a cura di Marì Domini. Udine: Forum, 2013.
[1135] Si veda Reteuna 2003a, in cui lo studio monografico si basava, oltre che sulla riedizione dei principali testi di Schiaparelli, sulla ricerca, condotta da Gian Paolo Chiorino, delle poche testimonianze superstiti di stampe originali e sulla riproposizione di tutto il materiale pubblicato sulle riviste dell’epoca per ovviare alle lacune conoscitive determinate dalla distruzione dell’archivio di questo importante esponente della cultura fotografica italiana del primo Novecento, distrutto da un bombardamento nel 1941.
[1136] Cavanna et al. 1990, in particolare alle pp. 23-24.
[1137] Wladimiro Settimelli, Studio Trombetta: cento anni di fotografia nel Molise. In Weber et al. 1994, pp. 11-51 (12).
[1138] Sull’uso e la diffusione delle numerose varianti di questa tecnica si veda l’importante contributo di Heinz K. Henisch, Bridget A. Henisch, The painted photograph, 1839-1914. Origins, techniques, aspirations. University Park, Pa.: The Pennsylvania State University Press, 1996.
[1139] Susanna Weber, Alfredo Trombetta fra fotopittura e pittorialismo. In Weber et al. 1994, pp. 55-68.
[1140] Costantini et al. 1987; Costantini 1990b; Miraglia 1990; Falzone del Barbarò et al. 1991; Cavanna 1994b; Costantini 1994.
[1141] Cavanna et al. 1996; si veda inoltre Cavanna 2000a. Non poteva infatti essere considerata monografica in senso proprio la mostra del 1974 (Nori et al. 1974), con foto di Gabinio ma tutta centrata sull’immagine urbana, mentre riguardava solo le sue fotografie di montagna quella curata da Audisio 1982.
[1142] Nori et al. 1974.
[1143] Avigdor 1981.
[1144] Pur non essendo stato oggetto di catalogazione, mai avviata per questa parte, la Galleria d’Arte Moderna possiede anche il fondo dei negativi, che in quella occasione consentì fruttuosi confronti e verifiche in sede di schedatura delle stampe e delle eventuali varianti.
[1145] Marina Miraglia, Fotografia pittorica e fotografia moderna, un passaggio difficile. In Agosti 1998, pp. 33-48.
[1146] Maria Francesca Bonetti, Il fondo fotografico di Francesco Agosti. In Agosti 1998, pp. 213-222.
[1147] Nello stesso anno venne pubblicato un volume su Giancarlo Dall’Armi (Reteuna 1998), un altro dei protagonisti della scena torinese. La disamina critica della sua produzione, frutto di dialogo continuo tra la tradizione documentaria ottocentesca e le suggestioni della stagione pittorialista, ben riconoscibili nell’ambito del ritratto in studio, venne però condotta considerando solo una parte dei fondi fotografici a lui riferibili, escludendo ad esempio tutto quanto conservato nell’Archivio Storico della Città di Torino né dotando il volume dei necessari apparati bibliografici e catalografici.
[1148] Maria Francesca Bonetti, Catalogo delle opere. In Agosti 1998, pp. 223-253.
[1149] Laura dal Prà, L’ “Album” dedicato a Vender. L’affinamento di un metodo. In Maggi 2006, pp. 7-9. Si veda anche Paolo Aldi, Note sulla tecnica bianco e nero nella fotografia di Federico Vender, ivi, pp. 29-31.
[1150] Angelo Maggi, Architettura senza architetti. L’idea di spazio nelle fotografie di Federico Vender. In Maggi 2006, pp. 11-27. La formula utilizzata per il titolo derivava da Architecture Without Architects, catalogo della mostra (New York, Museum of Modern Art, 11 novembre 1964 – 7 febbraio 1965), Bernard Rudofsky, ed. New York: The Museum of Modern Art, 1964.
[1151] In particolare l’occasione fu costituita dalla mostra antologica che gli venne dedicata nel 1991 a Riva del Garda (Damy 1991).
[1152] Cfr. Floriano Menapace, Fondo Federico Vender. In Menapace 1996, pp. 151-160. In realtà quel corpus di fototipi costituiva il materiale superstite di una radicale selezione operata dallo stesso Vender, intenzionato a “tramandare un’immagine di sé priva di possibili interpretazioni negative”, Floriano Menapace, Gli esordi di Federico Vender. In Menapace 2003, pp. 17-30 (29).
[1153] Colombo 1994.
[1154] Waibl 1997.
[1155] In funzione critico dialettica lo strumento dell’intervista era stato ampiamente utilizzato da Angelo Schwarz già negli anni Settanta del Novecento quale strumento di “ricognizione interdisciplinare sulla fotografia” (Schwarz 1983b, p. 9).
[1156] Menapace 2003.
[1157] Menapace, Gli esordi. In Menapace 2003, pp. 17-30 (29). Da quelle conversazioni e dall’esame dei materiali d’archivio derivò anche la paginetta relativa alle scelte tecniche di Vender, ma senza che ciò influisse poi sulla descrizione delle immagini pubblicate, per le quali al più veniva indicata l’eventuale discordanza tra data di ripresa e di stampa.
[1158] Questa assenza accomunava quasi tutte le successive occasioni critiche a lui dedicate.
[1159] Una precoce attenzione per le biblioteche personali di alcuni fotografi del XIX secolo era stata manifestata da “AFT”: si vedano Bianchino et al. 1986; Cavanna 1991b.
[1160] Di quelle indicazioni metodologiche si ritrovavano ancora scarsi frutti in molte delle monografie pubblicate in quel decennio, che ebbero però almeno il merito di presentare ampie antologiche di autori poco studiati o quasi dimenticati come Arturo Ghergo o Giulio Parisio, ma senza apportare novità di rilievo in termini storiografici, cfr. Pellegrino 1998; Russo 1998; Violo 2000; Schwarz 2001; Fittipaldi 2003.
[1161] Enrico Moncalvo, a cura di, Catalogo dell’archivio Carlo Mollino. Torino: Politecnico di Torino – Biblioteca centrale di Architettura. 1990, ora consultabile online all’indirizzo http://opac.biblio.polito.it/F?func=find-b-0&local_base=amoll [24 12 2014].
[1162] Nella prefazione al volume di Giovanni Brino, Carlo Mollino: architettura come autobiografia. Architettura mobili ambientazioni 1928-1973. Milano: Idea Books, 1985, Roberto Gabetti aveva ricordato che “la fotografia ha forse costituito per Mollino l’attività artistica principale subito dopo l’architettura”. Contemporaneamente Giovanni Arpino e Daniela Palazzoli, pubblicavano per i tipi di Allemandi Carlo Mollino: Polaroid, con note biografiche dovute a Fulvio Ferrari, che avrebbe curato in prima persona non solo le successive ristampe di quel volume (1999-2002-2006) ma promosso una fitta rete di iniziative editoriali, curate con il figlio Napoleone a partire dal 2002. Va purtroppo registrato il coinvolgimento di quest’ultimo anche nella pubblicazione di un nuovo, fuorviante volume, dal titolo Carlo Mollino: Un Messaggio dalla Camera Oscura (Matt 2011), che presentava un’antologia di polaroid erotiche dell’architetto torinese. Da vecchi milleriani (nel senso di Henry), non è di queste che ci possiamo dispiacere, ma della scelta del titolo ambiguamente citazionista, privo di eleganza e rispetto, che del resto ben corrispondeva all’intenzione predatoria di queste operazioni commerciali: “Un Messaggio dalla Camera Oscura is the previously unpublished collection of his Polaroid work. It doesn’t translate to anything close to racy (“A Message from Camera Obscura”), but based on the fact the content of the book is largely statuesquely posed prostitutes it makes up for it elsewhere. Mollino is Terry Richardson before the Internet and this book is his gift to all of us from the grave.” http://coolmaterial.com/media/carlo-mollino-un-messaggio-dalla-camera-oscura/ [22 11 2012].
[1163] “Per non aspettare più: ma le considerava un passo intermedio”, Roberto Gabetti, Se penso a lui, al Lieber Meister. In Burkhardt et al. 1989, pp. 7-11 (7).
[1164] Fulvio Ferrari, Doppio fondo. In Ferrari 2003, pp. 6-7. Fulvio Ferrari è stato tra gli inventori italiani del “modernariato” oltre che l’artefice della fortuna collezionistica e commerciale della produzione di Mollino, gestita anche attraverso la propria galleria torinese e, più recentemente, con l’istituzione del Museo Casa Mollino di Torino.
[1165] Piero Racanicchi, Mollino e la fotografia. In Burkhardt et al. 1989, pp. 69-104 (p. 74).
[1166] Ferrari et al. 2006. In quello stesso anno, in concomitanza con la mostra, venne riedito il Messaggio dalla camera oscura (Mollino 1949), mentre è di alcuni anni dopo il volume che ne raccoglieva l’opera fotografica (Ferrari et al. 2009).
[1167] Enrico Sturani, L’avanguardia temperata. In Audisio 1997, pp. 11-16.
[1168] Italo Zannier, Le strutture istantanee, ivi, pp. 17-22.
[1169] Enrico Moncalvo, Tableaux vivants: tra romanticismo e modernismo, ivi, pp. 78-81.
[1170] Zannier 2001. La fortuna critica di Moncalvo proseguì ancora l’anno successivo con una tesi di laurea a lui dedicata (Grenni 2002) e una mostra monografica prodotta dalla Fondazione italiana per la fotografia di Torino (Maggio Serra 2002) che privilegiava il suo lavoro professionale presentando anche le serie di particolari di carrozzeria d’automobile a suo tempo attribuite a Pininfarina, cfr. Enrico Pellegrini, a cura di, Ritmi di serie di Battista Pininfarina. Torino: Edizioni Quaderni di studio, 1966.
[1171] Italo Zannier, Lo sguardo furtivo di Riccardo Moncalvo. In Id. 2001, pp. 11-15; la consuetudine di non verificare sistematicamente le fonti comportava (a volte) madornali errori quali ad esempio l’assegnazione all’Esposizione del 1911 e non a quella ben più importante del 1902 della realizzazione del padiglione della Fotografia artistica progettato da Raimondo D’Aronco.
[1172] Dario Reteuna, Riccardo Moncalvo: la costanza dello sguardo. In Zannier 2001, pp. 17-21. Il volume che gli venne dedicato da Giuseppe Garimoldi nel 2009, di taglio meritoriamente divulgativo, era però penalizzato da un’interpretazione un poco passatista, sottolineata dal ricorso ai versi in piemontese di Nino Costa (1886-1945) posti a commento di alcune immagini e privi di qualsivoglia riferimento ad aspetti strettamente fotografici.
[1173] Costantini 1990b, pp. 53-72; Cavanna 1991c; Laura Gasparini, Archivi fotografici e fototeche in Italia: appunti e cenni storici. In Zannier et al. 1993c, pp. 225-243, che a una breve sintesi del dibattito storico faceva seguire un profilo aggiornato del quadro istituzionale italiano; Valeri 1997. Si veda ora il dossier Musées de photographies documentaires, a cura di Estelle Sohier, Olivier Lugon, Anne Lacoste, “Transbordeur – photographie histoire société”, 1 (2017), n. 1, che contiene – pur senza dichiararlo – alcuni dei contributi presentati alle giornate di studi À l’image du monde: musées et collections de documentation visuelle et sonore autour de 1900, Losanna – Ginevra, 5- 6 novembre 2015 organizzate dagli stessi Lacoste, Lugon e Sohier.
[1174] Citato in Marina Miraglia, La fortuna istituzionale della fotografia dalle origini agli inizi del Novecento. In Ceriana et al. 2000, pp. 11-21. A quella data non erano ancora studiate e note le vicende che avevano portato alla formazione dell’Archivio fotografico della Direzione generale delle Antichità e Belle Arti, antecedente al progetto di Brera. Al diffondersi della notizia il Direttore Generale Carlo Fiorilli inviò a Corrado Ricci per conto del Ministro della Pubblica Istruzione una lettera in cui ricordava appunto che “questo Ministero possiede già una raccolta bene ordinata di circa quindicimila fotografie d’oggetti d’arte e di monumenti d’Italia e dell’estero” stigmatizzando come, “certo per una svista”, gli estensori del progetto braidense avessero criticato il fatto che nessuno avesse ancora “pensato a una raccolta pubblica dove i prodotti della fotografia si trovino in numero cospicuo e con ordine disposti.”, ACS, Fondo Ministero della Pubblica Istruzione, Div. III, 1898-1907, b.195 f.4, lettera del 22 dicembre 1900.
[1175] Si vedano: Corti L. 1999 che riprendeva in forma sintetica argomenti trattati in Corti et al. 1995. Ginex 1999; Ceriana et al. 2000; Fioravanti 1990; Ginex 2001a, b; Ginex 2003.
[1176] Cavazzi et al. 1989. Il repertorio finale considerava però anche le stampe conservate in altre istituzioni.
[1177] Marina Miraglia, Note in margine alla presentazione del volume Un inglese a Roma. In Cavazzi et al. 1991, pp. 10-12.
[1178] I volumi editi furono: Angelelli et al. 1991; Romano 1994; Tamassia 1995; Romei et al. 1995.
[1179] Angelelli et al. 1991.
[1180] Corti 1992.
[1181] Lusini 1996a. Le sessioni erano dedicate a: Problemi istituzionali e normativa. Indagine delle raccolte e ricerca storica. Indagine delle raccolte e ricerca antropologica. Storia della fotografia e riviste di fotografia. Fotografia e storia della fotografia. La storia dell’arte nella storia della fotografia: fototeche e altre utenze. Catalogazione, soggettazione, computer, digitalizzazione delle immagini. Conservazione delle immagini fotografiche.
[1182] Michele Cordaro, Patrimonio culturale e fotografia: qualche problema di definizione e di competenze, ivi, pp. 12-16 (16).
[1183] Sauro Lusini, Introduzione alla sezione Catalogazione, soggettazione, computer, digitalizzazione delle immagini, ivi, pp. 266-268. Per ulteriori considerazioni ed esperienze in tema di catalogazione, immediatamente a ridosso della pubblicazione delle norme ministeriali, si vedano gli interventi pubblicati in Goti et al. 2001.
[1184] Roberto Spocci, Angela Tromellini, Ricerca e catalogazione: problemi di normalizzazione di uno “sguardo profondo”. In Lusini 1996a, pp. 273-278.
[1185] Nel 1999 l’ECPA aveva avviato un programma finalizzato alla messa a punto delle procedure per la conservazione a lungo termine di tutti i tipi di materiali fotografici e alla definizione del ruolo delle nuove tecnologie nella gestione delle collezioni. Da lì nacque il progetto SEPIA, che riuniva diciannove istituzioni di undici paesi diversi. Nonostante la pubblicazione di alcuni importanti contributi sulla catalogazione (SEPIADES – SEPIA Data Element Set) e sulla conservazione del patrimonio fotografico, il progetto venne finanziato dall’anno 2000 al 2003 e poi abbandonato.
[1186] Furono numerosissime in quegli anni le istituzioni che mostrarono attenzione per il proprio patrimonio fotografico con mostre e pubblicazioni: musei ed accademie, in particolare quella di Brera (Agosti et al. 1996; Agosti et al. 1997; Cassanelli 2000a; Ceriana et al. 2000) ma anche Archivi di Stato e Civici in Liguria (La Spezia, Genova), in Piemonte (Asti, Torino) e specialmente a Milano (Ginex 1999 e 2001a, b; Paoli 2002a), senza dimenticare le biblioteche come la Vallicelliana di Roma, il Museo nazionale della Montagna di Torino (1995, 2003), la Società Geografica Italiana a Roma (1996, 2002) e la Cineteca di Bologna (2002).
[1187] Velati 1998.
[1188] Ivi, p. 108. La mancanza di finanziamenti adeguati bloccò il progetto quasi sul nascere, ma nel 1991 vennero comunque consegnate 359 schede identificative di fondi e collezioni, che pur nella loro sinteticità e nella mancanza finale di sistematicità dell’indagine costituivano un primo profilo del patrimonio fotografico pugliese. Quella prima ricognizione costituì il punto di partenza delle indagini sull’attività fotografica condotte dagli studenti nell’ambito del Corso di Storia e Tecnica della Fotografia della Facoltà di Beni Ciulturali dell’Università di Lecce, realizzate a partire dal 1997 (Cavanna 2000b) con l’intenzione esplicita di contribuire all’allargamento della base di dati e conoscenze relative a queste vicende, presupposto essenziale per la futura costruzione di una storia dell’attività fotografica in quel territorio. Nel corso degli anni venne proposto agli studenti di svolgere indagini micro territoriali nel tentativo di perseguire scopi molteplici: dalla acquisizione di notizie e dati inediti alla sensibilizzazione nei confronti di un patrimonio storico ad elevatissimo rischio di dispersione; dalla individuazione di archivi di qualsivoglia tipologia e consistenza alla raccolta in riproduzione fotografica o digitale delle immagini reperite, da far confluire in una banca dati e immagini. L’arco cronologico preso in considerazione era compreso tra il 1839 e il secondo dopoguerra, periodo nel quale era stata individuata empiricamente una forte soluzione di continuità corrispondente all’avvio di una fase complessa di profonda mutazione del sistema fotografia anche in area pugliese sia per quanto riguardava gli aspetti propriamente professionali (formazione, strutture commerciali, modelli di comportamento e consumi, committenze) sia in relazione alla ridefinizione per immagini delle diverse culture regionali, tra neorealismo e demoantropologia, con significative rielaborazioni di impianto formale, da Franco Pinna a Mimmo Castellano, solo per citare i maggiori. Definiti i parametri temporali e spaziali si stabilì di prendere in considerazione tutte le differenti tipologie di fotografi e di produzioni fotografiche di cui si fosse in grado di documentare l’esistenza. Anche in questo caso, purtroppo, la totale indisponibilità di risorse finanziarie e di strutture di supporto da parte dell’Università impedì l’organizzazione sistematica delle ricerche e degli esiti.
[1189] Ora Istituto Nazionale Ferruccio Parri.
[1190] Per il testo del questionario si rimanda a Mignemi 1992 che offriva una prima analisi degli esiti poi compiutamente esposti in Mignemi 1995b ma in parte anticipati in Id., La Resistenza fotografata. Censimento dei materiali e spunti di ricerca, “Italia contemporanea”, 42 (1990), n. 178, marzo, pp. 19-40.
[1191] L’Istituto per la storia della Resistenza e della guerra di Liberazione in provincia di Reggio Emilia (ora ISTORECO) aveva avviato nel 1986 la catalogazione del proprio archivio fotografico, realizzata dall’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna con proprio personale, utilizzando un modello di scheda “studiato a suo tempo dall’IBC, ma poi non ufficializzato”, Anna Appari, Il Censimento fotografico, “Ricerche storiche”, 12 (1988), n. 61, dicembre, pp. 107-115. Nonostante gli esiti di quel progetto le circa 2.000 fotografie che costituiscono la fototeca dell’Istituto risultano a tutt’oggi “in via di schedatura e di informatizzazione (…). Il progetto di riordino della fototeca viene svolto in collaborazione con ISMLI e con gli Istituti ad esso collegati al fine di costituire un database su livello nazionale, consultabile per via informatica.” http://www.istoreco.re.it/default.asp?folder=Biblioteca&page=ita [ 26 05 2015]
[1192] Guarino1980. Per gli sviluppi successivi si rimanda a Santarelli 1996. Successivamente venne pubblicato un CD-ROM (Gentili 2001) che, in assenza di un archivio fotografico regionale, raccoglieva testimonianze fotografiche dei diversi aspetti della vita politica, economica, sociale della regione a partire dalla seconda metà dell’Ottocento provenienti da donazioni private, versamenti pubblici e archivi delle aziende presenti in territorio umbro.
[1193] Sauro Lusini, Introduzione alla sessione Catalogazione, soggettazione, computer, digitalizzazione delle immagini. In Lusini 1996a, pp. 266-268.
[1194] Oriana Goti, Sauro Lusini, Ipotesi per una banca dati della fotografia, “AFT”, 12 (1997), n. 25, pp. 4-8 (4).
[1195] La realizzazione, che veniva a “configurarsi in prospettiva come una banca dati della fotografia toscana”, fu avviata nel 1994 ma mai completata per mancanza di risorse economiche. In occasione del successivo convegno di Prato vennero presentati i dati raccolti, particolarmente significativi per quanto parziali e ora accessibili alla pagina http://censi.aft.it/ [25 05 2015] avvertendo opportunamente che “essendo l’indagine realizzata entro un arco di tempo piuttosto lungo, non si dovrebbe nemmeno parlare di censimento vero e proprio in quanto i dati non si riferiscono a una determinata situazione in un preciso momento.”, Oriana Goti, Censimento delle raccolte fotografiche toscane. In Goti et al. 2001, pp. 48-57.
[1196] Nel 1989 il neoistituito CRA dell’Università di Napoli per lo studio della cultura popolare, diretto da Lello Mazzacane, metteva in cantiere il censimento degli studi fotografici operanti in area meridionale nella seconda metà del XIX secolo; un’indagine che interessava la Basilicata, parte della Puglia e parte della Campania ma che non sembra aver prodotto esiti sistematici.
[1197] Risaliva al 1992 la ricognizione degli archivi fotografici presenti sul territorio condotta dal CRICD, che ebbe un primo riscontro di una sessantina di segnalazioni, poi successivamente accresciute anche con presenze di grande rilievo quali il fondo del Museo Pitré di Palermo o il fondo Capuana di Mineo, non compresi tra gli esiti della prima indagine.
[1198] Sauro Lusini, Gli archivi fotografici. Certezze e prospettive. In Menapace 1996, pp. 14-19.
[1199] Il gruppo di consulenti comprendeva Karin Einaudi, Oreste Ferrari, Benedetta Toso, Wladimiro Settimelli e Gianfranco Arciero, che parteciparono a un primo incontro nel 1995; a questi si affiancarono con segnalazioni e suggerimenti diversi anche, tra gli altri, Duccio Bigazzi, Laura Corti, Francesco Faeta, Laura Gasparini, Diego Mormorio, Paola Pallottino, Serenita Papaldo, Roberto Roda e Giuseppe Vanzella.
[1200] Guido Forti, Prefazione. In Bastianelli et al. 1997.
[1201] Alla stessa studiosa, ancora per i tipi della Scuola Normale, si doveva anche la pubblicazione dell’inventario dell’archivio di Paolo Costantini (Serena 2003).
[1202] Benassati 1990. L’iniziativa della Soprintendenza per i Beni Librari e Documentari della Regione Emilia-Romagna riproponeva l’impostazione adottata in: ICCU, ICCD, Guida alla catalogazione per autori delle stampe; premessa di Angela Vinay. Roma: ICCU, 1986. Va qui almeno richiamata la lunga attenzione delle istituzioni emiliane per la tutela e la valorizzazione del patrimonio fotografico storico, a far data almeno dal convegno di Modena del 1979 ed anche, giusto dieci anni dopo, la prima, importante iniziativa finalizzata all’aggiornamento professionale degli operatori addetti alle collezioni fotografiche delle biblioteche comunali dell’Emilia-Romagna, organizzata dall’IBC in occasione del 150° anniversario dell’invenzione della fotografia. In quella sede docenti di fama internazionale, quali Anne Cartier-Bresson, James M. Reilly e Grant Romer, tennero una serie di lezioni teorico-pratiche sull’identificazione dei procedimenti fotografici e sulle procedure di conservazione presso l’Archivio Storico Comunale di Parma, la Cineteca del Comune di Bologna e la Soprintendenza per i beni librari e documentari della Regione Emilia Romagna.
[1203] L’antecedente più autorevole di questo ‘riconoscimento’ era costituito dallo schema di disegno di legge Tutela e valorizzazione dei beni culturali prodotto dalla Commissione Papaldo nel 1970 (consultabile all’indirizzo http:/ /www.icar.beniculturali.it/ biblio/ pdf/ Studi/papaldo.pdf [25 06 2013], che all’ art. 80 riconosceva l’appartenenza del “materiale fotografico o comunque prodotto con mezzi meccanici” ai “beni bibliotecari”. Sebbene tale corrispondenza apparisse tanto problematica da rasentare il fraintendimento, tenendo conto del contesto storico e culturale in cui venne formulata rappresentava comunque il segno di una prima attenzione istituzionale per la tutela del patrimonio fotografico.
[1204] Marina Miraglia, Introduzione. In Benassati 1990, pp. 11-12.
[1205] A questo proposito si veda anche la recensione a firma di Nicola Labanca, Uno strumento di lavoro, “AFT”, 7 (1991), n.13, giugno, pp. 75-76, che pur riconoscendo che “ad oggi lo schema ISBD appare come il migliore e più sicuro standard per la trasmissione normalizzata dell’informazione”, segnalava come “la catalogazione secondo schemi biblioteconomici di unità documentarie di materiali fotografici (materiali per definizione passibili di ‘pubblicazione’ ma nella maggior parte non destinativi, se non entro ben definiti limiti) non può in linea di principio non generare problemi.” (76) Quale ulteriore conferma delle diverse attenzioni e aree di interesse che distinguevano i due principali periodici italiani ricordiamo che “Fotologia” non recensì il volume. Una ulteriore occasione di confronto su questi temi fu il convegno di poco successivo promosso da “AFT”, cfr. Lusini 1996a.
[1206] Tali difficoltà erano naturalmente ben presenti ai compilatori del Manuale che rilevavano come “la strutturazione dei dati nelle aree ISBD (…) ha reso necessaria la definizione dei concetti di autore, editore e pubblicazione, concetti bibliografici non facilmente applicabili alla fotografia” (13). La complessità dell’approccio e la chiara consapevolezza dei problemi ancora aperti nella definizione e nell’utilizzazione di una normativa che era “considerata punto di partenza e non di arrivo” erano encomiabili, ma era legittimo chiedersi se tutte le energie destinate a quello sforzo di adattamento non avrebbero potuto essere meglio impiegate per la messa a punto di un modello più appropriato, che avesse in comune con questo solo il rigore dell’analisi, fondato però sulla specificità del bene fotografia. Un primo corposo bilancio delle esperienze catalografiche condotte adottando quel tracciato e degli “innegabili benefici apportati dall’adozione di una descrizione formalizzata veicolabile attraverso la rete informativa delle biblioteche”, venne fornito da Giuseppina Benassati, Fotografia e descrizione normalizzata: l’esperienza di catalogazione promossa dalla Soprintendenza per i Beni Librari e Documentari della regione Emilia- Romagna. In Serena 1998, pp. 141-147.
[1207] Andrea Emiliani, L’archivio totale della città. In Benassati et al. 1992, pp. 9-12.
[1208] Dopo una prima ipotesi di modello catalografico messa a punto nel 1996 da un gruppo di lavoro costituito da P.Cavanna, Maria Medda (Consorzio per il Sistema Informativo CSI-Piemonte) e Diego Mondo (Regione Piemonte) il tracciato definitivo venne presentato nel 1998 dal gruppo di lavoro, coordinato da chi scrive e costituito da Gabriella Serratrice (Regione Piemonte), Donata Pesenti Campagnoni (Museo nazionale del Cinema), Barbara Bergaglio (Fondazione Italiana per la Fotografia), Elisa Fiorio (CSI Piemonte, per il progetto informatico). I contatti col gruppo di lavoro attivato dall’ICCD consentirono di pervenire alla formulazione di tracciati distinti ma integrabili, sebbene il modello concettuale piemontese prevedesse una definizione più ristretta delle tipologie identificabili sotto il termine di “fototipo” ed escludesse categoricamente la possibilità di considerare tra gli autori anche quelli dell’eventuale opera raffigurata, prescrizione questa che è stata accolta dall’ICCD solo nell’ultima (2016) versione della normativa, cfr. Gabriella Serratrice, L’elaborazione della scheda F in ambito piemontese. In Goti et al. 2001, pp. 64-66.
[1209] Maria Luisa Polichetti, Paola Callegari, Gabriele Borghini, Dalla schedatura del Documento Fotografico alla schedatura del Bene Fotografico. In Serena 1998, pp. 199-206.
[1210] Tale impostazione bipartita è stata recentemente adottata per la catalogazione della Fototeca Zeri di Bologna ma connettendo informaticamente i dati identificativi e i valori semantici, strutturati secondo i due modelli catalografici ministeriali OA (Opere d’arte) ed F (Fotografia).
[1211] La Commissione scientifica era costituita da Sandra Vasco Rocca, Gabriele Borghini, Paola Callegari, Marco Lattanzi (ICCD), Marina Miraglia, Maria Francesca Bonetti (ING), Elena Berardi, Patrizia Martini, Cristina Magliano, Lucia Di Geso, Laura Bonanni (ICCU), Maria Letizia Sagù (ACS), Giuseppina Benassati (Soprintendenza per i Beni librari della Regione Emilia Romagna), Antonio Giusa (Centro regionale di catalogazione della Regione Friuli-Venezia Giulia), Antonio di Lorenzo, Paolo Auer (ENEA) e Carlo Giovannella, del Museo dell’Immagine Fotografica di Roma, nato nel 1992 ma inattivo già nel 1999, come risulta dalle pagine sconsolatamente vuote ‘consultabili’ all’indirizzo http://www.mifav.uniroma2.it/HOME_PAGE_N/stat_hp.html [17 06 2017].
[1212] Marina Miraglia, Introduzione. In ICCD 1999, pp. 13-20 (14). Come ben presto emerse da alcune sperimentazioni condotte in contesti diversi, questa convergenza un poco forzata, verosimile esito di faticosi equilibri tra le istanze espresse dai diversi organismi coinvolti, produsse “la complessità [del tracciato] e la ridondanza di alcune informazioni”, Enzo Minervini, Un sistema di catalogazione territoriale della fotografia: il caso della Regione Lombardia. In Goti et al. 2001, pp. 35-36. Si veda anche Maria Francesca Bonetti, L’esperienza dell’Istituto Nazionale per la Grafica nella catalogazione dei beni fotografici e la definizione della scheda F. In Giusa 2003b, pp. 51-61.
[1213] Miraglia, Introduzione. In ICCD 1999, pp. 13-20 (14), corsivo di chi scrive. Tale concezione, preferita a quella più onnicomprensiva e pertinente di bene culturale, venne spinta sino al punto di dichiarare, sorprendentemente, “che ciò che caratterizza una fotografia in quanto tale è unicamente la sua autorialità, ossia la sua possibilità di trasmettere – in maniera più o meno diretta, convincente ed immediata – un’opinione, un concetto, un sentimento, un’emozione, una testimonianza dell’essere e dell’esistere che i referenti dell’immagine contestualizzano, sotto il profilo storico.” (ibidem, corsivo di chi scrive). Nonostante questa accentuazione del ruolo autoriale va ricordato che l’ICCD non ha mai avviato la realizzazione dell’Authority File Autori, cioè l’indispensabile repertorio normalizzato a corredo della Scheda “F”, pur previsto dalle normative catalografiche, necessariamente unico e centralizzato nelle sue procedure di raccolta dati e di verifica. Si vedano a questo proposito le puntuali considerazioni, ancora attuali, di Antonio Giusa, Proposte per la catalogazione e la valorizzazione del patrimonio fotografico. In Giusa 2003b, pp. 9-20. In un diverso quadro istituzionale, paradossalmente volontaristico, era già stata avanzata la proposta di realizzazione di un “Dizionario dei fotografi italiani 1839-1945” per bocca di Roberto Spocci al convegno di Prato del 2000 (Goti et al. 2001); all’iniziativa, promossa da AFT, Archivio Storico Comunale di Parma e Cineteca di Bologna, aderirono ING, Museo del Cinema di Torino, Scuola Normale Superiore di Pisa e Soprintendenza per i Beni Artistici di Bologna; uno sforzo propositivo encomiabile dovuto all’abnegazione di Spocci, Oriana Goti e Angela Tromellini, del quale si sentiva estrema necessità, ma anche questo – purtroppo – naufragato nel mare delle buone intenzioni né sino ad ora sostituito da altri strumenti.
[1214] Cavanna, Oggetti, autori, cataloghi. In Goti et al. 2001, pp. 37-42.
[1215] Berselli et al. 2000, Zannier et al. 2000.
[1216] Benassati 1990.
[1217] FINSIEL, all’epoca proprietà di Telecom, era una delle aziende leader nel settore della Information Technology.
[1218] Si veda in particolare su questo tema l’intervento di Maria Francesca Bonetti, La tutela dei beni fotografici nell’ambito della nuova disciplina dei beni culturali. In Goti et al. 2001, pp. 19-24. Alla formulazione delle parti interessanti la fotografia aveva contribuito, in qualità di membro del Comitato nazionale per lo studio e la tutela storico scientifica presso il Ministero dell’Università e della Ricerca, anche Antonio Brescacin (1943-2001), la cui collezione fotografica sarebbe poi passata alla Fondazione Italiana per la Fotografia di Torino e da questa, dopo il suo fallimento, alla Regione Piemonte.
[1219] Sauro Lusini, Prospettive per il patrimonio fotografico. In Goti et al. 2001, pp. 6-9.
[1220] Andrea Emiliani, La condizione delle raccolte fotografiche storiche, ivi, pp. 12-13.
[1221] Ancora alla data attuale “a causa di alcune incompatibilità del SIGECweb con le ultime versioni dei browser più diffusi, il corretto funzionamento della piattaforma è garantito con il browser Firefox v. 45.2 scaricabile, in versione personalizzata e non installante”, vale a dire che – tra gli altri – non è stato risolto il problema fondamentale di una costante compatibilità web. http://www.iccd.beniculturali.it/index.php?it/118/sistema-informativo-generale-del-catalogo-sigec [30 01 2018].
[1222] Enzo Minervini, Un sistema di catalogazione, cfr. supra Nota 1212.
[1223] Gabriella Serratrice, L’elaborazione della scheda F, cfr. supra Nota 1208; Barbara Bergaglio, Esperienze di applicazione della scheda F . In Goti et al. 2001, pp. 65-66.
[1224] Anita Margiotta, Archivio Fotografico Comunale di Roma: esperienze di applicazione della scheda F. In Goti et al. 2001, pp. 67-69. Dispiace, ancora distanza di tempo, l’assenza di un intervento destinato ad illustrare e discutere le esperienze, anche quantitativamente rilevanti e quindi problematiche, condotte dallo CSAC, in cui “la catalogazione delle opere resta sempre un punto di partenza irrinunciabile dato che ogni acquisizione (…) parte da una analitica catalogazione dei materiali.”, Gloria Bianchino, Novecento: un viaggio tra arte, fotografia e progetto. In Quintavalle et al. 2010, p.n.n.
[1225] Corinna Giudici, Ipotesi di lavoro per il censimento dei fondi e delle raccolte. In Goti et al. 2001, pp. 43-45. Il tema venne successivamente approfondito in occasione della mostra bolognese Lo spazio il tempo e le opere: Il catalogo del patrimonio culturale (Giudici et al. 2001) con interventi di Gabriele Borghini, Maria Francesca Bonetti e Corinna Giudici, che in quella stessa occasione delineò anche le vicende storiche e le problematiche di gestione del Gabinetto fotografico di una Soprintendenza (Giudici 2001a). La scheda per la descrizione catalografica dei fondi fotografici è stata emanata dall’ICCD nel febbraio 2016.
[1226] Il tema prevalente delle “Storie” fotografiche fu certamente quello del fascismo e della costruzione della sua immagine, affrontato con strumenti metodologici differenti: dal confronto con le fonti orali (Lanzardo 1991) alla fotografia come fonte e forma della narrazione storiografica (De Luna et al. 1997, che riprendeva analoghe produzioni della stessa casa editrice) sino all’analisi storico culturale (Luzzatto 1998, Id. 2001; Lupano 2003). Anche la pubblicazione o lo studio della documentazione fotografica del lavoro – tema ben presente anche negli studi su fotografia e industria – ebbe in quegli anni una certa attenzione (sette titoli) rivolta sia agli archivi delle Camere del Lavoro (Silingardi 1991; Resini 1992) sia più in generale al mondo operaio (Lanzardo 1999a, Id. 1999b), ma con una singolare apertura ai colletti bianchi (Melis 2000; Colombo 2001), meno al mondo contadino. Chiusa la stagione storica del femminismo e in attesa degli sviluppi della nuova storiografia di genere (in parte prefigurati nei diversi interventi raccolti in Leonardi et al. 2001) la figura e il ruolo delle donne nella società italiana visti attraverso la fotografia non sembravano interessare gli storici, se non in modo piuttosto generico; solo Salvatici 1993 parlava di Modelli femminili e immagine della donna, ma circoscritti al periodo fascista, mentre più generici risultavano Motti 2000 e Doni et al. 2001 (“L’appassionante percorso delle donne italiane nel secolo appena trascorso viene raccontato in 130 fotografie scelte da Manuela Fugenzi e commentate da Elena Doni”). In ambito quasi cronachistico sono poi almeno da ricordare le storie fotografiche di alcune grandi città della casa napoletana Intra Moenia, edite in più volumi per Napoli (1998-2007) e Roma (2002-2007) mentre uno solo venne dedicato alla Storia fotografica di Milano (Salwa et al. 2010).
[1227] Un progetto analogo, poi non realizzato, era tra quelli previsti dalla Cooperativa il Libro fotografico, fondata alla fine degli anni Sessanta del Novecento da Antonio Arcari, Tranquillo Casiraghi, Cesare Colombo e altri che aveva in programma di pubblicare anche libri con “fotografie di più fotografi italiani su un unico tema che unisca all’interesse fotografico un interesse di altra natura (…) ‘La condizione della donna in Italia’ può essere un titolo (…) [e poi] emigrazione, Scuola, Sport ecc. potrebbero essere i titoli di una collana di ‘Storia italiana’, un progetto che da tanto sta a cuore di molti di noi.”, CAF. Archivio Monti, “Fondo archivistico: Corrispondenza”, b. 3, fasc. 14, Programma, f. 5.
[1228] Cfr. Mignemi 2000b, che, diversamente dalla maggior parte dei volumi della collana, comprendeva tra le Letture consigliate anche alcuni testi sul rapporto tra guerra e fotografia. Sin dal titolo del testo introduttivo l’autore notava come ci si trovasse di fronte a “Immagini di una guerra totale”, i cui modelli iconografici erano stati progressivamente definiti già nel corso della guerra d’Etiopia, quando l’immaginario visivo si nutrì di fotografie istituzionali immediatamente assunte come modello “dai soldati che si improvvisano fotografi dilettanti; le loro immagini, spedite ai familiari, ne ripetono tutti gli aspetti, e in particolare quello spirito imperialista di celebrazione della violenza che, proprio affiorando dalle pagine degli album familiari e privati, conferma la profonda penetrazione delle parole d’ordine fasciste.” (5) L’analisi dell’iconografia fotografica del secondo conflitto mondiale (e degli anni immediatamente antecedenti) proseguiva per periodizzazioni storiche (le leggi razziali, la vigilia, la “non belligeranza”, e così via) mentre la sequenza visiva era organizzata per blocchi definiti sulla base dei produttori (La guerra raccontata: dalla propaganda ufficiale; dai giornalisti, la guerra fotografata dai soldati e dai civili), dove le stesse distinzioni introdotte nella titolazione dei capitoli (raccontata/ fotografata) evidenziavano le caratteristiche e il ruolo assegnato di volta in volta alle diverse categorie, applicando così i criteri metodologici su cui convergeva in quegli anni la riflessione di molti storici contemporaneisti e che lo stesso Mignemi avrebbe esplicitato in un successivo studio specifico (Mignemi 2003). La ricostruzione si chiudeva opportunamente con un tema particolarmente caro all’autore, e più approfonditamente affrontato nel volume sulla Resistenza (Mignemi 1995), vale a dire quello dei rischi insiti nella decontestualizzazione di “un materiale già pesantemente penalizzato dal punto di vista della propria identità” (25) in conseguenza sia dell’ “allontanarsi nel tempo degli eventi in cui erano state prodotte le immagini” sia dell’ “instaurarsi di un clima in cui non sembrava possibile mantenere l’unità della Resistenza neppure nella forma della memoria storica, in cui (…) era in atto il tentativo di cancellare un momento essenziale della nostra storia.” I modi della propaganda ufficiale erano stati affrontati anche da Raffaele Messina (1996), che aveva analizzato le strategie propagandistiche del Minculpop attraverso la stampa periodica italiana, ma senza considerare, nonostante la notevole attenzione prestata al tema, le relazioni e le influenze dei modelli editoriali proposti dalla stampa periodica tedesca e, in particolare dall’edizione italiana di “Signal”, per la quale rimando a Cavanna 1993.
[1229] Luca Criscenti, Gabriele D’Autilia, Le immagini della storia. In D’Autilia et al. 1999, pp. 61-95.
[1230] Coerentemente alla scelta di titolazione, che lasciava intendere un’intenzionalità comune e collettiva, come se quello che lì si presentava fosse un album di famiglia, anche la mentalità nel corso di un secolo era considerata monolitica e singolare.
[1231] Segnalo tra le tante: “al calotipo il primato della riproduzione d’arte”; la citazione di Francesco Negri a proposito dell’età del dagherrotipo; la celebrazione della ‘famigerata’ ripresa romana del 1849 di cui a quella data era ormai ben nota la natura di riproduzione di un dipinto (Cartocci 1998); la fondazione de La Bussola e quella del MISA ad opera di un non altrimenti noto Pietro Cavalli e così via, sino, ancora, alla totale ignoranza del lavoro di Scheuermeier e Pellis sul mondo contadino.
[1232] Si rimanda al paragrafo Archivi, fonti, dispositivi e oggetti sociali (pp. 323-326) per la discussione di un loro successivo progetto.
[1233] D’Autilia 2001, p. 221-222. Non ci pare il caso, come dire, di fare storie, ma è veramente possibile che ancora a quella data tertium non datur? Che davvero non esistesse alcuno storico che avesse dimestichezza con le fonti fotografiche, o un qualche storico della fotografia al quale potesse essere riconosciuto un minimo sindacale di conoscenze storiche? Non conosciamo dall’interno le vicende che portarono alla messa a punto e poi alla realizzazione di quel progetto, ma ci pare che la testimonianza di D’Autilia illustrasse, certo involontariamente, uno dei maggiori e più evidenti limiti di quella realizzazione.
[1234] Mignemi 2000b.
[1235] Mignemi 2003, p. 21 nota 13.
[1236] Firpo et al. 2002.
[1237] Giuseppe Pontiggia, L’Italia nella lanterna magica. In Firpo et al. 2002, I, pp. VII-X.
[1238] Fabi 1993, che sviluppava temi precedentemente esposti in Fabi 1992 ed esemplificava in modo didascalicamente chiaro un percorso di ricerca storica evidenziando le cautele poste in atto rispetto all’utilizzo della fonte fotografica. Per alcuni approfondimenti sulla produzione e sull’uso della fotografia da parte delle strutture statali e militari si vedano Bovio et al. 1978; Della Volpe 1980; Id. 1989; Greco 1995; Romano Scardaccione 1995; Fabi 1998. Al tema della produzione fotografica amatoriale, già manifestatosi nel corso della guerra di Libia (Labanca et al. 1997, Rosati 2000), avevano fatto cenno Bertelli 1979b e prima Gilardi 1976, quindi certamente la “RSCF” (Schwarz 1980). Numerose esemplificazioni in quegli anni vennero fornite da Alpago Novello 1995; Goglia et al. 1995; Pestelli 1995; Tomassini 1995-1996; Greco 1996; Brambilla et al. 1999; Miracco 2002, che illustrava il particolare caso di Giulio Aristide Sartorio; Cavanna 2003d.
[1239] Schwarz 1980; Fanti et al. 1988-1990.
[1240] Fabi 1995, p. 48.
[1241] Fabi 1998, p. 13.
[1242] Fabi 1993, pp. 37-38. Più esplicitamente avrebbe poi ricordato che “ieri come oggi, l’immagine della guerra viene trattata come un prodotto che deve essere approvato dalla committenza e riconosciuto e accettato dall’opinione pubblica. Si mostrano i capi, i luoghi conquistati (…). Non si mostrano le immagini scomode, che rimangono nei cassetti (…) insomma tutto il ‘non detto’ della fotografia di guerra, che tuttavia della guerra rappresentata dai giornali e dalle riviste nel periodo bellico costituisce l’immagine nascosta e speculare.”, Fabi 1998, p. 14. Per Mignemi 1995, p. 18, “l’immagine privata si allontana totalmente da quella ufficiale. I modelli iconografici cioè (…) non sono più imitati dalla fotografia ufficiale per quanto ‘persuasivo’ possa apparire quel modello.”
[1243] Editoriale [non firmato], “AFT”, 9 (1995), n. 22, p. 3.
[1244] Tomassini 1995-1996. Di questo importante intervento si considerano qui i soli aspetti di ordine generale, suggerendone la lettura per quanto riguarda la notevole specificità dell’analisi dei differenti aspetti di merito a proposito delle diverse modalità, forme e funzioni del rapporto, storico e storiografico tra guerra e fotografia. Delle positive conseguenze metodologiche di queste riflessioni non si trovava però traccia in altri interventi pubblicati sullo stesso periodico, come Della Volpe 1996 e Greco 1996 in cui il nesso tra le pagine diaristiche e la ricca documentazione fotografica pubblicata non solo era puramente tematico ma la sequenza della fonte originaria era stata arbitrariamente alterata per costruire un nuovo racconto per immagini.
[1245] “Il fatto che la grande guerra si avvii a diventare una ‘guerra totale’ [come la definì per primo Léon Daudet nel 1918] significa anche che la guerra diviene praticamente l’unico soggetto rappresentato; e quando non è rappresentato direttamente, resta comunque il parametro, il punto di riferimento indiretto di ogni altra rappresentazione.”, Tomassini 1995-1996, II, p. 39.
[1246] Tomassini 1995-1996, I, p. 38. In quel contesto si collocava anche il rapporto, poi più ampiamente sviluppato nella seconda parte del saggio, con la cultura fotografica e in particolare col ruolo svolto dalle riviste fotografiche italiane che per certi versi si contrapposero (seppure involontariamente) alle direttive del Comando Supremo Italiano in termini di costruzione di una strategia del consenso e del controllo che comportava non solo la censura in senso proprio, esercitata dall’apposito Ufficio, ma anche la commissione, la raccolta e la diffusione di materiale fotografico destinato a surrogare e contrastare “le decine di migliaia di immagini che circolavano dal fronte verso il paese” (Della Volpe 1980, p. 126) e che alcuni Comitati di iniziativa privata, penso a quello proposto già nel giugno del 1915 da Rodolfo Namias, fondatore e direttore de “Il Progresso Fotografico”, si proponevano di raccogliere e organizzare scientificamente, favorendo “il lavoro fotografico dei militari e specialmente ufficiali”, ma anche raccogliendone “da tutti coloro, militari, giornalisti, ecc. che hanno possibilità di eseguire fotografie nella zona di guerra.” Per la ricostruzione di queste vicende si rimanda a Greco 1995, che non coglieva però i nessi tra la proposta Namias e l’iniziativa editoriale condotta dall’editore milanese Treves in collaborazione, ma forse per diretta emanazione, del Comando Supremo. Va comunque ricordato come l’acquisizione di materiali fotografici realizzati dai militari al fronte fosse prevista anche da circolari emanate sia dal Comando Supremo sia da quello della III Armata (Della Volpe 1980). All’editoria tradizionale si affiancava poi, proseguendo una più lunga tradizione, quella fotografica di stereoscopie, si pensi alle 700 Scene ed episodi della guerra Italo- Austriaca 1915- 1918 edite da Luigi Marzocchi (1888-1970) a Milano, che contribuivano alla spettacolarizzazione e conseguente banalizzazione della guerra. Il fenomeno in realtà non era nuovo ed era già stato stigmatizzato da alcuni commentatori a proposito dei primi documentari cinematografici: “Raffinement barbare de la civilisation: la guerre dans un fauteuil!” proclamava un redattore de “L’Illustration” nel marzo del 1897 (citato in Hélène Puiseaux, Les figures de la guerre. Représentations et sensibilitès, 1839- 1996. Paris: Gallimard, 1997, p. 177) riproponendo gli echi dell’invettiva di Baudelaire del 1859, sebbene già in quegli anni altri sostenessero di amare molto lo stare “comodamente seduto nella mia poltrona (…) seguire con lo stereoscopio la marcia trionfale delle nostre truppe”, nella convinzione profonda che “guardare queste immagini – come affermava O. W. Holmes nel 1863 – assomiglia così tanto al visitare direttamente il campo di battaglia che tutte le emozioni suscitate dall’effettiva visita della triste e sordida scena, cosparsa di brandelli e rovine, ritornano a noi e noi le seppelliamo nei recessi del nostro stipo come avremmo sepolto i mutilati resti dei morti che esse rappresentano troppo vividamente.”, citato in Cavanna 1994a, corsivo di chi scrive. Nelle parole di Holmes, riferite alla guerra civile americana, si potevano riconoscere le ragioni profonde e diremmo inconsce della necessità dello straniamento e della banalizzazione spettacolare a cui sovente erano sottoposte le fotografie di guerra, anche prima del grande conflitto mondiale, cfr. Cavanna 2003d.
[1247] Tomassini 1995-1996, I, pp. 41-42; non meno interessanti alcuni sondaggi di approfondimento su altri aspetti, condotti anche con metodo quantitativo, quali la pervasività dell’immagine della guerra nei periodici italiani coevi, poi ripartita per grandi categorie di soggettazione (paesaggi di guerra, combattimenti, soldati ed eserciti, feriti e morti ecc.), delle quali venivano seguite le oscillazioni percentuali ponendole in relazione sia con gli eventi bellici sia con le funzioni retoriche di comunicazione, tali per cui, ad esempio, la rappresentazione dei combattimenti “era ancora privilegio dell’illustrazione” manuale, così come era accaduto nel corso di tutto il XIX secolo; su questi aspetti si veda anche Cavanna 1994a.
[1248] Antonelli et al. 2003, p. 27. Per altre iniziative dedicate ad archivi fotografici inerenti al primo conflitto mondiale si vedano Romano Scardaccione 1995, Fotografare la grande guerra 2001.
[1249] Alcuni cenni in Cavanna 1994a. Letture di taglio più specificamente storico vennero proposte in quegli anni da Pluviano 1989; Amodeo et al. 1990, Messina 1993a; Pluviano 1993; Leoni et al. 1997; Leoni et al. 2001, che furono tra le migliori realizzazioni in questo settore, con una buona attenzione per la pubblicazione delle fonti fotografiche, correttamente riprodotte e corredate di didascalie dettagliate, sebbene mancasse ogni indicazione relativa alle misure reali delle stampe pubblicate, non solo doverosa dal punto di vista della correttezza metodologica ma particolarmente utile in un caso come questo in cui veniva fatto sistematicamente ricorso a ingrandimenti e riduzioni degli originali.
[1250] Mignemi 1995, che inaugurava una serie di “Storie fotografiche” (della Repubblica Sociale Italiana; dell’industria automobilistica; della prigionia dei militari italiani in Grecia) pubblicate dallo stesso editore, cfr. De Luna et al. 1997; Bassignana et al. 1998; Mignemi 2005. Il cinquantenario della Resistenza fu occasione per la pubblicazione anche di altri lavori sul tema, quali il numero monografico di “ALP”, 11 (1995), n.119, marzo, La Resistenza sulle Alpi. Contributi e testimonianze di guerra partigiana, a cura di Daniele Jalla.
[1251] Al progetto di censimento andava riferito anche il contributo di Boccazzi Varotto 1996, tratto dalla sua tesi di laurea (Boccazzi Varotto 1993). Nell’articolo redatto per “AFT”, nonostante il sottotitolo, i problemi di metodo e di interpretazione dei documenti fotografici non erano esplicitati, semmai fatti emergere attraverso la ricostruzione delle iniziative propagandistiche legate all’organizzazione di mostre di argomento partigiano tra 1945 e 1946, a conferma del fatto che la comprensione della fonte fotografica non può mai prescindere dalla ricostruzione dei meccanismi di produzione, circolazione e ricezione delle immagini. Per altre ricerche e riflessioni su archivi fotografici resistenziali si vedano Cavanna 1991c, Fant 1993.
[1252] Mignemi 1992 (1988).
[1253] Claudio Pavone, La costruzione dell’immagine della lotta di resistenza. In Mignemi 1995, pp. 11-12.
[1254] “Non è infondato ritenere generalizzata in quel periodo una verticale crescita di errori nelle assegnazioni dei soggetti alle fotografie soprattutto tra il materiale riprodotto in giornali e riviste, cui mancarono nella maggior parte dei casi opportune rettifiche e precisazioni.”, Mignemi 1995, p. 44.
[1255] Castronovo 1988.
[1256] Bertelli 1979b, p. 159; meno convincente risultava l’opinione che quella industriale fosse “una fotografia che respinge per principio criteri estetici, intendendo soltanto uniformarsi ad una tecnica impersonale, che consenta quasi un’autorappresentazione delle cose” (160), interpretazione già a suo tempo stigmatizzata da Benjamin sulla scia di Brecht.
[1257] Colombo 1988, p. 15 che individuava le ragioni di quella occasionalità nella contrapposizione tra il “riferimento costante, scientificamente strutturato, con la dinamica reale” [corsivo dell’autore], che per Colombo era propria della fotografia, e l’intenzione “promozionale” tipica del contesto industriale.
[1258] Cesare de Seta, Una fabbrica e una città per una moderna cultura industriale. In Bertelli et al. 1989, pp. 9-18; Id., In 500 sull’Autostrada del Sole ascoltando Mina: l’Italia verso la piena motorizzazione. In Bertelli et al. 1990, pp. 9-16.
[1259] Carlo Bertelli, Autoscatto di un’azienda italiana. In Bertelli et al. 1989, pp. 19-27; Id., L’era dell’automobile dalla ricostruzione all’età post- industriale. In Bertelli et al. 1990, pp. 17-21.
[1260] De Seta, In 500 sull’Autostrada del Sole, cfr. supra Nota 1258, p. 15. Un altro caso di analisi dei meccanismi di costruzione dell’immagine aziendale, qui in territorio biellese, venne affrontato da Liliana Lanzardo (2001) ponendolo in relazione alle diverse figure: dai padroni ai dipendenti. Purtroppo l’analisi non andava oltre una descrizione sommariamente cronologica, priva di considerazioni storico critiche di una qualche consistenza in merito alle caratteristiche ed ai limiti di quelle (auto)rappresentazioni, e se fossero simili per tutti i soggetti considerati. Con quelle che non si potevano definire altrimenti che una serie sconfortante di ingenuità la studiosa rilevava che le fotografie dei dipendenti (in quanto tali e non come forza lavoro) “non si trovano se non in casi davvero eccezionali negli archivi delle aziende”(12), proponendo allo scopo di setacciare gli archivi familiari ma dimenticando quelli sindacali. Notava inoltre che delle fotografie di gruppo si potevano ancora trovare esemplari “in quantità consistente (…) perché probabilmente ne venivano stampate più copie” (14), ma senza riflettere poi a sufficienza sulle ragioni sociali e politiche di questa strategia di rappresentazione.
[1261] Si veda quale caratteristico esempio di questo corto circuito storico critico un’affermazione quale: “Dalle fotografie risulta che la dimensione produttiva è ancora quella dell’azienda semifamiliare o dell’officina: sono assenti i primi piani sugli ingranaggi” (15).
[1262] Un’analoga impostazione restrittiva avrebbe poi caratterizzato anche il volume prodotto da CGIL 1988.
[1263] Testimonianze fotografiche del lavoro contadino furono presentate e discusse in Persico Dosimo 1982; Betri 1983; Roda 1985.
[1264] A. C. Quintavalle, Il lavoro e la fotografia. In Accornero et al. 1981, pp. 311-333; ora In Id. 1983, pp. 53-92.
[1265] Ivi, p. 314. Questa matrice classista si manifestava chiaramente, seppure con un rapporto inverso e con modalità differenti, anche quando erano gli amateur a fotografare i contadini, in una stagione della storia fotografica del lavoro che qui non venne affrontata. Altri repertori di immagini di lavoro vennero pubblicati in Colombo et al. 1979; Silingardi 1991; Resini 1992.
[1266] Bigazzi 1996, p. 50. Una versione lievemente ridotta del saggio era già stata pubblicato in “Archivi e Imprese” (1993); nuova ediz. Bigazzi 2013.
[1267] Quintavalle 1983, p. XVII.
[1268] Rebuzzini 1977; Antonetto et al.1980; Id. 1983; Malavolti 1994; Contini 1990; Verwiebe 1995. Scarsissima anche l’attenzione per i produttori italiani di materiali sensibili, rivolta quasi esclusivamente alla Ferrania e sviluppata nell’ambito dello stesso gruppo industriale: Salmoiraghi 1982; Colombo 1987; Id. 1989; Bezzola 1994; Colombo 2004; Boldrini 2006.
[1269] Cfr. Roda 1999.
[1270] Ricordiamo a questo proposito che la redazione di “RSCF” aveva in progetto tre numeri dedicati al tema, poi non realizzati in seguito alla chiusura della rivista, cfr. Schwarz 1996, mentre andava ascritto a uno sfruttamento commerciale di quello stesso clima politico la produzione di una mostra come la milanese Le classi subalterne nell’obiettivo degli Alinari (Ciruzzi et al. 1979).
[1271] Si vedano a titolo orientativo Faeta 1980; Chiozzi 1996 e gli altri interventi compresi nella sessione Indagine delle raccolte fotografiche e ricerca antropologica in: Lusini 1996a; Faeta 2006, pp. 62-73, e la bibliografia ivi citata.
[1272] Miraglia 1981b.
[1273] Contini 1993, p. 11.
[1274] Ivi, p. 18. Si vedano anche le considerazioni espresse da Giovanni Contini, Salvaguardia e valorizzazione degli archivi fotografici di famiglia. In Goti et al. 2001, pp. 25-27.
[1275] “L’esempio della fotografia sociale americana – scriveva la studiosa – dovette giocare un ruolo non indifferente della definizione e nella puntualizzazione delle sue scelte” e inoltre “egli appare particolarmente vicino ad August Sander”, Marina Miraglia, Convenzionalità dei linguaggi. Paul Scheuermeier e la fotografia come ‘rilevamento de visu”. In Miraglia 1981b, ora in Miraglia 2011, pp. 209-223 (212). Ciò che qui importa sottolineare non è tanto la difficile posizione critica che portava a collocare quel lavoro fotografico in un ambito contemporaneamente prossimo a Riis e Sander, quanto il problema metodologico determinato dalla messa in campo di accostamenti non sottoposti ad alcuna verifica, tale almeno da tradurre in qualcosa di più solido di una fascinosa ipotesi la presunta conoscenza del lavoro di quegli autori da parte dello stesso Scheuermeier.
[1276] Elisabetta Silvestrini, La fotografia di argomento demologico in area svizzera. In Kezich et al. 1995, pp. 42-48.
[1277] Roda 1999, p. 131. Molti anni dopo anche Scianna avrebbe condiviso l’opinione di Roda riconoscendo che quella presunta filiazione “nonostante l’autorevolezza di chi l’ha proposta mi sembra piuttosto campata in aria.”, Ferdinando Scianna, Il film muto di Scheuermeier. In Caltagirone et al. 2007, pp. 45-47 (45); per ulteriori riferimenti si veda il paragrafo Fotografia e scienze dell’uomo (pp. 333-337).
[1278] Italo Zannier, Voci e immagini nel progetto di Ugo Pellis. In Ellero et al. 1999, pp. 5-8, secondo il quale le immagini di Pellis rivelerebbero “una stupefacente e innata [corsivo di chi scrive] intelligenza visiva, oltre tutto ancorata alla cultura fotografica del suo tempo: basti pensare ad August Sander o a Paul Strand, e ad André Kertesz, se si considerano le ardite e allora inconsuete vedute dall’alto; persino un Cartier-Bresson sembra rivelarsi nelle sue istantanee di strada (…).” Ma “probabilmente Pellis non conosceva l’opera di Sander e neppure quella, oltre tutto di là da venire, di Kertész o di Cartier-Bresson” (7). Zannier fu anche il relatore della tesi di laurea di Baccaro 1999.
[1279] Roda 1999, p. 133.
[1280] Particolarmente illuminante in tal senso l’esperienza problematica descritta in modo esplicito e chiaro da Liliana Lanzardo, Lo storico e le fotografie. In Lusini 1996a, pp. 68-74, a proposito di una sua ricerca storica sull’immagine del fascismo condotta accostando le fonti fotografiche con le metodiche della storia orale.
[1281] Luigi Tomassini, Ricerca storica e documenti fotografici. In Lusini 1996a, pp. 44-49. Già Luigi Goglia (1989) affrontando il tema del colonialismo aveva parlato di “giacimento fotografico [che] attende soltanto di essere scovato, esaminato, studiato perché possa essere correttamente adoperato ai fini della storia e, affinché questo accada, è necessario che gli storici prendano coscienza delle nuove possibilità di ricerca e si preparino ad appropriarsi della fotografia come è accaduto nel tempo per le fonti tradizionali e anche per le fonti orali.” (9) Tale situazione venne retrospettivamente confermata anche da Silvana Palma ricordando che anche nel contesto delle ricerche di africanistica l’attenzione per la fotografia come fonte documentaria non risalisse a prima del 1988 neppure in ambito internazionale (cfr. Photographs as sources for African history: Papers presented at the workshop held at the School for Oriental and African Studies, London, May 12-13 1988, Andrew Roberts, ed. London: School for Oriental and African Studies, 1988) e che solo nel 1992 si sarebbe tenuto a Napoli il convegno Fotografia e storia dell’Africa, cfr. S. Palma, Ricerca africanistica e fonti fotografiche. Il recupero di due collezioni italiane. In Serena 1998, pp. 185-196; Fotografia e storia dell’Africa, atti del Convegno internazionale (Napoli – Roma 9-11 settembre 1992), a cura di Alessandro Triulzi. Napoli: Istituto Universitario Orientale, 1995. Per avere concreta misura dell’enorme sviluppo della ricerca negli anni successivi si vedano Massimo Zaccaria, a cura di, Photography and African Studies: A Bibliography. Pavia: Dipartimento di Studi Politico Sociali, 2001, che registrava ben 1503 titoli pubblicati a scala internazionale; Richard Vokes, ed., Photography in Africa: Ethnographic Perspectives. Woolbridge: James Currey, 2012
[1282] Una riflessione sulla storiografia fotografica venne svolta da Nicola Labanca, Collezioni, fondi, archivi fotografici: rileggendo le storie generali della fotografia. In Lusini 1996a, pp. 75-79, a partire dalla considerazione che “i pubblicisti e gli studiosi che si sono interessati alla storia della fotografia (…) hanno in qualche modo risentito dello stato di conservazione e di organizzazione dei fondi fotografici su cui si sono basati”. Per questa ragione l’autore riteneva possibile identificare “nelle pubblicazioni e negli studi di quest’ultimo cinquantennio delle vere e proprie fasi, a seconda del mutamento della base documentaria sulla quale essi sono stati costruiti.” (77). Considerazione importante e necessaria ma non sufficiente a illuminare l’equivoco storiografico di fondo: il limite di quelle opere (le maggiori della prima metà del Novecento) non risiedeva tanto nei condizionamenti posti dal riferirsi ad una o poche fonti archivistiche o collezionistiche ma nel fondare su quelle una storiografia che si pretendeva generale e assoluta: un canone.
[1283] Luigi Tomassini, Ricerca storica e documenti fotografici. In Lusini 1996a, p. 45; A questo tema era dedicato l’intervento di Giovanni Contini, Archivi fotografici di famiglia e storia orale, ivi, pp. 65-67, da leggersi in parallelo con i contributi dello stesso autore comparsi in vari numeri di “AFT”.
[1284] Tomassini, Ricerca storica e documenti fotografici, p. 47, corsivi dell’autore. Questa trasparenza referenziale, innegabile quanto epistemologicamente rischiosa è stata recentemente ribadita in Tomassini 2009e, p. 370, nota 15.
[1285] “to analyze the experience of Rome urban environments (…) historical photographs are non-selective; they explicitly and truthfully deal with urban appearance and thus allow us for experiential reconstruction”, Favreo 1992, p. 356; una manifestazione di empirismo piuttosto ingenuo anche dal punto di vista storico, certo non attenuato dalla constatazione che “clearly, to be effective tools, historical photographs must be interpreted by knowledgeable viewers.” (361).
[1286] Paolo Chiozzi, La fotografia, gli archivi fotografici e la ricerca etno-antropologica. In Lusini 1996a, pp. 126-130 (126), corsivo dell’autore.
[1287] Jay Ruby, Seeing trough pictures: the Anthropology of Photography, “Camera Lucida: The Journal of Photographic Criticism”, 3 (1981), Spring, pp. 19-32; pubblicato anche in “Critical Arts: South-North Cultural and Media Studies”, 1 (1981), n. 4, pp. 3-16.
[1288] Chiozzi, La fotografia, gli archivi fotografici, cfr. supra Nota 1286, p. 128. Quale esempio di uno specifico caso di studio in cui vennero adottate quelle prescrizioni metodologiche si veda Cavanna 2000c, relativo alla ricostruzione iconografica della figura della mondina, intesa dapprima come protagonista politica e icona delle lotte sociali tra XIX e XX secolo poi come oggetto del desiderio maschile, incarnato dalla Silvana Mangano di Riso amaro. L’indagine prendeva in considerazione sia i modelli comportamentali e iconografici di riferimento sia le diverse scritture fotografiche adottate nella loro rappresentazione individuale e di gruppo, accompagnando a queste riflessioni quelle altrettanto importanti (e condizionanti la ricerca) a proposito delle fonti; considerando cioè, accanto alle occasioni e alle modalità specifiche di rappresentazione di quel soggetto quelle relative alle occasioni di pubblicazione e di conservazione in senso lato archivistica. Ne risultava confermata la necessità della consapevolezza che in questo genere di ricerche ancor più che in altre, i materiali esaminati non possano essere intesti tout court quali elementi per una ricomposizione esaustiva (tantomeno fedele) del formarsi di una tradizione iconografica, “ma solo, in modo più pericolosamente complesso e sfuggente, quasi un effetto di memoria, il risultato selettivo e occasionale di iniziative individuali o istituzionali di conservazione attiva o passiva di documenti della propria storia (…) o il semplice permanere inerte di materiali destinati a una obsolescenza che è di contenuto ancor prima che fisica.” (23-24).
[1289] J.C. Scherer, Historical Photographs as Anthropological Documents: A Retrospect, “Visual Anthropology”, 3 (1990), n. 2-3, pp. 131-155. Anche l’ intervento di Francesco Faeta, Sul metodo nella fotografia etnografica. In Lusini 1996a, pp. 131-140, pur incentrato sulle ricerche con la fotografia, illuminava e dava forma alle cautele enunciate da Chiozzi, in parte condivise anche dall’ampio e articolato intervento di Alberto Baldi, Foto familiare e ricerca antropologica: un tentativo di analisi, ivi, pp. 147-169.
[1290] Per Luigi Goglia quell’atteggiamento rappresentava un pesante retaggio: “gli storici (…) hanno un atteggiamento essenzialmente negativo nei confronti della fotografia come fonte storica [perché] probabilmente non riconoscono alla fotografia nessuna dignità culturale e arrivano al massimo ad ammetterla come illustrazione.”, Goglia 1989, p. 11.
[1291] Luciana Rossi, La fotografia storica: da documentazione a documento. In Lusini 1996a, pp. 406-407.
[1292] Bigazzi 1996, p. 54.
[1293] Adolfo Mignemi, La fotografia come fonte i suoi criteri di edizione: l’esperienza degli istituti storici della Resistenza. In Lusini 1996a, pp. 113-118; altre indicazioni metodologiche vennero fornite da Luigi Goglia, Brevi considerazioni sull’album fotografico privato come documento storico, ivi, pp. 119-121. Un seminario tenutosi a Bologna nel giugno del 1992 tra i responsabili degli archivi fotografici degli Istituti per la storia della Resistenza aveva già portato alla definizione dei criteri di edizione (a due livelli: critica e essenziale) delle immagini fotografiche.
[1294] Fabi 1993, p. 38. Un’esemplare realizzazione in tal senso avrebbe preso forma, dieci anni più tardi nel progetto di ricerca dedicato al “popolo scomparso” del Trentino durante la prima guerra mondiale (Antonelli et al. 2003).
[1295] Giuseppe Papagno, La fotografia Alinari come fonte storica. In Maffioli et al. 2003, pp. 321-329.
[1296] Dell’articoletto di Papagno, evidentemente sfuggito all’acribia dei curatori, risultava difficile cogliere non dico la necessità ma neppure l’utilità, mentre ne era più che apprezzabile l’amenità derivante da una serie impressionante di refusi.
[1297] Tomassini 1995-1996; il saggio derivava dai seminari sull’uso della fotografia come fonte per la storia condotti dallo studioso presso l’Università di Firenze.
[1298] Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano. Bari: Laterza, 1961, p. 23; la stesura del saggio risaliva al 1955.
[1299] Giovanni Romano, Studi sul paesaggio. Torino: Einaudi, 1978, p. xxiv, da integrare con la sua Introduzione alla seconda edizione dello stesso volume, Torino: Einaudi, 1991.
[1300] Giovanni Romano, Iconografia e riconoscibilità, “Casabella”, 55 (1991), n.575/576, gennaio, pp. 25-27.
[1301] Witold Kula, Riflessioni sulla storia. Venezia: Marsilio, 1990 (1958) p. 31, citato in De Luna 2001, p. 137.
[1302] Ginex 2001c, p. 901. Più in particolare, per quanto riguardava la storiografia fotografica, riconosceva che le consuete periodizzazioni su base tecnologica “risultano d’ostacolo a una ricerca più avanzata, che partendo da quella corretta periodizzazione voglia indagare altri aspetti della storia della fotografia, spezzando il cerchio cronologia-tecnica-fotografi e fotografie esemplari. Ecco dunque che la necessità di una ricerca innovativa che consideri fonti inedite, o si concentri nello studio dell’attività professionale dei fotografi, o ancora la necessità metodologica e non più procrastinabile del recupero di fondi fotografici locali si pone oggi come basilare contributo alla scrittura di una globale storia della fotografia italiana.” (902).
[1303] Mignemi 1995.
[1304] Claudio Pavone, La costruzione dell’immagine della lotta di resistenza. In Mignemi 1995, pp. 11-12. Pavone aveva da poco pubblicato uno dei più innovativi e discussi studi storici sulla Resistenza: Una guerra civile: saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Torino: Bollati Boringhieri, 1991.
[1305] Marc Ferro, Cinéma et histoire. Paris: Denoël-Gonthier, 1977 (ed. it. Cinema e storia: linee per una ricerca. Milano: Feltrinelli, 1979). Su questa fortunata categoria interpretativa, si vedano – per quanto riguarda l’Italia – i saggi di Peppino Ortoleva, Scene dal passato: cinema e storia. Torino: Loescher, 1991, che esprimeva riserve e indicava la necessità di una più accurata definizione del concetto e dei suoi meccanismi, più recentemente ribadite anche in Id., Oggetti che parlano, soggetti di storia. Note per l’intervento al seminario Attanti attori agenti, Torino 3 dicembre 2008, online: http:// www.thinktag.it/ system/ files/ 408/ bozza_inter.doc?1292010946 [04 09 2018] da confrontare con la concezione più omnicomprensiva adottata da Giovanni De Luna, L’occhio e l’orecchio dello storico: le fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della storia, Firenze: La Nuova Italia, 1993; De Luna, 2001; Id., Prefazione all’opera. In De Luna et al. 2005/2006, I, pp. XXXV-XXXIX. Ricordo qui che questo concetto venne assunto nel titolo del volume collettaneo curato da Michel Poivert, L’événement: les images comme acteurs de l’histoire. Paris: Hazan – Jeu de Paume, 2007, pubblicato in occasione della mostra omonima, presentata al Jeu de Paume, 16 gennaio – 1 aprile 2007, a proposito del quale si veda la recensione critica di Marta Braun, “Etudes photographiques”, 21 decembre 2007, online: http://etudesphotographiques.revues.org/1703 [28 06 2016].
[1306] Arturo Carlo Quintavalle, Il lavoro e la fotografia. In Accornero et al. 1981, pp. 311-333 (317); ora In Id. 1983, pp. 53-92.
[1307] L’archivio fotografico come fonte per la storia, Ravenna, 24 novembre 2000, promosso dalla Federazione delle Cooperative di Ravenna e coordinato da Lucio Gambi e Luigi Tomassini (Cottignoli 2002) partiva dall’esperienza di recupero, restauro e catalogazione del materiale fotografico della Federazione per affrontare le questioni poste dall’uso “della fotografia come fonte storica, e quindi il contributo che essa può dare alla comprensione e alla ricostruzione del passato, presentando davanti ai nostri occhi persone, cose, ambienti, con un forte valore evocativo, ma anche rivelando circostanze e situazioni, con un notevole valore euristico” (dal comunicato stampa). Ricordiamo inoltre il panel coordinato da Elisabetta Bini Le fonti fotografiche nella ricerca storica, in occasione del convegno SISSCO: Cantieri di Storia, II, La storia contemporanea in Italia oggi: linee di tendenza e orientamenti di ricerca, Lecce: 25-27 settembre 2003. A quello specifico interesse era dovuto anche il dossier Fotografie e Storia (poi Storia e Fotografia), curato dalla stessa Bini e compreso nel sito della SISSCO. Quelle pagine web, destinate a ospitare contributi metodologici, a partire dalla riconosciuta “difficoltà con cui gli storici utilizzano le fonti fotografiche”, Elisabetta Bini, Il dossier SISSCO su Fotografie e Storia. In Lusini 2007, pp. 111-112, non sono state più incrementate dopo il 2005. http:// www.sissco.it/ articoli/fotografia-e-storia-1294/ [29 05 2015].
[1308] Gilardi 1976; Keim 1976; Freund 1976 e Lemagny et al. 1988 risultavano i testi maggiormente citati.
[1309] D’Autilia 2001, p. 3, corsivi di chi scrive.
[1310] Se prestiamo fede a quanto affermato dall’autore a p. 15, che la storia della fotografia era a quella data “una disciplina che, in quanto tale, forse non ha ancora visto la luce”, allora dobbiamo ritenere che questo richiamo equivalesse a riconoscerne l’esistenza almeno come genere letterario.
[1311] Mignemi 2003.
[1312] Pavone, La costruzione dell’immagine; cfr. supra Nota 1304.
[1313] Mignemi 2003, p. 96. Precise indicazioni in tal senso, non ricordate da Mignemi, erano già state fornite da Arturo Carlo Quintavalle, Il lavoro e la fotografia. In Accornero et al. 1981, pp. 311-333, in particolare alle pp. 331-333 nel paragrafo “Come leggere queste fotografie”, in cui analizzava i diversi slittamenti di senso e di statuto dell’immagine nelle varie fasi produttive, sino al montaggio per il volume a stampa e alle successive modalità di ricezione da parte di diverse categorie di lettori.
[1314] Ivi, pp. 38-50. I due numeri erano rispettivamente intitolati Linguaggio e fotografia, “Progresso Fotografico, 84 (1977), n.12, dicembre e Fotografie e stile, “Progresso Fotografico, 85 (1978), n.2, febbraio. Il ricorso esclusivo a queste fonti credo fosse la più efficace testimonianza non tanto dei limiti dell’autore quanto degli invalicabili confini che ancora a quella data separavano i diversi e incomunicanti ambiti di ricerca e di riflessione teorica, tali da far reciprocamente ignorare anche i testi fondamentali e di riferimento. Ciò che stupiva, in termini più generali, era che si sentisse la necessità di elaborare uno strumento didattico di livello così discontinuo, nel quale raffinati elementi di riflessione metodologica convivevano con annotazioni di carattere men che divulgativo, pur essendo rivolte allo specializzato pubblico dei contemporaneisti italiani. Quella “timidezza da parte della ricerca storica nell’utilizzo delle fonti fotografiche”, quella condizione generale di disorientamento era confermata anche da Elisabetta Bini che ricordava come “pochi, pochissimi storici utilizzano la fotografia come fonte. E ciò che accade spesso è che il tentativo di utilizzare la fotografia come fonte si traduca nella scrittura di ‘Storie fotografiche di…’, in cui la fotografia viene in qualche modo isolata rispetto ad altre fonti storiche” nonostante “l’assoluta centralità della fotografia nel mondo contemporaneo, e dunque la sua importanza come fonte storica per la storia contemporanea. (…) Per molti versi, lo storico che voglia utilizzare la fonte fotografica deve porsi le stesse domande che si pone quando analizza qualsiasi altro tipo di fonte: siamo di fronte a una fonte attendibile? Chi ha prodotto la fotografia? Cosa ci comunica l’immagine? In che contesto è stata fatta circolare?”, Elisabetta Bini, La fotografia come fonte storica, relazione presentata al seminario Quale lente per lo storico? Riflessioni sul rapporto fra storia e mezzi di comunicazione di massa, Istituto Gramsci Emilia-Romagna, 20 Ottobre 2005, consultabile all’indirizzo: www.sissco.it/ download/ dossiers/elisabetta_bini.doc [25 05 2015].
[1315] Enrico Guidoni, Roma in cartolina: i monumenti e la città tra cronaca e immagine (1895- 1945). Roma: Kappa, 1984. Ricordiamo che l’uso della cartolina quale fonte documentaria era consueto per studiosi tanto diversi quanto Alfredo d’Andrade, Le Corbusier o Sigfried Giedion per fare alcuni nomi tra i tanti.
[1316] Fanelli 1998b, p. 7. In realtà gia Quintavalle ( 1977a, p. 64) aveva richiamato la necessità di considerarle come un “fatto di primo piano se ci si sofferma sulla funzione profondamente condizionante per la strutturazione delle aspettative dei riceventi, e quindi come indice di una lettura che, ormai, non potrà condursi che secondo schemi e canoni fissati.” A prescindere dalle motivazioni commerciali degli editori restano a mio parere da comprendere le ragioni per cui il pubblico acquistasse cartoline raffiguranti scorci urbani ed edifici sostanzialmente anonimi e prevalentemente contemporanei. Perché comprare la cartolina raffigurante un condominio di piccola periferia urbana a meno che non fosse la propria residenza? Su questi temi si veda anche Magnani 2007 che si interrogava – seppur rapidamente – proprio sull’assenza di gerarchie rappresentative e sul rapporto tra scelta dei soggetti e definizione o ridefinizione dell’identità di un territorio.
[1317] Fanelli 2002, p. 533.
[1318] Fanelli et al. 2003, p. 11.
[1319] Cfr. Mazza 1996; Gilberto Bedini, Giovanni Fanelli, a cura di, Lucca iconografia della città, con la collaborazione di Fabrizio Lucchesi, Emanuele Masiello, Barbara Mazza. Lucca: Centro Studi sull’arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, 1998.
[1320] Gli obiettivi del progetto si tradussero anche in una precisa forma editoriale, con la netta separazione tra testi (comprese le schede) e immagini, pubblicate avendo come solo corredo l’individuazione topografica e il codice di riferimento. Questa soluzione favoriva certo il confronto visuale necessario per comprendere le trasformazioni urbane ma rese difficoltosa quando non impraticabile una lettura propriamente fotografica delle 1456 immagini pubblicate, esplicitata dagli autori nelle “Note critiche” a corredo di ciascuna scheda, nelle quali si erano proposti di “individuare e commentare sia le valenze dell’immagine rispetto all’obiettivo della documentazione della storia e dello stato dei manufatti architettonici e degli spazi urbani sia la specificità della interpretazione delle caratteristiche delle architetture e dello spazio urbano.” (90) Oltre al vastissimo repertorio iconografico il volume conteneva anche le note biografiche di quarantotto fotografi, circa un terzo dei quali non locali, e un elenco nominativo di editori e stampatori di cartoline postali fotografiche.
La ridotta attenzione agli aspetti più propriamente fotografici rendeva forse ragione dell’uso di alcune discutibili terminologie, quali la definizione di “effetto di solarizzazione” a proposito dei problemi di sovraesposizione delle parti relative ai cieli del “negativo di vetro con gelatina al collodio” [sic], (Fanelli et al. 2003, p. 22) o l’inclusione impropria di Federico Faruffini (morto nel 1869) tra gli amateur legati all’avvento dell’istantanea (ivi, p. 38).
[1321] “[Photography] must be part of the history of all picturemaking”, Carl Chiarenza, Notes Toward an Integrated History of Picturemaking, “Afterimage”, 7 (1979), n. 1-2, Summer, pp. 35-41 (41).
[1322] “The politics of photographic truth”, Richard Bolton, a cura di, The Contest of Meaning. Critical Histories of Photography. Cambridge Massachusetts: The MIT Press, 1989, dal cui sommario e dall’Introduzione (pp. IX-XIX) sono tratte le frasi citate. Nello stesso anno centocinquantenario, a ottobre, la ESHPh aveva organizzato a Goteborg il convegno “The Histories of Photography: Evaluating the first 150 years of the medium’s historiography, anticipating the histories to come”.
[1323] “photography’s shifting social roles”, Anne McCauley, Guest Editorial, “History of Photography”, 21 (1997), n. 2, pp. 85-86. Meno sensibili alle questioni storiografiche ma di grande merito per le varie intersezioni disciplinari rivolte anche alla ridefinizione dello statuto delle fotografie, furono gli interventi presentati al convegno Forme e modelli: La fotografia come modo di conoscenza, promosso nel 2010 dalla SISF, programmaticamente contrassegnato da un’ampia interdisciplinarità dei contributi. “Questa interdisciplinarità, tuttavia, (…) non è dettata (…) da qualche illuminata, e benevola, disposizione al dialogo e al confronto dei singoli studiosi o delle singole istituzioni. Essa nasce, a nostro avviso, dalla Fotografia stessa. É l’oggetto dei nostri studi che, nella sua irrequieta e polimorfa natura, postula un approccio conoscitivo complesso e interrelato, come ormai sempre più spesso viene riconosciuto. È la Fotografia che resta opaca e reclusa in una sterile, quanto ripetitiva, anamnesi di stampo filologico o in una mera esegesi formale, se non la si apre alle complesse interazioni corpo (mente)-mondo di cui è prodotto e che, a sua volta, produce. In questa prospettiva la sfida rappresentata dal convegno è consistita nel ridimensionare ogni forma di ontologismo della Fotografia (con la effe maiuscola), per parlare di fotografie (con la effe minuscola), mettendo a confronto concreti oggetti iconici (ogni volta che ciò è stato possibile), con uomini concreti che fanno cose concrete (per ricordare una nota formula dell’antropologia critica recente). È consistita, più ravvicinatamene, nel fare dialogare, davanti all’immagine e per il suo tramite, un approccio storico avvertito, con altri, legati alla dimensione sociale, a quella antropologica, a quella semiotica-pragmatica, a quella delle scienze cognitive e della neuroestetica.”, Francesco Faeta, Antonino Pennisi, Introduzione. In Faeta et al. 2013, pp. I-V (p. II).
[1324] “But even who is qualified to pose them, and what criteria are used to judge the results.”, Douglas R. Nickel, History of photography: The state of research, “The Art Bulletin”, 83 (2001), n. 3, September, pp. 548-558, che però di fatto stigmatizzava queste tendenze, coerentemente alla sede di pubblicazione: “The current state of research has thrown out the baby with the bathwater, tacitly associating art photography with formalism and making its choice as a topic of research appear unfashionable, even as the cultural ascension of this type of object outside the academy continues unabated.”
[1325] “Photography as such has no identity. Its status as a technology varies with the power relations which invest it. Its nature as a practice depends on the institutions and agents which define it and set it to work …. Its history has no unity. It is a flickering across a field of institutional spaces.”, John Tagg, God’s Sanitary Law: Slum Clearance and Photography. In Id., The Burden of Representation: Essays on Photographies and Histories. Amherst: University of Massachusetts Press, 1988, p. 118.
[1326] [A history that] “looks at photography, not just at art photographs [that] breaks free from an evolutionary narrative (…) traces the journey of an image, as well as its origin (…) acknowledges that photographs have multiple manifestations and are objects as well as images [and] sees beyond Europe and the United States, and is interested in more than the creative efforts of a few white men.”, Geoffrey Batchen, Proem, “Afterimage”, 29 (2002), n.6, May-June, p. 3, citato in Ya’ara Gil Glazer, A new kind of history? The challenges of contemporary histories of photography, “Journal of Art Historiography”, 3 (2010), December, pp. 1-19. On line: http://journaldatabase.info/articles/new_kind_history_challenges.html [17 10 2015]. Si vedano anche i saggi contenuti in Christopher Pinney, Nicolas Peterson, eds., Photography’s Other Histories. Durham and London: Duke University Press, 2003.
[1327] “Autodidacts (…) make up the bulk of photohistorians”, Mary Warner Marien, Photography. A Cultural History. New York: Harry N. Abrams, 2002., p. X. I soli cenni alla situazione italiana erano costituiti da generici richiami a Von Gloeden e Bragaglia.
[1328] Fontcuberta 2003, che raccoglieva i contributi di diversi studiosi, alcuni dei quali presentati al simposio The History of Photography Revisited, tenutosi a Barcellona in occasione della Primavera Fotogràfica del 2000.
[1329] Ian Jeffrey, [s.t.], ivi, pp. 18-28.
[1330] “There is no history of photography, nor any singularisation of the plurality of the history of photography that could lead to a history of the medium”, Hubertus von Amelunxen, The Photography of History – The History of Photography: Some Peripheral Observations. In Fontcuberta 2003, pp. 218-222 (219).
[1331] “A science of the image, one that could not be classified within any of the existing humanistic disciplines and would therefore, like psychoanalysis, need to be regarded as a meta science.”, ivi, p. 222.
[1332] “A history that I am tempted to call a history of the photographic”, André Gunthert, Photography, Laboratory of a History of Modernity. In Fontcuberta 2003, pp. 224-235 (227), corsivo dell’autore.
[1333] “Little attention has been paid to how the imperative to define photography’s “essence” – formally, semiotically, or phenomenologically – brackets out discussions of epistemology, that is, how such essences have been (and continue to be) constructed socially, discursively, as de facto apologia for certain preferred stylistic approaches or other ideological agendas”, Nickel, History of photography, 2001, cfr. supra Nota 1324.
[1334] Mi riferisco al tema del citato colloquio internazionale Photographie, les nouveaux enjeux de l’histoire del 2003 (cfr.supra Nota 42) e a quello scelto per il Mois de la Photo di Parigi dell’anno successivo: Histoire, histoires: du Document à la Fiction. Anche in Italia, seppure in modo necessariamente meno serrato, non mancarono alcune occasioni di confronto e riflessione, quali il convegno di Prato del 2006 promosso per celebrare i vent’anni dalla fondazione di “AFT”; rimando in particolare ai contributi presentati nel corso della prima sessione Approcci disciplinari e tendenze della ricerca, cfr. Lusini 2007, pp. 18-59. Non è questa l’occasione né la sede per restituire un panorama esaustivo delle iniziative e delle pubblicazioni che hanno segnato e segnano il dibattito internazionale sul tema ma, oltre a quelli citati nelle note successive, vorrei almeno ricordare, anche quali utili strumenti orientativi, i numeri monografici Seeing and/or Believing the Photograph, “Visual Resources”, 26 (2010) n.2; Approches de l’Histoire/ Les conditions de l’histoire, “ Études photographiques”, 30 (2013); 175 Years of Photohistory, “Photoresearcher”, 22 (2014).
[1335] Alcuni dei contributi vennero pubblicati in “Études photographiques”, 16 (2005), mai. Le diverse sessioni erano dedicate a Histoire(s) de l’histoire de la photographie; Histoire de l’art et photographie; Nouvelles approches , Nouveaux objets e L’objet et les collections. Tra i “nuovi oggetti” portati recentemente agli onori del collezionismo e della storiografia fotografica, anche se di rado considerati con “nuovi approcci”, vi era il libro fotografico, oggetto negli ultimi anni di un’attenzione a crescita esponenziale.
[1336] “Le souci de la réflexivité méthodologique, le désir de produire du savoir plutôt que du commentaire, une attention soutenue à la dimension des usages, des contextes et de la réception des images. (…) à l’acceptation progressive de la spécialité photographique au sein des départements ou des facultés d’histoire de l’art (…) quand la pente constatée dans les pays anglo-saxons conduit plutôt à la diluer dans le territoire des visual studies. Cette liaison présente de nombreux avantages, comme celui de bénéficier d’outils méthodologiques éprouvés, de conserver à l’érudition toute sa légitimité, mais aussi de maintenir au centre la question de l’image. Enfin, un dernier trait remarquable tient à la prégnance d’une forte préoccupation théorique. ”, Quentin Bajac, Dominique de Font-Réaulx, André Gunthert, Michel Poivert, Introduction, “Études photographiques”, 16 (2005), mai, pp. 4-5.
[1337] André Rouillé, La photographie. Entre document et art contemporain. Paris: Gallimard, 2005, in particolare alle pp. 14-16, in cui attaccava violentemente ogni posizione ontologista: sia le teorie dell’impronta di derivazione peirciana sia, con particolare virulenza, le posizioni espresse da Roland Barthes ne La camera chiara in favore di una considerazione che diremmo storica e sociologica dei contesti e degli usi, dimenticando – come ancora fanno molti – che gli usi non possono essere fondati altro che sulla specifica natura della fotografia, che può essere inutile ribadire ma altrettanto pericoloso dimenticare.
[1338] “Prioritairement critique et théorique, et non pas historique, ce qui aboutit, ironiquement, à réduire une fois encore l’étude de la photographie à une méthodologie univoque. ”, Marta Braun, Beaumont Newhall et l’historiographie de la photographie anglophone, “Études photographiques”, 16 (2005), mai, pp. 19-31, tradotto da François Brunet, del quale è importante considerare opportunamente Robert Taft dans l’ombre de Beaumont Newhall, “Études photographiques”, 30 (2012), décembre, entrambi disponibili on line : http://etudesphotographiques.revues.org [8 10 2015].
[1339] André Gunthert, Michel Poivert, a cura di, L’art de la photographie. Paris: Citadelles & Mazenod, 2007 ( ed. italiana Gunthert et al. 2008). Gli stessi hanno curato nel 2011 presso l’INHA di Parigi una giornata di studi a proposito de L’Histoire de la photographie en perspective.
[1340] Gunthert et al. 2008, p. 7.
[1341] Il volume apriva infatti col saggio di Paul-Louis Roubert e François Brunet, La generazione del dagherrotipo (pp. 12-63), a cui seguiva André Gunthert, L’istituzione di una cultura fotografica (pp. 66-101), delimitato da quella che una volta si sarebbe definita l’età del collodio. Pur riconoscendo la grande rilevanza della proposta risulta difficile concordare con Serena (2013b, p. 7) che lo ha considerato “il punto di svolta nella riformulazione di un modello periodizzante per la storia della fotografia a livello internazionale.”, e ciò almeno per due ordini di ragioni: perché – come si è detto – molti dei contributi e la strutturazione stessa del volume non sono sfuggiti a quelle canoniche, sebbene trattate in modi innovativi, e inoltre (e forse di maggior rilevanza) perché non credo fosse nelle intenzioni né tanto meno nei presupposti teorici e metodologici dei curatori l’idea di proporre modelli che, proprio in quanto tali costituirebbero una sclerotizzazione interpretativa di un fenomeno come la fotografia di cui è riconosciuta la feconda, plurima identità.
[1342] Gunthert et al. 2008, p. 8. Il tema è stato più recentemente affrontato da Poivert, per il quale “La convergence d’approches techniques, culturelles et esthétiques cristallise des enjeux qui associent le paradigme de l’expérience au socle historique de l’utopie. Le grand régime d’historicité de la photographie serait ainsi l’expérience comme construction d’une utopie démocratique par l’image. (…) C’est donc une expérience pleine et contradictoire ‘du’ démocratique que propose l’histoire de la photographie.”, Michel Poivert, Introduction. La photographie, expérience démocratique. In Éléonore Challine, Laureline Meizel, Michel Poivert, dirs., L’Expérience Photographique. “Histo.Art”, 6. Paris: Publications de la Sorbonne, 2014, pp. 9-19.
[1343] Serena 2013b, p. 7. In occasione del convegno della SISF del 2010 a Noto la studiosa si era già riproposta di sottoporre a “verifica certi steccati disciplinari della storia della fotografa. (…) La strategia auspicata è quella di pervenire alla narrazione storica della fotografia trattandola in primis per le sue valenze di oggetto materiale e sociale, quindi subordinando il valore iconico della sua immagine a una serie di altri fattori collegati al suo corpo materiale, e ovviamente facendo interagire e dialogare le due istanze storiografiche in un secondo momento.”, Serena 2013a, p. 26.
[1344] Si vedano in particolare i contributi, per altri versi estremamente interessanti, di Michel Poivert, L’intento artistico (pp. 179-227) e di Thierry Gervais, Gaëlle Morel, Le forme dell’informazione, (pp. 304-355).
[1345] Si vedano l’inserto L’album universel e il capitolo Les rites et les usages, entrambi firmati da Michel Poivert. In Frizot 1994, pp. 679-685, 746-754.
[1346] Sulle questioni teoriche e metodologiche poste dalla considerazione storiografica dell’immensa produzione vernacolare restano ad oggi fondamentali i contributi di Geoffrey Batchen, Snapshots. Art history and the ethnographic turn, “ Photographies”, 1 (2008), n.2, pp. 121-142, che indicava la necessità di coniugare storia e Visual Culture, e di Elizabeth Edwards, The Camera as Historian. Amateur Photographers and Historical Imagination 1885- 1918. Durham, NC: Duke University Press, 2012, che si provava ad applicare a questi corpora di immagini i metodi di indagine di quella che definiva “historical ethnography” (XI). Recentemente la studiosa ha sintetizzato le proprie posizioni in un breve saggio, cfr. Elizabeth Edwards, Photography’s default history is told as art – it shouldn’t be, on line: http://theconversation.com/photographys-default-history-is-told-as-art-it-shouldnt-be-37734 [23 02 2015]. Presentando una recente raccolta di saggi (Tanya Sheehan, Andrés Mario Zervignon, a cura di, Photograhy and its Origins. London – New York: Routledge, 2015) i curatori sottolineavano come gli autori presenti riconoscessero “che la fotografia non appartiene più esclusivamente e neppure principalmente, alla disciplina della storia dell’arte” e condividessero “l’impulso a comprendere la fotografia in relazione a contesti apparentemente non fotografici.”(4).
[1347] Clément Chéroux, Il gioco dei dilettanti. L’esperto e l’utente 1880-1910. In Gunthert et al. 2008, pp. 254-273, a cui corrispondeva la sezione, non firmata, L’album del dilettante, pp. 274-301, in cui riprendeva temi affrontati nella propria tesi di dottorato sostenuta nel 2004 all’Università di Parigi I con Philippe Dagen, Une généalogie des formes récréatives en photographie 1890-1940.
[1348] Clément Chéroux, L’avanguardia degli amatori. In Guadagnini 2011, pp. 14-29.
[1349] Guadagnini 2010; 2011; 2012; 2013.
[1350] Guadagnini 2000.
[1351] Una analoga periodizzazione era già stata utilizzata da Cesare de Seta (1999) per narrare La fotografia negli anni dei pionieri, estendendola in quel caso sino all’ultimo anno del XIX secolo; si veda il paragrafo Nuove storie della fotografia, in particolare alle pp. 202-203.
[1352] Walter Guadagnini, Introduzione. In Guadagnini 2010, p. 11.
[1353] Ricordiamo quelli compresi nei volumi qui presi in considerazione per il periodo 1839-1940: Quentin Bajac, L’arte della macchina: la fotografia tra scienza, arte e industria, 1839-1860; Walter Guadagnini, I viaggi della fotografia; Elizabeth Siegel, Un’epoca di album. In Guardagnini 2010; Clement Chéroux, L’avanguardia degli amatori; Ulrich Pohlmann, Propaganda e fotografia 1918-1945; Gerry Badger, La viva concretezza del presente: la fotografia per le riviste 1891-1940; Sandra S. Phillips, Documenti, documentazione e fotografia documentaria. In Guadagnini 2012.
[1354] Guadagnini 2010, p. 8.
[1355] Come si è visto, a queste date erano ancora pochissime le storie generali della fotografia utilizzabili a scopo didattico: Zannier 1982; Newhall 1984; Lemagny et al. 1988; Jeffrey 2003 (1981).
[1356] “Ci saranno delle dimenticanze, delle inesattezze non volute” (e ci mancherebbe) scriveva Madesani nell’Introduzione (IX), avvertendo inoltre che anche qui “come tutte le ricostruzioni storiche, o presunte tali, l’obiettività è solo un’aspirazione, un lido a cui si tende utilizzando ogni mezzo”, dove quella “presunta” definizione era forse da intendersi riferita in primis proprio al suo lavoro. La quantità di errori fattuali e storici di cui era infarcita l’opera impose, ma a ben tre anni di distanza, una nuova edizione, frutto di accurato editing piuttosto che di una vera e propria revisione. Così mentre scomparivano le ‘informazioni’ o le interpretazioni più madornali (ampiamente segnalate dai recensori dell’epoca) restavano immutati altri passaggi meno eclatanti, che rivelavano però la scarsa dimestichezza dell’autrice coi temi trattati, a partire dagli stessi fondamenti tecnologici della fotografia, quelli ad esempio che le avrebbero consentito di comprendere che non fu il tiosolfato di sodio che consentì a Talbot di “ottenere dei positivi dalle immagini negative” (5), per estendersi ai domini più pertinenti alla storiografia e alla critica, come ben testimoniano i giudizi riferiti a Peter Henry Emerson, che sarebbe stato “assai vicino alla moderna fotografia documentaria” (13) o quello relativo alle applicazioni del mezzo, tra cui la “diagnostica: si pensi alle scoperte di Röntgen, ma anche alle diagnosi del fotografo Secondo Pia, che analizza la Sacra Sindone” (16); affermazioni in cui non riusciamo a cogliere la minima traccia di uso metaforico del linguaggio, il solo che avrebbe consentito (sebbene con difficoltà) di attribuire un senso alla frase.
[1357] Italo Zannier, [Recensione], “Fotostorica: gli archivi della fotografia”, N.s., 7 (2004). n. 27-28, giugno, p. 49. L’attenzione dichiarata per la “dimensione concettuale” non caratterizzava però la grafica di copertina, che con un richiamo piuttosto aneddotico utilizzava il ritratto di George Eastman nell’atto di fotografare, realizzato da Fred Church nel 1890 a bordo del transatlantico Gallia, già adottato per l’edizione italiana di Gus Macdonald, L’occhio dell’800. Milano: Arnoldo Mondadori, 1981 (ed. originale Camera: a Victorian eyewitness. London: Batsford, 1979).
[1358] Muzzarelli 2014.
[1359] Claudio Marra, Il “genio” specifico della fotografia. In Muzzarelli 2014, pp. IX-XI (IX). Tale interpretazione costituiva un sostanziale superamento, se non proprio un ribaltamento teoretico di alcune sue forti posizioni precedenti, secondo le quali “l’idea che la fotografia rappresenti un’arte a sé, dotata di regole particolari e specifiche, è solo un grosso equivoco sviluppatosi per degenerazione di alcune poetiche in auge nei primi decenni del Novecento”, Marra 2004, p. 7. L’avvenuto superamento di quel dichiarato equivoco gli aveva consentito all’epoca, nonostante una serie di precisazioni e di distinguo, di firmare una storia della fotografia di moda limpidamente canonica, costruita per figure emblematiche e con scarsi riferimenti ai contesti e alle dinamiche sociali ed economiche del fenomeno; tutta rivolta all’ “estetico”, quindi senza neppure soffermarsi sulla fondamentale distinzione tra la fotografia ‘originaria’ e la sua messa in pagina, cioè sul processo di semantizzazione che – per riprendere le categorie da lui adottate – determinava il passaggio dall’immagine/ opera all’immaginario e al comportamento.
[1360] Muzzarelli 2014, p. 89; il concetto era ribadito alla pagina successiva a proposito del “rapporto tra fotografia e memoria [che] trova nell’album di famiglia la sua traduzione più esemplare e un vero inno alla concettualità fotografica.”
[1361] Analogamente Muzzarelli considerava “naturale che nell’Ottocento nasca il pittorialismo fotografico” (67) mentre più oltre parlava di “tendenza naturale del mezzo fotografico” (214), corsivi di chi scrive.
[1362] Valtorta 2008.
[1363] Ricordiamo la prima antologia di Nathan Lyons, ed., Photographers on photography. A critical anthology. Englewood Cliffs – Rochester: Prentice-Hall, Inc. – The George Eastman House, 1966 (ediz. italiana Fotografi sulla fotografia. Torino: Agora, 1990 e 2004) e tra i testi successivi almeno Beaumont Newhall, ed., Photography: Essays & Images. New York: The Museum of Modern Art, 1980; Barbaralee Diamonstein, Visions and images. American photographers on photography. New York: Rizzoli, 1981; Bill Jay, Dana Allen, eds., Critics, 1840–1880. Phoenix: Arizona Board of Regents, 1985; Brooks Johnson, ed., Photography speaks. 66 photographers on their art. New York – Norfolk, Va.: Aperture – The Chrysler Museum, 1989 (nella seconda edizione, del 2004, i fotografi divennero 150); Liz Wells, Photography: A Critical Introduction. London: Routledge, 1996 (con varie edizioni successive); Liz Wells, The Photography Reader. London – New York: Routledge, 2003 e infine la serie di interviste in video prodotte da Pamela Chen, Chad A. Stevens, nel 2013 per il 125° anniversario del “National Geographic”, The Photographers on Photography, che rendevano esplicitamente omaggio al pionieristico testo di Lyons. Anche in Italia la costruzione di antologie di testi godeva di una tradizione significativa a partire almeno dagli Annali einaudiani del 1979 e soprattutto da Costantini et al. 1985, quindi Mormorio 1988 e più recentemente, Claudio Marra, Le idee della fotografia: la riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi. Milano: Bruno Mondadori, 2001. Per la Francia si veda almeno André Rouillé, La photographie en France: textes & controverses: une anthologie 1816-1871. Paris : Macula, 1989.
[1364] Da una recensione al volume a suo tempo ospitata sul sito della SISF e oggi non più disponibile, confermata ancora in Miraglia 2011, p. 85; giudizio allo stesso tempo affettuoso e ingeneroso, almeno nei confronti di un’opera pur discutibile come Storia e tecnica della fotografia di Italo Zannier (1982 ), che a sua volta conteneva un’antologia di testi, e in aperto contrasto con le intenzioni stesse di Valtorta che nella premessa al proprio volume dichiarava esplicitamente che “questa non è una storia della fotografia”.
[1365] Marina Miraglia, Il dispositivo ottico e la sua funzione eidetica. In Faeta et al. 2013, pp. 153-164.
[1366] “L’immagine fotografica è dunque innanzitutto un modo di pensare, un tratto caratteristico della figurazione occidentale” scriveva Diego Mormorio (1985, p. 20), cfr. supra Nota 523.
[1367] Si veda quanto indicato supra Note 644, 645.
[1368] Anche considerata storicamente la prevalenza dell’ottica appariva discutibile, come dimostravano le prime copie da incisioni realizzate da Niépce, i primi disegni fotogenici di Talbot o i fotogrammi botanici di Anna Atkins. Per quanto riguardava poi il concetto di “epifania autoriale”, più volte ribadito nel testo come intrinseco costituente della fotografia, dove “referenzialità e autorialità appaiono inscindibili” (66) esso risultava certo coerente con una concezione della fotografia come componente per quanto autonoma della storia dell’arte, ma inadatto a trattare altri universi della pratica fotografica né sufficientemente chiarito o tantomeno dimostrato, dovendo almeno riuscire a ribaltare le posizioni espresse a suo tempo da Franco Vaccari e da Vilém Flusser o a considerare per altri versi le note osservazioni della Krauss di matrice foucaultiana.
[1369] “L’importanza del punto di vista dell’osservatore, che si pone alla base della scenografia barocca” (34) è certo incontrovertibile ma non diversa in quanto tale da quella delle costruzioni prospettiche di ogni altra epoca e cultura visiva, costituendone anzi il fondamento concettuale e geometrico a partire dalle tavolette brunelleschiane.
[1370] Muzzarelli 2014, per la quale si rimanda alle pp. 291-293.
[1371] Sarebbe stato utile in tal senso considerare almeno alcuni degli importanti contributi di Martin Kemp, Towards a new history of the visual. New Haven: Yale University Press, 1990 (ed. italiana, Immagine e verità. Milano: Il Saggiatore, 1999); Id., The science of art : optical themes in western art from Brunelleschi to Seurat. New Haven – London: Yale University Press, 1990 (ed. italiana La scienza dell’arte: prospettiva e percezione visiva da Brunelleschi a Seurat. Firenze: Giunti, 1994).
[1372] Anche le pagine in cui Miraglia si interrogava sui condizionamenti espressivi e linguistici determinati da quelli che sono comunemente considerati tecnicismi (aberrazioni cromatiche, rapporti proporzionali tra focali e formati e simili) avrebbero meritato più spazio nell’equilibrio generale del saggio, perché riconoscevano – come andava facendo anche Fanelli – quanta e quale fosse la loro incidenza nella definizione della “aderenza referenziale” delle immagini fotografiche; almeno tanto quanto il codice rappresentativo della restituzione prospettica e la cultura visiva di ciascun operatore.
[1373] Se era doveroso dedicare le “major entries” ad autori come Giacomo Caneva o Giorgio Sommer, risultava difficile comprendere il ridotto spazio riservato a Vittorio Sella che un poco curiosamente “deserves mention among the Italian photographers of snapshots”, insieme a Giuseppe Primoli, Giuseppe Beltrami e Luca Comerio, cfr. Silvia Paoli, Italy, ad vocem. In Hannavy 2008, pp. 752-758 che riproponeva inoltre la notizia ormai confutata della presenza di immagini Alinari nella serie Piot L’Italie monumentale; un’analoga mancanza di aggiornamento riguardava anche la presunta invenzione della “carta Rive” da parte dell’omonimo fotografo attivo a Napoli, nata a suo tempo da un clamoroso fraintendimento dei timbri a secco presenti sulle carte all’albumina prodotte dalla cartiera Blanquet di Rives, in Francia, cfr. Silvia Paoli, Rive, Roberto, ad vocem, ivi, p. 1197.
[1374] Calvenzi et al. 1985.
[1375] Restavano alcune incertezze di carattere specificamente storico quali ad esempio, nella voce Mezzogiorno d’Italia firmata da Giovanni Fiorentino (pp. 709-711), l’assegnare alla “costruzione fantastica ottocentesca” del Sud d’Italia un ruolo importante agli “album eleganti in formato carte de visite o in stereografia” (709), che appartenevano semmai a un fenomeno non connotato territorialmente (le raccolte di carte de visite) o risultavano addirittura improbabili, poiché nella pratica corrente altre erano le modalità di edizione e raccolta delle stereofotografie; risultava inoltre difficile condividere l’opinione che solo alla fine dell’Ottocento i “temi tradizionali dell’esotismo e dell’archeologia andavano integrandosi con quelli del folklore (…) dell’antropologia e della sociologia” mediati “dalle curiosità dell’acquirente di cartoline o dai lettori dei primi giornali illustrati” (709), non considerando cioè le ben più precoci produzioni di Bernoud, Conrad, Sommer e simili. Meno convincente risultava poi un’altra voce-quadro come Risorgimento, firmata da Luca Criscenti e connotata da una estensione cronologica e storica portata sino alla morte di Umberto I nell’anno 1900, ciò che forse giustificava il riferimento ad autori quali Giuseppe Primoli e Vittorio Sella, Mario Nunes Vais e Luciano Morpurgo che in altri disegni storiografici sarebbe stato difficile porre in relazione con l’epopea risorgimentale.
[1376] Italo Zannier, Povera fotografia, vittima dell’Enciclopedia!, “Fotostorica”, N.s. 7(2004), n. 27-28, giugno, p. 3, che citava “la didascalia di una tra le più famose fotografie dagherrotipiche, la prima in cui appare un uomo, mentre quasi immobile si fa lucidare le scarpe in Boulevard du Temple a Parigi; è un’immagine dagherrotipica di mm 164×228, realizzata da Louis Jacques Mandé Daguerre nel maggio 1838, alle ore otto del mattino, attualmente conservata al Fotomuseum di Monaco, e fa parte di un trittico inviato da Daguerre al Re Luigi l di Baviera, dopo la divulgazione del procedimento di sua invenzione. Ebbene, si legge invece: ‘Dagherrotipo sconosciuto, Scorcio di Parigi, 1843, Parigi, Musée d’Orday’. Non bastano le lacrime!”.
[1377] Macek 2010; Id. 2014; Id., The History of European Photography, 1970 – 2000. Bratislava – Vienna: Central European House of Photography – FOTOFO , Eyes On- Month of Photography, 2016.
[1378] Nella fase progettuale era stati coinvolti Marina Miraglia e lo scrivente.
[1379] Macek 2010, I, p. VII.
[1380] Proprio sull’efficace restituzione storica e storiografica di quel disegno a tessere giustapposte si interrogavano alcuni recensori, soffermandosi in particolare sulla legittimità di presentare in modo distinto e separato le storie di paesi che sino ad anni recentissimi erano riuniti in un unico stato (la Jugoslavia o la Cecoslovacchia, ad esempio) o all’inverso posti sotto sovranità diverse come la Bielorussia.
[1381] Le condizioni di lavoro redazionale, sostanzialmente volontaristico, impedirono lo svolgimento di ricerche ex novo, tranne i casi in cui le istituzioni locali intervennero con finanziamenti specifici. Per ulteriori dettagli sul progetto si rimanda a http:// www.historyofphotography.eu/ [04 09 2018].
[1382] Si vedano Angeliki Tseti, Václav Macek (dir.), The History of European Photography (1900-1938), vol. 1, “Études photographiques”, Notes de lecture, Avril 2014, online: http://etudesphotographiques.revues.org/3395 [20 02 2017] e l’attenta riflessione storiografica di Tomas Pabedinskas, The Many Histories of Photography, “echo gone wrong”, 31 03 2015, online: http://echogonewrong.com/the-many-histories-of-photography/ [20 02 2017].
[1383] Cartier-Bresson et al. 2004.
[1384] Italo Zannier, A Firenze si avvia la storia della fotografia italiana. In Cartier-Bresson et al. 2006, p.n.n.; Anne Cartier-Bresson, Dall’atelier al museo: l’archivio Alinari attraverso il tempo; ivi, pp. 15-18.
[1385] Maffioli 2006a. Completavano il catalogo le biografie dei singoli autori, corredate delle schede delle opere in mostra, e una ricca bibliografia generale.
[1386] Ivi, p. 19. Ricordiamo però che quel filo conduttore qualificato di “inedito” aveva avuto almeno un precedente determinante nei primi “Annali” fotografici della “Storia d’Italia” Einaudi (Bertelli et al. 1979).
[1387] Ivi, p. 38, nota 2.
[1388] “Namely one of invisibility”, Saunders 2015, che sviluppava il testo della sua lezione Fragile Contacts: The Bertoloni Album and Italy’s Invisibility in Histories of Photography’s Origins, compresa nella serie “Photograhy and its Origins” della Rutgers University di New Brunswick del 2012. Molto interessante e fruttuosa risultava la sua interpretazione dell’Album come un palinsesto da cui partire per ridisegnare le questioni delle origini della pratica fotografica in Italia, sottolineando il ruolo della comunità scientifica coeva, per la quale l’attenzione per le prime prove fotografiche era un’ulteriore manifestazione delle aspirazioni al progresso sociale ed economico.
[1389] Pelizzari 2011a, p. 7. Recensendo il volume anche Lyle Rexer, Photography and Italy, “Afterimage”, 38 (2011), n. 6, May-June, p. 41 aveva riconosciuto che “The title of this valuable book is telling; its subject matter is not Italian photography, but photography and Italy. Its early chapters detail how non-Italians made photographic use of Italy as a form of the exotic, antique, and primitive – yielding, over the course of decades, to a native photographic infrastructure, a communications industry, and a fully self-conscious Italian nationalist agenda during the key modernist decades of the early and mid-twentieth century.”
[1390] Maffioli 2006a, p. 19 si era chiesta “se essi possono di diritto essere citati come autori della storia della fotografia italiana oppure debbano, in alcuni casi, essere ricordati come ‘autori di confine’, personalità che hanno profondamente contribuito alla diffusione della cultura fotografica in Italia, tuttavia, rimanendo legati alla loro formazione e, non radicandosi definitivamente nel contesto italiano, ne sono stati solo momentanei interpreti.”
[1391] Antonello Frongia, [Recensione], “Domus”, 30 09 2011, on line http://www.domusweb.it/it/recensioni/2011/09/30/photography-and-italy.html [28 11 2015]. In realtà, senza neppure andare troppo a ritroso negli studi, quella concezione centrifuga era già alla base di progetti storiografici quali Italia d’argento (Bonetti et al. 2003), ma anche altri avevano segnalato, come si è detto, che fu proprio il dialogo tra autori di diversa provenienza (non solo culturale) “qui construit la photographie italienne des origines”, Anne Cartier-Bresson, Le travail du négatif: l’Italie, un champ expérimental pour les pionniers de la photographie. In Aubenas et al. 2010, pp. 17-23 (22). Si potrebbe forse anche osare di più e dire che questa modalità eteroctona caratterizzò la più parte dei primi contributi a una pratica fotografica locale in tutti quei paesi in cui il processo di industrializzazione e di modernizzazione era più arretrato (in parte a prescindere dalla formazione di uno stato nazionale e dalla sua forma di governo). Ancor più complesso poi il percorso di accettazione e di radicamento in quei paesi e in quelle culture che possedevano una tradizione iconografica e una modalità rappresentativa concettualmente distanti dalla forma prospettica occidentale. Si potrebbe quindi non solo dire che sin dagli inizi la fotografia fu un fenomeno transnazionale ma, di più, che in modi e in gradi diversi la sua eteronomia rispetto ai diversi contesti rappresentò una costante storica.
[1392] D’Autilia 2012, p. XXII.
[1393] Da questo punto di vista l’opera di D’Autilia assumeva quella “prospettiva ‘essenzialista’ di studi fondamentali pubblicati negli anni Ottanta e Novanta, come Il modo di vedere italiano di Giulio Bollati e La percezione visiva dell’Italia e degli italiani di Federico Zeri” (Frongia, [Recensione], cfr. supra Nota 1391) che era invece rimesso in discussione dal culturalismo dei contributi più recenti.
[1394] “Looters, Photographers, and Thieves seeks to contribute to the fascinating discourse on the photographic image and its specific uses in the representation of racial, ethnic and gender difference, and suggest how the isolation of images according to the dictates of power relations might influence and condition ways of seeing.” Verdicchio 2011, (dalla presentazione editoriale).
[1395] “Stolen States of the Image/nation (…) The Alinari activities were in large part responsible for the elaboration and maintenance of a national image that is centered on Tuscany and Florence.”, Pasquale Verdicchio, Introduction. In Id. 2011, pp. 1-12 (8).
[1396] “The medium of photography, invented after the emergence of the modern nation-state (…) was fundamental in the creation of nationalist images and imaginaries.”, ivi, p. 1.
[1397] “Photography in the Italian context (…) has served in defining a normative figure of italianità (Italianness), and it has served to document and preserve the subaltern cultures that would in turn deny that essentialized character.”, ivi, p. 5, corsivo dell’autore.
[1398] Norma Bouchard, [Recensione]. In Cinema italiano contemporaneo, “Annali d’Italianistica”, 30 (2012), “Italian Bookshelf 2012”. Chapel Hill: The University of North Carolina, 2012, pp. 455-457 (455).
[1399] D’Autilia 2012, Premessa, p. XIV.
[1400] Alberto Asor Rosa, Genus Italicum: saggi sulla identità letteraria italiana nel corso del tempo. Torino: Einaudi, 1997, in particolare la parte introduttiva. I riferimenti risultavano più marcati nel saggio redatto da Valtorta et al. 2014.
[1401] “To trace a history of Italian photography back to his beginnings, or to outline a photographic history of the development of Italian national identity, it is essential to consider transnational aspects as well as specific, local iterations.”, Valtorta et al. 2014, p. 30.
[1402] “To rise the question of photography in Italy (…) is to rise the equally problematic and unsettled question of how Italy relates to modernity [in] the belief that photography is no mere epiphenomenon but rather a crucial point of entry through which to understand the experience of modernity.”, Sarah Patricia Hill, Giuliana Minghelli, Introduction. In Hill et al. 2014, pp. 3-24 (3, 6).
[1403] D’Autilia 2012, p. 14.
[1404] “This book is about the way that certain places and groups of people in Italy and its colonies have been viewed as ‘marginal’ in photographs and written texts produced since unification in 1861. In writing it I have had two main aims. The first has been to show that such views have been closely connected to the process of building the modern nation. The second has been to show how they always involve a distinctive set of social and spatial relations between an observer and an observed. “, David Forgacs, Introduction: looking at margins. In Forgacs 2014, pp. 1-13 (1). Particolarmente apprezzabile era anche la consapevolezza critica della propria posizione di studioso: “Nor do I claim to have been impartial in my analysis or free from a position of my own. I am a white, non-Italian, middle-class cultural historian working from inside a university in the twenty-first century. My own personal experience has little in common with that of any of the people who were the objects of marginalizing representations and the objective position from which I write has much more in common with that of most of those who represented them. This project has therefore required me to reflect carefully on the extent to which I myself might be complicit with the very power structures I wish to analyse and criticise. I hope that I have managed to avoid that trap.” (12-13). Si veda anche la recensione a firma di Marina Spunta, “H-Italy”, H-Net Reviews, February, 2015, online www.h-net.org/reviews/showrev.php?id=43328 [01 12 2015].
[1405] Pelizzari 1996b.
[1406] Frongia, [Recensione], 2011, cfr. supra Nota 1391. Sebbene meno articolate credo meritino almeno una citazione le opinioni in merito espresse sul blog di Michele Smargiassi il quale, pur apprezzando complessivamente l’opera, rilevava come “il libro di Pelizzari giunge fino ai giorni nostri, e purtroppo man mano che procede perde la spinta propulsiva e critica iniziale, lascia il punto di vista che intrecciava contesto storico e produzione di immaginario nazionale per tornare nel solco della “storia di autori”, sequenza ragionata (ben fatta, comunque) di nomi e di opere, che sembra svelare la vera funzione che questo libro avrà nei confronti del pubblico anglosassone: cioè essere una sorta di guida all’acquisto consapevole, a beneficio dei collezionisti di fotografia italiana.” Più drastico il parere espresso sullo stesso sito da Diego Mormorio: “le ‘cosucce’ dette in questo libro sono da tempo state tutte dette in italiano da diversi italiani. Nel libro di Pelizzari non c’è niente di nuovo, c’è solo di meno, e non solo in fatto di nomi.”, cfr. Michele Smargiassi, Ahi serva Italia di fotografi ostello, http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2011/12/16/ahi-serva-italia-di-fotografi-ostello/comment-page-1/#comments [28 08 2017].
[1407] Certo lontana da questo ordine problematico la nuova edizione di Zannier 1986b (2012) pubblicata dall’Editrice Quinlan in occasione dell’ottantesimo compleanno dell’autore.
[1408] Daniele Fragapane, Miti, stereotipi, caratteri, “L’Indice”, 27 Febbraio 2013, on line: http://www.lindiceonline.com/ senza-categoria/ miti-stereotipi-caratteri/ [01 12 2015].
[1409] Per Nicoletta Leonardi, [Recensione], “Predella”, n. 32 (2012), http://www.predella.it/index.php/component/content/article/38-issue32/articoli/74-32-30-antonella-russo-storia-culturale-della-fotografia-italiana-dal-neorealismo-al-postmoderno-torino-einaudi-2011-pp-428-2011-35-00.html [04 09 2018], quel lavoro aveva “il grande merito di raccontare le vicende della fotografia mettendo insieme storia delle istituzioni, storia dell’editoria, storia del collezionismo, storia dei media, storia dell’arte e storia della critica.”
[1410] La terminologia qui adottata, con quel generico richiamo all’ “arte” appariva debole e poco controllata, indizio forse della scarsa dimestichezza dell’autore con questo ambito problematico e storiografico.
[1411] D’Autilia 2012, pp. XIV-XV. L’importante richiamo a “chi fotografa” rivelava la grande attenzione dimostrata in più occasioni dall’autore per la fotografia di famiglia e per l’enorme produzione amatoriale in genere, ma senza poi considerare l’ampia bibliografia internazionale disponibile sul tema; si vedano almeno Geoffrey Batchen, Proem, 2002, e i saggi contenuti in Pinney, Peterson, eds., Photography’s Other Histories, 2003, cfr. supra Nota 1326.
[1412] L’antecedente nobile era costituito dall’impresa degli “Annali” einaudiani del 1979 e in particolare dal saggio di Giulio Bollati, del resto più volte richiamato dall’autore specie nel capitolo introduttivo dedicato al ‘carattere’ degli italiani anche in relazione all’immaginario e alle immagini.
[1413] Risultavano particolarmente interessanti per comprendere le motivazioni alla base del progetto, alcune dichiarazioni rilasciate dall’autore in una intervista al quotidiano di Teramo “La Città”, ora disponibile on line all’indirizzo https:/ /altrimenti.wordpress.com/2013/06/03/gabriele-dautilia-ho-voluto-raccontare-la-storia-culturale-della-fotografia/ [01 12 2015]. Alla domanda “Come si è definito, nel suo percorso di ricerca e di docenza universitaria, l’interesse scientifico per la fotografia?” D’Autilia rispondeva infatti che “Non essendo un fotografo, sono diventato, da storico contemporaneista uno studioso di fotografia”, dove andavano prese in seria considerazione la curiosa consequenzialità logica che legava la possibilità di studiare la fotografia al fatto di non essere fotografo e la distinzione tra storico e studioso, che suggeriva illazioni diverse. Più nello specifico D’Autilia ricordava che “questo era uno di quei settori – stiamo parlando degli anni Novanta in Italia – che era ancora molto indietro rispetto ad altri paesi europei. Così mi sono accorto che dal punto di vista degli studi sulla fotografia esistono dei problemi. (…) Così mi è sembrato utile, interessante mettermi un po’ alla prova con questo tipo di ricerca essendo uno storico. La fotografia italiana ha una storia curiosissima e l’ultima storia della nostra fotografia era stata scritta più di trent’anni fa. Io ho dato un’impostazione molto diversa alla mia ricerca proprio perché volevo mettere in gioco tutte le novità metodologiche della storiografia contemporanea: quindi, ho provato a lavorare sulla storia culturale, sociale.” Affermazioni inconfutabili, ma un cenno almeno agli studi recentissimi di Pelizzari e Russo sarebbe stato apprezzabile per una sua certa eleganza.
[1414] Mi riferisco al ricorso finalistico e insistito al concetto di “antecedenti” in Miraglia 2011 e a quello analogo di “prefigurazione” in Muzzarelli 2014.
[1415] Ricordo, a puro titolo di esempio, le “atmosfere oniriche” (43) che caratterizzerebbero i dagherrotipi; l’improbabile “reportage sociologico sulla campagna romana” (56) di Giacomo Caneva, ma anche le immagini pittorialiste “dove l’ottica [sic] è costretta a sottostare a lunghi e a volte suggestivi interventi manuali” (17) o, ancora, “i ritratti di strada dei tipi umani (con i famosi mangiatori di maccheroni)” di Sommer (86), che furono notoriamente e visibilmente realizzati in studio. Più di un sorriso strappavano invece i richiami alla “sobrietà tutta piemontese” con cui Vittorio Sella avrebbe affrontato la fotografia di montagna (81); a Giovanni Giolitti, “notabile piemontese tutto d’un pezzo” (101) ed al “pacato torinese” Guido Rey (145); per non dire di un altro “piemontese, Peretti Griva [che] considera la fotografia evasione e conforto, un modo per sentirsi giovani e conservare la gioventù.” (211).
[1416] D’Autilia 2012, p. 87. Per una delle tante, possibili esemplificazioni di una pratica che smentiva queste affermazioni si veda infra Nota 1958. Altri ancora erano i casi di eccessiva semplificazione interpretativa, come il riferimento a una “sorta di spontanea campagna fotografica nazionale [che] comporta anche la scoperta di nuovi soggetti” (85), a proposito di Unterveger e Lotze, senza rimarcare il ruolo fondamentale svolto dalla committenza in quelli come in altri casi.
[1417] Gabriele D’Autilia, Dialoghi tra discipline dello sguardo, “L’Indice dei libri del mese”, 29 (2012), n. 4, aprile, p. 19.
[1418] Un quadro per quanto sintetico della polifonia di approcci, non solo storici, alla fotografie e alle sue culture in Italia è stato fornito dagli interventi alla giornata di studio La cultura fotografica in Italia oggi che si tenne a Prato nel febbraio 2006. Gli atti relativi (Lusini 2007) ne restituivano, anche nella forma, la ricca articolazione degli interventi, tutti dedicati a riflessioni di carattere teorico e metodologico piuttosto che alla ricostruzione dei diversi percorsi che avevano segnato la cultura fotografica italiana e le diverse forme della storiografia. Essi costituivano un’efficace sintesi delle diverse posizioni critiche e disciplinari, per certi versi polarizzate tra due concezioni, forse solo apparentemente inconciliabili, l’una che considerava la fotografia come pervasiva, storicamente costituita di pratiche differenziate, tutte meritevoli di studio, l’altra che la riteneva tutta e solo leggibile “in prospettiva estetica”, poiché “la fotografia non esiste come specificità perché l’unica cosa che veramente conta è il complessivo campo dell’arte contemporanea.”, Claudio Marra, I luoghi della critica fotografica. In Lusini 2007, pp. 23-24. Posizione legittima sebbene risultasse difficile ridurre e ingabbiare il fenomeno nel circoscritto ambito della produzione artistica, negando non tanto e non solo la polisemia delle fotografie ma la multiformità degli usi che hanno costruito storicamente quell’accumulo, quei sedimenti di dati e di oggetti che costituiscono quel patrimonio fotografico con cui si misurano e si esercitano i più diversi approcci disciplinari, ciascuno riconoscendo nel confronto con la fotografia e con le fotografie una ragione e un’occasione di riflessione teorica, metodologica ed eventualmente storiografica; ciascuno contribuendo per la propria parte alla conoscenza e alla crescita dei diversi ambiti e modi in cui si manifesta la cultura fotografica, ovunque e quindi anche in Italia: dalle attività di conservazione e catalogazione (che hanno riportato l’attenzione sulla materialità dell’oggetto e a un approccio ‘culturalmente’ orientato) al fiorire di studi sempre più metodologicamente attrezzati ma anche ad un primo radicamento dell’insegnamento di Storia della fotografia, nelle sue varie forme, declinazioni e competenze, nelle università italiane.
[1419] Resta per altro singolare il fatto che il libro parlasse esplicitamente di “cultura” o di “culture” solo a proposito di quegli anni, quasi a lasciar intendere che di queste non vi fosse traccia riconoscibile in altri periodi.
[1420] Leonardi, [Recensione], 2012, cfr. supra Nota 1409.
[1421] Russo 2011, p. 228, nota 23; giudizio solo in parte condivisibile, in quanto non teneva conto degli antecedenti costituiti dalla Mostra romana del 1953 e della Triennale del 1957, oltre che degli studi di Silvio Negro, tutti episodi ampiamente citati per altro, di cui quel contributo di Vitali rappresentava semmai un esito.
[1422] Pare però poco condivisibile il giudizio espresso in merito alla metodologia adottata da Vitali, che avrebbe orientato le proprie analisi critiche “alla descrizione e alla ricostruzione dell’œuvre di un fotografo, all’identificazione di simbologie e influenze artistiche, grafiche e letterarie (…) attraverso una puntuale analisi filologica che rintracciava l’origine di ciascuna opera collocandola nell’ambito del sapere umano nel senso più alto del termine.”, Russo 2011, p. 216. Sulla figura e sulla produzione storiografica di Lamberto Vitali si veda Paoli 2004; i saggi contenuti nel volume, edito per onorare la memoria e il gesto del collezionista e studioso che aveva donato la propria raccolta fotografica alla Civica Raccolta di Stampe “A. Bertarelli” di Milano (quindi al Civico Archivio Fotografico dopo l’accorpamento del 1998), ne analizzavano la figura a partire da fonti prevalentemente inedite, conservate negli archivi familiari e in quelli della casa editrice Einaudi, presentandosi complessivamente come la materializzazione di un gesto sintetico, che riuniva e connetteva elementi diversi, rendendoli visibili: una mappa mentale che descriveva la geografia di una porzione rilevante della nostra cultura fotografica. Il sommario era infatti assimilabile a un grafo che descrivesse sviluppi e sedimenti di una trama di vicende, relazioni, percorsi di formazione e di studio che hanno fortemente segnato la storiografia fotografica italiana.
[1423] “Unfortunately, this same eclecticism just as often frustrates.”, Dominique Padurano, [Recensione], “Italian American Review”, 3 (2013), n. 2, Summer, pp. 142-145 (142), che sottoponeva a critica serrata sia alcune premesse teoriche di Verdicchio sia alcune assenze inspiegabili come quella di Cesare Lombroso che “would have been a natural fit for a book examining how photography helped to establish an Italian type – especially one associated with “looters” and “thieves.” ” (143).
[1424] “The photograph’s lack of an apparent narrative structure works to ist advantage as an insidious tool of speculative narration, in the way that it purports to mirror the world and offer an expansion of its meaning by its speculated images.”, Verdicchio 2011, p. 2, corsivo dell’autore. Difficile rendere in italiano la coppia semantica e concettuale su cui l’autore aveva costruito il proprio punto critico, “speculative narration” / “speculated images”, giocata sulla duplice concezione filosofico pragmatica e ottico fisica delle aggettivazioni.
[1425] “By documenting and museifying the diversely defined body of the nation it also defines in contrast a way to visualize an invisible and idealized national body.”, ivi, p. 55.
[1426] Hill et al. 2014; il volume comprendeva anche alcune ‘fonti primarie’, ovvero la traduzione di due testi di Umberto Eco, Una foto, a proposito della famosa fotografia realizzata da Paolo Pedrizzetti a Milano il 14 maggio del 1977, originariamente pubblicato ne “L’Espresso”, 29-05-1977 e di Franco Vaccari, Fotografia e Ready- Made, tratto da Id., Fotografia e inconscio tecnologico, 1979, cfr. supra, nota 397, pp. 93-101 ed anche Id., Apollo e Dafne: un mito per la fotografia, “Giornale di Fotologia”, Speciale Biennale, n. 2, giugno 1995, ora entrambi disponibili in Nicoletta Leonardi, a cura di, Feedback: scritti su e di Franco Vaccari. Milano: Postmedia, 2007. Sulla fotografia di Pedrizzetti si vedano ora i contributi contenuti in Sergio Bianchi, a cura di, Storia di una foto. 14 maggio 1977, Milano, via De Amicis. La costruzione dell’immagine icona degli ‘anni di piombo’. Contesti e retroscene. Roma: Derive Approdi, 2011.
[1427] Benedict Anderson, Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism. London-New York: Verso, 1982, 19912 (ed. italiana, Roma: Manifestolibri, 1996). Allo studioso statunitense, non considerato da D’Autilia, si era in parte richiamato anche Verdicchio ma distaccandosi in modo significativo dalle sue interpretazioni, considerando che nel caso dell’Italia il processo di formazione della sua “comunità immaginata” era avvenuto per larga parte “all’esterno della nazione stessa” (81).
[1428] “Suspending my aversion to visual essentialism, then, I now try to see how such a creation can come about on the basis not of a collection of objects or categories of objects, but of visuality as the object of study.”, Mieke Bal, Visual essentialism and the object of visual culture, “Journal of Visual Culture”, 2 (2003), n. 1, April, pp. 5-32 (8).
[1429] “The visual practices that are possible in a particular culture, hence, scopic or visual regimes; in short, all forms of visuality (…) Instead of visuality as a defining property of the traditional object, it is the practices of looking invested in any object that constitute the object domain: its historicity, its social anchoring and its openness to the analysis of its synaesthetics. It is the possibility of performing acts of seeing, not the materiality of the object seen, that decides whether an artifact can be considered from the perspective of visual culture studies.”, ivi, pp. 9-11, corsivi dell’autrice.
[1430] “Along with the question of what photography says about Italian culture, these pages explore a second, complementary one: what does Italy’s relation to photography reveal about the medium in all its infinite reproducibility, complex temporality, and ambiguous ontology?” Sarah Patricia Hill, Giuliana Minghelli, Introduction, 2014, cfr. supra Nota 1402, p. 3.
[1431] “The book nonetheless makes a claim for the particularity of the Italian case, arguing that Italy’s relationship to both photography and modernity has historically been tense and ambivalent.”, Beth Saunders, [Recensione], “CAA. Reviews”, 2015, November 5, New York, the College Art Association, http://www.caareviews.org/reviews/2612 [24 11 2015].
[1432] “The book traces a series of movements and transactions that (…) pinpoint (…) multiple photographies and multiple Italies.”, Sarah Patricia Hill, Giuliana Minghelli, Introduction, 2014, cfr. supra Nota 1402, p. 4.
[1433] Aubenas et al. 2010.
[1434] “(…) Italie comme terrain d’expériences. C’est précisément ce dialogue entre eux qui a construit la photographie italienne des origines et qui lui donne son sens sur le plan artistique autant que technique.”, Anne Cartier-Bresson, Le travail du négatif, 2010, cfr. supra Nota 1391, p. 22, un fenomeno che dava corpo a quel “carattere (…) in qualche modo straniero” della fotografia italiana delle origini di cui avrebbe scritto di lì a poco Maria Antonietta Pelizzari (2011a, p. 7). Un analogo impegno, un vero e proprio esercizio di filologia critica, aveva già caratterizzato la realizzazione di una mostra come Roma 1850 che aveva avuto proprio la restauratrice francese tra le curatrici (Cartier-Bresson et al. 2003) e che già allora si era proposta di ricostruire nella loro specificità le soluzioni tecnologiche adottate dai diversi autori commisurandole alle varianti espressive.
[1435] Maria Francesca Bonetti, Talbot et l’introduction du calotype en Italie. In Aubenas et al. 2010, pp. 25-35. La sintesi fornita nel saggio era molto articolata e documentata, ma segnaliamo che l’autore della citazione (p. 27) tratta dal Nuovo Dizionario Universale Tecnologico, era Albert Donné e non Giovanni Minotto, che ne fu solo il traduttore; cfr. supra Nota 4.
[1436] “La formation d’une nouvelle ‘sensibilité esthétique’ et d’un lexique photographique original (…).”, Monica Maffioli, La promenade italienne: lieux, paysages et architecture. In Aubenas et al. 2010, pp. 37-45 (38).
[1437] Silvia Paoli, Culture artistique et photographie: les Académies des Beaux Arts et la diffusion du calotype, ivi, pp. 47-55. Alla ricca rassegna, che toccava i principali centri, da Venezia a Milano passando più rapidamente per lo Stato Pontificio, mancavano però almeno Torino e Napoli. Per quanto riguarda Firenze si vedano ora le relazioni di Andrea Greco, Fotografia e documentazione d’arte nell’Accademia di Belle Arti di Firenze 1839-1870 e di Monica Maffioli, Del metodo del fare e del metodo del vedere: la fotografia all’Accademia di Belle Arti di Firenze nella seconda metà dell’Ottocento. In L’Accademia di Belle Arti di Firenze negli anni di Firenze capitale 1865-1870, atti del convegno (Firenze, Accademia di Belle Arti, 26-27 novembre 2015), a cura di Cristina Frulli, Francesca Petrucci. Firenze: Consiglio regionale della Toscana, 2017, rispettivamente alle pp. 290-336, 337-362.
[1438] “Ce milieu où se mêlent l’art et le beau monde (…) Les conditions particulières du séjour romain ont donc favorisé ces échanges privilégiés, dont on ne trouverait pas l’équivalent à Paris à la même période.”, Sylvie Aubenas, Autour de Frédéric Flachéron: les calotypistes français en Italie. In Aubenas et al. 2010, pp. 57-61. La supponente affermazione dell’autice che “le nom même de Giron des Anglonnes, ronflant et inconnu, à été fabriqué (…) sur la base d’un jeu de mots à peu près transparent” (60) è stata recentemente smentita da Pérez Gallardo 2015, che ha identificato il personaggio in Pedro de Alcántara Téllez-Girón y Fernández de Santillán, principe de Anglona (1812-1900), individuandone anche tre stampe firmate sul negativo nella collezione di Luis de Madrazo. Per un aggiornamento storico critico sulle vicende della Scuola fotografica romana si veda ora Maria Francesca Bonetti, L’âge d’or della fotografia a Roma tra studio, arte e mercato delle immagini. In Mina 2015, pp. 12-37.
[1439] Più di un semplice cenno biografico, crediamo, avrebbe meritato l’importante viaggio di Caneva in Cina, studiato da Ruggero Pini (2007), ricordato da Terry Bennett, History of Photography in China, 1842- 1860. London: Bernard Quaritch, 2009, pp. 46-52 ed anche da Jeffrey W. Cody, Frances Terpak, eds., Brush & Shutter: Early Photography in China. Los Angeles: The Getty Research Institute, 2011, in particolare p. 36, tavv.2,3.
[1440] Giacomo Caneva, Tempio di Vesta, 1847, cfr. Vitali 1957, n. 34. L’opera è stata recentemente esposta nella mostra L’incanto della fotografia. Le collezioni Silvio Negro e Valerio Cianfarani al Museo di Roma, Roma, Palazo Braschi, 14 ottobre 2015 -28 febbraio 2016.
[1441] Zannier 1997b.
[1442] Becchetti 1978, p. 100, e analiticamente presentata in Pelizzari 2003, pp. 57-62.
[1443] Pelizzari 2000.
[1444] “che cosa si intende per Pittorialismo (o Pittoricismo)”, si chiedeva infatti Zannier 2004, p. 7.
[1445] A questi altri esempi potrebbero essere aggiunti, come l’inclusione di Giorgio Roster semplicemente in virtù del suo ricorso alle autocromie; in altri casi poi la fretta ha portato a fornire indicazioni errate quali l’inclusione di Luciano Morpurgo tra i “non professionisti” (29).
[1446] Armellin 2000; McMahon 2004.
[1447] Daum et al. 2005. In quell’occasione si tenne anche una giornata di studi (Rennes, 19 ottobre 2005) promossa dal Museo e dall’Università Rennes 2 Haute-Bretagne con il sostegno della Société Française de Photographie, dedicata a La photographie pictorialiste: avant- garde 1900?, curata da Nathalie Boulouch e Michel Poivert.
[1448] Il contesto italiano, specie per quanto riguardava il ruolo svolto dalle mostre, venne trattato in catalogo nel saggio di Pauline Lucet (2005), che nel corso della giornata di studi sopra ricordata presentò invece un intervento incentrato sulle riviste, in particolare “La Fotografia Artistica”. Su alcuni aspetti specifici delle fasi di formazione di una cultura pittorialista in Italia si veda anche Cavanna 2013, in cui si studiava il passaggio dalla fotografia d’arte alla fotografia artistica segnato dalla contestualizzazione del monumento architettonico mediante l’inserimento di personaggi in costume. Un fenomeno ben presente nella produzione italiana ed europea nell’ultimo decennio del XIX secolo.
[1449] “ La dimension européenne apparaît bien comme la bonne échelle pour comprendre un art dont le rapport à son temps fut plus complexe que l’antithèse réductrice de l’avant-garde et de l’antimodernisme. L’exploration des ambiguïtés et des contradictions des repères esthétiques du pictorialisme montre que c’est notre image des premières décennies du xxe siècle qui pêche par une simplification excessive.”, André Gunthert, [Recensione], ”Études photographiques”, 19 (2006), décembre, on line : http://etudesphotographiques.revues.org/2203 [14 11 2015]. Analoghe considerazioni positive in Hélène Pinet, La Photographie pictorialiste en Europe 1888- 1918 , “Critique d’art”, 27 (2006), printemp, on line : http://critiquedart.revues.org/1282 [14 11 2015]. Il fenomeno del pittorialismo è stato oggetto del convegno Inspirations – Interactions: Pictorialism Reconsidered / Inspirationen – Interaktionen: Kunstfotografie um 1900 neu betrachtet (Berlino, Museum für Fotografie, 21-23 novembre 2013), Claudia Pfeiffer e Ulrich Rüter, hg . Particolarmente interessanti per gli aspetti qui considerati i contributi di Alison Nordström, The Pictorialist Object e di Michel Poivert, French Pictorialism: Anti- Modernity and Avant- Garde in Photography , che suggeriva di considerare “il pittorialismo come un atteggiamento critico nei confronti del progresso. Mentre l’avanguardia costituisce una frattura nella tradizione artistica, il Pittorialismo è una frattura nel progresso di una storia positiva delle tecniche.” (p. 1) Le relazioni presentate al simposio sono ora accessibili tramite il “Pictorialismus Portal”, curato da Claudia Pfeiffer, Ulrich Rüter e Lars Spengler per la Kunstbibliothek degli Staatlike Museen di Berlino: http://piktorialismus.smb.museum/index.php?lang=en [22 03 2016].
Segnaliamo infine la recente esposizione Il pittorialismo italiano e l’opera fotografica di Peretti Griva, catalogo della mostra (Torino, Museo nazionale del cinema – Mole Antonelliana, 8 febbraio – 8 maggio 2017), a cura di Marco Antonetto, Dario Reteuna. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2017.
[1450] Si veda Martina Caruso, Italian Humanist Photography from Fascism to the Cold War. London-New York: Bloomsbury, 2016.
[1451] Neorealismo e fotografia: il Gruppo friulano per una nuova fotografia, 1955-1965, catalogo della mostra (Pordenone, Ex Teatro Sociale, 1987-1988), a cura di Italo Zannier. Udine: Art&, 1987.
[1452] Neorealismo. La nuova immagine in Italia 1932-1960, catalogo della mostra (sedi varie), a cura di Enrica Viganò. Milano: Admira, 2006. Si veda ora Realismo, neorealismo e realtà: Fotografie in Italia 1932-1968. Collezione Guido Bertero, catalogo della mostra (Torino, Museo Ettore Fico, 28 ottobre 2016 – 29 gennaio 2017), a cura di Andrea Busto; testo critico di Roberta Valtorta, con una intervista a Enrica Viganò. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2016
[1453] Scriveva l’autrice nella bozza di proposta editoriale datata 2015: “Originally considered a French genre, it expanded to include the American tradition with photographers like Paul Strand, William Klein and David Seymour. (…) Humanist photography includes vernacular or amateur photography, photojournalism, anthropological photographs and art photographs. From its ‘hidden’ status under Fascism to its explosion after the Second World War, Italian humanist photography is revealed through the work of thirty photographers, including Luciano Morpurgo, Cesare Barzacchi and Giacomo Pozzi-Bellini as well as post-war photographers Mario Giacomelli, Fulvio Roiter, Gianni Berengo Gardin and Ugo Mulas.”
[1454] La cui paternità è riconosciuta unanimemente ad Aldo Moro, datandola al 1959.
[1455] I dati e le citazioni utilizzate per questa sintetica ricostruzione delle vicende della Lista sono tratti dal sito http:// liste.racine.ra.it/ pipermail/s-fotografie/ [22 02 2017] che raccoglie tutta la corrispondenza pubblica scambiata tra gli aderenti, ordinabile secondo diverse chiavi di accesso.
[1456] Preceduto da una serie di iniziative promosse da enti diversi, l’attenzione per il tema avrebbe portato al convegno Problemi e pratiche della digitalizzazione del patrimonio fotografico storico, che dopo una serie di rinvii si sarebbe tenuto a Ravenna solo il 27- 28 Maggio 2004; per quell’occasione AFT promosse una rilevazione, condotta da Monica Gallai, delle iniziative di digitalizzazione in corso da parte di enti pubblici e privati italiani. Poco dopo la pubblicazione delle IFLA Digital Reference Guidelines da parte della Reference Work Section dell’IFLA (2002; ediz. italiana 2004), si era tenuto a Firenze, il 16 – 17 ottobre 2003 il convegno Futuro delle memorie digitali e patrimonio culturale e pochi giorni dopo, a Roma, il workshop internazionale Digitalizzazione: cosa fare e come farla, organizzato dal MiBAC in collaborazione con la Commissione Europea e l’AIB nell’ambito del Progetto Minerva. In quel contesto andava compresa anche la costituzione, nel dicembre 2003, su mandato del Comitato Guida per la Biblioteca Digitale Italiana (BDI), e dell’ICCU, di un gruppo di lavoro incaricato di stilare le linee guida per i progetti digitali relativi al patrimonio fotografico, che produsse il documento di lavoro Linee di indirizzo per i progetti di digitalizzazione del materiale fotografico, che a sua volta conteneva un elenco di enti attivi in progetti di catalogazione. L’ICCD aveva già a suo volta emanato nel 1998 la Normativa per l’acquisizione digitale delle immagini fotografiche, poi meglio definita nel suo Ambito di applicazione in un successivo documento del 2005.
[1457] Pierangelo Cavanna, Storie di fotografia, 7 giugno 2005.
[1458] Luigi Tomassini, Cuoio e fantasmi, 7 giugno 2005.
[1459] Silvia Berselli, Largo ai giovani!, 3 giugno 2008.
[1460] Costanza Caraffa, Florence Declaration per la preservazione degli archivi fotografici analogici, 05-11-2009. Il testo in più lingue è disponibile all’indirizzo http://www.khi.fi.it/it/Declaration [11 12 2015].
[1461] Cesare Colombo, Re:Florence Declaration per la preservazione degli Archivi Analogici, 09-11-2009.
[1462] Carlo Bonazza, Re:Florence Declaration per la preservazione degli Archivi Analogici, 10-11-2009.
[1463] Costanza Caraffa, Re: Re:Florence Declaration per la preservazione degli archivi analogici, 10-11-2009.
[1464] Luca Pagni, Ando Gilardi sulla “Florence Declaration per la preservazione degli Archivi”, 18-11-2009.
[1465] Diego Mormorio, Maurizio Ferraris: La fotografia nell’epoca della sua iper-riproducibilità tecnica, 28-10-2010.
[1466] Fabrizio Celentano, saper buttare, 31-10-2010.
[1467] Veronica Lisino, Comma 29, 9-10-2011.
[1468] Peter M. Senge, The fifth discipline: the art and practice of the learning organization. New York: Doubleday, 1990 (ediz. italiana Milano: Sperling & Kupfer, 1992).
[1469] Cinzia Frisoni, Comma 29, 10-10-2011.
[1470] Con la sola eccezione di Cesare Colombo (12-10-2011) che non riteneva che la SISF dovesse “guidare il dibattito, non è questo il luogo, qui si deve conservare una neutralità assoluta… altrimenti proprio la SISF sarebbe poi accusata di partito preso. Siamo noi che singolarmente come studiosi di fotografia – e sopratutto come cittadini – dobbiamo farci sentire.”
[1471] Luigi Tomassini, Comma 29?, 13-10-2011.
[1472] Per alcuni interventi su questo tema si veda Luigi Tomassini, RE: culture dei media oggi, a proposito di Simoncelli + una riflessione senza punto di arrivo, 7-11-2011 e le mail collegate.
[1473] Questa curiosa ciclicità era confermata anche da una successiva occasione, nata dalla segnalazione di Nicoletta Leonardi in merito all’appello fatto circolare in rete per chiedere lumi a proposito dei rischi incombenti sull’archivio Alinari.
[1474] Sara Filippin, fotografia, democrazia e soldi pubblici, 20-11-2012: “Diego, già in passato si è tentato di condividere in lista alcune questioni che definirei ‘politiche’ in quanto coinvolgono tutti noi come operatori e come cittadini, ma con risultati scarsissimi. Personalmente credo che sia un errore, ma certo non è possibile coinvolgere pubblicamente le persone se non se la sentono. Rispetto alla questione museo: mi trovi sostanzialmente d’accordo.”
[1475] Sauro Lusini, museo di roma, 20-11-2012. Per quanto riguardava il previsto Museo e distinguendosi in questo da Mormorio, di cui non apprezzava il tono polemico, invitava a spostare “l’attenzione sul progetto e sulle opportunità che offre, invitando le persone, e in tal senso anche gli iscritti alla lista, a discuterne e magari avanzare proposte, suggerimenti, idee piuttosto che astrattamente parlare dell’investimento che ovviamente si giustifica, poco o molto che sia, solo in presenza di ragioni valide.”
[1476] Serge Noiret, museo di roma, 20-11-2012.
[1477] Serge Noiret, Fwd: [Archivi 23] art GVolpe L’immagine negata/Il Manifesto, 30 genn 2014, 31-01-2014.
[1478] Giuliano Volpe,L’immagine negata, “il Manifesto”, 30.01.2014, on line: http://ilmanifesto.info/limmagine-negata/ [12 12 2015].
[1479] Per una documentata sintesi di questa vicenda si veda https://fotoliberebbcc.wordpress.com/category/cosa-e-accaduto/ [12 12 2015]. Tali norme restrittive sono poi state superate al momento dell’entrata in vigore della legge 4 agosto 2017 n. 124 art.171, comma 3 e 3bis.
[1480] Serge Noiret, Condividere e firmare?, 4-6-2015.
[1481] Nell’elenco dei 4229 sottoscrittori, aggiornato al 6 febbraio 2015 consultabile all’indirizzo https:// fotoliberebbcc.wordpress.com/ 2015/02/06/746/ [12 12 2016] il nome di Noiret però non compariva né erano presenti quelli di altri storici e storici della fotografia aderenti alla Lista s-fotografie o alla SISF, con alcune rare eccezioni quali ad esempio Sara Filippin, Massimo Agus e Costanza Caraffa.
[1482] Luigi Tomassini, lista e associazione, 10-02-2006, http://www.sisf.eu/lista-di-discussione.
[1483] A Reggio Emilia: Le società fotografiche e gli studi sulla fotografia; a Roma: Orientamenti e prospettive degli studi sulla fotografia in Italia. Quale viatico per la messa a punto del programma di attività della SISF, nel corso dell’incontro reggiano le caratteristiche della storia italiana delineate da Marina Miraglia (La Società Fotografica Italiana e le origini degli studi sulla fotografia in Italia) vennero poste a confronto con alcune esperienze straniere (Ungheria, Germania, Francia) mentre a Roma, la riproposizione delle due relazioni principali presentate a Reggio Emilia (Miraglia, Tomassini) fu accompagnata da una riflessione a più voci di studiosi e intellettuali attivi in aree prossime come Alberto Abruzzese e Francesco Faeta. La documentazione relativa a queste attività è disponibile all’indirizzo http://www.sisf.eu/sisf/eventi/categorie/convegni/ [25 07 2017].
[1484] Al convegno parteciparono una quarantina di relatori organizzati in diverse sessioni dedicate rispettivamente a “Esperienze didattiche a confronto”, “Scavalcamenti disciplinari”, “Metodi, strumenti, reti” ma anche alla presentazione di laboratori e progetti; si veda il programma alla pagina http://www.fotostoria.de/?p=1174 [17 06 2017].
[1485] Giovanni Fiorentino, www.sisf.eu, 4 Giugno 2008.
[1486] Dalle prime iniziative di Ando Gilardi (et al. 1968) e del CIFe (Macchieraldo 1968), poi riprese da Piero Berengo Gardin (et al. 1978) l’attenzione per le fotografie di famiglia non era mai venuta meno, ed aveva costituito l’argomento del terzo volume del progetto einaudiano L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia (De Luna et al. 2005/2006), intitolato proprio a Gli album di famiglia. Le ricerche successive furono invece prevalentemente circoscritte a contesti locali, come quella svolta a Teramo (La Penna 2009) nel corso della quale le fotografie non vennero “scelte per la loro bellezza, ma per i ricordi che evocavano” (57) e quindi studiate con un metodo di derivazione etnografica mediante la fotointervista, ciò che consentiva all’autore – con apparente paradosso – di dire che “la dimensione orale della fotografia è fondamentale” (58). Nello stesso anno, ma a livello regionale si era collocata quella intitolata Familia: fotografie e filmini di famiglia nella Regione Lazio, (Roma, Complesso del Vittoriano, 24 marzo – 10 maggio 2009), catalogo a cura di Gabriele D’Autilia, Laura Cusano, Manuela Pacella. Roma: Gangemi, 2009, a cui corrispondeva anche la realizzazione di un sito: http://www.fotofamilia.it/xSearch-fl/ [04 09 2018] Quell’esposizione costituiva il primo esito di un progetto ideato nel 2006 dall’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico e finalizzato al reperimento delle fotografie e dei filmini familiari nel territorio regionale (con esclusione di Roma), con l’obiettivo dichiarato “di avere come soggetto non la famiglia ma la fotografia familiare, la sua storia e le sue regole, le sue permanenze e le sue discontinuità” e una metodologia di ricerca che si fondava sul coinvolgimento degli “studenti delle scuole medie, che hanno selezionato gli album di famiglia secondo criteri stabiliti”, ciò che almeno nelle intenzioni avrebbe consentito di “definire un metodo omogeneo di reperimento delle fonti”, Gabriele D’Autilia, La diffusione del sapere attraverso le immagini tecniche: fotografia e non fiction film, “Il capitale culturale”, 8 (2013), pp. 121-136, online: http://riviste.unimc.it/index.php/cap-cult/article/view/561 [04 09 2018]. La dimensione nazionale fu invece scelta per il progetto “Radici”, che si interrogava sulle relazioni tra memoria visuale e identità ed aveva l’ambizioso compito di favorire “l’individuazione delle Radici [sic] personali all’interno delle testimonianze storiche del XIX e XX secolo”, facendo ricorso specialmente alle tecnologie digitali per la raccolta dei documenti dai privati possessori mediante l’attivazione di un apposito sito (www.risorgimento.it/radici) [04 09 2018] e un recapito mail cui inviare la relativa scheda descrittiva. La mostra che ne derivò (Pizzo 2012) venne incentrata prevalentemente sulla tipologia materiale e concettuale dell’album, qui inteso come “museo personale” costituito da materiali eterogenei ma significanti per la conservazione e la ricostruzione delle memorie del possessore.
[1487] Francesco Faeta, Antonino Pennisi, Introduzione. In Faeta et al. 2013, pp. I-V (II). Su questi temi si veda anche Gillian Rose, Doing Family Photography: The Domestic, The Public and The Politics of Sentiment. Farnham, Surrey: Ashgate, 2010.
[1488] Faeta, Pennisi, Introduzione, 2013, citato alla nota precedente. A puro titolo d’esempio possiamo ricordare una delle sezioni di panel programmaticamente intitolata Italie/Italia 150 anni. Paesaggi, città, arte nell’immaginario fotografico e nella memoria d’archivio, che si tradusse nella consueta rassegna di ormai ben noti casi di studio.
[1489] Dopo le due giornate dedicate agli archivi della stampa ‘militante’ (Sesto San Giovanni, 1 dicembre 2011) e delle agenzie (Roma, 6 dicembre 2012), aperte entrambe da relazioni di Adolfo Mignemi, il successivo convegno della SISF che si tenne a Ravenna dal 30 maggio al 1 giugno 2013, affrontò le questioni poste dallo studio dei rapporti tra Fotografia, editoria, ricerca. A proposito di stampa militante si veda ora Monica di Barbora, a cura di, Gli archivi fotografici dell’ “Unità”: Milano, Roma e le redazioni locali. Sesto San Giovanni: Mimesis, 2016.
[1490] Tra i vari contributi comparsi sulla Lista dopo la chiusura di “AFT” merita ricordare quello di Sara Filippin, AFT: e poi ?, 02-10-2009, che propose forse con troppo anticipo sui tempi la realizzazione di “una rivista on-line che qualche istituzione potrebbe sostenere (la stessa SISF ?)”. Sarà stata certo solo una fortuita coincidenza ma fu proprio un saggio della studiosa ad aprire molti anni dopo la nuova rivista: Sara Filippin, “Questa fotografia non s’ha da fare…”: Morris Moore, Raffaello e l’Accademia di Belle Arti di Venezia, “RSF”, 1(2015), n.1, pp. 8-25.
[1491] Mentre il panel del convegno romano era connotato da una declinazione che si potrebbe schematicamente qualificare come socio antropologica, il cantiere SISF dedicato agli Sguardi fotografici sul territorio: progetti e protagonisti fra storia e contemporaneità in Italia (Ravenna, 20-22 novembre 2014) accentuò piuttosto le interpretazioni paesaggistiche e territoriali sino alla scala architettonica, trovando la propria peculiarità nell’accostamento tra casi di studio storici o del pieno Novecento e progetti di rilevamento e interpretazione attuali quando non addirittura in corso, quasi a segnare la continuità di una cultura fatta di intersezioni continue e magari conflittuali tra politiche territoriali (pianificazione, conoscenza, tutela), culture e pratiche fotografiche.
[1492] L’ASMI, fondata nel 1982 dallo storico Christopher Seton-Watson, oltre a curare seminari e convegni dal 1995 pubblica il quadrimestrale “Modern Italy”.
[1493] Iconic Images in Modern Italy: Politics, Culture and Society. London, University of London, 22-23 November 2013, ora in “Modern Italy”, 21 (2016), n. 4, monografico.
[1494] Tiziana Serena, Novità editoriali: “Rivista di studi di fotografia”, 14-06-2015.
[1495] Al momento della redazione di queste note l’avventura intellettuale della rivista era però poco più che agli inizi, ciò che consentiva al più di formulare i migliori auguri di realizzazione di un progetto che per il futuro fosse in grado di affrontare e offrire contributi innovativi nei temi e nei modi del loro trattamento, senza ritornare su questioni già ampiamente trattate da alcuni degli autori sino a quel momento presenti e che – soprattutto – come si dichiarava nel primo Editoriale, si operasse “nella verifica delle metodologie e delle aperture che esse rendono possibili” e non nella sostanziale separatezza dei singoli approcci.
[1496] Sauro Lusini, Fare storia attraverso gli archivi fotografici: le istituzioni culturali a Roma, [recensione di Fabian 2014] “RSF”, 1 (2015), pp. 118-119.
[1497] Principe et al. 2004; Tartaglia 2004a; Tartaglia 2004b; Bernacchini 2007; Andreoli 2008; Bernacchini 2008.
[1498] Manzo et al. 2004, da accostare a P. Cavanna, Antonella Russo, a cura di, La città delle immagini, sito dedicato alle collezioni fotografiche dell’Archivio Storico della Città di Torino e alle principali collezioni cittadine, http://www.cittadelleimmagini. comune.torino.it/index.php [non più accessibile 27 07 2017]; Paoli 2006a.
[1499] Gasparini 2005; Palma 2005; Quintavalle et al. 2010; i due volumi sulle raccolte fotografiche della Biblioteca Apostolica Vaticana” Voltan 2010 e Phillips 2012, compresi nella collana dal significativo titolo di “Documenti e riproduzioni”; Giuliani 2012b. Ricordiamo inoltre che nel 2009 è iniziato un progetto di pubblicazione on-line delle immagini dell’Archivio Fotografico e della Biblioteca della British School at Rome, consultabile all’indirizzo www.bsrdigitalcollections.it/ [27 04 2016]. Utili riferimenti al patrimonio fotografico prodotto e conservato negli archivi degli architetti lombardi sono poi contenuti in Ciagà 2012, le cui schede di censimento registrano la presenza di materiali fotografici, con sintetiche indicazioni tipologiche e quantitative.
[1500] Tomassini 2004b; Del Giudice 2005; Guerra 2005.
[1501] La nascita di alcuni musei e raccolte specificamente dedicate alla fotografia era stata tra i segni più rilevanti ed evidenti, per quanto numericamente ridotti, del mutato atteggiamento della politica italiana dei beni culturali nei confronti della fotografia nell’ultimo ventennio. Datava al 1998 la Fondazione per la storia della Fotografia della Fratelli Alinari, con il compito di “promuovere e realizzare le attività espositive oltre che di gestire le attività museali sia scientifiche che didattiche del MNAF, Museo Nazionale Alinari della Fotografia nella sua sede delle Leopoldine di Piazza S. Maria Novella a Firenze (attualmente chiuso), e dell’AIM nella sua sede del Bastione Fiorito del Castello di San Giusto di Trieste” ( http://www.mnaf.it/fondazione.php , consultato il 29 08 2017). Nello stesso anno erano state istituite anche le Raccolte Fotografiche Panini, nate allo scopo di salvaguardare e valorizzare il grande patrimonio raccolto da Giuseppe Panini, poi confluite nella Fondazione Fotografia Modena, istituita nel 2007 e ora nella nuova (2017) Fondazione Modena Arti Visive che riunisce la Galleria Civica, il Museo della Figurina e appunto la Fondazione Fotografia. Rientrano invece solo parzialmente nel nostro ambito di studio il MUFOCO di Cinisello Balsamo, nato nel 2004, che pur costituendo una realizzazione importante è prevalentemente orientato a promuovere “la conoscenza della cultura dell’arte visiva fotografica contemporanea in tutte le sue manifestazioni, implicazioni ed interazioni con le altre forme di espressioni artistiche sia contemporanee che future” (Statuto, art. 2) e il MAST di Bologna, realizzato dalla fondazione omonima per iniziativa di Isabella Seragnoli. La fondazione organizza dal 2013 Foto/Industria, la prima biennale al mondo dedicata alla fotografia dell’industria e del lavoro e ospita nella sede museale importanti mostre su questi temi con opere di autori storici e contemporanei. Altri ancora i progetti in campo, come quello per un museo della fotografia a Roma, da realizzarsi negli spazi dell’ex Mattatoio a Testaccio nell’ambito della Città delle Arti, avviato dal Comune di Roma nel 2000 e oggetto di considerevoli riflessioni preliminari (Perna et al. 2012), che hanno però individuato soprattutto le problematicità della proposta, forse non sufficientemente articolata e definita, tanto che a un lustro di distanza dalla sua presentazione se ne è persa ogni traccia.
[1502] Il progetto era compreso nell’ambito delle iniziative promosse dal Centro regionale di documentazione dei beni culturali ed ambientali del Veneto, istituito nel 1986 con il compito di raccogliere, elaborare e fornire informazioni sul patrimonio storico e artistico regionale. Il testo Ricerca regionale sulla fotografia storica nel Veneto: Relazione finale delle attività svolte nel corso dell’anno 1991, disponibile all’indirizzo https://www.regione.veneto.it/web/cultura/fondi-fotografici-approfondimento [27 04 2016] descriveva obiettivi e metodologie, illustrando anche la struttura catalografica adottata “mancando ancora una scheda-Archivio per le fotografie e i materiali fotografici elaborata dall’ICCD” e indicava i ricercatori impegnati nelle rilevazioni: Paola Campolucci, Antonello Frongia, Gabriella Troilo e Marco Zanta.
[1503] Favaro 2006. Un aggiornamento e un approfondimento dei dati limitatamente alla città di Venezia è stato poi condotto da Sara Filippin (2014), da integrare con i “Contributi per una storia della fotografia a Venezia” presentati al convegno del 2012 e ora raccolti in Brunetta et al. 2014, pp. 305-448.
[1504] Italo Zannier, Un suggerimento didattico: come intervenire sugli Archivi della Fotografia. Indicazioni operative, tratto da Id., Gli archivi della Fotografia. Problematiche, “Fotostorica: gli archivi della fotografia” , N.s., 1 (1998), n.1, settembre, pp. 5-8.
[1505] Brunetti 2012. Dalle relazioni presentate al convegno romano di Palazzo Barberini del dicembre 2012 derivò poi un’analogo strumento descrittivo delle principali collezioni pubbliche romane (Fabjan 2014), occasione per riflettere criticamente anche sulla “presunta urgente necessità” (Laura Moro, Introduzione, ivi, pp. 11-12) di realizzare un Museo della fotografia a Roma.
[1506] Dimitri Brunetti, a cura di, Gli Archivi storici delle Case editrici. Torino: Centro studi piemontesi, 2011.
[1507] Mancava infatti ogni riferimento agli archivi dell’Università o di organismi periferici dello Stato come le Soprintendenze; inoltre, piuttosto curiosamente, mente si citavano i fondi del Museo Nazionale del Risorgimento non si ricordavano quelli ben più consistenti e studiati della rete piemontese degli Istituti per la storia della Resistenza.
[1508] Brunetti 2012, p. 16. Cfr. supra Nota 1208 e testo relativo.
[1509] Nel 2010 venne presentato un progetto di Fototeca digitale piemontese, ora confluito nella nuova piattaforma Mèmora (http://www.memora.piemonte.it/) [04 09 2018].
[1510] Oltre alle opere catalogate in IMAGO, le fotografie di gran parte delle istituzioni culturali della regione sono catalogate nei Poli dell’Indice SBN, interrogabili sia a livello di singola biblioteca che di aggregazione di Polo che, infine, nella totalità del patrimonio conservato, mediante Sebina Open Search, cfr. Benassati 2003, che offriva anche una sintesi storica dei diversi progetti realizzati.
[1511] I dati quantitativi relativi alla Lombardia e al Friuli Venezia Giulia sono aggiornati al 18 giugno 2017. Il confronto con l’efficacia e i risultati della catalogazione online prodotta a scala nazionale dall’ICCD utilizzando il sistema SIGECweb è impietoso: al dicembre 2016, ultimi dati disponibili, risultavano compilate solo 23.926 schede “F”, cfr. http:// www. iccd.beniculturali.it /index.php?it/378/i-numeri-di-sigecweb [30 01 2018].
[1512] https://www.cultura.trentino.it/Fotografia-Storica [18 06 2017]. Alla stessa data risultava essere ancora in manutenzione e quindi non consultabile il più ricco sito: www.trentinocultura.net/catalogo/beni_cult/fotografia/foto_ind.asp.
[1513] La Fototeca del CRICD venne istituita con L.R. 116/80 (art. 10). L’elenco dei fondi fotografici posseduti, con sintetiche indicazioni, è disponibile all’indirizzo http://www.cricd.it/pages.php?idpagina=659 [18 06 2017].
[1514] http://www.librari.beniculturali.it/opencms/opencms/it/comitati/comitati/comitato_23.html [28 04 2014].
[1515] www.conafo.it [non accessibile 18 06 2017]; per una istruttiva e illuminante (istruttiva in quanto illuminante) sintesi degli obiettivi e degli esiti del progetto si veda Annamaria Amitrano, Comitato Nazionale “La fotografia italiana e la civiltà delle immagini”. In Daniela Porro, a cura di, Per la tutela della memoria: dieci anni di celebrazioni in Italia. Roma: Gangemi Editore, 2010, pp. 154-155.
[1516] Gabriella Guerci, Presentazione. In Id. 2007.
[1517] Serena 2007b.
[1518] La progressione del Censimento delle raccolte e degli archivi fotografici in Italia può essere seguita all’indirizzo http://www.censimento.fotografia.italia.it/, che costituisce a sua volta una sezione del più ampio portale http://www.fotografia.italia.it/ [04 09 2018]. La prima formulazione del progetto si doveva a un Comitato scientifico composto da Stefano Benedetto, Barbara Bergaglio, Lorenza Bravetta, Pierangelo Cavanna, Roberto Del Grande, Francesca Fabiani, Corinna Giudici, Roberto Koch, Valeria Moreschi, Laura Moro, Silvia Paoli e Roberta Valtorta.
[1519] Una efficace sintesi della genesi della storiografia italiana dell’emigrazione è stata offerta da Amoreno Martellini, Cinque domande sulla storiografia della emigrazione a Emilio Franzina ed Ercole Sori, “Storia e problemi contemporanei”, 16 (2003), n. 34, settembre, pp. 15-31, mentre per un inquadramento generale del fenomeno si rimanda a Paola Corti, Matteo Sanfilippo, a cura di, Migrazioni, “Storia d’Italia”, “Annali”, 24. Torino: Einaudi, 2009 . Sul tema si segnalano anche alcune iniziative espositive di carattere territoriale o locale, cfr. Lombardi 2008.
[1520] In allegato anche un CD, curato sempre da Franzina, con una antologia di Canzoni dell’emigrazione.
[1521] Serge Noiret, memorie visive degli emigranti, comunicazione inviata alla lista s-fotografie, in data 17 01 2003.
[1522] La situazione non risultava troppo diversa da quella descritta dieci anni prima da Peppino Ortoleva, Una fonte difficile. La fotografia e la storia dell’emigrazione, “Altreitalie”, 3 (1991), n. 5, aprile, pp. 120-129, che ribadiva il mantra consueto che “nella storiografia propriamente detta il riferimento alle fonti fotografiche è assai più sporadico, meno sistematico, a volte reticente. (…) Le fotografie relative all’emigrazione sembrano presentarsi allo storico come fonti insieme potenzialmente feconde e difficili da manipolare, seducenti ma impegnative e spesso, in ultima analisi, poco fruttuose: quasi fossero portatrici di una verità insieme troppo evidente e troppo sfuggente. (…) Così, questi documenti restano come sospesi fra la potenzialità evocativa, altissima e immediata, e la potenzialità conoscitiva, impervia e apparentemente proibitiva: sembrano prestarsi più facilmente a trasformarsi in emblemi, e financo in monumenti veri e propri (…) che a darsi da leggere al ricercatore.” (122) Fatte queste precisazioni ne sottolineava però l’importanza come fonte specie per lo specifico ambito di studio, ponendo anche questioni (che oggi diremmo discutibili) sui problemi relativi alla conservazione e al trattamenti archivistico di questo enorme patrimonio.
[1523] De Luna et al. 2005/2006.
[1524] D’Autilia, La diffusione del sapere attraverso le immagini tecniche, cfr. Nota 1486, p. 129 passim.
[1525] De Luna 2001, pp. 252-253, del resto ampiamente ripreso anche nell’introduzione al nuovo lavoro.
[1526] “Per riuscire completo, uno studio sull’immagine del duce veicolata dalla propaganda fascista (…) dovrebbe muoversi bensì dai negativi dell’archivio Luce, ma dovrebbe riscontrarne gli esiti dopo l’intervento di ulteriori mediazioni. (…) è quanto rinunceremo a fare qui, salvo ammettere che i negativi del Luce riflettono soltanto il momento genetico del work in progress che fu l’autoritratto del fascismo.”, Sergio Luzzatto, ‘Niente tubi di stufa sulla testa’. L’autoritratto del fascismo. In De Luna et al. 2005/2006, I, pp. 117- 201 (117-118). Pur esprimendo un giudizio sostanzialmente positivo sull’opera, anche Luigi Tomassini (2012, pp. 109-110) la considerava non tanto un esito compiuto quanto “un ulteriore contributo nella direzione della integrazione dei due punti di vista”.
[1527] Adolfo Mignemi, Fotografia e storia. Un percorso tra approcci disciplinari e tendenze negli ultimi decenni. In Lusini 2007, pp. 28-30; si veda anche Mignemi 2006.
[1528] Risaliva agli anni immediatamente precedenti la pubblicazione di alcuni contributi importanti: Elizabeth Edwards, Janice Hart, eds., Photographs Objects Histories: On the Materiality of the Image. London: Routledge, 2004; Elizabeth Edwards, Photographs and the Sound of History, “Visual Anthropology Review”, 21 (2006), nn. 1-2, pp. 27–46. Nessuno di questi testi venne citato neppure nell’intervento di Paolo Chiozzi, Fotografie e antropologia culturale. Appunti per un’etica dell’immagine fotografica. In Lusini 2007, pp. 25-27.
[1529] Francesco Marano, Camera etnografica: storie e teorie di antropologia visuale. Milano: Franco Angeli, 2007, p. 62.
[1530] “the possibility of a methodology concerning the use of photographs in history that not only implies a material and contextual conceptualisation of the pictures, but also allow for their performativity as event, difference and rupture.”, Louise Wolthers, Source Criticism and Beyond: A Photographical Turn in History, Conference Papers, Nordic Network for the History and Aesthetics of Photogaphy, Nynäs Havsbad , Sverige, 25–28 august 2005, p. 2; online: http://www.hf.uib.no/nnhap/ [18 02 2015].
[1531] Edwards, Photographs and the Sound of History, 2006, cfr. supra Nota 1528, p. 29.
[1532] Giovanni Fanelli, Nota introduttiva. In Fanelli et al. 2006, pp. 5-8.
[1533] Tomassini 2012, p. 93; il saggio offriva anche una sintetica rassegna critica della produzione storiografica italiana dalla metà degli anni ’70 del XX secolo richiamando il concetto benjaminiano di “dialettica ferma” già utilizzato in Tomassini 2009e. In quello stesso anno il tema era stato argomento del numero monografico Photography and Historical Interpretation, “History and Theory. Studies in the Philosophy of History”, 48 (2009), December, che raccoglieva gli interventi alla giornata omonima che si era tenuta alla Wesleyan University nel novembre del 2008. Si veda in particolare il saggio introduttivo di Jennifer Tucker, con Tina Campt, Entwined Practices: Engagements with Photography in Historical Inquiry, pp. 1-8, fondato sulla considerazione che “by exposing the questions we ought to raise about all historical evidence, photographs reveal not simply the potential and limits of photography as a historical source, but the potential and limits of all historical sources and historical inquiry as an intellectual project. (…) this is precisely the promise and ultimate potential of the historical study of photographs – that it pushes their interpreters to the limits of historical analysis.”. Una posizione critica che sembrava rimandare all’analisi delle ‘analogie’ tra fotografia e storicismo espresse da Siegfried Kracauer, Die Photographie, “Frankfurter Zeitung”, vol. 72 (1927), nn. 802-803, 28 ottobre, ripreso in Olivier Lugon, La Photographie en Allemagne. Anthologie de textes (1919- 1939). Nîmes: J. Chambon, 1997, p. 356-365. Allo sviluppo di quelle determinanti premesse teoriche e metodologiche contribuirono gli interventi poi qui pubblicati e soprattutto i “dialoghi” tra studiosi quali Marianne Hirsch e Leo Spitzer con Geoffrey Batchen, Patricia Hayes con David Campbell e tra Robin Kelsey e John Tagg.
[1534] Ciò che connotava questo intervento di Tomassini era la lettura delle due componenti in termini di contrapposizione, come se non esistesse una terza possibilità, che è quanto invece accade in ogni fotografia, che è sempre ‘traccia culturale’. Per quanto la definizione possa apparire un ossimoro è in questo senso che le fotografia possono essere considerate i perfetti oggetti teorici del linguistic turn, ancor prima e indipendentemente dal loro essere considerati oggetti sociali dotati di una propria biografia. Già Philippe Dubois, L’atto fotografico. Urbino: Edizioni QuattroVenti, 1996 [1983], p. 55 aveva tenuto a sottolineare “che il principio della traccia, per quanto essenziale, segna solamente un momento nell’insieme del processo fotografico. In effetti, a monte e a valle di questo momento dell’iscrizione ‘naturale’ del mondo sulla superficie sensibile, ci sono, da una parte e dall’altra, delle operazioni completamente ‘culturali’.” Per più recenti riflessioni a proposito del “delicate equilibrium of representation and belief, which this medium uniquely interrogates”, si veda Jordan Bear, Introduction: Photography’s “And/Or” Nature, “Visual Resources”, 26 (2010), n. 2, pp. 89-93.
[1535] Più articolati e problematici erano gli intenti programmatici delle giornate di studio promosse dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti e dedicate a La fotografia come fonte di storia (Brunetta et al. 2014) che intendevano dare conto degli usi sociali che coinvolgono la fotografia e prospettare “una storia della fotografia che sia anche storia della presenza sociale di questo mezzo.”
[1536] Matteo Stefanori, Fotografia e Storia. In Id. 2013, pp.n.n.
[1537] Monica di Barbora, Donne in AOI: fotografie tra sguardo pubblico e privato. In Stefanori 2013, pp.n.n.
[1538] Caterina Giannottu,La tradizione della Befana a Roma dal folklore alla retorica del potere fascista. In Stefanori 2013, pp.n.n.
[1539] Si cita qui la ben nota canzone di Pete Seeger, composta negli anni Cinquanta del Novecento ma incisa per la prima volta nel 1962, con relativo, opportuno sottotitolo: “ to Everything There Is a Season”.
[1540] Cfr. Serena 2010, p. 110, nota 38. Un’efficace sintesi dei passaggi concettuali che hanno messo in relazione, anche contraddittoria, concezioni testuali e iconiche è stato fornito da Bernd Stiegler, ‘Iconic Turn ‘ et réflexion sociétale, “Trivium”, 1, aprile 2008, consultabile all’indirizzo http://trivium.revues.org/308 [17 12 2015]. Ricordiamo che il concetto di “Iconic turn” richiamava esplicitamente quello formulato da Richard Rorty, ed., The Linguistic Turn. Recent Essays in Philosophical Method. Chicago – London: University of Chicago Press, 1967, che a sua volta riprendeva la formulazione adottata da Gustav Bergmann, The Metaphysics of Logical Positivism. New York: Longmans, Green and Co., 1954.
L’affannoso rincorrersi delle ‘svolte’ è stato recentemente richiamato anche nella presentazione di “Camera Austria International” , 37 (2017) n. 138, June, rivolto al tema dell’Archivio (della rivista): “After the loss of the majority of certainties in the understanding of photography, after all of the excessive accessing of photographic images, it seems appropriate to ask the question: How did it get this far? Which ‘turns’- the historiographic, the archival, the research, and the postcolonial turns – have served to affect, change, revamp? What can be said about photographic images in a time of the post-documentary, and the post-photographic? What comes after the unease about representation, and what disquiet has seized the photographic images of today?”
[1541] Andrea Emiliani, Premessa. In Giudici 2004, pp. 5-6.
[1542] Corinna Giudici, Arte tradotta in fotografie: oggetti e soggetti della tutela. In Id. 2004, pp. 9-13.
[1543] Nel riproporsi variato di quella condizione risiedeva anche il senso del titolo del volume (C’era due volte) e il riferimento alle differenti problematiche che animavano la riflessione in quegli anni: dalla critica della fonte fotografica alla sua corretta edizione; dall’analisi linguistica e stilistica alla sua considerazione come “agente di storia” anche nel contesto storico artistico e della tutela, tanto da dover riconoscere l’impraticabilità di “un approccio ‘insulare’ ad una fotografia.” (10) Tali impeccabili accortezze metodologiche risultavano però in alcuni casi contraddette da scelte curatoriali o editoriali poco coerenti, quali la mancata indicazione dell’autore delle fotografie pubblicate (sistematica per quelle a colori), a conferma di una lunga, spiacevole consuetudine delle pubblicazioni di storia dell’arte. Erano di quegli anni anche alcune iniziative specificamente inerenti al patrimonio fotografico delle biblioteche italiane, specie per quanto riguardava le problematiche conservative, cfr. Zagra 2004; Parlapiano et al. 2005.
[1544] Ferretti 2007, p. 13. In quel torno di anni era definitivamente invalsa la consuetudine di pubblicare le relazioni dei restauri condotti in preparazione di mostre o di ricerche monografiche (cito a titolo di esempio Ceriana et al. 2000; Paoli 2004; Cavanna 2005d; Michalitsis et al. 2008) mentre le metodiche di intervento entravano finalmente a far parte anche della manualistica rivolta agli operatori degli Archivi di Stato, cfr. Centro di fotoriproduzione legatoria e restauro degli Archivi di Stato, Chimica e biologia applicate alla conservazione degli archivi. Roma: Ministero per i beni e le attività culturali – Direzione generale per gli archivi, 2002; si vedano ora anche Luciano Residori, a cura di, Fotografie: materiali fotografici, processi e tecniche, degradazione, analisi e diagnosi. Padova: Il Prato, 2009; Barbara Cattaneo, a cura di, Il restauro della fotografia: materiali fotografici e cinematografici, analogici e digitali. Firenze: Nardini, 2013 e la bibliografia ivi citata.
[1545] P. Cavanna, Da strumento a patrimonio: documenti e opere, “Fototeche a regola d’arte”, Giornate di studi – Siena 30 novembre – 1 dicembre 2007, online: http://docplayer.it/12145688-Da-strumento-a-patrimonio-documenti-e-opere-pierangelo-cavanna-storico-della-fotografia-torino.html [04 09 2018]. Analoghe considerazioni potevano trarsi dalla ricostruzione delle vicende narrate nella stessa occasione da Silvia Paoli, Da Brera al Castello Sforzesco. Genesi, formazione e percorsi delle raccolte fotografiche dei musei milanesi, online: http://docplayer.it/16308871-Da-brera-al-castello-sforzesco-genesi-formazione-e-percorsi-delle-raccolte-fotografiche-dei-musei-milanesi-silvia-paoli.html [19 06 2017].
[1546] Si veda Caraffa 2011a.
[1547] Si veda anche, su questi temi, Tiziana Serena, Il posto della fotografia (e dei calzini) nel villaggio della memoria iconica totale. Uno sguardo sulle raccolte fotografiche oggi. In Guerci 2007.
[1548] Serena 2010, da leggersi in parallelo con Id. 2007b. I “fondamenti di un approccio teorico all’archivio fotografico”, definiti esponendo la propria biografia intellettuale, vennero successivamente delineati in Id. 2013a.
[1549] Tracce palpabili di questa fascinazione emergevano ad esempio nello scoprire che “le discipline storiche-archivistiche hanno maturato una diversa consapevolezza sul fatto che ogni testimonianza del passato possa essere considerata nel suo valore di fonte” (ivi, 125), ciò che (se mai vero) più che un’innovativa conquista sembrava essere la constatazione di un clamoroso ritardo rispetto alle acquisizioni metodologiche e storiografiche espresse dalla scuola delle “Annales” negli anni compresi tra le due Grandi guerre del Novecento, quindi in epoca decisamente ‘pre-postmoderna’. Basti qui richiamare la notissima, poetica analogia di Lucien Febvre: “L’histoire se fait avec des documents écrits, sans doute. Quand il y en a. Mais elle peut se faire, elle doit se faire, sans documents écrits s’il n’en existe point. Avec tout ce que l’ingéniosité de l’historien peut lui permettre d’utiliser pour fabriquer son miel, à défaut des fleurs usuelles.”, Lucien Febvre, Vers une autre histoire, “Revue de métaphysique et de morale” 68 (1949), n. 3-4, pp. 225-247, citato in Jaques Le Goff, Documento/monumento; “Enciclopedia Einaudi”, 5. Torino: Einaudi, 1978, pp. 38-48 (41), ora in Id., Storia e memoria, Torino: Einaudi, 1982, pp. 443-456.
[1550] Per un’utile sintesi dei principi che hanno portato all’emergere dell’influenza postmodernista in ambito archivistico si veda Bronwen Quarry, Photograph/writing with light: the challenge to archivists of reading photographs, Thesis (M.A.). Winnipeg: Dept. of History (Archival Studies), University of Manitoba – University of Winnipeg, 2003. Online: http:// www. collectionscanada. gc.ca/obj/s4/f2/dsk4/etd/MQ91280.PDF [14 04 2016].
[1551] Serena 2010, p. 109.
[1552] Ibidem, corsivo di chi scrive. Spiaceva constatare che per rafforzare il proprio punto di vista l’autrice avesse fatto ricorso a una citazione parziale e tendenziosa (p. 122, nota 38) del mio intervento alle giornate di studio senesi sopra richiamate, nel quale commentavo in parte un testo di poco antecedente della stessa Serena, Il posto della fotografia (e dei calzini), 2007, cfr. supra Nota 1547. Argomento del contendere non poteva essere, come affermava l’autrice, una mia posizione teoricamente contraria ad una concezione dell’archivio come “dispositivo e come strategia culturale, conoscitiva e interpretativa”, ma (più modestamente) l’utilità operativa del ricorrere alle pratiche ‘archivistiche’ dei fotografi per giungere a una definizione tipologica (e di conseguenza terminologica) condivisa di questi “multiformi ed eterogenei insiemi di sedimentazione di immagini fotografiche” (3 ) che lei stessa, alla soglia del processo di riflessione sull’archivio, aveva rinunciato a definire: “chiamatele come volete” era stato infatti l’invito rivolto ai partecipanti al convegno di Siena, nel corso del quale (e qui per dovere di cronaca mi permetto di pubblicare la frase incriminata nella sua necessaria completezza) avevo detto che “ciò di cui invece sono convinto è che sia poco utile guardare ai sistemi utilizzati dai produttori, dai fotografi per tentare di individuare modelli o risposte”.
[1553] Il termine appartiene al vocabolario della grammatologia derridiana, ma pare qui usato in accezione diversa e per certi versi impropria; si veda, per un primo approccio al problema , Arthur Bradley, Derrida’s Of Grammatology . Edinburgh: University of Edinburgh Press, 2008, p. 145.
[1554] Tiziana Serena, The Words of the Photo Archive. In Caraffa 2011b, pp. 57-71 (57); ediz. italiana Le parole dell’archivio Fotografico. In Elena Casetta, Pietro Kobau, Ivan Mosca, a cura di, A partire da Documentalità , “Rivista di Estetica”, N.s., 52 (2012), n.50, pp. 163-178.
[1555] Si veda, anche come buona sintesi degli studi precedenti, Jean-Marie Schaeffer, L’image précaire: du dispositif photographique. Paris: Seuil, 1987 (ed. italiana, L’immagine precaria: sul dispositivo fotografico. Bologna: CLUEB, 2006, traduzione e cura di Marco Andreani, Roberto Signorini). Restano in queste interpretazioni di Serena, pur così intellettualmente affascinanti e produttive, alcune questioni irrisolte che paiono fondamentali, a partire da quelle ontologiche, qui non considerate e (forse) ritenute irrilevanti; ma se uno dei due termini del rapporto fotografie/ iscrizioni perde di valore in sé allora, necessariamente, paradigmaticamente, la dualità stessa cessa di produrre senso. Non solo: se sono proprio le fotografie (in quanto fotografia) a non avere “per natura” un valore documentario, mi chiedo allora perché mai si sarebbero costituiti sedimenti e poi archivi proprio di fotografie e non – poniamo – di immagini manuali, a loro volte corredate e connotate da iscrizioni, intese queste come tracce o modificazioni fisiche su di un supporto (Maurizio Ferraris). E infine, ma sono questioni centrali, mi pare che in tutte queste elaborazioni manchi una chiara definizione del concetto di “valore documentario”, o almeno il tentativo di definirlo in relazione a qualcosa, come se fosse un’entità metafisica, oltre alla considerazione del ruolo dell’interpretante (archivista, storico, storyteller) nel riconoscimento dell’iscrizione in quanto tale e nella determinazione di questo valore.
[1556] Gli atti sono ora raccolti in Caraffa 2011b. Ai primi due convegni, tenuti a Londra, Courtauld Institute of Art, e a Firenze, Kunsthistorisches Institut, nei mesi di giugno e ottobre 2009, hanno fatto seguito l’appuntamento di New York, Institute of Fine Arts, nel marzo 2011 e quello fiorentino dell’ottobre dello stesso anno (cfr. Caraffa et al. 2015). Photo Archives V: The Paradigm of Objectivity si è tenuto al Getty Research Institute e The Huntington, Los Angeles il 25 – 26 febbraio 2016, mentre Photo Archives VI: The Place of Photography ha avuto luogo a Oxford nei giorni 20 e 21 aprile 2017. Accanto a questi va ricordato il simposio, organizzato da Costanza Caraffa e Julia Bärnighausen della Photothek des Kunsthistorischen Institut in Florenz – Max- Planck- Institut, Photo-Objects. On the Materiality of Photographs and Photo-Archives in the Humanities and Sciences, che si è tenuto a Firenze, Istituto degli Innocenti, nei giorni 15 – 17 febbraio 2017. Esemplari di questa attenzione per le diverse componenti e significati del patrimonio fotografico posseduto dal KIF sono i contributi e i progetti pubblicati online nella sezione relativa alla Fototeca: (http://www.khi.fi.it/4936951/photothek.) [04 09 2018], che “ è uno dei più importanti archivi fotografici a livello mondiale per la ricerca sull’arte e l’architettura italiane dalla tarda antichità al moderno, con particolare attenzione per l’Italia settentrionale e centrale. Una parte dell’archivio fotografico, in costante crescita dal 1897 (attualmente 614.000 fotografie), è accessibile anche online. Un quarto del fondo complessivo è già stato catalogato in HiDA-MIDAS secondo criteri scientifici.”, http://photothek.khi.fi.it/ [30 08 2017].
[1557] Caraffa 2011a; come è noto Dilly sosteneva che le fotografie dovrebbero essere considerate i veri e propri originali della Storia dell’arte, e che non sono le opera d’arte in sé ma le loro riproduzioni fotografiche a costituire l’oggetto delle descrizioni storico artistiche, cfr. Heinrich Dilly, Licht- bildprojektion – Prothese der Kunstbetrachtung. In Irene Below, hrsg., Kunstwissenschaft und Kunstvermittlung. Gießen: Anabas Verlag, 1975, pp. 153-172 (153).
[1558] Su questi temi si veda anche Éric Méchoulan, Introduction. Des archives à l’archive, “Intermédialités: histoire et théorie des arts, des lettres et des techniques / Intermediality: History and Theory of the Arts, Literature and Technologies”, 9 (2011), n. 18, pp. 9-15, che dopo un bell’esergo affidato a una citazione di Ain’t Misbehavin’ di Fats Waller e Andy Razaf, chiariva come ‘Le geste d’archiver n’a jamais été neutre. Non seulement est-il pris dans des usages de la mémoire collective, dans des formes d’institution du passé, dans des pratiques de conservation et dans des techniques de transmission, mais il est aussi le résultat de décisions politiques, de rapports de pouvoir et d’enjeux sociaux.’ (9).
[1559] Nel suo contributo Elizabeth Edwards, Photographs: Material Form and the Dynamic Archive. In Caraffa 2011b, pp. 47-56, invitava a non considerare più le fotografie e gli archivi in cui sono conservate come “passive ‘resources’ with no identity of their own , but as actively ‘resourceful’ – a space of creative intensity, of ingenuity, of latent Energy, of rich historical force” (47), dichiarando i propri debiti con le teorie della “material culture” di stampo antropologico ma anche con le posizioni espresse in merito alla “visual culture” da W.J.T. Mitchell, specialmente in What do pictures want?: the lives and loves of images. Chicago – London: The University of Chicago Press, 2005. “The idea of the archive as a cultural and historical object” era già stata proposta alla riflessione degli studiosi italiani nel 1992 non riuscendo però a generare quella eco e le riflessioni che hanno caratterizzato gli anni recenti, cfr. Elizabeth Edwards, Approaches to anthropological photograph archives: the dilemmas of description. In Lusini 1996a, pp. 141-146.
[1560] Caraffa 2011a, p. 36. Senza nulla togliere alle importanti acquisizioni teoriche e metodologiche riferibili nel loro insieme al “material turn”, sarebbe stato forse opportuno tener conto, se non proprio considerare, che questi molteplici richiami alla biografia culturale, politica e sociale delle fotografie non di rado fanno parte, e non da ora, del bagaglio dello storico della fotografia, che nei casi migliori si dovrebbe proporre di fare storia della fotografia ricostruendo le storie delle fotografie.
[1561] Costanza Caraffa, Tiziana Serena, Introduction: Photographs, Archives and the Discourse of Nation. In Caraffa et al. 2015, pp. 3-15 (9). Si vedano anche la recensione di Scott Palmer, “Visual Resources”, 28 (2012), n. 3, pp. 277-282 e quella più sintetica di Luigi Tomassini, Nazionalismi e autobiografia per immagini, “RSF rivista di studi di fotografia” 2 (2016), n. 3, pp. 134-136 .
[1562] Joan M. Schwartz, Photographic Archives and the Idea of Nation: Images, Imaginings, and Imagined Community. In Caraffa et al. 2015, pp. 17-40 (23). Allo stesso Anderson si sarebbero riferiti in quegli anni, pur da prospettive differenti, alcuni studiosi anglofoni di cultura e storia della fotografia italiana quali Verdicchio 2011; Hill et al. 2014, per i quali si rimanda al paragrafo L’eredità di Giulio Bollati, in particolare alle pp. 300-301; 306-308.
[1563] Caraffa et al. 2012; le due citazioni successive sono tratte dall’Editoriale (pp. 4-6) firmato da Costanza Caraffa e Tiziana Serena.
[1564] Joan M. Schwartz, “To speak again with a full distinct voice”. Diplomatics, Archives, and Photographs. In Caraffa et al. 2012, pp. 7-24, che costituiva una versione abbreviata e aggiornata di Id., We make our tools and our tools make us: Lessons from Photographs for the Practice, Politics and Poetics of Diplomatics, “Archivaria”, 40 (1995), Autumn, pp. 40-74; Elizabeth Edwards, Janice Hart, Mixed Box. La biografia culturale di una scatola di fotografie ‘etnografiche’’. In Caraffa et al. 2012, pp. 25-26, già in Edwards, Hart, eds., Photographs Objects Histories, 2004, cfr. supra Nota 1528, pp. 47-61, che costituiva il testo seminale del “material turn”. Come ebbe modo di precisare in un’altra occasione la studiosa: “The material turn in studies on photography has been influenced by a series of research trends, from the material culture in anthropology to the so-called ‘return to things’ of which Bruno Latour was a key player, up until the agency of objects (Alfred Gell) and the material hermeneutics (Don Ihde).”, Costanza Caraffa, Documentary Photographs as Objects and Originals. In The Challenge of the Object / Die Herausforderung des Objekts, Proceedings of the 33rd Congress of the CIHA (Norimberga, 15 – 20 luglio 2012), Georg Ulrich Großmann, Petra Krutisch, hrsg., “Wissenschaftliche Beibände zum Anzeiger des Germanischen Nationalmuseums”, 32 (2013), pp. 824-827 (826).
[1565] Caraffa, Serena, Introduction. In Caraffa et al. 2015, p. 14, che sembravano rifarsi al concetto di dispositivo che “co-constitute the reality studied by scholars” formulato da Ewa Domanska, Material Presence of the Past, “History and Theory”, 45 (2006), n. 3, pp. 337-348, citato a sua volta anche da Elizabeth Edwards, Photographs. In Caraffa 2011b, p. 49. Sui rischi connessi a questo “testualismo forte” si veda Maurizio Ferraris, Dove sei? Ontologia del telefonino. Milano: Bompiani, 2005, in particolare alle pp. 193-204.
[1566] Dario Ragazzini, La nascita della storiografia digitale. In Monica Gallai, Serge Noiret, Dario Ragazzini, Luigi Tomassini, Stefano Vitali, La storiografia digitale. Torino: UTET, 2004, pp. VII-IX (IX).
[1567] Marisa Trigari, recensione de La storiografia digitale; online: http://www.bdp.it/content/index.php?action=read&id=1200# [10 03 2017], in quell’occasione la studiosa aveva sottolineato come a dieci anni di distanza dal convegno Storia e computer, che si era tenuto presso il Dipartimento di Storia dell’Università degli Studi di Firenze nei giorni 18-19 aprile 1994 e dal quale era derivato anche il volume di Simonetta Soldani, Luigi Tomassini, a cura di, Storia e computer. Alla ricerca del passato con l’informatica. Milano: Bruno Mondadori, 1996, si assistesse a una riproposizione dei problemi in termini molto simili, nonostante la crescita esponenziale dell’accesso al web, la riduzione del digital divide, la proliferazione di archivi full text (…) il complicarsi del dibattito sul web semantico, la problematica aperta sui modi di rendere visibili ai motori di ricerca il web profondo, la ricerca sui metadata, e altro ancora.”
[1568] Noiret 2014, pp. 248-249. Tra i numerosi elementi di interesse offerti dal contributo di Noiret riteniamo utile richiamare il suo appello a “considerare la fotografia digitale come un ulteriore documento – talvolta derivato da precedenti formati – portatore di significati anche diversi e contrastanti in funzione dei contesti di rete (257) (…) Così come per i pescetti incongrui e non qualificabili con le categorie del conosciuto, anche le fotografie digitali che viaggiano in rete, se usiamo metodi e grammatiche critiche che corrispondano al loro stato, restano sempre documenti fotografici. È accettando questo principio e questa necessaria curiosità professionale, che dobbiamo avvicinare le fotografie che troviamo nei siti web o scoperte con l’utilizzo dei motori di ricerca che rispondano soltanto con i pixel all’uso di parole chiave.” (264).
[1569] Roberto Del Grande, Leggere la fotografia nel web. I valori storici e culturali della fotografia nella fruizione in rete. In Del Grande et al. 2015, pp. 55-73 (p. 56).
[1570] Noiret 2014, p. 251.
[1571] Faeta 2014, p. 15, nota 4.
[1572] Una buona dimestichezza e consuetudine di scambio di fotografie era del resto confermata da alcune testimonianze citate dallo stesso studioso (pp. 103-104) che sembravano attenuare quell’aura di “magia” e quasi di temuto spiritismo su cui Faeta indugiava, ma anche altre considerazioni specificamente connesse alla fotografia suscitavano qualche perplessità. Mi riferisco ad esempio alle ipotesi avanzate a proposito del fatto che “la ripresa frontale e la nitidezza sono (…) i due elementi linguistici di Marra di più ambigua e complessa gestione” (107); ora non vorremmo risultare semplicistici e riduttivi ma ci pare che quegli elementi – certo interpretabili anche ricorrendo a una raffinata conoscenza degli studi antropologici – costituissero una costante della iconografia fotografica, specie vernacolare, così come la nitidezza di resa apparteneva in pieno alla cultura di tradizione ottocentesca, immune o estranea alle suggestioni di ogni forma di pittorialismo. Proprio l’elevata qualità dell’analisi e dell’interpretazione antropologica avrebbero richiesto a nostro parere una più adeguata considerazione delle pratiche fotografiche a più ampia scala: delle culture della fotografia prossime a Marra, delle soluzioni tecniche da lui adottate, immediatamente efficaci anche come soluzioni linguistiche e narrative, quali i pesanti ritocchi (agli occhi, ai volti, ai profili) che trasformavano molte di queste figure in manichini.
[1573] Contini 1993, p. 18. Anche in occasione del convegno su Scheuermeier, le Alpi e dintorni, Gianfranco Ellero (1999b), curatore dell’archivio fotografico dell’ALI, per la parte conservata dalla Società Filologica Friulana, aveva posto a confronto la produzione fotografica di Scheuermeier e Ugo Pellis riconoscendo un consistente ricorso alla ricostruzione delle scene.
[1574] Fabrizio Caltagirone, Italo Sordi, La Lombardia di Scheuermeier. In Caltagirone et al. 2007, pp. 11-25 (22), dove si accennava anche alla presenza di suggestioni esterne, come nel caso delle molte riprese di donne al lavatoio “non a caso, forse (…) un soggetto molto presente anche nella pittura lombarda dell’epoca (e nelle cartoline illustrate della ditta Brunner).”
[1575] Cfr. Nota 1277.
[1576] Cavanna 2008.
[1577] Giacometti et al. 2009; Perco et al. 2011; Giacometti et al. 2012; Turci 2013.
[1578] Cosimo Schinaia, Fotografia e psichiatria. In Lucas 2004, pp. 459-476 (460) in cui lo psicoanalista e psichiatra richiamava e rimandava ai precedenti contributi di Cagnetta 1981 e Bollati 1979, pp. 39-40.
[1579] Ricordiamo almeno, per l’Italia, Luciano D’Alessandro, Il mondo degli esclusi, “Popular Photography Italiana”, 11 (1967), n. 117, aprile pp. 51-54; Id., Gli esclusi. Fotoreportage da un’istituzione totale; presentazione di Sergio Piro, progetto grafico di M. Ketoff. Milano: Il Diaframma, 1969; Franco Basaglia, Franca Ongaro Basaglia, a cura di, Morire di classe. la condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin. Torino: Einaudi, 1969. Uscì invece nel 1975 Matti da slegare, un film di Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, commissionato dall’Assessorato Provinciale alla Sanità di Parma e dalla Regione Emilia-Romagna. E poi ancora: Gian Butturini,Tu interni… Io libero: dibattito fotografico assieme a Franco Basaglia e la sua equipe attraverso la distruzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste. Verona: Bellomi Editore, 1977; Emilio Tremolada, Una perfezione manicomiale. Immagini per una storia della psichiatria. Torino: Regione Piemonte, 1981. Più recentemente l’esperienza di Morire di classe è stata ricordata in Franca Ongaro Basaglia, a cura di, Per non dimenticare: 1968 la realtà manicomiale di Morire di classe / fotografie di Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati. Torino: Edizioni Gruppo Abele, 1998; Costantino Leanti, a cura di, Oltre la soglia: i manicomi nelle foto di “Morire di Classe”: quattro chiacchiere con Carla Cerati di Cesare Colombo, DVD. Pavia: Biblioteca Bonetta, 2011. Un’accurata ricostruzione del clima culturale e politico in cui si dettero quelle realizzazioni è stata fornita da Maddalena Carli, Testimonianze oculari. L’immagine fotografica e l’abolizione dell’istituzione manicomiale in Italia. In M. Carli, Vinzia Fiorino, a cura di, Spazi manicomiali del Novecento, “Memoria e ricerca” n. 47 (2014), settembre-dicembre, pp. 99-113, a cui si rimanda anche per altri riferimenti bibliografici. Il tema del rapporto tra fotografia e istituzioni totali è stato magistralmente affrontato da Georges Didi-Huberman, Invention de l’hystérie. Charcot et l’iconographie photographique de la Salpêtrière. Paris: Macula, 1982 (ed. italiana, Genova-Milano: Marietti, 2008) e da John Tagg, The Burden of Representation. London: Macmillan, 1988.
[1580] Gilardi 1978.
[1581] Giulio Bollati (1979, p. 38) aveva chiarito i legami tra fotografia psichiatrica e antropologico criminale o antropologica in genere sino alle declinazioni e degenerazioni del bozzettismo, ma aveva anche sostenuto, con un eccesso di nazionalismo, che la psichiatria italiana era stata “la prima a impiegare la fotografia come strumento diagnostico e quindi come parte integrante della cartella clinica”, dimenticando i più precoci esempi costituiti dall’attività di Hugh Welch Diamond al Surrey County Lunatic Asylum, verso il 1855, e dalla Iconographie photographique de la Salpêtrière pubblicata da Jean-Martin Charcot tra 1876 e 1880. Interessante e precisamente corrispondente allo spirito dei tempi anche la notazione di Carlo Bertelli (1979b, pp. 73-75) a proposito della raccolta fotografica di Lombroso, considerata “una collezione di elementi indiziari del comportamento e dell’aspetto dell’animale-uomo, specialmente dell’uomo catturato e posto in cattività.” (75)
[1582] Cagnetta 1981; la mostra comprendeva 460 fotografie, un terzo delle quali erano riproduzioni.
[1583] Inventario di una psichiatria, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Braschi, maggio – luglio 1981), a cura di Gabriella Borsano. Milano: Electa, 1981, anche con materiali provenienti dall’Archivio dell’Ospedale psichiatrico di Reggio Emilia.
[1584] Didi-Huberman, Invention de l’hystérie, cfr. supra Nota 1579.
[1585] Parmiggiani 2005. Di quella nota serie di immagini ha scritto anche Elio Grazioli, Fotografia e isteria. In Daniele Giglioli, Alessandra Violi, a cura di, L’immaginario dell’isteria , “Locus solus”, 3 (2005), pp. 113-118, un numero monografico in cui vennero riprodotte anche alcune delle celebri pose delle isteriche di Charcot.
[1586] Giorgio Colombo, La scienza infelice: il Museo di antropologia criminale di Cesare Lombroso. Torino: Paolo Boringhieri, 1975 (nuova ed. Torino: Bollati Boringhieri, 2000).
[1587] Lo stesso Gilardi ricordava però che nel 1976, con Attilio Mina, aveva convito Franco Solmi ad esporre la testa di Lombroso sotto formalina nella mostra prodotta dalla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, Metafisica del quotidiano, cfr. http://www.fototeca-gilardi.com/author/ando/page/4/ [06 12 2016].
[1588] Gilardi 1978, p. 223. Concetto ribadito ancora nel 1981, nel commento alle tavole 769-771 con esempi di fotografia antropologico criminale dalle collezioni Lombroso, non discusse però nel corpo del saggio (Gilardi 1981).
[1589] Pubblicata a Torino da Einaudi, con una introduzione di Franco e Franca Basaglia, che ne fu anche la traduttrice.
[1590] Nella traduzione di Alcesti Tarchetti, Torino: Einaudi, 1976.
[1591] Legge n. 180 del 13 maggio 1978, Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, che si proponeva di superare la logica manicomiale nel trattamento delle malattie psichiatriche.
[1592] Le collezioni lombrosiane furono al centro della mostra La scienza e la colpa. Crimini, criminali, criminologi. Un volto dell’Ottocento, che si tenne a Torino, alla Mole Antonelliana nel 1985 per la cura di Umberto Levra, e che costituì per certi versi il primo momento di quel processo lungo e complesso che ha portato al riallestimento e alla riapertura al pubblico del Museo di antropologia criminale Cesare Lombroso nel novembre 2009.
[1593] Sino al 2004 le collezioni erano ospitate nei locali dell’ex Istituto di Medicina Legale, insufficienti per l’esposizione e inadatti alla fruizione pubblica. Nicoletta Leonardi (2015) ha segnalato che una serie di circa cinquanta fotografie di Lewis Hine sul lavoro minorile e le condizioni di vita dei bambini immigrati negli Stati Uniti all’inizio del XX secolo, segnalate in collezione da Ando Gilardi nel 1978, vennero successivamente rubate e risultavano già mancanti al momento del primo inventario del materiale, effettuato fra il 1990 e il 1994.
[1594] Turzio et al. 2005; lo studio di una specifica serie dell’Archivio Lombroso venne affrontato in quegli anni anche da Giraldi 2008 nell’ambito di una progetto di ricerca “sulle modalità di rappresentazione della Sardegna e dei suoi abitanti tra XIX e XX secolo”, alla ricerca dei “precisi codici ideologici e culturali che hanno condizionato la formazione del documento.” (16). Alcuni rilievi critici all’impostazione di quel lavoro sono stati espressi da Leonardi (2015 , p. 51, nota 27), la quale ha ricordato che “ Giraldi sostiene che l’interesse di Carrara nei confronti dei ‘piccoli criminali sardi’ si deve alla moglie Paola, figlia di Lombroso, la quale avrebbe orientato le ricerche del marito in questa direzione grazie ai suoi interessi verso le classi subalterne e l’infanzia. In realtà, quello della criminalità infantile è un tema caro a Lombroso e al suo entourage, di cui faceva parte anche la figlia Paola. Lo dimostrano non soltanto pubblicazioni e lettere, ma anche la cospicua presenza di fotografie di minori nella collezione fotografica.”
[1595] S. Turzio, Gli estremi della fotografia. In Turzio et al. 2005, pp. 3-22.
[1596] Sara Ugolini, [Recensione], “PsicoArt: la psicologia dell’arte a Bologna”, 13 settembre 2014, online: http:// www. psicoart. unibo.it/ sara-ugolini-lombroso-e-la-fotografia/ [15 03 2017].
[1597] A. Violi, Storie di Fantasmi per Adulti: Lombroso e le tecnologie dello spettrale. In Turzio et al. 2005, pp. 43-69.
[1598] Per motivare i propri rilievi critici Carlos S. Alvarado nella sua recensione per il “Journal of Scientific Exploration”, 20 (2006), n. 1, pp. 115-128 richiamava le posizioni critiche e metodologiche che avevano governato la realizzazione della mostra The Perfect Medium: Photography and the Occult: “To consider only the aesthetic qualities of these images, to disregard the original motives for their production, ignoring the environment in which they were produced and removing them from their documentary context, is to risk rendering them incomprehensible, like beautiful objects stripped of meaning”, cfr. The Perfect Medium: Photography And the Occult, catalogo della mostra (New York, Metropolitan Museum of Art, 27 settembre – 31 dicembre 2005), Pierre Apraxine, Denis Canguilhem, Sophie Schmit, Clement Cheroux, eds. New Haven – London: Yale University Press, 2005; edizione francese Le Troisième Œil. La photographie et l’occulte, catalogo della mostra, (Paris, Maison européenne de la photographie, 3 novembre 2004 – 6 février 2005), Apraxine, Canguilhem, Schmit, Cheroux, dirs. Paris: Gallimard, 2004.
[1599] Leonardi 2015, pp. 36-37. A questa prospettiva si può utilmente affiancare quella “narrativa” prospettata da tempo da Cosimo Schinaia, che si proponeva di ri-costruire “una scenografia dell’incontro con queste fotografie, che si fanno rappresentazioni teatrali, drammi, tragedie [per] restituire storia, umanità, soggettività a ogni volto, per poterlo, e non solo metaforicamente, ‘ricollocare’ di diritto tra i volti di tutti.”, Schinaia, Fotografia e psichiatria, 2004, cfr. supra Nota 1578, pp. 475-476, che rimandava a sua volta a messe a punto di gran lunga antecedenti: cfr. Cosimo Schinaia et al., Itinerari narrativi attraverso la fotografia psichiatrica, “Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale”, 10 (1992), n. 3, pp. 291-297.
[1600] Mozzo 2004, p. 847, dove segnalava anche, per primo, l’importante campagna fotografica che coinvolse le Commissioni Conservatrici locali, un tema che ancora attende di essere opportunamente approfondito a scala nazionale. L’interesse dello studioso per questi temi era di ben più antica data; si vedano almeno M. Mozzo, Cavalcaselle e il restauro della basilica di San Francesco di Assisi. In Giovanni Battista Cavalcaselle, conoscitore e conservatore, atti del convegno (Legnago – Verona, 28-29 novembre 1997), a cura di Anna Chiara Tommasi, Venezia: Marsilio, 1998, pp. 107-124; ed anche Id., Cavalcaselle e la basilica superiore di San Francesco ad Assisi. Documentazione, conservazione e restauro: 1860- 1892, tesi di Perfezionamento, Scuola Normale Superiore di Pisa, a.a. 2002- 2003, relatore Paola Barocchi. In Giudici et al. 2010, pp. 34-49, Mozzo aveva poi pubblicato Il Fondo fotografico di Cavalcaselle alla Biblioteca Nazionale Marciana: ricognizioni preliminari.
[1601] Donata Levi, Da Cavalcaselle a Venturi. La documentazione fotografica della pittura tra connoisseurship e tutela. In Giudici et al. 2010, pp. 22-33. Altri ambiti, altrettanto significativi, vennero volutamente tralasciati dalla studiosa; penso in particolare agli utilizzi didattici, editoriali e divulgativi così come ai rapporti con il collezionismo. Si veda a questo proposito l’esemplare ricostruzione della fortuna critica mediata dalla fotografia ricostruita da Dorothea Peters, From Prince Albert’s Raphael Collection to Giovanni Morelli: Photography and Scientific Debates on Raphael in the Nineteenth Century. In Caraffa 2011b, pp. 129-144, in un testo molto documentato e accurato che non considerava però l’opera metodologicamente fondamentale di Benjamin Delessert, Notice sur la vie de Marc Antoine Raimondi, graveur Bolonais accompagnée de reproductions photographiques de quelques unes de ses stampe. Paris – Londres: Goupil – Colnaghi et Ce, 1853.
[1602] Si veda Anne Hultzsch, The Isolating Still Focus: Photography and Aesthetic Perception in Jacob Burckhardt’s Writings. In Micheline Nielsen, ed., Nineteenth- Century Photographs and Architecture: Documenting History, Charting Progress, and Exploring the World. Farnham, Surrey: Ashgate, 2013, pp. 19-36.
[1603] Paola Callegari, Edith Gabrielli, Le ragioni del libro. In Callegari et al. 2009b, pp. 11-13.
[1604] Edith Gabrielli, Pietro Toesca: “misurare” l’arte con l’obiettivo fotografico, ivi, pp. 15-57.
[1605] Marco Mozzo, Artis Monumenta Photographice Edita: Pietro Toesca e le campagne fotografiche Bencini & Sansoni, ivi, pp. 187-221, con puntuali osservazioni anche a proposito della materialità tecnologica e produttive delle fotografie considerate.
[1606] Gabrielli, Pietro Toesca, 2009, cfr. supra Nota 1604, p. 33. Non è però possibile condividere la ricostruzione e la conseguente opinione della studiosa a proposito della strategia operativa in cui si collocava il GFN quando affermava che “in linea con lo stesso modello accentratore perseguito in ogni ramo dell’amministrazione postunitaria, si era preteso di accollare la ciclopica impresa di fotografare i beni culturali a un solo ufficio, ubicato appunto a Roma, con il risultato di sottostimare o anche reprimere sistematicamente ogni iniziativa emersa in ambito locale.” (43) In realtà, come dimostra l’istituzione di gabinetti fotografici presso i principali Uffici regionali e Soprintendenze, la documentazione del patrimonio venne svolta in gran parte dagli uffici periferici, non di rado attraverso commesse specifiche a fotografi locali.
[1607] Silvia Berselli, La conservazione delle fotografie: esempi dalla Fototeca del Dipartimento, tesi di laurea in Scienza e Tecnica del Restauro, Università degli Studi di Bologna, Corso di laurea in DAMS, a.a. 1987-1988, relatore Alessandro Conti.
[1608] Paolo Costantini, Note a margine del Fondo fotografico Supino. In Emiliani et al. 1993, pp. 99-115 (101), che richiamava e si fondava sull’inventariazione allora in corso ad opera di Berselli.
[1609] Frisoni, Gioia, Porcheddu, a cura di, Rilievo della consistenza e dello stato di conservazione, 2005, cfr. Nota 255.
[1610] Gian Paolo Brizzi, Igino Benvenuto Supino: il professore e la fototeca. In Paola Bassani Pacht, a cura di, Igino Benvenuto Supino 1858- 1940. Omaggio a un padre fondatore. Firenze: Edizioni Polistampa, 2006, pp. 195-214.
[1611] “Possiamo affermare che con lo studioso pisano la storia dell’arte a Bologna, grazie anche allo strumento fotografico, si allinea con l’indirizzo di ricerca e di sintesi fra metodo storico e critica estetica impresso in Germania dal purovisibilismo di Fiedler, da von Marées, da Hildebrand, in Austria da Riegl, in Svizzera dal quasi coetaneo Heinrich Wölfflin.”, Marinella Pigozzi, Francesco Malaguzzi Valeri e Iginio Benvenuto Supino: legami e dissonanze. In Francesco Malaguzzi Valeri (1867- 1928): tra storiografia artistica, museo e tutela, atti del convegno di studi (Milano, 19 ottobre 2011; Bologna, 20-21 ottobre 2011), a cura di Alessandro Rovetta, Gianni Carlo Sciolla, pp. 304-311 (309), che però non richiamava (forse diplomaticamente) i confronti, anche metodologici, con Pietro Toesca.
[1612] Il tema, già studiato da Massimo Ferretti, Igino Benvenuto Supino: frammenti di uno specchio. In Bassani Pacht, a cura di, Igino Benvenuto Supino, 2006, cfr. supra Nota 1610, pp. 47-58, venne poi ulteriormente approfondito in Maffioli 2010 e Giuliani 2010, pp. 15-37. Una sintesi degli studi sul tema è stata offerta da Luigi Tomassini, Iginio Benvenuto Supino e la fotografia, in occasione del convegno dedicato a I Supino che si è tenuto a Pisa nei giorni 26 e 27 maggio 2014, promosso dalla Società Storica Pisana; edito col titolo Igino Benvenuto Supino e gli Alinari: appunti per uno studio sui rapporti fra fotografi editori e storici dell’arte. In I Supino: una dinastia di ebrei pisani fra mercatura, arte, politica e diritto (secoli XVI- XX), a cura di Franco Angiolini, Monica Baldassarri. Ospedaletto, Pisa: Pacini, 2015, pp. 147-156.
[1613] Al significato non solo locale di quelle vicende hanno contribuito anche gli studi relativi al principale interlocutore bolognese di Supino, Francesco Malaguzzi Valeri, che invece si avvalse in più occasioni del catalogo della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi. In particolare i rapporti fra i due studiosi sono stati studiati in occasione del convegno su Malaguzzi Valeri nel 2011 e approfonditi in una serie di contributi successivi che tracciavano le diverse metodologie e modalità d’uso della fotografia nell’ambito dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università bolognese, sino all’operato di Carlo Volpe. Si vedano: Cavanna, “Catalogo della Fotografia dell’Emilia/ Bologna”. In Frisoni 2015, pp. 13-28 e alcuni degli interventi al convegno, già ricordato, dedicato a Francesco Malaguzzi Valeri (1867- 1928) nel 2011, tra i quali segnaliamo quello di Paolo Giuliani, Francesco Malaguzzi Valeri e la fotografia. Storie e restituzioni, da Brera alla Romagna tra editoria e storiografia, ivi, pp. 327-346, che riprendeva i temi della sua tesi di laurea, discussa l’anno precedente presso l’Università degli studi di Bologna; Giuliani 2011; Pigozzi 2012.
[1614] Cfr. Pacchierotti 2009; Pulcinelli 2009.
[1615] Oltre ai contributi considerati in queste pagine, si vedano gli interventi pubblicati in Chiara Franceschini, Katia Mazzucco, eds., Classifying Content: Photographic Collections and Theories of Thematic Ordering, “Visual Resources”, 30 (2014), n.3.
[1616] L’iniziativa era stata realizzata in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni storici, artistici ed etnoantropologici di Bologna e il Museo Civico Archeologico di Bologna; si veda Ottani Cavina 2009, che conteneva anche un breve contributo relativo alle fotografie di architettura e di paesaggio: Angelo Maggi, I luoghi perduti. Immagini di Roma e del Lazio dalla Fototeca Zeri, pp. 143-164. Nel volume si dava conto anche della realizzazione del progetto di catalogazione e digitalizzazione della fototeca, oggi consultabile all’indirizzo http://www.fondazionezeri.unibo.it/it [09 07 2017]. Nello stesso anno vennero pubblicati gli atti del convegno a lui dedicato a dieci anni dalla scomparsa, ancora per la cura di Anna Ottani Cavina, Prospettiva Zeri. Torino: Allemandi, 2009.
[1617] Anna Ottani Cavina, “Il catalogo è questo”. In Ottani Cavina 2011, pp. 13-16. Quelle serie fotografiche erano state a loro volta oggetto di alcune tesi di laurea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna.
[1618] Ottani Cavina 2011.
[1619] Su questi aspetti si vedano le importanti riflessioni di Caraffa 2011a.
[1620] Bacchi et al. 2014.
[1621] Andrea Bacchi, Vive e vere traduzioni dei nostri capolavori, ivi, pp. 11-19 (15).
[1622] Ferretti, 2014.
[1623] Francesca Mambelli, Riproduzione, traduzione, memoria. Percorsi tra le foto di Zeri. In Bacchi et al. 2014, pp. 49-54.
[1624] Un’analoga prospettiva di lettura, ma non compiutamente sviluppata, era stata adottata anche da Giulio Manieri Elia, L’Archivio fotografico di Soprintendenza. Storia, conservazione e ricerca. In Giudici et al. 2010, pp. 153-163.
[1625] Ferretti 2007.
[1626] Ad indagare L’album e l’archivio fotografico nell’officina dello storico dell’arte: da “outils pratiques” a “outils intellectuels” si era dedicata Tiziana Serena. In Bietoletti et al. 2014, pp. 62-77.
[1627] Penso al caso emblematico delle collezioni di Silvio Negro e ancor più di Piero Becchetti, ma anche alla raccolta di immagini, ancora romane, di Filippo Maggia, la cui presentazione pubblica costituì anche occasione per riflettere sul ruolo del collezionista (Bonetti 2008).
[1628] Curti 2009; Curti 2010.
[1629] Oltre all’ormai storico Pygmalion photographe: la sculpture devant la camera, 1844- 1936, catalogo della mostra (Ginevra, Musée d’Art et d’Histoire, 1985), Rainer Michael Mason, Hélène Pinet,dirs. Ginevra: Musée d’Art et d’Histoire, 1985, ricordiamo almeno Adolphe Braun. Walker Evans. André Kertész. Photographers of sculpture, catalogo della mostra (Haverford, Haverford College, The Comfort Gallery, 9 aprile – 1 maggio 1988) con testi di Anne Nelson, Stephen Perloff, William Earle Williams. Haverford, PA: Haverford College, 1988 ; The kiss of Apollo. Photography and sculpture 1845 to the present, catalogo della mostra (San Francisco, Fraenkel Gallery, 13 febbraio – 30 marzo 1991), Jeffrey Fraenkel, ed., con un saggio di Eugenia Parry Janis. San Francisco: Fraenkel Gallery – Bedford Arts, Publishers, 1991; Photographie/Sculpture, catalogo della mostra (Paris, Palais de Tokyo, 21 novembre 1991 – 4 aprile 1992), Robert Delpire, Michel, Frizot, Maurice Lecomte, Dominique Païni, dirs. Paris: Centre National de la Photographie, 1991 ; Skulptur im Licht der Fotografie: von Bayard bis Mapplethorpe, catalogo della mostra (Duisburg, Friburgo e Vienna 1997-1998), Erika Billeter, Christoph Brockhaus, hrsg. Berna: Benteli, 1997; Geraldine A. Johnson, ed., Sculpture and photography: envisioning the third dimension. Cambridge: Cambridge University Press, 1998; FotoSkulptur: die Fotografie der Skulptur 1839 bis heute, catalogo della mostra (New York – Zurigo, 2010-2011), Roxana Marcoci, hrsg.; con contributi di Geoffrey Batchen e Tobia Bezzola. Ostfildern: Hatje Cantz, 2010; Lens/based sculpture: die Veranderung der Skulptur Durch die Fotografie / The transformation of sculpture through photography, catalogo della mostra (Berlino – Vaduz 2014), Bogomir Ecker, Raimund Kummer, Firedmann Malsch, Herbert Molderings, hrsg. Konig: Buchhandlung Walther, 2014.
[1630] Bonetti 2006; si veda anche: Maria Francesca Bonetti, Histoire et fortune photographique d’une œuvre d’art: le cas du Laocoon Vatican. In Patrimoine photographié, patrimoine photographique, atti della giornata di studio (Parigi, INHA, 12 aprile 2010), Raphaële Bertho, Jean-Philippe Garric, François Queyrel, dirs.; online http://inha.revues.org/4410 [05 05 2015].
[1631] Filippin 2009, da cui si cita; Filippin 2011b.
[1632] Le nuove risultanze di ricerca hanno portato l’autrice ad esprimere un giudizio severo su quel testo, considerato “in più punti impreciso o errato [poiché] riprende acriticamente il testo di Alessandro Prosdocimi.” (p. 28, nota 3) senza condurre le necessarie verifiche e confronti tra fonti a stampa e caratteristiche, anche materiali, dei negativi e dei positivi. Fatti salvi questi importanti rilievi dobbiamo però ricordare che argomento principale del saggio di Costantini era la riconsiderazione storico critica delle posizioni espresse da Pietro Selvatico nei confronti della fotografia, di cui la vicenda della Cappella degli Scrovegni costituiva poco più che un’appendice esemplificativa, ciò che in parte giustifica il ricorso non verificato a una sola fonte decisamente tarda (1960-1961). Forse non per caso neppure Donata Levi, Da Cavalcaselle a Venturi, 2010, p. 24, accennando alle stesse vicende, ricordava quel contributo di Costantini.
[1633] Caraffa, Documentary Photographs as Objects and Originals., 2012, cfr. supra Nota 1564, p. 826: “The photographs have become not only representations of works of art, but things themselves: they have become autonomous research objects.”
[1634] Ferretti 2003a, cfr. supra Note 987, 988. Più di recente gli studiosi hanno rivolto la loro attenzione anche a un’altra modalità narrativa particolarmente importante tra gli strumenti del laboratorio dei primi storici dell’arte come l’album fotografico, definito da Stephen Bann (2011) come un “Cultural Accumulator”, un “generative factors in the historical development of art history and its related institutions.”
[1635] Ferretti 2003a, pp. 227-228; le questioni relative all’uso delle immagini nei manuali scolastici di storia dell’arte sono state discusse in Ferretti 2003b.
[1636] Consultabile all’indirizzo http://velasquez.sns.it/dedalo/ricerca.php [04 01 2016].
[1637] Consultabili all’indirizzo http://www.artivisive.sns.it/progetto_emporium.html [04 01 2016]. Si veda anche Bacci 2009.
[1638] Durstet al. 2009; Giuliani 2012a; Rolfi Ožvald 2013. Per un’analisi, anche in prospettiva storica, delle questioni connesse all’edizione e alla pubblicazione delle fotografie di documentazione delle opere d’arte: dai volumi del XIX secolo al web, si vedano i diversi contributi raccolti in Costanza Caraffa, hrsg., Fotografie als Instrument und Medium der Kunstgeschichte. Berlin – München: Deutscher Kunstverlag, 2009.
[1639] Cinelli et al. 2013a. L’interesse del progetto e l’estensione della ricerca avrebbero certamente meritato e avrebbero dovuto prevedere la realizzazione di una piattaforma di accesso pubblico online alla banca dati costituita dalla catalogazione e indicizzazione informatizzata delle circa 30.000 immagini reperite e digitalizzate.
[1640] Si veda la recensione di Laura Corti, Le immagini fotografiche dell’arte del Novecento nella cultura visiva di massa, “RSF rivista di studi di fotografia”, 1 (2015), n.1, pp. 122-124, per la quale invece “la varietà è riportata all’ordine, almeno quello di comprensione per il lettore, dall’intelligente scelta redazionale di riprodurre nella loro interezza le pagine dei rotocalchi dove compaiono le foto di riproduzione delle opere presentate e degli artisti che le hanno realizzate, nel loro contesto visivo e informativo, in cui il rapporto testo immagine rende il senso della ‘cornice’ culturale, sociale, mondana, cui spesso non fa difetto una qualche ironia.” (123).
[1641] Barbara Cinelli, Tiziana Serena, Editoriale. In Cinelli et al. 2013b, pp. 1- 2. L’affermazione, forse frutto di un refuso o di un lapsus freudiano, non corrispondeva però al vero, datosi che nessuna delle ricerche pubblicate prese effettivamente in considerazione “riviste di storia della fotografia”, all’epoca inesistenti, bensì i principali periodici di settore del secondo dopoguerra.
Esiti per certi versi analoghi, sebbene più circoscritti, ebbe il progetto di catalogazione del Fondo Pannunzio della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, per la parte inerente alla documentazione delle opere d’arte, dove “le fotografie (…) non rivelano quasi mai un’intenzione di documentazione fine a se stessa; emerge piuttosto un interesse dell’autore (quasi sempre un fotogiornalista) per il contesto sociale e culturale a cui l’opera è associabile o legata nella contingenza dello scatto.”, Anna Lucarelli, Soggettiamo fotografie di opere d’arte: una sperimentazione in corso, “Fototeche a regola d’arte”, Giornate di studi – Siena 30 novembre – 1 dicembre 2007, online: http://docplayer.it/4779512-Soggettiamo-fotografie-di-opere-d-arte-una-sperimentazione-in-corso-anna-lucarelli.html [21 06 2017].
[1642] Cinelli, Serena, Editoriale, citato alla nota precedente. Il confronto storiografico con i periodici illustrati ha goduto di particolare fortuna in questi anni: a puro titolo esemplificativo ricordo il saggio di Miriam Fileti Mazza, Emporium e i Macchiaioli. “Studi di Memofonte”, 4/2010 online: http://www.memofonte.it/contenuti-rivista-n.4/indice.html [13 04 2016]; alcuni dei contributi compresi nel numero monografico Fotografía, cultura y sociedad en América Latina en el siglo XX. Nuevas perspectivas, “L’Ordinaire des Amériques ’, n. 219 (2015) e il numero di “Palinsesti”, 4 (2016) n. 1 intitolato agli Art Periodicals as Iconic Media, che proseguiva non solo idealmente il percorso tracciato dal progetto L’Arte moltiplicata, oggi portato avanti, per i periodici dopo il 1960 con il progetto triennale CAPTI (Contemporary Art Archives Periodical Texts Illustrations) intitolato a Diffondere la cultura visiva: l’arte contemporanea tra riviste, archivi e illustrazioni, che vede coinvolte la Scuola Normale Superiore di Pisa, l’Università di Udine, l’Università di Siena e l’Università di Genova, cfr. http://www.capti.it/index.php?lang=IT [31 03 2016].
[1643] Si veda Lebel et al. 2006, tradotto in italiano con la supervisione di Marina Miraglia e di Maria Francesca Bonetti. Ricordiamo che Lebel possedeva una serie di fotografie di Adriano De Bonis, acquisite proprio in quel periodo da Delaney e W. Bruce Lundberg e studiate ancora da Bonetti e Miraglia (cfr. Lundberg et al. 2007).
[1644] Cogeval et al. 2009. Un’infausta coincidenza temporale fece sì che i manifesti pubblicitari della mostra comparissero nelle stazioni della metropolitana parigina, giusto nei giorni del terremoto dell’Aquila del 6 aprile, destando non poco sconcerto. Accanto all’esposizione principale il museo presentava due mostre collaterali relative all’Italia: una a proposito di Ernest Hébert (vedi nota successiva) e l’altra a L’Italie des architectes: du relevé à l’invention. Dessins d’architecture de la collection du musée d’Orsay, con settanta disegni di architetti laureati al Grand Prix de Rome.
[1645] Italiennes modèles: Hébert et les paysans du Latium, Musée d’Orsay, Galeries de photographies et d’art graphique, 7 aprile – 23 agosto 2009, Isabelle Julia, Laurence Huault-Nesme, dirs.. In quell’occasione vennero esposti anche gli album contenenti le fotografie realizzate negli anni italiani dalla moglie Gabrielle d’Uckermann. Su Hébert si veda anche Isabelle Julia, Un pittore francese nella ‘Roma capitale’ di Umberto I: Ernest Hébert a Roma, 1885- 1895. In La poesia del vero: pittura di paesaggio a Roma tra Ottocento e Novecento da Costa a Parisani, catalogo della mostra (Macerata e Camerino, 2001) a cura di Gianna Piantoni. Roma: De Luca, 2001, pp. 29-34.
[1646] Finckh et al. 2012. Questo progetto condivideva con il precedente la figura di Ulrich Pohlmann tra i curatori.
[1647] Maria Vittoria Marini Clarelli, Dopo la fotografia. In Fusco et al. 2011, pp. 10-11.
[1648] Marina Miraglia, Mimesi e modernismo. Dalla metà dell’Ottocento all’esperienza pittorica e fotografica di Giulio Aristide Sartorio. In Fusco et al. 2011, pp. 14-23 (p. 23, nota 18).
[1649] “J’ai decouvert la photographie, je peux me tuer, je n’ai plus rien à apprendre”, frase riportata dalla sua compagna dell’epoca Fernande Olivier, Picasso et ses amis. Paris: Stock, 1933 e più volte citata nel considerare i rapporti dell’artista spagnolo con la fotografia, cfr. Anne Baldassari, Picasso and Photography. The Dark Mirror. Paris: Flammarion, 1997, p. 17.
[1650] Posto in esergo a Maria Francesca Bonetti, Il modernismo. Ricerche formali e sperimentazioni tra classicismo e astrazione (1920- 1950). In Fusco et al. 2011, pp. 228-267, che poneva per certi versi in antitesi la seconda citazione d’apertura (l’Argan de L’intenzionalità estetica, 1965), che costituiva un’ottima traccia interpretativa per affrontare le più importanti ricerche nel periodo tra le due guerre, e le tensioni, non sempre opportunamente ricordate, che presero forma anche nella vicinanza di Lamberto Vitali al “clima di generale opposizione alle avanguardie diffusosi in Italia nel periodo tra le due guerre” (229), tra il Novecento di Sarfatti e il Realismo magico di Bontempelli (ma anche la Metafisica dei due Savinio) sebbene aperto, in fotografia, alle nuove ricerche europee.
[1651] Si vedano a questo proposito Miraglia 2006b, Id. 2007b, Id. 2012, pp. 131-150, oltre naturalmente al contributo di Stefania Frezzotti, Tecnica o arte? La fotografia al crocevia del secolo. In Fusco et al. 2011, pp. 134-177.
[1652] Alberto Savinio, Fasti e nefasti della fotografia, “Rivista Fotografica Italiana”, 7, 1935, pp. 128-134, poi ripubblicato ne “La Stampa” 13 (1935), n. 161, 6 luglio, pagina 3, che così proseguiva: “Manca alla fotografia il ‘mistero dello sguardo’. Quello scambio di sguardo tra pupilla e pupilla, quel guardare, altero e mosso che coglie di sorpresa la realtà delle cose, nella fotografia non avviene, perché la fotografia ha un occhio solo, e questo pure privo di movimento. E mentre la fotografia guarda e crede di vedere, capita a lei come all’ubriaco, che crede portarsi la bottiglia alla bocca, e invece se la poggia alla tempia.” Alcuni decenni più tardi Gillo Dorfles avrebbe ripreso in parte quel rapporto causale ma limitatamente a una sua manifestazione specifica: “Cosa portò a tal genere di arte? Con tutta probabilità l’avvento della fotografia e di altri metodi meccanici di riproduzione e allo stesso tempo l’ ‘usura’ a cui era andato incontro il lato rappresentativo di pittura e scultura.”, G. Dorfles, L’arte astratta nei due mondi, “Prospetti”, 1955, n. 13, autunno, pp. 111-112.
[1653] “L’invention de la photographie a porté un coup mortel aux vieux modes d’expression, tant en peinture qu’en poésie (…) l’écriture automatique apparue à la fin du 19e siècle est une véritable photographie de la pensée. Un instrument aveugle permettant d’atteindre à coup sûr le but qu’ils s’étaient jusqu’alors proposé.” Il brano di Breton, tratto dalla presentazione a un catalogo di Max Ernst, (1921) poi ripreso in Les Pas perdus (1924), è stato parzialmente citato anche da Andrea Cortellessa (2011, p. 36).
[1654] Tra i più recenti: Miraglia 2005c, Id. 2005d, Id. 2006a, Id. 2006b, Id. 2007a, Id. 2007b, Scotti et al. 2007. Il titolo riprendeva la fortunata formula della mostra alla GNAM del 2000 (Italie: 1880-1910), poi riutilizzato anche da Miraglia (2005c), che a quel progetto aveva partecipato, e da Franco 2004.
[1655] Miraglia 2012, p. 28.
[1656] Anche Anna Detheridge, Rimescolamento di carte e gerarchie, “L’Indice dei libri del mese”, 30 (2013), n. 7-8, p. 33, pur recensendo positivamente il volume aveva riconosciuto che “più difficile è condividere alcune posizioni teoriche dell’autrice come quella che vede un’evoluzione del linguaggio artistico e fotografico dal concetto di ‘opera aperta’ di Umberto Eco (…), nato dall’arte programmata e da un ragionamento popperiano sul futuro ‘aperto’ dell’universo, e il mondo essenzialmente chiuso del citazionismo astorico della postmodernità.”
[1657] Così ad esempio Sartorio nel Fregio del Parlamento avrebbe anticipato “alcuni nodi problematici del Postmoderno”, (Miraglia 2012, p. 132), mentre i tableau vivant di Primoli, a cui il pittore si ispirò in alcuni casi, sarebbero stati “vere e proprie performances ante litteram” (ivi, p. 135, corsivo dell’autrice), in uno sforzo di improbabile aggiornamento che nel suo essere profondamente antistorico annullava ogni specificità culturale dei fenomeni studiati.
[1658] Ivi, p. 63. Di opinione radicalmente diversa era stato Ugo Ojetti che rispondendo al Referendum sul quadro ‘storico’ de “Le Arti Plastiche” nel 1929-1930, aveva scritto: “Se sono dipinti male, preferisco la fotografia, e più la preferisco se il dipinto vuole proprio gareggiare con essa.”, citato in Paola Barocchi, Storia moderna dell’Arte in Italia: manifesti, polemiche, documenti , 3.1, Dal Novecento ai dibattiti sulla figura e sul monumentale 1925- 1945. Torino: Einaudi, 1990, p. 96, nota 8.
[1659] Cfr. ad esempio Cavanna 2005d.
[1660] Si vedano Franco 2004; Greco 2004, con un’attenta analisi dei dagherrotipi ritrovati; Cavanna 2005d; Dall’Olio 2007; Piccarolo et al. 2007; Scateni et al. 2009; Papone et al. 2011.
[1661] Gabriella Orefice, Il Panorama sul Prato a Firenze. In Fanelli et al. 2006, pp. 37-52; Papone et al. 2011. L’artista si occupò anche di fotografia realizzando un apparecchio fotografico, ricordato tra gli altri da Pietro Semplicini ne “La Lumière”, del 1853 e – verosimilmente – anche alcuni calotipi a cui venne assegnata una datazione però troppo precoce, al “1840 circa”, che sarà più opportuno spostare di almeno un quindicennio. Si veda la recensione di Giovanni Fanelli a Papone et al. 2011, che segnalava come “i testi, in particolare quello di Sborgi, portano primi elementi allo studio del rapporto di Garibbo con la fotografia, in particolare della ricerca di nuovi impianti visivi realistici, dello studio dei formati, di un suo possibile rapporto con Alfred Noack nella predilezione di vedute panoramiche dall’alto, della consuetudine di riproporre in pittura o in incisione immagini riprese dal vero.”, G. Fanelli, [Recensione], online: http://www.historyphotography.org/garribo_27.html [12 04 2016].
[1662] Dall’Olio 2007; Zampighi realizzò fotograficamente scene di genere che si ritrovano poi puntualmente nei suoi dipinti e risultano non lontane da certa produzione coeva di Pietro Poppi, per cui si veda Cavanna 2015a.
[1663] Canova et al. 2003.
[1664] Luca Sorbo, Napoli alla fine dell’Ottocento nelle foto inedite del pittore Eugenio Buono (1861-1948). In Sorbo 2007, pp. 47-55; Scateni et al. 2009.
[1665] Piccarolo et al. 2007.
[1666] Pacella 2009.
[1667] Mola 2006, poi parzialmente rielaborato in Id., Trasferimenti. Fotografia e scultura nell’opera di Rosso. In Paoli et al. 2013, pp. 40-61, da cui si cita; Mola 2007.
[1668] Giovanna Ginex, “Contro la fotografia”. La fotografia nella vita, nell’opera e nel pensiero critico di Umberto Boccioni. In Paoli et al. 2013, pp. 63-85, in cui lamentava la scarsa tutela di questi materiali e la scarsa o nulla attenzione per una loro corretta edizione da parte degli studiosi. Il saggio sintetizzava precedenti ricerche già pubblicate in Ginex 2004a, 2004c; 2006a.
[1669] Ginex, “Contro la fotografia”, citato alla nota precedente, p. 63. Ne era efficace dimostrazione il ritrovamento di cinquantatre fotografie, prevalentemente autoritratti, da solo o in compagnia della madre e della sorella, realizzate da Boccioni nel proprio appartamento milanese sui Bastioni di Porta Romana, poi presentate nella mostra che il Guggenheim di New York dedicò nel 2004 a Materia (1912-1913) ponendo in relazione il dipinto con opere di artisti quali Braque e Picasso, Léger, Delaunay e Duchamp, cfr. Boccioni’s Materia: a Futurist Masterpiece and the Avant- garde in Milan and Paris, catalogo della mostra (New York, Solomon R. Guggenheim Museum, 6 febbraio – 9 maggio 2004) a cura di Laura Mattioli Rossi; testi di Emily Braun, Flavio Fergonzi, Giovanna Ginex, Vivien Greene, Fausto Petrella, Gianluca Poldi, Laura Mattioli Rossi. New York: Solomon R. Guggenheim Museum, 2004.
[1670] Lista 1979, p. B.
[1671] Dal comunicato stampa pubblicato in http://www.circolofuturista.org/?paged=9 [04 09 2018], un sito vicino all’organizzazione fascista Casa Pound.
[1672] M. Maffioli, I Macchiaioli e la fotografia: personaggi, luoghi e modelli visivi. In Maffioli et al. 2008, pp. 36-59. Ricordo qui che questo catalogo si caratterizzava anche per l’efficace scelta editoriale di affiancare fonti fotografiche e riproduzioni dei dipinti da quelle derivati o ispirati, riducendo in pagina le differenze materiali tra i due oggetti al fine di accentuarne le corrispondenze formali e compositive.
Per Giovanni Fanelli il saggio di Maffioli offriva “su un tema di così notevole interesse un contributo criticamente alquanto fragile configurandosi tutto sommato come un’occasione mancata. Malgrado qualche notazione interessante, esso risulta infatti prevalentemente concentrato – come dichiara lo stesso titolo – su alcuni casi di utilizzazione della fotografia come studio di modelli preparatorio di dipinti (…) e su analogie (…) di ordine contenutistico (…), e proponendo relazioni non sostenibili della pittura dei Macchiaioli con fotografie come quelle di una serie di paesaggi mugellani di Anton Hautmann [tavv. 44-47, pp. 106-108], che sono invece da riferire alla tradizione del pittoresco interpretata dai fotografi inglesi (come peraltro era già stato precisato, malgrado la Maffioli dichiari la serie “inedita”[p. 44], cfr. G. Fanelli, Addenda a Anton Hautmann. Immagini del Mugello, “AFT”, 15 (1998), n. 29, pp. 29-36. Si veda anche Maffioli 2011.
[1673] Silvio Balloni, Teorie della visione a fondamento delle ricerche unificate di pittura e fotografia nell’Italia dei macchiaioli. In Maffioli et al. 2008, pp. 16-35. Il saggio venne particolarmente apprezzato, anche da Miraglia (2012, p. 93), per aver “analizzato il problema[delle modalità rappresentative] in termini filosofici, con rinvii più diretti anche al piano concettuale sotteso alle modalità rappresentative e ai meccanismi fisiologici della percezione.” Un sostanziale contributo alla conoscenza della complessità dei rapporti culturali dei Macchiaioli, in particolare di Diego Martelli, è costituito dal trattamento informatico del suo carteggio, conservato alla Biblioteca Marucelliana di Firenze e studiato anche da Balloni, analogamente a quanto accaduto per il carteggio di Adriano Cecioni compreso nel fondo Vitali della stessa biblioteca; si vedano presupposti ed esiti in http:// www.memofonte.it/ ricerche/macchiaioli.html ed in http://www.memofonte.it/contenuti-rivista-n.4/indice.html [13 04 2016].
[1674] Cfr. Zannier 1991, p. 42, p. 53.
[1675] Dell’opera è stata recentemente approntata l’edizione francese, riveduta e ampliata, Histoire de la photographie d’architecture. Lausanne: PPUR – Presses polytechniques et universitaires romandes, 2016.
[1676] Tra le opere di carattere generale pubblicate negli anni immediatamente precedenti si vedano almeno, Daniel Naegele, ed., Photography and Architecture, “History of Photography”, special issue, 22 (1998) n. 2; Vues d’architecture. Photographies de XIXe et XXe siècles, catalogo della mostra (Grenoble, Musée de Grenoble, 2 giugno – 25 agosto 2002), con testi di Serge Lemoine, Anne de Mondenard, Michael Jakob, Dominique Baque, Olivier Tomasini. Paris: Réunion des Musées Nationaux, 2002 e Building With Light: the International History of Architectural Photography. London: Merrell, 2004 di Robert Elwall, (1953-2012), che fu il fondatore e poi il curatore della Photographs Collection della biblioteca del RIBA, che ora prende il suo nome.
[1677] Fanelli 2009c, p. 3.
[1678] Fanelli 1999a; Id. 1999c, discussi al paragrafo Lo spazio discorsivo della stereoscopia (pp. 212-214).
[1679] L’intento encomiabile di contenere il prezzo di vendita doveva aver inciso non poco sulla composizione del volume e sulla sua realizzazione tecnica, ma la griglia di impaginazione su due colonne, insieme alla stampa a singolo tono hanno penalizzato proprio il ricco apparato iconografico che in troppi casi non si dimostrava in grado di sostenere il discorso parallelamente condotto dal testo; si vedano anche – pur nel contesto di una valutazione ampiamente positiva – le riserve avanzate a questo proposito da Angelo Schwarz, Una storia della fotografia di architettura (2010), “Lookhard”, 17 agosto 2011, https:// lookhard.wordpress.com/ tag/giovanni-fanelli/ [22 06 2017].
[1680] Sigfried Giedion, Bauen in Frankreich. Leipzig: Klinkhardt & Biermann, 1928.
[1681] In quello stesso 2009 in cui venne pubblicata la Storia di Giovanni Fanelli si apriva a Londra presso la Estorick Foundation una mostra sui rapporti fra architettura e fotografia in Italia nella prima metà del XX secolo (Carullo et al. 2009); dopo l’edizione londinese la mostra venne presentata al MAXXI di Roma col titolo Inquadrare il Moderno. Architettura e Fotografia in Italia 1926- 1965 dal 24 marzo al 22 maggio 2011), nella quale si illustrava il dialogo tra la nuova architettura, i suoi materiali e la “nuova visione” modernista, portando a rivitalizzare la stessa fotografia di settore, che a sua volta svolse un ruolo determinante nella “disseminazione” del nuovo modo di costruire. Attingendo a piene mani dall’archivio fotografico del RIBA la mostra e il catalogo procedevano analogamente a uno dei percorsi di indagine individuati da Fanelli, illustrando il ruolo svolto e le trasformazioni indotte dalla pubblicazione delle fotografie su periodici come “Domus” e “Casabella”. I rapporti fra architettura e fotografia costituirono anche l’argomento di Maria Antonella Pelizzari, Paolo Scrivano, eds., Intersection of Photography and Architecture, “Visual Resources”, 27 (2011), n. 2, nel quale – coerentemente al titolo – si intendeva mettere in luce la “dynamic and often conlicted connection” tra le due discipline, nella convinzione che “a debate on the relation between architecture and photography can only be productive through an interdisciplinary approach that takes into consideration the context of production and media distribution of images entailing two distinct – yet interconnected – authorship” (109), vale a dire le figure del progettista e del fotografo. Sul ruolo svolto dalle riviste di architettura si veda anche Jannière 2002.
[1682] La cartolina postale fotografica, pp. 370-386; per confronto si rimanda a Fanelli 1998b.
[1683] Era evidente in ogni pagina del libro la volontà di non escludere alcuno degli autori che hanno lasciato una traccia, per quanto minima, nella storia della fotografia di soggetto architettonico; valga a puro titolo di esempio quanto scritto nel paragrafo dedicato ai pionieri della fotografia di architettura a proposito del fatto che “in Belgio si conosce la veduta della chiesa Saint-Nicolaas a Gand, opera probabilmente di Charles D’Hoy (?- ?)”, p. 47, dove ciò che sorprendeva non era tanto la mancanza degli estremi biografici oggi noti (1823-1895) quanto la singolarità del dato, privo di relazioni che non fossero enumerative col resto del paragrafo.
[1684] Carlo Cresti, Architettura e Fotografia. In Cresti 2004, pp. 5-9, già precedentemente pubblicato in Cresti 2000, pp. 5-7. I problemi posti dalla resa monocroma delle architetture del moderno sono stati affrontati in saggi e interventi diversi di Bruno Reichlin, ma si veda anche Barbara Mazza, Le Corbusier e la fotografia. La verité blanche. Firenze: University Press, 2002.
[1685] Cresti, Architettura e Fotografia, citato alla nota precedente. L’interpretazione disciplinare si rivelava forse più ingenua che errata perché se è vero che la sussidiarietà dell’immagine costituiva un rischio reale, avvertito anche e forse più in ambito storico artistico, è altrettanto vero che l’avvento della tecnologia fotografica ha consentito lo sviluppo della storiografia architettonica intesa in senso moderno, con la messa a punto di metodologie e tassonomie comparative che solo la grande disponibilità di documentazione iconografica hanno reso possibili; si veda a questo proposito James S. Ackerman, On the Origins of Architectural Photography, “CCA Mellon Lecture”, 4 dicembre 2001, ora in Id., Origins, Imitations; Conventions. Representations in the Visual Arts. Cambridge MA: The MIT Press, 2002, pp. 95-124.
[1686] Marina Miraglia, La ‘veduta’ fotografica come forma rappresentativa privilegiata della scena urbana e dell’architettura. In Cresti 2004, pp. 19-27, ora in Miraglia 2011, pp. 100-109, dove considerava in particolare l’opera di Luigi Sacchi.
[1687] Carlo Cresti, La fotografia finalizzata al turismo in Toscana negli anni Venti e Trenta del Novecento. In Cresti 2004, pp. 67-76. Analizzando l’opera dei fotografi fiorentini attivi in quegli anni l’autore esprimeva “non poche perplessità [in merito alla] proposta, avanzata in una recente mostra, tendente a dimostrare che ad una ipotetica scuola architettonica fiorentina corrisponderebbe anche una scuola fiorentina di architetti fotografi. (…) Una proposta che si accredita come un’affrettata e lacunosa ‘istantanea’ espositiva.” Il duro giudizio critico era riferito alla mostra Architettura e fotografia: La scuola fiorentina, curata nel 2000 da Gianluca Belli, Giovanni Fanelli e Barbara Mazza (Belli et al. 2000).
[1688] La fortuna di questo modello interpretativo, troppe volte adottato senza essere criticamente verificato, era ancora ben attiva in Andrea Mattiello, Giacomo Boni: A Photographic Memory for the People. Documenting Architecture trough Photographic Surveys in Post-Unification Italy. In Caraffa 2011b, pp. 217-226, un contributo per altro viziato da importanti lacune relative alla storia dei rapporti tra documentazione fotografica del patrimonio e tutela in Italia nel corso del XIX secolo, non ultime le vicende legate alla costituzione del Gabinetto Fotografico Nazionale, per le quali si rimanda a Marsicola 2014.
[1689] Ferretti 1980; Luigi Tomassini, Vedere Firenze nell’Ottocento. Immagini e descrizioni della città nell’editoria per il turismo. In Falzone del Barbarò et al. 1989a, pp. 11-27 e 217-220; un tema poi sviluppato in Tomassini 2003. Anche un più recente volume curato da Giovanni Fanelli e Barbara Mazza (Fanelli et al. 2013) affrontava il tema delle guide come strumenti di organizzazione e di mediazione della conoscenza, e, certo, delle fotografie, prima acquistate poi anche realizzate in proprio. Riprendendo il concetto, già espresso in Fanelli 2009c, p. 3, che una fotografia “n’est pas seulement une image, mais également un objet à manier et à observer” (p. 14, corsivo degli autori), lo studio faceva derivare alcune ricche pagine in cui si guidavano i lettori a contestualizzare il fenomeno e le immagini considerandone gli elementi costituenti.
[1690] La disponibilità di dati e la varietà di studi relativi alla ditta fiorentina consentiva ovviamente di condurre analisi più articolate e fondate rispetto ad ogni altro produttore italiano ma a volte conduceva a generalizzazioni improprie, come quella che attribuiva all’iniziativa di Vittorio Alinari la formazione “negli anni esattamente a cavallo fra il XIX e il XX secolo, del primo catalogo dichiaratamente “nazionale” del patrimonio artistico italiano” (17), dimenticando analoghe e precedenti iniziative di studi e fotografi quali ad esempio Pietro Poppi o Giorgio Sommer, che si distinguevano dai maggiori come Alinari per dimensione economica, non per strategia commerciale o culturale.
[1691] Si vedano Berardi et al. 2013, Marsicola 2014 e la bibliografia ivi citata.
[1692] Marco Pizzo, La nascita della fotografia d’arte e le foto di paesaggio. In Callegari et al. 2010, pp. 33-41 (33).
[1693] Recine 2006; Callegari et al. 2010, che si segnalava per una inesistente cura nella descrizione dei materiali pubblicati; Costa et al. 2013. Lontano da preoccupazioni identitarie e più attento alle questioni culturali sottese alla fortuna fotografica di un complesso architettonico il contributo di Roberto Cassanelli (2014) sulla Certosa di Pavia.
[1694] Tamassia 2004b; Torchio 2004, da leggersi in parallelo a Mangiavacchi 2001; Benedetti 2009; Tamassia 2010; Delogu 2011; Berardi et al. 2013, legato a una piccola occasione espositiva destinata a segnalare l’imponente lavoro, allora in corso, di studio, ordinamento e catalogazione del fondo fotografico del Ministero della Pubblica Istruzione / Direzione generale Antichità e Belle Arti pervenuto al’ICCD al momento della sua istituzione nel 1975. La paternità di quel progetto, redatto da chi scrive e condotto nella piena consapevolezza della natura di dispositivo storicamente e culturalmente determinato di ogni aggregazione di materiali (archivio, fondo, collezione) e della catalogazione quale momento determinante dal punto di vista conoscitivo e strategico per la sua comprensione e tutela, è stata poi sistematicamente occultata dalla committenza, cfr. Berardi 2015.
[1695] Marsicola 2014; il tema aveva già costituito argomento di un articolo di Milena Galasso (2009), non ricordato nella Bibliografia di questo volume, derivato dalla propria tesi di laurea discussa all’Università di Viterbo nel dicembre 2005, relatore Giovanni Paoloni. Nello stesso anno un’importante mostra venne dedicata a un altro dei protagonisti della cultura della tutela e del restauro in Italia come Luca Beltrami, il cui catalogo (Paoli 2014) comprendeva due saggi inerenti la fotografia: quello della curatrice, “Un particolare valore di documento”: Beltrami e la cultura fotografica a Milano alla fine dell’Ottocento, pp. 253-263 e quello di Giacomo Magistrelli, Al servizio del disegno. Sulle fotografie del restauro di Luca Beltrami del Castello Sforzesco di Milano, pp. 143-155, che meritava leggere in parallelo.
[1696] Laura Moro, Oltre lo specchio. Uno sguardo fotografico a servizio dell’istituzione. In Marsicola 2014, pp. 15-23. Anche la recensione di Tiziana Serena, La documentazione fotografica della nazione alle origini del servizio di Stato, “RSF rivista di studi di fotografia”, 1 (2015), n. 1, pp. 120-122 sottolineava opportunamente che “mostra e relativo catalogo nascono in casa ICCD e sono ascrivibili a quelle operazioni di conoscenza della storia istituzionale attraverso il proprio archivio fotografico, che nel corso dell’ultimo decennio in Italia hanno tracciato una linea d’indagine peculiare.” Già nella sua Introduzione agli atti del convengo del 2012 sugli archivi fotografici delle istituzioni culturali della città di Roma (In Fabjan 2014, pp. 11-12, corsivi dell’autrice) Laura Moro aveva ricordato che la “funzione più forte dei nostri archivi è la restituzione di immagini; quello che interessa, nella maggior parte dei casi, non è la fotografia ma il suo contenuto visivo. La fotografia come oggetto materiale stratificato e quindi polisemico non è ancora il centro di interesse degli studiosi (a parte ovviamente gli studiosi di fotografia). Questo significa che noi chiamiamo le nostre raccolte archivi fotografici, poiché tali sono, ma continuano a funzionare come fototeche, dove si lavora con le fotografie e non sulle fotografie”, dimostrando così di accogliere la distinzione epistemologica introdotta da Caraffa 2011a.
[1697] Anna Perugini, Documentare il territorio. L’operatività del Gabinetto Fotografico Nazionale. In Marsicola 2014, pp. 167-181; alla stessa si doveva anche la sezione degli “Apparati” relativa al regesto della Produzione del Gabinetto fotografico durante la direzione di Giovanni Gargiolli, ivi, pp. 321-324.
[1698] Clemente Marsicola, La misura delle Belle Arti: la scienza fotografica di Giovanni Gargiolli. In Marsicola 2014, pp. 31-40; al curatore si doveva anche la breve Intervista a Carlo Bertelli, ivi, pp. 333-337 in cui lo studioso ricostruiva il formarsi del proprio interesse per il patrimonio fotografico storico e il sorgere di una rinnovata attenzione per il GFN a partire dagli anni Sessanta del Novecento.
[1699] Benedetta Cestelli Guidi, Lo “stile Gabinetto Fotografico”: fotografia e patrimonio materiale. In Marsicola 2014, pp. 41-55, che cita nel titolo un passo di Bertelli 1967. Alla stessa studiosa vennero anche affidati quattro Casi di studio, ivi, pp. 286-305, da leggersi congiuntamente a Cestelli Guidi 2015.
[1700] Si veda il paragrafo Alinari 150 (pp. 246-251).
[1701] Ampie tracce di questa impostazione percorrevano tutto il saggio, dalla citazione in esergo di Guido Guidi al richiamo ideologico di matrice modernista del valore quasi etico della corrispondenza totale tra ripresa e stampa o anche al (presunto) ripudio del ritocco delle lastre, per altro ampiamente praticato anche dal GFN di Gargiolli.
[1702] Come purtroppo accade negli interventi di numerosi studiosi di formazione storico artistica che si avvicinano alla fotografia, a una precisa intenzione metodologica non corrisponde una sufficiente conoscenza delle questioni tecniche e tecnologiche, e del loro significato, quasi che queste non facessero parte della materialità delle immagini. Mi riferisco ad esempio all’improbabile citazione di “stampe all’ambrotipo” o al fatto altrettanto curioso che “nel catalogo generale del 1907 di Domenico Anderson (…) il nitrato d’argento è consigliato agli studiosi perché utile alla documentazione”(45). Significativo infine il ricorso al termine “postproduzione”, di evidente derivazione digitale e ancora recentemente utilizzato in Cestelli Guidi 2015, per indicare il consueto e inevitabile processo di stampa delle lastre negative.
[1703] Francesco Faeta, Uomini, Paesaggi, rovine. Una certa idea del Paese, una certa pratica dell’immagine. In Marsicola 2014, pp. 57-63, in cui, seguendo una linea di pensiero ideale che da Giulio Bollati muoveva sino a Benedict Anderson, l’autore analizzava “il legame profondo che si stringe, in determinati anni, tra la fotografia e la costruzione dell’identità nazionale italiana” (57), cercando di individuarne i segni nell’opera di Gargiolli.
[1704] Monica Maffioli, Punti di vista: gli Stabilimenti fotografici italiani e il Gabinetto Fotografico Nazionale di Giovanni Gargiolli. In Marsicola 2014, pp. 213-220. Le questioni poste dalla determinazione dei “confini tra autorialità della fotografia e documento iconografico [che] possono non essere facilmente distinguibili e quindi riconoscibili nella loro dimensione autonoma” costituivano uno degli argomenti trattati dalla studiosa anche in Fotografia e scultura: ri-conoscere Michelangelo. In Bietoletti et al. 2014, pp. 36-61 (38), illustrando il ruolo svolto dalla fotografia nel definire la fortuna critica di alcune opere michelangiolesche, già in parte affrontato da Paoli 2007 a proposito della Pietà Rondanini.
[1705] Photography demonstrated (…) how the past could be reconstructed through its physical remains. Most importantly, it provided a tool to organize and interpret this new source of historical information.”, Claire L. Lyons, The Art and Science of Antiquity in Nineteenth- century Photography. In Lyons et al. 2005, pp. 22-65 (25).
[1706] “The visual logic of the photograph – self-evidently ‘true’ and effortlessly multiplied – was an effective tool by which Western powers leveraged political and economic advantages to establish Eurocentric hegemony over the domain of universal history.”,ivi, p. 39.
[1707] “Archaeology, like photography, is both art and science, a journey through time that arrests history in incremental moments.”
“Somewhat different priorities governed photography of classical sites in the western Mediterranean, by virtue of the simple fact that the artistic and literary legacy of Greece and Rome had been subject to Europe’s intensive gaze nearly without pause.”, ivi, pp. 22, 49.
[1708] “Despite the facts (…) that innumerable views were made by travelers and by commercial studios for the tourist trade – or perhaps because of this very iconographic abundance – archaeologists working in Italy did not immediately make use of photography for excavation documentation. Several factors, practical and political, may account for this. (…) Restricted access to the results of excavation was official policy [and] much of the responsibility for drawing rested in the hands of artists and architects. Photographic representation threatened to usurp their stature in the ranks of what was already a highly structured bureaucracy.”, ivi, p. 49.
[1709] “Pictorial conventions attuned to aesthetic appreciation had to accommodate a different set of theoretical and practical issues raised by archaeologists and architects who set out to recover Rome’s built past. This was a past to be rediscovered and, moreover, to be renovated. (…) photographs of architectural monuments were deployed to communicate a spirit of renewal, in which antiquity was a proxy for modernization.”, ivi, p. 54.
[1710] Szegedy-Maszak 1988a; 1988b; 1990; 1992; Pelizzari 1996c; Miraglia 2003.
[1711] Leone et al. 2007; 2009; 2011. Si veda anche il catalogo della mostra Leone et al. 2008. Da ricordare anche, in questo contesto l’importante fondo fotografico del Piano Regolatore di Roma del 1883 ( Del Prete 2002).
[1712] Anita Margiotta, Il fondo sulle demolizioni degli anni trenta a Roma fra storia e fotografia. In Leone et al. 2007, pp. 12-25 (14).
[1713] Pur con diverse sfumature di senso, un analogo orientamento interpretativo connotava anche gli altri due volumi editi in quel torno di tempo a partire dal fondo fotografico Ashby, vale a dire quelli riguardanti l’Abruzzo (Tordone 2011) e il Beneventano/ Brindisino (Ceraudo 2012) in cui accanto alle fotografie del Direttore della British School at Rome vennero presentate immagini di Peter Paul Mackey, delle sorelle Dora e Agnes Bulwer e di Robert Gardner. In particolare nel secondo di questi volumi l’attenzione dei curatori appariva in bilico tra recupero ‘archeologico’ della documentazione fotografica e fascino nostalgico per il passato poiché “oltre a questo [interesse documentario], non sono secondari gli aspetti sociali ed etno-antropologici, attestati da numerosi casi in cui oltre al soggetto principale della foto, sono impresse nella pellicola scene e personaggi di vita quotidiana, antichi mestieri, quali l’elettricista [sic] (cat. n. 19) o il pastore (cat. n. 25), e attività, come il lavaggio dei panni al fiume (cat. n. 20) che rimandano a professioni o tradizioni che affondano le radici in un passato che sembra oggi lontanissimo.” (Ceraudo 2012, p. 33).
[1714] Olivo 2000; Coates-Stephens 2009. Gli archivi fotografici della British School at Rome sono dal 2011 accessibili online dopo la campagna di catalogazione promossa da The Getty Foundation a partire dal 2002. Più circoscritto, e per certi versi tradizionale, l’insieme dei documenti studiati da Canniffe 2013 relativi al soggiorno romano del capitano inglese John Douglas Kennedy, nel 1891-1896, in particolare stampe fotografiche acquistate o da lui stesso realizzate che – insieme a libri, mappe e quaderni di appunti – dovevano servire per la preparazione di una guida destinata al turismo colto. Più specificamente rivolta al patrimonio archeologico risultava la documentazione prodotta in Sicilia dall’americano William J. Stillman, recentemente studiata da Emanuele Bennici (2015g), che ha riconosciuto una parte di quelle immagini in una serie conservata presso le Raccolte Museali Fratelli Alinari di Firenze, sinora indicate come di “autore sconosciuto” e datate erroneamente al “1910ca.”
[1715] Se non andiamo errati, sino all’inizio del XXI secolo al tema erano stati dedicati solo pochi studi (Pompei 1981; Maffioli et al. 1990; Cassanelli 1997b).
[1716] Smith 2004; De Carolis 2009; 2011; 2013.
[1717] Miraglia et al. 2015. Si veda anche il contributo di Grete Stefani (2015) compreso nel catalogo generale.
[1718] Massimo Osanna, “Raccogliere, riprodurre, diffondere”: fotografare Pompei. In Miraglia et al. 2015, pp. 7-29 (7).
[1719] Marina Miraglia, La fotografia, Pompei e l’Antico. Fra documentazione, stile ‘documentario’ e tensioni estetiche. In Miraglia et al. 2015, pp. 30-59.
[1720] Tra i numerosi spunti e suggestioni offerti da questo testo alla prosecuzione degli studi ricordiamo anche il riferimento problematico alla produzione di Cesare Vasari, cfr. Miraglia, La fotografia, Pompei e l’Antico, citato alla nota precedente (p. 54, nota 54). Sulle campagne fotografiche pompeiane si veda ora anche Alberto Manodori Sagredo, Pompei stereoscopica. Fotografi e ditte fotografiche a Pompei 1860- 1910 dall’archivio Manodori Sagredo. Roma: UniversItalia, 2016.
[1721] Giorgia Alù, Nancy Pedri, Photo- Literary Encounters in Italy. In Alù et al. 2015, pp. 3-24 (3). Il convegno internazionale si tenne all’Università di Warwick nei giorni 13 e 14 marzo 2009 ma il volume che ne ereditò il titolo non corrispondeva ai contenuti di quelle giornate, mancando tra gli altri gli interventi di Millicent Marcus, Diego Mormorio e Cesare Colombo, mentre erano compresi saggi non presentati in quella occasione. Si vedano le recensioni di Riccardo Donati, Il tangibile e l’immaginario: fotografia e letteratura nell’Italia moderna, “RSF rivista di studi di fotografia”, n. 2, 2015, pp. 126-128 e di Nicoletta Leonardi, “”Modern Italy”, 21 (2016) n. 3, August, pp. 313-314. Sul rapporto complesso tra D’Annunzio e la fotografia si vedano anche D’Annunzio et la modernité, atti del Colloque International Université de Caen Basse-Normandie, IMEC (Abbaye d’Ardenne, 10-11 dicembre 2008), a cura di Laura Oliva e Maria-José Tramuta, “Studi Medievali e Moderni”, 13 (2009), f. 2, n. 26, in particolare il testo di Epifanio Ajello, D’Annunzio e Michetti. Esercizi dintorno al fotografico, pp. 71-88 e Giuliana Pieri, Gabriele d’Annunzio and the self-fashioning of a national icon. In Iconic Images in Modern Italy: Politics, Culture and Society, “Modern Italy”, Special Issue, 21 (2016), n. 4, November, pp. 329-343.
[1722] Si vedano Verdicchio 2011; Hill et al. 2014.
[1723] “One of the first postmodern works of Italian literature”, Sarah A. Carey, The Fiction of Photography: Vittorio Imbriani’s Merope IV – Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi (1867). In Alù et al. 2015, pp. 101-121 (101). Il ricco contributo di Maria Grazia Lolla, Photography, Literature, and the Social Sciences in Fin-de-Siècle Italy, ivi, pp. 27-50, offriva una buona sintesi generale, per quanto eccessivamente orientata alla letteratura, dovuta forse a una insufficiente conoscenza della storia della fotografia, come sembrava indicare, a commento di un breve articolo di Edmondo De Amicis sulla caduta di Roma, la sua opinione che “the early decades of photographic practice in Italy are littered with events, people, and objects that could have been photographed but were not” (35), mostrando di non considerare le numerose fotografie immediatamente antecedenti e successive alla presa di Porta Pia di Tuminello, Verzaschi e altri.
[1724] Marcenaro 2004. Si veda anche Donatelli 2004, che riconsiderava i temi proposti dalla relazione tra fotografia ed estetica della modernità.
[1725] Maria Rizzarelli, Letteratura & fotografia, “Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca”, 1 (2011), n. 1, aprile, pp. 45-47.
[1726] Silvia Albertazzi, Michele Cometa, Massimo Fusillo, Premessa generale. In Albertazzi et al. 2008, p. 7. Tra i testi raccolti si segnalava per la pertinenza al periodo storico qui considerato, Giuseppe Sorbello, Due scrittori davanti all’obiettivo: Capuana e Verga, pp. 15-30, in cui si rilevava la necessità di approfondire nelle loro opere i nessi tra letteratura e fotografia, da troppi ancora confinati “a semplice appendice biografica (…) inerte dal punto di vista critico” (15), restando però poi incerto sul superamento di quell’inerzia. Questo contributo meritava di essere confrontato con quello di Davide Lacagnina, Verismo, pittura, fotografia: iconografia e ideologia del paesaggio siciliano nella scrittura di Navarro della Miraglia, Capuana, Verga (In Longo et al. 2014, pp. 128-145), che considerava invece sopravvalutato il ruolo della fotografia nella “considerazione delle fonti visive alla base della scrittura verista” (128). Gli atti del convegno dell’Università di Lille del 20 aprile 2012 in cui quel contributo venne pubblicato contenevano, tra gli altri, anche il saggio di Giovanni Fiorentino, Fotografia e letteratura. Ai bordi dell’Ottocento, tra immaginario e realtà. In Longo et al. 2014, pp. 81-89.
[1727] Remo Ceserani, Treni di carta. L’immaginario in ferrovia: l’irruzione del treno nella letteratura moderna. Genova: Marietti, 1993 (nuova ed. Torino: Bollati Boringhieri, 2002).
[1728] Cortellessa 2011.
[1729] Mieke Bal, Descrizioni, costruzione di mondi e tempo della narrazione. In Franco Moretti, a cura di, Il romanzo, 2, Le forme. Torino: Einaudi, 2002, pp. 189-224 (208-209). L’analisi di Cortellessa, molto affascinante, proseguiva sino alla contemporaneità intersecando letteratura e cinema a testimoniare quella possibilità solo in parte illusoria di attingere il reale attraverso la fotografia che ha attraversato (e ancora attraversa) tutta la storia delle immagini fatte a macchina. Alla descrizione di un importante archivio di fotografie legate alle produzioni cinematografiche come quello Ferrania (poi 3M) venne destinato un volume curato da Cesare Colombo (2004) che ne collocava la lettura nel momento storico della fine dell’analogico. La ricostruzione delle vicende che portarono alla formazione di quella collezione ne sottolineava i legami con lo specifico settore merceologico (pellicole per fotografia e cinematografia), riflesso anche nella duplice attenzione prestata ai due ambiti dal periodico omonimo. “Ferrania” pubblicava infatti numerose foto di scena, specie di produzioni italiane in parte già utilizzate per Cineromanzo. Il cinema italiano 1945- 1953, pubblicato da Longanesi nel 1977 per la cura di Lorenzo Pellizzari e qui riprese dallo stesso autore che sottolineava il loro specifico valore come fonte per la storia del cinema, distinguendole opportunamente dalle “foto di set” e dalle “foto di cast” per avvicinarle semmai alla logica narrativa del tableau vivant.
[1730] Alberto Mario Banti, Paul Ginsborg, a cura di, Il Risorgimento, “Storia d’Italia”, “Annali”, 20. Torino: Einaudi, 2007.
[1731] Fernando Mazzocca, La rappresentazione della guerra nella pittura risorgimentale. In Banti, Ginsborg, a cura di, Il Risorgimento, citato, pp. 721-743.
[1732] Su di una ventina di titoli pubblicati ben sette riguardavano Garibaldi.
[1733] Pizzo 2007, 2009. I due contributi si caratterizzavano per il taglio divulgativo, ciò che pareva escludere ogni intenzione di problematizzazione, quella che a nostro parere sarebbe stata necessaria per non incorrere in un certo determinismo proprio a partire da quello che poteva essere il concetto di evento per la cultura ottocentesca. Come ha rilevato Brevetti 2012 i contributi presentavano anche alcune problematicità relative alla datazione e quindi all’attribuzione di responsabilità di alcuni ritratti di Garibaldi.
[1734] Pizzo 2011, che riprendeva il titolo di un volumetto pubblicato in allegato alla rivista “Stilos”, 1 (2010) n. 1, febbraio.
[1735] Piuttosto riduttiva l’interpretazione offerta nel recensire il volume da Giovanni de Luna, Da Solferino a Gaeta anche i morti erano finti, “La Stampa 12/03/2011” (http://www.stmoderna.it/Rassegna-Stampa/DettagliQuotidiani.aspx?id=11793) [07 07 2016], per il quale il Risorgimento “si inventò monumentali e fredde messe in scena e fabbricò una valanga di falsi (…) Perché? Perché il nostro Risorgimento coincise con gli albori della fotografia e questa, per intenderci, non poteva minimamente competere con la pittura.” Constatazione ovvia ma certo non una spiegazione convincente del fenomeno.
[1736] Il contributo illustrava un progetto all’epoca ancora in corso che avrebbe dovuto essere progressivamente dotato “di un ricchissimo apparato illustrativo e [che] si avvarrà della collaborazione dei responsabili delle istituzioni bibliotecarie, archivistiche e museali detentrici dei più significativi complessi documentari”, ma allo stato attuale (2016) non è stato possibile reperire ulteriori informazioni.
[1737] Nella più ricca edizione parigina la mostra si apriva mettendo a confronto un “monumental plan-relief de Rome”, con i rilevamenti effettuati sul campo dagli ufficiali francesi e le fotografie di Stefano Lecchi e offriva anche la possibilità di visionare importanti esemplari di riprese stereoscopiche.
[1738] Calci 2008. Il volume, che conteneva anche un ricco repertorio di carte de visite di personaggi e luoghi garibaldini, provenienti oltre che dalle loro anche dalla collezione di Michael George Jacob, si segnalava per le buone riproduzioni e le accurate schede catalografiche, che si sarebbero però giovate di una diversa organizzazione dei dati, partendo dall’autore dell’immagine e non dal soggetto fotografato. Quale esempio di repertorio ritrattistico meno storiograficamente strutturato, inteso anzi come “un vecchio, caro album di famiglia, che ci fa scoprire i volti seppiati di tanti lontani compatrioti e dei loro antagonisti” si veda Pagnotta 2011, che pure offriva circa quattrocento occorrenze.
[1739] Per Calabrese l’Eroe dei Due Mondi costituiva l’elemento comune di “un incrocio di forme – letterarie, pittoriche, fotografiche, popolari, religiose, politiche – attirato da una serie di attrattori stereotipi ai quali di volta in volta può prestare la faccia”, Omar Calabrese, Garibaldi tra Ivanhoe e Sandokan. Milano: Electa, 1982 p. 5. Per la stessa casa editrice lo studioso stava curando i cinque volumi di Italia Moderna, “una gigantesca storia d’Italia il cui punto di forza doveva essere l’illustrazione”, cfr. Isabella Pezzini, Omaggio a Omar: fra Garibaldi e Sandokan un saggio sull’immaginario eroico, “Galáxia”, n. 24, dicembre, 2012, pp. 206-213 online: http://www.redalyc.org/articulo.oa?id=399641250017 [20 12 2016].
[1740] Galati 1982; Miraglia 1982; Settimelli 1982b.
[1741] Arbace et al. 2009. Di quest’opera di valorizzazione non si riscontra purtroppo traccia nel sito ufficiale, nella cui “Galleria” le fotografie ‘storiche’ sono pubblicate prive di qualsivoglia dato identificativo, cfr. http:/ /www.compendiogaribaldino.it /index.php?module=gallery&idc=26&idrec=77 [20 12 2016].
[1742] Tomassini 2009, p. 130.
[1743] “È infatti molto plausibile – scriveva Brevetti (2012a, pp. 81-82) – che i ritratti creati in una data città siano desunti da fotografie lì diffuse o lì realizzate (…). Basti confrontarli con quelli realizzati in luoghi lontani dagli eventi e senza il supporto delle fotografie, nei quali il Generale è maggiormente idealizzato, immaginato.” Tesi interessante, ma questa plausibilità è poi solo supposta né lo studioso pare tener conto di un fenomeno tipico delle fotografie, specie nella forma della carte de visite e della ritrattistica in genere, cioè della loro facile e ampia circolazione. Analoghe incertezze si ritrovavano in un suo altro contributo coevo, che qui riprendiamo a puro titolo esemplificativo di una condizione di studi e ricerche che anche ai livelli più alti (Scuole di Dottorato) ancora oggi fatica molto a fornire e pretendere una adeguata preparazione di cultura fotografica. Dopo aver ribadito la sacrosanta necessità metodologica di “una ricognizione del corpus delle immagini, capirne genesi, evoluzione e caratteristiche. Da una loro analisi, individuarne autori e tecniche, decifrarne l’iconografia e valutare i rapporti con le altre arti, in particolare con la pittura. E dunque, per iniziare, occorre una mappatura di tali opere (…)” Brevetti (2012b, p. 184) giungeva a scrivere che “solitamente [sic] i dagherrotipi, lastre di rame trattate chimicamente, sono pezzi unici, non riproducibili”, dimostrando così una totale, ingiustificabile mancanza dei più elementari dati di conoscenza del proprio oggetto di studio, evidentemente condivisa con i propri formatori e tutori culturali.
[1744] La qualità redazionale delle schede era assolutamente discontinua, alternando accuratezza descrittiva e sciatteria come si vede ad esempio a proposito delle (riproduzioni) di immagini di Stefano Lecchi, la cui descrizione tecnica recitava “carta salata da calotipo al bromuro di sodio” (p. 81), ciò che è un marchiano errore sia che lo si voglia intendere riferito al negativo calotipico sia (ed è meno probabile sintatticamente) al positivo, essendo semmai in quel caso un cloruro (e quindi un pleonasmo).
[1745] Di corrispondente livello il testo del curatore, I Fotografi dell’Epopea Risorgimentale, dove – dopo una bruciante sintesi di storia politica e della fotografia (anche italiana) arricchita da gustosi svarioni (Hyppolite Deroghe quale socio di Heyland), ritardi critici (l’attribuzione ad Agricola della veduta di Sant’Ambrogio di Sacchi) e una grande libertà sintattica (“quelle idee di identità nazionale che si stavano diffondendosi nel Paese”, p. 4) – entrava nel merito della produzione risorgimentale restituendone un confuso quadro prima di affrontare il caso Diotallevi e passare quindi rapidamente al Processo Mayer e Pierson (tra diritto d’autore e Contessa di Castiglione, unico, labile legame con l’argomento della mostra), per giungere infine al tema Fotografia e Risorgimento a Roma e quindi (con singolare ribaltamento cronologico) alla Scuola Romana di Fotografia. Il saggio chiudeva degnamente affrontando il tema Il paesaggio e l’idea di identità nazionale.
Sulla Contessa di Castiglione si vedano almeno: Apraxine et al. 1999, Id. 2000, Corgnati et al. 2000, Falzone del Barbarò 2001. L’analisi dei suoi decennali rapporti con Pierre-Louise Pierson e dell’infinita serie di (auto)ritratti che ne derivò avrebbe potuto costituire un emblematico caso di studio, una condizione in cui il soggetto si poneva come autore, aprendo a riflessioni di non poco conto sull’autorialità delle immagini e sulla lunga storia di atteggiamenti che altri avrebbero definito performativi.
La serie di stereoscopie di Sevaistre relative a Palermo e all’assedio di Gaeta venne pubblicata in edizione ‘anastatica’, cioè mantenendo dimensioni e cromie degli originali, in Borghini et al. 2007, congiuntamente ad alcuni ritratti di Garibaldi e stampe di Giorgio Sommer di diverso formato, tutte provenienti dalla Collezione Becchetti, acquistata dall’ICCD tra il 1992 e il 1995.
[1746] Serena 2007. Per quanto riguarda l’anonimato autoriale, un tema diversamente presente in numerosi contributi, si veda anche Viaggio 2008 che ne individuava le cause nell’intervento della censura militare e nel desiderio dei combattenti di “dimenticare e tacere”, sebbene poi riconoscesse a questo proposito, con quella che appare come una forte contraddizione, che in quel periodo “vennero eseguiti milioni di scatti e furono pubblicate fotografie come mai era avvenuto prima.”(18). Una precisa attenzione all’autorialità di quei repertori di immagini connotava invece Favaro 2001.
[1747] La citazione non esplicitata rimandava a Vita Fortunati, Le immagini di guerra. Una complessa mediazione tra documento storico e finzione. In Maurizio Ascari, Daniela Fortezza,Vita Fortunati, a cura di, Conflitti. Strategie di rappresentazione della guerra nella cultura contemporanea. Roma: Meltemi, 2008, pp. 95-103.
[1748] Il riferimento al rapporto tra “immagini di guerra” e “dimensione locale” avrebbe però dovuto essere più meditato, non essendo di tipo lineare né così pacificamente definito poiché le immagini di conflitto hanno una disseminazione tale da renderle presenti anche in luoghi in ogni senso distanti da quelli delle battaglie; a maggior ragione quelle di tipo più personale, autoprodotte o commissionate da militari e soldati e che li hanno accompagnati nel ritorno ai luoghi di residenza.
[1749] Gentiloni Silveri 2004; Prezzi et al. 2004; Donazzolo Cristante et al. 2006a; Magnani 2006; Orlando 2006; Folisi 2008; Coppa et al. 2012.
[1750] Cordenos 2005; Cordenos et al. 2008.
[1751] Su questa base il MiBACT aveva promosso la catalogazione e il restauro di fortificazioni, trincee, monumenti, così come di archivi documentari e fotografici, affidando la definizione delle linee metodologiche e delle priorità a un apposito Comitato. Un primo bilancio di quelle attività è stato tracciato in Rita Bernini, a cura di, Il patrimonio storico della prima guerra mondiale: progetti di tutela e valorizzazione a 14 anni dalla legge del 2001. Roma: Gangemi, 2015 e successivamente in occasione della giornata dedicata a Tutela e valorizzazione del patrimonio storico della prima Guerra mondiale, Roma, 24 ottobre 2016. Ad un’altra iniziativa legislativa, la LR 59/1999 emanata dalla Regione Toscana per favorire le ricerche storiche relative alle stragi nazifasciste perpetrate sul suo territorio si deve la pubblicazione di alcune centinaia di immagini realizzate dalle Propaganda-Kompanien conservate presso il Bundesarchiv di Coblenza (Gentile 2006).
[1752] Un’iniziativa che rientrava nel programma ufficiale per le Commemorazioni del Centenario della Prima Guerra Mondiale della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Struttura di Missione per gli Anniversari di Interesse Nazionale. Allo stesso grande tema rimanda il progetto dell’ICCU “14-18. Documenti e immagini della Grande Guerra” (online: www.14-18.it [27 09 2017]), avviato nel 2005 e che ha portato alla costituzione di un archivio digitale che allo stato attuale raccoglie circa 600.000 immagini, manoscritti e materiali a stampa di diversa tipologia, Ai contesti bellici vanno riferite importanti campagne di catalogazione del patrimonio archeologico e monumentale relativo al conflitto ed anche le campagne documentarie realizzate da Giampietro Agostini, Luca Campigotto e Paola De Pietri sui teatri italiani della Grande Guerra e di lsabella Balena per la Seconda.
[1753] Rosati A. 2000; Rosati A. 2005a. Sulle vicende del primo colonialismo italiano e sulla produzione fotografica a quello connessa si veda anche Bollini 2007, che proponeva differenti tipologie di immagini provenienti dalle raccolte dell’Archiginnasio di Bologna.
[1754] Beurier et al. 2005. Nello stesso anno il Museo offrì un’altra occasione di riflessione sulle connotazioni ideologiche delle immagini con la mostra di cartoline della collezione di Enrico Sturani (2005), il cui nucleo più consistente riguardava proprio quelle relative alla Prima guerra mondiale.
[1755] Mignemi 2005a.
[1756] Adolfo Mignemi, Una nuova immagine della guerra: L’uso della fotografia e la rappresentazione visiva del conflitto da parte delle agenzie di stampa internazionali. In Bottoni 2008, pp. 145-166.
[1757] Bricchetto 2008; i primi esiti di quella ricerca erano stati presentati al Convegno SISSCO del 2003, nel panel coordinato da Elisabetta Bini, cfr. supra Nota 1307.
[1758] Mignemi 2005a, p. 73. Una efficace sintesi dei rapporti problematici tra storici e fonti fotografiche è stata offerta da Bini 2005.
[1759] Mignemi et al. 2005. Con una scelta quanto mai significativa e opportuna la mostra si tenne nella stessa sede (l’Arengario in piazza Duomo a Milano) in cui era stata allestita nel 1945 la Mostra della ricostruzione. I CLN al lavoro, curata da Emilio Sereni, realizzata in occasione del primo congresso dei CLN Alta Italia.
[1760] Tomassini 2013, p. 343.
[1761] Ivi, pp. 355-356.
[1762] Ambrosio et al. 2005, p. 5.
[1763] Per le avvertenze metodologiche si rimanda a Mignemi 1995b. La struttura editoriale di Mignemi 2005b riprendeva il modello di altre precedenti “Storie” (Mignemi 1995b; De Luna et al. 1997; Bassignana et al. 1998) mentre la documentazione iconografica era basata prevalentemente sulle fotografie realizzate da Vittorio Vialli e su quelle prodotte o acquisite da Ferruccio Ferretti e conservate rispettivamente presso l’Istituto per la storia e le memorie del ‘900 Parri Emilia-Romagna e all’INSMLI di Milano.
[1764] Gabriele Hammermann, [Recensione], online: http://www.sissco.it/recensione-annale/adolfo-mignemi-storia-fotografica-della-prigionia-dei-militari-italiani-in-germania-2005/ [01 07 2016].
[1765] Marco Pizzo, L’ occhio del nemico: fotografie austro-ungariche della Grande Guerra. In Talamo et al. 2008, p. 9 passim.
[1766] Ambrosi 2008; il progetto espositivo sviluppava quello realizzato già nel 1980 dal Circolo foto-cineamatori trentini e da quello che allora si chiamava Museo del Risorgimento e della Lotta per la Libertà.
[1767] Paolo Bertella Farnetti, citato nell’importante recensione al volume a firma di Monica di Barbora, che proprio in virtù dell’apprezzamento generale lamentava l’opportunità di “una maggiore cura editoriale nella pubblicazione, in modo da consentire ai fruitori del libro una percezione più ricca dei documenti”, sottolineando così uno dei non secondari problemi dell’edizione delle fonti fotografiche, cfr. http://www.officinadellastoria.info/magazine/index.php?option=com_content&view=article&id=363:recensione-paolo-bertella-farnetti-adolfo-mignemi-alessandro-triulzi-a-cura-di-limpero-nel-cas&catid=66&Itemid=92 [01 07 2016]. Una diversa, più aggiornata e fruttuosa soluzione editoriale venne invece offerta da Guerzoni 2014 , in cui le immagini della collezione fotografica di Gino Cigarini, già presentate dalla stessa autrice in Bertella Farneti et al. 2013, furono pubblicate su supporto CD-Rom allegato al volume.
[1768] Roberta Basano, La memoria visiva della Grande Guerra: la collezione fotografica del Museo Nazionale del Cinema. In Basano et al. 2015, pp. 23-27.
[1769] Tra le occasioni più significative di confronto vi furono: il convegno German Military Art Protection in Italy (1943–1945), (Monaco, Zentralinstitut für Kunstgeschichte, 6-8 maggio 2010), per il quale si rimanda a Franziska Scheuer, [Recensione], “H-Soz-u-Kult”, 2011, gennaio, (online: http://www.h-net.org/reviews/showrev.php?id=32301 [05 04 2016 ]), già in “Rundbrief Fotografie”, 17 (2010), n. 4, pp. 39-44; al convegno Musei e monumenti in guerra, 1939- 1945: Londra, Parigi, Roma, Berlino, (Città del Vaticano, Musei Vaticani, 15 novembre 2012 / Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 16 novembre 2012), i cui atti sono stati raccolti in Teresa Calvano, Micol Forti, a cura di, Musei e Monumenti in Guerra 1939- 1945: Londra Parigi Roma Berlino. Città del Vaticano: Edizioni Musei Vaticani, 2014. Considerando la messe di studi pubblicati in Italia negli ultimi decenni risulta difficile condividere quanto scritto nella presentazione di Costa et al. 2014 che “la photographie historique dédiée au patrimoine lors du conflit est aujourd’hui une source privilégiée, mais encore peu connue, pour l’analyse du débat sur la conservation et la protection”; problematico ne era semmai l’uso storiografico fatto dai curatori, essendo la fotografia considerata e utilizzata in modo acritico, quando non meramente illustrativo.
[1770] Fondata da Alessandro Mendini nel fatale 1977, dopo aver lasciato la direzione di “Casabella”, la rivista rappresentava, specie nei primi anni, ancora con le successive direzioni di Franco Raggi e di Andrea Branzi, il portavoce più autorevole del radical design italiano, espressione tra le più mature sulla scena del postmoderno architettonico internazionale. In quella sede una serie di fotografie di protezioni antibelliche era stata presentata da Paolo Thea, Monumenti vestiti da difesa, “Modo”, 5 (1981), n. 38, pp. 27-31. Va qui ricordato però che il tema aveva da tempo interessato la storiografia architettonica, a partire da Gustavo Giovannoni e Carlo Ceschi.
[1771] Un’eccezione in tal senso fu la mostra incentrata sulle fotografie delle opere conservate alla Gipsoteca di Possagno realizzate da Stefano e Siro Serafin dopo il cannoneggiamento del 1917 (Guderzo et al. 2015).
[1772] I gravi limiti di questa miopia critica vennero rilevati anche a proposito dei saggi raccolti in De Stefani et al. 2011, nei quali era “facile notare come (…) le fotografie siano considerate in modo diretto, immediato, neanche riproducano la realtà in modo neutro, asettico o possano riassumersi in quanto catturato dall’obiettivo. Spia fedele di tale situazione sono le didascalie, che quasi univocamente forniscono notizie solo sul soggetto rappresentato. Ma in tal modo si dimentica – al pari di quanto già rilevato nella stampa di riproduzione o di traduzione – come ogni foto, non importa cosa rappresenti, vada intesa come un’interpretazione della realtà, risultato di una serie di scelte, di intenzionalità soggettive talora estremamente complesse, che la collocano a pieno titolo nella storia dell’arte, dell’estetica, del gusto e della tecnica contemporanei.”, Paolo Coen, In margine a un recente volume sui danni di guerra. Un contributo alla moderna “questione della storia dell’arte”, “Predella” , 13 (2013), n. 32, online http://www.predella.it/index.php/component/content/article.html?id=70:32-28-in-margine-a-un-recente-volume-sui-danni-di-guerra-un-contributo-alla-moderna-questione-della-storia-dell-arte&catid=2:non-categorizzato [06 04 2016].
[1773] Fantozzi Micali 2002, con immagini provenienti dall’Opificio delle Pietre Dure, organizzate per Comune, ciascuna corredata dalla descrizione delle vicende dell’edificio raffigurato; Tamassia 2007, con fotografie scattate dal personale del Gabinetto Fotografico della Soprintendenza Speciale del Polo Museale Fiorentino, quindi, per quanto riguarda gli anni immediatamente precedenti, Fortino et al. 2011.
[1774] Rossini 2003; Callegari et al. 2005b, che conteneva una ricca sezione fotografica sul tema Arte in guerra, pp. 265-301, in cui, per ragioni non immediatamente comprensibili, negli apparati testuali (didascalie alle immagini e “didascalie ragionate”) mancava ogni riferimento alla data di esecuzione del fototipo, secondo un infelice modello adottato anche per “Acta Photographica”, la “Rivista di fotografia, culture e territorio” diretta dalla Callegari tra il 2004 e il 2009 per l’ICCD, che si è sempre segnalata per un trattamento rigidamente trasparente delle fonti fotografiche, delle quali non di rado venivano omessi i fondamentali dati identificativi in assoluto privilegio del referente. Una concezione acritica della “documentazione fotografica [che] ci restituisce il volto della guerra”, Paola Callegari, La tutela del patrimonio artistico nei territori veneti durante la prima guerra mondiale, attraverso le immagini della Fototeca Nazionale. In Giudici et al. 2010, pp. 51-59 (p. 58). Ancora su Venezia si vedano Spiazzi et al. 2008; Franchi 2010.
[1775] Si vedano rispettivamente Franchi 2006, Torchio 2005 e Ghibaudi 2009, dal cui comunicato editoriale apprendiamo che sulla base del “corredo visivo” relativo ai conflitti si poteva avanzare una improbabile distinzione critica tra “le foto riguardanti il primo conflitto mondiale, perlopiù piccole e di non grande valore estetico [che] sono di tipo documentario” e quelle “drammatiche (…) che testimoniano i danni alle opere d’arte nel secondo conflitto mondiale.” Ancora su Milano si veda Auletta Marrucci et al. 2004.
[1776] De Stefani et al. 2011.
[1777] Alessandra Giovenco, La British School at Rome e l’archivio di John Bryan Ward-Perkins sui danni bellici in Italia. In De Stefani et al. 2011, pp. 200-203; questo archivio è stato successivamente studiato anche da Margherita Fratarcangeli, Isabella Salvagni, La storia interrotta: i Castelli Romani e Prenestini attraverso l’occhio a- retorico di John Bryan Ward-Perkins (1944- 1945). In Biscioni et al. 2013, pp. 287-300; Alessandra Ciangherotti, La collezione fotografica War Damage (1940- 1945). In De Stefani et al. 2011, pp. 204-210.
[1778] Biscioni et al. 2013.
[1779] Marta Nezzo, La guerra dell’arte: testi, fotografie, immaginario funzionale (1914- 1950). In Biscioni et al. 2013, pp. 241-252.
[1780] Michela Morgante, War’s toll, i monumenti italiani in USA (1946- 47). Una strategia per immagini. In Biscioni et al. 2013, pp. 223-240.
[1781] Bigazzi 1996.
[1782] Stefano Musso, Sguardi sul lavoro. In De Luna et al. 2006, pp. 300-357, che dimostrava anche una insufficiente conoscenza della materia (è il caso di dire) di cui trattava: mi riferisco alla categorica affermazione relativa al fatto che “per lunghi decenni dopo l’Unità i dagherrotipi riprendono piuttosto tipi di lavoratori che rispondono al gusto della descrizione folclorica” (p. 301, corsivo di chi scrive). Più avvertito il contributo di Eugenio Alberti Schatz, Fabbrica: uno sguardo difficile. In Lucas 2004, pp. 477-494, che considerava le narrazioni contemporanee del lavoro, non immemore della “storia della mitologia visiva della fabbrica”, le cui rappresentazioni congelano “le contraddizioni del capitalismo, anche nella versione socialista. (…) Nulla di strano perciò che la fabbrica sia stata celata alla vista e mostrata solo a certe condizioni. Senza una mediazione, lo sguardo nudo puntato nel baratro avrebbe dato un senso di vertigine.” (478) Sebbene poi lo sguardo non potesse mai essere “nudo”, specialmente quello tecnologico, come aveva ben compreso già Bertold Brecht ricordato da Benjamin: “meno che mai una semplice restituzione della realtà dice qualcosa sopra la realtà. Una fotografia delle officine Krupp o AEG non dice quasi nulla in merito a queste istituzioni. La realtà vera è scivolata in quella funzionale. La reificazione delle relazioni umane, e quindi per esempio la fabbrica, non rimanda più indietro alle relazioni stesse.”, cfr. Benjamin 1966 [1931], pp. 75-76.
[1783] Stefano Musso, Storia del lavoro in Italia: dall’Unità a oggi. Venezia: Marsilio, 2002 (nuova ediz. 2011).
[1784] Richiamo a titolo di esempio: Paola Corti, L’emigrazione, “Storia fotografica della società italiana” (Corti P. 1999); Anna Bravo, Il fotoromanzo. Bologna: Il Mulino, 2003; Patrizia Audenino et al., a cura di, Milano e l’esposizione internazionale del 1906: la rappresentazione della modernità. Milano: Franco Angeli, 2008.
[1785] Monica di Barbora, Fotografia e storia di genere. In Faeta et al. 2013, pp. 325-330 (327). Un certa adesione alle questioni metodologiche individuate da Di Barbora, in particolare quelle poste dalle diverse convenzioni rappresentative, e quindi dalla definizione di un genere e delle sue varianti era presente in un progetto espositivo dedicato al ritratto femminile (Dall’Olio et al. 2005a) nel quale ci si interrogava, tra le altre cose, sulla difficoltà di comprendere in quale misura le donne “fossero protagoniste partecipi o inconsapevoli di una messa in scena fotografica”, mentre altre iniziative coeve risultavano più convenzionali: si veda il primo numero della collana “Album” prodotto da una istituzione qualificata come l’Archivio Fotografico Storico di Trento (Groff 2005), in cui vennero pubblicate immagini di lavoro al femminile dovute ai maggiori fotografi trentini ma con un’attenzione prevalentemente referenziale e con l’intenzione di produrre una “mostra pervasa da quel lirismo artistico di grande carica emotiva che emana dalle fotografie del passato”. Si vedano anche Tomassini 2005a, Sega 2015 e il più recente Luigi Tomassini, La documentazione fotografica del lavoro delle donne e dei fanciulli all’inizi de XX secolo. In Paolo Passaniti, a cura di, Lavoro e cittadinanza femminile: Anna Kuliscioff e la prima legge sul lavoro delle donne. Milano: Franco Angeli, 2016, pp. 310-349.
[1786] Bellavitis et al. 1990, che avrebbe potuto essere utilmente confrontato con gli interventi contenuti in Cavanna 1999b.
[1787] Pier Lugi Bassignana, Un tema dalle mille suggestioni. In Bassignana 2010, pp. 9-14.
[1788] Tomassini 2006; Id. 2009d.
[1789] Luigi Tomassini, Lavoro e sicurezza nelle fotografie degli Archivi Alinari. In Carnevale et al. 2007, pp. 13-21.
[1790] Biddau 2005; Id. 2007a; Id. 2007b.
[1791] Enzo Minervini, [Recensione], “Culture e impresa” Rivista on-line, n. 7, (2009), gennaio, (www.cultureimpresa.it / 07-2009 italian/ pdf/ rec01.pdf [26 06 2017]]), nel corso della quale richiamava piuttosto ingenerosamente quale “unico precedente comparabile” Colombo 1988.
[1792] Buscarino et al. 2006. Di recente realizzazione segnaliamo il progetto e la mostra Ri-creazioni: Immagini d’energia tra memoria e futuro (Torino, CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, 15 settembre – 16 ottobre 2016) con cui Mario Cresci ha riletto e reinventato materiali dell’Archivio Fotografico Eni.
[1793] Zane 2008. Sostanzialmente differente negli intenti e nella realizzazione l’atlante fotografico ricavato dall’archivio della Breda Meccanica Bresciana relativo alla produzione armiera militare e pubblicato dalla Fondazione Negri (Curami et al. 2008).
[1794] Bertaglia et al. 2010, che in modo alquanto fuorviante dichiarava nel titolo “Fotografie dell’industrializzazione in Friuli, 1901-1960”, sebbene le immagini si riferissero prevalentemente al capoluogo e agli immediati dintorni.
[1795] Napolioni et al. 2005. Il titolo è parte di una ricca produzione bibliografia ed espositiva connessa all’operato e all’archivio del fotografo, oggi suddiviso tra le biblioteche Mozzi- Borgetti e Statale di Macerata e gli eredi, che nel 2009 hanno dato vita al Centro studi “Carlo Balelli” per la storia della Fotografia anche al fine di valorizzare il ricco patrimonio storico-fotografico delle Marche.
[1796] Dal Prà 2006, con fotografie dell’Archivio Fotografico Storico della Provincia autonoma di Trento e di quelli del Museo di Riva del Garda e della Camera di Commercio di Trento.
[1797] Ansaldo 1980; Dewerpe 1987;Borzani 1989; Id. 1990.
[1798] Dal Comunicato stampa consultabile all’indirizzo http://www.ansaldo-sts.com/it/arc/press/scatti-industria-160-anni-immagini-fototeca-ansaldo [21 11 2016].
[1799] Jakob et al. 1997, in parte documentati anche in Leonelli 1997, con immagini provenienti in quel caso dall’Archivio dell’Azienda Elettrica Municipale di Milano che a sua volta conserva circa 3.000 lastre e stampe di Paoletti, ricordate anche da Giovanna Ginex, Lo ‘Studio Paoletti’ a Milano. In Jakob et al. 1997, pp. 139-140. Quegli studi sollecitarono l’interesse per l’attività complessiva di Paoletti anche in quanto fotografo di architettura, sia con Luca Beltrami al Castello Sforzesco di Milano (Brigo 2004a) che con Piero Portaluppi, il cui lavoro venne presentato alla Triennale del 2003 anche attraverso le sue immagini.
[1800] Valtorta 2012.
[1801] Quella questione, che è inevitabilmente definitoria, sarebbe stata affrontata anche da Desole 2014, per il quale “la fotografia industriale non è tanto un soggetto, una tecnica, uno stile, quanto piuttosto un rapporto, la sottile mediazione tra esigenze propagandistiche, divulgative e comunicative di un’azienda e il gusto, la cultura visiva, lo stile di un fotografo.” (13-14).
[1802] Quintavalle et al. 1980, Bondoni 1981, Mazza et al. 1988, Guerra 2005.
[1803] Menzani et al. 2014. La porzione di archivio Villani di proprietà della Fratelli Alinari comprende circa 550.000 fototipi oltre agli apparecchi fotografici e ai documenti relativi alla sua storia aziendale.
[1804] Una parte di quelle immagini, in particolare quelle di tipo più etnografico, venne utilizzata per la realizzazione di una piccola monografica presentata alla Sezione culturale del SICOF del 1971.
[1805] Vachino et al. 2003.
[1806] Il volume conteneva anche una serie di saggi monografici che si affiancavano a quelli già pubblicati sul “Bollettino” del Centro; di particolare interesse risultava quello di Spera dedicato alla tipologia assai particolare e poco studiata degli ex voto fotografici, particolarmente rilevanti in un territorio ricco di santuari, di cui chiariva l’interesse demo-antropologico considerandone anche le componenti specificamente fotografiche e i loro significati: Vincenzo M. Spera, Ex voto fotografici in area biellese. In Vachino et al. 2003, pp. 163-194, che ricostruiva anche il definirsi in Italia dell’attenzione per questi manufatti. Dello stesso autore si vedano anche Materiali per uno studio dell’ex voto fotografico in Italia meridionale, “Lingua e storia di Puglia”, 18 (1982), pp. 73-111; Id., La presenza delle “figure”: ex voto contemporanei e fotografia in Italia meridionale. In Anna Maria Tripputi, a cura di, P.G.R. – Per grazia ricevuta, Bari: Paolo Malagrinò, 2002, pp. 210-244; Id., Ex voto: tra figura e parola: il potere del racconto esemplare. Perugia: Gramma, 2010.
[1807] Vachino 2014. La Fondazione CRB si è recentemente posta tra gli attori principali delle iniziative di tutela del patrimonio fotografico locale, acquisendo a partire dal 2004 numerosi archivi di fotografi biellesi (Vittorio Besso, Franco Bogge, Gianfranco Terreo ed altri) per un totale complessivo, alla data attuale, di circa 100.000 fototipi, dei quali è in corso la digitalizzazione. Sebbene sussistano esempi molto precoci, come l’acquisizione parziale del Fondo Poppi da parte della Cassa di Risparmio di Bologna, nel 1940, va almeno segnalato nei decenni a cavallo tra XX e XXI secolo l’accresciuto peso delle fondazioni bancarie nei processi di acquisizione, tutela e valorizzazione dei patrimoni fotografici locali. Un fenomeno che andrebbe specificamente studiato in termini di investimenti economici e di politica culturale, ma che qui è possibile solo richiamare anche attraverso un’ulteriore esemplificazione, quella costituita dalla pubblicazione dei tre volumi dedicati al Fondo Balelli della Biblioteca Nazionale di Macerata (Napolioni 1998-1999) dopo l’acquisizione del fondo avvenuta nel 1993 con stanziamenti del Ministero per i Beni Culturali; sull’attività dello Studio si vedano anche Napolioni et al. 2005). Balelli et al. 2013; Di Monte 2014.
[1808] Cavanna 2004; DocBi et al. 2004; Cavanna 2006; Id. 2007a.
[1809] Cece et al. 2010. Originate in un ambito più propriamente storico artistico furono invece le ricerche condotte sulla storia della fotografia ad Assisi da Marco Mozzo nel 2006.
[1810] Eugeni et al. 1999; Id. 2000; Eugeni 2001; Anelli et al. 2002; Eugeni 2002; Eugeni et al. 2002; Eugeni 2003; Eugeni et al. 2003a e b; Eugeni et al. 2004; Anelli et al. 2005; Eugeni 2008.
[1811] Si veda Fausto Eugeni, a cura di, Elenco dei fotografi abruzzesi, online: http://www.delfico.it/ Testi%20 censimento_fotografi.htm [19 07 2016]; un repertorio importante anche se presenta notevoli disomogeneità dovute non tanto all’accuratezza del compilatore quanto della scarsità di studi e di altre fonti secondarie disponibili. Sull’attività fotografica a Teramo in generale si rimanda a Di Croce 2007, mentre l’attività di Gabriele Marramà, medico e funzionario delle Poste considerato uno dei primi fotografi teramani è stata presentata da Eugeni et. al 2000; Damiani et. al 2005.
[1812] Fausto Eugeni, Note in margine alla collezione di fotografie di Teresio Cocco. In Cocco et al. 2005, online: http://www.delfico.it/Testi%20Eugeni%202004_01.htm [31 01 2017]. Ricordiamo che una prima occasione di pubblicazione di alcune di quelle fotografie fu Cocco et al. 1999. Altra indicazione metodologica che meriterebbe miglior fortuna nei tanti progetti di ricerca ed editoriali di iconografia urbana e territoriale è il richiamo qui contenuto alla “necessità di condurre una accurata ricerca bibliografica che (…) dia conto, in modo diretto, di tutte quelle immagini comunque pubblicate all’interno dell’editoria di interesse locale.” Dalle ricerche effettuate da Eugeni risultava che “la più antica pubblicazione ‘con fotografie’ ” di argomento abruzzese fosse il fascicolo del piemontese Paolo Ballada di Saint Robert, tra i fondatori del CAI, Gita al Gran Sasso d’Italia: luglio 1871. Torino: Vincenzo Bona, 1871, illustrato da tre stampe all’albumina di Alberto Maso Gilli.
[1813] Magnani 2004; Fanelli 2005b ; Tomassini 2004c; Tamassia 2009.
[1814] Fanelli 2005b, p. 11. Un lavoro che si caratterizzava per la chiarezza con cui erano definiti gli elementi attraverso i quali si definiscono le caratteristiche di un’immagine fotografica, dalla ripresa alla stampa, e per le pagine di sintesi delle notizie storiche relative ai fotografi in Toscana (25-31).
[1815] Romito 2005; Apicella 2012, per il quale si vedano le osservazioni critiche avanzate da Giovanni Fanelli, http://www.historyphotography.org/apicella_29.html [04 09 2018]. L’iconografia fotografica di quei luoghi era già stata in parte presentata da Proto 1992 (nuova ediz. 2007).
[1816] Troisi 2008; Lacagnina 2010; Id. 2014.
[1817] Lacagnina 2014, p. 73.
[1818] Di differente opinione era Marina Miraglia (2005), per altro non citata in questo testo pur molto informato, che dava una diversa interpretazione dei ‘debiti’ e delle derivazioni parlando piuttosto di “comuni indirizzi rappresentativi” (77).
[1819] Penso ad esempio a quella che veniva definita come ripresa “assai più evidente e palmare” ( Lacagnina 2014, p. 80) da parte del fotografo e calcografo veronese Luigi Cavadini (La pêche, 1912) del quadro Dopo il tramonto di Lojacono, 1880; quasi che bastasse a giustificarla – oltre le analogie tematiche – il fatto che il dipinto fosse entrato immediatamente in una collezione torinese, la città in cui un quarto di secolo dopo si sarebbe pubblicata “La Fotografia Artistica” che ospitò sulle proprie pagine quella fotografia.
[1820] Manodori Sagredo 2009b, p. 7.
[1821] Nella più parte dei casi tali studi adottavano il punto di vista privilegiato del doppio confronto tra iconografia pittorica e fotografica; si vedano Paoli 2005b; Pini 2011 per la Lombardia; Boragina et al. 2012 per la Liguria.
[1822] Su Alois Beer si vedano anche Giusa 2007a, Id. 2007b.
[1823] Donazzolo Cristante et al. 2006b, che sviluppava il progetto avviato nel 2002 con la mostra omonima, tenutasi a Udine, ad opera degli stessi curatori (Donazzolo Cristante et al. 2002). Negli anni immediatamente precedenti erano stati pubblicati due CD-ROM contenenti un migliaio di fotografie relative alla città (Donazzolo Cristante et al. 2000).
[1824] Bajamonte et al. 2007; l’album, conservato presso il Civico Archivio Fotografico di Milano, venne esposto in occasione della mostra dedicata alla collezione di Lamberto Vitali, cfr. M.G. [Marina Gnocchi]. Eugéne Sevaistre. In Paoli 2004, pp. 164-165.
[1825] Bajamonte et al. 2006; alla Sicile au stéréoscope dei fratelli Gaudin ha invece destinato uno studio recente Emanuele Bennici (2015d), offrendo una serie di notazioni filologiche orientate all’attribuzione delle fotografie.
[1826] Legando la produzione di quella serie all’imponente fenomeno migratorio dall’Italia La Cecla sosteneva che “la curiosità (…) è una molla dell’integrazione se si trasforma in voglia di far visita all’alterità dello straniero, che ora è qui, si è trasferito qui da casa sua” (Franco La Cecla, Correva l’anno 1908. In La Cecla 2008, pp. 11-27, p. 15), ciò che pare un condivisibile auspicio più che un fenomeno storicamente verificabile.
[1827] Miraglia 2008. Il successivo periodo è stato trattato in La fotografia in Sardegna: lo sguardo esterno, 1960- 1980; testi di Marina Miraglia, Giacomo Daniele Fragapane, Francesco Faeta, Maria Luisa Di Felice. Nuoro: Ilisso, 2010.
[1828] Ricordiamo tra i principali Piloni 1963; Falzone del Barbarò, 1980; Miraglia 1980; Maccioni 1982; Gentile 1994; Clemente et al. 1996; Saiu Pinna 1999; Olivo 2000; Zannier 2003h; Cicalò 2007; Giraldi 2007; Id. 2008.
[1829] Marina Miraglia, Lo sguardo fotografico dell’Occidente, tra tradizione e modernità. In Miraglia 2008, pp. 7-28.
La ricchezza del contributo celava più occasioni di perplessità, su piani diversi. Mi riferisco ad esempio al mancato chiarimento relativo a “De La Marmora“, ovviamente da identificarsi come Alberto La Marmora, di cui sono noti i legami con Biella e con la famiglia Sella. Per quanto riguardava invece gli aspetti tecnici della fotografia segnalo la confusione a proposito di “formato del sistema stereometrico” (13), per stereoscopico e quella tra formato del fototipo e apertura angolare dell’ottica utilizzata (18); francamente forzata pareva poi l’interpretazione di un limite tecnologico nel lavoro di Delessert: per Miraglia infatti “nella veduta la mancanza della figura umana indica apertamente come le vie e le piazze rinviino unicamente al loro valore simbolico” (8), non tenendo conto degli esiti dei lunghi tempi di posa richiesti dalle emulsioni né delle stesse categorizzazioni teorizzate ampiamente dalla studiosa, tali per cui immagini con quelle caratteristiche avrebbero dovuto semmai essere considerate dei “paesaggi”.
[1830] Il riferimento era alla “ben diversa modernità” che si sarebbe manifestata in Vittorio Besso rispetto a Delessert, senza considerare però né lo scarto temporale più che trentennale né il ruolo della committenza, che semmai avrebbe potuto determinare una qualche “continuità ininterrotta” con le più tarde riprese dei fratelli Sella, certo non semplici osservatori esterni ma tra gli artefici della modernizzazione dell’agricoltura dell’isola. Dati gli assunti, un altro problema ancora avrebbe necessitato una più chiara esplicitazione, poiché se lo sguardo esterno, ‘orientalizzante’, era uno sguardo egemonico e dominante, allora doveva necessariamente essere considerata la sua connotazione di classe, riscontrandola nella produzione della borghesia colta isolana.
Più circostanziata l’interpretazione nello stesso volume offerta da Faeta (2008) che sembrava riconoscere una discrasia se non proprio un contrasto netto tra l’allocronia (ovvero l’orientalismo) delle immagini letterarie e la sincronia della modernità celebrata o registrata dalle fotografie (e in parte dalla fotografia).
[1831] Mauri, lombardo d’origine, fu l’autore delle fotografie utilizzate per illustrare in xilografia le tavole locali dell’opera di Gaston Vuillier Les îles oubliées: Les Baléares, la Corse et la Sardaigne. Paris: Hachette, 1893, costituendo così un caso esemplare in cui uno sguardo ‘esterno’ si nutriva di uno sguardo ‘interno’ portato da un esterno arrivato nell’isola a circa quarant’anni di età. Ancora più complesso il caso di Luigi Pellerano, cagliaritano di nascita ma con una carriera militare e professionale che lo condusse dapprima, e per lungo tempo a Torino e poi in Libia. Un autore importante, specie per il suo pionieristico uso delle autocromie Lumiére, pubblicate anche sul “National Geographic”, che sarebbe difficile considerare “interno” semplicemente in virtù della nascita ma del quale non vi è traccia nel volume curato da Miraglia. Neppure nel caso di August Sander si faceva alcun riferimento alle sue riprese a colori, che certo avrebbero costituito un importante elemento di confronto espressivo con le riprese in bianco e nero; su alcuni di questi aspetti dimenticati si vedano ora Conrath-Scholl et al. 2009; Aromando 2014.
[1832] Anche nello studio delle fotografie di famiglia, considerate in particolare nella strutturazione narrativa della forma album, la “rigida fissità della coppia interno/ esterno” risultava inadeguata a restituire la “dimensione storiografica molto più complessa e accidentata” espressa dal fenomeno, come notava Giovanni De Luna introducendo il terzo volume dell’opera einaudiana intitolata a “La fotografia e la storia”[1832]; occasione in cui sintetizzava efficacemente anche le cautele metodologiche necessarie per affrontare le variegate manifestazioni di questo particolare universo documentario. “Tutte le foto di famiglia – scriveva De Luna – da chiunque scattate, avrebbero dovuto restituirci l’universo particolaristico e individualistico del ‘familismo’; e invece ci scaraventano direttamente nella rappresentazione di universi massificati, di grandi aggregati sociali, di una stratificazione per classi che – almeno su questo terreno – regge con sufficiente chiarezza ancora oggi.”, G.D. L. [Giovanni De Luna], Introduzione. In De Luna et al. 2005/2006, III, pp. XXXIII-XXXVII (XXXIII).
[1833] Faeta 2008.
[1834] Il riferimento era al concetto di “allocronia” formulato da Johannes Fabian, Time and the Other: How Anthropology Makes Its Object. New York: Columbia University Press 1983 (tr.it. di L. Rodeghiero, Il tempo e gli altri: la politica del tempo in antropologia. Napoli: L’Ancora del Mediterraneo, 2000).
[1835] Si veda Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: G. Amosso, 1890. Sulla realizzazione di quel volume cfr. Cavanna 1995a; Id. 1999c.
[1836] Questo fenomeno piuttosto diffuso e variegato, ben presente anche in area meridionale, è stato segnalato anche da Faeta 1986 e presenze analoghe sono state riscontrate anche in Sicilia (cfr. Perricone 2006, p. 169), ma crediamo che il fenomeno attenda ancora di essere approfonditamente studiato a scala nazionale.
[1837] Colliard 2012, p. 46.
[1838] Brocchetto 2006, che derivava dalla tesi di laurea discussa con Antonio Giusa.
[1839] Il progetto, dal 2014 sostenuto congiuntamente dalla locale Comunità Montana e dall’Istituto Regionale per il Patrimonio Culturale, intende favorire l’incremento della Fototeca Territoriale della Carnia. Ricordiamo che gli album di famiglia e gli archivi familiari costituivano il tema del terzo volume dell’opera einaudiana dedicata a L’Italia del Novecento: Le fotografie e la storia (De Luna et al. 2005/2006), alla quale si rimanda per l’illustrazione di altri casi di studio.
[1840] Francesco Padovani, La fotografia come fonte di Storia e di storie. L’esperienza dell’Archivio Fotostorico Feltrino applicata all’emigrazione. In Atti della giornata di studi Les Migrations en photo (Dudelange, Centre de Documentation sur les Migrations humaines CDMH, 9 maggio 2009); online https://www.cdmh.lu/?com=0I14I0I0I [04 09 2018]. Sul sito fotostorica.feltrino.bl.it [04 09 2018] sono disponibili le schede relative alle varie raccolte, con una campionatura di immagini, ma senza adottare criteri standardizzati di descrizione e senza la possibilità di condurre ricerche.
[1841] Mazzacane 2006, p. 226; ricordiamo che la ricerca sugli studi fotografici in area meridionale era stata avviata già nel 1975 dalla struttura di Ricerca e Produzione audiovisiva Nuovo Politecnico, fondata dallo stesso Mazzacane. Altri progetti analoghi sono stati condotti – tra gli altri – presso il Dipartimento di sociologia e scienza della politica dell’Università di Salerno e ancora da Baldi, Mazzacane e Stefania Sàpora sull’attività di fotografi locali e ambulanti, realizzato per incarico del dipartimento Cultura della Regione Basilicata. Spiace constatare che ad oggi non risultino disponibili né online né, almeno, come occorrenza dell’OPAC SBN, i prodotti multimediali che di quelle ricerche furono l’esito, indicati in Mazzacane 2006, p. 250, nota 12, né risulta esistere il portale del CRA (oggi Centro interdipartimentale Audiovisuale per lo Studio della Cultura Popolare), annunciato “in allestimento” in quella stessa sede.
[1842] Mazzacane 2006, p. 224. Nell’illustrare le metodologie adottate l’autore esplicitava le ragioni che lo avevano portato a escludere programmaticamente la possibilità di “pervenire a un censimento totale degli studi esistenti”, ciò che avrebbe connotato una ricerca propriamente storico fotografica, ritenendo sufficiente per i propri scopi “conoscere un numero di studi limitato che indichi linee e modelli culturali con sufficiente chiarezza.” (229) Tra le indicazioni operative adottate per quella ricognizione vi era anche la suddivisione per quartieri delle sedi in cui operarono i circa centocinquanta studi individuati, intesi quali “indicatori validi per orientarsi sul tipo di clientela che vi si recava” (233), ma gli esiti non furono affatto “rilevanti”, anzi, se tutto ciò che se ne poteva ricavare era “la loro maggiore concentrazione nei quartieri Chiaia e San Ferdinando, dove prevaleva un’utenza medio borghese.” (233) La “topografia della rete commerciale” era già stata precisamente studiata da Daniela del Pesco (1981, p. 68).
Per comprendere meglio il quadro storico e le dinamiche culturali di quei progetti si veda Lello Mazzacane, Studi e generi fotografici. Linee orientative per la consultazione degli Archivi multimediali del CRA dell’Università Federico II di Napoli. In Sorbo 2007, pp. 56-64; il progetto relativo alla Basilicata (Mirizzi 2010), destinato a indagare storicamente le dinamiche che hanno portato anche per mezzo della fotografia a definire nel tempo l’immagine di quella regione tra sguardi esterni e sguardi interni, tra politica postunitaria, etnofotografia e retoriche umaniste e ‘neorealiste’ e ancora due titoli di interesse più strettamente storico critico: il catalogo della mostra di fotografie relative all’area napoletana e alla Sicilia provenienti dalla collezione Siegert (Rott et al. 2011), e un intervento di Giovanni Fanelli (2011) che riprendeva il tema delle stampe combinate di Rive e Sommer relative a vedute di Sorrento da Capodimonte, già affrontato nella monografia dedicata al fotografo prussiano (Fanelli 2010b, pp. 13-25).
[1843] Si vedano a questo proposito le note riflessioni di Margaret Mead, Visual anthropology in a discipline of words, presentate al Ninth International Congress of Anthropological and Ethnological Sciences di Chicago (settembre 1973), poi pubblicate in Paul Hockings, ed., Principles of Visual Anthropology. Chicago: Moutonn, 1975 e successivamente anche in Italia: L’antropologia visiva in una disciplina di parole – Conclusioni sull’antropologia visiva. In Antropologia Visiva: la fotografia, “La Ricerca Folklorica”, 2 (1980), monografico, pp. 95-98.
[1844] Faeta 2014; Id. 2015. IL concetto di “thick description” (descrizione densa), formulato da Gilbert Ryle, The Thinking of Thoughts: What is ‘Le Penseur’ Doing?, “University Lectures” 18. Saskatoon: University of Saskatchewan, 1968 è stato poi rielaborato in ambito antropologico da Clifford Geertz, Thick Description: Toward an Interpretive Theory of Culture. In Id., The Interpretation of Cultures: Selected Essays. New York: Basic Books, 1973, pp. 3-30 (trad. italiana, Interpretazione di culture. Bologna: Il Mulino, 1998).
[1845] Si riporta di seguito la distribuzione quantitativa degli studi, da intendersi però piuttosto come indizio che come ‘prova’, e ciò non solo per l’impossibilità di considerare esaustiva la ricognizione bibliografica ma anche (e forse soprattutto) stante la difficoltà metodologica di distinguere, in molti casi, tra studi generalisti di carattere locale e monografie tematiche o autoriali relative agli stessi luoghi. Si considerino non solo la riproposizione di storie di un luogo realizzate attingendo all’archivio di un solo fotografo ma anche, ad esempio, le molte ricerche relative alla documentazione dei danni di guerra, per la cui presentazione si rimanda alle pp. 367-369. Schematicamente stabiliti i limiti, i dati quantitativi risultanti sono i seguenti: Lombardia 20; Veneto 19; Emilia Romagna e Roma 13; Toscana 12; Sicilia 6; Liguria e Campania 5; Abruzzo 4; Piemonte, Friuli, Umbria, Marche 3; Calabria 3 (terremoto di Reggio e Messina); Basilicata 2; Trentino, Molise, Puglia 1; Sardegna 0.
[1846] In alcuni casi quelle produzioni erano frutto di una specifica politica editoriale, come i volumi pubblicati dalle edizioni Intra moenia relativi a Napoli (1998-2007), Milano (Salwa et al. 2010) e Roma (Salwa et al. 2011) o la collana “Omaggio a” città diverse della Fratelli Alinari in cui nel periodo 2004-2009 vennero pubblicati titoli relativi a Genova, Milano, Firenze, Roma, Napoli e Lecce.
[1847] Si veda ora Elisabetta Papone, Sergio Rebora, a cura di, Vivere d’immagini: fotografi e fotografia a Genova 1839-1926. Milano: Scalpendi, 2016.
[1848] Circa 120 sono i titoli che restituisce la ricerca in OPAC SBN incrociando i soggetti Roma e fotografia per il periodo 2004-2015, ma pochissimi di questi riguardano la fotografia storica e ancor meno quelli che prevedono un approccio scientifico, privilegiando invece il fascino evocativo delle immagini e producendo a volte titoli sorprendenti come Roma Ottocento nelle fotografie dell’epoca (Mormorio 2011); un’imposizione editoriale certo, con evidenti scopi commerciali, poiché non possiamo credere che uno studioso così raffinato e arguto potesse mai concepire che fosse possibile mostrare una città nel XIX secolo con fotografie che non fossero “dell’epoca”.
[1849] Maria Sanzi di Mino, Presentazione. In Bruttomesso et al. 2005 p. 3. A contraddire ulteriormente l’assunto i contributi più specificamente fotografici (Alberto Manodori Sagredo, Venezia stereoscopica, ivi, pp. 10-16; Valeria Palombini, “Chiari di luna” a Venezia e Carlo Naya, ivi, pp. 17-22) rimandavano a collezioni private.
[1850] Paola Callegari, Il Gabinetto Fotografico Nazionale: storia di un’istituzione tra esigenze conservative e promozione del patrimonio culturale italiano. In Callegari et al. 2005b, pp. 55-68.
[1851] La descrizione degli elementi principali era riservata alle immagini riprodotte nel catalogo delle fotografie, qui anzi con pleonastica ripetizione tra didascalie al piede e “Didascalie ragionate”, ma con una eccessiva, e sospetta presenza di “Anonimi”, anche nel caso di fotografie notorie o addirittura firmate (es. III.3, Anonimo, ma Alinari). Il tema dell’iconografia fotografica di Venezia costituiva invece il contributo di uno storico dell’arte attento alle questioni fotografiche come Sergio Marinelli, La città delle immagini , ivi, pp. 95-104, che forniva un sintetico excursus a partire dalle invenzioni con camera ottica del Canaletto sino ai debiti fotografici di certa pittura di genere ottocentesca e alla produzione dei grandi studi di Naya e Ponti, dedicando poi uno spazio di riflessione alla documentazione prodotta dai Lotze, un tema che gli era caro da tempo, cfr. Brugnoli et al. 1984.
[1852] Si veda Cassini 2006 per Apricale o Forlì 2007, con fotografie provenienti dalla Biblioteca Comunale “Aurelio Saffi”, ma anche la mostra tratta dall’Archivio Fotografico dell’Eur (Manodori Sagredo 2008b), costituito da più di 16.000 immagini custodite negli archivi della Società EUR S.p.A.
[1853] Si vedano gli esempi relativi a Olgiate Molgora (Brusetti et al. 2006), Tarzo (Favero et al. 2009) e Carpi (Ori 2013).
[1854] Va qui aperto un piccolo spazio di riflessione a proposito del significato storico e sociale di questo patrimonio, delle condizioni e delle ragioni che ne hanno determinato la produzione e la conservazione non istituzionalizzata, richiamando il fatto che è proprio con l’avvento della fotografia che le culture antropologiche di intere classi sociali come di vaste aree geografiche marginali e emarginate hanno potuto lasciare traccia visiva di sé, per quanto diversamente mediata, con andamento analogo a quello che ha visto la progressiva estensione della pratica e del rito del ritratto fotografico a fasce sempre più ampie di popolazione. Crediamo che gli esiti di studio più interessanti e fecondi – come già accade in altri ambiti – non possano che derivare da una convergenza di metodi e strumenti in grado di coniugare metodologia storica e antropologico etnografica, come è accaduto ad esempio per le fotografie relative al centro lucano di Avigliano, studiate da un gruppo di lavoro coordinato da Alberto Baldi (2004).
[1855] Grhomann 2007, Mori 2011. L’archivio di questi fotografi è entrato a far parte del patrimonio della Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici dell’Umbria; si veda ora anche Marco Trinei, Fotografie e fotografi di Perugia 1850- 1915. Perugia: Futura Edizioni, 2016.
[1856] Massa 2005. Ad un altro centro del maceratese, Apiro, venne dedicata una mostra documentaria realizzata con le fotografie di Carlo Balelli (Di Monte 2014), provenienti in parte ancora dalla Biblioteca Mozzi-Borgetti.
[1857] Mutti 2008. Le caratteristiche e le motivazioni del progetto, realizzato dalla Fondazione Gruppo Credito Valtellinese in occasione del centenario della fondazione della Banca Popolare Santa Venera, fecero sì che il titolo della mostra avesse un accento diverso: 1908 Acireale ha la sua banca: Fotografie del Barone Domenico Scudero Papale, e forse da una malintesa intenzione di valorizzazione nacque la decisione di stampare “su carta a mano a tiratura limitata” questa serie di immagini acesi.
[1858] Quella ricerca sulla fortuna fotografica della città, derivata dalla sua tesi di laurea (Vetruzzini 2000) non solo non prese in considerazione i repertori maggiori quali Alinari o Brogi ma tralasciò ogni riferimento all’opera di Enrico van Lint, certo il fotografo pisano più importante del periodo, a cui aveva dedicato una monografia proprio il suo relatore (Fanelli 2004). L’articolo si segnalava anche per altre criticità quali la reiterazione delle presunta esistenza di una carta fotografica messa a punto da Robert Rive.
[1859] Callegari et al. 2006, una mostra con un allestimento di Christian Schwienbacher tanto accattivante quanto discutibile, al quale sembrava essere sotteso un concetto di fotografia come ‘finestra’ spaziale e temporale, non di documento da leggersi anche nella sua materialità.
[1860] Un’identica impostazione venne adottata anche per il successivo volume relativo all’intera regione (Mirisola 2010).
[1861] Il volume dava conto dell’importante fondo conservato da questa istituzione, formato da circa 28.000 fototipi relativi al patrimonio architettonico ed artistico ma anche alla storia ospedaliera e alla didattica clinica. Ancora a proposito di Milano citiamo la Fiera Campionaria o la Stazione Centrale studiate da Silvia Paoli (2004b; 2005c). Va considerata in questa categoria, come ulteriore variante, anche la riproposizione del rilevamento fotografico del Duomo di Como condotto a due mani nel 1910-1911 da Federico Frigerio e Riccardo Piatti (Dominioni 2004), un importante esempio di collaborazione tra architetto e fotografo.
[1862] Garric 2014, p. 160; si veda anche Jean-Philippe Garric, Photographes et architectes à Rome au XIXe siècle. In Architectes et photographes au XIXe siècle, atti della giornata di studi (Parigi, INHA – Institut national d’histoire de l’art, 23 ottobre 2012), Hélène Bocard, Jean-Philippe Garric, dirs.; online : http://inha.revues.org/7097 [19 07 2016].
[1863] “devenir un véritable objet d’études”, Garric 2014, p. 160.
[1864] Il tema era già stato affrontato in Lucchetti 1976, Lucchetti 1990. La sua collezione fotografica (fototipi e apparecchi fotografici), che costituì sempre il repertorio da cui attinse per le proprie ricerche, è stata acquisita nel 2006 dalla Fondazione Sestini di Bergamo, che alcuni anni dopo avrebbe contribuito al progetto Per un archivio storico della fotografia a Bergamo, avviato nel 2013 in collaborazione con la Fondazione Bergamo nella storia. Dopo la recente acquisizione (2014) dei fondi dello studio fotografico Pesenti di Ponte San Pietro, di Pier Achille ‘Tito’ Terz e di Nicola Burgarella il patrimonio attuale (2017) assomma a circa 700.000 fototipi.
[1865] Paoli 2004b; Id. 2004c; Id. 2005c; Id. 2006b.
[1866] Silvia Paoli, Per una storia della fotografia a Milano (1839/1899). Le ragioni di un progetto. In Paoli 2010, pp. 11-15.
[1867] ivi, p. 13. Quella attenzione si traduceva nel ricco apparato di “illustrazioni” e nelle relative schede catalografiche, che consideravano ove il caso anche le diverse edizioni o varianti di stampa di uno stesso negativo, corredate di accurate note di contenuto in cui erano precisamente indicati gli elementi referenziali che connotavano l’immagine.
[1868] Si vedano in particolare Bergamaschi 2007 e Martinenghi et al. 2009.
[1869] Cacciatori et al. 2009; il fotografo cremonese, certo la figura più importante del periodo tra le due guerre, era già stato oggetto della tesi di laurea di Bonazzoli 1991 e della successiva monografia di Ginex et al. 1992. Per la produzione di un altro studio cremonese attivo nel XX secolo, quello dei Faliva, si veda Faliva 2012.
[1870] Il progressivo estendersi e raffinarsi delle ricerche amplia costantemente le nostre conoscenze della produzione fotografica delle origini; ancora in riferimento all’area lombarda si veda il contributo di Giovanni Meda Riquier (2015) relativo ad un piccolo nucleo di dagherrotipi appartenuti al banchiere tedesco Enrico Mylius.
[1871] Giuliano Regis,Cremona e l’avvento della fotografia. In Bondioni et al. 2010, pp. 3-4 (4).
[1872] Il nesso forte, necessario, tra presenza istituzionale e avanzamento degli studi era confermato anche nel contesto friulano, che aveva visto la pubblicazione del catalogo del Museo Friulano della Fotografia curato da Cristina Donazzolo Cristante (2008), conservatrice e attenta studiosa della fotografia (Donazzolo Cristante 2004; Donazzolo Cristante et al. 2007), anche quale esito di un lungo processo di conservazione e riordino dei preziosi fondi conservati nella Fototeca dei Musei di Udine, mentre numerose altre iniziative – in primis di catalogazione e tutela – erano svolte dal Centro regionale di catalogazione e restauro dei beni culturali di Villa Manin a Passariano, ora confluito nell’ ERPAC.
[1873] Prandi 2006, poi ripreso in Prandi 2015.
[1874] Alberto Prandi, Presentazione. In Vanzella 2008; online http://smdaem.xoom.it/collaterale2008prandi.htm [28 01 2017].
[1875] Rientrano precisamente in questa categoria l’Omaggio a Venezia curato da Zannier nel 2005 o la pubblicazione della raccolta di Carlo Naya della Biblioteca Vallicelliana di Roma (Manodori Sagredo 2008c), un volume che trovava semmai il proprio punto di interesse nel contributo di Valeria Palombini, Processo per contraffazione di fotografie, a proposito della nota causa Naya vs Perini, Ponti e altri (1868-1882) in cui la discussione in merito al riconoscimento del diritto d’autore costituiva un’importante testimonianza della cultura fotografica dell’epoca; online http://marciana.venezia.sbn.it/_statici/naya/processo.html [28 01 2017].
[1876] Serena 2006b, p. 289; Id. 2006a.
[1877] Sara Filippin, Uno sguardo d’insieme sulle collezioni fotografiche veneziane. In Brunetta et al. 2014, pp. 305- 362.
[1878] Alberto Prandi, Venezia: le fotografie e le loro storie. In Brunetta et al. 2014, pp. 389-404.
[1879] Accanto alla sua attività di studioso va ricordata quella di docente universitario e il suo attivismo in quella sede quale relatore di tesi di storia della fotografia, tra le quali ricordiamo – per restare in ambito veneto – quella relativa alla campagna documentaria sulla realizzazione degli argini dell’Adige a Verona, poi tradotta in mostra (Lievore et al. 2007).
[1880] Il Fondo Filippi, costituito complessivamente da 7.760 negativi, 20.000 positivi, 3.800 cartoline, attrezzature di ripresa e di laboratorio, a cui si aggiungeva un ricco materiale documentario, è stato catalogato e digitalizzato ma oggi non risulta più accessibile online (www.tomasofilippi.it) [27 06 2017] Già in allegato al catalogo si trovava però un DVD con la riproduzione di tutti i negativi e di una ricca selezione di positivi.
[1881] Quintavalle 1981; Ruggeri 1981; Capizzi et al. 1986; Silingardi 1991; Battaglia et al. 1999; Battaglia 2001.
[1882] Si rimanda a Russo 2008; Battaglia 2001; Dall’Olio et al. 2005a; Id.. 2010; Battaglia et al. 2006; Dall’Olio 2011b.
[1883] http://www.parmaelasuastoria.it [04 09 2018]. Di taglio più divulgativo, ma significativo di un’attenzione di lunga data per il patrimonio fotografico, erano invece i fascicoli che “La Gazzetta di Parma” ha dedicato ad alcuni importanti operatori locali attivi nel XX secolo, per la cura di Romano Rosati (2011).
[1884] Una diversa versione del Dizionario, più cronologicamente estesa ma più sintetica nella messe di dati, è disponibile online all’indirizzo http://www.archiviostorico.comune.parma.it/archivio/standardpage.asp?ID=69&IdVoceMenu=21 [30 01 2017].
[1885] In una successiva occasione (Novara 2008) la studiosa ha approfondito il tema, precisando meglio gli inizi dell’attività di Luigi Ricci e le traversie del suo archivio fotografico, oggetto nel 2010 di un piano di conservazione. Sulla storia della fotografia ravennate si veda anche Cornazzani 2014.
[1886] Ciascuna delle centinai di schede (da Alinari a Zulfanelli) conteneva, oltre alla citazione delle fonti bibliografiche ed archivistiche, la trascrizione dei testi relativi al fotografo o allo studio intestatario traducendosi in una vera e propria monografia. I dati raccolti per la tesi di laurea (Ragazzini 1996) poi rivisti e integrati sono andati a costituire la Banca Dati Fotografi dell’Archivio Fotografico Toscano: http://censi.aft.it/fotografi/ [31 01 2017].
[1887] Tomassini 2004d, che introduceva anche la questione metodologica dell’utilizzo di fonti inedite per la nostra storiografia fotografica quali i testamenti, cfr. anche Pellegrino et al. 2003, Ragazzini 2004b. Per un altro interessante esempio di storiografia fotografica particolarmente attenta alle vicende societarie si veda Boldrini 2006, che ricostruiva l’attività di Raffaello Dringoli, uno dei primi produttori italiani di materiali sensibili.
[1888] Luoghi e volti 2011, con fotografie provenienti dall’Archivio Fotografico Lucchese, istituzione che si è andata progressivamente formando a partire dal 1979 quando il Comune di Lucca, con successive acquisizioni, è venuto in possesso del fondo del fotografo Ettore Cortopassi (220.000 fototipi e un buon numero di apparecchiature e riviste fotografiche). All’acquisto nel 2004 dell’archivio di Eugenio Ghilardi altri se ne sono aggiunti nel tempo, come quello della multinazionale Cucirini Cantoni Coats, operante a Lucca a partire dal 1904.
[1889] Bonetti 2007.
[1890] Maria Francesca Bonetti, Un itinerario italiano. In Bonetti et al. 2007a, pp. 6-9.
[1891] Maria Francesca Bonetti, La “collezione”: criteri selettivi e di ricerca. In Bonetti et al. 2008, pp. 29-45, dove esplicitava ulteriormente “il senso specifico degli interessi che muovono il collezionista” individuandoli nella costituzione di “serie di immagini che possono essere utili – attraverso accostamenti, integrazioni e confronti di vario tipo – ad indagare non soltanto la qualità e le specificità delle singole personalità, ma anche le differenze che le contraddistinguono ai livelli dell’espressione, della professionalità, della cultura e delle frequentazioni personali, o delle capacità e degli interessi commerciali e imprenditoriali” (29), vale a dire interessi e obiettivi di tipo eminentemente storico, ai quali veniva data evidenza filologica e di lettura critica nei puntuali commenti alle immagini di questa e delle successive sezioni.
[1892] Alberto Prandi, “The Roman Process”. Con un repertorio della letteratura fotografica 1849-1863 relativa all’esperienza romana. In Bonetti et al. 2008, pp. 17-25, dove si ricordava che “tra gli aspetti caratterizzanti l’esperienza romana, due sono quelli sottolineati negli studi storici come particolarmente caratterizzanti: il ruolo giocato da una tecnica originale, “The Roman Process”, e quello sostenuto da una personalità di rilievo, Frédéric Flacheron.” (17).
[1893] Maria Francesca Bonetti, L’ âge d’or della fotografia a Roma tra studio, arte e mercato delle immagini. In Mina 2015, pp. 12- 55 (22). In un dialogo serrato tra lettura iconografica e rilevamento documentario il successivo saggio di Andrea Sciolari, I cantieri di Pio IX, ivi, pp. 56-68, offriva l’opportunità di riconoscere alcuni importanti interventi sul patrimonio storico archeologico e di procedere alla datazione delle loro tracce fotografiche. Il volume era arricchito dalla sezione curata da Marco Antonetto, Tecniche e procedimenti fotografici nei primi anni della fotografia a Roma, ivi, pp. 78-92, con alcuni utili Approfondimenti tecnici a proposito del “metodo romano”, già descritti in M. Antonetto The Roman Photographic School: “Circolo del Caffé Greco” 1847 – 1855, http://www.luminous-lint.com/app/home/?action=ACT_VEX&p1=_COLLECTING_Roman_Photographic_School_01 [26 04 2016]
e nella relazione di Silvia Berselli, Il restauro del Panorama di Roma ripreso dalla Quercia del Tasso (1865) di Michele Petagna. In Mina 2015, pp. 104-106.
[1894] Di tutt’altro contesto e argomento il successivo contributo di Bonetti a proposito delle Fotografie dagli album della principessa Anna Maria Borghese (Bonetti et al. 2011), che si presentava semmai come “racconto di un’epoca” letto in una prospettiva autoriale, erede certo di quella pratica di fotografia nobiliare particolarmente praticata a Roma ma qui ormai svolta in uno scenario “cosmopolita e progressista” e contemporaneamente mantenuto però nel più ristretto ambito familiare (e a ciò non dovette essere estranea la sua condizione femminile). Una passione privata, che produsse circa 8.000 immagini, che secondo la curatrice si distinguono per la loro “freschezza, la libertà e la disinvoltura compositiva” (13), tali da consentirle di parlare di “rottura con le tendenze idealizzanti ed estetizzanti della fotografia pittorica” (14) coeva, ma non cogliendo – diremmo – quella che ci pare una contraddizione critica, essendo la “rottura” per definizione un atto consapevole che poco sembra adattarsi alla funzione essenzialmente diaristica di quelle fotografie.
[1895] Liconti 2008, la cui intenzione ‘evocativa’ non poteva però giustificare l’edizione impropria di molte fotografie, pubblicate in un formato (1½ pagina) che snaturava quello dei negativi originali. Sull’attività di Nesci si veda Faeta et al. 1988; Miraglia 1989.
[1896] Messina 2009, con immagini del GFN e del Fondo Ministero Pubblica Istruzione dell’ICCD; si veda anche Manodori Sagredo 2008a.
[1897] Azzaro et al. 2008, promosso dal Dipartimento della Protezione Civile e dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, che si rifaceva a una concezione della fotografia quale “strumento universale e senza tempo” (Guido Bertolaso, Enzo Boschi, Prefazione, ivi, p. 5), ciò che esimeva i curatori dall’indicare dati e date delle immagini pubblicate. Resta invece tragicamente attuale l’augurio non soddisfatto che l’anniversario del centenario del terremoto potesse rappresentare “un’occasione preziosa per accelerare il percorso di sensibilizzazione sul rischio sismico su una più vasta scala, con la consapevolezza che il rispetto della normativa sismica rappresenta l’unica vera difesa perché il terremoto non sia sinonimo di tragedia.”, Raffaele Azzaro, Caterina Piccione, Gianluca Valensise, 1908- 2008. A cento anni dal terremoto, ivi, pp. 7-9.
[1898] Angelo Maggi, Panorami di distruzione. I fotografi e i luoghi della catastrofe. In Azzaro et al. 2008, pp. 11-21.
[1899] Serena 2015. Oltre ad alcuni interventi in ambito universitario, la studiosa aveva presentato contributi su questi temi in occasione del convegno di studi Sguardi fotografici sul territorio: progetti e protagonisti fra storia e contemporaneità in Italia, Cantieri SISF, Ravenna, 20 – 22 Novembre 2014 (Il fascino della catastrofe: la Società Fotografica Italiana e Il terremoto di Messina e Reggio) e in quello del Kunsthistorisches Institut in Florenz del 6-7 marzo 2015, intitolato Dopo la catastrofe. La storia dell’arte e il futuro della città con la relazione Amnesiche allegorie: fotografie della catastrofe ad inizio del Novecento.
[1900] Per Bernoud cfr. Di Pace 2007; De Carolis 2011 [2013]; Fanelli et al. 2012 ed il recente Alphonse Bernoud pioniere della fotografia: luoghi persone eventi , catalogo della mostra (Napoli, Certosa di San Martino, 22 giugno-25 settembre 2018), a cura di Fabio Speranza. Napoli: arte’m, 2018; sull’attività siciliana di Grillet si veda Bennici 2015e.
[1901] Becchetti et al. 2004a, che riprendeva quanto già pubblicato in Becchetti 1987a.
[1902] http://www.geoforus.it/index.php?option=com_content&view=article&id=51:paesaggi-virtuali-storici-della-lucania&catid=23: archivio [02 02 2017].
[1903] Il modello paradigmatico di questi progetti è costituito dal rilevamento avviato alla fine degli anni Settanta del Novecento seguendo le tracce fotografiche delle grandi campagne documentarie del West americano, poi pubblicato in Mark Klett, Ellen Manchester, JoAnn Verbürg, Gordon Bushaw, Rick Dingus, Second View: The Rephotographic Survey Project, con un saggio di Paul Berger. Albuquerque: University of New Mexico Press, 1984. Un’analoga impresa era stata realizzata in Italia anche da Franco Fontana, Modena ieri, Modena oggi; testi di Michele Smargiassi. Modena: Associazione Giuseppe Panini Archivi Modenesi, 1998, producendo nell’occasione anche una serie di cartoline lenticolari, ciascuna con la sovrapposizione di due vedute cronologicamente distinte. Di impianto più tradizionale ma con intenzioni analoghe sono state due realizzazioni relative a La Spezia (Cammilli et al. 2005) e al suo territorio, restituito mediante il confronto tra fonti iconografiche diverse, dalla cartografia alla fotografia e al cinema, delle quali veniva sottolineata specialmente la valenza e l’affidabilità documentaria (La Spezia 2005).
[1904] Angelo Maggi, La visione diacronica tra permanenza e mutazione. In Maggi 2014, pp.n.n, rispetto al quale – pur senza entrare nel merito – risultava difficile comprendere le ragioni per cui fosse necessario parlare di “arte”.
[1905] Il tema meriterebbe un approfondimento specifico ma è bene ricordare che la definizione positiva di ‘artistica’ non apparteneva alla concezione critica dei nostri primi storici come Negro e Vitali, per i quali anzi il qualificativo assumeva una connotazione negativa, di condanna senza appello.
[1906] Vincenzo Mirisola, La “Scuola” di Taormina. In Mirisola et al. 2004, pp. 9-13; Il volume offriva un’antologia di immagini a piena pagina, di discreta stampa ma senza indicazione delle misure, correggendo anche alcune attribuzioni precedenti.
[1907] La mostra, proposta di Vittorio Sgarbi con la curatela di Italo Zannier (2008) era costituita da opere provenienti dal Fondo Lucio Amelio delle Raccolte Museali Alinari e dal Civico Archivio Fotografico del Castello Sforzesco di Milano. Un primo forte contrasto istituzionale si era già avuto in occasione della mostra del 2007, voluta ancora da Sgarbi, all’epoca Assessore del Comune di Milano e curata da Eugenio Viola, Arte e omosessualità – Da Von Gloeden a Pierre e Gilles, pensata per il milanese Palazzo della Ragione ma realizzata a Firenze in conseguenza del veto espresso dalla giunta dguidata da Letizia Moratti.
[1908] Bolognari 2012, pp.n.n. Si veda anche Mario Bolognari, Falsi miti di Belle époque: ai tempi ‘felici’ del fotografo Wilhelm von Gloeden la Taormina dei poveri emigrava in America, “Illuminazioni”, 5 (2011), n. 16, aprile-giugno, pp. 15-63.
[1909] Giovanni Dall’Orto [Recensione], consultabile all’indirizzo http://www.culturagay.it/recensione/1333 [03 01 2017].
[1910] Sella 2006. Una sezione sul grande fotografo era compresa anche nella mostra dell’Alpines Museum di Monaco Berge im Kasten: Fotografien aus der Sammlung des Deutschen Alpenvereins, 1870-1914, cfr. Golin 2006.
[1911] Marina Miraglia, Veduta, panorama, paesaggio. Vittorio Sella e la fotografia delle vette. In Sella 2006, pp. 11-21; come si evince dal titolo l’analisi del lavoro di Sella costituì ulteriore occasione per riflettere sul tema a lei caro del mutamento tipologico e culturale che distingueva le diverse modalità di rappresentazione dei luoghi. L’altro contributo in catalogo, di Giuseppe Garimoldi, Vittorio Sella – Il paesaggio verticale, ivi, pp. 23-33, ne ricostruiva accuratamente l’attività mettendo in relazione il suo operato con l’atmosfera risorgimentale e postunitaria nella quale era cresciuto. Chiave di lettura interessante, ma purtroppo poco più che accennata.
[1912] Adams et al. 2008. Il testo in catalogo del promotore della mostra Mark Haworth-Booth, The Return of Vittorio Sella, pp. 9-17, venne poi rielaborato, mantenendone il titolo, per Haworth-Booth 2009. Prima di ricostruire la vicenda fotografica di Sella l’autore ne ricordava, anche a titolo personale, le ragioni dell’esclusione dalla mostra The Land, da lui curata nel 1975 con Bill Brandt per il Victoria and Albert Museum (Mark Haworth-Booth, ed., The Land: Twentieth Century Landscape Photographs selected by Bill Brandt. London: Fraser, 1975) e la recente riscoperta in area anglosassone, essenzialmente dovuta alla monografia edita da Aperture (Brower et al. 1999), che riproponeva come introduzione il noto testo di Adams del 1946. La fortuna internazionale dell’autore è stata confermata dal più recente volume curato da Angelica Sella (2014) con testi in italiano, inglese, francese e olandese, mentre sul fronte più analitico si deve segnalare la raccolta delle relazioni delle sue prime ascese invernali sul Monte Rosa comparse in riviste e bollettini del Club Alpino Italiano dal 1883 al 1889 pubblicata in Gigi Borsani, Sandro Ceriotti, a cura di, Vittorio Sella Alpinista sul Monte Rosa. Scritti pubblicati dal Club Alpino Italiano e fotografie della Fondazione Sella. Biella: Fondazione Sella, 2016. Una selezione di sua fotografie himalayane è stata recentemente proposta in Cattedrali di ghiaccio. Vittorio Sella Himalaya 1909 dalla spedizione di S.A.R. il Duca degli Abruzzi, catalogo della mostra (Aosta, Centro Saint-Bénin, 5 novembre 2016 – 26 marzo 2017), a cura di Daria Jorioz, Paolo Repetto. Milano: Nuvole Rosse Edizioni, 2016.
[1913] Guido Bezzola, La penna e la luce: Verga fotografo. In Mutti 2004, pp. 11-13; si veda anche il paragrafo Letteratura e fotografia (pp. 358-360).
[1914] Anche la produzione di Gioacchino Iacono e Francesco Meli, già presentata da Gesualdo Bufalino nel 1977 e nel 1978 venne riproposta in quel periodo (Zago 2006).
[1915] ”Si nota la buona composizione dell’immagine”; “molto originale e dinamico questo gruppo”; “Lungolago a Como nei pressi dell’imbarcadero a cui è attraccata la barca che sta sull’estrema destra del fotogramma”, e simili, cfr. Mutti 2004, pp. 25 passim.
[1916] Lo Dico 2004, Bajamonte et al. 2006, Mormorio 2006c, Bajamonte et al. 2007.
[1917] M.G. [Marina Gnocchi], Eugène Sevaistre. In Paoli 2004, pp. 164-165; tale identificazione venne successivamente ribadita nel proprio contributo a Bajamonte et al. 2006.
[1918] Sulla produzione di Plaut si veda anche Fanelli 2011a. La questione degli scambi commerciali tra fotografi, certo nodale per meglio comprendere il fenomeno e soprattutto per sostanziare storicamente e concettualmente il concetto di autorialità quale poteva essere inteso nella pratica professionale del XIX secolo attende ancora di divenire oggetto di un progetto di ricerca mirato ma era già emerso in altri contributi precedenti. Si veda ad esempio quanto scriveva Sergio Leonardi, Achille Mauri fotografo (In Gelao 2009, pp. 19-31 [28]) che mettendo ordine tra le notizie relative alla biografia professionale del fotografo (che a Napoli rilevò lo studio Bernoud) reperì un annuncio da lui pubblicato ne “La Camera Oscura” nel quale proponeva ai “vedutisti italiani (…) di scambiare vedute, paesaggi e monumenti formato 21×27 con sue di Napoli, dintorni, Pompei, Museo Nazionale.” La Premessa al volume firmata dalla curatrice (pp. 15-17) costituiva una chiara testimonianza dei grandi passi compiuti negli ultimi decenni dalla cultura della conoscenza e tutela del patrimonio fotografico storico se ancora alla metà degli anni Novanta del Novecento, l’involto appena ricevuto da un donatore contenente alcune decine di stampe di Mauri “un nome che all’epoca non mi disse nulla (….) finì in uno dei cassetti del contenitore che ospita il fondo storico dell’archivio fotografico della Pinacoteca” di Bari (15). Sulle diverse forme e occasioni di scambio tra fotografi si vedano anche i cenni informativi in Fanelli 1999a e Cavanna et al. 2011a. Ricordiamo infine che Le Lieure utilizzava e commercializzava a sua volta stereoscopie edite da Ferrier & Soulier, si veda il paragrafo Lo spazio discorsivo della fotografia (pp. 215-217).
[1919] “Ruskin’s ‘discovery’ of architecture and photography can be seen as interdependent encounters in which the one stimulated the other. (…) This paper has studied John Ruskin’s criticism against restoration focusing specifically on the notion of the authentic and its relation to the new technology of photography. It has been argued that the camera not only called into question the concept of the faithful transcription of the external world but that its transformation of the method of reproduction also affected the very category of the authentic.”, Arrhenius 2005, p. 11, corsivo dell’autore.
[1920] Si veda la recensione al volume di Giovanni Fanelli www.historyphotography.org/ doc/ ARUBA _RECENSIONE _RUSKIN _2.pdf [15 01 2017], che esemplificava filologicamente i problemi posti dalla traduzione grafica delle riprese, sia operando ribaltamenti destra/ sinistra sia integrando o sostituendo dettagli di elementi architettonici.
[1921] Jacobson 2015. Nel volume veniva considerato, necessariamente in forma secondaria, anche l’interesse per il calotipo da parte di Ruskin, una tecnica a cui si era avvicinato sin dal 1848 preferendole poi la resa analitica della lamina argentata.
[1922] Cfr. Paul Tucker, Ruskin and the daguerreotype: a “ziggy- zaggy” path between learning and mislearning, “RSF rivista di studi di fotografia”, 1 (2015), n. 2, pp. 122-126, in cui lo studioso, profondo conoscitore dell’opera di Ruskin, pur considerando positivamente l’opera ne metteva in rilievo alcune debolezze strutturali quali una certa ridondanza e ripetitività, aggravate da una incerta organizzazione dell’Indice, tale per cui, ad esempio, “the entry for the “Ducal palace, Venice” comes under ‘D’ and “Palazzo Danieli” comes under ‘P’ (“Palazzi, Venice”), while neither building is found under “Venice”.
[1923] Mazzariol 2001, p. 32. L’argomento è stato ripreso dalla studiosa in altri contributi degli stessi anni (Mazzariol 2008a; 2008b). Nel più recente Catalogo le edizioni individuate assommavano a “170 circa” (Mazzariol 2011). Sulla più nota impresa editoriale di Ongania, la Basilica di San Marco in Venezia, si vedano anche Favaretto et al. 2010; Da Villa Urbani et al. 2011, mentre alle due serie Calli e canali e Calli, Canali e isole della laguna è stata successivamente dedicata una mostra presso il Museo Nazionale di Villa Pisani a Stra (Vianello et al. 2014). Per quanto riguarda gli autori delle fotografie utilizzate da Ongania, Mazzariol (2010) confermava che “purtroppo non ci è dato sapere con certezza chi scattò le originali immagini fotografiche, nonostante i negativi da cui esse furono tratte – e il cui esame potrebbe sicuramente fornire degli indizi – esistano ancora, e nonostante siano già state avanzate svariate ipotesi: Tommaso Filippi, direttore della ditta Naya alla morte del titolare, Oreste Bertani, autore delle immagini fotografiche de La basilica di San Marco in Venezia e anche l’atelier fiorentino dei fratelli Alinari, che proprio in quegli anni di fine secolo realizzò importanti campagne fotografiche in tutto il Veneto e poco più tardi, nel 1895, aprì una filiale a Venezia”. Ricordiamo che già nel 1977 Marina Miraglia, Dall’archivio Naya: Venezia com’era. In Colombo 1977, p. 56, aveva compreso come il repertorio fosse riferibile a “fotografi vari (ho riconosciuto ad esempio Alinari e Cugnoni) fra cui appunto Naya.”
[1924] Avvertenza metodologica. In Mazzariol 2011, pp. 35-56 (45).
[1925] Non si può fare altro che accennare ad altre, antecedenti occasioni di studio, relative a due differenti fenomeni, di diversa rilevanza ma di analogo interesse incentrate sulla produzione di autori italiani attivi in Oriente come le fotografie realizzate da padre Leone Nani in Cina (Bertuccioli 1994, Bulfoni et al. 2003, Manodori Sagredo 2007 ), oggetto anche del convegno “Un secolo, un giorno: la Cina di padre Leone Nani e la Cina di oggi, Milano, Pontificio Istituto Missioni Estere, 11 ottobre 2003, in occasione del centenario della partenza di Nani verso l’Oriente, che riguardava il grande filone – poco studiato – dei missionari fotografi, a sua volta da intendersi nel quadro più generale dei sacerdoti fotografi, e quelle di Federico Peliti in India (Miraglia 1993). Ad un ambito più specificamente antropologico erano invece riferibili le fotografie realizzate da Guido Boggiani in Paraguay nel 1896-1901, rese note dall’antropologo praghese Pavel Frič’, a sua volta nipote di Alberto Vojtěch Frič’, che le aveva recuperate dopo la morte del pittore di Omegna, del quale la famiglia lo aveva nominato esecutore testamentario per i beni conservati in Sud America, cfr. Frič 1997; il volume, molto curato e corredato dell’intero repertorio su CD-ROM delle immagini realizzate da Boggiani, ebbe ridottissima circolazione in Italia, dove solo alcune di quelle fotografie erano state pubblicate in precedenti contributi di argomento antropologico, per i quali si rimanda a Leigheb 1986, in cui venne presentata anche la trascrizione del Catalogo autografo delle lastre fotografiche, trovato il 26 aprile 1984 a casa di Jvan Frič a Praga, ivi, pp. 193-200. Su Boggiani si veda anche Grassi 2005.
[1926] Per la ricostruzione bibliografica e storiografica rimando a Alberto Prandi, Letteratura occidentale di storia della fotografia di epoca Qajar. Saggio bibliografico. In Bonetti et al. 2010, pp. 39-48, riedizione di Prandi 2007.
[1927] Angelo Michele Piemontese, Apporti tecnici d’italiani in Persia nel XIX secolo. In Bonetti et al. 2010, pp. 13-21; Claudio Zanier, Carlo Orio e la questione “seta” nella Missione Cerruti in Persia, ivi, pp. 33-36; Roberto Poggi, Le raccolte naturalistiche di Giacomo Doria in Persia (1862- 1863), ivi, pp. 37-38.
[1928] Maria Francesca Bonetti, Gli esordi della fotografia in Persia: contributi italiani, ivi, pp. 23-28.
[1929] Alberto Prandi, 1862, ivi, pp. 29-32.
[1930] Ali Behdad, The Powerful Art of Qajar Photography: Orientalism and (Self-)Orientalizing in Nineteenth-Century Iran, “Journal of Iranian Studies”, 34 (2001), n. 1-4, pp. 141-152. Si veda ora anche il numero monografico curato da Sheikh Reza, Carmen Pérez González, The First Hundred Years of Iranian Photography, “History of Photography” 37 (2013), n. 1, Spring, che a sua volta conteneva il saggio di Maria Francesca Bonetti, Alberto Prandi, Italian Photographers in Iran 1848–64, pp. 14-31.
[1931] L’intero corpus è consultabile all’indirizzo: http://www.archiviofotografico.societageografica.it/index.php?it/152/archivio-fotografie, nn. 241/1- 53 [20 10 2017].
[1932] Ricordiamo che nel 1987 era stato pubblicato Takio Saitō, Felice Beato Bakumatsu Nippon Shashinshu (Una raccolta di fotografie di metà Ottocento di Felice Beato). Yokohama: Yokohama Kaiko Shiryōkan, 1987, che di fatto ricostruiva il corpus delle fotografie giapponesi. Gli scopi del nostro studio – e le nostre competenze – ci impediscono di rendere conto del fiorire di ricerche giapponesi sulla scuola di Yokohama e sul ruolo svolto dai fotografi italiani. Un utile strumento di riferimento è costituito da Sebastian Dobson, Luke Gartlan, Nineteenth-Century Photography in Japan: A Bibliography 2000-2008, “History of Photography”, 33 (2009), n. 2, Summer, pp. 224-232, a cui aggiungere i più recenti Lacoste 2010 e Terry Bennett, Photography in Japan 1853-1912. North Clarendon, VT: Tuttle Publishing, 2014; Francesco Paolo Campione, La Scuola di Yokohama: la fotografia nel Giappone dell’Ottocento. Lugano – Firenze: Museo delle Culture – Giunti, 2015.
[1933] Wanaverbecq 2005. Che l’album fosse una forma privilegiata di circolazione (e di conservazione nel tempo) delle fotografie di Beato e di molti fotografi del XIX secolo venne ulteriormente confermato da una mostra del Civico Archivio Fotografico di Milano (Paoli 2013) che presentava venti fotografie di soggetto birmano selezionate da un insieme di trentotto “comprese in un album acquistato dal Comune di Milano nel 2006, probabilmente assemblato da Howard Frederick Compton, colonnello dell’esercito inglese che combatté nella guerra anglo-birmana tra il 1889 e il 1890.”
[1934] Fred Ritchin, Felice Beato and the Photography of War. In Lacoste 2010, pp. 119-132.
[1935] Eleanor M. Hight, [Recensione], “TAP – Trans Asia Photography Review”, 1 (2011), n.2 Spring; online: http:// hdl.handle.net/ 2027/spo.7977573.0001.209 [05 01 2017].
[1936] Hight 2011, in cui affrontava anche la sottile questione critica e storiografica (certo riferibile ad un ampio ventaglio di autori del XIX secolo e non solo) della necessaria distinzione tra ritratto e scene di genere o tableau vivant, a cui aveva già rivolto la propria attenzione Luke Gartlan, analizzando la terminologia utilizzata per descriverle nei frontespizi degli album, nelle pagine pubblicitarie e nei periodici dell’epoca, per concludere che i diversi termini erano “inflected by nineteenth-century discourses of tourism (the costume) and ethnography (the type), and as such require greater critical deliberation in this growing field of scholarship. (…) By the mid-1860s, costume had entered the studio nomenclature to describe illustrations of Japanese subjects and genre scenes.” (Gartlan 2006, pp. 242- 244).
[1937] Dal Pra 1991b poi in parte ripreso in “Fotologia” (Dal Pra 1991a), portandolo così all’attenzione di un più vasto pubblico. Su Farsari si veda anche Beretta 1996.
[1938] Farsari 2005, che comprendeva parte delle lettere in possesso della famiglia Dal Pra, poi pubblicate a Tokio e successivamente anche in Italia (Osano 2011), cfr. A reconsideration of the history of artistic exchange on a personal level between Japan and Italy in the 1880s: the japanese activities of the photographer Adolfo Farsari and count Alessandro Zileri, secretary to the retinue of count Enrico di Bardi of Bourbon (grant-in-aid for research project B2, project number: 17320025). Tokyo: University of Tokyo, 2008. Dalla ricerca derivò anche la mostra che si tenne all’Istituto italiano di cultura di Tokio (Farsari 2013).
[1939] L’attività di Antonio Beato in Egitto era stata oggetto di una monografia (Ferri 2008) con fotografie inedite provenienti dagli Archivi della Biblioteca di Egittologia dell’Università degli Studi di Milano e dalla collezione del curatore.
[1940] A. C. Quintavalle, In provincia di Padova i lavori di Felice Beato e della sua cerchia, “La Lettura”, allegato del “Corriere della Sera”, 8 gennaio 2012, che in chiusura ricordava come la mostra si presentasse certo “ricca di molti stimoli ma anche con molti problemi. Gli stessi che (d’altra parte) sembrano caratterizzare molte delle rassegne di fotografia dedicate al secolo XIX. Dove il piacere di esporre opere poco note o addirittura sconosciute non corrisponde a un preciso impegno filologico.” Alcuni aspetti problematici della coloritura delle serie fotografiche giapponesi, richiamati anche da Quintavalle nel suo intervento, sono stati illustrati in Gentō-ban. Il Giappone dell’Ottocento nelle diapositive della Collezione Perino, catalogo della mostra (Lugano, Museo delle Culture, 18 luglio- 12 ottobre 2014), a cura di Moira Luraschi. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2014.
[1941] In altri casi, come in quello di Sommer, la messa a punto del repertorio è stata condotta anche in presenza di cataloghi a stampa, e diremmo che proprio nello scambio dialettico e storico tra catalogo e repertorio risiedeva e risiede uno dei punti di interesse del lavoro di Fanelli. Il ricorso metodologico ai cataloghi a stampa, ampiamente praticato nello studio della produzione Alinari, è stato adottato in questi anni anche da altri studiosi, ad esempio in relazione all’operato di Luigi Ricci (Novara 2006a) ma senza affiancarlo all’analisi iconografica.
[1942] Fanelli 2007a. Nell’Avvertenza alle tavole si faceva notare, a differenza di Miraglia et al. 1992, che “per quanto la ricerca possa essere stata ampia e attenta, essendo andato disperso l’archivio dell’atelier Sommer (…) ogni selezione antologica, come anche quella proposta nelle tavole che seguono, non può che essere condizionata dall’insieme di documenti che è stato possibile reperire e valutare. Tuttavia la selezione di immagini ci sembra possa essere complessivamente apprezzabile come rappresentativa dei caratteri fondamentali e più peculiari della sua opera.”, ivi, p. 51.
[1943] In Fanelli 2010a (ma ottobre 2011) veniva ampliato il repertorio proponendo altre immagini che a detta dell’autore risultavano “non riprodotte e non studiate nei contributi storiografici elencati in bibliografia”, sebbene questa non risultasse poi aggiornata e non contemplasse né Steiger 2006 né Cavanna 2011, entrambi contenenti immagini tra cui sarebbe stato possibile ritrovare esempi relativi a campagne fotografiche realizzate anche al di fuori dei confini geografici dell’Italia, qui date per inedite. Il tema complesso della presenza di immagini identiche nei repertori di autori diversi, in particolare Incorpora e Sommer, è stato verificato da Emanuele Bennici (2015c) utilizzando opportunamente “metodi di grafica digitale [per] valutare il grado di corrispondenza tra le stesse e di analizzare le difformità”, con ciò oggettivando l’esame e consentendo la ripetibilità della prova.
[1944] Mi riferisco non tanto al confronto tra le differenti soluzioni narrative di analoghi soggetti adottate dai due autori, da verificarsi anche sulla base di una più certa cronologia di produzione, quanto ad alcuni episodi di (presunta) contiguità operativa, come nella serie di fotografie bolognesi firmate rispettivamente da Rive e Sommer, “in cui le riprese appaiono effettuate nello stesso giorno e distanziate l’una dall’altra di circa mezz’ora” (Fanelli 2007a, p. 25, tavv. 219-222). Poiché la perfetta coincidenza dei punti di vista, delle inquadrature e delle focali utilizzate obbliga a considerarle eseguite da uno stesso operatore, si affacciano due sole possibilità: o uno scambio tra i due professionisti, secondo una consuetudine non rara al tempo, o l’acquisto da terzi, vale a dire da un comune operatore locale, per il quale forse si potrebbe suggerire il nome di Émile Anriot, che solo pochi anni prima, nel 1864, aveva pubblicato una fortunata serie di Vedute fotografiche Artistiche e Monumenti della città di Bologna. Per un approfondimento della figura di Rive, e un ulteriore richiamo ai rapporti con Sommer si rimanda alla monografia dedicata al primo da Fanelli (2010b, in particolare alle pp. 13-25). Tra i numerosi esempi di acquisizioni di fondi fotografici, con successivo accorpamento al proprio catalogo da parte dell’acquirente, ricordiamo almeno il caso Caneva -Tuminello (cfr. Becchetti 1989a) e quello delle serie stereoscopiche acquistate da Henri Le Lieure, rispetto alle quali Miraglia invitava ad avere il massimo scrupolo filologico in tutte quelle analoghe occasioni in cui si “ripropone una problematica particolarmente ricorrente nell’ambito dell’Ottocento fotografico, epoca in cui – come già era avvenuto nella tradizione incisoria – l’acquisto da parte di fotografi particolarmente autorevoli e fortunati, di fondi prodotti da altri autori, viene difficilmente dichiarato, generando una conseguente confusione fra proprietà e autorialità di numerose immagini e di interi fondi fotografici.”, Miraglia (1996b), p. 22 nota 3. Un ulteriore esempio di collaborazione tra autori si poteva desumere dalla lettera indirizzata da Alfredo Noack ad Anton Hautmann, datata Arezzo 30 settembre 1861, nella quale il primo indicava le proprie richieste per una prestazione che non avrebbe dovuto superare “il numero di 30 riprese al giorno”. L’oggetto della collaborazione non era specificato né dovevano essere emersi nel corso della ricerca ulteriori elementi chiarificatori, datosi che l’autore della monografia (Fanelli 1999a) non ne faceva cenno, ma la quantità indicata era certo più che rilevante per uno studio di piccole dimensioni come quello dello scultore e fotografo bavarese attivo a Firenze. Sull’attività di Alfredo Noack si vedano Papone 1999a, Papone et al. 2000. Per ulteriori riferimenti a occasioni di scambio tra fotografi cfr. supra Nota 1918.
[1945] Questi contributi interpretativi, metodologicamente inediti nella vasta letteratura su Sommer, erano corredati da un’attenta analisi dei superstiti cataloghi a stampa, sulla cui base si tentava anche una interpretazione cronologica delle serie numeriche, sebbene in molti casi “non risulti chiara la logica di compilazione” (Fanelli 2007a, pp. 28-34, p. 47, nota 14), dal repertorio dei timbri a secco, dei versi litografici delle carte de visite e dei supporti secondari stereoscopici, ordinati in successione cronologica anche quale ulteriore strumento di datazione delle diverse edizioni a stampa delle immagini, analogamente a quanto era già stato proposto dallo stesso autore nella precedente monografia su Enrico Van Lint (Fanelli 2004). Per ulteriori considerazioni sulla difficoltà di attribuire un senso cronologico alle numerazioni catalografiche di Sommer si veda la nota successiva e inoltre Cavanna et al. 2011a, pp. 18-19, nota 46. Restavano purtroppo esclusi da tutti questi studi gli elementi necessari per individuare le diverse committenze e le complesse strategie imprenditoriali di Sommer, così come ogni verifica dei nessi imprenditoriali tra la sua importante produzione fotografica e quella altrettanto ricca di manufatti artistici che ne fece una delle più floride azienda napoletane del periodo.
[1946] L’accurata datazione delle riprese, qui troppo sovente ristrette ai primi due decenni di attività di Sommer, rappresentava ovviamente il fondamento su cui costruire una più efficace analisi delle modalità espressive, verificandone le eventuali trasformazioni. La necessità di un miglior controllo dei dati cronici emergeva ad esempio nelle datazioni, troppo parcellizzate, delle riprese fiorentine, improbabilmente scalate l’una dall’altra a distanza di due-tre anni, senza tenere nel dovuto conto (almeno in via prudenziale) i suggerimenti forniti dai numeri di catalogo: mi riferisco alle riprese relative a Santa Maria Novella (n. 1828, tav. 23) e Palazzo Pandolfini (n. 1848, tav. 22), datate rispettivamente al 1865 ca e al 1863 ca. Anche la datazione al 1870 circa di due carte de visite relative alle stazioni della funicolare vesuviana (tavv. 94, 96), andava posposta di almeno un decennio, essendo l’impianto stato inaugurato il 6 giugno 1880.
[1947] Come dimostrano molti ed autorevoli esempi e contrariamente all’opinione ancora oggi ampiamente diffusa tra gli storici, per i fotografi attivi nella seconda metà del XIX secolo, non esisteva contraddizione in termini tra manipolazione dell’immagine e validità documentaria, essendo questa insita piuttosto nell’intenzione con cui la fotografia era realizzata, e nella sua destinazione. Basti qui richiamare l’ampio ricorso al fotomontaggio per inserire cieli con nubi nelle riprese di paesaggio e di architettura oppure il sistematico ricorso al ritocco del negativo, necessario a correggere i limiti di latitudine di posa e di resa tonale della gamma cromatica nella documentazione delle opere d’arte, ma numerosi casi di fotomontaggio e di fotocollage si ritrovano anche nella produzione di un grande fotografo di montagna come Vittorio Sella. Si vedano almeno – tra i molti possibili – i diversi esempi considerati in Fontana 1982, Aubenas et al. 2010, Marsicola 2014, Frisoni 2015.
[1948] Fanelli 2007b, Id. 2010b.
[1949] In particolare, sviluppando alcune indicazioni già fornite nella precedente monografia, Fanelli instaurava un serrato confronto tra Rive e Sommer nella messa a punto di una serie di vedute di Sorrento da Capodimonte, di cui individuava ben nove diverse tipologie, alcune delle quali ottenute con accorti fotomontaggi, ciò che era sinora sfuggito all’analisi storico critica.
[1950] Fanelli 2012, Fanelli et al. 2012. Sull’attività di Bernoud a Pompei si veda anche De Carolis 2011, un contributo che si connotava per la disinvolta mescolanza di elementi ormai consolidati e condivisi dalla più accorta storiografia con affermazioni fantasiose quali l’apprendistato presso Daguerre e improbabili riferimenti tecnici quali il “caratteristico viraggio color seppia” (50) che distinguerebbe le stampe all’albumina. Il testo costituiva un esempio paradigmatico della scarsa diffusione di una cultura storico fotografica – almeno di base – tra i funzionari dell’amministrazione pubblica dei beni culturali, ai quali sembrava ancora mancare il minimo di metodologia storica nell’uso (o non uso) delle fonti, accompagnata da una presunta conoscenza dei materiali oggetto di studio. Ne costituivano ulteriore prova le schede delle singole stereoscopie, accurate per quanto riguardava le note di contenuto ma libere da ogni standard descrittivo del fototipo, per quanto minimo. Tale mancata consuetudine non sembrava purtroppo essere episodica se nell’intervento di poco antecedente di un altro funzionario di Soprintendenza si potevano ad esempio leggere queste parole: “nella mia breve comunicazione vorrei tentare di analizzare l’importanza della fotografia come mezzo attraverso cui la natura, grazie proprio alla sua bellezza, partendo dalle sue variazioni cromatiche e giungendo alla luminosità dovuta alla luce solare, provvede alla riproduzione di se [sic] stessa. Tale riproduzione può fornire strumenti utili anche all’Uomo (…)”, Giovanni Villani, [Senza titolo]. In I valori del paesaggio e la fotografia sensibile, atti della giornata di studio (Ravello, 4 maggio 1998), cura di Libero De Cunzo. Ravello: Centro Universitario Europeo per i Beni Culturali, s.d., pp. 39-42 (39).
[1951] www.historyphotography.org/doc/AMODIO_Fanelli.pdf [07 09 2018].
[1952] Importanti riflessioni su questi temi sono contenute in Elizabeth Anne McCauley, Fawning over Marbles: Robert and Gerardine Macpherson’s Vatican Sculptures and the Role of Photographs in the Reception of the Antique. In Bann 2011, pp. 91- 122, che nello studiare gli album di Macpherson si proponeva “to locate them within the history of taste for antique sculpture, and, on the other, to understand them as alternatives within a field of reproductive options rather than steps in a linear, teleological progression toward greater ‘realism’,’ moving from originals to handmade copies to photographs to cinema (…) Photographic prints of the Vatican sculptures were thus copies of copies, inexpensive multiples that transparently froze what had become expensive and rare multiples.” (93-94). Sulla produzione di questo autore si veda ora anche Giovanni Fanelli, Catalogo ragionato delle fotografie edite da Robert Macpherson, 2017; online http://www.historyphotography.org/doc/MACPHERSON_FANELLI.pdf [04 09 2018].
[1953] Recentemente, nel Primo aggiornamento del Catalogo della produzione dello stabilimento fotografico commerciale Robert Rive, Napoli, datato ottobre 2016, Giovanni Fanelli ha pubblicato l’inedito atto di nascita di Robert Rive (Breslavia, 27 marzo 1817 – Torre del Greco, 30 marzo 1868). http://www.historyphotography.org/doc/Aggiornamento_1_catalogo_Rive.pdf [16 01 2017]. Le prime due copiosissime parti del Catalogo erano state pubblicate sullo stesso sito nel 2015. Un ulteriore contributo al repertorio di Rive è stato fornito da De Carolis 2013 e ora in Robert Rive: photographies d’Italie, catalogo della mostra (Modena, Foro Boario, 16 settembre 2016 – 8 gennaio 2017), a cura di Chiara Dall’Olio. Milano: Skira, 2016.
[1954] http://www.giovannidallorto.com/ [04 09 2018].
[1955] L’archivio Poppi/ Fotografia dell’Emilia venne acquisito dalla Cassa di Risparmio di Bologna nel 1940 che decise però di conservare prevalentemente fototipi di soggetto bolognese (cfr. Cristofori et al. 1980; Frisoni 2015). Copia digitale del fototipo e scheda catalografica sono state inserite nella piattaforma delle collezioni di Genus Bononiae (http:// collezioni.genusbononiae.it/ products/lista_prodotti/category:37) [26 12 2016].
[1956] Cavanna 2015a. Sulla sua produzione di “costumi campestri” si veda ora Elena Canavese, Pietro Poppi, photographe de Bologne (1833- 1914). Un professionnel au début du pictorialisme italien. Mémoire de Master 2 Recherche – Histoire de l’art et archéologie, Université Paris 1 Panthéon Sorbonne, Michel Poivert, dir., Année 2015-2016.
[1957] Cinzia Frisoni, Nel corso del tempo. Breve analisi stratigrafica sulle lastre Poppi. In Frisoni 2015, pp. 29-35.
[1958] Altro elemento di interesse che è stato possibile verificare proprio con l’accurato lavoro di catalogazione è la pratica professionale che prevedeva la sostituzione di lastre ‘obsolete’, vale a dire quelle che registravano una condizione dell’opera rappresentata antecedente a un qualche tipo di intervento (restauro, manomissione, trasformazione), ciò che dimostra che anche nell’ambito della documentazione del patrimonio artistico e architettonico l’attualità, la corrispondenza a uno stato attuale mutato nel tempo, era considerata un criterio qualificante.
[1959] Pagnotta 2009; Marzocchini 2010.
[1960] Chiesa et al. 2012. Non considerando i brevi paragrafi introduttivi sulla storia del ritratto (dai Fayoum alla Sindone, ritenuta “forse (…) la prima fotografia della storia dell’umanità” (17), di grande interesse erano le dettagliate descrizioni delle tecniche fotografiche, sebbene a volte indicate con termini impropri (“Illuminated Daguerreotype” tradotto in modo piuttosto improbabile come “Dagherrotipo illuminato” e non invece “miniato” (per analogia, in relazione alla coloritura) o forse “vignettato”, come illustravano bene il brevetto originario e gli esiti in immagine. Arricchivano il volume numerosi esempi di montaggio dei fototipi, classificati per tipologia, un importante repertorio dei punzoni per lastra dagherrotipica, un sintetico glossario e una bibliografia.
A questioni più strettamente connesse alle funzioni simboliche e narrative del ritratto fotografico, riconoscibili in certi aspetti produttivi e in particolare all’ambientazione di studio e all’uso dei fondali si rivolgevano invece il saggio di Elena Lenzi (2009) e il volume di Alberto Manodori Sagredo (2013a) che riprendevano un tema già affrontato da Michele Falzone del Barbarò (Gli atelier: grandezza e decadenza di uno spazio fotografico. In Zannier 1995b, pp. 34-40), individuandone le ragioni nel richiamo alle convenzioni della tradizione del ritratto pittorico, o nelle funzioni e ritualità di quello funerario (Manodori Sagredo 2013b).
[1961] Il Fondo Sommariva, acquistato dalla Biblioteca Nazionale Braidense nel 1979, comprende l’intero archivio dello studio, comprensivo di Libri Inventario e Rubriche alfabetiche, databile dal 1904 al 1973.
[1962] Naturalmente questa condizione si rivela necessaria ma non sufficiente essendo poi indispensabile affrontare i diversi aspetti di un tema iconografico e sociale così complesso e articolato disponendo delle necessarie competenze. Ma il lavoro con e sull’archivio è comunque determinante per il buon esito delle ricerche, come mostrava anche il volume sulla produzione ritrattistica dei maceratesi Balelli (Balelli et al. 2013), che considerava il lavoro di tre generazioni di fotografi conservato in varie istituzioni pubbliche cittadine.
[1963] Ginex 2004b, p. 37. Coerentemente alle preoccupazioni filologiche espresse, nel catalogo “le fotografie sono pubblicate in dimensioni pari agli originali” (43), tranne rare eccezioni.
[1964] L’esposizione milanese del 2008 dedicata a Ghergo (Domini et al. 2008) comprendeva ben 350 fotografie, poi ridotte a 250 nella successiva edizione romana (Domini et al. 2012), con un impianto critico che non introduceva elementi nuovi rispetto al breve profilo tracciato da Piergiorgio Dragone nel lontano 1979. Quella di Ghitta Carell al Pastificio Cerere di Roma, dotata di un catalogo con un’immagine di copertina tanto intrigante quanto fuorviante (Mormorio 2013), si articolava in diverse sedi interne sino a comprendere il ristorante, dove – forse con intenzione discutibile – erano esposti i soggetti femminili, mescolando opportunamente originali e riproduzioni. Luxardo fu il protagonista di due mostre con materiali provenienti rispettivamente dall’ archivio 3M Italia (Amodeo 2010), che detiene anche il Fondo Carell, e da collezioni private, tra le quali quella di Giuseppe Vanzella (Rössl 2013).
[1965] L’architettura e il potere nei ritratti di Ghitta Carell, presentata a Milano, Fondazione Portaluppi (7 novembre – 20 dicembre 2003) e poi a Mantova alla Madonna della Vittoria (10-26 gennaio 2014), che riconfermava nella scelta del titolo quei legami col potere che apparivano più sfumati nella definizione saggistica di “ritratto mondano”. In occasione della presentazione del libro di Dulio presso la biblioteca Dergano-Bovisa di Milano si era tenuta dal 7 al 18 settembre la mostra Ghitta Carell. Grande in negativo, prodotta dalla Fototeca Storica Nazionale Ando Gilardi per la cura di Elena Piccinini, Patrizia Piccinini e Fabrizio Urettini. Anche con la collaborazione di Gilardi si era tenuta nel 2011 (21 maggio – 26 giugno) la mostra A lélek fénye – Ghitta Carell portréi (La luce dell’anima – Ritratti di G. C. ) al Magyar Nemzeti Múzeum di Budapest, per la cura di Zsazsi Chainet.
[1966] Fittipaldi 20032; Fittipaldi 2003.
[1967] L’archivio Parisio, chiuso dal primo settembre 2014, è stato oggetto di due provvedimenti di vincolo nel 1998 e nel 2002. Esso è formato da due nuclei principali corrispondenti ai fondi di Giulio Parisio e di Vincenzo e Guglielmo Troncone, ai quali si aggiungono il fondo Sommer, prevalentemente formato di carte de visite, e quello di lastre di Pasquale ed Achille Esposito, per una consistenza complessiva di più di un milione di fototipi.
[1968] Causa et al. 2009. Sull’attività dei fratelli Parisio, Luigi e Giulio, era incentrato invece lo studio di Antonella Basilico (2010).
[1969] Faeta 2007 p. 13. Allo stesso, con la collaborazione di Marina Malabotti e Marina Miraglia, si doveva anche il primo studio monografico relativo a Marra (Faeta 1984) e la successiva analisi presentata in Faeta 2000.
[1970] Elio Grazioli, I generi fotografici tra realtà e finzione. In De Luna et al. 2006, pp. 243-298, dove – nonostante il plurale del titolo – il solo genere studiato era quello del ritratto, tutto esemplificato (nella prima parte) su di una serie di fotografie di Mario Nunes Vais diligentemente pubblicate, descritte e portate a dimostrazione delle ipotesi critiche sostenute, in un circolo ermeneutico tanto efficace quanto pericoloso.
[1971] Lucchetta 2013, che si era avvicinata a Unterveger in occasione della propria tesi di laurea discussa con Italo Zannier, riprendendo le pionieristiche ricerche di Floriano Menapace (1980, 1981) a cui si doveva del resto l’introduzione a questo volume.
[1972] Morgan 2010; per gli studi precedenti si vedano Schiffer-Ekhart 1997, Schaukal 2002.
[1973] Giusa et al. 2012; secondo quanto si scriveva – piuttosto curiosamente – nel comunicato stampa “Malignani continuò ad essere legato alla fotografia anche per molti anni dopo la sua morte” [sic].
[1974] Callegari et al. 2005a, D’Angelo et al. 2005, Troisi 2006. Per notizie sull’archivio di un altro fotografo palermitano, Eugenio Bronzetti, oggi conservato presso la fototeca del CRICD della Regione Sicilia si vedano Bronzetti 1985, Id. 1987, Recupero et al. 1990, Panahi Nejad 1997 e Becchina 2006, un breve articolo tratto dalla tesi di laurea in Storia della fotografia dell’autrice, nel quale si potevano scoprire alcune gustose amenità a proposito del padre del nostro, fotografo a sua volta, che dovette abbandonare il lavoro a causa di una “infezione dovuta ai ferri di cianuro di potassio e solfato di sodio.” (34).
[1975] Solo per citare un esempio tra i molti possibili, la mostra dedicata a Sebastianutti e Benque era costituita per la gran parte di fotografie provenienti dalla Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste, proprio in quegli anni oggetto di un importante lavoro di riordino, catalogazione e messa online, i cui esiti sono ora disponibili all’indirizzo: http://biblioteche.comune.trieste.it [03 01 2017].
[1976] Ratti 2008. Di poco antecedente la mostra intitolata a un amateur spezzino, tra i primi soci del CAI locale, come Ciro Caldelli (Cantelli 2005). La più recente mostra (18 novembre 2016 – 19 marzo 2017) su Pietro Tempestini. Una vita da fotografo (1843- 1917) ha attinto anch’essa dalla catalogazione dei fondi fotografici di proprietà comunale ma integrandone lo studio con quanto conservato in altri importanti archivi italiani, con le collezioni private e con le fonti online.
[1977] De Martini 2008. I primi studi sull’attività dei Nazzari si devono a Fiorani 1988, che già aveva delineato un quadro sintetico dell’attività fotografica a Pavia e dintorni (Fiorani 1986).
[1978] Zatti 2010; Chiolini 2011; Biscossa 2012. L’archivio, costituito da circa 900.000 fototipi, è stato acquisito dal Comune di Pavia nel 2009, http://www.museicivici.pavia.it/archiviochiolini/ [28 12 2016]. Sull’attività di Chiolini si veda anche Farci 2013.
[1979] Ricordiamo che Naomi Rosenblum aveva pubblicato A History of Women Photographers. New York: Abbeville, 1994, mai tradotto in italiano, quale risultato maturo di una ricerca storiografica influenzata ma non condizionata dalle posizioni femministe, fondata sul riconoscimento del fatto che “women have been actively involved with photography ever since the medium was first introduced in I839. They were drawn to it professionally and personally, finding it an effective means both to earn a living and to express ideas and feelings. An easily achieved skill adaptable to a wide variety of uses, photography offered women a more congenial discipline than the traditional visual arts of painting and sculpture. The barriers to their participation in photography were lower, and recognition often came faster than in the other arts. (…) Have women and their photographs been as visible as they should be in view of their numbers and past influence? Have inquiries into their activities and their art been as rigorous and as insightful as the studies of their male colleagues? And have their contributions been understood in the context of the medium’s overall development? Research suggests otherwise. Because the selection of what shall be remembered has been done, throughout most of photographic history, by male scholars, women have tended to be dismissed or slighted.” (7) Nonostante queste premesse l’impostazione di questa Storia risultava però solo apparentemente innovativa, non essendo la Rosenblum interessata a ricercare una presunta o possibile “femminilità” fotografica; per questo il suo percorso storiografico non risultava poi così distante dagli schemi proposti da altri studiosi; mutavano il genere e i nomi delle protagoniste ma i criteri di analisi e la periodizzazione rimanevano invariati: le origini, gli studi professionali, la fotografia come informazione, la fotografia come arte e così via, ai quali solo si aggiungeva in chiusura un capitolo sulla “Visione Femminista”. Non dissimili le posizioni critiche espresse da Roberta Valtorta, Il contributo delle donne alla fotografia in Italia. In Leonardi et al. 2001, pp. 9-19, che riteneva “che la complessa storia della società e della cultura (…) non vada analizzata attraverso rigide divisioni di generi, sessi, razze”(10), limitandosi perciò a elencarne le principali figure e dando per scontate le ragioni storiche e culturali della loro scarsa presenza. Tra i contributi italiani una buona attenzione per le fotografe professioniste, anche ambulanti si riscontra in Marzocchini 2010.
[1980] Demichelis 2003, pp.n.n. Con apprezzabile scelta metodologica le ristampe vennero realizzate a lastra piena e non ritoccate, lasciando quindi in evidenza i segni del tempo e del degrado; segno ulteriore delle intenzioni scientifiche e amorevoli che stavano alla base del progetto, penalizzato però da commenti di cui non si sarebbe sentita la mancanza e da scelte grafiche più che opinabili, come il fondo alternativamente nero delle pagine che ospitavano le immagini.
[1981] Il trattamento amatoriale risultava lampante confrontando gli esiti di quelle indagini con il corredo di schede che accompagnava le fotografie di Saverio Marra, con esaurienti note di contenuto relative all’identificazione dei luoghi e specialmente delle persone rappresentate, di cui si indicavano anche i soprannomi, redatte da Mariolina Bitonti. In Faeta 2007, pp. 138-140.
[1982] L’iniziativa cuneese (Demichelis 2003) venne promossa dall’Istituto Storico della Resistenza in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura e il Museo Civico, mentre quella biellese (Trivero 2006) fu realizzata per iniziativa della Commissione Cultura del Comune di Pettinengo.
[1983] Per ragioni di omogeneità di trattamento non vengono qui considerati i contributi relativi ad altri notissimi quanto ‘eccentrici’ amateur come Ruskin, Verga o Mollino.
[1984] Dagrada et al. 2007. Segnaliamo qui che il più noto di quegli autori è stato involontario protagonista di una curiosa monografia (Pillitteri et al. 2012) pubblicata dalle Edizioni Spirali, un marchio della società The Second Renaissance dotata, per proprio riconoscimento, di “una specificità su scala planetaria, che la distingue nettamente (…) da ogni altra” http:// www. thesecondrenaissance.com/ chi_siamo.php [28 12 2016].
[1985] Roberto della Torre, Alessandro Oldani, Italo Pacchioni: profilo biografico. In Dagrada et al. 2007, pp. 163-168.
[1986] Tamassia 2005. Già nel 1975 la Sezione culturale del SICOF aveva ospitato la mostra Mondo contadino del ‘900: fotografie di Lodovico Pachò.
[1987] Bonazza 2006, a cui fece seguito Longobardi 2008 che aveva utilizzato nel titolo (forse inconsapevolmente) un qualificativo comunemente riferito a Von Gloeden; ultima in ordine di tempo la sintesi monografica curata ancora da Carlo Bonazza (2012) scegliendo come titolo quello di una nota fotografia di Andreis del 1932. Allo stesso studioso si doveva anche la presentazione del lavoro di un altro fotografo attivo in Maremma come Adolfo Denci (Bonazza 2004), a proposito del quale si veda anche il sito dell’ Archivio Storico Foto Denci 1905-1944 curato dal pronipote: http://www.fotodenci.it/index-intro.htm [31 01 2017].
L’attenzione per l’opera di Andreis era stata sollecitata dalle ricerche condotte dalla Scuola di Specializzazione in beni storico artistici dell’Università di Siena in preparazione della mostra Arte in Maremma nella prima metà del ‘900, (Grosseto, sedi varie, 26 novembre 2005 – 12 febbraio 2006), a cura di Enrico Crispolti, Anna Mazzanti, Luca Quattrocchi, Giovanna Ginex, Lorenzo Giusti. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2005. La prima effettiva riscoperta si era però avuta nel 1994 con la mostra antologica che si tenne a Lattaia Felice Andreis fotografo, curata da Daniele Cariani e Gianni Cacciarini.
[1988] Buscaroli et al. 2006. Il fondo più importante tra quelli conservati è certamente quello di Pietro Poppi – Fotografia dell’Emilia, per il quale si rimanda a Frisoni 2015, ma vanno segnalati anche quelli di Antonio Brighetti e di Enrico Fantini.
[1989] Guadagnini et al. 2009. Parte della produzione di questo autore era già stata presentata in Matacena 1980.
[1990] Lelli Mami 2009; per la precedente edizione si veda Benassati et al. 1994. Una parte della sua produzione relativa a Cesenatico è stata presentata in Gnola et al. 2013, a sua volta frutto di un ulteriore ritrovamento familiare.
[1991] Proprio il ricorso a elaborate tecniche di stampa connotava il lavoro di un amateur siciliano attivo prevalentemente negli anni Trenta del Novecento, in precario equilibrio tra iconografia modernista e trattamento tardo pittorialista o – forse meglio – pittorialista in ritardo, anche ideologicamente. La monografia che Dario Reteuna (2008) ha destinato a Filippo Cianciàfara Tasca di Cutò si caratterizzava per una scelta narrativa in cui tutto si teneva; organizzata per paragrafi dagli spiritosi ‘titoli’ che non di rado si presentavano come laboriose sinossi quasi coincidenti con lo stesso corpo dei testi. Se ne forniscono qui due interessanti esempi: “Dopo gli antichi sguardi di Eugène Sevaistre, Giorgio Sommer, Robert Rive, Brogi, Interguglielmi, Incorpora, Alinari, etc., si fa strada la generazione siciliana di Giovanni Verga, Luigi Capuana, Giovanni Crupi, Wilhelm von Gloeden, Mauro Ledru, Giuseppe Bruno, Gaetano D’Agata, Angelo Maltese, Biagio Licari, Schuler, etc.” e anche “Giuseppe Tomasi di Lampedusa invidia i successi artistici del cugino Cianciàfara, e allora si mette a scrivere Il Gattopardo. Conclusioni”. Altre immagini di questo amateur sono state pubblicate in Riccobono et al. 2010.
[1992] Bonaccorso et al. 2010. Il fondo – donato da Nicoletta Leonardi all’Archivio Fotografico Toscano di Prato (Leonardi 1993) – è stato condizionato e catalogato sulla base di una convenzione sottoscritta nel 2008 tra l’Archivio e l’NGV – Sezione di Catania ed ora disponibile online http://fondoponte.aft.it/fondoponte/temi.jsp [01 02 2017].
[1993] Il Fondo Costa, attualmente di proprietà dell’ISRE, era stato acquistato dall’Assessorato Regionale al Turismo della Sardegna alla fine degli anni Sessanta. Allo stesso Istituto appartengono anche le lastre fotografiche realizzate dal farmacista nuorese Raffaele Ciceri quali parte della donazione fatta da Agostino Murgia nel 2008; a Ciceri, tra i protagonisti de Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, venne poi dedicata una mostra con catalogo (Murgia et al. 2011), integrando le collezioni dell’ISRE con le stereoscopie di proprietà delle Edizioni Illiso, editrici del volume.
[1994] Analoghe considerazioni potevano valere anche per la produzione – certo quantitativamente più ridotta e circoscritta – di fotografi amatoriali attivi in altre parti d’Italia come l’abruzzese Pietro di Rienzo, per il quale si rimanda a Rak 1997; Sensi 2007. Gli stessi luoghi, e circa negli stessi anni, erano frequentati anche da Thomas Ashby, cfr. Angelo Caranfa, Alta Valle del Sagittario. In Tordone 2011, pp. 201-204.
[1995] Maccaferri et al. 1986; Barberi 1992; Brel 2004; Brocherel 2007. Si vedano ora anche Mancini 2008; Benedetti 2010.
[1996] Alessandra Miletto, “Sono nato a Cormaiore..”. In À la cour du Géant 2007, pp. 13-20, in cui opportunamente usava il termine “raccolta” invece che fondo, mentre Peyrot (cfr. nota successiva) , adottava quello di “collezione.
[1997] Enrico Peyrot, Courmayeur e il Monte Bianco nella collezione fotografica di Jules Brocherel, ivi, pp. 21-30.
[1998] Laudisa 2010; il testo della curatrice ripercorreva la biografia del pubblicista segnalandone le prime attenzioni per l’etnografia e per il patrimonio archeologico e artistico salentino. L’accesso a questo importante repertorio era supportato da un indispensabile Indice dei luoghi e delle cose notevoli a cui si aggiungeva la bibliografia degli scritti di Palumbo, ai quali nella più parte dei casi era legata la sua produzione fotografica.
[1999] Cavanna et al. 2005a; Id.. 2011b; Passoni 2011.
[2000] In ciascun volume ai brevi testi introduttivi faceva seguito una selezione di fotografie con brevi note di commento che fornivano anche, ove possibile, il titolo originale e la data (non le specifiche tecniche). Purtroppo le immagini in molti casi erano stampate a doppia pagina, con il malaugurato esito di rendere poco intellegibili proprio quegli elementi che si intendevano valorizzare. Ciononostante si trattava di un’impresa con lodevole intenti divulgativi, con il merito ulteriore di far conoscere autori poco noti al di fuori dell’ambito specialistico, come Mario Piacenza (Mantovani 2007), o strettamente locale, come i fratelli Peyrot (Fabbrini et al. 2009), testimoni della cultura fotografica delle valli valdesi, già oggetto di una prima ricognizione generale pubblicata in formato CD-ROM (Ballesio et al. 2006) contenente un testo di inquadramento storico e un percorso cronologico tematico di organizzazione delle immagini presentate, ciascuna dotata di una specifica scheda descrittiva.
[2001] Bergaglio et al. 2006. Ricordiamo qui che per imposizione della committenza non poterono essere considerati e studiati i materiali conservati in altre collezioni pubbliche e private già individuate. Nel 2008, in occasione dell’Anno Internazionale del Pianeta venne realizzata una mostra di paesaggi di Negri (Barbano et al. 2008), con stampe tratte dai negativi originali, nell’ambito di un progetto che vedeva la collaborazione degli studenti di due scuole superiori casalesi chiamati a loro volta a realizzare fotografie di analogo soggetto.
[2002] Cavanna, Quoi? La Photographie ovvero la carriera di un dilettante fotografo. In Bergaglio et al. 2006, pp. 15-29.
[2003] Barbara Bergaglio, Una storia infinita, ivi, pp. 31-35. A testimonianza di quella scarsa attenzione basti qui ricordare la scomparsa di fotografie e documenti pubblicati a suo tempo nella monografia curata da Cesare Colombo nel 1969 come di beni strumentali e immagini che erano stati catalogati alla fine degli anni Ottanta del Novecento.
[2004] Per le specificazioni tecniche si veda Cavanna 1992a.
[2005] Maggia et al. 2004. Nella discussione della sua attività alpinistica si era invece impegnato Pramotton 2006.
[2006] Per Fino cfr. Cavanna 2010a, mentre per Carbonieri si rimanda al catalogo della mostra tratta dal fondo acquisito dal Fotomuseo Panini di Modena nel 2004 (Dall’Olio 2011b), “composto per un quinto da diapositive stereoscopiche e da numerose e rare autocrome”.
[2007] Dall’Olio 2012. Parte di quelle opere sono ora confluite in una più ampia esposizione intitolata a Il pittorialismo italiano e l’opera fotografica di Peretti Griva: dalle collezioni fotografiche del Museo Nazionale del Cinema, catalogo della mostra (Torino, Mole Antonelliana, 8 febbraio – 8 maggio 2017), a cura di Marco Antonetto, Dario Reteuna. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2017. Sempre a Torino gli era già stata dedicata una mostra con stampe provenienti da diverse collezioni private (Danna Leonardo 2004).
[2008] Cavanna 2005b. La sintetica scheda catalografica di ciascuna stampa comprendeva anche gli eventuali riferimenti a mostre e pubblicazioni. Si veda ora Valentina Varoli, Il fotografo al lavoro: gli album di Cesare Giulio (1890-1946), “RSF. Rivista di studi di fotografia”,4 (2018), n. 7, pp. 8-27.
[2009] Si veda ora Erica Bassignana, I “drammi d’oggetti” nelle fotografie di Italo Bertoglio, tra avanguardie artistiche e comunicazione pubblicitaria, “RSF – Rivista di studi di fotografia”, n. 3 (2016), pp. 50-73.
[2010] L’Associazione per la Fotografia Storica di Torino nacque il 23 dicembre del 1996 per iniziativa di alcuni collezionisti allo scopo di divulgare e promuovere la conoscenza e lo studio della fotografia storica e dei suoi protagonisti, con una attenzione particolare ma non esclusiva per gli autori operanti in Piemonte. Oltra a quelle già citate ricordiamo le mostre di Marco Amadio Levi (Mulatero 2010) e di Osvaldo Giachetti (Danna 2012). La qualità degli interventi promossi dall’Associazione si può misurare per confronto con altre iniziative quali la mostra su Aldo Colonna (Weber 2004), priva di interesse storico e di significato critico.
[2011] Crediamo invece fosse una lacuna importante l’assenza di una voce a lui intitolata in Lenman et al. 2008.
[2012] Cavalli 1980. In realtà una prima occasione fu la Mostra retrospettiva di Giuseppe Cavalli, mostra personale di Mario Giacomelli, che si tenne a Senigallia, Palazzetto Baviera, 7-15 settembre 1963, a cura del Comune e dell’Azienda di soggiorno.
[2013] Russo 1998. Sono di quegli anni anche la mostra triestina delle sue marine (Cavalli 1998) e la prima monografica londinese (Cavalli 2002), con un catalogo stampato con eccezionale finezza grafica, come d’altronde pretendono le delicate fotografie di questo autore. A quella farà seguito dieci anni dopo l’esposizione alla Estorick Collection of Modern Italian Art del 2012, con stampe appartenenti alla collezione di Massimo Preltz Oltramonti (cfr. Antonella Russo, Viewpoints: Italy in Black and White. Photographs from the Prelz Oltramonti Collection. Milano: Skira, 2005) ora in parte confluite per donazione alla Tate Modern e presentate nella mostra del 2015 Italian Modernist Photography insieme con fotografie di sodali di Cavalli quali Veronesi, Camisa e Branzi, per la cura di Simon Baker ed Emma Lewis.
[2014] Una nuova mostra venne fatta a Lucera (Trincucci 2004), mentre nel 2006 – con un certo ritardo – venne realizzato un “omaggio” di diversi autori dauni alle suggestioni offerte dalle immagini di Cavalli (Apollo 2006), tra cui si segnalano le canzoni a firma dello stesso curatore presentate in una “canora presentazione – spettacolo” al Teatro dell’Opera San Giuseppe a Lucera; un “tipo di affabulatrice manifestazione, intrinsecamente culturale più che solo di gradevole e gradito intrattenimento” di cui fu “fiero sostenitore” il primo cittadino. Cfr: http:// www.lucerabynight.it/ zoom.asp?id =2158&Unesco, _La_Giornata_ Mondiale_del_Libro_ ricorda_Cavalli [ 24 10 16].
[2015] Mi riferisco alla mostra alla Galleria San Fedele di Milano (Madesani 2004) che si affidava all’autorevolezza degli studi precedenti per non affrontare le questioni poste dalla “ricostruzione filologica dell’opera di questo grande protagonista della fotografia e dell’arte italiana del Novecento” (pp.n.n.), preferendo semmai porre l’accento sulla “sacralità universale” di quelle immagini. Restiamo però dell’opinione che un minimo di filologia (e di conoscenza delle lingue straniere) avrebbe evitato di inciampare in una incerta lettura del titolo della n. 511 A del 1943, restituito in catalogo come Raising (raccolta/ accrescimento, in inglese) senza tener conto del fatto che la fotografia rappresentava un grappolo d’uva (raisin, in francese).
[2016] Cavalli et al. 2006. Le opere esposte provenivano dall’Archivio Giuseppe Cavalli di Roma. Ricordiamo che alcuni anni prima i figli del fotografo, Daniele e Mina, avevano donato 179 stampe al Museo Comunale d’Arte Moderna e della Fotografia di Senigallia, che ne aveva disposto la catalogazione e la digitalizzazione, presentandole poi in una specifica mostra (Cavalli et al. 2007). A Daniele Cavalli si deve poi anche un piccolo volume realizzato in occasione del cinquantenario della morte del padre (Cavalli et al. 2011), in cui vennero pubblicate dodici immagini realizzate tra il 1945 e il 1961, corredate da approfondite schede critiche di Cesare Colombo, autore anche dell’audiovisivo Cavalli: il suo tempo, la sua eredità, proiettato a Pesaro il 29 ottobre 2011 in occasione della presentazione del volume.
[2017] L’attenzione per i testi critici e i carteggi della generazione di fotografi cui apparteneva Cavalli era stata in quegli anni particolarmente sviluppata dall’Istituto Superiore per la Storia della Fotografia diretto da Paolo Morello con le monografie di Fulvio Roiter, 2002 (con Naomi Rosenblum), Alfredo Camisa (2003), Piergiorgio Branzi, 2003 (con Sandra Phillips) e Mario de Biasi (2003), mentre nel 2004 Francesca Bertolini avrebbe curato per lo stesso Istituto gli Scritti scelti 1953 – 1983 di Paolo Monti.
[2018] Scriveva infatti Giacomo Daniele Fragapane, Il falso problema della forma. Cavalli teorico della fotografia. In Madesani 2009, “Da una lettura attenta della sua produzione critica rimane dunque la sensazione di un nodo per certi versi irrisolto. Emerge il ritratto di un autore – e, per quanto concerne l’oggetto di queste note, di un teorico – sostanzialmente scisso tra la sua idea della fotografia (che è il frutto della sua concezione dell’arte, e che risente a sua volta dell’esigenza pressante di un riconoscimento di ‘artisticità’ della fotografia che, in Italia, tardava a venire) e la sua prassi, la sua conoscenza profonda e personalissima della tecnica fotografica, di cui si comprende, o spesso solo si intuisce, quanta importanza egli attribuisse.”
[2019] Musto 2006; Musto 2007. L’anno successivo venne presentata al MuVIM di Valencià la mostra Giuseppe Pagano arquitecto y fotógrafo, coerentemente formata da 145 fotografie da cui “emerge un fiel retrato de una época y de un paisaje.” In quella occasione venne pubblicato il volume Giuseppe Pagano: Vocabulario de imágenes (De Seta 2008).
[2020] Analoga, scarsa attenzione per questo dato aveva caratterizzato anche la monografia curata da De Seta (1979) di cui questa tesi si proponeva come una modesta chiosa priva di elementi di novità.
[2021] La studiosa richiamava il destino editoriale delle fotografie di Casa Miller pubblicate su “Domus” nel 1938 in modo così difforme dalle richieste di Mollino da far smarrire addirittura il significato del progetto.
[2022] Rovati 2006; il titolo molliniano qui ripreso dall’autrice era a sua volta una citazione del dipinto di Carlo Carrà del 1917 e sarebbe stato riutilizzato, con variante al plurale, in Comba 2014; in altra accezione e contesto è poi stato adottato anche da Mimmo Jodice, Isabella Pedicini, La camera incantata. Roma: Contrasto, 2013, nella collana “Lezioni di fotografia”, qui in riferimento alla camera oscura.
Corre qui l’obbligo di ricordare anche altre iniziative editoriali a proposito di Mollino fotografo, quali Guglielmi et al. 2008, che si segnalava specialmente per la gustosa introduzione di Antonio Tateo, il quale a proposito del “surrealismo delle immagini di Carlo Mollino” poteva scrivere che “consentì alle teorizzazioni delle avanguardie di penetrare nella sua mente [e] diede l’avvio ad un capovolgimento della concettualità fotografica che tutti si auspicavano, ma che nessuno aveva il coraggio di proporre.” (10) Dallo stesso testo si poteva inoltre apprendere che “per meglio esprimere le sue posizioni sulla fotografia da [sic] vita nel 1949 all’almanacco dal titolo: “Il messaggio dalla Camera Oscura”” (10) ma anche che “Il Gruppo la Bussola” era “del 1942 (…) con sede a Rimini” (11).
[2023] Ferrari 2006. In concomitanza con la mostra venne riedito il Messaggio dalla camera oscura (Mollino 1949).
[2024] Analoga metodologia critica ed espositiva era stata utilizzata nel coevo Album su Federico Vender (Maggi 2006).
[2025] Ferrari et al. 2009. A conferma di questa declinazione mercantile il comunicato stampa sottolineava il fatto che “l’elitario architetto non produsse mai alcuna edizione delle sue immagini e firmò nella sua vita meno di 40 fotografie copie uniche spesso ritoccate”, dove era proprio la presenza del ritocco a certificare ed accrescere l’unicità dell’esemplare.
[2026] “Un Messaggio dalla Camera Oscura [Matt 2012] is the previously unpublished collection of his Polaroid work. It doesn’t translate to anything close to racy (“A Message from Camera Obscura”), but based on the fact the content of the book is largely statuesquely posed prostitutes it makes up for it elsewhere. Mollino is Terry Richardson before the Internet and this book is his gift to all of us from the grave.” http://coolmaterial.com/media/carlo-mollino-un-messaggio-dalla-camera-oscura/ [22 11 2012]