Storia con fotografie  (2005)

in P. Cavanna, a cura di, Dalla pittura al museo.  Vittorio Avondo e la fotografia. Torino : Fondazione Torino Musei-GAM, 2005, pp. 12-55

 

 

“La parola ha qualcosa da dire

a colui che parla.”

Giorgio Manganelli, 1987

 

 

 

 

1 – L’Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei

 

Da raccolta ad archivio: piccola storia delle fotografie al Museo Civico

 

L’attenzione italiana per la fotografia storica e contemporanea si consolida negli ultimi decenni del Novecento con la realizzazione di ricerche, progetti editoriali ed espositivi che sempre più sottendono un approccio sistematico e rigoroso, ben evidenziato anche dal ricco dibattito intorno ai temi della catalogazione e conservazione del patrimonio fotografico.[1] Dopo le pionieristiche imprese di Silvio Negro e Lamberto Vitali, ancora negli anni Cinquanta[2], una delle prime iniziative storicamente rilevanti in tal senso fu la mostra dedicata ai Fotografi del Piemonte promossa dai Musei Civici di Torino[3] nel 1977. Fu quella la prima occasione per affrontare in modo innovativo e scientificamente accorto il discorso sulle origini della fotografia in questa regione e, più specificamente, sui destini del  patrimonio fotografico storico anche dei Musei Civici torinesi, in particolare del Fondo D’Andrade, poi proseguito nei decenni successivi con più sporadiche incursioni alternate a importanti indagini, inserite in più ampie e sistematiche ricostruzioni storiografiche, come quella condotta da Marina Miraglia[4] nel 1990, sino alla realizzazione del progetto di catalogazione analitica del fondo di stampe Gabinio[5] e ad una prima ricognizione sistematica[6] dei ricchi ed eterogenei fondi che costituiscono il patrimonio museale attuale, condotta da chi scrive nell’anno 2000,  che ha consentito di delinearne la ricchezza qualitativa e quantitativa in maniera esauriente sebbene non esaustiva, essendo quella ricognizione limitata ai soli esemplari conservati presso l’Archivio fotografico (AFFTM) ed i depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna.

I primi materiali fotografici entrarono verosimilmente nel Museo torinese già negli anni immediatamente successivi alla sua istituzione (1863), sotto forma di illustrazioni fuori testo di pubblicazioni artistiche, come i preziosissimi fascicoli pubblicati da Benjamin Delessert a Parigi nel 1853-1855 Notice de la vie de Marc Antoine Raimondi, ma anche di album fotografici dedicati all’illustrazione della città, come Turin ancien et moderne di Henri Le Lieure, 1867 (forse pervenuto per il tramite di Pio Agodino, primo Direttore del Museo e tra i redattori dell’album) così come alla riproduzione di opere d’arte contemporanea, sia in forma occasionale ed episodica legata a scambi di informazioni tra artisti e responsabili museali o a richieste di perizia e proposte di acquisto[7], sia in forma sistematica, frutto di precise operazioni editoriali quali l’album che Cesare Bernieri dedicava a L’opera pittorica di Massimo D’Azeglio, ancora del 1867. Fu questo un esempio  precoce dell’applicazione di questa tecnica alla riproduzione (e quindi alla diffusione e allo studio oltre che alla celebrazione) delle opere d’arte in un contesto come quello torinese particolarmente attento a questo ordine di problemi, come testimonia l’articolo che Carlo Felice Biscarra dedicò alla tecnica della Fotoglittica (Biscarra, 1870), vale a dire della tecnica di stampa meglio nota come woodburytipia (dal nome dell’inventore) che consentiva di ottenere stampe tipografiche di grande qualità dalle matrici fotografiche e che il fotografo Le Lieure “procuratasi testé con ingente somma (…) acquistando per tutta l’Italia il brevetto della recente invenzione (…) adoperata in Francia con esclusiva proprietà dal rinomatissimo editore Goupil, che vi ha consacrato ben mezzo milione di lire.”

Come si vede il tema era quello delle arti applicate all’industria, ben connesso alle questioni che erano state poste alla base della stessa istituzione del Museo Civico.

Ulteriori importantissimi documenti sono quelli connessi ad un altro degli ambiti canonici di applicazione della fotografia del XIX secolo, quello dell’architettura, in particolare in relazione con le prime iniziative postunitarie di riconoscimento e tutela dei ‘monumenti’ che coinvolsero – in relazione ai lavori della Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità – lo stesso Biscarra, Crescentino Caselli e Vittorio Avondo, i cui  beni pervennero al Museo per legato testamentario, ma anche Alfredo d’Andrade, il cui fondo – ricchissimo di fotografie – perverrà ai Musei nel 1931[8].

Alla fine del XIX secolo il dibattito sulla necessità della istituzione di archivi fotografici o Musei documentari fondati su di un utilizzo massiccio della fotografia era particolarmente pressante: alla Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tenne a Torino nel 1890 molti progetti e realizzazioni furono documentati fotograficamente,  mentre solo due anni più tardi si ebbe l’istituzione del Gabinetto Fotografico Nazionale con il compito di eseguire le riproduzioni del “materiale artistico mobile e immobile esistente nel Regno” (Brera, 2000, p. 14) e nel 1897 Giovanni Vacchetta, futuro direttore della sezione di Arte antica del Museo, elaborava per il Circolo degli Artisti di Torino un progetto di catalogazione del patrimonio piemontese  proponendo l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, che nella sezione V doveva ospitare “negative fotografiche”, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni. I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto ridotto infine alla formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.” (Albanese, Finocchiaro, Pecollo, 1990, p. 141) L’iniziativa non ebbe alcun seguito  sebbene la Sezione di Architettura del Circolo raccogliesse negli anni le fotografie presentate alle diverse esposizioni, poi cedute al Museo Civico nel maggio 1900.

A questa data esso era già certamente dotato di un piccolo nucleo di documentazione fotografica eterogenea, cui si era aggiunta la sistematica documentazione della sezione di Arte antica realizzata per la pubblicazione della cartella del 1905 (Museo Civico, 1905) in parte utilizzate anche da Pietro Toesca nel 1911, l’anno della grande esposizione del cinquantenario dell’Unità, e poi ancora nel primo volume della collana “Attraverso l’Italia” dedicato al Piemonte che il Touring Club Italiano pubblicò nel 1930.

Nel 1913, a tre anni dalla morte di Avondo, Vacchetta venne nominato Direttore della “Sezione Arte Antica e Arti Applicate alla Industria” del Museo Civico, per la durata di sei anni, mentre ad Enrico Thovez fu affidata la Pinacoteca moderna. Tra i primi atti di Vacchetta vi fu proprio l’istituzione di un primo nucleo di archivio fotografico con l’acquisizione  delle 463 lastre commissionate all’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo in occasione della realizzazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911, e successivamente di altre 126 riprese eseguite dagli Alinari nel 1912. (Albanese, Finocchiaro,  Pecollo, 1990, p. 193). Pochi mesi prima, il 30 gennaio,  Lorenzo Rovere aveva proposto alla SPABA di “raccogliere colla cooperazione di tutti i soci le fotografie dei monumenti d’arte e di antichità del Piemonte costituendo nella società un archivio fotografico.”[9]

Secondo la testimonianza di Vittorio Viale (Viale, 1933, p. 4) in questo periodo il Museo disponeva di circa 600 “lastre”, che costituivano “il maggior complesso di documentazione fotografica, che di monumenti e di oggetti d’arte del Piemonte sia liberamente a disposizione degli studiosi”, vale a dire di un primo nucleo non formalizzato di fonti fotografiche per lo studio del patrimonio artistico e architettonico piemontese, ben distinto in termini di funzioni e soprattutto di accessibilità dal pur ricco archivio che si stava costituendo presso la Regia Soprintendenza ai Monumenti del Piemonte, nuova (1916) definizione istituzionale dell’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti diretto da D’Andrade, attivato nel 1891.

Nel 1930 Vittorio Viale venne nominato nuovo Direttore. Dopo aver richiesto invano al Podestà l’autorizzazione all’acquisto di attrezzature fotografiche per poter documentare le collezioni senza più essere “alla mercé dei fotografi di professione”[10] il Direttore formalizzava l’istituzione dell’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino (1931) con una dotazione annua di L.8.000, con la quale avviava un’ulteriore campagna di riproduzione dei “principali quadri e i più interessanti oggetti del Museo torinese” (Viale, 1933, p. 5) orientando la propria attenzione al patrimonio museale esistente piuttosto che alla estensione della conoscenza del territorio,  confermando necessariamente le scelte che già avevano caratterizzato le precedenti iniziative di Avondo e la campagna realizzata da Augusto Pedrini per il volume di Mario Soldati, Galleria d’Arte Moderna del Museo Civico di Torino, edito nel 1927 ancora sotto la direzione di Lorenzo  Rovere.

Nel 1932 Viale presentava poi al Congresso SPABA di Cavallermaggiore la propria proposta di costituzione di un Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” (riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Vacchetta e Rovere, pur senza citarle) allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle Società di Studi, a rischio di dispersione. Nella stessa occasione invitava i soci a donare “le lastre, anzi le belle lastre, che ogni anno qui fra noi, studiosi e fotografi, eseguiscono per le loro ricerche archeologiche o artistiche.” (Viale, 1933, p. 5). Le sollecitazioni del Direttore non restarono senza risposta se negli anni immediatamente successivi confluirono nell’AFFTM le fotografie raccolte dalla SPABA (nel corso di una più complessa operazione destinata a preservare il patrimonio culturale della Società), quelle prodotte in occasione della Mostra della SS. Sindone, 1931, per iniziativa del conte Lovera, e verosimilmente anche quelle realizzate da Albert Erich Brinkmann per il volume Theatrum Novum Pedemontii. Düsseldorf: L. Scwann, 1931. A queste si aggiunsero progressivamente le riprese commissionate per le grandi esposizioni promosse da Viale quali Gotico e Rinascimento in Piemonte, Torino 1938-1939 e Vercelli e la sua provincia dalla romanità al fascismo, Vercelli 1939.

Nel 1940 l’AFFTM si arricchiva di parte dell’importante Fondo Gabinio, sebbene la totalità delle lastre acquisite fosse sottoposta a drastica selezione da parte dello stesso Viale, ancora insensibile agli autonomi valori espressivi fotografia,  ed anche il decennio successivo si presenta ricco di importanti acquisizioni (Nigra: 1940-1942; Rovere: 1950; Celanza: 1951) mentre nei primi anni Sessanta vennero commissionate quasi settemila riprese in vista della realizzazione della Mostra del Barocco piemontese, 1963.

Alla fine del mandato di Viale (1965) il patrimonio complessivo dell’ AFFTM era valutato in più di ventimila fototipi, ai quali si aggiunsero verso la fine del decennio (1968) i circa 6.500 negativi e positivi di Mario Gabinio pervenuti con la donazione Marcellino-Alessio, più altri tremila fototipi provenienti da commesse e doni diversi, non specificati dalle fonti (Mallè, 1970). Nei decenni successivi e sino ad oggi l’accrescimento del patrimonio fotografico è rimasto costante, sebbene le  commesse prevalgano sulle donazioni e i lasciti, tra cui meritano di essere segnalate le fotografie di Francesco Aschieri donate dopo il 1984 dalle eredi del fotografo, l’acquisto di un ulteriore importante nucleo di stampe di Mario Gabinio (1991) e specialmente l’acquisizione del notevolissimo fondo di Stefano Bricarelli, autorevole esponente della fotografia artistica italiana nel periodo compreso tra le due guerre mondiali (1997). In quello stesso anno venne acquisito anche l’importante l’archivio di studio di Augusta Lange, mentre nel 1998 entrarono a far parte del patrimonio dei Musei Civici venti stampe di Vittorio Sella, tra i più importanti fotografi di montagna tra XIX e XX secolo.

 

 

2- Derive e approdi

 

Le vicende che hanno portato alla conformazione e consistenza attuale del patrimonio fotografico dei Musei civici torinesi hanno lasciato tracce evidenti e ben riconoscibili nella sua stessa strutturazione archivistica: così se la maggior parte dei fototipi novecenteschi (negativi e positivi) risultano sistematicamente compresi in serie coerenti, riferibili a specifici fondi tematici, ad acquisizioni e lasciti, i materiali fotografici ottocenteschi presentavano e in parte presentano ancora improprie forme di aggregazione, che sono frutto di una sequenza di accorpamenti e smembramenti successivi che la tradizionale, storica disattenzione per il patrimonio fotografico, sino ad anni recentissimi ritenuto puro materiale di consumo, non sembra sufficiente a giustificare.

In particolare la ricognizione effettuata nell’anno 2000 ha fatto emergere la presenza di importanti serie di fotografie di architettura, riferibili alle campagne documentarie piemontesi di Berra ed Ecclesia del 1882 ed alla Prima Esposizione di architettura del 1890, suddivise impropriamente in fondi diversi così come è accaduto per altri documenti fotografici coevi, in particolare di documentazione delle opere d’arte, verosimilmente riconducibili ai primi e sostanzialmente ignoti momenti della formazione dello stesso patrimonio fotografico del Museo, per la gran parte riferibili agli anni della direzione Avondo (1890 – 1910), ma solo in piccola parte archiviati in forme tali da identificarne con sicurezza la provenienza, [11] mentre proprio la loro cronologia, le analogie tematiche e la presenza di sporadici indizi documentari sollecitavano la necessità di porli in relazione con le stampe fotografiche costituenti il fondo Avondo vero e proprio (per la cui descrizione analitica rimando al repertorio in catalogo), a sua volta suddiviso tra Archivio fotografico, Fototeca e depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna.

La presenza di un nucleo di ben precisa e definita paternità collezionistica, se non di chiara provenienza costituiva però l’elemento catalizzatore di ulteriori problemi: verificata rapidamente l’impossibilità di una ricostruzione documentale delle vicende di formazione e acquisizione del Fondo così come delle ragioni della sua disseminazione in (almeno) tre sedi, si poneva il problema della definizione della sua (ipotetica) consistenza originaria, della sua integrità e completezza. Se i numerosissimi ritratti in formato carte de visite e le vedute di località svizzere dovevano necessariamente avere una provenienza privata, la presenza di un ridotto numero di immagini di Issogne non poteva che essere indizio (e residuo) dell’importante e nota (Barberi, 1999) campagna commissionata ad Ecclesia, di cui il Fondo in sé conserva però scarse tracce, mentre nel patrimonio bibliotecario museale risultano presenti ben tre esemplari dell’album[12] che ne fu il frutto (in due diverse edizioni) e sempre riferibili ad Avondo, e ancora di Ecclesia, sono i due gruppi di Fotografie del Castello Feudale e del Borgo Medioevale di Torino, realizzate nel 1884 e riferibili piuttosto ai diversi ruoli e incombenze pubbliche di Avondo, cui pare di poter attribuire anche la responsabilità della presenza, in fondi diversi, delle fotografie presentate alla già citata Esposizione di Architettura del 1890[13].

Che dire poi della provenienza di altri nuclei di fotografie quali le anonime, bellissime immagini di campagna romana, pervenute anni orsono senza ulteriori indicazioni da Palazzo Madama, mai poste in relazione col nostro ma la cui genealogia culturale orientava inequivocabilmente e quasi obbligatoriamente agli anni romani di Avondo?

Alla sua figura di artista, collezionista e Direttore del museo erano inoltre riferibili le numerose  riproduzioni di opere d’arte, specialmente dipinti ottocenteschi e gli esiti della citata campagna documentaria per la pubblicazione del 1905, di cui si erano conservate alcune decine di stampe originali. Tutti indizi sufficienti a imporre con la dovuta evidenza la necessità di indagare più a fondo l’articolazione e la consistenza di questi materiali verificando la possibilità di ricondurli alla presenza e al ruolo di Vittorio Avondo, alla sua biografia artistica e professionale, procedendo all’identificazione delle vicende e degli elementi costituenti l’archivio per giungere a delinearne l’identità quale strumento ulteriore – ma imprescindibile – di tutela attiva ma anche di conoscenza del responsabile della sua costituzione, così come delle diverse forme della cultura fotografica, dell’agire storicamente con la fotografia; di come e per quali scopi venisse utilizzata nei personali percorsi di formazione e nella definizione e gestione di un museo di “arti applicate all’industria”; di come poi queste sue testimonianze venissero abbandonate e quindi ancor più che dimenticate: confuse e lasciate (andare) alla deriva.[14]

 

3- Artista e gentiluomo

 

“F: Firenze – Alinari – Via Nazionale 8, Roma, via del Corso 90 – fotografi.” Nello scorrere i superstiti taccuini di Avondo[15] questo è il solo riferimento presente. Certo non irrilevante, sebbene piuttosto scontato per un cultore delle arti belle quale lui fu, ma specialmente sorprendente considerando che della produzione del prestigioso studio fiorentino quasi non si trova traccia  tra i numerosi ed eterogenei documenti fotografici in diversa misura a lui riferibili.

I ritratti intanto, che scandiscono per rare tappe tutto l’arco della vita sua[16] a partire dal primo bellissimo, realizzato in due versioni (FVA064, FVA063) da Carlo Duroni[17] intorno al 1860  congiuntamente a quello dell’amica Marie Dunner (FVA0352), cui Avondo – in studiatissima posa di ‘artista da giovane’, forse appena tornato da Roma , doveva essere particolarmente affezionato se lo scelse per Telemaco Signorini[18] in quella consuetudine di scambio di carte de visite che costituiva uno dei gesti sociali più diffusi in ambiente borghese nei decenni immediatamente successiva alla seconda metà dell’800, quando la circolazione di queste immagini assurse a vero e proprio fenomeno di moda e tra le principali attività dei più noti studi fotografici (Sagne, 1994). Di circa dieci anni più tardi sono invece le due versioni di ritratto in piedi realizzate nello studio Fotografia dell’Alta Italia di Alessandro Guglielminotti nella stessa occasione in cui si fa ritrarre anche il padre Carlo (FVA032), forse a celebrazione e suggello di un evento particolare e a noi oggi non noto.

Sono riprese sostanzialmente coeve al ritratto a figura intera (FVA118) in elegante costume da “antico gentiluomo inglese” (Gribaudi Rossi 1979, p. 28; Dragone 2000, p. 120) realizzato da Giovanni Battista Berra nello studio Fotografia Subalpina, a celebrazione e ricordo dell’invito al gran ballo offerto dal duca Amedeo d’Aosta il 16 febbraio 1870, analogamente a quanto fecero moltissimi degli esponenti della nobiltà e della borghesia torinese allora presenti e le cui immagini, raccolte in un album poi donato all’ospite, ritroviamo in parte anche tra i documenti personali di Avondo, a testimonianza di legami solidi e duraturi come quello con Severino Casana, di cui si conservano sia il ritratto per il ballo, in coppia con la moglie in serissimo costume da fulmini con la scritta anticlericale “Ils ne blessent pas, ils ne sont pas du Vatican”, sia un più tardo e ufficiale ritratto da senatore del regno in una bella platinotipia dello Studio Bertieri.

La messa in scena, il tableau vivant offerto ad un pubblico più o meno ampio assumeva nella cultura dell’epoca significati diversi e non sempre per noi facilmente comprensibili e distinguibili, in elegante equilibrio tra culto esibizionistico di sé – basti pensare all’esempio clamoroso della contessa Verasis di Castiglione[19] – passione storicista e goliardia.  Riprese in studio e balli di corte certo, ma anche le feste in costume al Circolo degli Artisti e i Cavalieri del Bogo; gli orientalismi e il melodramma, gli Ordini cavallereschi, il neogotico e la riconsiderazione del medioevo: come stupirsi allora se per il Natale del 1872, nell’appena acquistato maniero di Issogne, Avondo, D’Andrade, Pastoris e i due Giacosa festeggiarono vestendo “maglie e corazze e cotte sdrucite d’uomini d’arme così, per il piacere di guardarsi assaporando nell’ondeggiar delle lanterne e del focolare lampi di realtà che li colmavano di deliziosi brividi.”[20] Un bellissimo regalo di Natale, fanciullesco e giocoso ben oltre i programmi culturali, cui per altro nessuno intendeva rinunciare, assumendo comportamenti che a noi oggi paiono inconciliabili, ma a cui vanno assegnate anche altre vicende tipiche di questo gruppo di artisti e intellettuali, quali la decorazione di poco antecedente (1866) di una sala del castello di Lozzolo, realizzata mentre intorno le cose “andavano ad magnam meretricem”[21], ma di cui possiamo ritrovare traccia anche nelle cronache intorno ai ben altrimenti fondati interventi per il restauro di Issogne (contro la teatralità di più illustri esempi francesi) e per la  realizzazione del Borgo medievale per l’Esposizione del 1884.[22]

È una trama di relazioni e amicizie che troviamo illustrata, restituita in immagine nella ricca serie di ritratti conservati nel fondo, in parte raccolti da Avondo, come allora era uso, in un album[23] tascabile di carte de visite, quasi un piccolo oggetto devozionale, un pantheon personale e affettivo le cui presenze, troppo consuete e vicine, non necessitavano di identificazione scritta: D’Andrade, a Roma nel 1862, e  Bertea,  fotografato a Parigi da Disderi tra i primi, quindi una serie di presenze per noi prevalentemente anonime, specialmente quelle femminili; oggi figure mute ma non per questo meno interessanti e significative nelle loro caratteristiche di insieme, nel loro essere rappresentazione corale di un’élite composita ma chiaramente identificabile, definita[24].

Col ritorno da Roma nell’anno della proclamazione dell’Unità Avondo avviava la propria sistematica partecipazione, anche istituzionale, alle vicende della cultura artistica torinese: da subito membro del Circolo degli Artisti,  nel 1863 venne chiamato a far parte del Giurì del nascente Museo Civico[25], nel cui Comitato direttivo siederà dal 1870, anno in cui partecipò anche ai lavori della Commissione per l’individuazione dei monumenti nazionali, segretario Biscarra, poi (1874) a quelli della Regia commissione conservatrice provinciale con Severino Casana, Ariodante Fabretti, Crescentino Caselli, Riccardo Brayda, Pietro Vayra e  Carlo Ceppi (Volpiano, 1999, p. 48). Nel 1880 venne coinvolto, nella duplice veste di collezionista e di membro della Commissione nella preparazione della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, mentre ben noto è il ruolo da lui svolto nella messa a punto del progetto per la successiva Esposizione del 1884.

Può essere fatta risalire alla fine di questo decennio l’altra rara serie di ritratti di quest’uomo di “natura altera e alquanto bizzarra” (Rossi, 1912,p. 3) che Luigi Cantù, dal 1889 collega di Avondo nel Comitato del Museo[26], realizzò nella forma della sequenza, muovendo intorno al soggetto, seduto e col sigaro tra le dita, quasi una rievocazione dei primi suoi ritratti eseguiti da Carlo Duroni, in una relazione palese di grande familiarità, lontanissima dall’ufficialità distante del suo ultimo (S48-05 fot 207), realizzato nel 1908 da Oreste Bertieri[27]: quello stesso che Thovez sceglierà per aprire la monografia del 1912.

 

4 – Motivi per ricordare

Forse è ancora troppo presto, nel 1852, perché il giovanissimo Avondo acquisti fotografie nel corso dei viaggi compiuti in Toscana al seguito dei genitori; compilerà invece degli album, con piccoli paesaggi dove “il disegno a matita, ingenuo e malfermo (…) rivela il principiante.” (Maggio Serra, 1997,p. 64). Deciderà poi, come è noto, di recarsi a Ginevra per studiare presso “l’inevitabile Calame” (la definizione è di Marziano Bernardi[28])  facendovi base almeno sino all’aprile del 1857, ma da qui compiendo numerosi viaggi: non solo brevi puntate a Torino, ma anche in Savoia e nel sud della Francia – come documentano i taccuini e le opere esposte alla Promotrice del 1856 (Signorelli, 1997,p. 25) – e forse a Parigi per l’Esposizione del 1855: viaggio mitico di cui non restano tracce documentali dirette, esplicite.[29]

“Il Fontanesi e l’Avondo avevano avuta la rivelazione [della nuova pittura di paesaggio] dalla mostra di Parigi del 1855 (…) L’Avondo visitò l’Esposizione parigina e vi conobbe la scuola del trenta: Corot, Daubigny, Rousseau, Huet, Dupré: ritornò a Ginevra sconvolto da  quella visione di un’arte più libera e vera, più profonda e potente. Non nascose al Calame la sua meraviglia; ed egli amava raccontare, sorridendo, come il Calame fosse rimasto quasi offeso da quell’entusiasmo”. Così ricorderà Thovez nel 1912, e non c’è ragione di non credergli viste le sue opportunità di frequentazione diretta, sebbene poi proprio dell’incontro con la metropoli del XIX secolo nulla rimanga: non un appunto, un piccolo disegno, una qualsiasi veduta urbana tra le sue carte; restano però ben quattro ritratti nel formato carte de visite realizzati da altrettanti studi parigini[30].

Anche di altri luoghi canonici di quei suoi anni di peregrinazioni formative restano tracce scarse o nulle, quasi tutte nell’allora diffusissima forma della stereoscopia: nessuna veduta di Ginevra risulta superstite, ma troviamo immagini dei castelli di Chillon e Thun, realizzate dal fotografo ginevrino Joseph Florentin Charnaux, ed una veduta di Losanna col campanile della cattedrale che svetta sui tetti delle case, soggetto cui sembra riferibile anche un piccolo disegno a matita compreso nel lascito ai Musei civici (inv.fl/574), oltre ad alcune vedute di Friburgo (FVA0523-25), dell’ Oberland bernese[31]e delle cascate del Reno a Sciaffusa, compresa questa  nell’importante serie di Views of Switzerland and Savoy  realizzata da  William England nel 1863, cioè in una data successiva al soggiorno ginevrino di Avondo.

E poi l’Italia: dalle montagne della Valle d’Aosta a Pisa e Firenze, quindi  Ceccano e Roma e Pompei: elementi di una serie di stereoscopie edite da Richter di Napoli che di fatto rappresentano i soli monumenti archeologici documentati nel fondo.

 

4.1 – Immagini della Campagna romana

Ammesso che il fondo ci sia pervenuto integro, sono veramente pochi i ricordi fotografici rimasti dei diversi viaggi compiuti da Avondo, che ci appare legato alla memoria delle persone piuttosto che dei luoghi. Quando la sua attenzione ne è attratta le ragioni si presentano  diverse, immediatamente artistiche, legate alla comprensione problematica ed alla restituzione sentimentale del paesaggio, al confronto col vero, all’esercizio della pittura: in questo il biennio 1855-57 si presenta cruciale.

Pur non essendo documentalmente confermata l’esperienza parigina e il conseguente “incontro sconvolgente con la pittura naturalistico-romantica dei Barbizonniers” (Maggio Serra, 1997, p. 70) è impossibile non riconoscere nell’andamento dei disegni come dei dipinti successivi a quella data l’accadere di una qualche esperienza decisiva, da collocarsi necessariamente in questo ristretto arco di tempo. Avondo è a Roma forse nel 1856, certo dal ’57 e pare rimanervi sino ai primi mesi del 1861, anno in cui entra a far parte del Circolo degli Artisti (Volpiano, 1999, p. 46) sebbene sia certa la sua presenza a Torino già all’inizio di luglio del 1860, quando incontra Telemaco Signorini reduce da Pozzolengo (Dini, 1997, p. 269) e poi ancora ad ottobre, quando effettua un prestito in denaro (Signorelli, 1997, p. 14). Primo esito pittorico dell’esperienza romana fu Effetto di mattino nella valle di Ariccia esposto alla Promotrice torinese dello stesso anno, mentre nel 1861 invierà Scirocco nella campagna romana;  a quel periodo appartengono anche Tramonto sul Teverone e Teverone, nei quali “la scelta in direzione verista appare già compiuta” (Maggio Serra, 1997, p. 70). Sono questi i primi “bellissimi studi dal vero della campagna romana” cui si riferirà Thovez nel 1912,  “mirabili per larghezza di sintesi e per economia di mezzi”,  sottolineando per primo quella sostanziale mutazione di modi espressivi che costituirà da allora un punto fermo nella comprensione critica del percorso artistico di Avondo; giudizio confermato a decenni di distanza da Rosanna Maggio Serra che ha parlato a questo proposito di “struttura compositiva e tavolozza ridotte all’essenziale”, riconoscendone la genesi proprio in quegli studi di Campagna romana da lei così attentamente studiati[32] e collocati cronologicamente in un arco di tempo compreso tra 1857 (Gruppi C, D) e 1865 (Album nn.4, 14, Gruppi F, G, H), studi che sembrano preludere, o almeno letteralmente anticipare le opere presentate nei decenni successivi, a partire dal 1866,  alle diverse esposizioni torinesi del Circolo degli Artisti e della  Promotrice delle Belle Arti, in una sequenza che pare fluire morbidamente senza soluzioni di continuità, scandita da apprezzamenti e letture che colgono la sensibilità di questa “anima intuitiva, che vibra (…) alla linea vasta della bella natura” (Mario Michela, 1880, in Di Macco, 1997, p. 49), confermando la sua capacità di realizzare opere in cui “si respira l’incanto della campagna laziale, pregna di storia e poesia secolare.” (Maggio Serra, 1997, pp. 71-72)

La loro cronologia offre spunti per considerazioni interessanti: quasi tutti i dipinti infatti sono stati realizzati a distanza di anni, di decenni anche dal soggiorno romano, confermando un’osservazione non proprio innocente di Thovez per il quale Avondo “aveva studiato così acutamente il vero, che poté concedersi il lusso di lavorar completamente di maniera, pur riuscendo spesso a  una verità maggiore di molti veristi”, seguito in questo da Marziano Bernardi che nel 1936 parlava di “rari quadretti (…)  elaborati a distanza d’anni su ricordi della campagna romana.” (1936, pp.n.n).

Si tratta certo del metodo consueto della rielaborazione in studio di bozzetti e disegni realizzati en plein air: all’Ariccia,  a Cervara, lungo il corso del Tevere, al Casale della Crescenza e così via, ma è ancora Thovez a ricordare, sempre nel 1912,  come “lasciando Roma [dove Avondo aveva creato “forse le sue cose più belle”] fece, come era uso fra gli artisti di quel tempo, una vendita di tutte le cose sue: i documenti più preziosi dei suoi studi dal vero andarono così in molta parte dispersi.” Dato interessante, informazione utile che potrebbe dar conto delle ragioni dell’imponente lacuna cronologica nelle testimonianze grafiche oggi note, datate o databili – come si è visto – al 1857 e al 1865, non solo escludendo così quasi l’intero periodo della sua permanenza (1857-1860) e della possibilità di praticare l’osservazione dal vero, ma confermando per converso la tradizione di una redazione dei disegni e più ancora dei dipinti condotta in forma più che indiretta.

Per comprendere la novità non solo individuale della sua pittura, di quella  sua capacità di imprimere ai “paesaggi una poesia così tranquilla [in cui] le lontananze sono così artisticamente ondulate, l’aria così diafana, l’erba così molle (…).” (Pietro Giacosa, 1870, in Signorelli, 1997, p. 18, nota 60), quella sua “lunghezza infinita di sguardo che ricerca il colore dell’aria” (Maggio Serra, 1997, p. 72) può non essere sufficiente  allora tener conto delle influenze degli artisti e delle opere incontrate tra Roma e Firenze: Nino Costa, certo, affettuosamente ricordato anche nel rifugio di Lozzolo (Dragone 2000, pp. 74-75) e già in contatto con Enrico Gamba, e poi Mariano Fortuny, a Roma dal marzo 1858, e ad alcuni artisti inglesi come G.H. Mason e Charles Coleman, di cui Avondo possedeva piccole opere[33] ma che certo non possono essere chiamati a sostenere la sua svolta espressiva.

I tempi e i modi del suo operare, così come gli esiti delle opere ci portano, ci obbligano quasi a considerare una più ampia trama di relazioni e suggestioni, a riflettere sulle conseguenze dell’incontro con i luoghi rappresentati, sullo scegliere e quasi sull’essere scelti da quel paesaggio di campagna romana che aveva attratto allora diverse generazioni di pittori[34] e che proprio in quegli anni veniva nuovamente rivelato dai più sensibili esponenti della cosiddetta Scuola fotografica romana[35], anch’essi frequentatori del Caffé Greco, come Costa, come Ippolito Caffi, tornato a Roma nel 1855 dopo aver soggiornato anche a Torino (Pirani, 2003, p. 43) e in stretta relazione di amicizia con uno dei più importanti fotografi della Scuola, il padovano Giacomo Caneva.

Non diciamo nulla di nuovo richiamando le forti intersezioni e influenze, reciproche, tra fotografia e pittura per gli artisti ottocenteschi. Ben prima delle indagini di Schwarz, delle sintesi estreme di Mollino e delle più tarde sistematizzazioni di Scharf[36], Telemaco Signorini riconosceva che “la macchia (…) nacque nel 1855 da tre artisti e non dei peggiori in  Italia, coadiuvata dalla fotografia, invenzione che non disonora poi il nostro secolo e non ha colpa nessuna se qualcuno decade in arte abusandone”[37], ed alla stessa sensibilità credo debba essere assegnata la scoperta entusiasta che Saverio Altamura di ritorno da Parigi faceva del “ton gris” di Decamps, ottenuto con “uno specchio nero che, decolorando la natura, permettere di cogliere la totalità del chiaroscuro, la macchia”[38], abbandonando la ricerca ostinata, analitica del dettaglio, analogamente a quanto andavano facendo i primi fotografi che lasciavano la precisione ottica del dagherrotipo per misurarsi col calotipo, avvalendosi di tutte le possibilità espressive e interpretative fornite dal negativo di carta e dai diversi possibili trattamenti delle carte di stampa. Già nel 1851 il critico Francis Wey in un articolo sul periodico parigino “La Lumière” aveva notato come “La photographie est, en quelque sorte, un trait d’union entre le daguerréotype et l’art proprement dit. Il semble que passant sur le papier, le mécanisme se soit animée. (…) la photographie est très souple, surtout dans la reproduction de la nature ; parfois, elle procède par masses, dédaignant le détail comme un maître habile, justifiant la Théorie des sacrifices, et donnant ici l’avantage à la forme, et là aux oppositions des tons.”[39] Molti autori francesi avevano adottato la nuova tecnica, da Le Gray a Le Secq, da Marville  a Joseph Vigier, realizzando études  che sono vere e proprie raccolte di soggetti d’après nature destinati agli artisti[40], come quelle che Louis-Désiré Blanquart-évrard pubblicava a Lille nel 1853 -54 (Jammes, 1981, p. 73).

È quella stessa attività cui si era dedicato l’ancora misterioso Firmin Eugène Le Dien[41] ma soprattutto Giacomo Caneva, a Roma dal 1839 dove aveva esercitato per alcuni anni l’attività di pittore[42] prima di passare alla fotografia, attività in cui  “allontanandosi dagli intenti ‘monumentali’ e vedutistici della fotografia dell’epoca e della ‘Scuola romana’ di fotografia in particolare – ci mostra, negli interessi al paesaggio e alla campagna romana, uno degli aspetti della sua attività, in genere poco studiato ma fra i più stimolanti del suo percorso (…) con esiti di grandissima qualità anche emotiva, confermati da numerosi altri soggetti fra loro coerenti, come studi di piante, di rocce e di fogliami, ripresi nel verde delle ville di città e nella campagna, a Castelfusano e a Ostia.” [43]

Nel 1850 Caneva pubblicava una prima raccolta dedicata a Roma in fotografia 12 Tavole per 8 scudi romani / Ogni tavola separata Otto paoli cui farà seguire nel  1855 un’altra serie di Vedute di Roma e dei contorni in fotografia. È lo stesso anno della pubblicazione del suo Della fotografia. Trattato pratico. Roma: Tipografia Tiberina, considerato il primo testo organico redatto in italiano, in cui analizzando in termini di coerenza espressiva le diverse tecniche allora disponibili riconosceva come “del contrario [al vetro] le negative su carta danno tutta la scabrezza, la ruvidità e la immensa varietà dei toni della natura. (…) E il paesaggio, i monumenti antichi, le rocce ecc. ecc. converrà sempre trarle con carta”[44],  eventualmente “servendosi d’uno sfumino in carta e della piombaggine, [per] comporre un cielo, dar prospettiva aerea ed effetto a una negativa che manchi di tali prerogative.” (Caneva, 1855, pp.11, 50).

È alla seconda di queste due serie che devono essere verosimilmente assegnate buona parte delle trentasette stampe su carta salata, cerata o albuminata, oggi presenti nel fondo Avondo, molte delle quali ritraggono proprio quella  “pianura povera e brulla che altri non avrebbe degnato di uno sguardo”, che tanto aveva affascinato Vittorio Turletti nel 1874, posto di fronte all’avondiano Di mattina.[45]  Sono fotografie che Avondo doveva considerare importanti o quantomeno utili e ancora utilizzabili se al momento della sua partenza da Roma decise di non separarsene, di tenerle con sé per il resto della sua vita. Fotografie che oggi sembrano costituire l’elemento sinora ignoto, nascosto come la lettera di Poe, per procedere ad una migliore comprensione della sua vicenda pittorica.

È la sola loro presenza – in quanto fotografie – che già ci consente di riconsiderare alcune sue soluzioni stilistiche: non mi riferisco solo ad un comporre che procede per masse ed alla significativa riduzione della gamma cromatica, che tanto deve alla resa tonale propria delle diverse varianti del calotipo, penso anche all’ampiezza quasi grandangolare di molte vedute, non solo in disegno; all’uso non infrequente di contrasti luminosi marcati e in particolare del controluce, quale lo vediamo nel piccolo carboncino Osteria di papa Giulio fuori porta del popolo [sic] o Nei Prati di Castello (Bernardi, 1936, t.23) e specialmente nel piccolo olio compreso nel lascito ai Musei in cui il motivo del profilo urbano da cui emergono le cupole adotta una formula analoga a quella utilizzata da Edgar Degas, Roma vista dalle sponde  del Tevere, 1857ca.[46] Il confronto sistematico tra queste fotografie ed il corpus complessivo della produzione grafica di Avondo, reso possibile dalla schedatura su supporto informatico redatta da Chiara Maraghini per la direzione di Virginia Bertone, consente di individuare elementi ricavati da singole fotografie e restituiti con differenti gradi di rielaborazione in numerosi disegni e dipinti[47], come accade ad esempio per le suggestioni fortemente materiche che rendono per noi così affascinanti molte di queste fotografie e che riconosciamo nel piccolo olio su carta Sul Teverone  (inv. P/865) come nel più tardo Afa, 1885 (Thovez, 1912, t.24). In altri casi poi il riscontro è immediato, puntuale: si confronti il disegno de Il Teverone a nord di Roma (inv. fl/447) con la Veduta del Tevere a nord di Roma (FVA590) o ancora la parte destra dell’altra fotografia del Tevere a nord di Roma col disegno Teverone e cupola (inv. fl/571), ma soprattutto Nella valle del Pussino, 1874, oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, con Campagna di Roma. La Crescenza detta Valle di Pussin fuori Porta del Popolo [sic] che è una delle più note immagini di quello stesso Caneva, cui si devono anche le vedute precedenti, che Avondo acquistò dallo stesso fotografo o più probabilmente da Cuccioni, editore per cui Caneva lavorava e di cui il fondo conserva anche un album litografico di costumi romani.[48]

L’interesse forse non solo strumentale di Avondo, come di molti pittori suoi contemporanei, per la produzione fotografica è del resto testimoniato anche dalle due bellissime riprese di soggetto fiorentino (FVA606, 607), anonime, ma che per caratteristiche tecniche e livello qualitativo possono essere avvicinate alla produzione di John Brampton Philpot (Falzone del Barbarò, 1989) così come da alcuni disegni che rimandano ad immagini note ma non più presenti nel fondo quali la Passeggiata lungo il Tevere, con S. Pietro (fl/452), che ripropone graficamente uno dei luoghi canonici del vedutismo fotografico romano[49], di fortuna analoga a quella Veduta del Vicolo Sterrato che costituisce il tema non dichiarato di uno dei disegni pubblicati da Italo Cremona (1946, p. ix), a sua volta direttamente derivato da una fotografia di autore non identificato[50] e oggi non presente in collezione.

 

5 – “Le antichità gli furono assai più care dell’arte”  (Thovez)

Il ritorno a Torino corrispose per Avondo ad un coinvolgimento totale nella vita artistica e culturale della città, dal Circolo degli Artisti alla Società Promotrice delle Belle Arti al nascente Museo Civico sino alla collaborazione con l’Accademia Albertina (1870), da cui derivò immediatamente l’invito a far parte della Commissione consultiva per i monumenti nazionali d’antichità e belle arti (Vitulo, 1997).  Tra gli edifici indicati venne compreso anche il castello di Issogne, che Avondo aveva segnalato nel 1871 e acquistato nel 1872, già oggetto di vivo interesse da parte di numerosi artisti piemontesi sin dai primi anni ’50 (Dragone, 2000, p. 65-66) e ancora pochi anni prima (1865, 1868) una delle mete scelte da Pastoris e D’Andrade.[51]

Il suo inserimento nell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  ne determinò pochi anni dopo la prima sistematica documentazione fotografica, condotta nell’ambito della campagna promossa – su richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione – dalla Commissione conservatrice dei monumenti di antichità e d’arte della Provincia di Torino, di cui Avondo faceva parte dal 1876,  che dopo una prima ipotesi  non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” (18 giugno 1881) aveva deliberato di assegnare l’incarico a due dei migliori professionisti piemontesi: Giovanni Battista Berra[52] per il circondario di Torino e Susa e Vittorio Ecclesia[53] per il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli.[54]  Circa un anno più tardi, il 24 agosto 1882 Federico Pastoris, ospite a Issogne, scriveva ad Avondo comunicandogli che la campagna era in corso: “Ecclesia aveva eseguito otto foto per il Ministero e quattro per conto suo «e fece bene, perché son certo che a quanti le vedranno piaceranno assai e serviranno a dare del tuo castello un’assai buona idea»”[55]. Avondo fu però di parere nettamente diverso, tanto da diffidare formalmente il fotografo presso la Regia Pretura di Asti affinché non “vengano poste in commercio, né sieno in alcun modo pubblicate le fotografie da esso Signor Ecclesia ricavate nell’interno del Castello d’Issogne”, ciò specialmente in virtù dei danni che ne sarebbero derivati “in conseguenza della pubblicazione di dette fotografie, la quale lo pregiudicherebbe sicuramente nell’utile che egli solo intende ed ha diritto di ricavare dalla riproduzione in qualsiasi modo della sua proprietà d’Issogne.”[56] Come accadde in altre occasioni della sua vita fu nell’attenta valutazione dell’utile che se ne poteva ricavare che Avondo collocava il limite alla propria liberalità culturale, sebbene non dovesse dispiacergli l’occasione, e la possibilità di celebrare in certa misura il decennale dell’acquisto del castello, dei suoi interventi di restauro conservativo[57] come dei criteri e degli esiti del suo riallestimento quasi filologico.

Forse anche per queste ragioni il contenzioso venne risolto due anni più tardi con la stipula di uno specifico contratto che prevedeva la realizzazione di “due opere artistiche da mettersi in vendita in forma di Album con vedute fotografiche tratte dal detto Castello, l’uno di n. 20 fotografie della grandezza di 21 per 27 centimetri l’altro di 13 per 18 centimetri. (…) Il costo dei vetri, clichets, sui quali il Si.r Ecclesia Vittorio ha fatte le negative in n. di settantadue è a spese comuni” , così come la stampa e la confezione degli album e delle singole stampe da mettersi in vendita “nonché le spese necessarie per prenderne la privativa dal Governo” cioè  per la “tutela della proprietà artistica”;  Ecclesia era inoltre incaricato della vendita, i cui proventi dovevano essere divisi mensilmente. Alla scadenza quadriennale “essendo le negative di proprietà comune si dovranno vendere al miglior offerente, nonché gli album e copie in fotografia che potessero rimaner invendute, ed il Signor Ecclesia Vittorio non potrà più d’allora in poi produrre, né vendere vedute del detto Castello senza il consenso del Cav.re Vittorio Avondo.” [58]

La realizzazione procedeva speditamente affidando alla  Tipografia e Litografia Camilla e Bertolero di Torino  la tiratura di 500 più 500 copie del testo,  firmato da Giuseppe Giacosa, stampato  nei due diversi formati, grande e piccolo, “compreso lo stemma in litog. a 3 colori” e già nel maggio 1884 Ecclesia poteva vendere il primo “album piccolo senza copertina e senza testo [e] un album gran formato con la copertina e testo.”[59] Alla Libreria Francesco Casanova venivano poi lasciati in deposito alcuni esemplari, per la gran parte invenduti dopo cinque anni[60], nonostante la grande qualità delle riprese di Ecclesia, attento sempre a restituire dinamicamente i rapporti volumetrici tra le diverse parti del castello, mediante l’utilizzo sistematico di sapienti accorgimenti quali il fotografare interni ed esterni tenendo sempre le porte aperte, a mostrare o suggerire almeno le connessioni spaziali tra i diversi ambienti, come farà più di un secolo dopo anche Luigi Ghirri (Cavanna 1999), ma non dimenticando – forse su suggerimento dello stesso Avondo – quelle suggestioni medievaleggianti che qui lo portarono ad introdurre un armigero poggiato al bordo della fontana del melograno, analogamente a quanto andava facendo nello stesso anno nelle riprese del Borgo Medievale[61], animate da personaggi in costume. Ritroviamo qui – in forme diverse –  quella apparente oscillazione del gusto che tanta parte aveva nella cultura di questi intellettuali, quella stessa che aveva prodotto anche il Ritorno dalla Terra Santa di Pastoris (1880) in cui si ritrovano felicemente coniugati il realismo analitico della precisione descrittiva delle architetture e dei decori del cortile del castello e l’immaginario storicista della scena. Sarà quella stessa cultura visiva che verrà ripresa e sviluppata da Edoardo di Sambuy nel 1898, quando si spinse sino alla citazione letterale di Ecclesia variandone però significativamente il trattamento, la resa: qui sono le figure in costume a divenire il soggetto principale e il centro d’attenzione[62]; il punto di vista è abbassato, solo i primi piani sono a fuoco e l’elemento architettonico è ormai trasformato quasi in fondale scenografico. Sono immagini che costituiscono la prima concreta testimonianza piemontese di quel passaggio dalla riproduzione alla fotografia artistica che sarà sancito dall’Esposizione internazionale del 1902, di cui lo stesso Di Sambuy fu direttore artistico.

Se il successo commerciale degli album fu ridottissimo le immagini di Ecclesia ebbero invece ampia circolazione, sebbene in forme certo più soddisfacenti per il committente che per il suo autore: la seconda edizione del volume di Giuseppe Giacosa dedicato ai Castelli Valdostani e Canavesani, pubblicato a Torino da Roux e Frassati nel 1898 era corredata da  illustrazioni di Carlo Chessa (1855 – 1912) ricavate dalle sue fotografie, ma già prima, nel 1896 lo studioso francese  Robert Forrer (1866 – 1947), che aveva visitato Issogne nell’ambito di una sua più ampio studio delle residenze castellate[63], aveva pubblicato a Strasburgo illustrandolo con 12 stampe anonime tratte dalle fotografie di Ecclesia, il suo Spätgothische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne, certo per accordo con lo stesso Avondo, che ne disponeva di copie per la vendita in Italia.[64]

In questa comunanza di interessi collezionistici e museografici si collocava il commento introduttivo di Forrer, per il quale  “il castello costituisce  un vero e proprio repertorio per l’industria delle arti applicate, per coloro che intendano allestire ambienti in stile gotico, restaurare manieri antichi o realizzarne dei nuovi in stile a scopo abitativo o museale” (citato in Barberi, 1997, p. 146), richiamando così e riconfermando il senso del favorevole commento pubblicato da Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux- Arts” a proposito dell’Esposizione di Torino del 1880, che aveva avuto Avondo tra i membri della Commissione ordinatrice[65], in cui la disposizione degli oggetti si presentava come nella casa di un uomo di gusto «quand on entre, on est touché par une sorte d’armonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les œuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite.» (in Di Macco, 1997, p. 53).

Alla morte di Emanuele Tapparelli d’Azeglio nel 1890 Vittorio Avondo venne nominato direttore del Museo Civico e quindi chiamato a far parte della Commissione della II sezione, di Arti applicate, della Prima Esposizione italiana di Architettura, promossa dalla corrispondente Sezione del Circolo degli Artisti (Volpiano, 1999,pp. 89, 107 nota 28), tappa importante di un processo di trasformazione che coinvolgeva contemporaneamente  la ridefinizione del ruolo culturale e professionale dell’architetto così come dello studio e della comunicazione dell’architettura in una società industriale.

Nel 1884 la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani, che si tenne a Torino in occasione dell’Esposizione Generale Italiana aveva affidato al Collegio torinese il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[66], iniziativa che ebbe quale primo esito la donazione da parte di Camillo Riccio dell’album  contenente i progetti di tutti gli edifici da lui realizzati per l’Esposizione, ancora oggi conservato al Circolo degli Artisti, cui fece seguito nel 1886 la richiesta avanzata al Ministero della Pubblica Istruzione di poter organizzare una “speciale esposizione di opere architettoniche”. In occasione del successivo Congresso di Venezia del 1887 il Collegio torinese fu quindi in grado di presentare il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale: esso era costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”

In quello stesso anno maturava la decisione del distacco dalla  Società degli ingegneri e industriali e la costituzione della Sezione di architettura del Circolo degli Artisti, che continuava ad arricchire – come ricordava Mario Ceradini nel 1890 – “il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, mentre prendeva forma l’idea della grande esposizione di architettura, poi inaugurata nel febbraio del 1890 sotto la presidenza di Giovanni Angelo Reycend, vicepresidente della Società degli Ingegneri e presidente della stessa Sezione, proprio nel palazzo progettato da Camillo Riccio per la Sezione di Belle Arti della precedente Esposizione del 1884.

Mentre in ambito disciplinare fu di grande rilevanza l’apertura ai temi urbanistici, in termini di strumenti per la divulgazione e lo studio, di comunicazione quindi, la grande novità – non per tutti positiva[67] – era costituita dal definitivo ricorso alla fotografia, che già aveva svolto un ruolo determinante nelle Esposizioni precedenti e nell’allestimento museografico del Museo Regionale e che confermò qui le proprie rilevanti potenzialità documentarie, ampiamente testimoniate non solo dalla ricca sezione dedicata alle pubblicazioni con opere di Secondo Pia, Vittorio Ecclesia , Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet (mentre mancavano gli Alinari), ma anche dalla grande quantità di fotografie esposte nella divisione di “edilizia moderna”, dedicata alle urbanizzazioni di “oltre cinquanta città europee ed extraeuropee”, e da quelle regioni come la Lombardia e l’Emilia che esponevano esempi di documentazione fotografica del proprio patrimonio architettonico o di importanti restauri, come quello della Basilica di San Marco.

Il successo dell’iniziativa fu tale da indurre il Ministro Boselli a chiudere la manifestazione dichiarando l’intenzione di renderla permanente, conservando parte dei materiali governativi e sollecitando la generosità di municipi e privati. La proposta venne immediatamente fatta propria dal Comune di Torino che offrì la sede procedendo anche alla nomina di un comitato per la messa  a punto di un progetto di regolamento, ma il Museo non  venne mai realizzato.

Le dotazioni dapprima confluite al Circolo degli Artisti, consentendo così a Vacchetta – come si è detto – di formulare l’ipotesi di istituirvi nel 1897 un  “Museo Piemontese di Architettura”, vennero quindi donate, nell’aprile dell’anno 1900, tranne i disegni e i libri appartenenti alla Biblioteca,  al Museo Civico di Architettura “con che nel Museo ciascun oggetto porti una targa colla scritta ‘Dono del Circolo degli Artisti – Sezione Architettura” (Atti Municipali, 1900, II, p. 817). Avondo, chiamato a norma del nuovo regolamento ad esprimere un parere valutava positivamente la donazione, che avrebbe potuto trovare “appropriata sede nell’edificio già delle Belle Arti al Valentino, dove si trovano i calchi di Bari” e nella successiva seduta del 5 maggio  la Giunta comunale approvava “con riserva di provvedere (…) all’allestimento del locale.” (ibidem).

Entrarono così  a far parte del patrimonio del Museo Civico anche decine e decine di fotografie, da allora collocate e forse dimenticate nei depositi di Palazzo Madama, sebbene ne facessero parte, insieme ad importanti esempi della migliore produzione internazionale dell’epoca, intere serie documentarie realizzate dai più autorevoli fotografi italiani: dai palazzi veneziani fotografati da Paolo Salviati alle architetture ferraresi minuziosamente descritte da Pietro Poppi (Fotografia dell’Emilia), dalla campagna documentaria sul patrimonio monumentale friulano di Antonio Sorgato alle affascinanti vedute siciliane di Giuseppe Bruno: un primo reale nucleo di collezione e di archivio fotografico di cui nessuno dei direttori successivi seppe riconoscere l’interesse e il valore.

Quelli dal 1890 furono per Avondo anni di ben diverso impegno, dedicati a questioni di ben maggiore  importanza, connesse alla necessaria separazione fisica delle due sezioni di cui era costituito il Museo. Col completamento dei lavori di adattamento della palazzina della Esposizione operaia realizzata per l’Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880 e il successivo  trasloco nell’aprile 1895 si imponeva la necessità di una revisione museografica degli allestimenti, condotta in tempi rapidissimi e che ottenne il plauso del Comitato direttivo, Sezione Arte antica, invitato da Avondo nel dicembre dello stesso anno a “fare un giro per le sale del Museo onde riconoscere il modo in cui vennero esposte le varie collezioni e anche il modo in cui furono spese le somme (…) compiuto questo giro tutti i consiglieri si congratularono vivamente col Comm. Avondo pel modo razionale ed artistico con cui le collezioni vennero ordinate.” [68] Un esito così apprezzato comportava, imponeva quasi il progetto di “una pubblicazione che illustrando il museo lo renda sempre più praticamente utile (…) e che possa apparire nella prossima Esposizione Nazionale di Torino, quale un nuovo importante documento del progresso artistico della nostra città.” (in Pettenati, 1997, p. 97) rimeditando certo su modelli stranieri ben noti, ma anche in implicita competizione con quanto andavano realizzando negli stessi anni e con identici scopi altre importanti istituzioni torinesi quali l’Armeria Reale (Cavanna 2003). Soprattutto interessante il ricorrente richiamo alla funzione di pratica utilità che ancora si riconosceva al Museo, cui non corrispondeva in quegli anni una soddisfacente affluenza di pubblico[69] e la volontà di testimoniare il “progresso artistico” torinese, in aperta contrapposizione con chi come Antonio Taramelli  ancora negli stessi anni lo giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[70], riproponendo ormai tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra.” (in Maggio Serra, 1981, p. 29)

L’appuntamento con l’importante esposizione torinese non fu però rispettato e solo nel febbraio del 1899 la Giunta comunale di Torino approvò la proposta di Avondo di realizzare la “pubblicazione illustrativa”, col sostegno determinante del sindaco Casana che in prima persona presentava “alcune tavole in fotografia e fotocollografia per dare una idea del come sarà per riuscire l’opera.” (Delibera del 15 febbraio 1899, AMCTO CMS 23, 1900, doc. 138). Un primo parere informale venne immediatamente richiesto ad Edoardo Balbo Bertone di Sambuy, titolare di uno Studio di riproduzioni artistiche, cugino di Ernesto, già Sindaco di Torino e senatore del Regno,  che lo formulò corredandolo di interessanti osservazioni tecniche in merito alla possibilità di realizzare le riproduzioni a colori[71]; notazioni che furono sostanzialmente accolte dal Comitato direttivo della Sezione Arte applicata all’industria, presenti Avondo, Fontana e Calandra, che nel giugno del 1900 deliberava che la realizzazione “della riproduzione fotografica e quindi in fotocollografia e in cromolitografia dei migliori capi d’arte del Museo [fosse] affidata allo studio di riproduzioni artistiche di proprietà del Cav. Edoardo di Sambuy” per un totale di 85 tavole, in parte semplici (una sola riproduzione) in parte doppie (due o più per tavola), quasi tutte in fotocollografia, mentre le cromolitografie dovevano essere riservate “per le stoffe e le ceramiche”; che il n. di copie [fosse] di 250 e che “la spesa totale, comprese le copertine e la parte tipografica non [dovesse] oltrepassare la somma di L. 8740, disponibile per tale pubblicazione. (…) che la proprietà artistica [dovesse]  rimanere interamente riservata al Municipio (…)”. (Verbale del 15 giugno 1900, AMCTO CAP5, n.80).

La decisione venne successivamente fatta propria dal Consiglio comunale, ma non senza obiezioni che rivelavano chiaramente le differenti concezioni di politica culturale; così se Reycend giudicava la spesa “assai elevata” in relazione allo scopo della pubblicazione che “sarebbe veramente utile nel solo caso che potesse diffondersi largamente”, per il Sindaco Casana “il catalogo sarebbe oggetto di scambio coi principali Musei e potrebbe essere messo in vendita a collezioni complete od a tavole separate, a vantaggio degli artefici che ne avessero speciale bisogno.”[72]

Le riprese e le prime prove di stampa si susseguirono già nei primi mesi del 1901, non senza difficoltà di ordine tecnico, specie nella riproduzione delle stoffe, ma anche professionale, in particolare nei rapporti con l’ing. Molfese, imposto dal Sindaco e titolare dell’omonimo stabilimento di fototipia, che si dichiarava non disponibile a fare le copie di prova “se non gli si da l’ordinanza di tutto il lavoro, il che sarebbe sommamente imprudente.”[73] Anche le più complesse prove in cromolitografia ricevettero l’apprezzamento del Direttore e del Sindaco, sebbene proprio le difficoltà connesse alla loro realizzazione furono poi quelle che imposero, ormai nel 1903, una modifica del piano editoriale e dei tempi di realizzazione: su proposta di Avondo i soldi stanziati per la stampa delle nove cromolitografie restanti (sulle 10 previste, una essendo già stata terminata) vennero allora impiegati nella realizzazione di 32 nuove  fotocollografie monocrome “anche nella considerazione che il Museo si è nel frattempo arricchito di non pochi oggetti ben degni di essere riprodotti (…) si avrebbe così un’illustrazione del Museo di oltre 100 tavole.”[74]

La stampa venne affidata all’Eliotipia Calzolari e Ferrario di Milano, forse per il tramite di Luigi Cantù che nel 1898 aveva già avuto modo di apprezzarne la professionalità in occasione della stampa dei tre volumi dell’Armeria antica e moderna di S.M. il re d’Italia, cui si affiancava l’opera prestigiosa del veneziano Carlo Jacobi, stampatore dei sontuosi volumi delle edizioni di Ferdinando Ongania, ma i nuovi inderogabili termini di consegna fissati dalla Giunta comunale al 30 novembre 1903 vennero ampiamente superati e ancora nella primavera dell’anno successivo Avondo era costretto a richiamare Di Sambuy minacciandolo di “ricorrere al Sindaco”;  il fotografo per altro difendeva il proprio operato confermando l’avvenuta spedizione da parte di Carlo Jacobi delle ultime 30 tavole, col che si completava “la consegna di tutta l’opera. Ella vedrà che le tavole eseguite dal Jacobi sono anche più perfette della altre già consegnate.”[75]

La vigilia di Natale del 1904 la prima copia della pubblicazione dedicata al Museo Civico di Torino – Sezione Arte antica. “Cento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo, Torino, Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo di Sambuy”, venne presentata al Sindaco, quindi distribuita e posta in vendita dai primi mesi del nuovo anno, richiesta da studiosi e istituzioni diverse da Forrer a Bernard Berenson, dalle Scuole di Arte applicata di Venezia a  R. Agostoni, fabbricante torinese di mobili[76], adempiendo almeno in parte agli scopi del Museo ed alle intenzioni del suo Direttore che ne fece segno tangibile e strumento di conoscenza del nuovo allestimento, strutturato “per serie e per materiali” che coesistevano con quel “criterio della ricostruzione di sale ambientate secondo gli stili, definito nell’ultimo decennio dell’Ottocento «Kulturgeschichte oder Interieur Prinzip»” (Pettenati, 1997, p. 98) che – come ha precisato Michela Di Macco[77] – era già stato in parte utilizzato per la IV Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880, tanto apprezzato da Louis Gonse e tramandato dalla bella pubblicazione[78] di cento tavole in fototipia, stampate dai Fratelli Doyen, che già restituiva questa strutturazione ostensiva per prodotti e per tipologie, affiancata da presentazioni più libere ed eterogenee di cui invece non ritroveremo più traccia nelle tavole del 1905.

Qui tutto, dalle belle riprese di Edoardo di Sambuy alla nitida stampa in fototipia e – più ancora – l’ordinata sequenza logica delle tavole è pensato per marcare il passaggio da quel “complesso di cose disparate e di poco valore” che fu il Museo delle origini alla ricchezza delle nuove collezioni ormai “degne di molta considerazione” che caratterizzavano la Sezione d’Arte Antica (applicata all’industria) all’avvio del nuovo secolo, per testimoniare  – e giustamente celebrare, anche – il percorso compiuto sotto la guida del nuovo “Direttore il pittore Vittorio Avondo.” (Museo Civico, 1905)

 

 

 

Note

 

Abbreviazioni

 

ASCTO:                   Archivio Storico della Città di Torino

ASMCT:                   Archivio storico dei Musei civici di Torino, ora Fondazione Torino Musei

FTM – GAM- FA:     Fondazione Torino Musei –Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea: Fondo Avondo

FTM – PM – FA:       Fondazione Torino Musei – Palazzo Madama, Archivio: Fondo Avondo

FVA:                        Fondazione Torino Musei – Archivio fotografico: Fondo Avondo

SPABA:                   Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti – Torino

 

 [1] Nell’ormai ampia letteratura dedicata alla tutela e valorizzazione del patrimonio fotografico storico vanno segnalati almeno gli atti del convegno di Prato del novembre 2000 (Strategie 2001) ed alcuni volumi dedicati a specifici fondi o archivi fotografici come quelli di Brera (1899 un progetto di fototeca, 2000), al Fondo di Lamberto Vitali ora all’Archivio Fotografico del Castello Sforzesco a Milano (Paoli 2004) e – in un diverso contesto – al patrimonio di fotografie conservato presso la Soprintendenza per il patrimonio storico artistico di Bologna (Giudici 2004).

[2] Mollino 1949; Negro 1956; Paoli 2004.

[3] Fotografi del Piemonte 1977.

[4] Miraglia 1990 che oltre a costituire un riferimento imprescindibile per la storia e la storiografia fotografica pubblicò numerosi, importanti esemplari tratti dalle collezioni della Galleria Civica d’Arte Moderna, a partire dal preziosissimo dagherrotipo di Enrico Federico Jest, dell’8 ottobre 1839 (t.1).

[5]Mario Gabinio 1996; Mario Gabinio 2000. La prima delle due mostre, esito di un analitico progetto di catalogazione costituì anche l’occasione per la messa a punto di uno dei primi esempi italiani di accesso al fondo su supporto digitale.

[6] Cavanna 2000b; I dati quantitativi complessivi riferibili ai fototipi compresi nell’Archivio Fotografico, nella Biblioteca e nei depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea (GAM) per la sola parte storica, cioè tutti quei fototipi che potevano essere considerati patrimonio storico dei Musei, indicavano una consistenza complessiva di circa 300.000 unità. Non fu invece purtroppo verificata, in quella occasione, la consistenza dei fondi fotografici conservati a Palazzo Madama né di quelli eventualmente presenti nelle collezioni dell’allora Museo di Numismatica, Etnografia, Arti Orientali. Tranne rare eccezioni i fototipi conservati si riferiscono alla documentazione del patrimonio artistico, specialmente museale e piemontese in genere, ma arricchito di una imponente documentazione più generalmente riferibile alla storia dell’arte; documentazione che trova il suo nucleo forte nel Fondo Lorenzo Rovere,  mentre le riproduzioni coeve di opere ottocentesche (Fondo Avondo, Biblioteca, Fondo Celanza) costituiscono una fonte importantissima, sostanzialmente inedita e scarsamente utilizzata per la conoscenza e lo studio del periodo. Ciò che invece costituiva un dato di novità era la presenza di una ricca e importante serie di immagini di architettura (piemontesi, italiane e non solo) che fanno dei Musei Civici uno dei più importanti archivi fotografici tematici dell’Italia settentrionale.

A questi nuclei forti vanno aggiunti quelli relativi a un ambito più propriamente fotografico, per i quali il valore referente, documentario dell’immagine forma un tutt’uno con quello espressivo: penso naturalmente a molte delle immagini costituenti i fondi Bricarelli e Gabinio, al piccolo nucleo di paesaggi romani del Fondo Avondo qui studiati, alle stampe di Vittorio Sella.

[7] Testimonia la rilevanza di queste forme di accumulo non programmato di documentazione fotografica il puro dato quantitativo di stampe di riproduzione di opere d’arte delle più diverse tipologie conservate nella parte di Fondo Avondo che qui si presenta e per la quale rimando al Regesto così come quelle – in numero ancora maggiore – recentemente ritrovate nei depositi di Palazzo Madama, sempre cronologicamente riferibili per la gran parte alla seconda metà del XIX secolo, quindi agli anni compresi tra l’istituzione del Museo (1863) e il compimento della direzione di Avondo (1910). Tale materiale, sinora mai studiato presenta certo un rilevantissimo interesse in relazione alle vicende del mondo dell’arte piemontese,e in parte italiana, in tutte le sue sfaccettature, dalla produzione al collezionismo alla museologia e costituisce l’ulteriore testimonianza dell’ invasività della fotografia nella cultura delle belle arti nell’età di Avondo; una presenza con cui ormai non si poteva non fare i conti, pur in modi e con atteggiamenti diversi a seconda dei contesti e delle situazioni: la pratica artistica ne prevedeva un uso privato, e quasi riservato, segreto – sebbene fosse per tutti i pittori dell’800 un segreto di Pulcinella – la gestione museale, pubblica, faceva del ricorso alla fotografia uno strumento indispensabile del proprio operare quando non addirittura un fiore all’occhiello, un segno di aggiornamento e di apertura, un positivo esempio di industria applicata all’arte.

[8] Maggio Serra 1977; Cavanna 1981.

[9] Ancora da studiare e comprendere i nessi tra questa proposta di Rovere e la precedente iniziativa della Società che nella seduta del 5 maggio 1904, su proposta dell’avv. Olivieri  stabiliva di pubblicare in  volume la ricca documentazione fotografica prodotta da Secondo Pia, corredandola coi testi delle conferenze svolte dai soci sugli stessi temi. A tale scopo venne istituita una commissione interna e nei mesi successivi si avviarono trattative con l’editore Bocca, mentre i soci si impegnavano a segnalare al fotografo i monumenti della provincia di Novara per “colmare le lacune che per alcuni paesi esistono nella collezione Pia.” (18-11-1904)

La ricognizione proseguì negli anni successivi toccando anche il Tortonese, soggetto di una conferenza di Pia nel marzo 1907, ma una serie di contrasti relativi alla stesura del contratto portò il fotografo a rassegnare le dimissioni dalla Società negli stessi mesi, determinando di fatto la sospensione del progetto, ora assunto dalla libreria editrice R. Streglio e C., per indisponibilità della stessa documentazione fotografica che doveva costituire il cardine della pubblicazione. (MCT/PM – Pacco SPABA)

[10] “Naturalmente io non chiedo né chiederò mai un fotografo, cercando di fare da me, e servendomi del personale del Museo. Io sono certo che in uno o due anni, con la notevole economia che si avrebbe (…) si otterrebbe che quasi tutto il fondo per l’archivio fosse, secondo la mia intenzione, rivolto, invece che a pagare le riproduzioni degli oggetti del Museo, a completare quella magnifica raccolta di lastre, illustranti i monumenti del Piemonte.” Lettera di V. Viale al Podestà di Torino, 9 giugno 1931, n. 007343, ASMCT – CAA.89 – 1931.

[11] Al momento del loro rinvenimento le stampe erano confezionate in pacchi di carta da imballo chiusi con nastri adesivi, solo in rari casi identificati in base al loro contenuto od alla loro presunta provenienza, con  scritte a pennarello sulle confezioni.

[12] Una di queste copie, con dedica autografa ad “A. Pozzi antiquario”, va verosimilmente assegnata al legato di Ettore Mentore Pozzi, 1931. Numerose altre copie delle stampe Ecclesia di Issogne sono comprese nel fondo recentemente fatto pervenire in Archivio da Palazzo Madama, per iniziativa del suo Direttore Enrica Pagella, che qui ringrazio unitamente a tutti i suoi giovani Conservatori per la disponibilità e l’aiuto che mi hanno fornito durante questa ricerca.

Interessante ed utile per la documentazione della produzione artistica – non solo di Avondo – è poi il fondo Emanuele Celanza, pervenuto per donazione alla Biblioteca Civica e da questa ai Musei nel 1951. Il Fondo raccoglie le riproduzioni di opere d’arte di autori italiani del XIX secolo utilizzate dall’editore torinese, attivo anche nel campo della pubblicistica fotografica, per la collana “I Maestri dell’Arte. Monografie di artisti moderni compilate da Francesco Sapori”, edita nel 1917 – 1921ca. Gli autori considerati sono settantadue e la documentazione, pur incompleta, costituisce un eccezionale repertorio fotografico del panorama artistico ottocentesco italiano, a volte corredato dai ritratti fotografici degli artisti, dalle prove di stampa e dai testi manoscritti del curatore.

[13] Oltre che nel fondo Avondo altre immagini appartenenti a queste serie, ma anche alla campagna Berra – Ecclesia del 1882, sono conservate in cinque distinti fondi della Galleria d’Arte Moderna e dell’Archivio fotografico, in parte provenienti da Palazzo Madama nel 1985.

[14] Significativa in tal senso l’assoluta assenza di riferimenti ad un nucleo preesistente di documentazione fotografica nei diversi progetti e programmi di volta in volta avanzati dai successori di Avondo alla direzione del Museo, da Vacchetta a Rovere a Viale, soprattutto considerando la rilevante consistenza quantitativa degli stessi: agli esemplari nominalmente costituenti il fondo Avondo  e a quelli a lui riferibili conservati nei diversi fondi citati, vanno aggiunti quelli recentemente trasferiti da Palazzo Madama all’Archivio fotografico dei Musei civici, per una consistenza complessiva di circa tremila unità. Di questo ultimo rilevantissimo nucleo (circa 1700 unità), di cui parevano essersi confuse e quasi disperse le tracce dopo il 1997, anno in cui alcune delle immagini che lo costituiscono vennero studiate e riprodotte a corredo del volume dedicato ad Avondo (Maggio Serra, Signorelli 1997) fanno parte non solo elementi che opportunamente integrano e completano serie già note (Esposizioni del 1880 e del 1890, Issogne) e in parte immediatamente riferibili al legato Avondo (Actis Caporale 1997, p.  40 nota 63), ma anche esemplari più antichi e verosimilmente riferibili ai primissimi anni di esistenza dell’istituzione museale come gli esemplari sciolti di vedute torinesi di Henri Le Lieure, tratte dall’album Turin ancien et moderne che il fotografo dedica alla città nel 1867 e di cui esiste copia nella Biblioteca, da riferirsi alla presenza di Pio Agodino,  primo direttore del museo e autore di uno dei brevi saggi che corredano il volume, dedicato alle Porte Palatine. Ulteriore e dolorosa conferma della ‘invisibilità’ prima di tutto culturale di cui hanno sofferto questi materiali che sorprendentemente solo oggi riconosciamo come importanti e preziosi è il loro attuale stato di conservazione: non solo infatti i fototipi furono sommariamente impacchettai e identificati utilizzando materiali non idonei (carta da pacchi, nastri adesivi, scritte a pennarello sulle confezioni), ma vennero poi collocati in ambienti inadatti e caratterizzati da un elevatissimo grado di umidità relativa, come dimostrano la diffusa presenza di muffe e di carte ed emulsioni incollate tra loro.

[15] FTM-PM-FA.

[16] La più recente e approfondita analisi della biografia e della figura di Avondo (Torino 1836-1910) è quella costituita dall’insieme dei saggi raccolti in Maggio Serra, Signorelli 1997, cui si rimanda.

[17] Testimonianza dei duraturi legami con il fotografo è costituita non solo dal grande numero di immagini di Duroni conservate nel fondo ma anche da una ricevuta di 500 franchi “en accompte sur son capital” da lui firmata in data 24 novembre 1869, conservata tra le carte di Avondo: MCT/ PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture.”

[18] Matteucci 1997, p. 232 nota 207. I rapporti tra i due artisti, testimoniati dal reciproco possesso di piccole opere (Maggio Serra 1999, p. 71), dovettero essere frequenti a partire proprio dal 1860, anno in cui Avondo espose alla Promotrice fiorentina, mentre nel luglio si era incontrato con Signorini, reduce da un pericoloso arresto di polizia, proprio a Torino, luogo in cui il pittore toscano tornerà ancora l’anno successivo per esporre alla Promotrice, in viaggio per Parigi (Dini 1997, p. 270) e quindi almeno ancora una volta nel 1880, in occasione del IV Congresso artistico. Un ulteriore legame tra i due era poi costituito dalla comune amicizia per Anatolio Scifoni, amico d’infanzia di Signorini, attivo a Parigi con Pittara e Pastoris nel 1864-65 e tra gli artisti i cui nomi erano elencati nella sala del castello avondiano di Lozzolo (Signorelli 1997, p.  11 nota 57), e di cui si conserva una stampa Goupil del suo Les bulles de savon, 1864 post (23×15) GAM S48 B8, con dedica ad Avondo. Ancora Signorini ricordava la “continua corrispondenza di ideali artistici con Alfredo d’Andrade per la libera scuola di Rivara in Piemonte” (Per Silvestro Lega. Firenze: Civelli, 1896) e proprio un ritratto di D’Andrade eseguito a Torino da Henri Le Lieure è ancora conservato tra le sue carte (Matteucci 1997, p. 235 nota 236)

[19] La Contessa di Castiglione, 2000. Quasi superfluo ricordare qui in quali ambienti, anche non distanti da Avondo, circolassero a Torino le sue conturbanti rappresentazioni fotografiche, realizzate con la complicità di Pierre-Louis Pierson.

[20] Giuseppe Giacosa 1908, citato in Barberi 1997, p.149. Anche il fratello Pietro ricorderà quell’occasione, con una nota conclusiva amara e per noi incomprensibile: “Non so se fu nel 1872 o nel ’73 (…) Eppure si cenò in costume quattrocentesco, e qualcuno non disdegnò di indossare maglie e corazze di ferro. (…) Fu l’ultimo sprazzo di vita di Issogne.” (Giacosa 1968, p. 12).

[21] Carandini 1925 citato in Dragone 2000, p. 74.

[22] Al banchetto offerto “A d’Andrade l’architetto/ Del Castello Medio-Evale/ Che non ebbe mai l’eguale” (G. Giacosa) “intervennero un centinaio di persone in costumi eroici, umoristici (…) Il D’Andrade, travestito da Ercole, aveva in mano una clava ed in testa il gibus.” (Torino, 1884, n. 8, p. 67), ma la stessa attrazione storicista per le rovine immediatamente trascolorava: “un castello antico è bello al lume di luna, quando gli sprazzi della luce d’argento mettono sulle sconquassate muraglie qua e la come un lenzuolo candido (…) quando le ombre fitte, i buchi nerissimi trattengono il piede spaurito, e la signora bionda, che vi sta a lato, si avviticchia a voi stretta, tremando.” (Torino, 1884, n.42, p. 334)

[23] FVA0336, con 20 ritratti di amici ed amiche di Avondo. La sequenza è aperta da un ritratto giovanile di Alfredo d’Andrade, realizzato dai Fratelli D’Alessandri nel 1862 (Bernardi, Viale 1957, p.n.n.), cui fa seguito il già citato ritratto di Avondo fatto da  Carlo Duroni, quindi Ernesto Bertea, e Antenore Soldi tra gli altri, mentre tra i ritratti non in album vanno almeno segnalati quelli di Giuseppe Giacosa, Ferdinando di Breme, Lorenzo Delleani e Vincenzo Vela, ma anche in una rete più ampia di conoscenze quelli di Galileo Ferraris e di Giosué Carducci, questo da mettere forse in relazione con la visita del poeta ad Issogne (Signorelli 1997, p. 18), risalente alla sua prima visita in Valle d’Aosta nel 1889.

[24] Una vera foto di gruppo fu quella realizzata molto più tardi, il 30 maggio 1909 raccogliendo sulla scalinata del castello di Fenis Avondo e D’Andrade, i fratelli Boito e Melchiorre Pulciano, ma anche i più giovani Cesare Bertea, Ottavio Germano ed altri, cfr. Carandini 1925, p. 49.

[25] Ceresa, Mosca, Siccardi 2001, p. 73 passim.

[26] Su Luigi Cantù, “Consigliere Comunale distinto fotografo ed artista, Conservatore della Regia Pinacoteca (…) altamente apprezzato nel ceto artistico torinese”, Vicepresidente della Commissione della Sezione fotografica dell’Esposizione Nazionale di Torino del 1898, membro del Circolo degli Artisti  – di cui documenta fotograficamente l’inaugurazione umoristica dell’Esposizione del 1886 (ASCTO, Nuove acquisizioni, C6/1 – DA 1086-88) –  e tra i promotori della Società Fotografica Subalpina nel 1899, si vedano le notizie riportate in Stella 1893, pp. 596-597, che lo descrive impegnato nei diversi ambiti della pittura, dell’illustrazione araldica e del “restauro” (“ripulì e ritoccò, coi migliori metodi oggi usati, parecchie antiche tavole e dipinti sui muri, per collezioni private”), ma anche come “fotografo [che] si dedicò al ritratto e alle riproduzioni di opere d’arte, acquistando fama di specialista abilissimo”, sebbene oggi queste sue abilità siano testimoniate solo da rari esemplari. Altre segnalazioni della sua presenza in Miraglia 1990, p. 368; Reteuna 1997, p. 60; Società 1999, pp.14-16. Per il ruolo da lui svolto nella realizzazione dei volumi dedicati all’ Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino editi a Milano dall’ Eliotipia Calzolari e Ferrario nel 1898,  con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, rimando a Cavanna 2003, pp. 96-97.

[27] Dopo la morte del titolare nello stesso 1908, la moglie Clarice scriveva ad Avondo, su carta intestata “Photochromatographie Bertieri/ rue du Po, 25 Turin”: “Ill.mo Sig. Comm.re/ memore dell’antica amicizia che legava V.S. al povero defunto mio marito Cav.re Oreste Bertieri pregiami farle noto che ho riattivato lo studio fotografico provvedendomi di personale speciale che valga a mantenere alto il nome.”, MCT/ PM- FVA, m. D, “Corrispondenza”, lettera del 23-12-1908.

[28] Bernardi 1936,  p.n.n. Un ritratto carte de visite di Alexandre Calame, con quelli di Antonio Fontanesi, Ernesto Bertea ed altri, è compreso tra le carte di uno dei meno entusiasti calamisti piemontesi quale fu Alfredo d’Andrade (Bernardi, Viale 1957).

[29] Vero è che nel fondo documentario Avondo nulla conferma questo dato ma, per intanto, neppure vi è nulla che lo smentisca (come una sua eventuale presenza in altri luoghi) né le condizioni generali in cui ci è pervenuto consentono di garantirne la consistenza originaria. È appena il caso di ricordare qui che tra i visitatori di quell’Esposizione e della mostra dei pittori di Barbizon (e chissà se anche del “Pavillon du réalisme” di Courbet) vi furono – oltre a D’Andrade – anche Saverio Altamura e Nino Costa che sarà uno dei riferimenti di Avondo durante il suo soggiorno romano, di poco successivo.

[30] Sono due ritratti maschili  e due femminili, non tutti identificati realizzati rispettivamente da Benque (FVA0132), Tourtin (FVA0336.3), Disderi (FVA0336.5) e Ladrey (FVA0349). Pur considerando che, data la loro circolazione, il luogo di realizzazione non debba per forza coincidere con quello dell’acquisizione, come dimostra proprio il caso di Bertea, la loro presenza (specialmente quella dei ritratti femminili) costituisce a mio parere l’indizio piuttosto forte di una frequentazione parigina di Avondo.

[31] Immagini dell’Oberland bernese, all’epoca ancora in una fase di esplorazioni pionieristiche, furono presentate all’Esposizione universale di Parigi del 1855 dai Fratelli Bisson, accanto a quelle realizzate in Alvernia da  Edouard Baldus, ma il lavoro  fotografico che destò maggior sensazione fu la veduta panoramica in dodici parti del massiccio del Monte Bianco ripreso da La Flégère, per una lunghezza totale di due metri, realizzata  da Friedrich von Martens. (Infinitamente 2004).

[32] Maggio Serra 1997, cui si deve la prima fondamentale considerazione filologica e critica della produzione grafica, in precedenti occasioni illustrata a partire da pure considerazioni stilistiche (Thovez 1912; Bernardi 1936; Cremona 1946).

In particolare si deve alla studiosa la più che convincente attribuzione di alcuni degli album ad un autore diverso da Avondo, essendo “il nome che viene alle labbra” quello di Enrico Gamba. In forse restava l’assegnazione di altri due taccuini, il n.12 e il n. 8 “nel quale i disegni di architettura non hanno la nitidezza di quelli di Gamba e che diremmo perciò di Avondo (…) se non ci mettessero in dubbio un lungo appunto di lettura strettamente tecnica dei dipinti fiorentini e un elenco di persone cui l’autore donò la fotografia di un dipinto di Tiziano non identificato” (Maggio Serra 1997, p. 67). Una più attenta riconsiderazione di questo appunto al foglio 85 verso, con l’elenco delle persone amiche cui l’autore aveva destinato più copie ciascuno della riproduzione fotografica dell’opera in questione – di cui un esemplare è presente anche nel fondo Avondo – mi porta a ritenere che non si trattasse tanto di “un dipinto di Tiziano non identificato”, quanto piuttosto de I funerali di Tiziano, cioè del più noto dipinto di Gamba, confermando così l’attribuzione anche di quest’ultimo album.

Quanto alle ragioni per cui questi cinque taccuini siano stati conservati congiuntamente agli analoghi di Avondo, pur non escludendo la possibilità che siano stati “forse ottenuti in prestito da Avondo” o che “forse derivano da viaggi comuni”, io non tralascerei l’ipotesi che questa commistione possa più banalmente derivare da una storia archivistica non sempre chiara e documentata, come dimostra del resto la stessa vicenda del fondo fotografico Avondo.

[33] Una Testa di Bufalo, ad olio, di George Hemming Mason e due litografie di  Charles Coleman (FA Grf486-487), tratte da A series of subjects peculiar to the Campagna of Rome and Pontine Marshes designed from nature and etched by C. Coleman, Rome, 1850, album di 74 fogli con 53 tavole (De Rosa, Trastulli 1988).

[34] Da Claude Lorrain e Nicolas Poussin, insieme nei primi decenni del ‘600, sino a Turner e Corot, la bibliografia è ormai molto ampia e di livello diverso; si vedano almeno Corot 1994; Galassi 1994; In the Light of Italy 1996, La Campagna romana 2001.

[35] Becchetti 1983; Pittori fotografi 1987; Caneva 1989; Miraglia 2003; Roma 1850 2003.

[36] Si rimanda qui ai noti saggi raccolti in Schwarz 1992 ed alla prima sintesi organica di Scharf 1979, senza voler dimenticare l’assoluta novità italiana della sintesi storica contenuta ne Il messaggio dalla camera oscura di Carlo Mollino, 1949 [1950], che ampliava sostanzialmente gli orizzonti da noi pionieristicamente delineati da Lamberto Vitali nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento (Paoli 2004).

[37] Telemaco Signorini, Cose d’arte, 1874, citato in Bordini 1991, p. 595. In ambito locale un riconoscimento del ruolo ausiliario della fotografia era venuto  da Federico Pastoris, che in un commento pubblicato nell’ Album della Promotrice del 1862, quindi in un contesto sostanzialmente tradizionalista, aveva riconosciuto quanto questa potesse servire “a cercare [la] verità. […] Per cui io credo che la fotografia, invece di nuocere alla pittura, possa giovarle, nel senso che facilita agli artisti i mezzi d’imitazione”, citato in Reteuna 1991, p. 34. Un nuovo importante contributo per la conoscenza dei rapporti storicamente intercorsi tra pittura e fotografia nel corso del XIX secolo è quello recentemente fornito da Marina Miraglia 2005.

[38] Come risulta dalla testimonianza di Telemaco Signorini in Silvestro Lega, Firenze, 1896, ma anche nell’opinione di Diego Martelli. Il metodo non era in sé nuovo, anzi largamente praticato nello studio del paesaggio almeno a partire dal XVII secolo, significativa ne è semmai la sua attualizzazione. Quanto all’interesse degli artisti ottocenteschi per le tecniche fotografiche va almeno ricordato, sebbene avesse implicazioni diverse, l’uso del cliché-verre da parte di artisti come Corot e Fontanesi, cfr. Corot 1994; Cavanna 1997.

Altamura venne a Torino per presentare il dipinto Excelsior, oggi ai Musei Civici, all’Esposizione del 1880, fermandosi in città per ben quattro mesi durante i quali si incontrò con De Amicis, Giacosa e Fontana, ma – apparentemente – non con  Avondo (Simone 1965, p. 55) sebbene in questo fondo sia conservato un suo bel ritratto fotografico che è stato accostato al Ritratto di Eleuterio Pagliano, 1850 ca, di Luigi Sacchi da Cassanelli 1998: sch. I. 4, pp.148-149.

[39] Wey 1851. Opinione condivisa da Gustave Le Gray (Photographie: nouveau traité, 1852) : “à mon point de vue, la beauté artistique d’une épreuve photographique consiste au contraire presque toujours dans le sacrifice de certains détails, de manière à produire une mise à l’effet  qui va quelquefois jusqu’au sublime de l’art » (citato in Aubenas 2002, p.  48). Il riferimento insistito in questi testi al “sacrifice” richiama esplicitamente la teoria in onore tra i pittori francesi e che Delacroix, tra i più attenti ad un uso positivo della fotografia, aveva applicato alla fotografia e in particolare proprio al calotipo: “Les photographies qui saisissent davantage sont celles où l’imperfection même du procédé pour rendre de manière absolue, lasse certaines imperfections, certain repos pour l’œil qui lui permettent de ne se pas fixer que sur un petit nombre d’objets.” (dal “Journal”, 1859, citato in Challe 1996, p. 24). Anche per Rosalind Krauss (1996, p. 57) “I calotipi degli anni 1850 che conosciamo assomigliano sorprendentemente alle pitture di Daubingy. Sappiamo che Daubigny e gli altri pittori della Scuola di Barbizon erano rimasti sbalorditi dalla fotografia e ci rendiamo conto che devono averne tratte le conseguenze.” Per una presentazione dettagliata di queste immagini si rimanda a Challe, Marbot 1991.

[40] Senza poter entrare nel merito dei problemi sollevati da queste produzioni non possiamo che sottoscrivere l’opinione di Michel Frizot 1994, p. 83:  “anche quando il fotografo si pone al servizio del pittore non si tratta di pura imitazione servile dei luoghi comuni naturalisti. Il fotografo crea un’immagine di tipo nuovo, di cui non si ritroverà che superficialmente l’equivalente pittorico, disegnato o inciso.”

[41] Le Dien frequenta e fotografa gli stessi luoghi di Caneva: il Tevere (o l’Aniene) a nord di Roma, la passeggiata detta “del Poussin”, gli ulivi sulla strada di Tivoli ecc., forse sollecitato dai suoi due compagni di viaggio, i pittori Léon Gérard e Alexandre de Vonne (Aubenas 2002, p. 297); recentemente gli è stata attribuita una carta salata delle collezioni del Musée d’Orsay, Paysage à Rome ,1852 – 1853, già assegnata a Caneva (Heilbrun 2004, t.8).

[42] Scrive il 14 marzo 1844 all’abate padovano Pier Antonio Meneghelli: “Vado eseguendo piccoli quadretti di commercio” e ancora, nel Natale dello stesso anno “Ho apparecchiato delle piccole cosette in carta in tela come bozzetti, sperando nella concorrenza de forestieri d’inverno.” Citato in Vanzella 1997, pp. 40; 43.

[43] Miraglia 2003, p. 574, sch. XI.5.12. A partire dai primi fondamentali studi di Piero Becchetti del 1983, la figura dell’autore padovano è andata via via assumendo sempre maggior rilievo e dettaglio sino a costituire la presenza più rilevante tra i fotografi della Scuola romana, ormai ampiamente studiata (Becchetti 1983a – 1983b; Pittori fotografi 1987; Caneva 1989; Becchetti 1994; Vanzella 1997; Rampin 2001; Roma 1850 2003, Gasparini 2005), sebbene – come rileva Miraglia nel saggio citato – dedicando ancora, purtroppo, scarsa o nulla attenzione alla sua produzione di studi di campagna romana e di paesaggi di dettaglio, che pure sono di qualità altissima ed ebbero già all’epoca vasta considerazione e diffusione come dimostrano non solo le stampe acquistate da Avondo ma anche l’opinione di altri fotografi quali Luigi Sacchi che riconosceva a Caneva “oltre la grandissima sua capacità in questa nuova arte, (…) il talento di rinomato pittore” – “L’Artista”, 1 (1859), n. 2, 12 gennaio, p.16, citato in Cassanelli 1998, pp. 156-157 –  e la presenza di esemplari delle sue stampe nelle raccolte di artisti come il reggiano Alessandro Prampolini (Gasparini 2005) o il francese Théophile Chauvel (1831-1910), pittore del gruppo di Barbizon, ma anche autore di fotografie e membro fondatore della Societé Française de Photographie, (Heilbrun 2004: 19) che, alla pari di Corot,   possedeva una ricca collezione di fotografie, in parte pubblicata in Calle, Nèagu 1988. Ad ulteriore conferma di indizi per una ricerca ancora in gran parte da svolgere basti ricordare che nella testimonianza di L. Celentano (1883) Michele Cammarano cercava fotografie “specialmente di alberi e qualche dettaglio di pietra, da poter studiare guardandole, confidandogli che allora d’altro non si consigliava che della fotografia.”( Bordini 1991, p. 586) Per la circolazione internazionale di modelli o soggetti fotografici per pittori va ricordato ad esempio che  Bringing Home the May di Henry Peach Robinson, 1862, era in vendita a Milano da Spagliardi & Silo (Paoli 2004, p. 158), mentre per quanto riguarda la contraddittorietà e la scarsa intelligenza critica dei rapporti pittura-fotografia degli autori coevi basti qui richiamare una posizione come quella di Pietro Selvatico, certo ben nota proprio a Torino, che nel 1871 dalle pagine de “L’Arte in Italia” attaccava il metodo di insegnamento fontanesiano curiosamente contrapponendogli quello adottato da “tal professore [sic] Domenico Bresolin all’Accademia di Venezia, cioè la copia da un album di fotografie del tedesco Robert Kummel, utilissimo «a chi si avvia al paesaggio, come eccellente grammatica».” (Maggio Serra 1988, p. 101) Sul ruolo determinante di Bresolin, tra i più importanti protofotografi italiani, nella definizione del paesaggismo veneto di secondo Ottocento, lui docente  all’Accademia veneziana dal 1864  avendo come allievi pittori quali G. Ciardi, G. Favretto, L. Nono ed altri, cfr. Prandi  1979, mentre più in generale sulla sua figura si vedano la bibliografia citata in Cassanelli 1998, p. 46 nota 29 e Paoli 2000.

[44] Di tutt’altro avviso un autore di formazione e cultura affatto diverse come Giuseppe Venanzio Sella, per il quale invece “le immagini positive tirate dalle negative su carta rimangono sempre più o meno confuse ed indistinte.” (Sella 1856, qui citato dalla seconda edizione, 1863, p. 11).

[45] V. Turletti, Rivista artistica, in “Serate Italiane”, 1 (1874), n. 4, 25 gennaio, p. 61, citato in Maggio Serra 1988, p. 101; di analogo tenore il commento del 1873 firmato A.B. a proposito di Tevere: “Che luce, che cielo smagliante, quella volta immensa e nuvolosa ma risplendente sembra colla descrizione della vasta sua parabola accrescere gli spazi di quell’immensa provincia romana nuda ed imponente di cui  non vediamo sul quadro che le sole prime linee.” (citato in Signorelli 1997, p. 18 , nota 60).

[46] Il piccolo disegno a carboncino è inventariato col n. fl/623 e potrebbe essere a sua volta una parziale rielaborazione di elementi presenti in alcune stampe fotografiche del Fondo (Vigna S. Stefano), mentre il piccolo olio può essere utilmente confrontato col disegno pubblicato in Cremona 1946, p. XIX; per Degas cfr. Galassi 1994, t. 280).

[47] Devo qui segnalare  la presenza di due stampe fotografiche che paiono essere in scarsa se non nulla relazione con gli interessi pittorici di Avondo: si tratta di una donna in costume laziale (FVA 605) soggetto non estraneo ma certo da lui poco praticato, ed un bellissimo nudo di schiena, conservato tra le carte personali (PM/FA, m.B – N, busta “Città di Torino”) di cui non si trova riscontro nell’opera grafica o pittorica.

[48] [Valenti], Nuova raccolta/ dei principali Costumi di Roma / e suoi contorni, Roma, Presso l’Editore e Calcografo Tommaso Cuccioni Negoziante di Stampe ed Oggetti di Belle Arti, via della Croce n.88, s.d. [1850 ca].

[49] Già nel 1953 Silvio Negro segnalava la consuetudine, che faceva risalire proprio a Cuccioni, di utilizzare “pescatori con la lenza messi in pose  suggestive nei punti più panoramici del Tevere”, citato in  Paoli 2004,  sch. 83 a firma Marina Gnocchi, che descrive analiticamente una fotografia di soggetto analogo, dovuta ad un fotografo non identificato da confrontare, tra le altre, con Altobelli e Molins, Il Tevere a Castel Sant’Angelo, 1862ca in Becchetti 2003, p. 38.

[50] La fotografia, conservata nella collezione Cianfarani Negro, venne pubblicata in Negro 1964, p. 212, cui si deve anche il commento sulla fortuna del soggetto.

[51] Nel 1894 Alberto Pasini  dedicherà “All’amico V. Avondo” il suo Interno del maniero di Issogne, Torino, GAM (Dragone 2000, p. 304), mentre altri autori come Vittorio Cavalleri indagheranno il soggetto ancora nei primi anni del ‘900, continuando a riscuotere l’interesse di Avondo (Maggio Serra 1993,  190, scheda di Caterina Thellung de Courtelary).

[52] Su G.B. Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Miraglia 1990, p. 358; Cavanna 2003; La borghesia 2004, p. 123. Il fotografo, e pittore, era in stretta relazione con le maggiori istituzioni culturali torinesi quali la Società Promotrice delle Belle Arti e l’Armeria Reale, da cui nel 1874 aveva ricevuto l’incarico di produrre alcune prove di riprese fotografiche e di cui pubblicherà un ampio catalogo fotografico proprio nel 1882,  mentre nel 1880 aveva realizzato il grande album dedicato alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti,  dedicandolo a Umberto I. Sarà ancora lui, ormai alla fine della propria vita, a realizzare nel 1892 l’album con le riproduzioni fotografiche dei bozzetti del concorso per il Monumento nazionale al Principe Amedeo che il Comitato esecutivo aveva offerto ai membri della giuria (FVA0300).

[53] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano, cui si devono forse le due medaglie conquistate a Napoli nel 1878 ed a Milano nel 1881 (Miraglia 1990, p. 379).

[54] Cavanna 2000a. La richiesta ministeriale ai Prefetti comportava di acquistare o “al caso far eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” A Caselli si deve – credo –  il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, così come appare proprio nelle immagini valdostane di Ecclesia.

[55] Barberi 1999, p.  93 nota 111. Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, e poi ancora – per iniziativa ministeriale – nel salone centrale dell’Esposizione di architettura del 1890 (Volpiano 1999, p. 59). Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Piemonte.

[56] Atto del 22 dicembre 1882, MCT- PM, FA m. E.

[57] Nella copia dedicata “Al Preg.mo Dottore Rovere” il dedicante si definisce esplicitamente quale “ristauratore del Castello”. Quasi superfluo ricordare che una tale precisa intenzione documentaria ed esplicitamente celebrativa condotta con la complicità di Giacosa, questa accurata e lunga messa a punto di un autoritratto in forma di castello che fu l’intera operazione di Issogne, questo intreccio di sentimenti e culture dell’abitare che richiama alla mente l’opera di una vita di Mario Praz, non si espresse in forme neppure lontanamente paragonabili nelle poche occasioni in cui il ruolo di Avondo fu quello di consulente, come per Palazzo Silva a Domodossola o Casa Cavassa a Saluzzo, ma neppure per il castello di Lozzolo, cui pure fu molto legato negli anni giovanili ma di cui non si conserva nel fondo neppure un’immagine.

[58] Contratto del 12 gennaio 1884, MCT- PM- FVA, m. L, n.132; come risulta da una nota del 29 marzo successivo Ecclesia aveva impiegato sette giorni , coadiuvato dal custode del castello, per realizzare le 72 riprese (36 grandi, 36 piccole) del castello; le spese vive totali ammontavano a L. 311,50 (MCT- PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture”). Una seconda ricchissima campagna documentaria del castello e dei suoi arredi, con immagini di grande qualità, raccolta in un album Alfieri e Lacroix oggi compreso nel Fondo Avondo (FVA570) quale evidente esito di una integrazione successiva, sarà condotta nel 1935-36 verosimilmente in relazione con le iniziative assunte da Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, il quale “animato da una nuova ondata di passione medievalista a sfondo littorio”  (Barberi 1999, a cui si rimanda per la ricostruzione dell’intera vicenda) aveva elaborato un ambizioso progetto relativo ai castelli valdostani, che per Issogne prevedeva oltre al restauro (sciagurato) degli affreschi, anche che “tutti gli ambienti [fossero] restaurati e convenientemente arredati” (Bruno Molaioli 1936), con la graduale sostituzione “dell’arredamento di imitazione antica con mobili originali” (Carlo Aru 1936), ciò che potrebbe rendere ragione della ricca documentazione di arredi, anche del Museo Civico, nelle pagine dell’album.

[59] FTM- PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture”. Che gli album avessero edizioni anche molto diverse tra loro, e non solo per il formato, è confermato dal confronto tra i diversi esemplari conservati presso la Biblioteca della Fondazione Torino Musei;  non solo varia l’ordine delle tavole, ma vengono utilizzate stampe tratte da negativi anche significativamente diversi relativi allo stesso ambiente: la Parte del cortile col pozzo (t. IV), che nell’edizione in piccolo formato presenta un uomo in costume da armigero poggiato alla fontana del melograno, risulta assolutamente spopolata nella versione in formato maggiore, mentre in altri casi muta la disposizione degli arredi secondari o il momento della ripresa, con conseguente diversa illuminazione, senza che per ora sia possibile stabilire una dettagliata cronologia delle singole riprese.

[60] Nota del gennaio 1889, MCT- PM- FVA, m. E. Ancora nel 1898 Ecclesia scriveva ad Avondo per chiedergli l’autorizzazione ad esporre per la vendita le fotografie di Issogne all’Esposizione “visto che nella speculazione fatta (…) ci abbiamo rimesso specialmente io che più nulla mi rimane” (Lettera del 13 aprile 1898, MCT-PM- FVA, m.L, n.60), ma la querelle dovette proseguire ancora a lungo se nel 1910, per ovviare al contenzioso, le fotografie vennero consegnate alla Soprintendenza torinese (Barberi 1999, p. 93, nota 111).

[61] Le immagini ebbero un successo notevole: vennero riproposte sulle pagine de “La Fotografia Artistica” del giugno-luglio 1911 poi ancora in parte riprese da Carlo Nigra nella sua pubblicazione del 1934 dedicata al cinquantenario della realizzazione del Borgo Medievale, pur omettendone la paternità.

[62] Questa tradizione, molto piemontese, proseguirà ben oltre le raffinate ambientazioni pittorialiste di Guido Rey sino a comparire, singolarmente, nella produzione di un fotografo di cultura modernista come Riccardo Moncalvo che ancora nel 1938 fotograferà con tenero sentimentalismo due ragazze in costume nei castelli di Fenis e di Issogne (Moncalvo 1997).

[63] La visita a Issogne era connessa all’incarico di consulente per gli interni  e gli arredi avuto dall’architetto Bodo Ebhardt, responsabile del vistoso restauro stilistico del castello di Haut-Koenigsbourg in Alsazia. Su Forrer, archeologo con interessi antiquariali, direttore del Museo Archeologico di Strasburgo dal 1907 al 1940,  autore di numerosissime  pubblicazioni illustrate e albi, compresi nel Fondo Rovere della Biblioteca della Fondazione Torino Musei ma in parte risultato di scambio con la pubblicazione del 1905, rimando alla fondamentale monografia di Bernadette Schnitzler 1999, che qui ringrazio per avermi fornito preziosissime indicazioni relative al ruolo dello studioso. Di tutt’altro tenore le considerazione di un altro illustre corrispondente di Avondo, Luigi Palma di Cesnola, che in una lettera del luglio 1901 per molti versi adulatrice (“Ho bisogno che un artista come Lei che è universalmente riconosciuto, mi consigli”) gli ricordava come “Qui, di vecchi Castelli né di nuovi, esistono; tutto è democratico.” (PM- FVA, m. A).

[64] Il 2 gennaio 1902 la Libreria Clausen pagava ad Avondo L.40 per una copia dell’album Ecclesia (L.30) e “L. 10 pel Forrer, che è il suo vero prezzo ordinando l’esemplare in Germania, e che non dubito Ella vorrà rilasciarmi all’identica condizione” (MCT- PM- FVA, m. A), ma pare che anche questa pubblicazione avesse – ancora una volta – scarsa circolazione se un addetto ai lavori come Charles Chauvet, redattore e disegnatore de “L’Art pour tous” ricordando l’incontro torinese del 1898 con “l’homme sympathique, l’artiste, l’érudit qui est le directeur, M. le commandeur Avondo”, cui doveva la sua scoperta di Issogne e la possibilità “de rapporter en France, la quasi découverte d’une architecture, de decorations peintes inattendues sur le sol italien” (Chauvet 1901) mostrava di conoscere il testo di Giacosa ma non quello di Forrer. Il periodico, fondato nel 1861 da émile Reiber, ospitò dal 1898 molte tavole relative ad oggetti del Museo, disegnati da Chauvet proprio in occasione della visita compiuta a Torino per le Esposizioni di quell’anno.

[65] Esposizione 1880, i cui scopi – come ricordava Mario Michela nella presentazione – furono quelli di “raccogliere le reliquie della antica Arte sparse e nascoste per queste vecchie provincie; scuotere la polvere obliosa di nomi ingiustamente dimenticati.”  In quella occasione Avondo mise a disposizione una ventina di opere dalle sue collezioni di armi, arredi, tessuti e oreficerie, tra cui il reliquiario di Giorgio di Challant per la chiesa di Verrès (Sala III, vetrina A n.7).

[66] Per una prima ricostruzione di queste vicende mi sono avvalso di quanto pubblicato in Collegio Architetti 1887; Volpiano 1999, cui rimando per ogni citazione successiva, salvo diversa indicazione.

[67] Uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizzava il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano” (Donghi 1891, p. 18). Diverso il parere di Giovanni Sacheri, per il quale “ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!” (Volpiano 1999, p. 99); già alcuni anni prima (1883) Sacheri  si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32) concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[68] AMCTO CAP5, n.65 Verbale del 23-12-1895, sottolineatura nostra.

[69] Novara 1992, p. 255; l’attenzione per la comunicazione museale e per una più vasta divulgazione della conoscenza del suo patrimonio è testimoniata da una serie di cartoline in fototipia conservate nel fondo, tra cui il dipinto di V. Marinelli, Ferrante Catara porta in trionfo per Napoli Masaniello.

[70]Taramelli 1898. Il permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” è stato riconosciuto da Giovanni Romano 1988, p. 23.

[71] “Volendosi fare alcune tavole a colori si potrebbe ricorrere alla tricromia: ma questa, per quanto fedele, non conviene per tirature  così limitate. (…) Io proporrei invece di eseguire le dette tavole in cromolitografia a tinte piatte servendosi pei calchi della fotografia.” (Lettera dell’11 novembre 1899, AMCTO CMS 23)

[72] AMCTO CMS 23, 1900, XLII. Anche altri interventi rimarcarono il carattere elitario della pubblicazione in 250 copie, mentre alcuni consiglieri come Carlo Ceppi esprimevano dubbi “anche sul modo della pubblicazione perché le maioliche, i vetri, le stoffe ed altri oggetti a colori non si possono rappresentare colle sole risorse della fotografia.” Luigi Cantù, certo sulla scia dell’esperienza raggiunta con la curatela tecnica dell’analoga pubblicazione dell’Armeria Reale confermava infine che le lastre utilizzate dal Di Sambuy, nei due formati 18×24 o 24×30, sarebbero rimaste di proprietà del Municipio, secondo quanto meglio specificato dalla successiva scrittura privata di affidamento d’incarico che al punto 4° prevedeva: “Il presente contratto essendo stipulato per semplice locazione di opera e non altrimenti il Municipio intende rimanga interamente riservata a sé la proprietà artistica dell’opera completa, delle lastre fotografiche e delle riproduzioni che se ne potranno trarre con qualsiasi sistema e la custodia delle lastre viene affidata alla Direzione del Museo a cui verranno consegnate dal Nobile Sambuy ad opera compiuta debitamente assestate in apposite cassette scanalate, chiuse a chiave e sigillate col sigillo del prefato Nobile di Sambuy” 5° “Ad opera ultimata le pietre litografiche che servirono per le riproduzioni delle tavole in cromo saranno cancellate alla presenza del Direttore del Museo e del Nobile di Sambuy, a meno che il Municipio di Torino non intenda acquistarle al prezzo di costo della pura pietra”  6° “Nel frontespizio dell’opera (…) sarà indicato come esecutore delle riproduzioni lo studio di riproduzioni artistiche del Nobile di Sambuy”. (AMCTO CMS 23, 15 marzo 1901)  In quegli stessi giorni il Direttore riceveva da Luigi Palma di Cesnola, la conferma dell’invio di “una cassetta contenente le fotografie dei principali quadri esposti nel Metropolitan Museum” (PM- FVA, m. B.N. n.252) “dalle quali potrà farsi un idea [sic] più chiara della raccolta di oggetti d’arte che questo Museo possiede, il valore totale delle quali, in danaro costano e rappresentano sessantadue milioni di lire italiane.” (PM- FVA, m. B.N. n. 117), ma allo stato attuale non è rimasta traccia di tale invio.

[73] AMCTO CMS 23, Lettera del 9 gennaio 1901. Nel 1896 alla Fototipia Molfese e Charvet, via XX settembre, 56, era stato affidato l’incarico di stampa dei tre volumi illustrati dell’Armeria Reale, poi realizzati dallo stabilimento milanese Calzolari e Ferrario, per sopraggiunti insanabili contrasti tra il contitolare Alberto Charvet  e Giovanni Assale, responsabile delle riprese realizzate dallo Studio Berra (Cavanna 2003).

[74] AMCTO CAA 32.3  Lettera del 13 luglio 1903.

[75] AMCTO CAA 32.4 Lettera del 31-3-1904. I lunghi tempi di realizzazione erano anche dovuti alle caratteristiche intrinseche del procedimento adottato; nell’ottobre del 1903 Calzolari e Ferrario avevano a loro volta richiesto una sollecita approvazione per poter procedere coi lavori “stante che i nostri fototipi essendo a base di gelatina  influiscono molto [sic] come igrometro al tempo pessimo che siamo e che continuerà.” Ancora nel novembre successivo osservavano che “se il sole si fa desiderare non vorremmo pregiudicare la perfetta riuscita del lavoro per accelerare la consegna di qualche settimana.” AMCTO CMS 23, Memorandum del 29-10-1903; AMCTO CMS 23 Lettera del 27-11-1903.

[76] AMCTO CAA 37.1, “Pubblicazione illustrata – Copie spedite – Riscossioni e versamenti”. Non risulta tra gli acquirenti il nome di Alfredo Melani che nel 1902 aveva scritto ad Avondo per ottenere alcune fotografie degli oggetti del museo essendo stato avvertito da Bertea del catalogo in preparazione, riproduzioni che a lui sarebbero servite  per la preparazione del volume dedicato alla Storia dell’Industria artistica che “uscirà a fascicoli fra molto tempo”; richiedeva inoltre l’invio – a suo tempo – del Catalogo “per metterlo in evidenza o nell’”Arte Italiana”   o in qualche Rivista Estera (…) Abbiamo molti amici in comune: il Boito, il D’Andrade, il Giacosa, il Reycend da cui potevo farmi presentare; e scusi se sono andato così per le spicce.” Avondo rispose con grande sollecitudine ma con altrettanta freddezza ricordando che Di Sambuy ne “ha la proprietà artistica” e che per quanto riguardava l’invio del volume avrebbe potuto a suo tempo “dirigersi al Sindaco per averne una copia”. (AMCTO CAA 32.2 Lettere del 23 e 24 marzo 1902) Gli accordi con Di Sambuy non avevano però impedito ad Avondo, negli stessi giorni, di concedere a Secondo Pia di fotografare “vari oggetti esistenti nel Museo Civico” per illustrare una conferenza dell’Avv. Rondolino su Torino Medievale. (AMCTO CAA 32.2 Lettera del 21-3-1902).

[77] Di Macco 1997, p. 52, ha parlato a questo proposito di “modelli espositivi (messi a punto più tardi in sede museale).”

[78] Avondo svolse un ruolo importante nei confronti dell’Esposizione non solo come organizzatore e prestatore ma anche quale membro del Comitato per la pubblicazione illustrata. Degli scambi e suggerimenti di oggetti intercorsi tra i diversi membri del Comitato promotore resta traccia in una fotografia di una delle porte del castello di Lagnasco, esposta in mostra, compresa tra le immagini del fondo con dedica di Emanuele d’Azeglio allo stesso Avondo.

 

 

 

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Becchetti 2003

Piero Becchetti, “La natura stessa è fatta di sé medesima pittrice”. Quindici anni di vedute romane, in Modena per la fotografia. L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena 2003-2004), a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Milano: Silvana Editoriale, 2003, pp. 10-38

 

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Bertelli, Bollati 1979

Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845 – 1945, “Storia d’Italia. Annali”, 2. Torino: Einaudi, 1979

 

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Biscarra 1870

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Biscarra 1878

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Silvia Bordini, Aspetti del rapporto pittura-fotografia nel secondo Ottocento, in Enrico Castelnuovo, a cura di, La pittura in Italia, L’Ottocento. Milano: Electa, 1991, pp. 581-601

 

La Borghesia allo specchio 2004

La Borghesia allo specchio. Il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra (Torino, 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Milano: Silvana Editoriale, 2004

 

Calle, Nèagu 1988

Marie-Thérèse Calle, Philippe Nèagu, Photographies: Barbizon d’hier et aujourd’hui. Barbizon: Musée municipal de l’Ecole de Barbizon, 1988

 

La Campagna romana 2001

La Campagna romana da Hackert a Balla, catalogo della mostra (Roma, 2001-2002), a cura di Pier Andrea De Rosa, Emilio Trastulli. Roma: De Luca, 2001

 

Canestrini  2000

E.C. [Elisabetta Canestrini], Ernesto Rayper, in Dragone 2000, pp. 361-362

 

Caneva  1855

Giacomo Caneva, Della Fotografia. Trattato pratico di Giacomo caneva pittore prospettico. Roma: Tipografia Tiberina, 1855 (ripr. facsimile Firenze: Alinari, 1985)

 

Caneva 1989

Giacomo Caneva e la Scuola Fotografica Romana (1847 / 1855), catalogo della mostra (Roma, 1989), a cura di Piero Becchetti. Firenze: Alinari, 1989

 

Carandini 1925

Francesco Carandini, La Rocca e il Borgo Medioevale eretti in Torino. La figura e l’opera di Alfredo De Andrade. Ivrea: 1925

 

Cartier-Bresson 2003

Anne Cartier-Bresson, “La méthode romaine: entre prospection et adaptation », in Roma 1850  2003, pp. 15-21

 

Cassanelli 1998a

Roberto Cassanelli, a cura di, Luigi Sacchi. Un artista dell’Ottocento nell’Europa dei fotografi. Torino: Provincia di Torino, 1998

 

Cassanelli 1998b

Robeto Cassanelli, Morris Moore, Pietro Selvatico e le origini dell’expertise fotografico, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini, I, Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali, “Quaderni”, 8. Pisa: Scuola Normale Superiore, 1998, pp. 41-47

 

Castelli e cattedrali 1999

Castelli e cattedrali di Puglia a cent’anni dall’esposizione Nazionale di Torino, catalogo della mostra (Bari, 1999), a cura di Clara Gelao, Gian Marco Jacobitti. Bari: Mario Adda Editore, 1999

 

Castello d’Issogne 1884

Castello d’Issogne in Val d’Aosta. Torino: Camilla e Bertolero, s.d. [1884]

 

Cavanna 1981

Pierangelo Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo d’Andrade 1981, pp. 107-125

 

Cavanna 1992

Pierangelo Cavanna, Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese, in Antichità ed Arte nel Biellese, atti del convegno (Biella 14-15 ottobre 1989), a cura di Cinzia Ottino, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, n.s., XLIV, 1990-1991, pp. 199-216

 

Cavanna 1997a

Pierangelo Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauro. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp. 68-77

 

Cavanna  1997b

Pierangelo Cavanna, Sketches of London, in Antonio Fontanesi 1818 – 1882, catalogo della mostra (Torino, 1997), a cura di Rosanna Maggio Serra. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp. 185-189

 

Cavanna 1999

Pierangelo Cavanna, Luigi Ghirri. Castelli valdostani, catalogo della mostra (Aosta, 1999). Aosta: Musumeci Editore, 1999

 

Cavanna 2000a

Pierangelo Cavanna, Documentazione fotografica del patrimonio architettonico in Piemonte 1861-1931, “Architettura & Arte”, n.11-12, luglio-dicembre 2000, pp. 16-23

 

Cavanna 2000b

Pierangelo Cavanna, Musei Civici di Torino. Il patrimonio fotografico. Analisi della consistenza, tipologia e stato di conservazione dei fondi, dattiloscritto

 

Cavanna 2003

Pierangelo Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858 – 1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837 – 1898, catalogo della mostra (Torino 2003 – 2004), a cura di Paolo Venturoli. Torino: Umberto Allemandi & C., 2003, pp. 79-98

 

Ceresa, Mosca, Siccardi        2001

Carla Ceresa, Valeria Mosca, Daniela Siccardi, a cura di, Archivio dei Musei Civici di Torino. Inventario 1862-1965. Torino: Città di Torino, 2001

 

Challe 1996

Daniel Challe, Eugène Cuvelier ou le légendaire de la forêt, in Gauss 1996, pp. 16-66

 

Challe, Marbot 1991

Daniel Challe, Bernard Marbot, Les photographes de Barbizon. La forêt de Fontainebleau. Paris: Hoëbeke – Bibliothèque Nationale, 1991

 

Chauvet 1901

Charles Chauvet, Le manoir des Comptes de Challant à Issogne (Vallée d’Aoste),  “L’Art pour tous. Encyclopedie de l’Art industriel et décoratif”, Paris,  40 (1901), n. 187, juillet

 

Collegio Architetti 1887

Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887

 

La Contessa di Castiglione 2000

La Contessa di Castiglione e il suo tempo, catalogo della mostra (Torino, 2000), a cura di Martina Corgnati, Cecilia Ghibaudi. Milano: Silvana Editoriale, 2000

 

Corot 1994

Jean-Baptiste Camille Corot. Un sentimento particolare del paesaggio, catalogo della mostra (Lugano, 1994), a cura di Manuela Kahn-Rossi. Lugano – Torino: Museo Cantonale d’Arte – Umberto Allemandi & C., 1994

 

Cox 1991

Julian Cox, ed., Ffotograffiaeth Cymreig Cynnar – Early Welsh Photography, “History of Photography”, 15 (1991), n. 3, autumn

 

Cremona 1946

Italo Cremona, Disegni di Vittorio Avondo. Torino: Collezione del Bibliofilo, 1946

 

Cristofari 1992

Roberta Cristofari, Poppi, Pietro (1833 – 1914), in Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografie fotografia a Bologna 1839 – 1900. Bologna: Grafis, 1992, pp.276-277

 

Cristofori, Roversi 1980

Franco Cristofori, Giancarlo Roversi, a cura di, Pietro Poppi e la Fotografia dell’Emilia. Bologna: Cassa di Risparmio di Bologna, 1980

 

Daniel 1994

Malcom Daniel, The Photographs of  édouard Baldus. New York – Montreal: Metropolitan Museum of Art – Canadian Centre for Architecture, 1994

 

De Rosa, Trastulli 1988

Pier Andrea De Rosa, Paolo Emilio Trastulli, I pittori Coleman. Roma: Studio Ottocento, 1988

 

Di Macco 1997

Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 49-58

 

Dini 1997

Francesca Dini, Telemaco Signorini, l’uomo e l’artista, in Telemaco Signorini. Una retrospettiva, catalogo della mostra  (Firenze, 1997). Firenze: Artificio, 1997, pp. 267-274

 

Donato 1993

Giovanni Donato, Immagini del medioevo torinese fra memoria e conservazione, in Rinaldo Comba, Rosanna Roccia, a cura di, Torino fra Medioevo e Rinascimento. Dai catasti al paesaggio urbano e rurale. Torino: Archivio storico della Città di Torino, 1993, pp. 305-364

 

Donghi 1891

Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891

 

Dragone 1973

Angelo Dragone, Lorenzo Delleani. La vita, le opere, il suo tempo. Biella: Cassa di Risparmio di Biella, 1973-1974

 

Dragone 2000

Piergiorgio Dragone,a  cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865 – 1895. Torino: Banca CRT, 2000

 

Dragone 2001

Piergiorgio Dragone,a  cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1830 – 1865. Torino: Banca CRT, 2001

 

Esposizione  1880

IVa Esposizione Nazionale di Belle Arti, Catalogo degli oggetti componenti la Mostra di Arte Antica. Torino: Vincenzo Bona, 1880

 

Esposizione  1884

Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea. Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884

 

Esposizione  1898

Esposizione Italiana 1898. Arte Sacra. Catalogo generale. Torino: Roux Frassati e C., 1898

 

Falzone del Barbarò 1980

Michele Falzone del Barbarò, Carlo Duroni. Banco di beneficenza, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna 1773 – 1861, catalogo della mostra (Torino, 1980), a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci. Torino: Regione Piemonte – Provincia di Torino – Città di Torino, 1980, II, sch. n. 1121, p. 928

 

Falzone del Barbarò  1989

Michele Falzone del Barbarò, La calotipia in Toscana: origini e protagonisti inediti, in Alle origini della fotografia 1989, pp. 31-56

 

Falzone del Barbarò  2000

Michele Falzone del Barbarò, Ambasciate e corti, in La Contessa di Castiglione 2000, sch. n. 1.34, pp. 132

 

Falzone del Barbarò, Borio  1989

Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886 – 1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989

 

Ferro  1999

Francesca Ferro, Vittorio Avondo e la grafica, tesi di laurea in Storia dell’Arte moderna, relatore Giovanni Romano, Università degli studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a. 1998 – 1999

 

Forrer  1896

Robert Forrer, Spätgothische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne. Strassburg: Fritz Schlesier, 1896

 

Fotografi del Piemonte         1977

Fotografi del Piemonte 1852-1899, catalogo della mostra, Torino, giugno-luglio 1977, a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Frisoni  1998

Cinzia Frisoni, Pietro Poppi e la Mostra d’Arte Sacra in San Francesco : recupero di una documentazione fotografica, in “Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande”, 5, a cura di Corinna Giudici. Bologna: Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici per le province di Bologna, Ferrara, Forlì, Ravenna e Rimini, 1998, pp. 35-41

 

Frizot  1994

Michel Frizot, Blanquart-Evrard éditeur de photographies, in Id., a cura di, Nouvelle Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1994 , p. 83

 

Galassi  1989

Peter Galassi, Before Photography: Painting and the Invention of Photography. New York: The Museum of Modern Art, 1981 (ed. Italiana, Prima della fotografia. La pittura e l’invenzione della fotografia. Torino: Bollati Boringhieri, 1989

 

Galassi  1994

Peter Galassi, Corot in Italia. La pittura di plein air e la tradizione del paesaggio classico. Torino: Bollati Boringhieri, 1994

 

Gasparini  2005

Laura Gasparini, La raccolta delle carte salate della Scuola Romana di Fotografia dell’Istituto Statale d’Arte “Gaetano Chierici” di Reggio Emilia, in Un Museo ritrovato. Il patrimonio dell’Istituto d’Arte Chierici restituito alla città, catalogo della mostra (Reggio Emilia, 2005). Reggio Emilia, Musei Civici / Litograph, 2005, pp. 81-89; 206-226

 

Gauss  1996

Ulrike Gauss, a cura di, Eugène Cuvelier 1839 – 1900. Stuttgart/ Ostfildern-Ruit: Staatsgalerie / Cantz Verlag, 1996

 

Gelao  1999

Clara Gelao, Tra calchi e monumenti. A cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, in Castelli e cattedrali 1999, pp. 33-47

 

Gentile  2001

Guido Gentile, Importazioni di opere e migrazioni di artisti lungo le vie delle Alpi, d’Alemagna e delle Fiandre, in Tra Gotico e Rinascimento. Scultura in Piemonte, catalogo della mostra (Torino, 2001), a cura di Enrica Pagella. Torino: Museo Civico d’Arte Antica, 2001, pp. 114-116

 

Giacosa  1884

Giuseppe Giacosa, Notizie storiche intorno alla famiglia di Challant, in Castello d’Issogne 1884

 

Giacosa  1898

Giuseppe Giacosa, Castelli valdostani e canavesani. Torino: Roux e Frassati, 1898

 

Giacosa  1968

Pietro Giacosa, Il castello di Issogne. Verona: Stamperia Valdonega, 1968

 

Giudici  2004

Corinna Giudici, a cura di, C’era due volte. Fondi fotografici e patrimonio artistico. Bologna: SPSAD / Minerva Edizioni, 2004

 

Giusa  1995

Antonio Giusa, Fotografi e fotografie della S.A.F., “Immagine e cultura”, 2 (1995), n.2, marzo, pp.22-33

 

Grabaudi, Falzone  1979

Elisa Gribaudi Rossi, Michele Falzone del Barbarò, Carnet di ballo. Milano: Longanesi & C., 1979

 

Griseri, Gabetti  1973

Andreina Griseri, Roberto Gabetti, Architettura dell’eclettismo: un saggio su Giovanni Battista Schellino. Torino: Einaudi, 1973

 

Grohn 1971

Hans Werner Grohn, L’opera completa di Holbein il giovane. Milano: Rizzoli, 1971

 

Heilbrun  2004

Françoise Heilbrun, Paesaggio e natura. Milano: 5 Continents Editions, 2004

 

Heilbrun, Néagu  1986

Françoise Heilbrun, Philippe Néagu, Musée d’Orsay. Chefs-d’œuvre de la collection photographique. Paris: Philippe Sers – Réunion des musées nationaux, 1986

 

L’immagine rivelata  1998

L’immagine rivelata. 1989. Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, 1998), a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998

 

Infinitamente  2004

Infinitamente al di là di ogni sogno. Alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra (Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004

 

Invention  1989

L’invention d’un regard (1839 – 1918), catalogo della mostra (Parigi, 1989), a cura di, Françoise Heilbrun, Bernard Marbot, Philippe Néagu. Paris: Réunion des Musées Nationaux, 1989

 

L’Italia d’argento  2003

L’Italia d’argento 1839/ 1859. Storia del dagherrotipo in Italia, catalogo della mostra (Roma, Firenze, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli. Firenze: Alinari, 2003

 

Italien  1994

Italien. Sehen und Sterben. Photographien der Zeit des Risorgimento, catalogo della mostr (Colonia, 1994), a cura di Bodo von Dewitz, Dietmar Siegert. Köln: Agfa Foto-Historama, 1994

 

Jammes  1981

Isabelle Jammes, Blanquart- évrard et les origines de l’édition photographique française: catalogne raisonné des albums photographiques édités 1851 – 1855. Genève: Droz, 1981

 

Jammes, Parry Janis  1983

André Jammes, Eugenia Parry Janis, The Art of French Calotype. Princeton: Princeton University Press, 1983

 

Krauss  1996

Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia.  Milano: Bruno Mondadori, 1996

 

In the Light of Italy  1996

In the Light of Italy. Corot and Early Open-Air Painting, catalogo della mostra (Washington, Brooklyn, Saint Louis, 1996 – 1997), a cura di Peter Galassi. Washington: National Gallery of Art, 1996

 

Maccaferri, Sergi  1986

Gianfranco Maccaferri, Fortunato Sergi, a cura di, 1870 – 1940. I fotografi della Valle d’Aosta. Aosta: Musumeci, 1986

 

Maestà di Roma  2003

Maestà di Roma. Da Napoleone all’Unità d’Italia, catalogo della mostra (Roma, 2003), a cura di Sandra Pinto, Liliana Barroero, Fernando Mazzocca. Milano: Electa, 2003

 

Maggio Serra  1977

Rosanna Maggio Serra, La fotografia nel Fondo D’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonte 1977, pp. 17-20

 

Maggio Serra  1979

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  Galleria Civica d’Arte Moderna. Acquisizioni 1971 – 1978. Torino: Città di Torino – Assessorato per la cultura – Musei Civici, 1979

 

Maggio Serra  1981

Rosanna Maggio Serra, Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade 1981, pp. 19-43

 

Maggio Serra  1988

Rosanna Maggio Serra, Il vero e il paesaggio in Piemonte: vent’anni di polemiche e dibattiti, in Il Secondo ‘800 italiano. Le poetiche del vero,  catalogo della mostra (Milano, 1988), a cura di Renato Barilli. Milano: Mazzotta, 1988, pp. 90-104

 

Maggio Serra  1993

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  L’Ottocento. Catalogo delle opere esposte. Milano: Fabbri Editori, 1993

 

Maggio Serra  1994

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  Repertorio delle opere su carta acquisite per la Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino 1982 – 1992.  Torino: Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris – Umberto Allemandi & C., 1994

 

Maggio Serra  1997

Rosanna Maggio Serra, Qualche novità su Avondo pittore. Studi sul fondo di disegni e dipinti della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 61-93

 

Maggio Serra  2003

Rosanna Maggio Serra, L’arte in mostra nella seconda metà dell’Ottocento, in Umberto Levra, Rosanna Roccia, a cura di, Le esposizioni torinesi 1805 – 1911,. Torino: Archivio Storico della Città di Torino, 2003, pp. 297-322

 

Maggio Serra, Signorelli 1997

Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo (1836 – 1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, Nuova Serie – Atti – v. IV, 1997

 

Mallè  1970

Luigi Mallè, I Musei Civici di Torino. Acquisti e Doni 1966 – 1970. Torino: Museo Civico di Torino, 1970

 

Marbot  1991

Bernard Marbot, Les photographes oubliées de la  forêt de Fontainebleau, in Challe, Marbot 1991 , pp. 14-18

 

Margiotta  2003

Anita Margiotta, La Scuola Romana di Fotografia, in Roma 1850 2003 , pp. 28-34

 

Mario Gabinio  1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Mario Gabinio  2000

Mario Gabinio. Valli piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, 2000-2001), a cura di P. Cavanna. Torino: Edizioni GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 2000

 

Mascia  2000

  1. M. [Alessandra Mascia], Paolo Gaidano, (scheda biografica), in Dragone 2000, pp. 334

 

Matteucci  1997

Giuliano Matteucci, Il fondo fotografico di Telemaco Signorini dell’archivio Vitali, in Telemaco Signorini. Una retrospettiva, catalogo della mostra (Firenze, 1997). Firenze: Artificio, 1997, pp. 184 -236

 

1899, Un progetto di fototeca  2000

1899, Un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, 2000), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici – Electa, 2000

 

Millozzi  2005

Federica Millozzi, Studio Salviati, in Venezia, la tutela per immagini. Un caso esemplare dagli archivi della Fototeca Nazionale, catalogo della mostra (Roma, 2005), a cura di Paola Callegari, Valter Curzi. Bologna: Bononia University Press, 2005

 

Miraglia  1981

Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839 – 1911),  “Storia dell’Arte italiana”, 9, “Grafica e immagine. II. Illustrazione e fotografia”. Torino: Einaudi, 1981, pp. 421-543

 

Miraglia  1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia  1996

Marina Miraglia, a cura di, Alle origini della fotografia. Luigi Sacchi lucigrafo a Milano 1805 – 1861. Milano: Federico Motta Editore, 1996

 

Miraglia  2003

Marina Miraglia, La fotografia, in Maestà di Roma 2003, pp. 565-581

 

Mirisola  2004

Vincenzo Mirisola, a cura di, Sicilia Mitica Arcadia – Von Gloeden e la “Scuola” di Taormina. Palermo: Edizioni Gente di Fotografia, 2004

 

Mirisola, Di Dio  2004

Vincenzo Mirisola, Michele di Dio, a cura di, Sicilia ‘800 – Fotografi e Grand Tour.  Palermo: Edizioni Gente di Fotografia – Fototeca Regionale, 2004

 

Mollino  1949

Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [1950]

 

Moncalvo  1997a

Enrico Moncalvo, Tableaux vivants tra Romanticismo e Modernismo, in Presenze. L’avanguardia temperata di Riccardo Moncalvo, catalogo della mostra (Torino, 1997-1998), a cura di Aldo Audisio. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1997, pp. 78-91

 

Moncalvo  1997b

Enrico Moncalvo, La residenza torinese di Vittorio Avondo: la palazzina di via Napione nel contesto delle tipologie coeve, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 199-208

 

Monumento Nazionale  1892

Monumento Nazionale al Principe Amedeo. Relazione della Giuria. Torino: Vincenzo Bona, 1892

 

Museo Civico  1905

Museo Civico di Torino – Sezione Arte anticaCento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo. Torino: Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo di Sambuy, 1905

 

Naef  1980

Weston Naef, The beginning of Photography as Art in France, in After Daguerre: Masterworks of French Photography (1848 – 1900) from the Bibliothèque Nationale, catalogo della mostra (Paris, New York, 1980-1981), Bernard Marbot, Weston J. Naef, eds. New York / Parigi: The Metropolitan Museum of Art / Berger-Levrault, 1980

 

Natale  1993

Vittorio Natale, Alessandro Puttinati, in Maggio Serra 1993, p. 109

 

Negro  1956

Silvio Negro, Album romano. Roma: Gherardo Casini Editore, 1956

 

Negro  1964

Silvio Negro, Nuovo Album romano. Fotografie di un secolo. Vicenza: Neri Pozza Editore, 1964

 

Novara  1992

Carla Novara,  La Galleria d’Arte Moderna della città di Torino: la storia di un’istituzione: 1863 – 1910, tesi di laurea in Storia della critica d’arte, relatore Giovanni Romano, Università degli studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1991 – 1992

 

Paoli  2000a

Silvia Paoli, Domenico Bresolin, in 1899, un progetto di fototeca 2000, p. 161

 

Paoli  2000b

Silvia Paoli, Guigoni & Bossi, in 1899, un progetto di fototeca 2000, p. 187

 

Paoli  2004

Silvia Paoli, a cura di, Lamberto Vitali e la fotografia. Collezionismo, studi e ricerche. Milano: Silvana Editoriale, 2004

 

Papone  2003

Elisabetta Papone, “Al chiarissimo Antonio Cipolla… il Municipio di Genova”: un album tra fotografia, architettura e politica, in Fotografi e fotografie, “Bollettino dei Musei Civici Genovesi, 23 (2001), nn. 68/69, maggio – dicembre, pp. 6-19

 

Pettenati  1996

Silvana Pettenati, Francesco Marmitta, in Il tesoro della città 1996, pp. 41-42

 

Pettenati  1997

Silvana Pettenati, Vittorio Avondo e le arti applicate all’industria, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 95-102

 

Piemonte  1930

Touring Club Italiano, Piemonte, “Attraverso l’Italia”, I. Milano: Touring Club Italiano, 1930

 

Pirani  2003

Federica Pirani, “Amici e rivali. Ippolito Caffi e Giacomo Caneva tra pittura e fotografia”, in Roma 1850  2003, pp. 42-47

 

Pittori fotografi  1987

Pittori fotografi a Roma 1845 – 1870, catalogo della mostra (Roma, 1987), a cura di, Lucia Gavazzi, Anita Margotta, Simonetta Tozzi. Roma: Multigrafica Editrice, 1987

 

La poesia del vero  2001

La poesia del vero. Pittura di paesaggio a Roma tra Ottocento e Novecento da Costa a Parigini, catalogo della mostra (Macerata – Camerino, 2001), a cura di Gianna Piantoni. Roma: De Luca, 2001

 

Porretta  1976

Sebastiano Porretta, Ignazio Cugnoni fotografo. Torino: Einaudi, 1976

 

Prandi  1979

A.P. (Alberto Prandi), Veneto, in Fotografia italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Venezia, 1979), a cura di Daniela Palazzoli, Marina Miraglia, Italo Zannier. Milano / Firenze: Electa / Alinari, 1979, pp. 123-126

 

Prandi  2003

Alberto Prandi, La dagherrotipia nel Veneto, in L’Italia d’argento 2003, pp. 194-200

 

Prima Esposizione  1890

Prima Esposizione Italiana di Architettura. Torino 1890: Catalogo. Torino: Tip. Origlia, Festa e Ponzone, 1890

 

Quintavalle  2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Rampin  2001

Marina Rampin, Giacomo Caneva pittore, “Fotologia” v. 21-22, 2001, pp. 58-61

 

Reteuna  1991

Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino, “Fotologia” v. 13, 1991, pp. 30-39

 

Reteuna  1997

Dario Reteuna, a cura di, Album di famiglia 1850-1940, catalogo della mostra (Torino, 1997). Torino: Fondazione Italiana per la Fotografia, 1997

 

Roma 1850  2003

Roma 1850: il circolo dei pittori fotografi del Caffè Greco, catalogo della mostra (Roma /  Parigi, 2003 – 2004), a cura di Anne Cartier-Bresson, Anita Margiotta. Milano: Electa, 2003

 

Romano  1988

Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp. 11-32

 

Romano  1994

Serena Romano, a cura di, L’immagine di Roma 1848 – 1895. La città, l’archeologia, il medioevo nei calotipi del fondo Tuminello. Napoli: Electa Napoli, 1994

 

Rossetti Brezzi  1999

Elena Rossetti Brezzi, L’arredo pittorico, in Barberi 1999, pp. 51-54

 

Rossi  1912

Teofilo Rossi, In memoria di Vittorio Avondo. Inaugurazione della lapide decretata dal Municipio a Vittorio Avondo nella sede del Museo Civico di Arte applicata all’Industria, 14 dicembre 1912. Torino: Tip. G.B. Vassallo, 1912

 

Rouillé  1992

André Rouillé, La photographie entre controverse et utopie, in Usage de l’image au XIXe siècle, atti del convegno, (Paris, Musée d’Orsay, 1990), Stéphane Michaud, Jean-Yves Moloinier, Nicole  Savy, dir. Paris: Editions Créaphis, 1992 , pp. 249 – 256

 

Sagne  1994

Jean Sagne, Portraits en tout genre. L’atelier du photographe , in Michel Frizot, dir., Nouvelle Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1994 , pp. 102-122

 

Scaramella  1999

Lorenzo Scaramella, Fotografia. Storia e riconoscimento dei procedimenti fotografici. Roma: Edizioni De Luca, 1999

 

Schnitzler  1999

Bernadette Schnitzler, Robert Forrer (1866 – 1947) archeologue, écrivain et antiquaire. “Recherches et documents”, tome 65. Strasbourg: Société Savante d’Alsace, 1999

 

Schrader  1910

Bruno Schrader, Die Römische Campagna. Leipzig: E.A. Seemann, 1910

 

Scharf  1979

Aaron Scharf, Arte e Fotografia. Torino: Einaudi, 1979

 

Schwarz  1992

Heinrich  Schwarz, Arte e Fotografia. Precursori e influenze,  a cura di Paolo Costantini. Torino: Bollati Boringhieri, 1992

 

Sella  1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del fotografo. Trattato teorico-pratico di fotografia. Torino: Tipografia G.B. Paravia e Comp., 1863

 

Signorelli  1997

Bruno Signorelli, Il personaggio di Vittorio Avondo e le fonti documentarie per ricostruirne la figura, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 11-29

 

Simone  1965

Mario Simone, a cura di, Saverio Altamura. Pittore – patriota foggiano nell’autobiografia, nella critica e nei documenti. Foggia: Studio Editoriale Dauno, 1965

 

Simonetti  1999

Antonella Simonetti, Campagne fotografiche storiche di monumenti pugliesi nella Fototeca della Soprintendenza di Bari, in Castelli e cattedrali 1999, pp. 81-85

 

Società  1999

Società Fotografica Subalpina 1899-1999. Torino: Daniela Piazza Editore, 1999

 

Solomon-Godeau  2002

Abigail Solomon-Godeau, Calotypomane. Guide du gourmet en photographie historique, “ètudes photographiques”, n.12, novembre 2002, estratto

 

SPABA  1880

“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880

 

SPABA  1883

“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”,  IV, 1883

 

Stella  1893

Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte. Torino: Paravia, 1893

 

Strategie  2001

Strategie per la fotografia. Incontro degli archivi fotografici, atti del convegno (Prato, 2000), a cura di Oriana Goti, Sauro Lusini.  Prato: Comune di Prato – Archivio Fotografico Toscano, 2001

 

Tamassia  2002

Marilena Tamassia, Firenze ottocentesca nelle fotografie di J.B. Philpot. Livorno: Sillabe, 2002

 

Tamburini, Falzone del Barbarò  1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza, 1981

 

Taramelli  1898

Andrea Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp. 106-110; n.22, pp. 171-175; n.23, pp. 177-179

 

Il tesoro della città  1996

Il tesoro della città. Opere d’arte e oggetti preziosi da Palazzo Madama, catalogo della mostra (Torino, 1996),  a cura di Silvana Pettenati, Giovanni Romano. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Thovez  1912

Enrico Thovez, L’opera pittorica di Vittorio Avondo. Torino: Edizioni d’Arte E. Celanza, 1912

 

Tittoni, Margiotta  2002

Maria Elisa Tittoni, Anita Margiotta, a cura di, Scenari della memoria. Roma nella fotografia 1850 – 1900. Roma: Comune di Roma – Electa, 2002

 

Toesca  1911

Pietro Toesca, Torino.  Bergamo: Istituto italiano d’arti grafiche, 1911

 

Torino  1884

Torino e l’Esposizione Italiana. Cronaca illustrata della Esposizione Nazionale Industriale e Artistica del 1884. Torino / Milano: Roux e Favale / Fratelli Treves, 1884

 

Torino 1902  1994

Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994

 

Vanzella  1997

Giuseppe Vanzella, Padova. I fotografi e la fotografia nell’Ottocento. Campodarsego: Gruppo Carraro, 1997

 

Varignana  1993

Francesca Varignana, Pietro Poppi “peintre-photographe”, in Andrea Emiliani, Italo Zannier, a cura di, Il tempo dell’immagine. Fotografi e società a Bologna 1880 – 1980. Torino: Seat, 1993, pp. 57-85

 

Viale  1933

Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte. Torino: Tip. Anfossi, 1933

 

Viale  1949

Vittorio Viale, In memoria Lorenzo Rovere (1869 – 1950), “Bollettino SPABA”, N.S., 3 (1949), pp. 164-166

 

Viale  1965

Vittorio Viale, Museo Civico di Torino. Acquisti e doni dal 1961 al 1965, dattiloscritto, s.d. [1965]

 

Vitulo  1997

Clara Vitulo, Vittorio Avondo e la Commissione consultiva per i monumenti nazionali d’antichità e belle arti, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 191-197

 

Volpiano  1999

Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura. Torino: Celid, 1999

 

Wey  1851

Francis Wey, De l’influence de l’héliographie sur les Beaux-Arts, “La Lumière”, 1851, ora in Michel Frizot, Françoise Ducros, dir., Du bon usage de la photographie. Paris: Centre national de la Photographie, 1987, pp. 57-71

 

Zannier  1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

 

Lo spettacolo della verosimiglianza (2004)

in Infinitamente al di là di ogni sogno: alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1 ottobre – 14 novembre 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004, pp. 8-23

 

 

There was no tought in any of us for a moment of their beeing clouds.

They were as clear as crystal, sharp on the pure horizon sky ( … ).

Infinitely beyond all that we had ever thought or dreamed ¬–

the seen walls of Eden could not have been more beautiful to us“.

John Ruskin, 1885

 

Quando Ruskin descrive l’emozionante incon­tro richiamato in esergo, sono passati ormai più di cinquant’anni da quella sera del 1833 in cui – quattordicenne – si era trovato per la prima volta al cospetto delle Alpi, viste da Schaffausen[1]. L’incanto restava però, immu­tato, a testimoniare ancora – per noi – di un’intera stagione della cultura e del gusto che definiamo genericamente romantica, di quel Romanticismo che nelle parole di Baude­laire per il Salon del 1846 “non sta né nella scelta dei soggetti, né nell’esattezza del vero, ma nella maniera di sentire ( … ). Il romantici­smo è l’espressione più recente e più attuale del bello”[2]. È quello stesso sentimento di cui Ruskin parla, tracciandone un efficace e sintetico profilo genetico in cui si intrecciano auto­biografia e storia culturale: “In nessun periodo della storia umana sarebbe stato possibile im­maginare un più felice ingresso nella vita per un bambino che avesse un carattere come il mio. È vero però, che il carattere dipende an­che dal periodo storico. Pochi anni prima, meno di cento, non sarebbe potuto esistere alcun bambino che si interessasse tanto alle montagne e ai loro abitanti. Prima di Rous­seau non c’era l’amore ‘sentimentale’ per la natura, e prima di Scott non c’era l’amore an­sioso per ‘ogni aspetto e condizione’ dello spirito e del corpo. San Bernardo di La Fon­taine, guardando verso il Monte Bianco coi suoi occhi da fanciullo, vedeva la Madonna er­gersi al di sopra, e San Bernardo di Talloires non vedeva il lago di Annecy, ma i morti della zona tra Martigny e Aosta. Per me, invece, le Alpi e la loro gente sono belle rispettivamente per la neve e per la loro umanità, e non desi­deravo né per esse né per me, la visione di troni celesti ma solo la vista delle rocce e non sentivo il bisogno di vedere spiriti in cielo, ma solo nuvole”[3]. Romantico sentire sorto dalle radici del sublime settecentesco e nuovo rico­noscimento della fattualità degli elementi na­turali (le rocce, le nuvole) si incontrano senza contraddirsi in questo sguardo rivolto alle montagne, nelle ragioni che lo spingono a di­segnare e poi a far fotografare i ghiacciai e le vette alpine[4]  sin dall’estate del 1849. Sono, quelli, anni in cui l’esperienza della montagna era stata tradotta ormai da tempo in spettacolo per le popolazioni urbane, co­me dimostra la scelta di un tema alpino per l’inaugurazione a Parigi del Diorama di Bou­ton e Daguerre l’11 luglio 1822, quando una delle rappresentazioni proposte fu per l’ap­punto La vallée de Sarnen: “Jamais aucune représentation de la nature n’était arrivée, se­lon nous, à ce point de réalité qui peut faire croire (…) que la vue n’est pas reposée sur des imitations, mais sur les objets imités eux­memes”[5]. Era l’effetto di realtà, l’esito ultimo e allora apparentemente insuperabile della mimesi spettacolare offerta dal diorama che affascinava in questa esperienza, quello stes­so che circonderà di attonito stupore la prima comparsa del dagherrotipo, meno di vent’an­ni più tardi, rafforzato da quella maniera di restituire il sentimento attraverso la scelta del soggetto  di cui diceva Baudelaire, che ritroviamo ribadito e riproposto dalla coeva pittura di tema alpino e ulteriormente raffor­zato poi, letteralmente moltiplicato nella lar­ga diffusione garantita dalle nuove tecniche di riproduzione a basso costo, come la litografia e soprattutto la fotografia. Si vedano le due ri­produzioni di dipinti realizzate a Monaco di Baviera da Josef Albert[6] nei pri­mi anni Sessanta del XIX secolo scegliendo in un repertorio di paesaggismo romanticamen­te eroico, tra Julius Lange e Alexandre Cala­me[7].

Alla soglia degli anni Cinquanta la fotografia si avviava ad assumere le pratiche e le forme che oggi le riconosciamo come proprie, pas­sando compiutamente dall’unicità del proces­so dagherrotipico alla riproducibilità consenti­ta dal ciclo del negativo, avviato da Talbot e successivamente perfezionato dall’uso delle emulsioni al collodio su lastra di vetro, ulte­riormente amplificata con l’avvio delle prime stamperie fotografiche, come quella aperta nel 1851 a Lille (nel sobborgo di Loos-les-Lil­le), la più nota e importante della Francia di metà Ottocento. Qui Louis-Désiré Blanquart Évrard (Lille 1802-1872) avviò una produzione industriale di album fotografici applicando al trattamento dei positivi il processo di svi­luppo dell’immagine latente messo a punto da Talbot per il calotipo.[8] Le immagini pubblica­te, frutto di apposite campagne fotografiche o di raccolte di produzione eterogenea, erano montate su fogli titolati e riuniti in album non rilegati e venduti a dispense o unitariamente. L’attività di questo stabilimento fu brevissima e la stamperia chiuse improvvisamente nel 1855 per scarsa redditività, incapace di soste­nere la concorrenza delle stampe fotolitogra­fiche e delle fotoincisioni su rame o su ac­ciaio, ma ciò nonostante il ruolo svolto da Blanquart-Évrard fu determinante per la diffu­sione e la conservazione di una parte fondamentale della fotografia francese delle origini poiché qui vennero realizzate alcune delle opere più importanti della prima stagione del­l’editoria fotografica, ciascuna destinata a presentare i diversi campi di applicazione del­la fotografia: “études d’architecture, voyages, reproduction de gravures, souvenirs histori­ques”[9]. I soggetti spaziavano dal vicino Orien­te, conteso tra fascino esotico ed erudito inte­resse archeologico, tra l’Egypte, Nubie, Pale­stine et Syrie di Maxime du Camp (1852) e la Jerusalem di Auguste Salzmann (1854) [10], al pittoresco occidentale dei grandi fiumi e – ap­punto – dei paesaggi alpini, tra Les Bords du Rhine di Charles Marville (1853) [11] e i Souve­nir des Pyrenées di John Stewart[12], dello stesso anno, offerti in splendide tavole oggi rarissime[13] caratterizzate dalla dizione, appa­rentemente piuttosto ambigua, “Photo­graphié et édité par Blanquart-Évrard”, che pare contraddire la diversa attribuzione autoriale dei lavori mentre testimonia invece, or­gogliosamente il ruolo propositivo che l’imprenditore si attribuiva.

Già Alexandre Dumas con le sue Excursions sur les bord du Rhin del 1838, aveva dedica­to la propria attenzione alle leggende e alle tradi­zioni di questo fiume, una delle figure centrali della mitologia teutonica, e il tema continuerà a sollecitare interessi diversi, variamente con­nessi al fascino del pittoresco ancora negli an­ni delle ricognizioni di Marville, che qui ripren­de – da fotografo – un genere che aveva già frequentato da incisore, collaborando con Charles Nodier (1780-1844) alla serie dedi­cata a La Seine et ses bords del 1836. L’al­bum dedicato al Reno non rappresenta che uno dei titoli da lui realizzati per Blanquart­-Évrard, di cui fu il più assiduo collaboratore prima di dedicarsi alla documentazione dell’architettura e della città su commessa di archi­tetti e grandi restauratori come Paul Abadie e Eugene Viollet-Le-Duc, così come della stessa Municipalità, per la quale documentò il “Vieux Paris” (1865) prima delle trasformazioni hau­smanniane[14]. Diversamente da quanto accadrà nelle vedute parigine, questa ripresa ravvici­nata de La vallée suisse a St. Goarshausen Marville si distingue per una ecceziona­le e poetica attenzione ai dettagli del paesag­gio, al paesaggio di dettaglio forse, confer­mando uno sguardo riconoscibile anche in quella Barrière ouverte che era stata compre­sa nella prima serie degli Études photo­graphiques, pubblicati sempre a Lille nel 1853[15];  una lettura affettuosa, quasi intima degli elementi costituenti lo scenario alpino, dove ai tronchi affusolati in primo piano corri­sponde la delicatezza delle luci sulle foglie dei cespugli, un insieme di elementi a scala umana reso con dolcezza lontana da ogni furore senti­mentale, nonostante il peso mitico del tema.

Se la distanza di Marville dal paradigma ro­mantico si traduceva in differenti attenzioni di scala, quella posta in atto da John Stewart nel­la sua lettura dei Pirenei adottava strategie di­verse: in Environs d’Elsaut i modelli non sono certo quelli stabiliti e accolti dal gu­sto del pittoresco; semmai emerge un naturali­smo in bilico tra rilevamento geologico e at­tenzione analitica, in cui “scienza e arte con­vergono anziché divergere, e la ricerca esteti­ca della forma dilaga nell’idea goethiana e humboldtiana della morfologia della natura e del paesaggio”[16]. È quanto accade anche per Le pont de Sarrance, con la ripresa eseguita dal greto del torrente, quindi dal bas­so, ciò che porta a ridurre ai minimi termini e quasi a escludere lo scenario alpino, cioè pro­prio l’elemento drammaticamente connotativo delle coeve raffigurazioni pittoriche, nelle qua­li la presenza del ponte assumeva forte valore simbolico, strumento di salvezza che àncora l’uomo al mondo consentendogli di affrontare la terribilità della natura, mentre in questa ri­presa tutto è più domestico: stradale. Il tratta­mento del tema de Le torrent d’Arudy, pur orientato alla descrizione degli aspetti geologici del paesaggio rivela invece altre sug­gestioni: un interesse, un’attrazione quasi per le componenti materiche dello scenario natu­rale, dagli alberi alle rocce appunto, che Stewart condivide con molti autori coevi, non solo i fotografi della scuola di Barbizon o quel­li attivi nella campagna romana, mentre per­mane traccia del fascino di un tema proprio della poetica preromantica del sublime: quello della Gorge, della gola e dell’antro.

Quando Stewart pubblica le diciannove tavole del proprio album questi luoghi, i Pirenei ­- sebbene ormai ampiamente visitati e illustrati in album[17] con titolazioni a volte identiche, in cui il termine di Souvenir costituisce la formu­la più ricorrente – rappresentano la più recen­te novità in fatto di mete alpine, poiché “n’ayant pas comme les Alpes la chance de se trouver sur le chemin de l’Italie”[18] vennero am­piamente preceduti da Chamonix e – ancor prima – dall’Oberland bernese. Qui però, co­me scrisse Victor Hugo, “Il me semble, que les choses-là sont plus que du paysages. C’est la nature entrevue à des certaines moments mystérieux où tout semble rêver, j’ai presque dit penser”.[19] Certo doveva risultare difficile corrispondere visualmente a queste percezio­ni, poiché il restituire fotograficamente questi paesaggi poneva problemi di ordine meno im­mediatamente letterario, ma pur sempre e squisitamente discorsivo: “Les vallées des Pyrénées, à peu d’exception près, s’étendent du nord au midi – ricordava Maxwell Lyte, amico e sodale di Stewart – conséquemment elles reçoivent seulement une lumière oblique le matin et le soir. Cet éclairage oblique est nécessaire pour produire des effets vraiment artistiques de lumière et d’ombres, et pour donner une valeur réelle aux différents plans. (…) La chaleur du soleil parait aussi, durant le jour, soulever habituellement des vapeurs qui, si elles ne peuvent se condenser en nuages, interposent néanmoins un voile bleu de brume, d’une nature antiphotogénique, entre nous et les montagnes. Sachant que ces obstacles existent, je m’arrange toujours pour être sur le terrain et à l’œuvre autant que possible de bonne heure, et par conséquent plus des neuf dixièmes de mes épreuves sont exécutées à la lumière du matin, entre cinq et huit heures; les autres sont prises, presque sans exception, à la lumière du soir.”[20]

Allo stesso ambito di scoperta romantica del paesaggio francese può esser fatto risalire an­che il viaggio che nell’ estate del 1854 Edouard Baldus[21] compie in Alvernia, uno dei luoghi topici di questa fase sin dai Voyages pittoresques et romantiques dans l’ancien­ne France del barone Taylor e di Nodier (1829), in compagnia del suo maturo allievo Fortuné Joseph Petiot-Groffier (1788 ­1855), allo scopo di descrivere i monumenti e i paesaggi di una regione ancora poco toccata dalle profonde trasformazioni dell’industrializ­zazione e della modernizzazione che interes­savano altre aree. La collaborazione dei due fu tanto stretta da produrre alcune stam­pe virtualmente identiche firmate di volta in volta Baldus o Petiot-Groffier e altre firmate da entrambi. Alla serie di riprese realizzate dal solo Baldus appartiene invece quella indicata nel Catalogue del 1863 col numero 73, col titolo di Chaine des Monts-Doré (paysage) Puy-de­-Dome[22]. Essa fu esposta nel 1855 prima all’Esposizione Universale di Parigi[23] e poi ad Amsterdam col titolo attuale Mont d’Or, e testimonia di una fase di passaggio – e di cre­scita – dello sguardo fotografico di Baldus, che qui si misura non solo con le emergenze architettoniche e le vedute magistrali dei pic­coli nuclei urbani della regione, come Saint­ Nectaire, ma anche – per la prima volta – con­sapevolmente con gli elementi naturali, realiz­zando una serie di immagini che fanno consi­derare “the Auvergne photographs as master­pieces of early landscape photography”[24]. Qui Baldus crea “a new kind of landscape – spare, precisely composed, intensely tactile, highly sensitive to the play of texture and tone, volu­me and silhouette, on the two-dimensional page”[25], affidandosi a quell’apparente traspa­renza documentaria di cui si è nutrita la fecon­dità della fotografia soprattutto delle origini, ogni volta tradotta nello spettacolo della vero­simiglianza, qui mantenuto in elegante equili­brio tra fascino del pittoresco e analiticità de­scrittiva. Come aveva immediatamente rilevato il critico Ernest Lacan: “si vous êtes poète, si vous aimez ( … ) le silence des solitudes alpestres ( … ) suivez M. Baldus au milieu des sites grandioses de l’Auvergne. Il est peintre, il sait choisir les points de vue et diriger votre admiration. Chacun de ses épreuves est un poème, tantôt sauvage, imposant, fantastique, comme une page d’Ossian; tantôt calme, mélancolique, harmonieux comme une méditation de Lamartine”[26]. L’ampia ripresa che Baldus dedicata al Mont d’Or sembra infatti compo­sta avendo in mente le parole di Taylor di po­chi decenni prima, quando descriveva il sito come “un angolo della creazione che rappre­senta ancora l’immagine del caos. Le rocce staccate o pronte a cadere in valanghe (…) i terreni messi a nudo dalla caduta di pietre (…) pochi arbusti, qualche abete sparso qua e là (…) vi compongono un quadro severo, terribi­le e misterioso”[27].

All’Esposizione Universale del 1855 il lavoro fotografico che destò maggior sensazione fu però certamente la veduta panoramica in do­dici parti del massiccio del Monte Bianco ri­preso da La Flégère, per una lunghezza totale di due metri, realizzata da Friedrich von Mar­tens[28] utilizzando lastre albuminate che gli per­misero di ottenere quella “riproduzione im­mensamente esatta dei complicati dettagli of­ferti dai grandi rilievi della catena alpina, e in particolare dei loro ghiacciai”, che solo la fotografia poteva offrire e che tanto affascinavano il pubblico, pieno di ammirato stupore anche per le enormi difficoltà di realizzazione che si intuivano dietro lo splendido risultato: “Tutti coloro che hanno compiuto escursioni a quelle altezze – fu il commento di Ernest Lacan – possono apprezzare le difficoltà insite in una simile im­presa e la dedizione ch’essa esige. Oltre alla fatica di ascensioni lunghe e penose, e alle spese che impone il trasporto di apparecchia­ture pesanti, le condizioni variabili dell’atmo­sfera sono – troppo spesso – un ostacolo in­sormontabile. Molte volte si parte con un tem­po magnifico e un cielo limpido, ma dopo quattro, cinque, sei ore di salita si è sorpresi da un temporale, oppure d’improvviso, le nu­vole vengono semplicemente a nascondere il panorama nel momento in cui l’apparecchio è montato e pronto a funzionare. Allora bisogna rifare i bagagli e ridiscendere, rinviando l’ope­razione a un altro giorno”[29].

Anche i Fratelli Bisson, titolari di uno dei più eleganti studi parigini del Secondo Impero[30], furono presenti all’Esposizione, dapprima con sole strabilianti immagini di architettura quindi con alcune vedute dell’Oberland ber­nese, all’epoca ancora in una fase di esplora­zioni pionieristiche, realizzate nel corso di un viaggio promosso da Daniel Dollfus-Ausset, glaciologo originario di Mulhouse e loro socio in affari, per il quale fotografarono i due ghiacciai del Finster-Aar e del Lau­ter-Aar, cui aggiunsero quelle terribili del ter­remoto che colpì il Vallese il 25 e 26 luglio. “Toutes, parfaitement réussies – sottolinea an­cora Lacan – donnent une idée exacte des accidents survenus au moment des convulsions du sol et des traces déplorables qu’ils ont laissées. Ces épreuves n’ont pas seulement un grand intérêt au point de vue de la science, elles ont encore comme œuvres d’art un mérite incontestable, ce sont de charmants tableaux d’un effet pittoresque et d’une grande beauté de détails”[31].  Poi, dopo il pittoresco terremoto, andranno sul Monte Bianco. Anzi vi andrà solo il ‘giova­ne’ Auguste-Rosalie a realizzare quelle che sono forse le più importanti e note riprese di montagna della fotografia europea delle origi­ni, poi raccolte in due album dal titolo quasi identico di (Souvenir de la) Haute-Savoie. Le Mont Blane et ses Glaciers, ma ben distinti nelle intenzioni essendo l’uno il Souvenir du voyage de LL.MM. L’Empereur et L’Impéra­trice (1860) mentre l’altro, realizzato poco dopo la cessione della Savoia alla Francia, fu dedicato “A Sa Majesté Victor Emmanuel II Roi d’Italie”.  L’insieme delle riprese eseguite nelle diverse ascensioni spazia dai passaggi sui seracchi, for­se il primo esempio di fotografia di tecniche di scalata, al panorama del Monte Bianco preso dal Mont Buet, dalla Mer de Gla­ce alle singole terribili vette; co­me sottolineava il pittore di corte August Marc, il giovane Bisson “rischiando la vita, ha percor­so tutte le vie praticabili e non praticabili del Monte Bianco per prendervi i cliché di quelle magnifiche vedute che gli amatori comprano e che egli vende a troppo buon mercato, se si pensa a tutti i pericoli a cui si espone”[32]. La pratica fotografica richiedeva ancora tempi lunghi, di preparazione piuttosto che di ripre­sa, soprattutto quando si operava con lastre di grande formato come Bisson, ma era proprio la qualità di resa delle luci e dei dettagli che queste consentivano ad emozionare i contem­poranei (e noi ancora). L’interesse di Bisson era rivolto alla sfida tec­nica dell’ascensione fotografica, ma senza di­menticare i problemi di ordine estetico, tanto che il 25 luglio 1861 partì da Chamonix con una nuova spedizione guidata ancora da Bal­mat, ma della quale faceva parte anche il pit­tore Gabriel Loppé, incaricato di fornire con­sulenza artistica al fotografo.[33] Considerando l’insieme delle campagne documentarie risul­ta evidente come la scelta dei temi e dei punti di vista più specificamente topografici, pur in tutta la novità non solo tecnologica della ri­presa fotografica, non si discostasse molto dalla tradizione, riassunta già nel 1777 dal re­pertorio di venti miniature incise da C. G. Geisser su di una sola lastra a partire da mo­delli iconografici diversi[34], mentre le riprese più ravvicinate o realizzate a quote più basse rivelano in maniera esplicita l’adesione a quel diffuso sentire romantico che Lacan aveva ri­conosciuto – come si è visto – nelle stesse ri­prese dei luoghi terremotati. Basti il confron­to tra una delle immagini dell’ album donato a Vittorio Emanuele II (L’Aguille du Dru et An­guille Verte) e il dipinto nella maniera di Ca­lame[35] pubblicato da Albert, in cui la corrispondenza iconografica è quasi letterale, con quel primo piano di tronchi e detriti che rappresentano l’esito en­tropico della maestà degli elementi naturali, delle guglie perfette così come degli alberi che ne costituiscono la cornice visiva, in una sim­bolizzazione sin troppo evidente sui temi del destino e del tempo, della morte infine [con le due figure che – nel quadro – si riparano, inermi, dal terribile scatenarsi degli elementi], mentre i nessi con l’altro dipinto sono meno puntuali ma non per questo meno significati­vi: se il tema della Via Mala dipendeva dal fascino sublime dell’ orrido, del cammino sull’orlo dell’abisso tra pareti incombenti, le fotografie di Bisson comprendono in più casi e quasi celebrano la nascente rete infrastruttu­rale, che muta profondamente la naturalità in­contaminata del paesaggio alpino nel preciso momento in cui ne favorisce la percezione e l’appropriazione, la conquista anche, da parte del nuovo viaggiatore, del futuro turista. Ma certo le immagini più affascinanti sono quelle dedicate ai ghiacciai, un apporto continua­mente rinnovato alle variazioni sul tema della Mer de Glace, un richiamo alla tradizione ico­nografica e una sfida portata dalla fotografia alle arti del disegno. Dalla Svizzera alla Savoia Bisson indaga osti­natamente il tema, svolgendolo nei suoi diver­si aspetti, scegliendo di volta in volta i punti di vista, le distanze più adatte al racconto; dalla maestà geografica della veduta ampia, quasi panoramica, al fascino fantastico delle forme in cui avvolgere le figurine dei membri della spedizione: marionette in uno scenario di fiaba. Certo il soggetto è dei più affascinanti, e dei più redditizi anche (crediamo) se in brevissimo arco di tempo i ghiacciai entrano a far parte del catalogo di più autori, rinnovando più anti­che fortune calcografiche.

Lo stesso Baldus presentò nel 1861, alla IV Esposizione della Société Française de Photo­graphie, tra le altre, due vedute della Mer de Glace e di Chamounix[36], interesse conferma­to dal catalogo del 1863 che comprendeva an­che una ripresa della Vallée de Chamounix ed una della Source de l’Aveyron, mentre devo­no essere state realizzate poco prima del 1860 anche le due stampe de­dicate rispettivamente alla Vallée de Chamo­nix vue du Chapeau  ed alla Mer de Glace prise du Montenvers  firmate da Victor Muzet, attivo a Grenoble in società con Bajat, che figura anche nel ruolo di edito­re[37], e comprese in una serie di Vues photo­graphiques de Dauphine (sic) et de la Sa­voié[38] per la quale nel 1860 ricevettero una non meglio precisata “medaille d’or”[39]. In questo caso però il maggior motivo di inte­resse non è dato tanto dalla ricorrenza dei soggetti quanto dalla sostanziale coincidenza delle riprese di Muzet con quelle realizzate da Auguste-Rosalie Bisson negli stessi anni, somiglianza che ha fatto erroneamente ritenere un passaggio di mano delle lastre negative o ­peggio – una appropriazione indebita da par­te del fotografo meno noto.[40] Se la Vallée de Chamonix venne realizzata da Bis­son nel corso della prima ascensione del 1859, come conferma la sua ripresa xilografi­ca ne “L’Illustration” dell’aprile 1860[41], è al­trettanto probabile che nello stesso torno di tempo, e per analoghe ragioni commerciali[42], venisse realizzata anche quella di Muzet, pub­blicata ancora senza alcun riferimento alla medaglia vinta nel 1860, presente invece nel­l’altro esemplare, così come possono essere riferite cronologicamente allo stesso periodo anche le due riprese della Mer de Glace qui pubblicate, che Bisson intitola però Grande Jorasse Mont Tacul, portando l’at­tenzione sulle cime dello sfondo piuttosto che sul primo piano, nelle quali appaiono sor­prendentemente simili anche la distribuzione e la forma delle diverse placche innevate, tan­to da lasciar supporre un lasso di tempo veramente breve, forse solo di qualche giorno, tra la realizzazione delle due riprese. Al di là della verosimile coincidenza cronologica, ciò che risulta per noi più interessante in quanto sin­tomo e traccia di un gusto condiviso, è la qua­si puntuale corrispondenza – in entrambi i ca­si – delle modalità adottate dai due fotografi, che non solo scelgono lo stesso punto di vi­sta, ma utilizzano anche ottiche di analoga lunghezza focale e formati di negativo non dissimili, come rivelano le relazioni prospetti­che tra i diversi elementi raffigurati e le stesse misure delle stampe a contatto[43]. Così se la valle di Chamonix trova il suo punto di osser­vazione privilegiato al Chapeau, giusto al di sopra dell’imbocco della Mer de Giace, la ripresa ravvicinata del ghiacciaio non poteva che essere realizzata dai pressi dell’ hospice del Montenvers, il rifugio costruito nel 1779 da Charles Bloir, già frequentato da numerosi viaggiatori illustri: da Goethe all’imperatrice Maria Luisa, da Byron e Shelley a Hugo e Du­mas, al già citato Ruskin. Se in queste fotografie il ghiacciaio costituisce la base da cui spiccano i volumi dei monti, in una restituzione che potremmo definire topo­grafica, in altri casi i fotografi cedono al fasci­no del sublime, introducendo la figura umana, la sua presenza nell’universo fantastico di for­me dei ghiacciai. Ancor più dei Seracs des Bosson  è significativa in questo sen­so la ripresa che Giorgio Sommer[44] dedica a Chamounix, Mer de Glace  in una data non meglio precisata, ma che non do­vrebbe essere troppo lontana dalla metà degli anni Sessanta. Certo la rinnovata attenzione per questo soggetto doveva molto del suo vi­gore proprio al successo riscosso dalle foto­grafie realizzate da Auguste-Rosalie Bisson, ma Sommer riesce a costruire un’iconografia nuova, che nella scelta del piano ravvicinato si discosta nettamente dai modelli prevalenti, richiamando semmai i modi utilizzati da Jean Antoine Linck (1766 – 1843) in un disegno che aveva dedicato allo stesso soggetto circa mezzo secolo prima[45] o – per restare in ambi­to fotografico – la ripresa del ghiacciaio di Grindelwald, nell’Oberlad bernese, che Von Martens aveva realizzato verso il 1853[46]. Ora Sommer, forse memore dell’interpretazione di Byron, quasi immerge l’apparecchio nel corpo del ghiacciaio, attratto magneticamen­te da queste onde immense, eternamente im­mobili, bloccate dal gelo ancor prima che dal­la fotografia, pietrificate e bianche, da cui emerge il dorso di favolosi cetacei: l’appari­zione magica della balena di Giona se non an­cora di Pinocchio (1880)[47].

Di tutt’altro tenore e senso l’opera che chiu­de questo ciclo di immagini, realizzata da Al­berto Luigi Vialardi[48], già autore nel 1863 di un Album del Monviso[49], quindi di una rara documentazione di quella grande opera infra­strutturale che è il Canale che poi sarà intito­lato a Cavour, destinato a razionalizzare e po­tenziare la rete irrigua della pianura risi cola piemontese, cui il fotografo lavorò fino ai pri­mi giorni del 1864 su commissione della stes­sa Associazione Irrigazione Ovest Sesia, pro­motrice dell’opera, dopo un primo affida­mento allo Studio Bernieri[50]. Ad ulteriore conferma della solidità della sua rete di rela­zioni istituzionali, anche il grande cantiere del traforo del Frejus (1868-1871) venne docu­mentato da Vialardi in un album destinato in maniera affatto nuova a trovare il proprio posto “nel boudoir dell’elegante signora, come nelle biblioteche dell’artista e dell’uomo di scienza e d’affari” e di cui i giornali dell’ epoca diedero ampia­mente conto, segnalando le “nove stupende vedute fotografiche che rappresentano i due panorama [sic] dei cantieri nelle vallate di Bardonéche e Modane, le due entrate del gran tunnel, i due cantieri dei compressori, l’interno degli edifici dei compressori medesi­mi – di questi straordinari motori che per la prima volta entrano nel mondo industriale ­la macchina perforatrice con tutti gli operai in azione entro la galleria e per ultimo un esemplare litografico della topografia e della sezione longitudinale della montagna. Ad ogni veduta sta di fianco una relativa descri­zione particolareggiata”[51]. È il trionfo del­l’ingegneria, l’esito ormai italiano della politi­ca internazionale preunitaria, cavourriana. La fotografia si rivela il medium più aderen­te, più adeguato a celebrare questa importan­te realizzazione, il primo dei grandi trafori al­pini, un segno tangibile del mutato spirito del tempo: al fascino emotivo, potente e terribile della montagna si affianca – se proprio non si sostituisce – quello altrettanto forte, positivi­sta e industriale della straordinaria macchina: costruita dall’uomo.

 

Note

[1] Cfr. John Ruskin e le Alpi, catalogo della mostra (Tori­no, Museo Nazionale della Montagna, 1990), a cura di Ja­mes S. Dearden, Torino, Museo Nazionale della Monta­gna, 1990, in particolare alle pp.17 – 19. Per l’affascinan­te lettura del testo completo si rimanda a John Ruskin, Praeterita.  Orpington: George Allen, 1885 – 1889, I, pp.194-195, § 134, p.113 (ed it., Palermo: Edizioni No­vecento, 1992, traduzione di Maria Croci Giulì e Giusi de Pasquale).

[2] Charles Baudelaire, Salon del 1846, ora in Id., La cri­tica d’arte, a cura di Antonio del Guercio. Roma: Editori Riuniti, 1996, pp. 109 – 128 (110).

[3] Ruskin, 1885 – 1889: § 134, p.113. Per una accurata e sintetica ricostruzione delle variabili storiche del rapporto tra cultura occidentale e montagna si veda Paola Giaco­moni, “Dare del tu alle rocce”, in Montagna. Arte, scien­za, mito da Dürer a Warhol, catalogo della mostra (Rove­reto 2004), a cura di Gabriella Belli, Paola Giacomoni, Anna Ottani Cavina. Milano: Skira, 2004, pp. 19-40.

[4] 4 “The first sun-portraits [e qui Ruskin richiama l’originaria terminologia di William Henry Fox Talbot, che parlava di “sun pictures”] even taken of the Matterhorn (and as far as I know of any Swiss mountain whatever) was taken by me in 1849″, citato in John Ruskin e le Alpi, 1990, p. 18, cor­sivo di chi scrive. Come è noto l’affermazione di Ruskin non de­ve essere presa alla lettera, non essendo lui l’autore mate­riale di queste immagini, di volta in volta realizzate dai suoi camerieri personali John ‘George’ Hobbs (1849) e Frede­rick Crawley (1854 – 1856), ormai alle soglie dell’abban­dono di questa tecnica; cfr. Paolo Costantini, Italo Zan­nier, a cura di, I dagherrotipi della Collezione Ruskin.  Venezia: Arsenale Editrice, 1986. La veridicità letterale dell’affermazione in merito alla pri­mogenitura non pare invece essere contraddetta da quan­to sinora noto sulle prime riprese dagherrotipiche delle Al­pi, cfr. Le daguerréotype français. Un object photo­graphique, catalogo della mostra ( Paris 2003 – New York 2004), a cura di Quentin Bajac, Dominique Planchon De Font-Réaulx. Paris: Réunion des Musées Nationaux, 2003, cat. 136, p.227. In quella mostra sono stati presentati an­che altri dagherrotipi di ambiente alpino in particolare la Vue d’une vallée dans les Alpes, compresa in una serie che Marie Charles lsidore Choiselat (1815 – 1858) e Sta­nislas Ratel (1824 – 1904) realizzarono nell’agosto del  1845 durante una missione il cui itinerario era stato stabi­lito dal consiglio dell’Ecole royale des mines quale eserci­tazione conclusiva del ciclo di studi di Ratel e che costitui­scono, ad ora, le più antiche riprese note effettuate nelle Alpi, come ricordava anche uno dei viaggiatori: “Ces vues sont les seules qui soient encore sorties du fond de ces montagnes que les artistes ne visitent pas assez et où ils pourraient trouver des sujets que leur imagination n’avait pas besoin de grandir pour les rendre majestueux”. (citato in Q. Bajac, M.C.I. Choiselat, S.- Ratel, in Le da­guerréotype français, 2004,  cat. 155, p. 246).

[5] 5 “Le Miroir des Spectacles”, 12 luglio 1822, citato in Claudine Lacoste-Veysseyere, Les Alpes romantiques. Le thème des Alpes dans la littérature française de 1800 à 1850. Genève: Editions Slatkine, 1981, p.195.

[6] Josef William Albert (1825 – 1886), più noto come foto­grafo ritrattista, fu attivo a Monaco, anche come fotografo di corte di Massimiliano II e Luigi II, con studio in Brien­ner Strasse nel 1865-1878. A lui si devono anche rigorose vedute urbane e di architettura (il Glaspalast di Monaco, 1861; l’Esposizione di Vienna del 1873) oltre ad alcuni in­teressanti paesaggi, tra i quali Il fotografo in posizione a Hohenschwangau, 1857, in cui – oltre ad Albert all’appa­recchio – si vede una cabina portatile per il trattamento delle lastre al collodio, analoga a quella utilizzata dal valde­se David Peyrot alcuni anni più tardi e oggi conservata al Museo nazionale del Cinema di Torino, cfr. Michel Frlzot, a cura di, Nouvelle Histoire de la Photographie.  Paris: Bordas, 1994 pp. 115 passim; Helmut Gernsheim, Storia della fotografia. 1850 1880 L‘età del collodio. Mila­no: Electa, 1981, p.232; Maria Adriana Prolo, Luigi Carluccio, Il Museo Nazionale del Cinema Torino. Tori­no: Cassa di Risparmio di Torino, 1978, p.139. Una foto­grafia di Richard Wagner realizzata da Albert nel 1880, servì l’anno successivo per la realizzazione di un noto ri­tratto ad olio dipinto da Franz von Lenbach, cfr. Carola Muysers, Das bürgerliche portrait im Wandel.  Zürich – ­New York – Hildesheim: Georg Olms Verlag, 2001. Nel 1868 il fotografo mise a punto un procedimento commer­ciale di stampa planografica delle matrici fotografiche analogo alla litografia (collotipia), identico a quello proposto da Alphonse Poitevin, che da lui prese il nome di Alberty­pe. Nel 1876 fu tra i primi ad utilizzare la collotipia a colo­ri, ma a lui si deve anche lo studio di un processo di inver­sione (negativo/ positivo) della lastra al collodio mediante utilizzo di acido nitrico. Il tema degli studi (da Adolphe Braun a Dornach a Jean Jaques Heilmann a Pau, solo per citarne due) impegnati nella riproduzione fotografica dei dipinti e delle opere d’arte è troppo vasto perché possa essere in questa sede anche solo accennato, mi limito per­tanto a rimandare, a titolo esemplificativo, ad una recente approfondita analisi della maggiore impresa italiana attiva in questo settore: Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003.

[7] Poiché i cartoni di supporto non ripor­tano sufficienti indicazioni, l’identificazione delle opere presenta alcune difficoltà e incertezze: il primo dipinto ri­prodotto, identificato come Via Mala, soggetto già affron­tato da W. Turner nel 1843, è firmato Julius Lange (Darm­stadt 1817 – München 1878), 1860, mentre per il secon­do, anonimo, non posso far altro che notare una sorpren­dente comunanza di temi e di modi con la produzione di François Diday (Ginevra 1802 – 1877) e soprattutto di Alexandre Calame (Vevey 1810 – Mentone 1864) intorno al 1850, per la quale rimando a Valentina Anker, Alexan­dre Calame. Vie et œuvre. Catalogue raisoné de l’œuvre peint. Friburg: Office du Livre, 1987, ma la prudenza del­la mia incompetenza suggerisce di non spingermi oltre.

[8] Le varianti di preparazione e di trattamento del materiale sensibile messe a punto da Blanquart-Évrard non ci con­sentono di definire le stampe realizzate dal suo stabilimen­to come “calotipi positivi”, ma credo sia altrettanto errata e fuorviante la consuetudine da molti adottata di indicarle tecnicamente come “carte salate”. Come è noto queste appartengono alla famiglia dei materiali sensibili ad anne­rimento diretto, mentre il procedimento utilizzato a Lille si fondava al contrario sullo sviluppo del positivo, quindi sul principio dell’immagine latente, allo scopo di ridurre tem­pi e costi di realizzazione e di vendita degli album. Per questa ragione ritengo più corretto  adottare la dizione “carta a sviluppo (metodo Blanquart-Évrard)”.

[9] “La Lumière”, 1854, citato in Isabelle Jammes, Blan­quart-Évrard et les origines de l’édition photographique en France: catalogue raisonnée des albums photo­graphiques édités 1851-1855,. Genève: Librairie Droz, 1981, p.67 ; si veda anche, Frizot, 1994, pp.  80- 89.

[10] Sulla paternità del corpus delle fotografie attribuite a Salzmann o al suo collaboratore Durheim, e sulla natura problematica del concetto di opera che ne deriva cfr. Abi­gail Solomon-Godeau, A Photographer in Jerusalem, 1855: Auguste Salzmann and His Times, “October”, n.18, autumn 1981, citato in Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, a cura di Elio Gra­zioli. Milano: Bruno Mondatori, 1996, p.43 n.19,  ma an­che – con una più estesa riflessione critica sulla discutibile applicazione alla fotografia di alcune categorie interpreta­tive derivate alla storia dell’arte – Abigail Solomon-Go­deau, Calotypomania. The Gourmet Guide to Nine­teenth-Century Photography,  “Afterimage”, vol. 11, n.1-2, Summer 1983, successivamente riedito in “études photographiques”, n. 12, novembre 2002, consultato in estratto.

[11] Charles Marville (1816 – 1879), realizzerà anche una serie di Vedute di Torino. Turin: Maggi, (editore e libraio presso il quale erano in vendita anche le stampe di Luigi Crette, Vialardi e Guido Gonin) oggi nota attraverso l’e­semplare conservato presso la Biblioteca centrale della Fa­coltà di Architettura del Politecnico di Torino e studiata per la prima volta in  Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp.37-­38, con una datazione proposta al 1865-1870 che Marina Miraglla, Culture fotografiche e società a Torino 1839 1911. Torino: Allemandi, 1990, p.334, aveva già anti­cipato al 1861-62, ma che sarà più corretto attribuire al 1858-59, quando Marville è in Italia e in Grecia con Char­les Cordier per realizzare la campagna fotografica dedica­ta alla Sculpture Ethnographique, commissionatagli dal governo francese nel 1850 (vale a dire prima della ben più nota “Mission Héliographique”) e quindi pubblicata in fasci­coli. Un esemplare dell’opera venne dedicato “A S.M. Vic­tor Emmanuel Roi d’ltalie”. L’occasione per la realizzazio­ne di queste riprese di Marville potrebbe essere individuata nella campagna di documentazione dei disegni della Biblioteca Reale di Torino e della Biblioteca Ambrosiana di Milano, che faceva seguito all’impegno analogo per le col­lezioni del Louvre, pubblicate pochi anni prima. La data­zione delle riprese italiane potrebbe forse essere ulterior­mente anticipata alla metà del decennio considerando che Marville usava la qualifica di “Photographe du Musée Im­perial du Louvre”, che ritroviamo sui cartoni delle stampe torinesi, nel periodo in cui collaborava con Blanquart­Évrard, vale dire sino al 1855.

[12] John Stewart (1800 – 1887), inglese, membro della So­ciété Française de Photographie e genero di Sir John Her­schel (1792 -1871) uno dei padri fondatori della fotogra­fia, fu – come molti fotografi coevi – anche uno sperimen­tatore, apportando interessanti innovazioni nel trattamen­to dei negativi di carta e del loro ingrandimento. Attivo prevalentemente in Francia, si trasferì nel 1847 a Pau, do­ve realizzò molte delle sue vedute utilizzando la tecnica del calotipo (o sue varianti) ed entrò in contatto con autori della generazione successiva come Jean Jacques Heilmann (1822 – 1859), e l’altro inglese Farnham Maxwell Lyte (1828 – 1906), ma anche con Adolphe Godard, Jo­seph Vigier ed Henri-Victor Regnault, che accompagnerà in un viaggio in Inghilterra. Dopo la collaborazione con Blanquart-Evrard le sue immagini vennero pubblicate da Theophile Marx e da Heilmann, che nel 1854 aveva aper­to a Pau un’analoga Imprimerie photographique, da cui uscirono immagini anche di Maxwell Lyte, cioè dell’insie­me di autori poi identificati come “école de Pau”. Sebbene Heilmann e Maxwell Lyte utilizzassero anche il nuovo pro­cedimento al collodio, ciò che li contraddistingue comples­sivamente è appunto il ricorso al negativo di carta nelle sue diverse varianti, poiché – come ricordava Maxwell Ly­te sulle pagine del “Journal of the Photographic Society of Edinburgh” del dicembre 1854, v. II, p.95, “I must still en­tertain my old opinion that paper is the process for views”. Numerosi esemplari di queste opere sono conser­vati alla Biblioteca di Pau e presso gli Archives départe­mentales des Pyrénées Atlantiques, cfr. Paul Mironeau, Christine Jullat, Lucie Abadia, Pyrénées en images. De l’oeil à l’objectif 1820 -1860. Pau: Musée national du Chateau de Pau, 1996; Alexandre Allain, Les collec­tions photographiques des bibliothèques municipales et l’exemple de Lille, Memoire d’étude. Paris: École Natio­nale Supérieure des Sciences de l’lnformation et des Bibliothèques, 2000.

[13] Il solo esemplare completo dell’album di Marville così come quello più ricco di Stewart sono oggi conservati alla Biblioteca di Lille, cfr. Allain, 2000, p.  31. Una delle tavole di Stewart, Le pont d’Orthez, è pubblicata in Frizot, 1994, p. 88 e può essere utilmente confrontata con la ripresa dello stesso soggetto realizzata e pubblicata da Heil­mann col titolo Vieux pont d’Orthez, cfr. Collection M. + M. Auer. Une histoire de la photographie, catalogo della mostra (Nice – Genève, 2004), a cura di Michèle e Michel Auer. Hermanace: Editions M.+ M., 2004, p. 71 n.30. Un album anonimo di Souvenir des Pyrenées, composto però di 24 tavole, è conservato nella collezione Edward Alexander Parsons dello Harry Ransom Humanities Re­search Center dell’Università del Texas, ad Austin.

[14] Queste trasformazioni sono state recentemente studiate da Rosa Tamborrino, Parigi: i! piano di Hausmann, “Storia dell’Urbanistica Piemonte”,  IV”, Roma, 2000.

[15] Frizot, 1994, p.  87.

[16] Giacomoni, 2004, p. 33.

[17] Rimandando ai testi citati alle note successive per una disamina puntuale della produzione iconografica sul tema dei Pirenei, voglio qui ricordare che le illustrazioni per il Voyage aux Pyrénées di Hippolyte Taine, 1855, vennero fornite da Gustave Doré servendosi anche di fotografie, realizzate verosimilmente dagli autori della “scuola di Pau”.

[18] Philippe Comte, in Les Pyrénées Romantiques, catalo­go della mostra (Pau, Musée des Beaux Arts, estate 1979), a cura di Marguerite Gaston. Pau: Musee des Beaux-arts, 1979, p p.n.n.

[19] Lettera a Louis Boulanger-Cauterets, citata in Hélene Saule Sorbé, Pyrénées. Voyage par les images. Serres­Castet: Editions du Faucompret, 1993, p.69.

[20] Farham Maxwell Lyte, lettera pubblicata nel “Moniteur de la Photographie” del 15 novembre 1861, citata in Ber­nard Marbot, Des ciels dans les paysages photographi­ques, dossier della mostra Quand passent les nuages. Paris, Bibliothèque Nationale de France, 1988.

[21] Edouard Baldus (1813 – 1889), nato a Grunebach in Prussia, come pittore espone a Parigi ai Salon del 1847, 1848 e 1851 ma risulta attivo come fotografo almeno dal 1848, segnalandosi immediatamente come uno degli auto­ri più importanti della fotografia francese, membro della Mission héliographique promossa dal governo francese nel 1851; cfr. Malcom Daniel, The Photographs of Édouard Baldus.  New York –Montreal:  The Metropolitan Museum of Art -Ca­nadian Center for Architecture, 1994, p. 231. Ove non diversamente indicato, tutte le informazioni rela­tive all’attività di Baldus sono tratte da questo studio.

[22] Le pagine del catalogo, oggi conservato nella biblioteca del Victoria and Albert Museum di Londra, sono riprodot­te in Daniel, 1994, p.  231 passim.

[23] Ch. P. Magne, Exposition universelle de 1855,  “L’Il­lustration – Journal Universel”, XXXI, n.644, p.331, cita­tato in Michele Falzone del Barbarò, a cura di, Il Monte Bianco dei Fratelli Bisson. Ascensioni fotografiche 1859-1862. Milano: Longanesi, 1982, p. 9.

[24] Daniel, 1994, p.  39.

[25] Ivi, p. 40.

[26] Ernest Lacan, “La Lumière”, 1855, poi ripubblicato in Id., Esquisses photograpiques.  Paris: Gaudin, 1856, pp.26-29, citato in Daniel, 1994. p.  262, nota 91.

[27] Citato in Bruno Foucart, La montagna nella pittura francese dell’Ottocento, in Le seduzioni della monta­gna. Da Delacroix a Depero, catalogo della mostra (Grenoble, Tori­no, 1998), a cura di Marisa Vescovo. Milano: Electa, 1998, pp. 29 -36.

[28] Noto anche come Vincent Frédéric Martens, (Venezia? 1809 – Parigi 1875), di famiglia originaria del Wurten­berg, studia all’Accademia di Belle Arti di Venezia e quindi a Basilea, perfezionandosi come incisore. Naturalizzato francese, dopo aver partecipato ai Salon dal 1834 al 1848 con vedute urbane e marine, si dedicò costantemen­te alla fotografia mettendo a punto anche un nuovo appa­recchio di ripresa panoramico per dagherrotipi. Nel 1851 espose a Londra una serie di immagini realizzate a partire da negativi su vetro albuminato (metodo Niepce de St. Victor), che la stampa inglese definiva “Talbotypes”, cfr. Collection M. + M. Auer, 2004, p. 86.

[29] Ernest Lacan, 1855, citato in P. Cavanna, Le prime ascensioni fotografiche. I Fratelli Bisson, “ALP”, 10 (1994), n.112, pp.116-119. Sulle pagine del parigino “La Lumière”, allora certo la più autorevole pub­blicazione periodica dedicata alla fotografia, il critico ave­va dato ampio conto della produzione fotografica presen­tata all’Esposizione, segnalando in particolare le opere di documentazione architettonica e artistica di Baldus e dei fratelli Bisson, poste in opposizione dialettica.

[30] Louis Auguste (1814-1876) e Auguste Rosalie (1826­1900) già attivi indipendentemente come dagherrotipisti, aprono nel 1852 uno studio in società che due anni dopo avrà sede in Rue Garancière, 8 nel palazzo di Sourdèac, proprietà di Henri Plon, stampatore dell’Imperatore; la lo­ro produzione, caratterizzata dall’utilizzo di lastre di gran­dissimo formato (mediamente 40×50 ca, ma con formati variabili dal 30×40 sino al 50×70 e 60×75), che stampano ed editano in proprio è dedicata in un primo momento al­la sola architettura, in aperta concorrenza con Baldus. Sul­la scia della Mission Heliographique del 1851, cui non sono chiamati a partecipare, avviano in proprio la pubbli­cazione della raccolta di Reproductions photographiques des plus beaux types d’architeture et de sculture d’a­près les monuments les plus remarquables de l’Anti­quité, du Moyen Age, et de la Renaissance (1855-1858)  per passare quindi alle riprese di montagna ed in partico­lare del massiccio del Monte Bianco, che Auguste Rosalie fotograferà più volte tra 1858 e 1862, poi ancora nel 1868, realizzando una serie molto nota di immagini, raccolte in due album pubblicati come Bisson Fréres al nuovo indirizzo di Boulevard des Capucines 35. In quello stesso stabile in cui operava anche Gustave Le Gray dal 1848, “al pianoterra i fratelli Bisson, finanziati dai Dolfus di Mulhouse, aprirono un sontuoso negozio dov’erano alli­neati, davanti a un pubblico sorpreso ( … ) vedute della Svizzera in dimensioni fino allora sconosciute” ricorda Na­dar, Quando ero fotografo. Roma: Editori Riuniti, 1982, p.137, (traduzione di Stefano Santuari). Dopo il fallimento dello studio nel 1863, acquistato da Emile Placet, fotografo e fotoincisore che continuerà a ti­rare stampe dai negativi Bisson, Louis Auguste ne divenne il direttore mentre Auguste Rosalie proseguì la propria at­tività realizzando stereoscopie per conto della Maison Léon et Levy, ma intorno al 1870 entrambi i fratelli ab­bandonarono la pratica fotografica.

[31] Citato in M.-C. S.-G., Bisson frères, http://exposi­tions.bnf.fr/napol/grand/048.htm, senza indicazione del­la fonte (Ernest Lacan) sottolineatura di chi scrive. I due ghiac­ciai in realtà costituiscono i due bracci del ghiacciaio del­l’Aar, ripreso anche in dagherrotipo da Camille Bernabé (Lyon 1808 – 1860 post) già nel 1850, da un “padiglione” fatto co­struire nel 1846 proprio da Daniel Dollfus-Ausset, che fu anche il committente di queste prime immagini, esposte (con le stampe Bisson?) nel 1856 alla Société des amis des arts di Strasburgo e autore, con Henri Hogard, di un volu­me di Materiaux pour servir à l’étude des glaciers. Stra­sbourg: Simon, 1854. Interessante come sempre la testimonianza relativa alla realizzazione del dagherrotipo: “On à dû séjourner pendant huit jours par le froid, la pluie et la neige, avant d’avoir obtenu une heure de temps favorable pour faire les trois vues de ce glacier”, citato in Marie ­Sophie Corcy, Camille Bernabé, Glacier de l’Aar, in Le daguerréotype français, 2003,  sch. 275, p.341.  Nel 1852 Von Martens di ritorno da Losanna gli fece visita e così poi ne scrisse: “J’ai vu chez lui très beaux portratits au collodion, de belles vues sur verre, et une délicieuse vue de montagne sur plaque d’argent.”, citato in Collection M. + M. Auer, 2004, p.  69 n.25. Segnaliamo qui, come traccia di possibili legami e percorsi di ricerca, che anche Alexandre Calame aveva visitato i ghiacciai dell’Aar in compagnia di Dollfus-Ausset, cfr. Anker, 1987, p. 108 che trascrive una lettera di Eduard Desor a Calame del 12 gen­naio 1846.

[32] Citato in Cavanna 1994.

[33] Cfr. Cavanna 1994. Sull’insieme delle riprese alpine di Auguste-Rosalie si veda Falzone del Barbarò, 1982, mentre dell’album donato a Vittorio Emanuele II è stato realizzato un facsimile Souvenir de la Haute-Savoie. Le Mont Blanc et ses Glaciers, MM. Bisson frères Photographes  de l’Empereur. Excursions dirigées par Auguste Balmat, testo introduttivo di Angelo Schwarz. Torino: Gruppo Editoriale Forma, 1982. Gabriel Loppé (1825-1913) era anche fotografo (Musée d’Orsay), cfr. Marie-Noel Borgeaud, Gabriel Loppé: Peintre, Photographe & Alpiniste. Grenoble: Glénat, 2002.

[34] M.T.V. (Marie-Christine Vellozzi), C.G.Geisser,  “Vin­ght [sic] vues sur un méme feuille“, 1777, in Immagini e immaginario della montagna 1740 – 1840, catalogo della mostra,  (Torino, Museo nazionale della montagna, 15 febbraio-2 aprile 1989). Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1989, sch. 138, p. 103.

[35] Già Theophile Gautier aveva posto in relazione le due differenti letture, sebbene con ragioni diverse: “Le monta­gne sembrano finora aver sfidato l’arte. È mai possibile in­quadrarle in un dipinto? Ne dubitiamo, perfino dopo le te­le di Calame. (. .. ) L’artista può solo far intravedere, ultimo e sublime piano, la silhouette ghiacciata d’argento di una montagna nei fumi azzurri dell’orizzonte ed è proprio ciò che rende tanto preziose le belle prove fotografiche dei si­gnori Bisson”, citato in Foucart, 1998, p. 34.

[36] Daniel, 1994, p. 245.

[37] I dati sono desunti dalle iscrizioni e dai differenti timbri a secco delle due stampe: men­tre i negativi sono sempre numerati e firmati dal solo Mu­zet (1828 – 1885 post) i timbri parlano alternativamente di “Muzet et Bajat Photographes / Grenoble” o più semplicemente di “Bajat à Grenoble”, senza ulteriori specificazioni, ciò che parrebbe indicate piuttosto il ruolo di editore di que­st’ultimo, confermato anche dalla pubblicazione dell’al­bum litografico di G. Margain, Grenoble et ses environs. Vingt Vues dessinées d’après nature et lithographiées. Avec texte explicatif, 1865 ca, indicato come in vendita ” Chez Bajat, Place S.te Claire “. Sia le Vues photo­graphiques sia quelle dessinées d’après nature uscivano però da Maisonville & Fils & Jourdan Editeurs. Scarse sono le notizie relative a Muzet, che alcuni indicano attivo a Lione (sotto la firma Muzet et Joguet, autori di ste­reoscopie, 1860 ca, dove risulta attivo anche Bajat nel 1842). In questa occasione non ci è stato possibile verifi­care il legame tra Muzet e la Société Dauphinoise des Amateurs Photographes, di cui la Biblioteca municipale di Grenoble conserva oggi 25.000 lastre prevalentemente dedicate a temi alpini, cfr. Allain, 2000, p. 47.

[38] Un’altra stampa con veduta di una cascata e mulini, ap­partenente alla stessa serie, è conservata all’Harry Ran­som Humanities Research Center all’Università del Texas ad Austin, collezione Gernsheim.

[39] Il dato si ricava dal timbro a secco della veduta della Mer de Glace, presente anche nella stampa conservata ad Au­stin.

[40] Cfr. Giuseppe Garimoldi, Fotografia e alpinismo. Sto­rie parallele. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1995, p.7 che ri­prende un’analoga osservazione di Falzone del Barbarò, 1982, p. 12. La stessa interpretazione è stata ancora recen­temente ribadita senza riconoscere non solo che le due riprese, come si è detto, sono sottilmente diverse ma an­che, come doveva risultare evidente dal confronto diretto, che la stampa di Muzet è firmata ben due volte sulla lastra, una in negativo (in chiaro) per effetto di una scrittura so­vrapposta all’emulsione, l’altra in positivo (in scuro) quale esito di una incisione dell’emulsione stessa, cfr. G. G. [Giu­seppe Garimoldi], Auguste Rosalie Bisson, in Le catte­drali della terra. La rappresentazione delle Alpi in Ita­lia e in Europa 1848-1918, catalogo della mostra (Milano,  Museo della Permanente, 24 gennaio – 19 marzo 2000), a cura di Letizia Scherini. Milano: Electa, 2000, sch. 103, p. 181 e didascalia p. 134.

[41] Per la ripresa di Bisson, molto nota, cfr. N.V, [Nicola Vassallo], Louis-Auguste (nato 1814) e Auguste-Rosa­lie (nato 1826) Bisson, Album del Monte Bianco, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), III, sch.1435, pp.1326-1327, n.14; Souvenir de la Haute­ Savoie, 1982, t.nn.; Falzone del Barbarò, 1982: t. 12 e t.14.

[42] Giova ricordare che anche Edouard Baldus, presentò al­la IV Exposition de la Societé Française de Photographie del 1861 due immagini di analogo soggetto, cfr. Daniel, 1994, p. 230, e che questi temi riscuoteranno larghissimo successo ancora negli anni e decenni successivi, enorme­mente diffusi con la produzione stereoscopica, in partico­lare con la serie realizzata tra 1863 e 1868 da William En­gland (1830 – 1896) per l’Alpine Club di Londra.

[43] Per la Vallée de Chamonix si ha rispettivamente (in mil­limetri, altezza per base) 305x 406 per Bisson e 327×388 per Muzet, mentre i valori della Mer de Glace corrispon­dono a 236×384 e a 243×354.

[44] Giorgio Sommer (Francoforte sul Meno 1834 – Napoli 1914), attivo a Roma nel 1857-1872, con Edmond Beh­les (1841 – 1921) , quindi a Napoli 1873 – 1891. Ipotiz­zando che possa aver visitato la Savoia negli stessi anni in cui lo troviamo a Torino (1863 – 1865 ca, prima che la Mole in costruzione emergesse dalla tessitura urbana a nord di Piazza Vittorio, come mostra un suo panorama della città da Villa della Regina, cfr. Miraglia, 1990, tav. 85), che il rinnovato interesse – ora fotografico – per il soggetto molto dovesse alla recente pubblicazione del pri­mo album Bisson, e considerando che l’indicazione di responsabilità posta in calce all’immagine si riferisce al solo Sommer e non alla coppia Behles – Sommer, scioltasi ­come ha ipotizzato Miraglia, fra il 1865 e il 1867, credo che si possa verosimilmente collocare in que­sto arco di tempo la realizzazione della ripresa e della stampa qui presentata. Per un’attenta e affettuosa presen­tazione critica della figura di questo fotografo rimando a Marina Miraglia, Giorgio Sommer, un tedesco in Italia, in Un viaggio fra mito e realtà. Giorgio Sommer foto­grafo in Italia 1857 – 1891, catalogo della mostra (Ro­ma, Palazzo Braschi, 5 dicembre 1992-10 gennaio 1993), a cura di Marina Miraglia, Ulrich Pohlmann.  Roma: Carte Segrete, 1992, pp. 11 – 32 (in particolare alle pp. 12, 26 n. 11, 31 n.84).

[45] M.T.V. (Marie-Christine Vellozzi), J.A. Linck, “Crevas­se sulla Mer de Glace et Grands Charmoz”, s.d., in Im­magini e immaginario della montagna, 1989,  sch. n. 163, p.133.

[46] Garimoldi, 1995, p.  49. Un ricchissimo repertorio di ico­nografia alpina prefotografica è costituito dalla collezione Paul Payot depositata al Conservatoire d’Art et d’Histoire di Annecy e pubblicata in Mont-Blanc. Conquete de l’Imaginaire.  Montmélian: La Fontaine de Siloé, 2002.

[47] Per i riferimenti letterari al tema cfr. Mario Domenichel­li, Il monte e la balena: il sublime dell’origine nel ro­manticismo, in Alpi gotiche. L’alta montagna sfondo del revival medievale, atti delle giornate di studio (Torino 1997), a cura di Cristina Natta-Soleri, Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1998, pp. 123 – 131, che pensa piuttosto a Poe e Melville.

[48] Alberto Luigi Vialardi (1833 -1912), membro dei CAI, tra i più noti fotografi torinesi della sua generazione, risul­ta essersi dedicato alla professione per un brevissimo arco di tempo, compreso tra il 1863 e il 1869, sebbene di lui siano note alcune immagini di Figurini del personale del­la Real Casa, datati 1871 e conservati presso la Bibliote­ca Reale di Torino. Lo svolgersi della sua attività, e il suo stesso avvio forse, sembrano essere strettamente connessi al ruolo nuovo di capitale nazionale, e poi alla sua perdita, svolto da Torino immediatamente dopo l’Unità, così come gli incarichi da lui assunti, quasi certamente determinati dalla buona conoscenza e dai buoni rapporti con il milieu burocratico statale che gli derivavano dall’essere stato se­gretario presso il Ministero delle Finanze e autore di un Annuario del Debito Pubblico (1862) che allora godette di una certa fama, cfr. Claudia Cassio, ad vocem, in Miraglla,1990,  pp.430-431.

[49] N.V, [Nicola Vassallo], Alberto Luigi Vialardi, Album del Monviso, 1863, in Cultura figurativa e architettoni­ca,  sch.1436, pp.1329-1331. Una stampa della stessa se­rie, annotata e colorata a mano, è conservata anche nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna, cfr. Sche­rini, 2000, p. 135, sch. 104. Gli altri membri della spedizio­ne furono Giuseppe e Luigi di Rovasenda e Luigi e Mel­chiorre Pulciano, quest’ultimo noto ingegnere e restaura­tore che sarà particolarmente attivo in area saluzzese. Da una cronaca coeva citata da Vassallo si apprende come ­nonostante il significato anche politico dell’impresa – l’aspetto più innovativo della spedizione fosse considerato “lo sperimento della fotografia” e in particolare l’uso delle nuove lastre al collodio secco, sebbene l’autore ritenesse che Vialardi avesse “fors’anco abusato del nuovo sistema secco del tanino [sic] proposto dal maggiore Russel, col non sviluppare le prove ottenute che al finire del viaggio”, contrariamente a quanto era invece indispensabile fare uti­lizzando il collodio umido, come nel caso di Auguste-Rosa­lie Bisson. (V.G.,  “L’Opinione”, 21 agosto 1863).

[50] All’album di Vialardi dedicato al cantiere del Canale Ca­vour conservato presso l’Archivio Storico della Associazione Irrigazione Ovest Sesia di Vercelli, si devono aggiunge­re le immagini di Bernieri e di Tarantola conservate presso l’Archivio Storico dei Canali Cavour di Novara ed in alcu­ne collezioni private. Le fotografie di Vialardi divennero di fatto l’immagine ufficiale della grande opera, diffuse sotto forma di piccole vedute a volte assemblate in un unico car­tone, corredate di tavola topografica relativa al percorso del canale. Undici di queste fotografie, montate in cornici dorate, vennero inviate alla Esposizione Internazionale di Dublino del 1865, cfr. ASCC, Novara, Libro Mastro A, f.170, 27 aprile 1865.

[51] “La Gazzetta Piemontese”, 31 maggio 1869, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800.  Aosta: Musumeci, 1980, p.365. Ricordo qui che già le immagini dell’Album del Monviso erano corre­date di ampie didascalie che mostravano un’attenzione particolare per il tema, recente e scottante, della defini­zione dei confini con la Francia. I resoconti relativi all’at­tività di Vialardi che  Cassio ha ricavato da fonti gior­nalistiche coeve sono interessantissimi, sebbene risulti assolutamente incomprensibile il riferimento – contenuto in un articolo della “Gazzetta del Popolo” del 1864 – ad un inesistente “traforo del Moncenisio” che sarebbe stato realizzato nel 1863; lungo quel percorso gli unici lavori che comportarono la costruzione di gallerie (artificiali) fu­rono quelli relativi alla realizzazione della ferrovia a cre­magliera nel 1868.

Mostrare paesaggi ovvero  “La documentazione dell’inesistente”[1] (2003)

testo integrale per  L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, Galleria Civica di Modena, 23 novembre 2003 – 25 gennaio 2004) a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2003

 

La parte più nobile della fotografia italiana postunitaria aveva proseguito e consolidato, estendendola in misura mai prima immaginabile, l’esperienza indiretta della conoscenza visiva di luoghi e paesaggi avviata dai primi dagherrotipisti e poi dai grandi studi che si aprono nelle principali città d’arte italiane già intorno al 1850. A questo compito erano state chiamate anche le schiere sempre più nutrite di fotografi dilettanti, di amatori che (seguendo le suggestioni di Ruskin senza neppure conoscerne il nome) si erano assunti l’onere di documentare e illustrare  il “belpaese” anche nei suoi aspetti meno noti e celebrati, mentre le stesse municipalità si avviavano ad utilizzare lo strumento della fotografia per testimoniare le trasformazioni urbane in corso.  Si forma così quel “catalogo visivo” del patrimonio italiano cui miravano gli intelletti più accorti della cultura storico artistica nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo: da Camillo Boito ad Alfredo d’Andrade, da Giovanni Morelli a Corrado Ricci, sovente in piena consonanza con gli esponenti di maggior rilievo della cultura fotografica come Pietro Masoero e Giovanni Santoponte.

Un paese fatto di vestigia e paesaggi in cui schiere di poeti “hanno camminato molte volte”[2], e che rischia – già in quegli anni – di essere ridotto ad una rappresentazione omologata in cui “il luogo comune si trasforma in un ideogramma”[3], ma anche un paese che avvia la propria rivoluzione industriale e mostra orgogliosamente i ponti e le stazioni, i teatri,  le gallerie urbane e i cimiteri monumentali sempre più spesso citati dalle guide: l’immagine che così prende forma è quella che sulla scia dell’abate Stoppani, Gustavo Strafforello illustrerà nella serie regionale di volumi più retoricamente dedicati a La Patria[4], pubblicati a partire dal 1890 con un corredo di incisioni ricavate da fotografie, sovente ritoccate senza una precisa consapevolezza dei luoghi raffigurati, mentre Baedeker si affidava ancora alla sola efficacia della parola.

Mentre industrializzazione e urbanizzazione mutano il volto delle città,  gli esponenti più sensibili e curiosi della classe dirigente si fermano a osservare e testimoniare a futura memoria il mondo rurale che cambia, come sarà per Vittorio Sella e Domenico Vallino nelle vallate del Monte Rosa (1890) e – negli stessi anni – per la periferia e la campagna romane descritte da Giuseppe Primoli, incarnazione suprema del fotografo “irregolare” definito da Lamberto Vitali, “non legato a nessuna formula di meccanica uniformità e da nessuna schiavitù di mestiere [che] per posizione sociale e per cultura, era in grado di esercitare in modo tutt’affatto diverso la propria facoltà di osservazione.”[5]  Per Primoli la funzione di mediazione dell’esperienza che egli riconosceva alla sua sensibilità letteraria si riflette e corrisponde a quella necessità di cogliere l’evento, di porre  “una distanza in rapporto al presente”[6] per il tramite della rappresentazione fotografica che è – a  mio parere – il fondamento dell’estrema libertà e forza delle sue immagini, di quelle istantanee in cui lui stesso scopriva analogie non tanto con la più avanzata cultura visiva coeva, a lui ben nota per le costanti e qualificate frequentazioni parigine,  quanto con la sincerità e la verità delle rappresentazioni delle “peintures primitives “: quella “affettuosa, profumata castità di visione”[7] che caratterizza il suo uso dell’apparecchio fotografico e che trasmette senza sforzo apparente sottili elementi di lettura e giudizio, a volte affidati a notazioni quasi marginali, in altre ottenuti con un’orchestrazione bidimensionale degli elementi costitutivi che anticipa gli esiti più formalmente connotati della fotografia diretta (le bellissime Pecore al pascolo, 1890ca, col frontale della staccionata e gli animali disposti otticamente lungo le traverse come su un pentagramma costruttivista), ma sempre orchestrati per serie fotografiche raccolte su grandi cartoni in cui la singola immagine, per quanto accattivante non è che un elemento necessario del quadro complessivo.

Quello di Primoli è sovente paesaggio con figure, in cui i due elementi si compenetrano e giustificano a vicenda: il paesaggio è il luogo di quella figura, di quel tipo (mai un ritratto, ovvio), è il contesto necessario in cui collocare  lo svolgimento di un’azione che sensibilmente slitta dalla scena (Carro coi buoi ai Prati di Castello;  Buttero che sorveglia contadine che zappano, 1891ca; Contadina ad Ariccia, 1895ca) ancora ricca di debiti pittorici, alla rapidità dell’istantanea che blocca il gesto del Toro preso al laccio, 1890ca.

Nella sua intenzione descrittiva il mondo popolare  è lavoro e vita quotidiana, accettazione senza vagheggiamenti dello stato delle cose;  Primoli non sottostà alle mitologie dell’amico Michetti né al verismo verghiano[8], fenomeni che vanno invece inscritti – come il coevo richiamo classicista di Von Gloeden – in quella “attenzione nei confronti della cultura folklorica” – di cui ha parlato Luigi Lombardi Satriani – che “costituisce un tratto molto diffuso nella temperie culturale di quegli anni. La cultura italiana si avverte sempre più attratta da un altrove i cui tratti caratterizzanti delimitano variamente una topografia dell’immaginario”[9] identificato sempre come “spazio per l’idoleggiamento della semplicità”, che muovendo dalle prime reinvenzioni medievaleggianti si spinge poi verso l’oriente esotico o il mondo popolare extraurbano (a quello urbano pensava Bava Beccaris).

Nella rete di relazioni che lega, non solo personalmente, Primoli, Verga, Michetti e Von Gloeden le posizioni si fanno però distinte in rapporto al ruolo delle immagini e più specificamente all’uso della fotografia. Per Michetti[10] esso è – come noto – strutturale, inserendosi dapprima nel contesto più ampio delle diverse declinazioni del realismo e delle questioni connesse all’uso anche strumentale della documentazione fotografica, pur senza dimenticare la lezione di Luigi Capuana, per il quale  “l’artista non fotografa, neppure quand’egli stesso crede soltanto di fotografare”[11]. Si ripropone in questa lucida precisazione la questione del rapporto tra documentazione e interpretazione, chiave di volta non solo del dibattito in corso sul riconoscimento della possibile artisticità della fotografia, ma anche e più in particolare dei rapporti tra questa e la cultura verista, e ancora – in termini generali – del possibile esaurirsi della funzione artistica a favore della presunta oggettività della conoscenza scientifica, con l’apparecchio fotografico destinato a rappresentarne contemporaneamente il simbolo e lo strumento di attuazione. Anche il rapporto figura/sfondo che attira la critica letteraria verghiana e che viene riconosciuto come caratteristico della pittura ‘bidimensionale’ di Michetti, è anche un tema specificamente fotografico. Dopo la fatidica data del 1900 si assiste in Michetti al passaggio dalla fotografia come studio e repertorio al riconoscimento del valore della sua autonomia espressiva, in un ribaltamento delle gerarchie artistiche tradizionali che ha portato molti critici, specialmente nella prima metà del Novecento, a identificare negativamente questo passaggio come “crisi”, mentre sarà più corretto riconoscerlo come “scarto” e collocarlo in un pensiero segnato dal positivismo e dalla fascinazione per l’industrialesimo, dove l’urgenza del fare[12] che sempre lo aveva caratterizzato si traduce ora nel ricorso prevalente alla nuova tecnica, nella velocità di realizzazione come nell’accrescimento esponenziale delle immagini, fatte a macchina, per una produzione che si potrebbe definire potenzialmente seriale e quasi “a catalogo”[13]. Se solo portiamo alle conseguenze ultime l’interpretazione e il senso di quel suo sistema di codici e rimandi che legava fotografie e bozzetti, vediamo come l’operare dell’ultimo Michetti prefiguri questioni centrali dell’estetica e della produzione artistica del secolo che si apriva.

A questa trasformazione produttiva corrisponde all’abbandono dei temi demologici, la perdita di interesse per i contenuti narrativi a favore dell’indagine compositiva e formale, coloristica anche (mediante l’uso delle autocromie), mentre emergere il paesaggio come tema autonomo, indagato nelle sue componenti strutturali e minute, per orizzonti chiusi, “quasi che l’occhio meccanico michettiano si affidi al tatto, divenga – come ha riconosciuto Renato Barilli – lo strumento delegato a realizzare un corpo a corpo.”[14]

Al “grande artista che così mirabilmente consacrò sulla tela la sua terra natia” aveva guardato esplicitamente nei primi anni della sua attività anche Wilhelm von Gloeden, che proprio da Michetti aveva ricevuto vividi apprezzamenti per i suoi “primi modesti lavori fotografici”[15]. Sono gli anni intorno al 1880,  quando il fascino delle “classiche contrade della Sicilia” lo spinge a “rivivere fra i pastori arcadici e Polifemo”, a costruire una sua propria mitologia, per molti versi derivata e parallela a quella del pittore abruzzese, nella quale  evocazioni simboliste e cultura omosessuale si intrecciano indissolubilmente con le suggestioni più diverse, da Mariano Fortuny a Lawrence Alma Tadema, per mettere in scena un’ arcadia classicheggiante  che presenta analogie con i tableaux vivants cristologici di un autore coevo come Fred Hollad Day[16], ma che si rivela anche piena e ricca di elementi di acuta comprensione demologica[17]. Ciò che qui interessa sottolineare è che questo bagaglio di rimandi e suggestioni, questa “congerie di istanze culturali, umane ed estetiche”[18] non sia mai intesa da Von Gloeden come soluzione puramente stilistica, orientata alla conquista di un presunto valore “artistico” per le proprie immagini: suo scopo è di “far rivivere nell’opera fotografica i sentimenti che [l’autore] provò davanti alla natura”, senza fare ricorso “a esagerazioni che non possono essere approvate [quali] i formati giapponesi più strani, l’imitazione di pitture antiche o moderne, gli ingrandimenti confusi ricavati da piccole negative, la grana eccessiva e numerosi altri artifici cui oggi in fotografia si ricorre”[19], perché – dice Von Gloeden – “io non ho mai creduto necessario che la fotografia per elevarsi debba rinnegare la sua origine.” Insomma un rifiuto netto e circostanziato degli espedienti e dell’estetica pittorialista, e una presa di posizione che ci consente di non incorrere in equivoci in merito alle intenzioni se non agli esiti della sua poetica: nel rifiuto di ogni imitazione, dallo sforzo  di far “rivivere e sognare la Sicilia pastorale” (Anatole France[20]) prende forma quella sua aspirazione all’atemporalità del classicismo che è costretta a misurarsi con la temporalità ineluttabile della fotografia.  Da qui nascono queste immagini di un “genere spietato”, in cui “tutto lo sfumato sublime della leggenda entra in collisione (…) con il realismo della fotografia”[21], producendo un corto circuito in cui Von Gloeden riconosce la derivazione genealogica, l’identità letterale (e non letteraria) tra le figure modellate dalla mitologia  e l’umanità terragna dei giovani contadini taorminesi. In questa tensione trova la propria collocazione necessaria il paesaggio, sia – più raramente – come presenza autonoma sia nella sua funzione di elemento di definizione della figura, intriso degli stessi valori delle figure che lo animano: quasi fondale oleografico nelle immagini dedicate ai pescatori (debitrici dei “tipi” della fotografia ottocentesca, da Bernoud a Sommer) o luogo della quotidianità come della drammaticità della cronaca (terremoto di Messina e Reggio, del 1908) diviene, nella sua produzione più nota, sostanza e scena della celebrazione della mediterraneità primigenia, vista con gli occhi di un artista che si autorappresentava pensando a Dürer.

Ragioni affatto diverse portano al confronto col paesaggio un autore coevo come Francesco Negri, e più tardi Giuseppe Gallino, qui considerato quale rappresentante particolarmente significativo della selezionata pattuglia di fotografi che subisce il fascino delle autocromie Lumière. Non che Negri non lo avesse mai affrontato prima di quel 1901 in cui si misura con la difficoltà tecnica delle tricromie, ma qui – appunto – il senso e le ragioni della scelta risiedono principalmente nei vincoli imposti dal procedimento; si direbbe anzi che da questi possa essere derivata non solo la scelta del tema ma anche del luogo: ritorna infatti a indagare quel paesaggio fluviale e collinare che segna i dintorni della sua città (Casale Monferrato) e che tante volte ha già descritto e studiato, nello sforzo tutto positivo di annodare le fila di tutte le trame che costituiscono un territorio, in anni in cui si avviano in Italia le prime riflessioni in merito alla tutela del paesaggio[22]. Ora  la novità dirompente, assoluta, oggi incommensurabile è il colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel (Lippman, 1908). L’assunzione del tema non ha in queste prove di Negri nulla di ideologico:  il soggetto è imposto, quasi  ineluttabile nel momento in cui ci si voglia misurare col colore (insieme, non a caso, alla natura morta). Certo, stabilito questo, nella determinazione dell’inquadratura e nella costruzione generale dell’immagine influiscono e rientrano suggestioni e stimoli visivi e culturali precisi, sguardi educati a vedere secondo canoni determinati, non casuali. Ciò che più attira e colpisce l’attenzione dei contemporanei è però la novità dell’applicazione, il passaggio dalla sperimentazione di laboratorio al plen-air, quel suo essere “il primo credo, [che] dalla natura morta osò riprodurre a colori la natura aperta come un’aiuola di viole del pensiero e un canale del Po con effetto di tramonto (…) sintesi di un lungo e paziente lavoro, il quale lascia dietro di sé un enorme sciupio di lastre, pellicole e colori[23], come sottolinea Masoero nel presentare le tricromie di Negri in mostra all’Esposizione torinese del 1902, avvio di una pratica che solo negli ultimi decenni del Novecento avrà il sopravvento.

Tanto il metodo interferenziale di Lippmann costituiva – nelle sottili parole dei Lumière – “una meravigliosa esperienza di laboratorio e una elegante conferma della teoria fisica della luce” priva però di qualsiasi utilità pratica, tanto la nuova tecnica dell’autocromia da loro messa a punto nel 1904 e commercializzata tre anni dopo forniva la prima soluzione praticabile su larga scala al problema della fotografia a colori. Lo schermo tricromo in fecola di patata attirò da subito numerosi fotografi, specialmente in area piemontese (Masoero, Pia, Tournon, Vercellone, solo per citarne alcuni) non solo per il fascino divisionista della grana colorata di queste immagini (certo prossimo a Pellizza, a Morbelli), ma anche e soprattutto per le possibilità offerte di affrontare con strumenti linguistici nuovi un tema con cui la fotografia artistica si era a lungo misurata e che continuava ad essere considerato centrale anche nei primi decenni del Novecento.

Mentre il trattamento del paesaggio che si afferma prepotentemente negli anni della “Fotografia Artistica” predilige i toni bassi e brumosi (fontanesiani quasi), qui insieme al colore entra in gioco la luce, meglio ancora la luminosità che poteva essere restituita in tutte le sue gradazioni al momento della visione per proiezione delle autocromie. Mostrano bene questa attenzione inedita per le modulazioni cromatiche, slegate quasi da ogni vincolo narrativo e per questo lontane da quella “sentimentalità di un colorismo kitsch” che tanto preoccupava Lazlo Moholy-Nagy[24], i paesaggi alpini di Giuseppe Gallino,  esponente poco noto[25] di quella diffusa cultura piemontese che coniugava passione per la montagna e fotografia. Disegnatore, pergamenista e miniaturista, Gallino mostra nelle sue immagini di essere perfettamente aggiornato sulla pittura piemontese coeva, da Giuseppe Bozzalla (Il torrente d’inverno, 1910,  GAMTO) a Cesare Maggi, di poco più giovane, e ai suoi paesaggi innevati della metà degli anni Venti che vivono delle stesse suggestioni delle autocromie, mentre le luci calde a cui ricorre in altre riprese rimandano alle stagioni immediatamente precedenti. Nelle sue opere un solo tono satura l’immagine: solo bianchi invernali, le infinite gradazioni verdi o rossastre dei boschi nelle diverse stagioni. Solo raramente si preoccupa di articolare lo spazio per piani, di costruire una profondità che richiami l’idea di paesaggio come panorama, per restituire invece un effetto di superficie coloristica, non di rado racchiusa in un profilo centinato che riprende i modi della messa in cornice pittorica, ampiamente utilizzati anche da altri autori (si pensi a Cesare Schiaparelli o ad Andrea Tarchetti) fedeli ai modelli autorevoli proposti  sulle pagine de “La Fotografia Artistica”.

Non ha qui senso ripercorrere le ragioni e i termini del pittorialismo in tutte le sue differenti declinazioni; basti richiamarne l’allontanamento programmatico dalla realtà fattuale che lo segna a  livello internazionale e di cui costituiscono indizio rivelatore non solo elementi apparentemente secondari come il profilo di una cornice,  ma anche e specialmente il manipolare le apparenze analogiche di ogni fotografia, la tensione alla perdita di ogni vincolo di meccanica referenzialità.  È in questo contesto che nel secondo decennio del secolo si genera quello scarto drammatico tra la cultura fotografica di riviste e salon e lo scenario politico e civile che procederà in Italia, pur con ragioni successivamente diverse quasi sino agli anni del secondo dopoguerra.

Mentre si moltiplicano le scene arcadiche e crepuscolari guerra e fotografia si alleano per  offrire alla vista immagini sconosciute del mondo: non solo – come ha riconosciuto Diego Leoni elaborando un pensiero di Merleau Ponty – si amplia e si ridefinisce la “appropriazione del campo di percezione entro il quale l’oggetto del contendere si sarebbe definito visivamente e politicamente”[26], ma alla rappresentazione prospettica terrestre di tradizione rinascimentale si affianca e si sostituisce in parte una visione verticale e planimetrica; l’immagine fotografica si approssima all’astrazione cartografica conservando però intero il proprio carico di referenzialità[27]. Per questa sola ragione la ripresa aerea contribuisce a formare in modo nuovo l’esperienza comune del paesaggio e più in generale dello spazio, già toccata dalle modificazioni indotte dalle grandi invenzioni ed elaborazioni teoriche dei decenni a cavallo tra Otto e Novecento. Come ha riconosciuto Gertrude Stein riflettendo sull’opera di Picasso “il Novecento è un secolo che vede la terra come non l’ha mai veduta nessuno[28], la terra quindi ha uno splendore che non ha mai avuto. Nel Novecento tutto si distrugge e niente continua, il Novecento quindi ha uno splendore tutto suo. Picasso è di questo secolo. Ha la singolare qualità di una terra che nessuno ha mai veduto, di cose distrutte come non sono mai state distrutte.”[29] Lo statuto di queste fotografie è, ancora una volta, ambiguo e ciò determina conseguenze importanti sul loro impatto estetico[30]: certo esse costituivano – secondo la bella definizione di Giovanni Battista Trener, tra le figure più rilevanti del pionierismo dell’aerofotografia italiana –  la registrazione delle “impronte della guerra”[31], consentendo di raffigurare qualcosa di altrimenti invisibile come il campo di battaglia[32], ma la precisa formalizzazione ottico geometrica della rappresentazione ne riduceva anche drasticamente il campo di riconoscibilità al di fuori dell’analisi specialistica. Negando ogni confronto e il conforto che nasce dall’esperienza comune e diretta, questo terribile Paesaggio di rumori di guerra che  Depero descrive nel 1915 (oggi al Mart di Rovereto)  si trasforma in figura astratta e impone suggestioni nuove, fondamentali per la ridefinizione del linguaggio visivo e fotografico degli anni successivi al primo conflitto mondiale.é appena il caso di richiamare qui l’interesse o la vera e propria passione per le riprese aree in due architetti fotografi come Pagano e Carlo Mollino, mentre Moholy-Nagy ricorre alla “Fotografia aerea di una piazza” per la sceneggiatura tipofotografica di Dinamica della grande città, stesa nel 1921-22 con Carl Koch[33], e Antonio  Boggeri  nel 1929 annovera tra le possibilità di costruire una nuova visione “lo spostamento del punto di vista dell’obiettivo: in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari”[34].

Questa notazione destinata a diffondere  in Italia il verbo del modernismo fotografico, apparve – come noto – sulle pagine dell’annuario Luci ed Ombre, testimonianza della volontà di apertura del gruppo redazionale, di stretta formazione pittorialista, e ulteriore conferma della contraddittoria vitalità di quel “laboratorio” torinese che si avviava a perdere il proprio primato: luogo di una cultura fotografica sempre più autoriferita e sterile, che si sclerotizza nella sua settorialità mentre la ben più viva realtà milanese si apre ai confronti con discipline diverse, dall’architettura alla pubblicità, e per questi tramiti si misura con gli esempi più alti della cultura visiva e fotografica internazionale.

Anche un autore di grande prestigio internazionale e di solida formazione analitica e positiva come Vittorio Sella si misura con le suggestioni tardopittorialiste durante il viaggio in Algeria e Marocco fatto nel 1925: ne ricava stampe morbide, di medio formato e virate in tono caldo, le sole ad essere ospitate sulle pagine del “Corriere Fotografico” e poi di Luci ed Ombre[35] e le ultime sue ad essere note al pubblico, prima del suo definitivo allontanamento dalla pratica professionale[36]. Sono immagini che vanno considerate quale avvio di una più ampia fase, che comprende anche la  ristampa di negativi realizzati alcuni decenni prima e ora trattati con viraggi semplici (blu, rossastri) o a doppio tono, sino alle colorazioni parziali e alle sbianche utilizzate nelle stampe realizzate per conto di altri autori quali Mario Piacenza e i fratelli Gugliermina, in cui risulta evidentissimo l’interesse per la pittoricità del gesto e dell’esito, lontani da ogni intenzione di verosimiglianza, poiché non era certo un maggiore effetto di realtà che interessava Sella in quegli anni, come dimostra indirettamente il fatto che non abbia mai realizzato (per quanto sinora noto) fotografie a colori. Questi ricordi di un viaggio finalmente familiare, sempre in bilico tra ricordo e autonoma ragione espressiva  più che un’anomalia nel percorso dell’autore devono essere considerati l’avvio di un riemergere di quella passione pittorica che aveva toccato il giovane Sella, ora pienamente accettata e accettabile, compresa e coerente com’era al gusto medio della fotografia italiana tra le due guerre, illustrato dall’importante serie di mostre che si susseguono in Italia a partire dal 1923 (Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia a Torino, a cui partecipano anche Drtikol e Rodcenko, sostanzialmente ignorato) e poi ancora a Monza nel 1927, mostra che doveva “rappresentare il contributo italiano alla Pictorial Photography”[37], mentre a Stoccarda – solo due anni dopo si sarebbe aperta Film und Foto,  la grande esposizione che segnava la maturità espressiva delle avanguardie fotografiche internazionali.

Il distacco dalle contingenze del reale non rappresenta, per molti degli autori di questo periodo, solo una sommaria adesione al neoidealismo, in un intreccio di ragioni che coniuga la reazione al materialismo ottocentesco con l’aspirazione all’arte fotografica (pur messa in dubbio da Benedetto Croce): i riferimenti ideali e astorici, il ripiegamento sui valori intimisti delle piccole cose, costituiscono un contraltare alla dura realtà politica e civile del paese e alla retorica roboante del regime; anche così si  giustifica in parte la produzione di quegli anni, il rifiuto generalizzato per quanto non esclusivo delle suggestioni provenienti dalle ricerche internazionali.

“A Sandro G.G. [Galante Garrone], per ricordargli, di fronte al brutto passeggero, il bello eterno”[38] recita il testo di una dedica (datata 1934) di Domenico Riccardo Peretti Griva,  uno degli autori più rappresentativi di questa stagione e membro autorevole di numerosissime giurie fotografiche in cui si celebrano “i candori squisiti di «purezze alpine» (…) il misticismo delle buone donnette del villaggio che, nella tregua della dura fatica dei campi, vanno alla bianca chiesetta, bianche esse pure nel sole che inonda le vicine messi.” [39] , mostrando come fosse possibile e quasi  naturale coniugare retorica passatista e fascinazione per il modernismo del tono alto delle immagini. Come ha rilevato Marina Miraglia[40], in quelle occasioni Peretti Griva elabora il concetto, poi ripreso da Mollino alla fine del decennio successivo, del prevalere dell’efficacia comunicativa sulla modalità di realizzazione, sullo stile: “io non vado cercando nei lavori fotografici il mezzo usato per ottenere l’effetto (…) io non faccio differenza fra ottocentisti e novecentisti, fra romantici e realisti”[41] afferma Peretti Griva,  che ancora anni dopo dirà “io non intendo sollevare discussioni sulla tecnica fotografica, né, tanto meno, ho la pretesa di sostenere la superiorità del procedimento (bromolio-trasferto), che io soglio praticare, su quello comune al bromuro.”[42] Sarà questa onestà di intenti, l’apertura critica mostrata e per certi versi palesemente contraddetta dalle sue scelte stilistiche, a giustificare la sua presenza a chiudere, con Sole nel cortile, l’Annuario di Domus del 1943, dopo una tesissima e ampia sequenza ultramodernista (pp.188-203); presenza che segna le incertezze e contraddizioni dell’intera operazione[43], ma certo non inserita “quasi per una svista”[44] se lo stesso Mollino riconosceva in lui pochi anni dopo un “artista tra i pochissimi dove l’atmosfera avvolgente di questa pericolosa tecnica fotografico-pittorica  giunge all’evocazione di un autentico mondo di poesia.”[45]

In quella che si definiva Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia  Peretti Griva è il solo rappresentante del gruppo di torinesi vicini al “Corriere Fotografico”, cui anzi sembrano indirizzati implicitamente gli strali più polemici di Scopinich[46]. Risulta quindi assente su quelle pagine anche un autore internazionalmente noto[47] come Cesare Giulio, sebbene la fotografia a tono alto sia rappresentata da un altro torinese come Enrico Giorello (p.39), e dai trentini Aldo (p.80) ed Enrico Pedrotti (p.56)[48], che nei ritratti anticipa Vender. Giulio era stato tra i primi ad adottare coerentemente e sistematicamente questa soluzione stilistica, a partire almeno dalla seconda metà degli anni Venti: “abbacinati paesaggi di neve”[49] quasi sempre  privi di sviluppo prospettico, modellati per superfici pure, segnate da impronte e scie che si trasformano volentieri in texture, immagini in cui la tendenza alla costruzione della pura forma, astratta, è confermata anche da certi titoli suoi (Armonie invernali, 1925; Trasparenze, ante 1932) e di altri autori[50] a lui prossimi come Carlo Baravalle (Sinfonia della neve, 1927)  e Stefano Bricarelli (Tracce, 1932). Questa economia di mezzi, questa riduzione ai minimi termini dei segni e dei toni, l’assenza di manipolazioni in ripresa e in stampa pur nella ricerca ostinata di una artisticità dell’immagine rappresentano, più che il superamento, una soluzione alternativa al pittorialismo imperante, la scelta di altri modelli di riferimento, di altre suggestioni quali la grafica giapponese. L’eliminazione del volume prospettico in favore della risoluzione e dell’esaltazione della superficie, l’adozione del tono alto portano a fondare il proprio bagaglio espressivo sulle pure potenzialità delle modulazioni luminose, intrecciando il proprio con altri percorsi coevi sebbene distanti: basti qui ricordare ancora Moholy-Nagy, che utilizza sequenze di sciatori e scie tratte dal testo Wunder des Schneeschuhs di Arnold Fanck e Hannes Schneider[51] e i toni alti delle fotografie di fiori di Imogene Cunningham che proprio il “Corriere Fotografico” pubblica nel 1931.

Tra misticismi, purezze alpine e mondi di poesia la fotografia artistica si prodiga di fatto per ottenere quell’occultamento sistematico del reale cui tendeva, pur con intenti e strumenti opposti anche quella più propriamente di regime e di propaganda; “grande e infamante occasione”  per la fotografia italiana l’ha definita Giulio Bollati, chiamata e votata a “documentare l’inesistente” in un senso certamente meno poetico di quanto avesse potuto intendere Emanuele Sella nel 1922[52].

È quello che è stato definito “periodo d’oro dell’arcadia fotografica”[53], ma la prospettiva troppo prossima da cui tale giudizio era stato formulato oggi va in parte rivista, riconoscendo una varietà di posizioni e di effetti, una complessità di situazioni che trova il proprio interesse proprio nella ricchezza della sua articolazione.

Così, per rimanere ancora a Torino, accanto a Peretti Griva e Giulio si muove in un isolamento quasi assoluto e caparbio, forse imposto, Mario Gabinio che all’avvio degli anni Trenta impone uno scarto radicale e stupefacente al proprio guardare, ribaltando il realismo analitico della sua formazione ottocentesca in una nuova visione perfettamente aggiornata, senza pagare alcun dazio alla maniera pittorialista. Superate le indagini sistematiche sul patrimonio architettonico aulico e sulle strade della città quadrata, Gabinio si dedica alla ricognizione, non senza intenti celebrativi, degli “elementi che caratterizzano oggi la città (…) capitale dell’industria, ricchissima di forze plastiche moderne”, secondo la definizione del pittore Fillia[54].  Sono i lavori per il primo tratto di Via Roma (1931-1933) ad attirare la sua attenzione, intento ad indagare gli spazi di questa città “deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi”, per riprendere le parole che  Benjamin dedica nello stesso 1931 alla Parigi di Atget[55]; è la costruzione dello stadio, sono le dotazioni infrastrutturali che ridisegnano lo spazio delle periferie, affrontate circa negli stessi anni con declinazioni diverse anche da Stefani e da Pagano. È lo scenario della città nuova, che conquista alla propria vita il tempo modernista della notte, attraversata a Parigi da Brassai e Kertesz, con i selciati bagnati di pioggia che avevano affascinato Stieglitz ormai più di tre decenni prima, e che ora costituiscono per Gabinio l’occasione estrema per confrontare il proprio racconto fotografico la “nuova cultura della luce”.

La cultura fotografica che qui emerge non è di certo quella dei Salon o degli annuari, piuttosto quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che nel maggio del 1932 ospita l’importante Discorso sull’arte fotografica  del direttore Gio Ponti, che riconosce alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio“.[56]

I fermenti e le contraddizioni di questa stagione della fotografia italiana si traducono in sincretismo nelle prime produzioni di Bruno Stefani, attivo dalla seconda metà degli anni Venti, che oscilla tra una visione ancora tardo pittorialista della periferia milanese (Effetto di nebbia/ Riflessi Parco Lambro, 1930) e la dolorosa tensione grafica di Alta tensione, una cui versione più edulcorata sarà pubblicata in Luci e Ombre del 1932 (tav.10). è questo il periodo in cui, oltre a svolgere un ruolo fondamentale nella definizione dell’immagine della Montecatini, avvia la collaborazione con il TCI per la collana “Attraverso l’Italia” di cui Stefani fornirà la parte anche quantitativamente più rilevante dell’apparato iconografico, contribuendo a definire l’immagine del Bel Paese nella prima metà del Novecento, aggiornando e sostituendo in parte i modelli Alinari, ma contribuendo a sua volta a definire nuovi stereotipi narrativi, costruiti per reiterazioni di schemi compositivi in un contesto in cui “la committenza e la destinazione di queste fotografie diventano un motivo unificante al di là della dislocazione geografica.”[57] Sono immagini in cui una cultura fotografica ampia e aggiornata è di volta in volta posta al servizio della risoluzione più efficace e formalmente soddisfacente del tema affrontato, accogliendo via via le suggestioni astrattiste di Giulio e i grafismi di gusto Bauhaus come le forme più mature del pittoricismo, aggiornato dall’uso del colore, portate a volte a convivere nella stessa immagine. Dall’enorme quantità di immagini prodotte e raccolte per la realizzazione della collana viene ricavato nel 1956 “un estratto quintessenziale di quell’immenso patrimonio di bellezza” come lo definì Cesare Chiodi, presidente del TCI, un’antologia dell’Italia in 300 immagini che costituirà per la generazione attiva dagli anni Settanta “un modello sbagliato [ma] che aveva una sua compattezza, era nell’insieme interessante, era – nel giudizio di Ghirri – un libro di immagini «basse», volutamente «basse». Il modello era sbagliato perché era la riconferma dello stereotipo ma, d’altra parte, per quel periodo (…) era il massimo che si poteva fare.”[58]

Sul fronte meno immediatamente legato alla pratica professionale la situazione si presenta diversa: già Turroni aveva notato come “la fotografia italiana degli anni 1930-40 è nelle mani degli architetti e dei futuri registi di cinema, oltre che dei professionisti di studio. Gli architetti di Milano sono raccolti intorno alla rivista Domus (…) Non si può tracciare un panorama dell’estetica fotografica di ieri e di oggi senza tener conto di Fotografia della Domus”[59] , diretta da Ponti, ma certo vanno ricordati anche gli interventi e il ruolo centrale di Edoardo Persico in “La Casa Bella” (con la direzione di Giuseppe Pagano dal 1933), così come il ruolo svolto da un altro periodico non settoriale come “Natura”, su cui pubblicano Pagano e Stefani, che nel 1930 bandisce un concorso “onde stimolare anche in Italia la produzione di fotografie artistiche con novità di soggetti a carattere essenzialmente moderno.”[60] Attorno a queste riviste milanesi si concentra la più avanzata ricerca fotografica italiana, vivificata dalle relazioni strette con la migliore cultura architettonica e grafica del momento, in una fase della vita nazionale in cui la pratica del consenso si sviluppa oltre che  con metodi coercitivi e violenti anche con un uso accorto e spregiudicato dei mezzi di comunicazione, non ultimo il massiccio ricorso ad enormi fotomosaici e fotomurali nell’allestimento delle grandi esposizioni, a partire da quella celebrativa del decennale, nel 1932.

Nell’ambito della Mostra internazionale di Architettura della Triennale di Milano (maggio-ottobre 1936) si tiene la  Mostra di architettura rurale, risultato di un’indagine “intrapresa con lo scopo di dimostrare il valore estetico della sua funzionalità[61] che costituisce l’occasione per Giuseppe Pagano di avvicinarsi alla pratica fotografica. Obiettivo dell’indagine condotta con Guarniero Daniel è “la conoscenza delle leggi di funzionalità e il rispetto artistico del nostro imponente e poco conosciuto patrimonio di architettura rurale sana ed onesta, [che] ci preserverà forse dalle ricadute accademiche, ci immunizzerà contro la rettorica ampollosa e sopratutto ci darà l’orgoglio di conoscere la vera tradizione autoctona dell’architettura italiana: chiara, logica, lineare, moralmente ed anche formalmente vicinissima al gusto contemporaneo.”

Questa lucida analisi di matrice funzionale, razionalista coniugata con suggestioni diverse, presenta significative analogie con quanto si andava elaborando – pur ad un livello più schematico – in contesti prossimi quali la pubblicistica fotografica; basti il confronto con l’editoriale del primo numero dell’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, pubblicato a Torino nel luglio del 1933, che definisce la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire”, mentre Luigi Andreis poco oltre  descrive “la moderna fotografia, schietta, serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale”, rivelando infine la comune matrice nazional-popolare sottesa, che si traduce in richiamo esplicito alle direttive di Mussolini espresse nel discorso di inaugurazione della Mostra d’arte del Novecento Italiano nel 1926. Una comprensione strutturalmente lontana da quella prestata negli anni Venti ai temi e ai nessi della cultura popolare italiana da geolinguisti ed etnografi come Ugo Pellis o Paul Scheuermeir[62], sebbene anche Pagano avesse consapevolezza della necessità di riconoscere e considerare le relazioni tra condizioni socioeconomiche, contesto ambientale e forme architettoniche.[63]

La sua ricerca fotografica prosegue per poco meno di un decennio, sino alla prematura morte nel campo di concentramento di Mauthausen nel 1945 (dove muore anche Gian Luigi Banfi), articolata per temi, perfettamente scanditi e riflessi nell’organizzazione del suo archivio, in cui il paesaggio nelle sue diverse declinazioni e componenti, anche geografiche, assume un ruolo rilevante. Sono immagini in cui i canoni della composizione modernista, la geometrizzazione spinta ai limiti dell’astrazione  sono sempre intesi e coerentemente utilizzati quale strumento di comprensione analitica del reale, destinati  ad assumere “il valore di uno stile. Stile fatto di rapporti di chiaroscuro, di cadenze prestabilite, di assoluta dedizione all’irreale realtà della fotografia, e soprattutto tecnica di una nuova notazione pittorica: nitida, acuta, inesorabilmente obbiettiva e pur tanto poetica nella sua meccanica semplicità.”[64]

La rilevanza del ruolo svolto dalla cultura architettonica di area milanese nella definizione del carattere della fotografia italiana che si era avviato sin dai primi anni Trenta si conferma e si consolida nel decennio successivo, in un intrecciarsi di relazioni personali che resistono alle differenze ideologiche: la pratica fotografica e la passione per il cinema univano Pagano a Luigi Comencini, tra i primi commentatori delle sue fotografie, ma anche con i più giovani Enrico Peressutti e Gian Luigi Banfi (entrambi membri dello studio BBPR e redattori di “Quadrante”), Pier Maria Pasinetti  e Alberto Lattuada, che nel 1940 aveva pubblicato su “Corrente” una recensione di American Photographs, 1938, di Walker Evans[65].  Li unisce, in un momento di profondo e drammatico ripensamento ideologico, una concezione realista dello spazio esistenziale in cui – per dirla con Lattuada – è “sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose. La presenza dell’uomo è continua; e anche là dove son rappresentati oggetti materiali, il punto di vista non è quello della pura forma, del gioco della luce e dell’ombra, ma è quello dell’assidua memoria della nostra vita e dei segni che la fatica di vivere lascia sugli oggetti che ci sono compagni.”[66] 

Bel pensiero con echi pavesiani  che Pagano può condividere, ma di cui si faticherà a trovare traccia nella successiva rilevante occasione di affermazione e bilancio della fotografia italiana: l’annuario che E. F. Scopinich cura nel 1943[67] ancora per l’Editoriale Domus in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner. Fotografia esce a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di Luci ed Ombre (1934), che ne costituiva di fatto il precedente editoriale (ma non ideologico) e rappresenta la sintesi compiuta del dibattito e della svolta modernista, timidamente avviati dal “Corriere Fotografico”, poi proseguiti e affinati sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, nonché col contributo fondamentale di Ponti,  Persico e dell’editore Gianni Mazzocchi. La qualità della riflessione qui si fa però più incerta, sin dalle prime valutazioni iniziali sullo stato della fotografia italiana, considerata “giovane” da Scopinich e invece matura, tecnicamente e artisticamente da Mazzocchi. La logica del progetto segna poi un sostanziale ripiegamento, tutta rivolta com’è al chiuso mondo del puro esercizio fotografico, alla sin troppo ovvia messa in discussione di quelle “tre  generazioni di fotografi [che] hanno svolto per anni il tema delle pecore al pascolo (…) senza preoccuparsi del mondo, della vita (…) della rivoluzione prima e dell’evoluzione poi, dei valori etici e morali della nostra cultura”[68], con un richiamo ormai politicamente fuori tempo massimo, nel 1943.

Come era già accaduto al tempo del primo conflitto mondiale sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, anche le pagine di questo annuario non ci dicono quasi nulla di ciò che stava accadendo in Italia e nel mondo; solo alcune riprese dell’Istituto LUCE richiamano la drammaticità del momento, mentre Scopinich si prodiga a giustificare un poco maldestramente l’incerta poetica delle scelte.[69] Ritroviamo in quelle pagine molti degli autori da noi considerati: da Pagano a Peressutti[70], da  Peretti Griva a Stefani e Federico Vender, che tra le altre pubblica una Natura morta a colori che risulta essere la versione un poco maldestra de La fourchette di Kertesz, del 1928. Vender[71] rappresenta in quegli anni un’altra delle figure di rilievo dell’ambiente fotografico milanese, contiguo ma non coincidente con le posizioni espresse dal gruppo che ruotava intorno all’Editoriale Domus.  Uno degli autori più rappresentativi e considerati del panorama italiano, ben noto anche a livello internazionale almeno dal 1934, anche lui vicino alla cultura architettonica razionalista per il tramite del fratello[72] e direttore dal 1939 di quel Circolo Fotografico Milanese cui apparteneva anche Stefani, Vender risulta lontano dal realismo che affascinava Lattuada e Pagano, orientato semmai ad una trasfigurazione in senso idealistico della realtà in immagine, scelta che si traduce stilisticamente nel ricorso programmatico al tono alto, derivato da Cesare Giulio e dai fratelli Pedrotti ma qui caricato consapevolmente di senso, espressione di quella “necessità di allontanare la fotografia che abbia pretese di arte, dal binario morto della cronaca documentaria”[73] che costituirà il presupposto e il credo estetico del gruppo de “La Bussola”. Le immagini realizzate da Vender consentono però letture più articolate e complesse, mutevoli, in cui suggestioni materiche si alternano e a volte si affiancano ad altre di pura evocazione poetica, mentre cresce con gli anni, accanto al grande interesse per il ritratto femminile, una vocazione sempre più marcata per la geometrizzazione del paesaggio, che origina e si misura dapprima con la lettura evocativa delle architetture razionaliste ma si amplia poi e si estende alle occasioni più varie, non tanto per sottoporre il mondo ad una rigida griglia interpretativa, totalizzante quanto piuttosto e più pianamente alla ricerca di occasioni e pretesti: lo scopo non è di formulare giudizi quanto di ricavare pretesti, fedele “all’assioma fondamentale che in arte il soggetto non ha nessuna importanza”.[74]

 

Note

[1] La splendida formula si deve a Emanuele Sella che, rispondendo al quesito rivolto ai lettori del periodico “Il Fotografo” affermava: “La fotografia? È la documentazione dell’inesistente.”, cfr. “Il Fotografo”, 4 (1922),  n.3, p.10. La rivista, indicata come milanese in Italo Zannier, Leggere la fotografia: Le riviste specializzate in Italia (1863-1990), con la collaborazione di Maria Beltramini. Firenze: La Nuova Italia Scientifica, 1993, p. 250, diretta da Felice Baratelli, redattore Celeste Ferdinando Scavini, aveva invece sede a Torino, in via Cernaia 18 ed era verosimilmente finanziata dalla Bayer, come sembrano dimostrare i diversi e insistiti richiami ai prodotti dell’industria tedesca. Nel 1923 la sua gestione viene affidata a una società appositamente fondata che ne stabilisce la nuova sede in via Accademia Albertina, 1 e ne affida la direzione dal n.1 del 1925 ad Annibale Cominetti, che quindi riassume il ruolo di direttore di un periodico fotografico dopo l’importante esperienza del “La Fotografia Artistica”, ma senza ripetere il successo dell’impresa precedente. Non esistono per ora elementi certi che possano consentire di identificare l’autore della definizione con l’omonimo membro della famiglia Sella, economista e poeta, poi Rettore dell’Università di Genova, cfr. il numero monografico Emanuele Sella (1879-1946),  “Rivista Biellese”, 1 (1947),  n.5, settembre-ottobre,  cortesemente segnalatomi da Aldo Sola, che ringrazio. Due fotografie di E. Sella, di Torino,  Nouvelle lune, e Sérenité marine, vennero pubblicate nel numero di maggio giugno 1915 de “La Fotografia Artistica”.

[2] George Gissing, 1888, citato in Diego Mormorio, Vedute e paesaggi italiani dell’Ottocento. Milano: Federico Motta Editore, 2000, p. 18.

[3] L’efficace definizione è stata formulata da Leonardo Di Mauro, L’Italia e le guide turistiche dall’Unità ad oggi, in Cesare de Seta, a cura di, Il paesaggio, “Storia d’Italia – Annali”,  5. Torino: Einaudi, 1982, pp. 369-428 (389)  per descrivere il senso della rappresentazione che Gustav Klimt offrì del teatro di Taormina, realizzata per il Burghtheater di Vienna nel 1886-1888, negli anni di Von Gloeden.

[4] Gustavo Strafforello, La Patria: geografia dell’Italia. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1890 –1900. è indizio chiaro del formarsi di una nuova, più ‘moderna’ gerarchia di valori che nell’elencazione delle tipologie di beni compresa nel frontespizio dell’opera i “monumenti” siano posti a chiudere l’elenco, dopo “fiumi, canali, strade, ponti, strade ferrate, porti”.

A testimoniare su di un fronte solo parzialmente diverso l’interesse per una conoscenza non superficiale della nazione ricordiamo la fondazione nel 1894 del TCCI Touring Club Ciclistico Italiano, TCI dal 1900. Per quanto riguarda la funzione di strumento non indifferente di conoscenza del territorio italiano  è opinione comune che le guide TCI abbiano svolto la stessa funzione della produzione Alinari, di cui del resto facevano ampio uso.

[5] Lamberto Vitali, Un fotografo fin de siècle: Il conte Primoli, Torino: Giulio Einaudi Editore, 1968 (nuova ed. riveduta e aumentata 1981, p. 14).

[6]  Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2. Torino: Einaudi, 1981, pp. 421-544  (490-91).

[7] Lamberto Vitali in “Emporium”, citato da Silvio Negro, Album Romano. Roma: Gherardo Casini Editore, 1956, p. 17.

[8] Le implicazioni connesse allo scambio di fotografie tra Primoli e Verga, documentato da una lettera citata da Silvio Negro e pubblicata da Marcello Spaziani, sono discusse in Alberto Abruzzese, Carlo Grassi, La fotografia. In Alberto Asor Rosa, a cura di, Letteratura italiana: Storia e geografia, 3: L’età contemporanea. Torino: Einaudi, 1989, pp.1177-1222 (1193).

[9] Luigi M. Lombardi Satriani, La realtà e gli sguardi, in Francesco Paolo Michetti: Il cenacolo delle arti: tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia, 6 marzo-1 maggio 1999; Francavilla al Mare, Museo Michetti, 25 maggio-30 agosto 1999), a cura di Claudio Strinati. Napoli: Electa, 1999, pp. 65-71.

[10] Dopo le prime segnalazioni di Carlo Bertelli, Le fotografie di F. P. Michetti, “Musei e Gallerie d’Italia”, 1968, n. 36, settembre-dicembre, pp. 22-29,  l’approfondimento analitico della sua attività lo si deve – come è noto – a Marina Miraglia, a partire dalla monografia del 1975 (Marina Miraglia, Francesco Paolo Michetti fotografo. Torino: Einaudi, 1975) sino al più recente contributo alla mostra promossa nel 1999 dalla Fondazione Michetti (Marina Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, in Francesco Paolo Michetti: Il cenacolo delle arti, op. cit., pp. 13-64).

[11] Luigi Capuana, Spiritismo?.  Catania: N. Giannotta, 1884, pp.221-222, citato in Abruzzese, Grassi, op. cit., p. 1193.

[12] “Egli era impaziente al sommo. Trovato un mezzo più rapido di resa, si elevava di un grado. Sicché se avesse potuto fare in un attimo un quadro, l’avrebbe fatto in maniera eccellente.”, Eugenio Jacobitti, Francesco Paolo Michetti.  Firenze: Seeber, 1933 cit.  da Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.14. Notazione certo molto interessante, che colloca l’atteggiamento del pittore all’interno dei modelli interpretativi canonici (Gisèle Freund, ad esempio) ma anche in una tradizione di ‘urgenza’ di produzione di immagini di perfezione naturale che origina dal sogno di Giphantie. Bisognerebbe però riflettere che se la fotografia consente di “fare” il quadro in un attimo, implica però un “vedere” dilazionato nel tempo. A questa urgenza si associava l’interesse per l’osservazione e la resa del movimento, oltre alla precisa consapevolezza “circa l’autonomia del linguaggio fotografico”,  Miraglia,  Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.15.

[13] “E ancora sessant’anni dopo [1920ca] il vecchio Michetti diceva a Carlo Tridenti, ch’era andato a fargli visita a Francavilla, e faceva passare un fascio di schizzi fatti a colore sul vero: «Lascia stare quelle porcherie e vieni qua se vuoi vedere la natura e il vero colore». E gli mostrava decine di angoli di prati in fiore, e di campi di zucche mature, fotografati da lui con lastre a colori, e proclamava che valevano molto più dei suoi quadri.” (Negro, Album Romano, op. cit., p. 16) L’episodio fa il paio con quello ricordato nei Taccuini di Ugo Ujetti: “Lino Pesaro [il gallerista] mi parla di Michetti. L’ha veduto giorni fa al convento di Francavilla. Che cosa ha di pronto Senatore? Quanti quadri vuole! Me li mostri, e Michetti lo conduce davanti ad uno schedario con diecimila schede grandi di cartone (…) in un angolo  un numero” che rimanda allo schedario delle fotografie “Come vede, qui lei ha 10.000 quadri. Perché non li fa? Ma per me sono fatti. E per il pubblico? Non me ne importa niente. Dovrei eseguirli. Facile ma noioso. Io, li vedo perfetti.” citato in Miraglia,  Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.15.

[14] L’ultimo Michetti: Pittura e Fotografia, catalogo della mostra (Firenze, Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, 27 novembre 1993-27 febbraio 1994)  a cura di Renato Barilli. Firenze: Alinari IDEA, 1993, p. 13.

[15] Wilhelm von Gloeden in Bruno Caruso, a cura di, Ritratti di Von Gloeden con una nota autobiografica. Roma:  Edizioni dell’Elefante, 1964, p.n.n.

[16] Si veda Verna Posever Curtis, F. Holland Day: The poetry of photography,  “History of Photography”,  18 (1994), n. 4, pp. 299-321 e più in generale sulle rappresentazioni fotografiche del Cristo: Nissan N. Perez, Corpus Christi: les representations du Christ en photographie, 1855-2002.  Paris: Marval, 2002.

[17] Francesco Faeta, Wilhelm von Gloeden: per una lettura antropologica delle immagini,  “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 88-104. Già Cesare Schiaparelli nel presentare le opere di Von Gloeden esposte a Dresda nel 1909 aveva parlato a questo proposito di capacità di esprimersi artisticamente “in modo affatto speciale ed etnologicamente personale”, C. Schiaparelli, L’arte fotografica all’Esposizione internazionale di Dresda 1909.  Torino: Stab. Tipografico G. Momo, 1910, p.46.

[18] Marina Miraglia, Wilhelm von Gloeden fra realismo e simbolismo, in Michele Falzone del Barbarò, M. Miraglia, Italo Mussa, Le fotografie di Von Gloeden.  Milano: Longanesi, 1980, pp. 7-14 (14).

[19] Wilhelm von Gloeden in Caruso 1964, op. cit., p.n.n., sottolineatura nostra. Analoghi concetti erano espressi da esponenti di primo piano della cultura fotografica italiana proprio negli anni in cui si poteva avviare il confronto con la produzione pittorialista internazionale:“L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro” affermava ad esempio Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171(165), che riparlerà di “esagerazione della ricerca” anche a proposito della sezione americana recensendo l’Esposizione di Torino del 1902: Pietro Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia di Torino. Relazione al Consiglio direttivo,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 14 (1902, pp. 465-479). Tali concetti erano in netto contrasto con quelli espressi ad esempio da Livio Castellani, secondo il quale “per essere considerata opera d’arte, una fotografia deve spogliarsi da tutto quanto palesa l’azione meccanica del mezzo adoperato.”, cit. in Paolo Costantini, L’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica, in Torino 1902: Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, 23 settembre 1994-22 gennaio 1995) a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179 (97).

[20] Citato in Le fotografie di Von Gloeden 1980, op. cit. , p. 18.

[21] Roland Barthes, Wilhelm von Gloeden. Napoli:  Amelio Editore, 1978, pp.9-10.

[22] Nicola A. Falcone, Il paesaggio italico e la sua difesa: studio giuridico-estetico. Firenze: Alinari, 1914.

[23] Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia 1902, op. cit.

[24] Lazlo Moholy-Nagy, Pittura fotografia film (1925). Torino: Einaudi, 1987, p.  33.

[25] Segnalato per la prima volta da René Willien, Valle d’Aosta in bianco (e nero): un secolo di documentazione fotografica. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1976 , è stato poi compreso nel dettagliato panorama realizzato da  Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino:  Umberto Allemandi, 1990, pp. 345-346.

[26] Diego Leoni, Patrizia Marchesoni, Achille Rastelli, a cura di, La macchina di sorveglianza: la ricognizione aerofotografia italiana e austriaca sul Trentino (1915-1918).  Trento: Museo storico in Trento, 2001, p. 8.

[27] Confermando una programmatica distanza dalle contingenze storiche il periodico “La Fotografia Artistica” riprende ( 12 (1915), n.2 febbraio , pp. 25-25; n.3  marzo, pp. 37-38) lo studio dedicato alla Topofotografia aerea dal capitano Cesare Tardivo, già pubblicato sulla “Rivista d’Artiglieria e Genio”, 30 (1913), n. 3, pp. 57-75,  nel quale si descrivono le diverse applicazioni pur senza far cenno alla guerra incombente.

[28] Nello stesso secolo ci sarà un altro punto nodale in cui – nuovamente – la terra sarà veduta “come non l’ha mai veduta nessuno”: vista dalla luna in una notte del 1969 e raccontata da Luigi Ghirri, Kodachrome: Prefazione, ora in Paolo Costantini, Giovanni Chiaramonte, a cura di, Luigi Ghirri. Niente di antico sotto il sole.  Torino: SEI, 1997, pp. 18-19.

[29] Gertrude Stein, Picasso, 1938, in Stephen Kern, The Culture of Time and Space 1880-1918. Cambridge, Massachussetts: Harvard University Press, 1983 (trad.it. Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento.  Bologna: Il Mulino, 1988, p. 395).

[30] Che questo ordine di preoccupazioni non fosse estraneo alle riflessioni dei Comandi Militari è ben documentato  dalle Norme tecniche e d’impiego del servizio fotografico terrestre ed aereo emanate dal Comando supremo nel 1918, che imponevano per la individuazione del punto di vista da cui realizzare i panorami di non  tenere alcun conto “dell’aspetto più o meno artistico che, in base a tale scelta, può assumere il panorama stesso” (p.12) citato in Tiziano Bertè, Antonio Zandonati, Il fronte immobile : fotografie militari italiane dal monte Baldo al Cimon d’Arsiero. Rovereto: Museo storico italiano della guerra –  Osiride, 200, p. 16. Ciò dimostra la relazione comunque stretta tra la cultura dei fotografi militari e quella fotoamatoriale: se non si fossero presupposte connessioni, non sarebbe stata necessaria tale raccomandazione.

[31] Leoni, Marchesoni, Rastelli 2001, op. cit., p.  42.

[32] Sull’impossibilità reale di riconoscere e definire lo spazio del proprio agire al fronte è sufficiente rimandare qui alle bellissime pagine del Giornale di guerra e di prigionia  redatto da C. E. Gadda dall’agosto 1915 al dicembre 1919 e pubblicati per cura di Dante Isella, Milano: Garzanti, 1992.

[33] Moholy-Nagy (1925) 1987, op. cit., p.126.

[34] Antonio Boggeri, Commento, “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1929, pp. 9-16.

[35] La porta del mercato di Marrakesch, “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1925, tav. IV.

[36] Lodovico Sella, Vittorio Sella: cronologia, in Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982,  pp. 29-33 (p. 33).

[37] Antonella Russo, Il fascismo in mostra. Roma: Editori Riuniti, 1999, p.  186.

[38] Alessandro Galante Garrone, Domenico Riccardo Peretti Griva,  “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 20-27, ora in Fotografia luce della modernità: Torino 1920/1950, dal pittorialismo al modernismo, catalogo della mostra (Torino, Museo dell’automobile Carlo Biscaretti di Ruffia, 10 ottobre-17 novembre 1991) a cura di Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1991, pp. 151-163.   Oltre a quelli familiari, vanno ricordati qui anche i legami di passione politica e d’amicizia che legavano i due ed entrambi a Domenico Morelli, architetto e nipote dell’omonimo pittore napoletano, presso il cui studio si ritrovavano a Torino gli uomini del Partito d’Azione negli anni della Resistenza, cfr. Virginia Bertone, Da casa Morelli alle collezioni del Museo, in Domenico Morelli: il pensiero disegnato: opere su carta dal fondo dell’artista presso la GAM di Torino, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, 20 dicembre 2001-3 febbraio 2002), a cura di Claudio Poppi. Torino: GAM, 2001, p. 61.

[39] Cit. in Marina Miraglia, a cura di, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris –  Hopefulmonster, 2001, pp. 26-27.

[40] Ibidem.

[41] Ibidem.

[42] Presentazione della sua mostra La fotografia è una cosa seria, Torino, “Piemonte artistico e culturale”, 1959.

[43] L’opera di Peretti Griva risaliva infatti addirittura al 1930, anno in cui fu esposta a Torino al “Terzo Salon italiano d’Arte fotografica internazionale” (Miraglia 2001, op. cit., p.  41, nota 50).

[44] Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Bari-Roma: Laterza, 1986, p.  291.

[45] Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [gennaio 1950], p. 32; tavv. 135-137.

[46] Ermanno Federico Scopinich, con Alfredo Ornano e Albe Steiner, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943. Anche Alberto Lattuada, aveva vivacemente polemizzato con gli epigoni torinesi del pittorialismo: “Credo inutile fare osservazioni sulla tecnica fotografica. Mi pare giusto dire soltanto questo: recentemente ho visto pubblicato su un quotidiano di Torino una fotografia dalla quale, con l’aiuto di filtri, velature, bagni chimici e altri accorgimenti, l’autore era riuscito a ricavare un quadro; si trattava di una scena fluviale in controluce, sfumatissima e la dicitura diceva che tale opera aveva vinto il concorso della più grande esposizione internazionale di fotografia.”,  Alberto Lattuada, Occhio quadrato. Milano: Corrente, 1941.

[47] La sua Scia/ The Trach era stata pubblicata ad esempio in un volume importante come Modern Photography, numero speciale del trimestrale “The Studio”. London: 1931, p.81.

[48]  Si veda Daniela Floris, Floriano Menapace, Fratelli Pedrotti: immagini.  s. l. : s. n.[Trento, 1981], e in particolare, per la produzione di Enrico, Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001, p.  201 in basso, che mostra stringenti analogie con Emanuel Gyger e Giulio e che risulta più difficile collocare in un contesto di secondo futurismo, come fa lo studioso, nonostante i rapporti con Depero.

[49] Così li definirà Achille Bologna, 1935; va qui ricordato il suo Spiaggia,  che nell’uso della texture rimanda ancora a Giulio.

[50] Ricordiamo qui che anche gli Equivalents di Stieglitz (1923) vennero dapprima presentati come Songs of the Sky e furono preceduti da Music: A Sequence of Ten Cloud Photographs (1922), cfr. The Art of photography: 1839-1989, (catalogo della mostra itinerante,  Houston, Canberra,  London 1989), a cura di Mike Weaver. London: Royal Academy of Arts, 1989, p.  206.

[51] Moholy-Nagy (1925) 1987, op. cit., p.116. è appena il caso di ricordare che Fanck fu l’inventore del Bergfilm, del cinema di montagna,  la cui vera terra d’elezione è stata la Germania; efficace narratore di questo “idealismo eroico” che contemplava sempre il confronto simbolico tra l’uomo protagonista e le vette, gran costruttore di trame drammatiche, maestro di Luis Trenker e poi di Leni Riefenstahl. Analoghe soluzioni, pur con campi sufficientemente ampi e quasi panoramici, furono adottate da Emanuel Gyger circa negli stessi anni, cfr. Aldo Audisio, P. Cavanna, a cura di,  L’Archivio fotografico del Museo nazionale della montagna.  Novara: De Agostini, 2003, pp. 100 passim.

[52] Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, , pp. 5-55 ( 53); per E. Sella cfr. nota 1.

[53] Giuseppe Turroni, Nuova fotografia italiana. Milano: Schwarz, 1959, p. 12.

[54] Cit. in Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino 1920 1936. Società e cultura tra sviluppo e capitalismo.  Torino:  Edizioni Progetto, 1976, pp. 97-151 (112).

[55] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia [1931], in Id. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 57-78 (71), che riconosce anche Atget quale padre della “nuova fotografia”.  Questa relazione è sottolineata anche nella recensione di Edoardo Persico, Camille Recht: Atget,  “La Casa Bella”, 10 (1931), n.2, febbraio, p.51: “Non si tratta, infatti, di novantasei fotografie pittoresche; ma di altrettanti studi eseguiti sulla scorta di un’intelligenza acutissima; e quasi di un fine determinato, che è certo la rappresentazione dello spirito del proprio tempo. (…) Atget è il fondatore di un’«arte» della fotografia come sarà intesa parecchi anni dopo, in America ed in Germania, sotto la spinta della tecnica cinematografica”. Lo stesso Persico recensirà nello stesso anno l’importante volume di Franz Roh e Jan Tschichold, Foto-Auge – 76 Fotos der Zeit. Stuttgart: Wedekind,1929, “La Casa Bella”, 10 (1931), n.5, maggio, pp.57-58. A proposito di mediazioni culturali Germania-Italia, Floriano Menapace ricorda – in  Federico Vender: Photographien-Fotografie-Photographs 1930-1955, catalogo della mostra (Bolzano, Galerie Foto-Forum, 9 dicembre 1997-24 gennaio 1998; Innsbruck, Galerie Fotoforum West, 29 gennaio-21 febbraio 1998; Trento, Palazzo Geremia, 17 aprile-14 maggio 1998) a cura di Gunther Waibl. Bolzano: Raetia 1997, p. 9-  che Vender possedeva, forse per il tramite del fratello architetto,  una copia di questo volume.

[56] Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n. 53, maggio, pp. 285-283, corsivo dell’autore. Sottolineerei l’uso dell’aggettivo “disumana” che pare evocare (o  involontariamente presupporre) il concetto di “inconscio tecnologico”  espresso da Benjamin l’anno precedente. Se “Domus” dedica ampio spazio alla pubblicazione di immagini è su “Casa Bella” che compaiono in quegli anni le segnalazioni e recensioni  più attente di volumi dedicati alla nuova fotografia; si confrontino ad esempio le recensioni di Modern Photography, del 1931, che contiene due importanti saggi di Godfrey Hope Saxon Mills e di Cyril Leeston Smith e fotografie di autori quali Bayer, Bruguiére, Henry, Beaton e altri, tra i quali gli italiani Bologna, Bricarelli e Giulio: per il redattore di “Domus” si tratta  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  – 4 (1931), n.47, p.67- mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume è occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.” – (1931),  n.47, novembre 1931, p.54. All’Editoriale Domus di Giulio Mazzocchi si deve in questi anni la pubblicazione oltre che di “Casa Bella” e “Domus” anche di “Fotografia”, edita dal 1932 ancora sotto la direzione di Gio Ponti e la cura di Guido Pellegrini.

[57] Roberto Campari, a cura di, Bruno Stefani. Parma: Università di Parma, 1976, pp. 7-8.

[58] Luigi Ghirri, Viaggio dentro le parole: conversazione con A.C. Quintavalle, in Viaggio dentro un antico labirinto (1991), ora in Costantini, Chiaramonte 1997, op. cit., pp. 305-314.

[59] Turroni 1959, op. cit., pp.  9-10.

[60] Luci ed ombre: Gli annuari della Fotografia Artistica Italiana 1923-1934, catalogo della mostra (Firenze, Largo Fratelli Alinari, 1987-1988) a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier, introduzione di Valerio Castronovo. Firenze: Alinari, 1987,  p. 32.

[61]  Giuseppe Pagano, Guarniero Daniel, Architettura rurale italiana. Milano: Hoepli, 1936, p.  6, sottolineatura di chi scrive.

[62] Cfr. Miraglia, Note per una storia,  1981, op. cit.; Gianfranco Ellero, Italo Zannier, a cura di, Voci e immagini: Ugo Pellis linguista e fotografo. Milano: Federico Motta, 1999.

[63] Per le quali considera determinante “l’influenza del paesaggio circostante”(Pagano, Daniel 1936, p. 76). Orientamenti analoghi esprimerà Giuseppe De Santis che, proseguendo i discorsi di Lattuada e Pagano, scriverà nel 1941 (“Cinema”, n.116, 25-4-1941): “Ma come altrimenti sarebbe possibile intendere e interpretare l’uomo se lo si isola dagli elementi nei quali ogni giorno vive, coi quali ogni giorno comunica”, cit. in Piero Berengo Gardin, a cura di, Alberto Lattuada fotografo 1938-1948: Dieci anni di occhio quadrato. Firenze: Alinari, 1982, p.  8. Sono questi i temi condivisi in quegli anni da molti  intellettuali italiani di fronda, poi ripresi e sviluppati nella stagione neorealista.

[64] Giuseppe  Pagano, Un cacciatore di immagini, “Cinema”, dicembre 1938, pp. 401-403, ora in Giuseppe Pagano fotografo, catalogo della mostra (Bologna, Galleria d’arte moderna, 10 marzo-9 aprile 1979; Roma, Istituto Nazionale per la Grafica,  15 maggio-30 giugno 1979) a cura di Cesare De Seta. Milano: Electa editrice, 1979, pp. 155-156, sottolineatura di chi scrive. Già alcuni anni prima Pagano, Struttura e architettura, in Id.,  Dopo Sant’Elia. Milano:  Editoriale Domus, 1935, pp.94-120, aveva parlato di “retorica della semplicità” e questa tensione non può non richiamare la “semplificazione” di cui parlava Italo Mario Angeloni, La partecipazione dei dilettanti italianai al «IV Salon Internazionale» di Torino,  “Il Corriere Fotografico”, 28 (1933), n.5, maggio, p.252.  Pare essere questo il concetto chiave intorno a cui ruotano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni; già Marziano Bernardi nel 1927 aveva parlato di “conquista di stile” e di “concetto semplificatore” riconoscendo una rinnovata attenzione per le questioni compositive, mentre due anni più tardi Antonio Boggeri ne riprendeva i temi riconoscendo tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della “fotografia pura, o integrale” proprio la messa al bando di  “ogni concessione al gusto popolare [e la] aristocratica semplicità dello stile”, Boggeri  1929, pp. 9-16 (14).

[65] Lattuada risentirà della lezione di Evans nella formulazione del suo Occhio Quadrato, 1941; per Ennery Taramelli  il libro di Evans, penetrato clandestinamente in Italia, provocò un “profondo choc visivo (…) nella giovane bohème raccolta a Milano”  attorno a “Domus” e “Corrente. (Ennery Taramelli, Viaggio nell’Italia del neorealismo: la fotografia tra letteratura e cinema. Torino: SEI,  1995, p. 66) Va ricordato qui che sia Lattuada che Pagano collaboravano anche col settimanale illustrato “Tempo”.

[66]  Lattuada, Prefazione, in Id.,  Occhio quadrato, 1941, ora in Berengo Gardin 1982, op. cit., p. 15.

[67] Cfr. Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in  Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini. vol. 1, Fotografia e raccolte fotografiche, “Quaderni/ Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali Scuola Normale Superiore”, 8. Pisa: Scuola Superiore Normale di Pisa, 1998, pp. 99-128 ( 106-112).

[68] Scopinich 1943, op. cit., p.  7.

[69] “Nella selezione delle opere non abbiamo accettato nessun compromesso e se qualcuno troverà riprodotte nel volume delle opere in aperta contraddizione con le teorie estetiche del sottoscritto, pensi che il nostro compito ci impone di presentare anche degli esempi negativi, perché con l’accostamento grafico ed il confronto diretto si ottiene spesso di più che con un’arida discussione”, Ivi, p.  10.

[70] Un altro architetto che raccontava luoghi e “paesaggi” e tra i visitatori di Film und Foto a Stoccarda nel 1929. L’Annuario pubblica la sua bellissima Riflessi, (tav.76). Spiace di non aver potuto presentare in questa occasione le fotografie di Peressutti, autore anche di drammatiche immagini della campagna di Russia, pubblicate in Bertelli, Bollati 1979,  II, pp. 648-655, ma pare che i pochi originali ancora reperibili a quella data siano poi andati dispersi.

[71] Della nutrita bibliografia su questo autore si vedano almeno Italo Zannier, Federico Vender: Un maestro della scuola mediterranea, “Fotologia”, 7 (1990), n. 12, primavera-estate, pp. 48-59; Federico Vender: Gli esordi: 1930-1937, catalogo della mostra (Arco, Palazzo dei Panni) a cura di Floriano Menapace, prefazione di Italo Zannier. Trento –  Arco: Provincia Autonoma di Trento, Servizio Beni Culturali, Ufficio Beni Storico Artistici –  Comune di Arco, Assessorato alla Cultura, 2003.

[72] Claudio Vender condivideva con Marco Asnago uno dei più interessanti studi di architettura: cfr. Cleto Zucchi, Asnago e Vender. Milano: Skira, 1999, con fotografie di Olivo Barbieri.

[73] Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Italo Zannier, Susanna Weber, a cura di, Forme di luce. Il gruppo “La Bussola” e aspetti della fotografia italiana del dopoguerra.  Firenze:  Alinari, 1997.

[74]  Ibidem.

Un’astratta fedeltà: le campagne di documentazione fotografica 1858-1898 (2001)

in Paolo Venturoli, a cura di, Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898.Torino: Umberto Allemandi, 2001, pp. 79-98

 

 

Quando, nel 1865, Antonio Perini pubblica il suo album dedicato alle collezioni della Regia Armeria si premura di esplicitarne le ragioni e i modi: “Per far conoscere i pregi di tanti capolavori – afferma nell’introduzione –  la descrizione è inefficace, mentre nessun altro mezzo è più opportuno della fotografia, la quale con fedeltà pressoché matematica riproduce eziandio i meno spiccati dettagli.”[1] Questo richiamo ai pregi caratteristici del nuovo mezzo è interessante non tanto per la sua eccezionalità quanto, al contrario, per il suo essere conferma di un pensiero preciso e di un atteggiamento di chiara coerenza metodologica che era comune ai migliori esponenti della cultura fotografica dei decenni immediatamente successivi alla sua invenzione. La “fedeltà” cui si richiama Perini non è altro che la riproposizione pressoché letterale di quella  “precisione quasi matematica” di cui aveva parlato Arago[2] a proposito del dagherrotipo in occasione della sua presentazione nel 1839, ora confermata e accresciuta della consapevolezza che derivava ai fotografi dalla riflessione attenta sulle possibilità linguistiche offerte dalle diverse tecniche a disposizione, ben esemplificata dal lucidissimo testo che Benjamin Delessert[3] premette ai propri fascicoli di riproduzioni fotografiche delle incisioni di Marcantonio Raimondi, nel 1853.

La documentazione archivistica non ci ha restituito sinora le ragioni che portarono Perini a lavorare a Torino, impedendoci quindi di ricostruire appropriatamente la genesi, le motivazioni e le condizioni del suo operare: non siamo quindi in grado per ora di stabilire se si sia trattato  di un esempio precocissimo di strategia celebrativa e comunicativa da parte della Direzione dell’Armeria, attuato facendo ricorso ad una tecnologia più innovativa ma considerata ancora per certi versi inaffidabile, oppure – come appare più probabile – di un’iniziativa dello stesso fotografo editore; questa seconda ipotesi però, oltre a testimoniare l’ormai raggiunta notorietà della collezione sembra corrispondere meglio all’intenzione espressa dallo stesso Perini nella presentazione del facsimile del Breviario Grimani (1862), di voler operare “non tanto per servire alla dotta curiosità dei ricercatori, quanto perché se ne potessero giovare le arti del disegno”, proponendo armi e armature quali modelli d’arte, illustrati con una sequenza che risulta priva di caratterizzazioni tematiche o tipologiche sebbene sia aperta dall’efficace confronto visivo, di preciso valore critico,  tra la statua di Bartolomeo Colleoni che il Verrocchio realizza per Venezia e l’armatura equestre B5;  una proposta di lettura che rivela, oltre le analogie formali, il permanere del significato politico del monumento equestre, implicito anche nella sua forma apparentemente più neutra di puro artificio ostensivo. Tale suggestione sottile, verosimilmente da attribuirsi allo stesso Perini sebbene la statua del Colleoni non risulti compresa nel sommario delle figure, contrasta radicalmente con le scelte operate nella preparazione delle tavole successive, con gli oggetti collocati in uno spazio astratto, completamente scontornati, privi di sostegni o appoggi e senza alcuna traccia di sfondo, soluzione che concentra tutta l’attenzione sull’opera e ne cancella il contesto, lo spazio della Galleria Beaumont, la cui descrizione è demandata alla prima tavola, ancora fuori numerazione. Così facendo, con la mascheratura e con il ritocco il fotografo rifiuta di fatto il valore di traccia della fotografia e ripropone con nuovi strumenti la tradizione rappresentativa delle arti del disegno, solo apparentemente liberata da ogni intenzionalità interpretativa: accade cioè che l’autore si affidi alla fotografia per la sua riconosciuta possibilità di fedeltà oggettiva nella descrizione dell’opera, disconoscendo però le conseguenze del suo stesso operare nel trattamento generale della tavola, in quel vuoto assoluto intorno all’opera che costituisce l’elemento di continuità con le raffigurazioni precedenti. Sulla stessa pagina convivono lo spazio concreto, referenziale, del corpo dell’armatura e lo spazio astratto, disegnato, del segno manuale del ritocco, secondo una formula che ritroveremo ancora, sostanzialmente immutata, in altre rilevanti imprese successive.

Proprio la volontà di garantire la fedeltà al modello, piuttosto che la possibilità di “riproducibilità” offerta dal nuovo mezzo,  è ciò che porta a scegliere e poi a privilegiare sempre più la fotografia quale tecnica di “riproduzione”. è questa necessità di verosimiglianza che aveva indotto Primo Feliciano Meucci a disegnare nel 1860-61 “varii oggetti della Galleria (…) valendosi del prisma[4] attalché l’effigie ne riuscì più che perfetta”, ma anche ad adottare per alcune tavole una modalità descrittiva “a figure piene” e non a linee di contorno come era nella tradizione neoclassica, tanto da portare l’allora Direttore Actis a sottolineare come in quelle prove “la somiglianza al vero [fosse] insuperabile.”[5]

Nei lunghi mesi in cui Meucci lavorava a produrre le sue prime lastre incise, la fotografia aveva già fatto la propria comparsa quale tecnica di riproduzione degli oggetti dell’Armeria. Risale infatti al 1860 circa la prima documentazione fotografica, oggi nota dagli esemplari conservati all’Accademia Albertina: un insieme di trentasei riprese, integrate da altre non riferibili ad opere della stessa collezione,  in parte anonime e in parte realizzate da Francesco Maria Chiapella[6] da cui è stato ricavato un insieme di sessantuno stampe, verosimilmente commissionate o acquistate a scopo didattico, come lascia supporre la presenza di più copie della stessa lastra e la scarsa cura della presentazione e del montaggio, quasi sempre con supporti a profili irregolari. Esse costituiscono la prima testimonianza della fortuna fotografica del tema e dell’inversione di tendenza nella scelta del mezzo di traduzione, ulteriormente confermata, pur con accenti diversi, dalle copie fotografiche di alcuni disegni di Pietro Ayres, tra cui uno dell’armatura Martinengo B5, che Balbiano d’Aramengo[7] realizza negli stessi anni, riproduzioni alle quali sembra potersi riferire la lettera di Seyssel d’Aix ad Ayres del 15 aprile 1866 in cui richiede di verificare i tempi necessari all’esecuzione di 12 disegni per  la realizzazione “della prima parte dell’Album Fotografico per l’illustrazione della R. le Galleria”.[8]

In questa prima campagna fotografica di Chiapella e di autore anonimo l’elemento caratterizzante, specialmente evidente per confronto con le successive, è dato dalla scelta dei soggetti: vengono infatti fotografate molte armi da fuoco (un terzo del totale), con particolare attenzione agli aspetti decorativi in genere e in particolare per i due archibugi M12 e M11, quest’ultimo soggetto anche di un grande disegno acquerellato sostanzialmente coevo ora attribuito a Meucci,  la cui  ricca lavorazione a intarsio in avorio, argento e oro “di sorprendente bellezza, cioè fogliami, volute, animali, chimere, isolati o posti a contorno od ornamento di figure e di storie.”[9] costituiva un caso esemplare di modello didattico.

Mentre con Chiapella e poi Perini, e non considerando il progetto Seysell a cui collabora Balbiano d’Aramengo,  le opere si configurano come “illustrazione” delle eccellenze del patrimonio dell’Armeria, al più corredate di notizie tratte dal precedente catalogo, il lavoro di Isaia Ghiron, Iscrizioni arabe della Reale Armeria. Firenze: Le Monnier, 1868, con otto tavole con stampe all’albumina di sciabole, archibugi, armature ed elementi delle stesse, costituisce il primo esempio di studio analitico di un importante settore del museo corredato di sistematica documentazione fotografica, sulla scia di produzioni editoriali analoghe e ormai di una certa diffusione: basti pensare al volume  che nel 1865 Angelo Angelucci, aveva dedicato a Le armi di pietra donate da S.M il Re Vittorio Emanuele II al Museo Nazionale d’Artiglieria. Torino: Tip. Cassone & Comp., corredato da una tavola f.t. con 3 stampe all’albumina anonime.

Sono gli anni in cui si afferma la notorietà dell’istituzione: mentre la tavola di apertura dell’album di Perini con la veduta della Galleria Beaumont avrà funzione di contestualizzazione delle opere presentate nei fogli successivi, la ripresa dello stesso soggetto realizzata dal francese Charles Marville nel 1858-1859 è la prima a testimoniare fotograficamente l’inserimento della prestigiosa sede museale tra i luoghi rimarchevoli della città, insieme con Palazzo Reale e Palazzo Madama, piazza San Carlo, la chiesa della Gran Madre di Dio, il Monte dei Cappuccini e la basilica di Superga; scelta ancora anomala e suggerita forse dal concomitante impegno del fotografo francese nella documentazione del patrimonio artistico della Biblioteca Reale[10].

Quando nel 1874 si apre a Milano l’Esposizione Storica d’Arte Industriale la “Classe V – Armi e Armature”, curata da Gian Giacomo Poldi Pezzoli (dalla cui collezione provengono molte delle armi esposte) e da Walter Craven[11], comprende numerosi esemplari provenienti dalle collezioni della Regia Armeria, per la prima volta esposti al di fuori della sede torinese. Scopo dell’iniziativa, legata all’istituzione a Milano di un Museo d’Arte Industriale, era quello di “formare il gusto degli operai”[12]  e di “accrescere il corredo di buoni disegni che devono essere la prima dotazione del Museo levando copia degli oggetti esposti più rimarchevoli e più degni di studio e d’esempio ai nostri artefici”[13], ragione per cui viene richiesta l’autorizzazione a riprodurre gli oggetti esposti “in fotografia o a matita”, con l’intenzione di vendere poi le fotografie a prezzo di costo[14]. Frutto di questa partecipazione e della concessione alla riproduzione delle opere è la realizzazione di una “stupenda collezione delle fotografie” costituita dalle “riproduzioni degli oggetti di quest’Armeria [e] delle fotografie delle altre armi e armature state costì esposte da altri proprietari”[15],  che risulta pervenuta in Armeria in data 2 maggio 1875, ma di cui si è perduta sinora ogni traccia.[16]

Di pochi anni più tarda deve essere la cartella dedicata A S.S.R.M./ Vittorio Emanuele II Re d’Italia/ Omaggio/ di A. Pietrobon/ di/ Venezia[17], forse prodotta dal fotografo, già attivo a Firenze, per ottenere il privilegio regio di cui si fregiava nella città toscana, ma che il confronto ha consentito di verificare come realizzata con stampe ricavate dalle lastre realizzate da Antonio Perini per l’album del 1865.  In questa nuova versione, che comprende anche una Veduta generale della sala d’armi firmata in lastra all’angolo inferiore sinistro, “A. Pietrobon & C./ Torino”,  gli oggetti non sono identificati né con sigla né con numero, ma i cartoni riportano al verso un’identificazione più tarda corrispondente al catalogo Seyssel d’Aix del  1840, evidentemente assegnata dopo l’ingresso dell’album nelle collezioni reali; sebbene non si tratti di una produzione ex novo va rilevato come l’edizione Pietrobon oltre a confermare il prestigio e la notorietà della collezione, si segnali per la presenza di stampe di grande qualità ed efficacia, specialmente per il bel viraggio nero violaceo all’oro che valorizza l’uso  accorto delle luci che fu di Perini.

È questo il decennio che segna anche l’avvio del progetto del nuovo catalogo della Regia Armeria, affidato nel 1873 al maggiore Angelucci,  e proprio per la sua illustrazione pare riaprirsi il confronto, in forme più pragmatiche, tra incisione e fotografia, forse influenzato dall’esperienza della partecipazione all’Esposizione milanese. Sappiamo dalla corrispondenza tra Seysell d’Aix e lo stesso Angelucci che sin dal 1874 almeno si pensava ad un catalogo illustrato da tavole fotografiche fuori testo, sul modello di esempi noti e di precedenti realizzazioni torinesi di diverso impegno: da Ghiron allo stesso Angelucci al Le Lieure di Turin ancien et moderne, sebbene forti fossero le perplessità rispetto alla permanenza ed alla stabilità dell’immagine[18]  e soprattutto proibitivi i costi: “Anche in me nacque il dubbio ch’esse non sieno durevoli – scrive il Direttore – ma disgraziatamente v’è un male ben maggiore, cioè la spesa a cui montano di 200 fotografie per n.° 2000 esemplari al prezzo ristretto di otto centesimi caduna che forma la piccola bagatella di lire trentaduemila.”[19] Ecco allora farsi avanti l’ipotesi di utilizzare la fotografia non in forma diretta ma quale modello intermedio per la realizzazione delle incisioni, scelta che porta a commissionare a Giovanni Battista Berra, titolare dell’importante studio Fotografia Subalpina “di fotografare mezz’armatura di Antonio Martinengo riposta in una delle nuove vetrine ed  i moschetti a ruota di Eman.le Filiberto che proverò poscia di far incidere sul legno dal Salvioni o dal Monaret.”[20] Le riprese vengono realizzate nei giorni immediatamente successivi, decidendo però di sostituire i moschetti con “due dei nostri più ricchi elmi” e le stampe, giudicate “discrete” sono inviate all’incisore “Meunier di Parigi, quello stesso che fece i clichets [sic] dell’opera di Lacombe [Les Armes et les Armures] onde conoscere se bastano per bene incidere sul legno e quanto costerebbe cadun clichet.”[21] Pochi mesi dopo risultano spese L. 2500 per 400 incisioni su legno “da stamparsi nel nuovo catalogo” e L. 200 per “fotografie per l’esecuzione di dette incisioni”[22].

Successivamente a queste commesse Berra otteneva da Valfré di Bonzo “la facoltà di fotografare l’insigne collezione”, forse utilizzando in parte le riprese su lastra al collodio già realizzate, e nel settembre 1882 a compimento del proprio impegno offre “in attestato di omaggio la raccolta delle fotografie da me testè condotta a termine”[23], cioè i due volumi dedicati alla Regia/ Armeria/ di/ Torino[24], con stampe all’albumina[25], che il fotografo dona anche alla Biblioteca del Re. Non possiamo escludere che questa scelta sia stata dettata a Berra da un intento puramente promozionale, destinato a consolidare definitivamente il proprio ruolo di preminenza nell’ambito degli studi fotografici torinesi impegnati nella documentazione del patrimonio artistico ed architettonico, ma va ricordato che questi soggetti godevano di ampio interesse in quegli anni e che le stampe relative erano commercializzate dal suo studio anche in forma non rilegata, come dimostra la raccolta completa proveniente dall’archivio di Adolfo Coppedé[26].  Mentre l’apertura del primo volume con la veduta della Galleria verso il Medagliere riprende modelli precedenti (Perini riproposto da Pietrobon), la sequenza successiva comporta una presentazione ordinata di armature equestri, viste quasi sempre di lato o in leggero scorcio, di riprese frontali di armature pedestri complete, corazze con elmi, alcune armi da fuoco e da taglio e finimenti, mentre il secondo volume è dedicato agli elmi, alle parti di armatura e infine agli scudi;  quasi a confermare il permanere di un interesse “neomedievale” e una scelta orientata dal gusto per i balli e le cerimonie in costume ancora presente nella società umbertina, solo due delle 130 tavole sono dedicate alle armi da fuoco.

La rappresentazione degli oggetti, identificati in lastra mediante iscrizione manoscritta su striscia in carta posta in testa all’immagine, risulta puramente documentaria, con evidenti intenzioni di oggettività descrittiva, senza il ricorso a suggestioni narrative di alcun genere, quelle che avrebbero consentito e imposto inquadrature di maggio effetto scenografico, riscontrabili in alcune delle riprese non utilizzate. Gli oggetti sono ripresi frontalmente su sfondo neutro ma visibile, comunemente costituito da un panno unito che separa dal contesto dell’Armeria anche le grandi armature equestri, combinato a volte ad un uso accorto del fuori fuoco e dei diversi valori di illuminazione, senza interventi successivi di scontornatura o mascheratura, che sono invece presenti sui negativi che saranno riutilizzati nel 1937; le luci sono morbide e ben controllate ad evitare i riflessi del metallo; i supporti sono mantenuti visibili, sino al chiodo a cui è appeso lo scudo: l’oggetto vive nello spazio reale in cui avviene la ripresa.

A testimoniare la fondatezza dei dubbi di Seysell in merito ai problemi di stabilità dell’immagine, alcune tavole dell’esemplare conservato in Armeria (es. I, 45) hanno una seconda prova, presumibilmente identica, sovrapposta alla prima, forse per ovviare a una debolezza intrinseca della stampa rilevata dopo la rilegatura, ciò che farebbe pensare ad una data di realizzazione lievemente posteriore all’esemplare conservato in Biblioteca Reale, in cui il forte sbiadimento generalizzato ha reso evidentissimi i pesanti ritocchi operati sui positivi, non visibili invece nell’altro esemplare.[27]

La realizzazione di queste fotografie si colloca in un momento in cui alle originarie spinte del revival neogotico si sovrappongono progressivamente  e si mescolano – come si è accennato – interessi antiquariali, collezionistici ed eruditi accanto a più generali questioni di gusto: pur non potendo qui affrontare il merito del problema, basti pensare all’interesse per le armature testimoniato dalle fotografie realizzate da Charles Clifford nel1850-1860 e conservate nella collezione di Mathew Digby Wyatt,  alle collezioni di  Gian Giacomo Poldi Pezzoli a Milano e di Frederick Stibbert  a Firenze naturalmente[28], ai già citati Coppedé così come alle raccolte veneziane di Mariano Fortuny y Madrazo, che aveva tra le proprie collezioni anche le fotografie di C. Chevaliers dell’armeria del castello di Pierrefonds (1870ca).  Per il Piemonte ricorderemo qui le armature della collezione reale  prestate per il ballo in maschera del Duca di Teano nel 1875[29] , le collezioni e i temi delle opere di Edoardo Calandra, ma anche la figura di Vittorio Avondo, collezionista poi donatore ai Musei Civici di armi da taglio e da fuoco, già dal 1865, e nel cui castello di Issogne erano presenti armature fotografate da Ecclesia[30] nel 1882,  appena prima dei personaggi in costume che animavano il Borgo Medievale. A queste  si ispireranno le fotografie ambientate realizzate dallo Studio di Riproduzioni Artistiche di Edoardo Balbo Bertone di Sambuy[31], effettivo tramite tra il gusto sabaudo dei caroselli e dei balli in costume e il nascente pittorialismo storicistico di Guido Rey.

Dobbiamo ritenere che proprio in virtù del lungo rapporto di collaborazione tra Fotografia Subalpina e Direzione dell’Armeria Raffaele Cadorna abbia poi deciso di affidare allo Studio Berra, il titolare era morto alcuni anni prima, nel 1894, la realizzazione del grande progetto celebrativo e documentario che prenderà corpo con i tre volumi editi nel 1898, pubblicazione fondamentale per definire visivamente l’identità delle collezioni avendo quale supporto identificativo il Catalogo pubblicato da Angelucci nel 1890, forse già prefigurata dieci anni prima, come lascerebbe intuire una lettera dello stesso Cadorna  a Berra, datata 1888, in cui il Direttore rileva come “a rendere più praticamente utile e ad un tempo più pregevoli i due volumi delle accurate fotografie (…) occorrerebbe che in qualche modo si facesse risultare quale oggetto rappresenti ogni singola fotografia”[32], lettera corredata da un’annotazione a matita blu, forse più tarda, che recita: “Fototipia Turati a Milano”.

Le indicazioni progettuali fornite dal Direttore sono estremamente precise e comportano la realizzazione di album con stampe in fototipia “interamente conformi a quelli stati recentemente pubblicati dal Museo d’Artiglieria di Parigi (…) Ogni serie di album si comporrà di una prefazione ed in media di 40 tavole di fototipia caduna[33]  oltre ad un indice delle tavole stesse recante le indicazioni corrispondenti alle classificazioni descritte nel catalogo Angelucci (…) è riservata al Direttore dell’Armeria la indicazione degli oggetti a riprodursi, il loro ordine e la composizione dei gruppi per ogni serie [mentre] la Fotografia Berra si assume l’incarico di provvedere sotto la esclusiva sua responsabilità, ad ogni lavoro e provvista occorrente alla compilazione di quella serie di album”[34], svolgendo di fatto il ruolo di editore.

Secondo questi primi accordi il progetto doveva essere compiuto per “l’epoca dell’apertura della Esposizione Nazionale indetta pel 1898 in Torino” e affidato per la stampa allo stabilimento torinese Fototipia Molfese e Charvet, via XX settembre, 56. L’accordo prevedeva inoltre che le lastre realizzate in quell’occasione dovessero essere conservate dallo Studio Berra, ma ad esclusiva disposizione della Real Casa.

Di questa prima fase di produzione, non interrotta alla morte di Cadorna nel 1897, rimangono una prima serie di riprese realizzata da Berra nel 1896 e stampate da Alberto Charvet, che ci ha lasciato puntuali indicazioni di lavoro in cui tutta la sua esperienza di fotografo ed editore è rivolta alla determinazione della resa più efficace nella raffigurazione di oggetti complessi e difficili come le armature e le armi: “Pessima modellazione – Errore grave l’aver posto drappi bianchi sotto l’armatura – riflessi di luci secondarie”, commenta a proposito della prima ripresa delle armature C25 e C13, e l’annotazione rasenta addirittura il sarcasmo quando a proposito dell’armatura B6 parla di “Grave distorsione – ingrandimento delle parti più avanzate – Nessuna modellazione (Pennaccio [sic] uso baldacchino da letto).”[35]

La lettura di queste prime prove di stampa e il rinvenimento di alcune delle relative riprese, oltre a costituire un’importante testimonianza del livello qualitativo dell’editoria d’arte torinese allo scadere del XIX secolo, consente di valutare una soluzione formale di presentazione distante dai modelli precedenti e sostanzialmente diversa da quella finale: non solo, seguendo scrupolosamente le indicazioni di Cadorna gli oggetti riportavano su etichetta “la indicazione della lettera di alfabeto col numero corrispondente al catalogo Angelucci”, fornendo un’utile indicazione che appesantiva però le immagini, ma soprattutto le parti di armature erano sempre presentate poggiate su supporti, a volte coperti di tessuti in broccato, secondo un gusto che risulta prossimo a realizzazioni di molto precedenti, quali ad esempio la raccolta di tavole dedicate a L’Arte Antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880, che lo stabilimento dei Fratelli Doyen aveva pubblicato nel 1882[36].

Le pungenti critiche di Charvet determinano però l’incrinarsi dei rapporti con lo stabilimento Berra e in particolare col suo direttore Giovanni Assale, accusato dallo stampatore  di essere “privo di quelle cognizioni pratiche necessarie in un simile e non troppo facile lavoro. Questi dissidi richiesero l’intervento del Cav. Cantù. Ma per quanto le negative fotografiche fossero poi fatte sotto la direzione del prelodato Signore, non erano eseguite con quella perfezione e con quella cura prescritte e richieste dalla grave esigenza della fotografia e fototipia”[37], ragione per cui Charvet propone o di “fare le negative fotografiche per conto delli Berra” o di “rimediare alla imperfezione delle negative col ritoccarle, fare un positivo su vetro, ritoccare questi e fare altra negativa per contatto”, ma tali proposte non vengono accettate  e “Il Cav. Cantù d’accordo col fotografo  ha persuaso l’Onorevole Direzione Reale Armeria [sic] che io non ero capace di fare la buona fototipia.”

La divergenza si era infatti trasformata in causa civile e il direttore dell’Armeria Luigi Avogadro si era visto costretto a rivolgersi “ad alcune persone intelligenti nella materia e tra esse (…) al Sig. Cav.re Cantù, Consigliere Comunale distinto fotografo ed artista Conservatore della Regia Pinacoteca (…) altamente apprezzato nel ceto artistico torinese”[38], che firmerà anche  la litografia con l’immagine del cavaliere in armi in antiporta dell’edizione definitiva dei volumi[39].

Di quali fossero le effettive difficoltà di esecuzione del lavoro sin dalla fase di ripresa ci rimane testimonianza nelle parole di Assale che  nel gennaio del 1897 conferma  che “Sarà cura del sottoscritto di non lasciar trascorrere inutilmente la futura propizia occasione di una nevicata per la esecuzione delle negative degli interni della Galleria e della Rotonda”[40], ma anche nelle prescrizioni dello stesso Avogadro di Quaregna che – su indicazione dello stesso fotografo –  ricorda tra le difficoltà da superare per la realizzazione del progetto “anche quella della difettosa illuminazione interna (…) che per scarsità di luce e per i molti riflessi non si addice alle riproduzioni fotografiche. Onde eliminare si fatto inconveniente si dovette addivenire alla costruzione di una forte impalcatura provvisoria nell’interno dello scalone ove la luce è più abbondante e propizia”[41],  oltre a disporre una tenda di percalle bianco al “gran finestrone nello scalone” e una “tenda oscura per la finestra attigua alla galleria della Prefettura per impedirne la luce”, mettendo a disposizione del fotografo il “personale di fatica occorrente al trasporto dei monumenti equestri sopra l’impalcata dello scalone e rimettere nella galleria dopo la loro riproduzione fotografica.”[42]

Già dall’agosto del 1897 Luigi Cantù sottopone a verifica le prime prove di Charvet e le confronta con quelle dello stabilimento milanese Calzolari e Ferrario, forse nel frattempo contattato dallo Studio Berra[43], prove che saranno  giudicate dal Direttore “assai superiori per merito artistico a quelle del Charvet le quali (…) sono sbiadite e difettose.”[44]

La verifica del nuovo ciclo di stampe avviene a ritmo serrato sino al luglio dell’anno successivo, mentre procede la causa tra fotografo e stampatore, che nel gennaio 1898 aveva presentato un memoriale difensivo direttamente al Re[45].

Avviandosi ormai alla conclusione del progetto, ma necessitando ulteriori finanziamenti per il suo compimento, Luigi Avogadro rileva come “Quantunque siasi limitato assai il lavoro delle riproduzioni fotografiche alle sole armi ed oggetti di maggior pregio artistico e storico qui conservate, raggruppandone anzi molti a guisa di trofei, si dovette tuttavia eseguire ben n.° 200 riproduzioni [sic] tavole mentre nel primitivo progetto erano state preventivate a calcolo approssimativo solo 120 tavole”[46] , rendendo così ragione di una modalità di presentazione delle opere e di impaginazione solo raramente adottata nei due volumi fotografici di Berra del 1882 e qui invece sistematicamente applicata nella presentazione di armi e di parti di armature. Forse anche in conseguenza di questo vincolo le nuove tavole con le immagini definitive ritornano a una concezione più astratta e didascalica, per nulla narrativa: armature e armi non sono mai ambientate e – ove possibile – neppure poggiate. Ancora una volta vince la presentazione astratta da ogni contesto, secondo la consuetudine illustrativa già adottata da Perini.

Le armi vivono in uno spazio assoluto, autoreferenziale, in cui solo la presenza dei piedistalli delle armature complete riporta alla pesante materialità dell’oggetto e anche la disposizione degli oggetti nello spazio di ciascuna tavola risponde ad una logica che è tutta compositiva,  mai referenziale. L’autonomia rappresentativa della fotografia sembra ancora una volta essere esclusa, lo strumento è trasparente, l’illusione è quella di accedere alla pura forma dell’oggetto nella sua essenza di opera: solo le frange delle rotelle cascano irrimediabilmente verso il basso.

La ripresa fotografica acquista invece tutta la sua potenzialità funzionale nelle tavole di apertura dedicate agli spazi dell’Armeria ed a loro allestimento, nel campo e controcampo della Rotonda come nella minuziosa sequenza delle vetrine e panoplie della Galleria Beaumont: per la prima volta la referenzialità fotografica registra le tracce dell’immaginario d’origine, “fatto per appagare la vista del visitatore”, ormai positivisticamente trasformato dal Maggiore Angelucci per consentire al visitatore “lo studio dei monumenti che gli si parano dinanzi.”[47]

 

Note

[1] Armeria Reale/ di/ Torino/ Venezia mdccclxv/ Stabilimento fotografico di Antonio Perini proprietario ed editore/ Calle largha S. Marco ponte dell’Angelo n.403, con 54 tavv. fotografiche all’albumina da negativi al collodio descritte nel testo + 3 tavv. non elencate:  1 veduta generale della Galleria Beaumont su carta salata, 1 monumento equestre a B. Colleoni e – in chiusura –  1 elmo figurato. Ricordiamo qui che anche Angelucci, nella presentazione del suo catalogo dichiarerà (pur optando per un mezzo diverso) di aver voluto “illustrarlo con numerose incisioni che valgano a mostrare l’esattezza delle descrizioni”, Angelo  Angelucci, Catalogo della Armeria Reale. Torino: Tip. Candeletti, 1890, p. viii, sottolineatura nostra. Come ha ricordato Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi, 1990, p.338, su segnalazione di Claudia Cassio: “Potrebbe essere un pagamento a saldo per il suo lavoro all’Armeria Reale, l’erogazione di 40 lire nel secondo quadrimestre del 1867, riportata nei registri contabili dell’archivio dei Duchi di Genova”, ma non è escluso che allo stesso acquisto si possa riferire l’imprecisa registrazione di una spesa di sessanta lire per un “Album fotografico del Sig. Pasini [sic] in Venezia”, ASAR, f.2, Corrispondenza … dal 9mbre 1856 al Xmbre 1877, n.119, 17 giugno 1873.

Antonio Perini, veneziano (1830-1879) era ben noto all’epoca per aver dato “impulso alla riproduzione de monumenti (…) di quadri, di opere antiche.” (G. Jankovic, citato da Alberto Prandi, nella scheda relativa al fotografo in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979, pp.171-172). In particolare fu il primo a pubblicare nel 1862 il facsimile del Breviario Grimani conservato alla Biblioteca Marciana, presentandolo all’Esposizione di Londra di quell’anno, e così avviando la fortuna editoriale del Breviarium secundum consuetudinem Romanae curiae appartenuto al cardinale Domenico Grimani, poi proseguita con la pubblicazione in facsimile realizzata sempre a Venezia da Ferdinando Ongania nel 1880, con 112 eliotipie e 4 cromolitografie, negli anni del monumentale impegno dell’editore per l’illustrazione della Basilica di San Marco. Perini pubblicherà poi, quasi alle soglie della morte, il Fac-Simile delle miniature di Attavante Fiorentino contenute nel codice Marciano Capella “Le Nozze di Mercurio colla Filologia” che si conserva nella Biblioteca Marciana. Venezia: Stabilimento fotografico di A. Perini, 1878, che si affianca ad altre analoghe imprese, ancora di Ongania, cfr. Paolo Costantini, Ferdinando Ongania editore veneziano e l’illustrazione della Basilica di San Marco, “Fotologia”, 1, giugno 1984, pp.4-10.

Nel 1915 Ulrico Hoepli scriverà alla Direzione per avere notizie del volume dedicato all’Armeria, che descrive composto di 61 tavole, del quale non riesce ad avere traccia neppure da altri librai specializzati e ne chiede eventualmente la disponibilità di una copia. A stretto giro di posta (4 gg.) la Direzione risponde identificando il volume con l’album Perini che però viene descritto formato da “55 fototipie”, cioè con una errata indicazione della tecnica e della consistenza (ASAR B1391).

[2] François Arago, Rapport sur le Daguerreotype. Paris: Bachelier,1839 (facsimile, Milano: Labor, 1964). Per il ruolo svolto dal fisico francese nella definizione stessa delle applicazioni e implicazioni connesse alla nuova scoperta si veda François Brunet, La naisssance de l’idée de photographie. Paris: Presses Universitaires de France, 2000.

[3] Benjamin Delessert, Notice de la vie de Marc Antoine Raimondi graveur Bolonais accompagné de reproductions photographiques de quelques uns de ses estampes, 7 voll.  Paris- Londres: Goupil & C. – Colnaghi & C., 1853-1855. Nella nota esplicativa afferma: ” les planches qui accompagnent cette Notice sont la reproduction la plus exacte possible des gravures mêmes de Mar-Antoine. La grandeur est scrupuleusement celle de l’original ; et non seulement l’effet général de l’estampe, mais chaque trait, chaque contour doit être fidèlement rendu. J’ai voulu faire moi-même les négatifs de ces planches; tous ont été faits sur papier. Quelques personnes m’ont conseillée des types sur glace par l’albumine ou le collodion : j’aurais obtenu plus de finesse et de netteté, mais je n’aurais pu éviter, je crois, une dureté et une séchesse qui n’existent pas dans les estampes de Marc-Antoine; ces  procédés selon moi, conviennent principalement aux graveurs de l’école de Pontius, de Bolswert, de Wille.”, vol. I, p.27. Sul dibattito in area anglosassone intorno alle questioni filologiche poste dalla riproduzione fotografica di opere d’arte si veda Anthony Hamber, “A higher branch of the art”. Photographing the Fine Arts in England 1839-1880. London – Amsterdam, Gordon & Breach, 1996, mentre un significativo esempio italiano è stato studiato pochi anni fa da Roberto Cassanelli, Morris Moore, Pietro Selvatico e le origini dell’expertise fotografico, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  I,  Fotografia e raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, VIII, 1998,  pp.41-47.

[4] Vale a dire della camera chiara o lucida, messa a punto da W. Wollaston nel 1807.

[5] Lettera del Direttore Actis, [10 ottobre 1861], ASAR f.73. Ancora una volta si confermano le ragioni del fascino esercitato dall’oggettività fotografica sulla cultura ottocentesca sin dalla prima comparsa delle nuove immagini; si pensi a quanto affermava già il “Messaggere Torinese” nel riportare la notizia del primo annuncio del dagherrotipo, nel numero del 23 febbraio 1839: “Il dagherrotipo (…) renderà comuni le più belle opere d’arte di cui non si hanno che copie a caro prezzo ed infedeli ” cfr. Miraglia 1990, op. cit.,  sottolineatura nostra, ma anche alle riflessioni a proposito della “mania di abbellire innata in ogni artista” che John Alexander Ellis antepone nel 1849 al proprio progetto di Italia in dagherrotipo (cfr. Piero Becchetti, La fotografia a Roma dalle origini al 1915. Roma: Editore Colombo, 1983,p.12), o – per limitarci all’Italia – alle più tarde e analoghe riflessioni di Pietro Estense Selvatico, cfr.  Tiziana Serena, Pietro Selvatico e la musealizzazione della fotografia, “Annali della Scuola Normale di Pisa”, Classe di Lettere e Filosofia, ser. 4, v. 2, 1 (1997), pp. 75-96.  Risulta chiaro da queste testimonianze quanto fosse il valore di verosimiglianza piuttosto che quello della riproducibilità a far progressivamente preferire la fotografia alle tecniche calcografiche nella documentazione del patrimonio artistico e architettonico.

[6] Per la datazione di queste stampe si rimanda all’attenta analisi di Miraglia 1990, op. cit.,schede nn.124-125, p. 338, confermata e precisata dalle ricerche condotte da  Paola Manchinu – che ringrazio – per questa occasione: la concessione “d’inalberare il R.o Stemma sulle insegne di Negozi, Opifizi ec. Non che di Titoli di Provveditori della M. S.” fu infatti concessa a Chiapella il 15-9-1860, ASTO, Casa di S. M., Cartelle, Fasc. 619/2 n.23.  Dalla stessa fonte si ricava che “in Torino non possono essere concessi più di quattro Brevetti di R.o Stemma per ogni arte, mestiere, industria, ecc.”

Del fotografo va ricordato, oltre alle imprese note, l’album non datato A.S.S.R.M./ Vittorio Emanuele II/Fotografie/ di Francesco Maria Chiapella conservato alla Biblioteca Reale di Torino, costituito da venticinque tavole con stampe all’albumina, che contiene, oltre alla riproduzione di un ritratto del re, una serie eterogenea di saggi fotografici che spaziano dalla riproduzione delle incisioni del ciclo decorativo di Paul de la Roche per il Louvre a sculture e dipinti di soggetto risorgimentale, dalle vedute dei dintorni torinesi (il Monte dei Cappuccini, Alpignano, Collegno) ad alcune residenze sabaude (Valentino, Moncalieri, Stupinigi), da porre in relazione con l’album richiamato in Miraglia 1990, op. cit.,scheda n.60. p.330, e databile 1857-1860.

[7] Appartiene alla nutrita schiera (F. Barbaroux, M. Beria d’Argentine, Edoardo de Chanaz, Radicati Talice di Passerano tra gli altri) di esponenti della nobiltà piemontese che si dedicano professionalmente (in modi ancora tutti da definire) alla pratica fotografica, specialmente nell’ambito del ritratto in formato carte de visite, ma evidentemente non solo, come dimostrano queste riproduzioni inedite e il suo album, su commissione del Duca d’Aosta, di riproduzioni di disegni del carosello storico realizzati dal pittore Cerruti Bauduc, prodotto nel 1864 alla vigilia della conclusione della sua breve attività professionale (1856ca-1865). Cfr. Miraglia 1990, op. cit., scheda p.354.

[8] ASAR, fasc.1, Nuova Direzione, n.7. La mancata realizzazione dell’opera non consente di verificare nel concreto la coerenza del progetto, ma basti qui ricordare che nell’accezione ottocentesca il termine “Album fotografico” poteva riferirsi anche ad una raccolta di disegni riprodotti fotograficamente, analogamente a quanto accadeva, ad esempio, con gli album della Società Promotrice delle Belle Arti. Va comunque sottolineata la coincidenza temporale e (parziale) di intenti tra l’edizione Perini e il progetto del Direttore. Sebbene l’album Perini risulti acquistato solo nel 1873 (cfr. nota 1), è inimmaginabile che la prima documentazione fotografica sistematica delle collezioni dell’Armeria non fosse nota al nuovo Direttore; non escluderei anzi che proprio dall’esempio di Perini si possa essere formata in Seyssel d’Aix l’intenzione di illustrare a sua volta le armature a cavallo con un “Album fotografico”, sebbene concepito ancora come raccolta di riproduzioni di disegni, forse per non rinunciare, come ipotizza Venturoli, alla “romantica” chiave interpretativa fornita dalle tavole di Ayres. Ringrazio Paolo Venturoli per la segnalazione di questo e di altri notevoli documenti conservati presso l’Archivio storico dell’Armeria.

[9] Angelucci 1890, op. cit., pp.410-414. Studio Bertieri di Torino realizzerà una serie di riprese del fucile M11 presentate all’Esposizione di Firenze del 1899, come testimonia una stampa conservata nell’Archivio fotografico dell’Armeria.

[10] Charles Marville, Vedute di Torino. Turin: Maggi, s.d., [1859ca],citato  in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp.37-38, con una datazione proposta al 1865-1870 che Miraglia 1990, op. cit., p.334 aveva già anticipato al 1861-62, ma che sarà più corretto attribuire al 1858-59, quando Marville è in Italia e in Grecia con Charles Cordier per realizzare l’impresa dedicata alla Sculpture Ethnographique, commissionata dal governo francese nel 1850 (vale a dire prima della notissima “Mission Héliographique) e quindi pubblicata in fascicoli successivi. Un esemplare dell’opera venne dedicato “A S.M. Victor Emmanuel Roi d’Italie”. Potrebbero essere identificate con questa ripresa – oggi nota attraverso l’esemplare conservato presso la Biblioteca centrale della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino – le dieci “Fotografie di Maggi della R. Armeria”, ricordate in un Quadro dimostrativo” datato 1 aprile 1888, ASAR, Strumenti, 47. Va ricordato che l’Armeria non sarà compresa – ad esempio – nell’album di Henri Le Lieure, Turin ancien et moderne, 1867ca, mentre verrà più tardi documentata da Brogi e quindi da Alinari. L’occasione per la realizzazione di queste riprese di Marville potrebbe essere individuata nella campagna fotografica di documentazione dei disegni della Biblioteca Reale e della Biblioteca Ambrosiana, (circa 150 stampe di riproduzione in formati diversi edite nel 1864 ca,  che faceva seguito all’impegno analogo per le collezioni del Louvre, pubblicate pochi anni prima e certamente note anche a Torino, come testimoniano i fogli oggi conservati all’Accademia Albertina di Belle Arti. La datazione delle riprese italiane potrebbe essere ulteriormente anticipata  alla metà del decennio precedente considerando che egli usava la definizione di “Photographe du Musée Imperial du Louvre”, che ritroviamo sui cartoni delle stampe torinesi, prima del 1855, anno di chiusura della stamperia di Blanquart-Evrard a Lille, di cui fu uno dei più assidui collaboratori.

[11] Esposizione storica d’arte industriale in Milano, Catalogo Generale. Milano: Stabilimento Tipografico Fratelli Treves, 1874, pp.135 e segg., Le opere dell’Armeria occupano le vetrine dalla n. li alla n. lxv

[12] Antonio Beretta, presentazione al Catalogo Generale, 1874, cit. s.n. Il testo del Presidente dell’ Associazione Industriale Italiana costituisce una precisa testimonianza del progetto culturale sotteso a queste manifestazioni, ben sintetizzato dalla sua definizione dei Musei quali “raccolte pubbliche di buoni modelli.”  Per un utile confronto con le diverse strategie dell’analogo torinese si veda Carlo Olmo, L’ingegneria contesa. La formazione del Museo industriale, in Pier Luigi Bassignana, a cura di, Tra scienza e tecnica. Le Esposizioni torinesi nei documenti dell’Archivio storico AMMA 1829-1898.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1992, pp.103-122.

[13] Dalla lettera di richiesta di autorizzazione alla riproduzione degli oggetti esposti inviata al Direttore dell’Armeria dal Presidente del Comitato Esecutivo dell’Esposizione, ASAR, f. 892, Milano, 12 luglio 1874.

[14] ASAR, f. 1278, Esposizione 1874.

[15] ASAR, f.2, Nuova Direzione, n.140.

[16] ASAR, f.2, Nuova Direzione, nn.130,166, 167.

[17] 50 stampe all’albumina  montate su tavole sciolte che riportano in calce a destra la scritta litografata “A. Pietrobon – Torino. Alberto Pietrobon partecipò alla spedizione italiana in Persia del 1862 guidata dal ministro Marcello Cerruti, come assistente di Luigi Montabone (1827 ca.-1877), cfr. Michele Falzone del Barbarò, L’album persiano di Luigi Montabone, “Fotologia”, 3 (1986), n. 6, dicembre, pp. 24-33.

Di Pietrobon è nota anche una serie di N° XXV / Fotografie delle pitture di Gaudenzio Ferrari nell’/ interno della Chiesa della Madonna delle Grazie in / Varallo  realizzate nel 1887 ma che entrano a far parte delle collezioni reali “con foglio dell’Amm.ne R.C. [Real Casa] 3 marzo 88” ,BRT Y-31 (22).  Si tratta di stampe all’albumina di qualità palesemente inferiore alle tavole che costituivano il lavoro per l’Armeria.

Come risulta dal confronto tra fonti archivistiche e bibliografiche, prima della sede veneziana Pietrobon esercitava a Firenze in Via Solferino, 4 sotto l’insegna di “Arte e Natura”, potendosi fregiare del titolo di fotografo del Re, concesso in data 24 giugno 1865. Verosimilmente la produzione dell’album torinese era destinata ad ottenere la concessione anche per la nuova sede. Cfr: ASTO, Casa di S. M., Cartelle, Fasc. 619/2 n.24, Concessioni fatte da S. M. d’inalberare il R.o Stemma sulle insegne di Negozi, Opifizi ec. Non che di Titoli di Provveditori della M. S.; Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880. Roma: Quasar, 1978, p.67.

[18] Sulle iniziative in merito alla soluzione del problema della stabilità delle stampe fotografiche dopo la metà del XIX secolo si veda Sylvie Aubenas, La photographie est une estampe. Multiplication et stabilité de l’image, in Michel Frizot, a cura di, Nouvelle histoire de la photographie.  Paris:  Bordas, 1994, p.224-231.

Esemplare dell’attenzione italiana per questi temi l’intervento di Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica. Stabilimento Le Lieure in Torino, “L’Arte in Italia”, iv, 1870, p.58, ora in Piergiorgio Dragone, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895. Torino: Banca CRT, 2000, p.130,   in cui celebra e descrive il “mirabile processo” messo a punto in Inghilterra nel 1864 da Woodbury (e non Woodburg, come recita il testo) “mezzo immediato e prontissimo di riproduzione dei lavori artistici e soprattutto degli oggetti di scultura i quali specialmente, per essere monocromi, non vanno soggetti a veruna alterazione di colore, di tinta”, così che l’opera risulta “integralmente tradotta come attraverso ad uno specchio”. Con questo processo, noto anche come woodburytipia, si poteva ottenere “tutta la sfumatura graduata del modellato e dell’ombreggiatura proprio delle migliori fotografie, serbandone di più l’inalterabilità, epperciò preferibile a queste ultime soggette a svanire, come è notissimo.” (ibidem)

Ancora alla fine del decennio un acuto osservatore e buon fotografo come il biellese Domenico Vallino, così si esprimeva sulle  possibili applicazioni della fotografia alla stampa col sistema della fotolitografia, prendendo spunto dal recente testo di Lugi Borlinetto, I moderni processi di stampa fotografica. Milano: Pettazzi, 1878: “I miracoli della moltiplicazione dei pani e dei pesci  sono una fanciullaggine rispetto alla moltiplicazione dei prodotti dell’ingegno a’ giorni nostri e la fede nella scienza la quale verrà a sostituire la fede teologica, riceve oggidì in questi miracoli il suo nutrimento. Dopo la stampa a mano, la stampa a macchina, la stampa celere, la litografia, l’incisione, ora si aggiunge un’arte novella per moltiplicare il pane eucaristico della nuova fede. Alludo alle recentissime applicazioni della fotografia alla stampa e queste si chiamano: fotolitografia, fotogliptia, foto-incisione, fototipia, eliografia ecc. ecc.”, D.Vallino, Un’arte novella, in “L’Eco dell’Industria”, 28 febbraio, 7 marzo, 10 marzo 1878.

[19] ASAR, f.2, Nuova Direzione, n.93, 3 febbraio 1874.

[20] Ibidem.

[21] ASAR, f.2, Nuova Direzione, n.95, 10 febbraio 1874.

[22] ASAR, f.2, Nuova Direzione,n.120, 24 giugno 1874.

[23] ASAR, f.1207, Lettera di G.B. Berra, Torino 25 settembre 1882.

[24] È questo in realtà il titolo dell’edizione conservata presso la Biblioteca Reale, mentre l’altra porta la dedica “Alla Direzione della Reale Armeria di Torino/ Omaggio dell’Autore Cav.re G. B. Berra Pittore e Fotografo” con una formula che ricorda quella dell’album realizzato dallo stesso fotografo per la IV Esposizione Nazionale di Belle Arti del 1880: “A S.M. Umberto I/ che più di tutti/ ama la grandezza/ della Patria/ Questo ricordo/ della IV Esposizione Nazionale/ di Belle Arti/ offre con riconoscente ossequio/ il pittore fotografo/ G.B. Berra/ Torino agosto 1880”. Ricordiamo qui che nella stessa occasione sei foto Berra di Rivara sono presentate da D’Andrade e viene realizzata la cartella a tavole sciolte in fototipia di Doyen in cui compaiono anche armi e armature.

Su Berra si veda Miraglia 1990, op. cit.,p.358, pur con imprecisioni  dovute “alla non sempre precisa segnalazione delle guide”: è infatti probabile che il “pittore” di cui parla la Guida Galvagno del 1872 fosse proprio Giovanni Battista, che muore nel 1894 mentre l’attività dello studio (Fotografia Subalpina) sarà proseguito dalle due figlie.

Dopo essersi segnalato in occasioni diverse quale autore di riproduzioni di opere d’arte, nel 1882 Berra viene incaricato, con Vittorio Ecclesia, di fotografare i circondari di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente da Biscarra e da Crescentino Caselli, su incarico della Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità, cfr. P. Cavanna, Documentazione fotografica del patrimonio architettonico in Piemonte 1861-1931,  “Architettura & Arte” , n.11-12, luglio-dicembre 2000, pp. 16-23. 

[25] Le stampe costituenti le due serie di volumi conservate rispettivamente in Armeria e presso la Biblioteca Reale si presentano in diverse condizioni di conservazione. A oggi si conservano 113 lastre al collodio 21×27; qualche lastra presenta ritocchi e mascherature non rilevabili nelle stampe coeve, segno certo di una riutilizzazione successiva per ora non precisamente identificata.

[26] Le foto Berra anche nel fondo Coppedè ora all’AFT, 15 album e oltre 170 fotografie sciolte acquisiti nel 1986, vedi la Scheda descrittiva del Fondo in “AFT”, 3 (1987), n. 5, giugno, p.12, che contiene anche due brevi saggi orientativi sul clima culturale e sull’attività della famiglia: Carlo Cresti, Eclettismo come costume di vita, pp.13-21, e Mauro Cozzi, L’abbecedario dei Coppedè, pp.22-31.

Gli album appartennero ad Adolfo e dovevano servire quali raccolte di modelli decorativi. Mariano, Gino, Carlo e Adolfo: Dinastia fiorentina di intagliatori (il padre Mariano), pittori (Carlo) e  architetti gli altri due, ma di humus di iperbolico virtuosismo artigianale fecondato dalle architetture effimere dei padiglioni espositivi e dalla scenografie del melodramma e del nascente cinematografo.

[27] Il volume secondo dell’esemplare BRT non solo è costituito da 65 (invece di 63) tavole, con titolo, manoscritto in calce che coincide alla lettera con le scritte autografe presenti sulle lastre conservate presso l’Archivio fotografico della Soprintendenza, ma anche la sequenza presenta un ordine diverso: il volume si apre infatti con armature a piedi (tavv.1-22) ed  elmi (23-60) per chiudere con finimenti (61-63), il rostro romano (64) e l’elsa “di Donatello” (65).

La catalogazione delle lastre superstiti ha consentito in alcuni casi di analizzare anche le varianti di ripresa (laterale/ scorciata; fuori fuoco o con sfondo neutro) o la documentazione di oggetti poi non compresi nella versione  definitiva degli album, ma comunque messi in circolazione autonomamente (Zuccotto da parate E93, presente nell’esemplare conservato presso la Biblioteca Reale di Torino ma anche tra le stampe del Fondo Coppedè).

[28] Firenze: in occasione dell’inaugurazione della facciata del duomo nel 1887 Umberto I e Margherita giungono a Firenze, festeggiati tra le altre cose da un corteo storico e un gran ballo in costume medievale nelle sale di Palazzo Vecchio, organizzato da Frederick Stibbert, che si presentò vestito della copia di un’armatura inglese del 1370, proveniente dalla sua collezione privata (56.000 pezzi) ospitata nella villa di Monturghi, alle porte di Firenze, con un gusto che richiama piuttosto l’eclettismo imaginifico che sarà di Fortuny o e poi di D’Annunzio (del dandy insomma) che non l’attenzione filologica dello studioso, cfr. Frederick Stibbert. Gentiluomo, collezionista e sognatore, catalogo della mostra ( Firenze 2001), a cura di Kirsten Aschengreen Piacenti. Firenze: Polistampa, 2001. Il gusto della celebrazione in costume, al limite (a volte tranquillamente superato) della giocosità carnevalesca, ma certo intriso anche di celebrazione storicista. Si pensi agli analoghi torinesi.

[29] Ne da notizia in due successive lettere al marchese di Montereno, gentiluomo di corte di S.A.R. la Principessa di Piemonte, il Direttore Luigi Seyssell, chiedendo contestualmente l’invio delle fotografie realizzate in quell’occasione. ASAR, F.2, Nuova Direzione, nn.159, 161, 28 febbraio, 2 maggio 1875.

[30] Vittorio Ecclesia, Castello d’Issogne in Valle d’Aosta, con un testo di G. Giacosa. Torino: Camilla e Bertolero, s.d. [1882 post], 20 albumine 27/27 (dell’opera esiste anche un’edizione con 18 stampe in formato 13/18).

[31] Cfr. P.  Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp. 107-123.

[32] ASAR, f.1207, 7 marzo 1888.

[33] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898, in cui segnala la necessità di un ulteriore finanziamento connesso proprio al maggior numero di tavole realizzate.

[34] Convenzione tra Raffaele Cadorna, Direttore e Conservatore della Reale Armeria e le titolari dello Studio Berra, Celestina Berra Bussolino e Gustava Berra Favale, Torino, 30 luglio 1896, ASAR C387.

Lo scambio di documenti e cataloghi col Museo d’Artiglieria di Parigi si era avviato all’inizio del decennio ed era proseguito sino al 1896, ASAR, B 1502, circa gli stessi anni in cui si realizzava anche il catalogo illustrato dell’Armeria Imperiale di Vienna (ASAR B1503), Wendelin Boeheim, Album Hervorragender Geganstande aus der Waffensammlung. Wien, J. Löwry, K.U.K. Hofphotograph, 1894 (I)-1898 (II).

[35] Su Alberto Charvet si veda Miraglia 1990, op. cit., pp. 371-372. L’archivio storico dell’Armeria conserva una cartella di Prove fotografiche e stampe di armature (…) da cui si ricava conferma della realizzazione di “nuove negative”, cioè del rifacimento parziale delle prime riprese. Di questa prima fase di produzione si sono conservate 19 lastre e 138 fototipie.

[36] In quell’occasione la Regia Armeria non aveva concesso alcun oggetto della propria collezione: Lettera del Ministro della Real Casa al Direttore, Roma, 11 marzo 1880, ASAR, f.895.

[37] ASAR, f.1207, Copia del Memoriale Charvet, 30 gennaio 1898; da questo documento, salvo diversa indicazione,  provengono anche le citazioni successive.

[38] Per le sinora scarne notizie su Luigi Cantù, Vicepresidente della Commissione della Sezione fotografica dell’Esposizione Nazionale di Torino dello stesso 1898, membro del Circolo degli Artisti, tra i futuri promotori della Società Fotografica Subalpina e vicino alla famiglia del Duca di Genova, si veda Miraglia 1990, op. cit., p. 368; Album di famiglia 1850-1940, catalogo della mostra, (Torino, Fondazione Italiana per la Fotografia, 1997), a cura di Dario Reteuna. Torino: FIF,  1997, p.60; Società Fotografica Subalpina 1899-1999. Torino: Daniela Piazza Editore, 1999, pp.14-16. Non si esclude che possa riferirsi ad una ulteriore fase intermedia la prova eliotipica di “Armi antiche” firmata da Carlo Bazzero e conservata tra le carte dell’Archivio dell’Armeria.

[39] Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino. Milano: Eliotipia Calzolari e Ferrario, s.d.  [1898], con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna; tre volumi per complessive 198 tavole in fototipia (1/69 – 70/129 – 130/198). Questa edizione si caratterizza per l’antiporta disegnata da Luigi Cantù e per le impressioni in oro al piatto anteriore e al dorso, mentre la successiva del 1902 è priva di immagine all’antiporta e di veline alle tavole, le impressioni sono in argento e il dorso è muto. Una collezione completa in tavole sciolte, da esporre, venne inviata nello stesso anno alla Esposizione di Bologna a favore della Cassa Soccorso Studenti (ASAR, B 1288). Altre copie delle stesse tavole venivano inviate a studiosi dietro richiesta (ASAR, B 1554) o vendute sciolte: ciò spiega la presenza del gran numero (100-150 esemplari) di copie sciolte e mute dei soggetti di maggior successo, quali le armature. Della campagna fotografica realizzata in questa occasione si sono conservate 216 lastre (comprese quindi le varianti) alla gelatina bromuro d’argento nel formato 24×30, per le quali nel giugno del 1898 si registra  il pagamento di L. 1480 “Con mille ringraziamenti e cordiali saluti (…) alle sorelle Berra, fotografe.”, ASAR,  B1554.

[40] ASAR, f. 1207, lettera di G. Assale al Direttore.

[41] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898.

[42]ASAR, f.1207, nota di L. Avogadro del  2 giugno 1897.

[43] “nel restituirle vi unirò la prova del Calzolari”, scrive Cantù ad Avogadro il 3 agosto, ASAR, f.1207, biglietto di Cantù ad Avogadro,  3-8-1897. In vista della partecipazione all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno 1900 lo Stabilimento milanese chiede l’autorizzazione a “esporre a Parigi qualche saggio delle eliotipie eseguite per la Reale Armeria” sotto forma di tavola composita, di cui inviano copia fotografica, costituita dal montaggio di differenti immagini dall’antiporta col cavaliere in armi disegnato da Cantù, a due armature equestri (tra cui la B3 Martinengo), la targa da parata F3, elmi ed armi varie; come si ricava dalla corrispondenza successiva, in quell’occasione la ditta fu insignita di Medaglia d’oro ASAR, f. 1210.

[44] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898.

[45] ASAR, f.1207, Copia del Memoriale Charvet, 30 gennaio 1898. La vertenza venne chiusa il successivo 18 marzo col riconoscere allo stampatore un compenso complessivo a saldo di L.1500 e alle sorelle Berra la possibilità di rientrare in possesso delle lastre conservate da Cantù; ASAR, f.1207, Copia della transazione della vertenza giudiziaria tra il Sig. Charvet e lo Stabilimento Berra, 18-3-1898.

[46] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898.

[47] Angelucci 1890, op. cit., p. viii.

Scoprire le architetture: patrimonio storico e documentazione fotografica in Piemonte 1861 – 1931  (2000)

“Architettura & Arte” , 3 (2000), n.11-12, luglio-dicembre, pp. 16-23

 

Gli anni della scoperta e del primo affermarsi della fotografia – come è noto – coincidono in ambito europeo con il consolidarsi dell’attenzione per il patrimonio architettonico, specialmente medievale, e col definirsi dei fondamenti stessi delle moderne teorie del restauro architettonico che, insieme alla fotografia,  sono tra gli elementi costitutivi del “moderno”. è altrettanto vero però che la  diffusione  della conoscenza di questo patrimonio e la stessa sua definizione qualitativa e quantitativa molto devono, specialmente nelle aree del Bel Paese tradizionalmente ritenute marginali dal punto di vista artistico come il  Piemonte, alla attività di quei fotografi che mescolando interessi professionali e commerciali ad una profonda passione conoscitiva, ma nella maggior parte dei casi fidando solo su quest’ultima, si sono impegnati nella formazione del catalogo visivo dell’architettura e dell’arte di questa regione.

Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione invia ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti e rimessole nel 1875, voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.”[1]  Con questo atto, le cui conseguenze iniziano appena a essere conosciute e studiate, lo stato italiano si poneva sulla scia delle iniziative avviate dal governo francese nel 1851 con l’istituzione della Mission Héliographique e si colloca in un orizzonte di sempre più precisa attenzione delle possibilità offerte dall’uso strumentale della tecnica fotografica, sperimentate a partire dal 1875 dallo stesso Istituto Geografico Militare sotto specie di fototopografia.

Il decennio che precede queste iniziative, segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, è anche il periodo di prima massiccia diffusione degli album fotografici: dopo le produzioni documentarie degli anni ‘50 con le opere di Giuseppe Venanzio Sella, Ludovico Tuminello, Francesco Maria Chiapella, in cui  i soggetti sono ancora quelli  privilegiati dalla produzione calcografica e litografica precedente,  nel decennio successivo si sviluppa una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolge a tutto il territorio regionale.

L’attività di documentazione fotografica si fa più specifica ed il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: accanto alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864) con immagini di grande qualità, il traforo del Frejus, documentato ancora da Vialardi nel 1863, a partire dagli anni ’70 compaiono i primi album di vedute realizzati dai numerosi studi fotografici ormai presenti nelle maggiori città piemontesi; in queste opere viene riproposta, adeguandola alla realtà locale, la sequenza consolidata dei luoghi canonici – che si presentano come ovvi e ineluttabili – specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il sito[2], ma proprio il loro riferirsi alla specificità del luogo ne costituisce la novità, che non è ancora di sguardo ma di cosa osservata. Sulla scia dei precedenti torinesi di Le Lieure e Marville, nei primi anni Settanta numerose sono le produzioni documentarie, tra le quali si ricordano l’opera di Pasquale Bossi per il Lago Maggiore (1870), di Giovanni Ferrari a Saluzzo (1871ca), di Luigi Natale Fariano a Cuneo, con un album dedicato alla città (1872) ed uno, non datato ma verosimilmente coevo, esteso a tutta la provincia, ed ancora le realizzazioni di Castellani, Viglietti, Berra ed Ecclesia alle quali faranno seguito nei due decenni successivi produzioni relative ai principali centri piemontesi da Biella (Emilio Gallo, 1891) a Tortona (Castellani), da Novara (Tarantola) a Pinerolo, dove Pietro Santini, figlio di Pietro, propone nel 1881 un Album del viaggio di Umberto I da Pinerolo a Perrero che richiama modestamente ma in tutta evidenza  il modello dell’album commissionato dal barone James de Rothschild a édouard Baldus nel 1855, in occasione della visita di stato condotta in Francia dalla regina Vittoria.[3]

Emerge da questa produzione un segno diverso e distintivo rispetto alle campagne precedenti: la celebrazione delle glorie municipali avviene ancora per il tramite consueto dell’illustrazione dei principali monumenti affiancando però, con pari dignità, le nuove realizzazioni che segnano le trasformazioni della città e del territorio, gli emblemi della modernità: asili e scuole, stabilimenti industriali e idroterapici,  stazioni e ponti, le banche, il gasogeno. Gli album sono a volte commissionati dalla municipalità (Acqui, Susa), da committenti o sottoscrittori privati, ma più sovente sono realizzati per iniziativa dello stesso fotografo sia a fini promozionali sia quale precisa iniziativa editoriale e commerciale. Primo significativo esempio di questa strategia culturale e commerciale è Turin ancien et moderne che il parigino Henri Le Lieure, a Torino dal 1859, dedica alla città nel 1867 corredando le ventidue splendide albumine che lo formano di brevi saggi dei personaggi più in vista della cultura torinese di quegli anni: da Luigi Cibrario a Pio Agodino, da Michele Lessona e Vittorio Bersezio a Federico Sclopis, Carlo Felice Biscarra e altri.

Se i soggetti di Le Lieure ripropongono ancora i temi delle litografie che nel 1845 Enrico Gonin include in Turin et ses environs, i fotografi attivi nei centri minori rivolgono la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche, specialmente per quanto ci riguarda, a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase è proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li porta  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrisponde allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili.  Sono questi gli anni in cui la documentazione fotografica si avvia a una utilizzazione mirata  anche da parte di studiosi e architetti, come indicano alcune partecipazioni alla Esposizione torinese del 1880: qui ad esempio Alfredo d’Andrade, seguendo le ben note indicazioni di Viollet-Le-Duc[4] e anticipando le risoluzioni boitiane, documenta il suo primo intervento architettonico, il restauro del castello di Rivara, proprio con sei fotografie realizzate da Giovanni Battista Berra e  da Giuseppe Vanetti.[5] è da qui che  la  fotografia architettonica  muove  i suoi primi passi, utilizzata specialmente  in virtù delle sue più efficienti possibilità tecniche che consentono di sostituire in modo rapido ed economico i processi di stampa calcografica e litografica, senza che si pensi ancora ad una sua utilizzazione quale specifico strumento di documentazione e di studio del patrimonio storico architettonico[6]; perché questo percorso si compia, almeno in area piemontese,  debbono giungere a maturazione le riflessioni e le esperienze nate dai contatti tra cultura artistico archeologica (piuttosto che specificamente architettonica)  e fotografica  e  contestualmente avviarsi le procedure per esaudire le richieste provenienti dalla amministrazione centrale.

Nel 1878 viene istituita la Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità (sulla base del R.D. 3 agosto 1870), composta da sette membri tutti appartenenti alla neonata (1875) Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino. Nella seduta nel 31 ottobre viene illustrata alla Commissione la citata  richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione (circolari del 21/10 e 14/11), ma solo quattro anni più tardi, nel 1882, dopo una prima ipotesi non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” per documentare il patrimonio (18 giugno 1881) definito  dell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte” redatto nel 1871 dalla specifica commissione diretta da Carlo Felice Biscarra[7],  la Commissione delibera di assegnare a due dei migliori professionisti piemontesi, Berra (Fotografia Subalpina) e Ecclesia, il compito di fotografare il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente dallo stesso Biscarra e da Crescentino Caselli, al quale ultimo si deve verosimilmente il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, quale appare proprio  nelle immagini di Ecclesia.[8]  Negli esiti di  queste campagne di ricognizione l’intenzione documentaria si sposa con la poetica  di Biscarra   ed ancor più di Federico Pastoris che vedeva nella fotografia un efficace strumento ausiliario alla sua aspirazione verista, quella stessa che gli “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[9]

Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile anche le prime applicazioni  della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico piemontese che ancora alla fine del secolo si giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[10], riproponendo tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra”[11] e la cui infondatezza sarà di lì a poco  tradotta in evidenza espositiva dalla realizzazione del Borgo Medievale nel parco del Valentino in occasione della Esposizione generale italiana del 1884,  “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni” delle diverse tipologie di costruzioni selezionate dal gruppo di studiosi coordinato da D’Andrade, raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio” e compiendo un’opera  assimilabile “a quella di un compilatore di una raccolta di oggetti per museo o galleria o di un dizionario d’arte e d’archeologia” (…) obbligo solo e strettissimo l’autenticità.”[12] In questo monumento nuovo, punto nodale per la formazione di una consapevolezza professionale e civile del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano, è facile riconoscere il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, in copie autentiche, che dichiara in tutta evidenza i propri debiti con le modalità culturali proprie dell’universo fotografico. Qui l’idea di copia oggettiva, e quindi autentica, analoga e fungibile al reale propria dell’ideologia fotografica di secondo Ottocento   investe   una pratica che si vuole filologica nonostante l’intervento di assemblaggio e collage: ogni frammento, così come ogni fotografia, è considerato autentico in quanto riproduzione fedele all’originale e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, destinato a tradurre dalla raffigurazione alla realizzazione  un soggetto inesistente in quella forma.

Intorno e ancor di più in conseguenza di questa iniziativa[13] operarono sia fotografi professionisti come Ecclesia (verosimilmente contattato da D’Andrade grazie ai buoni auspici di Vittorio Avondo)[14], sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[15], che sarà per lungo tempo collaboratore di D’Andrade. A lui si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione del giovane studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[16]

Lo stesso 1884 costituisce però momento importante per la storia della documentazione fotografica dell’architettura anche per l’avvio del progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si tiene in occasione dell’Esposizione affida  al Collegio torinese; nel successivo congresso (Venezia,1887)  questo presenterà il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato proprio al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” [quindi con una presentazione artistica] se dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[17]

La realizzazione del Borgo e la successiva istituzione del Museo favorirono una attenzione nuova per quella tipologia di edifici che erano serviti da modello alla sua realizzazione;  ad essi venne dedicata da allora una attenzione fotografica sempre più ampia sia da parte dei professionisti[18] sia degli amateur photographers  tra i quali accanto a Nigra e, in misura minore,  ad Ottavio Germano[19] la figura più rilevante fu quella di Secondo Pia[20], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione.

In occasione della Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tiene a Torino nel  1890 mentre uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizza il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte   nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano”[21], a Pia viene assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[22], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi.”[23]

Una ulteriore occasione di conoscenza sarà poi costituita dalla Esposizione di Arte Sacra del 1898, nel corso della quale Pia espone circa 600 fotografie mentre Giovanni Cena gli dedica un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[24]

L’accumulo di notizie a cui Cena si riferiva  prendeva nel frattempo la forma di un ricchissimo corpus di precise schede analitiche, dedicate a ciascuna delle opere fotografate, che costituisce oltre che una fonte importante e sinora non utilizzata per la storiografia artistica piemontese anche un indicatore esatto dello scrupolo estremo con il quale questo “dilettante fotografo” ha affrontato il suo fondamentale e pluridecennale compito di documentazione; esso è anche un indizio ulteriore e preciso dell’elevato livello culturale oltre che specificamente professionale al quale si collocava in Piemonte, a partire almeno dagli anni ‘60 del XIX secolo, questa attività fotografica, che nei casi più significativi è connotata dalla volontà esplicita di porre in atto un vero e proprio progetto culturale di scoperta e valorizzazione del patrimonio locale, muovendosi in direzione opposta rispetto alle gigantesche imprese commerciali dei più noti studi italiani (da Alinari a Sommer).

Ad un progetto analogo si richiama esplicitamente Pietro Masoero, di professione fotografo ritrattista, che avvia nel 1890 un esteso rilievo fotografico della basilica di S. Andrea a Vercelli, pubblicato nel 1907 parallelamente ai relativi rilievi grafici realizzati da Federico Arborio Mella a corredo di un volume sulla storia della basilica che si poneva quale “contributo al recente risveglio pel culto dell’arte sacra”, uno dei temi più interessanti del dibattito culturale nel Piemonte di secondo Ottocento, strettamente connesso alla rivalutazione della tradizione artistica locale e quindi anche al dibattito e alle prime iniziative di tutela[25].

In questa pubblicazione  “Si volle che la riproduzione fotografica di questo gioiello, sviluppata in una serie logica e possibilmente completa di parti armonizzanti col tutto, desse all’opera un senso di realtà e di vita”  con immagini fotografiche che “riproducono in modo mirabile, non svisato o alterato da alcun manierismo, la vera parvenza o carattere stilistico”[26] della basilica.  Mentre negli anni ‘50 Pietro Estense Selvatico sceglieva la fotografia perché credeva potesse offrire “le esatte apparenze della forma” contro le alterazioni dell’accademia, cinquant’anni più tardi, dopo la fotografia di ispirazione pittorialista,  il rischio di cui un intellettuale attento come Masoero è ben conscio è quello di leggere come obiettiva in quanto fotografica una immagine svisata o alterata dal “manierismo”, inteso quale gratuito formalismo interpretativo dell’opera, per non dire del mondo.[27]

Nel secondo decennio del Novecento la documentazione fotografica del patrimonio storico piemontese si estende sia per iniziativa di alcuni grandi stabilimenti fotografici italiani quali Alinari, che ampliano nel 1912 il ristretto repertorio realizzato nel 1898, e l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, a cui vengono commissionate più di quattrocento riprese[28] in  occasione della realizzazione del padiglione piemontese all’Esposizione romana del 1911, mentre prosegue la collaborazione tra nuove generazioni di studiosi,  organismi di tutela e fotografi particolarmente sensibili alla conoscenza e divulgazione del patrimonio artistico e architettonico, collaborazione già per certi versi anticipata negli anni Ottanta dell’800 dal rapporto tra Riccardo Brayda e Alberto Charvet[29], ma che assumerà nei primi decenni del’900 forme più precisamente connotate: dalle cartelle dedicate da Giancarlo dall’Armi al Barocco  Piemontese, con bellissime immagini corredate dai testi di Cimbro Gelati, Carlo Camerano, Emanuele Provana di Collegno, Melchior Pulciano e Paolo R.Deville[30], alla collaborazione un poco più tarda di Augusto Pedrini con  Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi.[31]

Il ruolo svolto da Brayda risulta fondamentale anche per comprendere l’opera di Mario Gabinio, in particolare la serie realizzata nei primi mesi del 1900 per partecipare al concorso bandito dal Comune di Torino  per la “Collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”.  Gabinio si aggiudica il premio con la serie dedicata a Torino che scompare:  84 stampe che per scelta  dei soggetti, esaustività della documentazione e per l’approccio quasi da reportage consentito dall’uso del medio formato costituiscono una novità assoluta nel panorama della fotografia di documentazione urbana piemontese e italiana.

A partire dagli anni Venti data l’inizio effettivo dell’interesse di Gabinio per il patrimonio architettonico di Torino, già indagato con Torino che scompare e con alcune più sporadiche riprese degli ani ‘10, del quale ci restituisce un catalogo sostanzialmente esaustivo, ritornando più volte sullo stesso soggetto, alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta.

Il suo lavoro intorno all’architettura assume la forma dell’indagine tipologica nella serie dedicata a portali e  portoni degli edifici sei-settecenteschi, riprendendo un tema non nuovo della produzione fotografica torinese, qui connotato da una più marcata attenzione per il dato architettonico e da evidenti preoccupazioni compositive, che si concretizzano nella ostinata concatenazione di spazi e superfici tra facciata e cortile interno; intendendo il portale come cornice architettonica e punto di accesso al cannocchiale prospettico puntato verso il cortile, con la presenza costante di un elemento collocato centralmente a sottolineare la posizione del punto di fuga.[32]

Agli edifici torinesi Gabinio dedica serie costituite da numerose immagini, in cui architettura e presenza urbana sono indagate con inquadrature singolari e sapienti, tanto poco ortodosse quanto efficaci, dove l’interesse per i volumi edificati e per le possibilità di lettura che ne offre la fotografia, per i problemi posti dalla relazione tra illuminazione e forma architettonica, convive col rigore topografico nella determinazione dei punti di ripresa, fornendo esempi concreti di quel connubio tra documentazione e fotografia artistica che molti ritengono  non realizzabile e che costituisce una delle manifestazioni del più generale ambito di discussione sulla natura del documento fotografico che si trascinava almeno dalla metà dell’Ottocento.

“La fotografia architettonica – afferma T.H.B. Scott, vicepresidente della Royal Photographic Society di Londra,  nel 1925 – non può essere fotografia artistica; essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve rinnegarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”; sentenza senza appello alla quale tenta debolmente di opporsi J.R.H. Weaver quando afferma che “Nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo”.[33]

Di queste posizioni esteticamente poco consistenti, fortemente legate a una poetica “pittorialista” e antimodernista avrà ragione negli stessi anni la nuova concezione della fotografia in varie forme legata o determinata dalle realizzazioni delle avanguardie storiche, immediatamente recepita e fatta propria anche da Gabinio che nella documentazione dei due importanti cantieri torinesi della Società Reale Mutua Assicurazioni si abbandona al fascino costruttivista dell’architettura del ferro, qui sapientemente confrontata con la città e le sue permanenze, in un dialogo suggestivo tra struttura architettonica e maglia urbana.

Superando concretamente la cultura ottocentesca dell’immagine ottica, tutta orientata e rinchiusa nella celebrazione dei valori documentari propri della fotografia, per aprirsi alla soggettività della nuova visione propria del moderno,  Gabinio segna il passaggio cruciale alla modernità della cultura fotografica torinese, guardando non tanto alle opere presentate ai  Salon o pubblicate in Luci ed Ombre, sostanzialmente ancorate ad un tardo pittorialismo in lenta trasformazione, con la sola eccezione di alcune opere di Stefano Bricarelli e delle prime prove di Riccardo Moncalvo, ma invece a quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che contribuisce al formarsi di una precisa consapevolezza delle modalità di trascrizione del reale proprie del mezzo, su queste fondando le stesse possibilità espressive e documentarie dell’immagine ottica.

La pacifica convivenza tra possibilità documentaria e espressione estetica, compositiva, la moderna coscienza che l’un atteggiamento non escluda l’altro si ritrovano nell’opera – meno stilisticamente connotata ma non per questo indifferente alle determinazioni estetiche – di uno studioso come Albert Erich Brinckmann (1881 – 1958), tra i primi e più autorevoli  storici ad affrontare sistematicamente l’analisi delle architetture barocche piemontesi ponendole in relazione con le più importanti scuole internazionali. Le immagini a cui ci riferiamo, tutte ricavate da negativi su lastra nel formato 9/12, vennero  realizzate nel corso dei primi viaggi compiuti in Piemonte nel 1928 – 1930 quindi pubblicate nel suo fondamentale studio del 1931[34], e donate all’Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” che Vittorio Viale aveva da poco costituito presso i Musei civici di Torino, riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Giovanni Vacchetta e Lorenzo Rovere, anche allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle diverse Società di Studi, a rischio di dispersione.[35]

La figura di studioso interessato direttamente alla utilizzazione appropriata delle possibilità offerte dalla fotografia per documentare ma ancor più per interpretare e leggere, non solo formalmente le architetture si delinea in area piemontese proprio con gli anni Trenta del Novecento, avviando una stagione nuova di esperienze e realizzazioni che porterà almeno sino a Carlo Mollino e al più giovane Roberto Gabetti, certo oggi non ancora interrotta ma da conoscere e comprendere compiutamente.

Note

[1] Il testo qui presentato costituisce una prima occasione di sistematizzazione di informazioni e riflessioni relative all’argomento sino ad ora sparse in contributi diversi, parzialmente citati nelle note che seguono, e non pretende pertanto una esaustività che mi auguro possa in futuro essere almeno ipotizzata, anche grazie all’approfondimento e all’estensione degli studi specifici.

Il testo della comunicazione ministeriale è qui citato dalla copia conservata presso l’Archivio di Stato di Lecce, Prefettura, I serie, I vers., b.44, f.413, consultata nel corso di una più ampia ricerca relativa alla definizione dei processi di sedimentazione dell’immagine (fotografica e non solo) del patrimonio culturale regionale condotta nell’ambito del corso di Storia e tecnica della fotografia presso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università di Lecce. Per i documenti relative alle parallele vicende piemontesi cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va segnalato infine l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire tanto che ancora nel 1904 Giovanni Santoponte dovrà richiamare esplicitamente la necessità metodologica di dotarsi di materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte (individuando) i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali”, Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni. Roma: 6 (1905), pp.38-48.

[2]Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863; la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedica nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di ‘archivio’ o ‘museo’ fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839 – 1911.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1990;  P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[3] cfr. Malcom Daniel, The Photographs of édouard Baldus. New York: The Metropolitan Museum of Art – Montreal, Canadian Centre for Architecture, 1994.

[4] Eugène Viollet-Le-Duc,  voce Restauration, in Id., Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siécle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Reunies, s.d. [1860], pp.33-34,  in cui viene per la prima volta codificato l’uso della fotografia nei processi conoscitivi e operativi connessi al restauro degli edifici.

[5] IV Esposizione nazionale di Belle Arti. Catalogo. Torino: L. Roux e C.,  1880, nn.182-183; va ricordato qui anche l’album fotografico che G.B.Berra dedica a questa esposizione. La novità  costituita dall’utilizzo di fotografie per la presentazione di progetti architettonici (utilizzate da quattro dei settantanove espositori della sezione “Architettura”), è ulteriormente indicativa se pensiamo alle ben note qualità di disegnatore di D’Andrade, cfr. Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981; Alfredo d’Andrade. L’opera dipinta ed il restauro architettonico in Valle d’Aosta tra il XIX e il XX secolo, catalogo della mostra (Aosta, 3 luglio  – 19 settembre 1999), a cura di Lia Perissinotti. Aosta:  Musumeci Editore, 1999.

[6]è noto che la documentazione urbana e d’architettura anticipa, per molteplici ragioni, non solo tecniche, quella relativa alla pittura; cfr. Miraglia, Culture fotografiche e società , op. cit.; P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, in Tiziana Serena (a cura di), Per Paolo Costantini, I,  Fotografia e raccolte fotografiche, «Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni», VIII, (1998),  pp.49-55.

[7] Cfr. Carlo Felice Biscarra, Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte, in “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, II, Torino, 1878, pp.225-230.

[8] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884 congiuntamente ad analoghe campagne condotte nell’Alessandrino da Federico Castellani. Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte.

[9]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891: Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna  Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni  Romano,. Torino:  Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326, da leggersi in parallelo  a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andradeop. cit.,pp.19-43.

[10]Antonio Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp.106-110 (p.107); n.22, pp.171-175; n.23, pp.177-179. Del permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” ha parlato ancora in anni recenti Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela  di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp.11-32 (p.23).

[11]Francesco Gamba, L’arte antica in Piemonte, 1880, citato in R. Maggio Serra, Uomini e fatti, op. cit., p.29.

[12] Giuseppe Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana, Catalogo, 1884, p.9.  Dalle più recenti ricerche risulta però che per queste realizzazioni non si possa parlare di  copie “esattissime” ma semmai di accurate trascrizioni sapientemente adattate per essere inserite nel nuovo contesto, cfr. Carla Bartolozzi, a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995.

[13] Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in  Fotografi del Piemonteop. cit.  e in Alfredo d’Andrade, op. cit.

[14]  Vittorio Avondo aveva commissionato proprio a Ecclesia più copie delle fotografie realizzate nel castello di Issogne, da lui acquistato e restaurato anche col sostegno di D’Andrade,  nel corso della campagna del 1882 allo scopo di realizzare una serie di album, cfr. Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo (1836 – 1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: SPABA, 1997.

[15] Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonteop. cit.,  pp.17-20. Per il ruolo svolto da Nigra nel mantenere in area piemontese un rapporto fecondo con la tradizione della “scuola storica”, cfr. Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte.  Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[16] La prima edizione di The Seven Lamps fu pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in P.Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[17] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1; tale indicazione proponeva con largo anticipo il problema dei Musei documentari,  ripreso in Piemonte dieci anni più tardi da Giovanni Vacchetta, il quale  elabora un progetto di catalogazione del patrimonio artistico piemontese  e propone alla Sezione di Architettura presso il Circolo degli Artisti di Torino l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, unitamente alla formazione di un archivio fotografico, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni; la sezione V del Museo doveva ospitare “negative fotografiche”.  I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto proponendo infine solo la formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.”,  Roberto Albanese, Emilio Finocchiaro, Maristella  Pecollo, a cura di, G.Vacchetta. Volontà d’arte: il gusto del particolare.  Cuneo: Comune di Cuneo – Assessorato per la Cultura, 1990, p.141.

[18] Per fare un solo esempio il confronto tra i cataloghi di Vittorio Besso del 1881 e del 1893 mostra come in questo lasso di tempo si fosse accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entrò a far parte una serie dedicata ai castelli costituita da ben 17 soggetti mentre per il Biellese la serie dedicata al castello di Gaglianico passò da tre a quindici titoli.

[19]Su Ottavio Germano, che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra ed inoltre Claudia Cassio, in Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola  Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino:  Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (p.77, n.23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992. Sull’attività fotografica legata alle prime attività di tutela  piemontese molto resta ancora da conoscere ma va segnalata almeno la presenza a Palazzo Madama di un vero e proprio laboratorio di sviluppo e stampa gestito da Germano e Nigra, come si ricava da una lettera datata 3 gennaio 1892: “Favorisco farmi sapere  se prima di tornare a Sartirana puoi venire a Palazzo Madama a sviluppare le rimanenti lastre già impressionate e fare altre stampe.”, citato in Cristina  Ghione, Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra,  Anno Accademico 1993-1994, p.87.  Sulle necessità di definire compiutamente i compiti e le metodologie operative dei gabinetti fotografici degli Uffici regionali si esprimerà Pietro Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica istruzione, “L’Arte”, 7 (1904), pp.80-82, inserendosi in un dibattito più ampio, anche internazionale,  a proposito della necessità di attuare raccolte sistematiche di documentazione fotografica, i cosiddetti Musei Documentari. Il riferimento metodologico costituito da  Toesca  è stato analizzato da Giovanni Romano, Pietro Toesca a Torino,  “Ricerche di Storia dell’arte”, 21 (1996), n.59, pp.5-19 ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 1-21. Per la ricostruzione del dibattito su queste istituzioni, nuclei originari e occasioni primarie di riflessione per ogni successivo  musée imaginaire fotografico o comunque virtuale si vedano Paolo  Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990, in  particolare alle pp.58-72;  P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’impegno”, 11 (1991), n.3, dicembre, pp.41-48; Brera 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, Palazzo di Brera, Sala della Passione, 17 febbraio-25 aprile 2000) a cura di Matteo Ceriana, Marina Miraglia. Milano: Electa, 2000. La particolare attenzione di Toesca per le possibilità consentite dalla documentazione fotografica, già espressa in una lettera a Secondo Pia del 1907 (cfr. Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia.  Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, p.31) lo porterà nel secondo dopoguerra a curare i volumi della collana “Artis Monumenta photographice edita”, della quale usciranno i titoli dedicati a San Pietro al Monte a Civate  ed alla Cappella di San Silvestro in Santa Croce a Firenze,  mentre rimarrà inedito il terzo, sulla Basilica Superiore di Assisi, tutti con fotografie di Mario Sansoni e Carlo Bencini, cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 57-198 (pp.158-159); Paola Callegari et alii, La Fototeca Nazionale. Roma:  Ministero per i Beni Culturali, ICCD, 1984.

[20]Tamburini, Falzone Il Piemonte fotografato da Secondo Pia, op. cit.;    Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale del Cinema, 19 ottobre-19 novembre 1989) a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò. Torino: Allemandi & C., 1989; P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, op. cit.; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia: Immagini, di Asti e dell’Astigiano, catalogo della mostra (Asti, Archivio Storico, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998) a cura di Gemma Boschiero. Asti: Archivio Storico del Comune di Asti, 1998. L’altro grande dilettante piemontese del periodo, il più giovane Francesco Negri  era invece – come noto – più impegnato nello studio e nella documentazione del patrimonio artistico, cfr. cfr. P. Cavanna, Cinquant’anni di sguardi: la fotografia scopre il Sacro Monte, in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea.  Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998, pp.137-145.

[21] Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891, p.18;  nella stessa occasione rilevava come Pia “girando tutta la regione del vecchio Piemonte, seppe scovare una quantità  di monumenti in gran parte ignorati, ch’egli presentò in tre album di oltre 200 fotografie.”

[22] Lo stesso concetto era ribadito da Pietro Masoero che ancora  dieci anni più tardi recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino sottolineava come “nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), n.4, , p.278. Altra grande occasione espositiva per Pia si presentò nel 1926 con la “Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese” che si tenne a Torino alla palazzina della Promotrice delle Belle Arti al parco del Valentino nell’ambito della “II Mostra Internazionale di Edilizia”; nella sala VII erano ospitati rilievi di d’Andrade, Brayda, Mella, Ferrante, Nigra, Pulciano, Vacchetta e Tornielli mentre “tutta una parete della sala [era] occupata da ben 22 vetrine dell’avv. Secondo Pia contenenti fotografie di grande formato di edifizi piemontesi dal periodo romanico, al gotico, al rinascimento: è la più completa raccolta di fotografie della Mostra”., cfr. La Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese, in “Il Momento”, 24 (1926), n.128, 2 giugno, p.5.

[23] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, op. cit.

[24]Giovanni  Cena, Piemonte antico, in “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240. A quella stessa occasione risale anche, come è noto, la prima fotografia della Sindone, realizzata proprio da Pia, che a questa impresa deve – impropriamente – la sua scarsa notorietà.

[25] P. Cavanna, Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione, “Fotologia”, studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier, n.6, 1986,  pp. 34 – 45

[26] Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, Pietro Masoero, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli. Vercelli: Gallardi e Ugo, 1907, p.439 passim, sottolineatura nostra.

[27] Per Masoero infatti si doveva “evitare il pericolo di cadere nel manierato (…) Al vero, unicamente al vero deve l’arte fotografica attingere le sue ispirazioni (…) L’arte fotografica deve avere un’ispirazione, di diventare il documento ispiratore e coadiuvatore dell’arte, con le sue potenti verità.”,  P. Masoero, Arte fotografica, in “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 10 (1898), pp.161-171.

[28] Le 436 lastre allora realizzate sono oggi conservate presso l’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino; per quanto riguarda la datazione va rilevato che essa potrebbe anche essere lievemente antecedente: si vedano alcune delle stampe relative a Ranverso conservate nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che  riportano  una datazione (tarda però) “prima del 1907”  e le due stampe all’albumina relative a San Sebastiano (una vela di volta e la Crocifissione)  comprese nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 22) , non datate ma tecnicamente attribuibili al più tardi ai primi anni del Novecento. Naturalmente già nella seconda metà del XIX secolo frequentarono il  Piemonte anche operatori di altri importanti stabilimenti fotografici quali Brogi e Sommer, ma la loro produzione specifica non è ancora sufficientemente nota e studiata.

[29] Riccardo Brayda,  Porte Piemontesi dal XV al XIX secolo,  1888.  La collaborazione tra i due origina dal precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, Torino, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.  L’opera di Alberto Charvet costituisce un importante esempio della ricchezza del panorama torinese e più ampiamente piemontese di fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e d’architettura con produzioni di costante alto livello. Per Charvet cfr. Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., pp.371-372.

[30]Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino:  Dall’Armi, s.d. [1915], sei cartelle fotografiche corredate di  notizie storico-critiche. Anche Dall’Armi (1881-1928) come Pietro Masoero, era professionalmente molto noto specialmente per la sua attività di ritrattista,  genere nel quale adotterà con grande eleganza e misura  stilemi di matrice pittorialista, conservati ben oltre la loro stagione più efficace nella produzione dello studio, gestito dalla moglie Giovanna Andrate fino al 1951.

 [31]  Di Augusto Pedrini, una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi a Torino nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento, oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”;  Pedrini viene chiamato nel 1932, con Gabinio, a documentare il cantiere della nuova sede della Società Reale Mutua Assicurazioni di Torino.

[32] Cfr. Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P.  Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996.

[33] John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 35-36. Dallo stesso articolo è tratta la citazione di Scott con cui l’autore polemizza utilizzando strumenti e categorie molto deboli e confuse, del resto proprie della maggior parte della pubblicistica di quegli anni, specialmente quella rivolta al grande pubblico dei dilettanti.

[34] Albert Erich Brinckmann, Theatrum Novum Pedemonti: Ideen, entwürfe und bauten von Guarini, Juvarra , Vittone. Düsseldorf: L. Schwann, 1931.

[35] Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte.  Torino: Tip. Anfossi, 1933.

Tornare a Ranverso (2000)

in Walter Canavesio, a cura di, Jaquerio e le arti del suo tempo.  Torino:  Regione Piemonte – Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 2000, pp.  111 – 133

 

 

“Jaquerio si conosce andando  a Ranverso”, ricordava Andreina Griseri nel ricostruire le vicende della fortuna critica del pittore[1], poiché proprio in quel luogo si era compiuta la scoperta dell’autografia delle opere mentre se ne forniva per la prima volta la conferma fotografica[2];  esito piuttosto che avvio delle campagne di documentazione della produzione pittorica del tardogotico piemontese, risultato non occasionale di una collaborazione tra studiosi e fotografi che era andata maturando a partire dagli stessi giorni in cui la nuova tecnica di produzione e riproduzione d’immagini aveva fatto la sua sconvolgente comparsa sul finire del quarto decennio dell’Ottocento, quando alle prime entusiastiche previsioni avevano fatto seguito considerazioni più attente e specifiche, che affrontavano  nel merito l’effettiva possibilità (almeno tecnica) di documentare correttamente le opere d’arte ed i dipinti in particolare.

Già il “Messaggere Torinese” del 23 febbraio 1839 aveva individuato uno dei temi che saranno poi cari a molta pubblicistica ottocentesca, ipotizzando che “il dagherrotipo (…) renderà comuni le più belle opere d’arte di cui non si hanno che copie a caro prezzo e infedeli”[3], e ancora nell’ottobre dello stesso anno Felice Romani aveva ricordato dalle pagine della “Gazzetta Piemontese” che “già si pensa a poter  riprodurre gli oggetti non solo colle loro forme e coi loro rilievi, ma eziandio coi loro colori”[4].  Nel novembre successivo però il fisico Macedoni Melloni, presentando alla Regia Accademia delle Scienze di  Napoli la sua Relazione intorno al Dagherrotipo[5], primo esempio italiano di analisi lucida e scientificamente attrezzata del fenomeno, a fronte della speranza espressa da molti di “ottenere sulle lamine dagherriane, se non i vivi e svariati colori che ci presentano la natura e il genio delle arti, almeno le loro traduzioni esatte in chiaroscuro” affermava: “Ci duole l’animo di non poter confermarli in codeste lusinghe (…) No, gli oggetti colorati non possono rappresentarsi esattamente a chiaroscuro sulle lamine del Dagherrotipo (…) Dunque la copia riprodurrà gli effetti di chiaroscuro dell’originale, in quei casi soltanto, ov’essi derivano da una tinta o colorazione, presso a poco, omogenea in ogni  punto del quadro. Stando alle cognizioni sinora acquistate, par certamente improbabilissimo che si giunga ad ottenere la stessa azion chimica dai colori superiori e inferiori dello spettro solare: tuttavia non intendiamo negare con ciò la possibilità d’imitare un giorno coi processi fotografici il chiaroscuro risultante da varie colorazioni riunite in un sol quadro; e fors’anche, gli stessi colori.” La discussione del problema, almeno in Italia  pare per lungo tempo limitarsi ai soli aspetti tecnici, tanto che  le successive messe a punto dei procedimenti all’albumina e al collodio sono considerate progressivamente risolutive e in alcune rassegne dedicate alle sue applicazioni si riconosce che “felicemente oggi la riproduzione della pittura è uno de’ migliori attributi della fotografia”[6], dimostrando non tanto una scarsa conoscenza dei processi fotografici quanto una ormai acquisita insensibilità ai problemi posti dalla trascrizione dell’opera, propria di una cultura che si avvia a dimenticare il significato di traduzione per adottare progressivamente quello di riproduzione e poi di copia, in un  processo di slittamento semantico che corrisponde ad una sostanziale perdita di comprensione critica, certo in parte dovuta alla concezione positivistica del processo fotografico quale generatore di immagini obiettive, per definizione fedeli  e in quanto tali preferibili alle modificazioni introdotte dal lavoro dell’incisore: “Les reproductions de tableaux sont devenues des notes indispensables à ceux qui collectionnent l’oeuvre d’un maître – afferma Philippe Burty nel 1861- elles traduisent mot à mot ce que le burin (…) modifie toujours”[7], mentre alcuni anni più tardi, nel 1876,  Hermann Vogel riconosce ancora il maggior valore, almeno  artistico, dell’incisione di  traduzione, poiché la fotografia è sì in grado di fornire riproduzioni fedeli delle opere d’arte ma “cette reproduction n’est pas aussi artistique que celle donnée par la gravure (…) elle suffit pour faire rapidement connaître partout ce qui est nouveau. La gravure vien ensuite et conserve sa valeur” , per proseguire quindi, in una ingenua commistione di presunta oggettività ed effettiva manipolazione dell’immagine, ricordando che “les négatifs d’apres peinture à l’huile exigent la collaboration du retoucheur chargé de répartir entre les tons photographiques les proportions faussées par l’effet inégal des couleurs. Cette retouche peut être mal faite, si elle est exécutée par une main  inexperimentée. La plus habile est celle de l’artiste qui a peint l’original. Dèjà des peintres connus se sont essayés avec succès à la retouche…”[8]. Sono le stesse difficoltà a cui aveva fatto cenno Paul Liesegang nel 1864: “Trattandosi di quadri ed in particolare di quadri ad olio, s’incontrano spesso gravi difficoltà per ottenere un complesso armonioso”[9], e ancora all’inizio del nuovo secolo Paul N. Hasluck confermava che “i quadri riprodotti con lastre ordinarie vengono da queste talmente falsati, che il risultato merita decisamente la qualifica di pessimo  [ragione per cui] vanno riprodotti con lastre ortocromatiche combinate col filtro.”[10]

Come si è detto, ancora a questa data il problema sembra essere circoscritto alle sole questioni  tecniche; non si pongono esplicitamente questioni di ordine critico, linguistico: ciò a cui si tende è lo statuto della duplicazione perfetta[11] e la migliorata resa dei valori cromatici derivante dall’aggiunta di sensibilizzatori ottici alle emulsioni porta autorevoli studiosi a sottolineare acriticamente l’enorme valore assunto dalla fotografia nello studio della storia dell’arte. Così Adolfo Venturi nella Premessa al Catalogo 1887 della casa editrice fotografica Adolphe Braun riconosce come “inventata la fotografia, la critica fece un gran passo, allora furono resi possibili i riscontri diretti tra l’una e l’altra opera di un autore, e il metodo si fece più corretto, più fino e sicuro. Mentre tutte le discipline umane delle scienze naturali imparavano il rigore del metodo, anche la storia dell’arte si rinnovò in gran parte mercè il suo nuovo strumento di osservazione”[12], dichiarando una aspirazione allo statuto scientifico della nuova disciplina che ritroviamo circa negli stessi anni anche in Bernard Berenson per il quale  “When this continous study of originals is supplemented by isochromatic photographs, such comparision attains almost the accuracy of the physical science”[13], dimostrandosi lontano da alcune isolate, autorevoli posizioni come quella di Heinrich Wölfflin, ma in perfetta sintonia con le preoccupazioni delle maggiori case fotografiche che per adeguarsi ai continui e radicali avanzamenti tecnologici erano portate a rinnovare temi e soggetti già presenti in catalogo.[14]

Ciò che affascina e interessa è insomma la pura, e presunta, capacità tecnologica di duplicazione del reale e proprio su questa si misurano le prime iniziative, anche piemontesi, legate a questo particolare campo di applicazione della fotografia che in Italia a partire dalla metà del XIX secolo poteva ormai contare su imprese fotografiche di sempre maggiore rilevanza, dagli Alinari a Sommer.

Nella nostra regione le prime realizzazioni non sporadiche datano a partire dagli anni ‘60 con l’ampio repertorio di riproduzioni di disegni italiani raccolto  dal biellese Vittorio Besso a partire dal 1868, al quale si deve anche la documentazione di quei “capolavori di pittura e d’architettura che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario”[15] di cui riferisce un articolo della “Gazzetta Biellese” del 1865, ma particolarmente significativa è la comparsa delle prime riproduzioni fotografiche di dipinti comprese nell’Album della Promotrice di Belle Arti di Torino del 1863: sei albumine realizzate da Francesco Maria Chiapella.[16] Nonostante le riserve legate alla meccanicità del procedimento, che ne escludeva l’artisticità,  ed alla non eccellente qualità di stampa di alcuni esemplari, questo “album con magnifiche fotografie” viene considerato una “bella novità” ripresa ancora negli anni successivi, dopo l’interruzione del 1864, affidando l’incarico ad alcuni dei più noti fotografi torinesi quali Luigi Montabone, Alberto Luigi Vialardi, Fotografia Subalpina e Cesare Bernieri, che si era già distinto nel 1866 con un album fotografico dedicato a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato.[17]

La fotografia di opere d’arte quindi muove in Piemonte i suoi primi passi rivolgendosi specialmente al contemporaneo, intesa a sostituire i processi di stampa calcografica e litografica quale mezzo più rapido ed economico, piuttosto che  proporsi o essere utilizzata quale strumento di documentazione e di studio del patrimonio storico artistico[18].  Perché questo percorso si compia debbono giungere a maturazione le riflessioni e le esperienze, i contatti tra cultura artistica e fotografica che prendono forma non tanto col rapporto tra Bernieri e le opere neomedievali di gusto troubadour di Massimo d’Azeglio[19] quanto con Carlo Felice Biscarra ed ancor più con Federico Pastoris che vedeva nella fotografia un efficace strumento ausiliario alla sua aspirazione verista, quella stessa che gli “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[20] Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile le prime applicazioni – pur non sistematiche[21] – della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico piemontese che ancora alla fine del secolo si giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[22], riproponendo tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra”[23] e la cui infondatezza era stata tradotta in evidenza espositiva dalla realizzazione del Borgo Medievale nel 1884, con “una ricchezza e una varietà che i sussidi grafici e fotografici non avevano ancora potuto dare e in cui erano compresi i più illustri esempi della pittura e della scultura tardomedievale piemontese, che non erano stati oggetto, ancorché di riproduzione, nemmeno di studio.”[24] Intorno  e ancor di più in conseguenza di  questa realizzazione[25] operarono sia fotografi professionisti come Vittorio Ecclesia, che lavora tra l’altro a Fenis senza però dedicare agli affreschi del castello quella attenzione minuziosa con cui leggerà nello stesso periodo i cicli di Issogne, sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[26], che sarà per lungo tempo collaboratore di D’Andrade, al quale si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione dello studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[27]

Esemplari in questo senso sono le fotografie realizzate da Nigra in San Bernardino a Lusernetta nel 1885 e quelle fatte nella primavera del 1887 nella chiesa di San Pietro ad Avigliana, a Ranverso e verosimilmente anche in San Pietro a Pianezza[28], qualitativamente non eccelse e con scarsa attenzione per una illuminazione ottimale degli affreschi, poco più che appunti visivi su cui condurre successivamente gli studi, mentre le immagini realizzate nei decenni successivi, almeno fino agli anni Trenta, dimostrano un più maturo controllo della strumentazione ed il ricorso sapiente a lastre di maggiore formato.

Anche per Nigra, come già era stato per il “verista” Pastoris interpretato da Stella ma seguendo forse un percorso inverso,  “la conoscenza della storia dei monumenti antichi contribuisce ad aumentare la suggestione che ne emana ed a completare il godimento del loro valore estetico, facendo nello stesso tempo meglio comprendere lo spirito dei tempi”[29] e l’inevitabile oggettività fotografica diviene strumento insostituibile di questo progetto culturale.

Accanto a Nigra e, in misura minore,  ad Ottavio Germano[30] la figura più rilevante è però quella di Secondo Pia[31], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione. La cronologia delle sue campagne è relativamente ben nota, ma certo l’attuale campagna di catalogazione condotta sul Fondo donato dal figlio Giuseppe al Museo Nazionale del Cinema consentirà in futuro di definirne meglio l’operato e forse anche di correggere la datazione di alcune riprese, in alcuni casi  stabilita da Pia molti anni dopo la loro realizzazione. Ciò che qui però interessa sottolineare è come il suo percorso di indagine percorra inizialmente le stesse canoniche tappe seguite da Nigra circa gli stessi anni: da Avigliana (1886)  a Ranverso (1887)  a Pianezza (1889) per compiere prima dello scadere del secolo una ricognizione esaustiva dei cicli pittorici del Quattrocento piemontese e in parte aostano: Issogne, Marentino, Manta, Fenis,  Villafranca Piemonte, Forno di Lemie, Roletto, Bastia, Chieri, Piobesi e Piossasco, in una ricerca sostanzialmente isolata, certo condotta a partire da indicazioni di numerosi e diversamente qualificati informatori, ma spesso in anticipo sui tempi della ricerca storico artistica, tenendosi a volte a ridosso  dei primi interventi di restauro[32]. Questo suo impegno viene giustamente celebrato specialmente in ambito torinese già a partire, quando espone circa 600 fotografie e Giovanni Cena gli dedica un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[33]

Cena conferma ciò che  il catalogo della mostra ed ancor più le pagine del giornale dell’Esposizione dimostrano: quanto ridotto fosse ancora l’interesse per la pittura quattrocentesca piemontese nonostante una prima disponibilità di segnalazioni e studi specifici, prevalentemente dedicati a Ranverso (da Gamba e Brayda a Cena stesso) ma anche al Pinerolese (E. Bertea) ed a San Giovanni ai Campi di Piobesi, studiato da Nigra in occasione della Esposizione torinese del 1890.[34]

Questa scarsa considerazione della pittura tardogotica piemontese emerge dalla stessa regia con cui Pia impagina le immagini di Ranverso nei due album dedicati rispettivamente “A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia” (1907) ed “A Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia principe d’Asti” (post 1920)[35]; sia nel primo che – specialmente – nel secondo gli affreschi jaqueriani sono collocati buoni ultimi nella sequenza di presentazione, dopo i particolari scultorei e gli stessi arredi, dopo la minuziosa documentazione e ricomposizione fotografica del polittico di Defendente Ferrari.

Ad ulteriore conferma di questa condizione di ridotta visibilità e rilevanza monumentale ricordiamo che neppure gli operatori degli Alinari, in Piemonte e Valle d’Aosta tra luglio e ottobre del 1898 comprenderanno nella loro campagna di documentazione luoghi come Ranverso o la Manta[36]; solo gli affreschi del castello entreranno a far parte del loro repertorio a partire dal catalogo del 1925 [37], mentre gli operatori dell’Istituto di Arti Grafiche di Bergamo pare siano a  Ranverso e in San Sebastiano a  Pecetto prima del 1907 ma forse, più correttamente, entro il 1911[38].

Nel 1914 infine giunge a compimento sotto la direzione di Cesare Bertea la pluridecennale vicenda dei restauri di Ranverso, i cui  importanti esiti sono immediatamente resi noti dalla pubblicazione negli “Atti della Società di Archeologia e belle Arti per la provincia di Torino” , corredando il testo con una serie di tavole fotografiche, dovute a Giancarlo dall’Armi[39], che nell’urgenza della scoperta mostrano il cantiere di restauro ancora non ultimato e rivelano finalmente la firma di Jaquerio. Questa impresa risulta importante non solo in sé ma anche quale momento significativo di una collaborazione precisa e fruttuosa tra studiosi, organismi di tutela e fotografi particolarmente sensibili alla conoscenza e divulgazione del patrimonio artistico e architettonico, collaborazione già per certi versi anticipata dal rapporto tra Riccardo Brayda e Mario Gabinio, ma che assumerà negli anni successivi forme più precisamente connotate: dalle cartelle dedicate dallo stesso Dall’Armi al Barocco  Piemontese, con testi di Cimbro Gelati, Carlo Camerano, Emanuele Provana di Collegno, Melchior Pulciano e Paolo R. Deville[40], alla collaborazione un poco più tarda di Augusto Pedrini con  Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi.[41]

La scoperta degli affreschi sollecita altri autori a tornare a Ranverso: Secondo Pia, che fotografa le pareti del presbiterio nel 1920,  e Mario Gabinio[42], che vi ritorna molti anni dopo le prime visite compiute con l’Unione Escursionisti per realizzare  una ventina di immagini che comprendono anche le nuove scoperte, e costituiscono, insieme a quelle di Santa Maria di Vezzolano, le sole testimonianze dell’interesse di questo autore per la storia della pittura piemontese.

Nei due decenni successivi, anche sulla scia di una bibliografia più generosa e attenta che consente ad alcune opere piemontesi di raggiungere una prima notorietà anche al di fuori degli ambiti specialistici o locali[43], le campagne fotografiche si estendono sia per iniziativa dei grandi studi nazionali (Alinari, Istituto Italiano di Arti Grafiche) sia di committenti istituzionali come le Soprintendenze e l’Ordine Mauriziano, che fa rifotografare Ranverso nel 1929, sia infine per un’importante istituzione internazionale quale la Frick Reference Library di New York, che affida a Mario Sansoni, uno dei più importanti e noti professionisti italiani del settore, l’incarico di documentare le testimonianze artistiche europee. La campagna piemontese, condotta negli anni 1934-1935 in compagnia di Helen Frick, risulta estremamente approfondita e dettagliata, singolarmente attenta anche agli episodi allora meno noti e studiati,  in questo confrontabile solo col precedente di Pia, verosimilmente condotta a partire da informazioni che presuppongono non solo la conoscenza della letteratura specifica.[44]  La documentazione, anche qui, è condotta in modo esemplare e rigoroso, con riproduzioni  che prediligono l’insieme dell’opera senza mai isolare il motivo né tanto più tentare trasposizioni personalizzate, alla ricerca di temi o elementi coi quali ottenere una restituzione narrativa dell’opera, letteraria o critica che fosse, in ciò mostrando non tanto di rifarsi ad un approccio ancora sostanzialmente ottocentesco, in debito coi  modi rappresentativi delle stampe di traduzione[45], quanto di aderire compiutamente al ruolo richiesto dal progetto della committenza, quello di raccogliere una documentazione precisa ed esaustiva, utile strumento e supporto per il conseguente lavoro degli storici.

Nei luoghi visitati da Sansoni si muovono circa negli stessi anni giovani studiosi torinesi come Umberto Chierici (affreschi nella cappella del  castello della Manta, 1937ca)  e specialmente Augusto Cavallari Murat, che in preparazione del suo intervento al Congresso storico di Asti del 1933 fotografa gli affreschi in San Giovanni ai Campi, a Ranverso e in San Pietro a Pianezza[46], preludio della collaborazione al grande progetto storiografico ed espositivo che Vittorio Viale metterà a punto nel 1939 con la mostra dedicata a Gotico e Rinascimento in Piemonte, realizzazione “che costituisce, ancora oggi, un riferimento insostituibile per ogni storico dell’arte piemontese”[47]. Qui, nello scenografico riallestimento delle sale  vengono riproposti, in ingrandimenti fotografici realizzati da Riccardo Scoffone, “Re David, una delle sei figure che ancora ornano la parete sinistra del presbiterio [mentre] su uno stesso piano è un’altra pittura della parete di fronte, là dove sotto le storie di S. Antonio, ora purtroppo molto svanite, il Jaquerio con una stupefacente realismo ha dipinto due contadini che recano al Santo l’offerta del simbolico animale.”[48]

La fotografia ha ormai raggiunto lo statuto di consapevole strumento di conoscenza e di salvaguardia del patrimonio artistico ed architettonico, costituendo a volte purtroppo anche l’ultima consolazione di fronte alle irreparabili perdite: nel 1931 viene istituita la Fototeca Municipale  di Torino mentre Viale, dal 1930 direttore del Museo Civico, predispone un primo nucleo di archivio fotografico che si propone di trasformare in Archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte[49].  A partire da questa data la raccolta organica di documentazione d’arte non spetta più solamente all’iniziativa di singoli studiosi come Lorenzo Rovere, ma diviene istituzionalizzata coinvolgendo e formando intere generazioni di fotografi piemontesi, torinesi in particolare.

Ciò che resta invece ancora oggi parzialmente inadeguata è la nostra capacità di guardare a queste immagini come documenti complessi e non come pure tracce del referente, mettendo da parte ogni superficiale pretesa di oggettività della riproduzione per riconoscerne fruttuosamente lo statuto di traduzione quando non di trascrizione delle opere.

 

Note

[1]Andreina Griseri, Ritorno a Jaquerio, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo  Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni Romano.. Torino:  Città di Torino, Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.3-29.

Per aver contribuito con suggerimenti e precisazioni alla realizzazione di questa ricerca, che si propone quale prima occasione di ricognizione di un tema vasto e complesso, desidero qui ringraziare Giovanni Romano e  Virginia Bertone;  per la consueta disponibilità dimostrata nel favorire l’accesso alle fonti fotografiche ringrazio inoltre Rosanna Roccia e Annamaria Stratta, Archivio Storico del Comune di Torino; Daniele Jalla, Nunzia Mangano e Adriana Viglino, Musei Civici di Torino; Donata Pesenti e Cristina Monti, Museo Nazionale del Cinema di Torino; Lino Malara e Paola Salerno, Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte; Elena Ragusa, Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte.

[2]Cesare Bertea , Gli affreschi di Giacomo Jaquerio nella chiesa dell’abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino”, 8 (1914), fasc. 3, pp.194-207, estratto, con fotografie di Giancarlo dall’Armi poi ripubblicate per la prima volta nel 1979 da Enrico Castelnuovo, Giacomo Jaquerio e l’arte nel ducato di Amedeo VIII, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, op.cit. pp. 30-57 (pp.35-41)  e quindi in parte riprese da Guido Curto, S. Antonio di Ranverso presso Buttigliera Alta: i restauri degli affreschi, in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp.284-294.

[3] Questo articolo venne segnalato per la prima volta da Maria Adriana Prolo, Alcune notizie sulla dagherrotipia a Torino, in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp.13-16, ed è stato poi ampiamente ripreso in numerosi studi relativi alle origini della fotografia in Italia. Il richiamo alla “fedeltà” della riproduzione fotografica rimanda al dibattito, ancora vivo e fecondo in quegli anni, relativo alla distinzione tra traduzione e copia, cfr. Ettore Spalletti, La documentazione figurativa dell’opera d’arte, la critica e l’editoria nell’epoca moderna (1750-1930). In Giovanni Previtali, a cura di, L’artista e il pubblico, “Storia dell’arte italiana”, I. 2.Torino: Einaudi, 1979, pp. 415-484.

[4] Felice Romani, Fotografia. Primo Daguerrotipo in Torino, “Gazzetta Piemontese”,  42 (1839), n.234, 12 ottobre, ora in Paolo Costantini, Italo Zannier, Cultura fotografica in Italia: Antologia di testi sulla fotografia 1839-1949. Milano: Franco Angeli, 1985, , pp.69-71.

[5] Ora in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp.212-232. Per la fortuna editoriale del testo di Melloni cfr. Costantini,  Zannier, op.cit., p.88 nota 2; nello stesso volume, al quale si rimanda anche per una buona antologia di testi relativi alle prime applicazioni della fotografia,  è compresa (pp.96-109) anche la trascrizione della successiva, analitica relazione di Melloni dedicata alle Esperienze sull’azione chimica dello spettro solare e loro conseguenze.

[6] Luigi  Corvaja,  La fotografia e le sue applicazioni, I, “Panorama Universale”, 30 giugno 1855, p.107, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta: Musumeci Editore, 1980,  p.51.

[7] Philippe  Burty, La photographie en 1861,  “Gazette des Beaux-Arts”, 9 (1861), pp.241-249.

[8] Hermann Vogel, La photographie et la chimie de la lumière. Paris: Librairie Germer Baillière, 1876, pp.217-218. Ricordiamo che Vogel, docente di chimica fotografica alla Technische Hochschule di Berlino, fu il primo maestro di Stieglitz, dal 1883 al 1887, cfr. William Innes Homer, Alfred Stieglitz and the American Avant-Garde. Boston: New York Graphic Society, 1977, pp.11-13.

[9]Paul Liesegang, Manuale illustrato di fotografia; prima traduzione italiana per Antonio Mascazzini. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1864, p.225.

[10]Paul N. Hasluck, La fotografia; prima traduzione italiana a cura di Giulio Sacco. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1905, p.518. Anche altri autori, dopo aver ricordato che “i risultati che possono dare le lastre ordinarie sono addirittura pessimi” confermavano che “i veri amatori d’arte preferiscono una buona incisione ad una riproduzione fotografica (…) ricorrendo invece a lastre ortocromatiche (…) la fotografia si eleva  al di sopra di qualsiasi altro genere di riproduzione”, Carlo Bonacini, La fotografia ortocromatica, Milano, Hoepli, 1896,  p.237-238, ma tutto il paragrafo dedicato alla Riproduzione delle pitture, pp.237-247, costituisce una interessantissima documentazione delle ragioni tecnologiche di un lavoro di riproduzione che voglia restituire “non soltanto una traccia qualunque del disegno (…) ma il carattere artistico della composizione”.

Nonostante gli avanzamenti costituiti dall’uso delle lastre ortocromatiche la manualistica consigliava ancora di procedere ad una “pulitura” preliminare del dipinto mediante spugnature con una emulsione a base di bianco d’uovo sbattuto, acqua e glicerina, cfr. E. J., Reproduction des tableaux,  “Photo-Gazette”, 11 (1901), n.7, 25 maggio, pp.138-139.

[11]Le preoccupazioni di correttezza nella resa proporzionale dei volumi o della cromia evidenziate da Jakob Burckardt  e Hans Tietze (cfr. Wolfgang M. Freitag, Early Uses of Photography in the History of Art, “Art Journal”, 39 (1979/80), n. 2,  winter, pp.117-123, in particolare alla p.122) erano sostanzialmente estranee al dibattito italiano. Per quanto sinora noto Pietro Masoero è il solo fotografo a riflettere in questi anni su alcuni  problemi di lettura fotografica delle opere d’arte; si veda ad esempio l’articolo dedicato a La dilatazione dei supporti positivi, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 11 (1899), pp.74-78 e le osservazioni fatte a proposito della “Madonna col Bambino”   dell’Ospedale di Vercelli, che Masoero attribuisce a Cesare Lanino: “Fu, questa tavola, anche molto ritoccata e la fotografia, nel riprodurla svelò tutta la parte più recente della pittura, che non era ben visibile all’occhio umano.”, Pietro Masoero, La Scuola Pittorica Vercellese 1460-1586, manoscritto, p.74. Per la sua attività di studioso e divulgatore rimando a P. Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, aprile – luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154.

[12] Citato in Spalletti, op.cit., p.471. Lo stesso Venturi molti anni dopo definirà la fotografia come “il migliore mezzo di riproduzione che distrugge la ragione d’essere della incisione e della calcografia.”, cfr. Anton Giulio Bragaglia, L’arte nella fotografia:  interviste a Ernesto Biondi, Adolfo Venturi, Aristide Sartorio, Gustavo Bonaventura, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n.2, febbraio, pp.17-19 (p.18).

[13]Da un appunto datato 14 ottobre 1893, citato in Freitag, op.cit., p.119. Più accorte e consapevoli saranno le considerazioni fatte da Berenson cinquant’anni più tardi: “Per cominciare dobbiamo scartare l’idea che la fotografia riproduca un oggetto come è, quale essenza oggettiva di alcunché. Una tal cosa non esiste. All’«uomo medio» non è stato mai detto che il suo modo di vedere ha una lunga storia alle spalle, utilitaria, pratica, perfino cannibalesca (…)  Facendo debita attenzione all’illuminazione, e collocando la macchina a un determinato angolo con l’oggetto, voi potete, entro certi limiti, farle riprodurre l’aspetto di quell’oggetto che risponde al vostro fine momentaneo, senza dubbio rispettabile ma con una buona dose di  parzialità, (…) Il compito di fotografare un dipinto è pressoché insormontabile dov’è questione di conservare i valori, i rapporti e i passaggi di colore. Per altro verso è più facile, molto più facile che per gli oggetti a tutto tondo o in altorilievo.(…) L’esperienza mi spingerebbe a dire: più sono scadenti i dipinti, e migliore è la fotografia.”, Bernard Berenson, La fotografia, in Id., Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva. Firenze:  Electa, 1948, pp.327-338.

[14]Carlo Brogi, Circa la proposta di colpire con una tassa le riproduzioni fotografiche dei monumenti nazionali, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 4 (1892), pp.101-103. Lo stesso Brogi  molti anni più tardi  ribadiva che “le fotografie hanno giovato immensamente allo studio della Storia dell’Arte (…) ed hanno servito a divulgare (…) l’esistenza spesso ignorata di tanti patrii tesori.”, Carlo Brogi, A proposito del divieto fatto ai fotografi di trarre riproduzioni nei Musei e nelle Gallerie dello Stato; prefazione di Giovanni Rosadi. Firenze: Tip. E. Ariani, 1904, p.10.

[15] P. Cavanna, Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese. In Antichità ed arte nel Biellese, atti del convegno (Biella, 14-15 ottobre 1989) a cura di Cinzia Ottino, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, N.S., 44 (1990 -1991), monografico, pp. 199-216 (p.203).

[16]Cfr. Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino,  “Fotologia”, 8 (1991), vol.13, primavera/estate, pp.30-39. I testi a corredo degli album costituiscono anche una interessante testimonianza del dibattito piemontese intorno alla questione del valore artistico della fotografia e delle sue relazioni con la pittura; si vedano in particolare i contributi di Carlo Felice Biscarra (1860) e di Federico  Pastoris (1862).

[17]ibidem, p.36. Ricordiamo qui che si deve a Bernieri anche l’importante lavoro di documentazione del cantiere del Canale Cavour, cfr. P.Cavanna, Culture photographique et societé en Piemont: 1839-1998, in Photographie, ethnograhie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), n. 2/4, monografico 1995, pp.145-160.

[18]è noto che la documentazione urbana e di architettura anticipa, per molteplici ragioni, non solo tecniche, quella relativa alla pittura; cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990; P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, in “Bollettino d’Informazioni” del Centro di ricerche informatiche per i Beni Culturali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Quaderno VIII,  Pisa: Scuola Normale Superiore, 1998, 49-55.

[19] Quando Massimo d’Azeglio disegna San Giorgio e il drago da Fenis, nel 1825 non è interessato tanto ad una “lettura puntuale del testo (…) quanto a trarne uno spunto per una illustrazione di gusto troubadour”, Franca Dalmasso, Massimo d’Azeglio, 1825. San Giorgio e il drago (da Fenis), in Giacomo Jaquerio, op.cit., p. 327.

[20]Antonio Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891. Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio, op. cit., pp.325-326, da leggersi parallelamente a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade, op.cit., pp.19-43.

[21] P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo d’Andrade, op. cit., pp.107-125.

[22]Antonio Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp.106-110 (p.107); n.22, pp.171-175; n.23, pp.177-179. Del permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” ha parlato ancora in anni recenti Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela  di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp.11-32 (p.23).

[23]Francesco Gamba, L’arte antica in Piemonte, 1880,  citato in Maggio Serra, Uomini e fatti, op.cit., p.29.

[24] Ivi, p.36.

[25]Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in  Fotografi del Piemonte, op.cit.; Alfredo d’Andrade, op.cit.

[26]Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione Rosanna Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonteop. cit.,  pp.17-20.

Una prima schedatura del Fondo Nigra conservato presso i Musei Civici di Torino è stata condotta   per la redazione delle due tesi di laurea dedicate a Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra, redatte da Cristina Ghione, a.a. 1993-1994 e Simona Paggetti, a.a. 1994-1995. Oltre al Fondo Nigra i Musei Civici conservano anche 249 stampe di questo autore comprese nel Fondo D’Andrade,  qualche centinaio di negativi su lastra compresi nell’archivio corrente della Fototeca e alcune stampe sciolte nel Fondo Rovere. Altre fotografie (negativi e positivi) fanno parte dell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte mentre le immagini di argomento familiare sono conservate presso la Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Torino, a cui pervennero per lascito testamentario nel 1984. Per il ruolo svolto da Nigra nel mantenere in area piemontese un rapporto fecondo con la tradizione della “scuola storica”, cfr. Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte.  Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

Il riferimento metodologico costituito da Toesca  è stato analizzato da Giovanni Romano, Pietro Toesca a Torino,  “Ricerche di Storia dell’arte”, 21 (1996), n.59, pp.5-19 ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 1-21.

[27] La prima edizione di The Seven Lamps venne pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in P.Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[28] Musei Civici di Torino, Fondo D’Andrade, rispettivamente F43-45; F55-62; F.71-78. Le immagini relative a Pianezza non sono datate ma le modalità di realizzazione fanno supporre una cronologia di realizzazione corrispondente agli altri soggetti.

[29] Carlo Nigra, Torri, castelli e case forti del Piemonte dal 1000 al secolo XVI, I, Il Novarese. Novara: E. Cattaneo, 1937, p.5.

[30] Su Ottavio Germano, che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade, op. cit. ed inoltre Claudia Cassio, ad vocem, in Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola  Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino:  Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77 (p.77, n.23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992. Sulla attività fotografica legata alle prime attività di tutela piemontese molto resta ancora da conoscere ma va segnalata almeno la presenza a Palazzo Madama di un vero e proprio laboratorio di sviluppo e stampa gestito da Germano e Nigra, come si ricava da una lettera datata 3 gennaio 1892: “Favorisco farmi sapere se prima di tornare a Sartirana puoi venire a Palazzo Madama a sviluppare le rimanenti lastre già impressionate e fare altre stampe.”, citato in Ghione, op.cit., p.87.

Sulle necessità di definire compiutamente i compiti e le metodologie operative dei gabinetti fotografici degli Uffici regionali si esprimerà Pietro Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica istruzione,  “L’Arte”, 7 (1904), pp.80-82, inserendosi in un dibattito più ampio, anche internazionale,  a proposito della necessità di attuare raccolte sistematiche di documentazione fotografica, i cosiddetti Musei Documentari; cfr. Paolo  Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990, in  particolare alle pp.58-72;  P.Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’impegno”, 11 (1991), n.3, dicembre, pp.41-48.

La particolare attenzione di Toesca per le possibilità consentite dalla documentazione fotografica, già espressa in una lettera a Secondo Pia del 1907 (cfr. Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia.  Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, p.31) lo porterà nel secondo dopoguerra a curare i volumi della collana “Artis Monumenta photographice edita”, della quale usciranno i titoli dedicati a San Pietro al Monte a Civate  ed alla Cappella di San Silvestro in Santa Croce a Firenze mentre rimarrà inedito il terzo, sulla Basilica Superiore di Assisi, tutti con fotografie di Mario Sansoni e Carlo Bencini, cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 57-198 (pp.158-159); Paola Callegari et alii, La Fototeca Nazionale. Roma:  Ministero per i Beni Culturali, ICCD, 1984.

[31]Oltre al testo indicato alla nota precedente si vedano: Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale del Cinema, 19 ottobre-19 novembre 1989) a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò. Torino: Allemandi & C., 1989; P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, op. cit.; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia: Immagini, di Asti e dell’Astigiano, catalogo della mostra (Asti, Archivio Storico, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998) a cura di Gemma Boschiero. Asti: Archivio Storico del Comune di Asti, 1998.

[32]Si vedano le due riprese, datate 1902, con “dettagli di affreschi recentemente scoperti”  relativi rispettivamente a San Eutropio e San Dionigi dalla terza cappella a sinistra di Ranverso, conservate nel Fondo Pia del Museo Nazionale del Cinema, F30992, F3099; cfr. anche Giovanni Romano, Storie della vita della Vergine. Buttigliera Alta, Sant’Antonio di Ranverso. Giacomo Jaquerio, 1402-1410?, in Giacomo Jaquerio, op.cit., pp.393-397.

[33]Giovanni Cena, Piemonte antico, in “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240. Ancora oggi la figura di Pia è ricordata nelle poche storie della fotografia italiana solo in virtù della sua notorietà quale primo fotografo della Sindone e Presidente della Società Fotografica Subalpina (1908-1923).

[34]Carlo Nigra, La chiesa di S.Giovanni di Piobesi, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, 11 (1927), n.3-4, consultato in estratto. La redazione del saggio nasceva da una prima visita condotta nel 1889, quando ancora “l’abside era completamente coperto da un sottile intonaco bianco rosato sotto del quale potei intravedere tracce di dipinti”, p.7. Alcune delle riprese effettuate da Nigra nel 1889-1890, ma in una stampa più tarda (1927?), sono conservate nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 20).

[35]Secondo Pia, Ricordi fotografici di insigni monumenti del Piemonte, 1907; Id., Riproduzioni di antichi monumenti nel Piemonte d’Arte Lombarda e Gotica, 1920ca; I due album, conservati alla Biblioteca Reale di Torino, comprendono rispettivamente 32 e 73 stampe all’albumina di diverso formato e datazione, così distribuite: 1907, Sant’Antonio di Ranverso (1-11); Santa Maria di Vezzolano (12-32).  Vezzolano (1-36); Ranverso (37-73).

L’attività pur eccezionale di Secondo Pia va collocata nel ricco contesto di autori piemontesi , solo di rado professionisti,  particolarmente attenti all’utilizzo della fotografia quale strumento di conoscenza e di divulgazione del patrimonio artistico locale; ricordiamo qui almeno i nomi di Pietro Boeri e Pietro Masoero, di Francesco Negri e di Alberto Durio (entrambi in relazione con Samuel Butler), di alcuni religiosi come F. Origlia, A. Rastelli e G. Valle, tutti legati a Negri, Edoardo Barraja, Eugenio Olivero, Alessandro Roccavilla ed ancora Mario Gabinio, Giancarlo dall’Armi ed Augusto Pedrini, per i quali ultimi la documentazione d’arte assumeva modi e impegni che esulavano dalla pura pratica professionale. 

[36]A far comprendere questi soggetti nel catalogo Alinari non era evidentemente servita la notorietà derivante dalla loro riproposizione al Borgo Medievale, né le successive attenzioni critiche, cfr. Elena Ragusa, Fortuna degli affreschi della Manta, in Giovanni Romano, a cura di, La sala baronale del castello della Manta. Milano:  Olivetti, 1992, pp.73-80.

[37]Per le campagne Alinari del 1898 cfr. Mario Sansoni: Diario di un fotografo,  “AFT”, 3 (1987), n.5, giugno, pp.50-51; [F.lli Alinari], Piemonte. Catalogo delle fotografie di opere d’arte e vedute. Firenze: Alinari, s.d. [1925].

[38]Si vedano alcune delle stampe relative a Ranverso conservate nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che riportano appunto una datazione (tarda però) “prima del 1907”  e le due stampe all’albumina relative a San Sebastiano (una vela di volta e la Crocifissione) comprese nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 22) , non datate ma tecnicamente attribuibili al più tardi ai primi anni del Novecento. In realtà la ripresa n.7441 “1792 Facciata dell’antico Ospedale dell’Abbazia” mostra l’edificio addossato alla facciata dell’Ospedale in uno stato certamente successivo al marzo 1907, data dell’ingiunzione ministeriale all’abbattimento della porzione di parete inglobante il pinnacolo di sinistra. (Daniela Brusaschetto, Silvia Savarro,  Cesare Bertea (1866-1941): note sul restauro in Piemonte nei primi decenni del Novecento. Tesi di laurea, Politecnico di Torino, Corso di laurea in Architettura, 2000, relatori Maurizio Momo, Daniela Biancolini, pp. 223 – 224). Le riprese potrebbero allora riferirsi tutte alla campagna realizzata per il padiglione piemontese alla Mostra Etnografica di Roma del 1911.

[39]  Bertea , Gli affreschi, op.cit. Come risulta da un primo confronto tra le tavole qui pubblicate e le stampe conservate nel Fondo Dall’Armi dell’Archivio Storico della Città di Torino e nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte, il corpus realizzato dal fotografo è più esteso del pubblicato da Bertea, ma occorrerà un confronto con le lastre appunto conservate nel Fondo Dall’Armi per una più puntuale verifica di questa importante campagna di documentazione. Per Dall’Armi cfr. Dario Reteuna, Primario studio. Da Dall’Armi a Cagliero sessant’anni di vita a Torino.   Torino: Regione Piemonte, Fondazione Italiana per la Fotografia, 1998, che costituisce un primo sommario tentativo di presentazione dell’attività di questo importante professionista torinese.

[40] Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino: Dall’Armi, s.d. [1915], sei cartelle fotografiche corredate di  notizie storico-critiche.

[41] Di Pedrini oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”.

[42] Le immagini, non datate,  sono comprese negli album A34 ed A10 del Fondo Gabinio della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino; una prima occasione documentata di visita a Ranverso risaliva al 4 novembre 1906, in occasione di una gita compiuta con l’Unione Escursionisti, a cui Gabinio apparteneva, sotto la guida di Riccardo Brayda; una delle immagini realizzate in quella occasione venne utilizzata dallo stesso studioso per la copertina del suo Una visita a Sant’Antonio di Ranverso (Valle di Susa).  Torino: Tip. Massaro,  1906. Per una più estesa discussione dei rapporti Brayda / Gabinio  cfr. P. Cavanna, Mario Gabinio, vita attraverso le immagini, in Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996, pp. 7- 35.

[43]Piemonte, “Attraverso l’Italia”, I, Milano, Touring Club Italiano, 1930 comprende due riproduzioni degli affreschi in San Sebastiano a Pecetto (tavv.124, 125) mentre di Ranverso è pubblicata solo l’immagine del prospetto della chiesa.

[44]Mario Sansoni (1882-1975) dopo un primo periodo di attività come operatore Alinari si mette in società con Giulio Bencini nel primo dopoguerra e quindi in proprio intorno alla metà degli anni Venti, dedicandosi esclusivamente alla documentazione delle opere d’arte. In questa veste viene incaricato dalla Frick Reference Library di New York di compiere una grandiosa campagna di documentazione del patrimonio artistico medievale e rinascimentale in Europa, cfr. redazionale, I nostri antenati, “AFT”, 3 (1987), n.5,  giugno, pp. 44-45. Una più approfondita conoscenza di questo progetto documentario potrà essere ricavata dallo studio attento dei diari di lavoro di Mario Sansoni, conservati presso l’Archivio Fotografico Toscano di Prato, che non è stato possibile consultare in questa occasione; ricostruzione che sarà da porre a corredo di quel “recupero delle fotografie realizzate da Mario Sansoni per miss Helen Frick all’inizio degli anni Trenta [che] è ormai un obbligo metodologico”, di cui ha parlato  Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Pittura e miniatura del Trecento in Piemonte. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1997, p.12.  L’individuazione del fotografo fiorentino quale responsabile di una così vasta e impegnativa campagna di documentazione si inserisce non solo nel progetto culturale  della famiglia Frick, ma costituisce anche una ulteriore conferma della  specifica attenzione per l’uso appropriato della fotografia, e del conseguente riconoscimento del lavoro dei fotografi,  che nella cultura statunitense risulta un dato acquisito ben prima che ciò accada in Europa; basti pensare, per fare solo alcuni esempi, all’attenzione prestata  da Arthur Kingsley Porter, Romanesque Sculpture of the Pilgrimage Roads.  New York: Hacher Art Books, 1966 (I ed. 1923), buon fotografo e severo giudice dell’attività degli studi più rinomati (“The catalogue is unfortunately of little use”, per Romualdo Moscioni, “Photographs of the highest quality”, per Clarence Kennedy e così via)  ed alle precisazioni contenute nella prefazione che Harry Dobson Miller Grier, direttore della collezione,  scrive per The Frick Collection. An illustrated catalogue, I-II. New York: The Frick Collection, 1968, p. xxii: “The black and white photographs of the paintings were made by Francis Beaton, our staff photographer, who has faithfully served the Collection for over thirty years. The reproductions in those and subsequent volumes of this catalogue will provide an enduring record of his talent, which has never been duly acknowledge. For the color reproductions of the paintings,  ektachromes were made by Joseph Corboy and Geoffrey Clements. The photograph of the Frick Collection building is by Ezra Stoller, and the colour photographs of the galleries are by Lionel Freedman.”

[45]Cfr. Massimo Ferretti, Fra traduzione e riduzione. La fotografia d’arte come oggetto e come modello, in Gli Alinari fotografi a Firenze 1852-1920, catalogo della mostra (Firenze, Forte di Belvedere, 1977) a cura di Wladimiro Settimelli, Filippo Zevi. Firenze: Edizioni Alinari, 1977 pp.116-142 (p.124), che per la casa fiorentina colloca a partire dal  1876 il periodo in cui le campagne di documentazione “diventano l’occasione di un rilevamento ravvicinato e linguisticamente più problematico”, ma sostanzialmente legato alla estrapolazione di elementi “decorativi” con immediata valenza commerciale e connessi al nascente interesse italiano per i rapporti tra arte e industria; si veda anche E. Spalletti, op.cit., p.473. Un diverso atteggiamento, orientato ad una lettura contestuale dell’opera e della scena rappresentata lo si ritrova invece, negli anni a cavallo tra i due secoli nelle fotografie dei gruppi statuari del Sacro Monte di Crea realizzate da Francesco Negri, non a caso nella doppia veste di fotografo e di studioso, cfr. P. Cavanna, Cinquant’anni di sguardi: la fotografia scopre il Sacro Monte, in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea.  Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998, pp.137-145. Come è noto un uso mirabilmente critico della documentazione fotografica venne per primo realizzato in Italia da Roberto Longhi, Piero della Francesca. Roma: Valori Plastici, 1927.

[46] Augusto Cavallari Murat, Considerazioni sulla pittura piemontese verso la metà del sec. XV, “Bollettino  Storico Bibliografico Subalpino”, 38 (1936), n.1-2, gennaio-giugno, pp.43-79, corredato di una interessante documentazione fotografica prevalentemente dovuta all’autore stesso ma anche a Toesca (Fenis, cappella, particolare con una Santa), Rossi (Villafranca Piemonte, chiesa della Missione, particolare dell’Arcangelo e Deposizione) e Bertea (naturalmente per Ranverso, da confrontare con la produzione Dall’Armi). Questo significativo apparato di immagini è stato escluso dalla riedizione del saggio in Id., Come carena viva, I. Torino: Bottega d’Erasmo, 1982, pp.99-128.

[47] Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[48]Vittorio Viale, Gotico e Rinascimento in Piemonte, catalogo della 2a mostra d’arte a Palazzo Carignano.  Torino: Città di Torino, 1939. Mentre Scoffone realizza gli ingrandimenti per le sale 4, 5 e 6 a Paolo Beccaria si devono le fotografie per il catalogo.

[49]Cfr. Cavanna, Mario Gabinio, op.cit., p.19.

Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione (1986)

“Fotologia”, studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier, n.6, 1986, pp. 34 – 45

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Eugène Atget

 

Primo ottobre 1907 Mons. Teodoro dei Conti Valfrè di Bonzo “Arcivescovo di Vercelli e Conte” concede l’imprimatur al volume L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli, “Studio storico del Can. Dott. Romualdo Pasté / Studio artistico del Cav. Federico Arborio Mella illustrato da Pietro Masoero”[1]. I tre autori nella dedica che apre il volume dichiarano di aver voluto “radunare quanto è a noi pervenuto delle memorie della abbazia di S. Andrea e fissarne il ricordo storico illustrando il grandioso tempio che, salvato dalla ruina di mille altri monumenti, permane solenne ad attestare una grandezza passata” portando anche un “contributo al recente risveglio pel culto dell’arte sacra”.  Né questo rimando preciso deve essere semplicemente inteso quale richiamo d’occasione, né la dedica all’ Arcivescovo di Vercelli un semplice atto formale: l’arte sacra infatti aveva costituito per tutta la seconda metà del secolo XIX, ed in parte costituiva ancora, uno dei temi più interessanti del dibattito culturale del Piemonte cattolico, strettamente connesso alla rivalutazione della tradizione artistica locale e quindi anche al dibattito ed alle prime iniziative di tutela. Se Romualdo Pastè, autore della ricerca storica, corrispondente della Deputazione Subalpina di Storia Patria, canonico ed archivista capitolare svolge, per il suo stesso ruolo, una funzione di tramite, è certamente Federico Arborio Mella la figura centrale, erede di una tradizione familiare di grande prestigio che aveva avuto nel nonno Carlo Emanuele e nel padre Edoardo gli esponenti più noti, impegnati a fondo nel  dibattito e nell’attività architettonica e di tutela. A Carlo Emanuele Arborio Mella si devono infatti i primi interventi di restauro della basilica di S. Andrea, condotti tra il 1822 e 1825 in modo “aperto ed attento a questioni singolarmente precoci quali il concetto di monumento inteso come insostituibile fonte documentaria dello stesso, da cui gli deriva l’esigenza di riportare in puntuali relazioni quanto emerso o osservato nel corso dello studio diretto delle strutture antiche”[2] Queste osservazioni, raccolte nell’ opuscolo Cenni storici sulla chiesa ed abbazia di Sant’Andrea in Vercelli [3] pubblicato postumo nel 1856 a cura del figlio Edoardo, il quale a sua volta pubblicherà quasi a conclusione della sua lunga attività lo Studio delle proporzioni dell’antica chiesa di S. Andrea in Vercelli [4]; segnano l’inizio della ripresa di interesse per il monumento vercellese da parte di studiosi italiani e stranieri. Accanto all’attività di studio si collocavano le iniziative di promozione culturale: anche in questo caso il primo riferimento è costituito dall’attività di Carlo Emanuele che aveva fondato a Vercelli, nel 1841, la Società per l’insegnamento gratuito del disegno, trasformata venti anni più tardi, sotto la presidenza di Edoardo, in Istituto di Belle Arti, prevalentemente preposto alla formazione di corsi professionali ma che prevedeva esplicitamente all’art. 3 dello Statuto di “provvedere alla conservazione dei patrii monumenti o col farne acquisto od avvisando ai mezzi di impedirne il deterioramento”[5]. Il richiamo alla “conservazione dei patrii monumenti” rimanda in modo quasi letterale alle disposizioni contenute nel Regio Brevetto carloalbertino del 1832 col quale si istituiva la Giunta di Antichità e Belle Arti, destinata a censire e tutelare “reliquie degli antichi monumenti e capolavori delle arti belle”[6]; di questo organismo, che ebbe vita stentata almeno fino al 1853 per essere poi sostituito a partire dal 1860 dalla Consulta di Belle Arti, fecero parte gli esponenti più noti del mondo culturale sabaudo e tra essi merita ricordare almeno Domenico Promis conservatore della Biblioteca Reale di Torino, che Edoardo Arborio Mella conobbe nel 1855, ed il fratello di questi Carlo Promis, architetto e storico dell’architettura, nominato nel 1837 “Ispettore de’ monumenti di antichità esistenti ne’ Regi Stati”, che nel 1857 proporrà il Mella per i restauri del duomo di Casale Monferrato, segnando l’inizio della sua carriera di restauratore.

Attorno al Mella ed all’Istituto di Belle Arti ruota gran parte dell’ ambiente artistico vercellese: quando la scuola apre i battenti nel 1862 il corso di Ornato e Figura è diretto dal pittore Carlo Costa, il quale aveva frequentato giovanissimo lo studio del Mella e lo aveva quindi accompagnato durante il suo fondamentale viaggio in Germania, divenendo uno dei suoi più preziosi collaboratori. Il corso di Elementi era tenuto dal fratello di Carlo Costa, Giuseppe, il quale sarà chiamato nel 1868, sempre dal Mella, a realizzare le parti a figura durante i restauri della chiesa di S. Francesco a Vercelli.[7] Abbiamo qui uno dei numerosi esempi di rapporti strettissimi tra mondo accademico e fotografia: “Studio di Pittura e Fotografia di Costa Giuseppe/ Vercelli/ via Felice Monaco”[8] recita il verso di una sua carte de visite conservata presso le Civiche Raccolte Bertarelli di Milano,mostrando la compresenza di due attività complementari, sebbene le notizie a noi note facciano supporre che negli anni successivi egli si sia dedicato prevalentemente alla fotografia, documentando nel 1882 gli affreschi eseguiti dal fratello Carlo nella cupola di S. Eusebio, pubblicati dapprima in un album ricordo e quindi riediti nel 1898 nel numero monografico di “Arte Sacra” dedicato a Vercelli, in cui compaiono anche sue riproduzioni dei cartoni di Francesco Grandi per la cupola del Duomo ed una bella immagine della basilica di S. Andrea. La figura di Giuseppe Costa, finora poco nota, sembra collocarsi marginalmente nel panorama dei fotografi piemontesi della seconda metà dell’Ottocento interessati alla documentazione del patrimonio artistico, ma sarà necessario attendere il riordino in corso del fondo fotografico Mella[9],conservato presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli, per una verifica più puntuale della sua attività, soprattutto mettendola ancora una volta in relazione col ruolo e con le concezioni critiche espresse da Edoarado Arborio Mella.

Si avverte a Vercelli un certo ritardo rispetto ad altre situazioni regionali, ad altre figure di fotografi: già nel 1865 Vittorio Besso, allievo di Giuseppe Venanzio Sella, viene ricordato dalla locale “Gazzetta Biellese” come fotografo di “capolavori di pittura e d’architettura (che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario”)[10] e tra 1872 e 1877 a lui si deve l’accurata documentazione dei restauri condotti da Alfredo d’Andrade al Castello di Rivara per incarico di Carlo Pittara; immagini presentate dallo stesso D’Andrade alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880 ad illustrazione del suo primo intervento di restauro o meglio ­in questo caso – di reinvenzione.[11] Nel 1878 inizia la propria attività anche Secondo Pia che dodici anni più tardi, in occasione dell’Esposizione Italiana di  Architettura di Torino del 1890, riceverà una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi” riconoscimento offerto anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi”[12]. Torna in mente l’appello Ruskin: “the greatest service which can at present be rendered to architecture, is the careful delineation of details … by means of photography. I would particularly desire to direct the attention of amateur photographers to this task”[13],  ma ancora nel 1900 Masoero sottolineerà questo aspetto dell’attività di Pia che “dona alla storia tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case che riproducono per commerciare, ed  il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”[14]

Secondo Pia costituisce il termine di paragone di tutta una generazione di “amateur photographers” piemontesi che si dedicheranno con profonda attenzione e competenza alla scoperta ed alla documentazione del patrimonio artistico ed architettonico regionale che avrà poi in Francesco Negri uno degli esponenti di maggior rilievo. La situazione vercellese intorno agli anni Settanta sembra invece essere meno attenta alla produzione di fotografie di documentazione: lo studio fotografico di Pietro Mazzocca, uno dei primi aperti a Vercelli, nel 1863, pare occuparsi solo di ritratto[15]; Giuseppe Costa negli stessi anni è impegnato essenzialmente come insegnante di disegno o al più si limita a riprodurre le opere del fratello Carlo. Si dovrà attendere il 1873, con l’apertura dello studio di Federico Castellani, già titolare di un altro studio ad Alessandria, per avere una prima documentazione del patrimonio architettonico della città: nel giugno di quell’anno egli presenta infatti l’Album delle principali vedute edifizi e monumenti della città di Vercelli, costituito da 23 stampe. La distinzione fatta nel titolo tra vedute, edifizi e monumenti è indicativa del tipo di approccio di Castellani: l’intento documentario si stempera nell’illustrazione, alle architetture civili e religiose si affiancano la stazione ferroviaria ed il ponte sul Sesia, ed anche la ripresa del singolo monumento lo pone in un contesto più ampio, facendone il soggetto principale ma non unico dell’inquadratura.[16]

Diversamente da quanto era avvenuto ad esempio in Francia, in cui la scoperta della fotografia aveva coinciso con un periodo di rinnovato interesse per il patrimonio architettonico e con la creazione delle società di studi archeologici[17], a Vercelli la presenza di Edoardo Arborio Mella, chiamato a far parte nel 1870 della Commissione incaricata di istituire un primo elenco di monumenti nazionali, poi nominato “Ispettore degli scavi e monumenti di antichità di Vercelli”[18] e quella non meno importante del padre barnabita Luigi Bruzza, insigne archeologo, autore nel 1874 di uno studio dedicato alle  Iscrizioni antiche vercellesi   lodato da Theodor Momsen, che portò alla costituzione nel 1875 di un museo a lui dedicato, destinato a raccogliere “i cimeli lapidei della storia e delle vicende dell’ Agro vercellese”[19], non determinò attenzioni particolari per un uso documentario della fotografia.  Nel 1883 un altro padre barnabita, Giuseppe Colombo, utilizzando studi del Bruzza, pubblica a spese dell’Istituto di Belle Arti Documenti e notizie intorno agli artisti vercellesi; a questo studio farà riferimento nel 1886 il fotografo Pietro Boeri realizzando, con la firma dello studio Boeri-Valenzani, uno splendido album fotografico dedicato agli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli, primo e insuperato esempio a livello locale di documentazione e lettura critica di un ciclo pittorico. Non è per ora possibile sapere se l’album di Boeri nasca da una iniziativa personale o non sia piuttosto il prodotto di una collaborazione qualificata, ma ciò che preme sottolineare è che il primo esempio di documentazione fotografica prodotto localmente si rivolge al patrimonio artistico e non a quello architettonico od archeologico che pure godevano dell’attenzione di studiosi di grande levatura. Ciò è ancora più strano se si pensa che nel campo dell’architettura il ricorso all’immagine fotografica era da tempo codificato ed utilizzato sia per il restauro che per la documentazione storico-critica: la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri ed Architetti Italiani, tenuto si a Torino nel 1884, aveva auspicato la formazione di una “raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche degli edifici nazionali”[20], affidandone la realizzazione al Collegio torinese che presenterà  nel successivo congresso tenuto si a Venezia nel 1887  il Catalogo del Museo Regionale di Architettura, costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai  monumenti piemontesi, “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione … [quelle] degli altri paesi d’Italia”.  L’elenco delle fotografie esposte e quello dei donatori forniscono dati di grande interesse: la città di Vercelli non è documentata; tra i donatori (architetti, fotografi, ingegneri ecc.) non compare il Mella, mentre è presente il fotografo Castellani, che ha fornito un’immagine del duomo di Alessandria. L’assenza non sembra essere priva di significato. Se si pensa all’intensa attività di Edoardo Arborio Mella ed ai riconoscimenti ricevuti questa non può essere ascritta che alla particolare natura del museo che prevedeva appunto l’uso di riproduzioni fotografiche, cioè di una tecnica di documentazione e di analisi che, pur utilizzando, il Mella non aveva mai preso in seria considerazione, tanto che nella esposizione postuma  dedicata a tutto l’arco della sua attività, curata da G.G. Ferria su incarico di Federico Arborio Mella in occasione dell’Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884 – sezione Arte Contemporanea –[21] non compare neppure una fotografia.

Lo scarso interesse locale per la documentazione fotografica dell’architettura è confermato anche in una pubblicazione più tarda: nel 1898 si tiene, sempre a Torino, l’Esposizione Italiana di Arte Sacra; la serie di fascicoli editi in questa occasione presenta al n. 4, dedicato a Vercelli, immagini di diversi fotografi locali impegnati ad illustrare il patrimonio artistico ed architettonico della città: vi compaiono i nomi di Pietro Boeri, Secondo Gambarova, Giuseppe Costa e Pietro Masoero. La scelta dei soggetti privilegia soprattutto le opere della scuola pittorica vercellese, dedicando alla basilica di S. Andrea una sola immagine.[22] Compare nello stesso numero anche un breve articolo dedicato alla Madonna delle Grazie a S. Maria Maggiore  siglato P.M. (Pietro Masoero) che prelude al saggio più ampio dedicato a La scuola vercellese e i suoi maestri pubblicato dallo stesso autore nei n. 34 e 35, prima stesura del testo della conferenza accompagnata da proiezioni luminose che terrà nel 1901 ottenendo vasti riconoscimenti.[23] Ho cercato in una occasione precedente di ricostruire la nascita dell’interesse di Masoero per la scuola pittorica vercellese, basterà ricordare qui che può essere fatta risalire agli stretti rapporti che legavano Masoero ad un collezionista come Antonio Borgogna ma anche al ruolo svolto dall’Istituto di Belle Arti nell’opera di recupero e valorizzazione della “scuola pittorica vercellese”. Ciò che interessa sottolineare è però la scelta operata da Masoero, che dedica la propria attenzione di divulgatore al solo patrimonio pittorico; ancora una volta al monumento più importante  dell’architettura religiosa vercellese, la basilica di S. Andrea, non viene concessa che una semplice immagine; troppo recenti e troppo autorevoli erano gli studi sull’architettura di questo complesso perché qualcuno potesse pensare di affrontare nuovamente il problema.  Solo nel 1901 il canonico Pasté pubblicherà la Storia documentata dell’Abbazia di S. Andrea [24] integrando ed ampliando l’apparato documentario prodotto cinquanta anni prima da Carlo Emanuele Arborio Mella con contributi di altri studiosi e con nuove ricerche archivistiche. A questo saggio storico Pietro Masoero (con lo pseudonimo di Martin Pala) dedicherà una attenta recensione sul giornale “La Sesia”, inserendo quasi di sfuggita una breve annotazione relativa all’architettura, ma dovranno  passare altri sei anni perché l’analisi critica del monumento venga affrontata compiutamente.

Nel 1907 si pubblica il volume su S. Andrea frutto della collaborazione di Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella e Pietro Masoero. Le motivazioni che hanno portato a questa collaborazione, oltre ai temi di carattere generale ricordati in apertura, nascono dalla constatazione che “la nuda esposizione di fatti … da sola non risponderebbe alla dignità del soggetto, ma soprattutto, come ricorda esplicitamente Mella presentando la sezione da lui curata, perché “naturale complemento a quegli studi [deve] essere il racconto delle vicende edilizie dell’edificio stesso; essendo che l’arte è sempre l’espressione più veritiera, anche contrariamente alla volontà degli uomini, dei tempi nei quali ebbe vita.”[25] Ecco allora che “lo studio accurato dell’arte del nostro S. Andrea e del chiostro annesso, in rapporto coll’architettura religiosa del medioevo e nelle sue linee tecniche, parve conferire ad una illustrazione meno imperfetta e più accetta ai lettori. Perrocché è forse anche colpa nostra se le bellezze singolarissime di un monumento che ci è invidiato dai forestieri restarono finora note ad altri piuttosto che ai connazionali”. “Si volle per ultimo che la riproduzione fotografica di questo gioiello, sviluppata in una serie logica e possibilmente completa di parti armonizzanti col tutto, desse all’ opera un senso di realtà e di vita”. Queste dichiarazioni di intenti si concretizzarono in un apparato iconografico di circa centotrenta immagini (98 fotografie e 31 rilievi) che percorre tutto il testo ed anzi correda prevalentemente la parte dedicata alla ricostruzione delle vicende storiche della abbazia, istituendo una serie di percorsi  paralleli tra dato storico (temporale) ed elemento architettonico (spaziale). Se il saggio storico adotta una sequenza strettamente cronologica, il saggio iconografico adotta una sequenza spaziale che nasce dall’integrazione tra percorso logico-architettonico (planimetria, volumetria) e percorso percettivo, entrambi realizzati per confronto diretto tra rilievo grafico e fotografico: partendo dal prospetto principale la sequenza si sviluppa illustrando il fianco meridionale, l’abside e quindi l’esterno della cupola; la sezione longitudinale dell’edificio introduce quindi la documentazione dell’interno, molto attenta agli elementi strutturali ed all’apparato decorativo, passando poi – attraverso la sala capitolare ed il refettorio – ad illustrare il chiostro ed il lato settentrionale della basilica, che chiude il percorso visivo.

Le fotografie di Masoero, a volte ritoccate in stampa, sono accuratamente impaginate e sovente tagliate per sottolineare gli elementi salienti o per correggere le distorsioni  prospettiche particolarmente evidenti sui bordi della lastra. Per i soggetti più complessi si procede seguendo il criterio ormai consolidato dal generale al particolare, utilizzando diverse riprese a distanza sempre più ravvicinata, ma anche procedendo ad ingrandimenti selettivi della stessa lastra quando le caratteristiche del soggetto ripreso (campanili, cupola ecc.) non consentono di procedere altrimenti. Le riprese, generalmente frontali, adottano a volte un taglio più scorciato per mettere in evidenza il gioco dei volumi, utilizzando con grande accortezza ombre molto marcate, senza però indulgere all’immagine d’effetto, seguendo in questo le precise intenzioni espresse da Federico Arborio Mella, il quale,  presentando l’apparato iconografico, parla di “disegni condotti senza alcun lenocinio di arte, quindi più fedeli ed esatti” e di immagini fotografiche che “riproducono in modo mirabile, non svisato od alterato da alcun manierismo, la vera parvenza artistica o carattere stilistico”[26]  dell’ edificio.

Il volume, stampato in 600 esemplari, riscosse un buon successo di critica, e come ricordava la pubblicità redazionale contenuta nell’Archivio della Società Vercellese di Storia ed Arte del 1909 “Le 150 illustrazioni geometriche e fotografiche, a giudizio dei periti, non lasciano più nulla a desiderare: quelle completano l’analisi tecnica della basilica e del chiostro, queste danno la visione da terra di tutte le parti”[27],ma il coro di elogi non fu unanime: se “Civiltà Cattolica” definisce il volume illustrato “abbondantemente, anzi sovrabbondantemente, con vedute fotografiche generali e particolari, per ogni aspetto, ogni angolo, ogni minuzia”[28] mostrando di non comprendere la novità dell’impostazione complessiva, anche uno studioso avveduto  come Guido Marangoni, nel suo studio sulla basilica di S. Andrea pubblicato nel 1909, si limita a sottolineare che gli studi di Romualdo Pasté  “dal punto di vista artistico nessuna novella  luce hanno portato sull’interessante argomento. Ed anche Federico Arborio Mella, dedicandosi nello stesso libro allo studio artistico dell’Abbazia e  della Chiesa, si è limitato a raccogliere le varie e disparate opinioni degli autori precedenti, racchiudendosi in poche, timide ed eccessivamente modeste osservazioni personali”[29] senza rilevare il ruolo svolto dai rilievi grafici e fotografici e soprattutto senza ricordare l’opera di Pietro Masoero di cui lui stesso si era avvalso in questa ed altre  occasioni.

Quando viene pubblicata in “Rassegna d’Arte” la prima parte dell’articolo di Marangoni la stampa locale ne dà immediata notizia definendolo “articolo splendidamente illustrato con fotografie in gran parte inedite del nostro Masoero”[30]; l’affermazione non corrisponde al vero, poiché le fotografie che corredano il testo sono le stesse già utilizzate per il volume del 1907, ma dimostra con evidenza (oltre ad un tocco di campanilismo) quale peso avesse assunto la documentazione fotografica nell’economia complessiva dello studio, ciò di cui era del resto ben cosciente lo stesso Marangoni che nella ristampa del 1910 non mancherà di ringraziare Masoero: ” alla sua nota eccellenza di fotografo devo il materiale illustrativo onde questo studio si fregia, al suo  colto e consapevole entusiasmo per i tesori dell’arte autoctona, vado debitore di preziose notizie e di validissimo aiuto “. Per Marangoni era l’impostazione stessa dello studio di Arborio Mella a non essere soddisfacente poiché questi si limitava ad esporre le opinioni precedenti, indulgendo soprattutto, sulla scia degli studi del nonno Carlo Emanuele, all’ipotesi di una matrice inglese per l’architettura del S. Andrea, fermamente confutata da Marangoni, insieme a quelle che proponevano  derivazioni francesi o tedesche, a tutto favore di una rivendicazione dei caratteri sostanzialmente autoctoni dell’opera, basata soprattutto sull’analisi degli apparati decorativi. A questo tipo di analisi è strettamente connessa la scelta dell’apparato illustrativo: assenti i rilievi grafici, anche le viste d’insieme si riducono all’essenziale mentre invece abbondano immagini di capitelli, cornici, pinnacoli a sottolineare la matrice lombarda di questa architettura.

 

 

È questo un uso dell’immagine fotografica decisamente meno interessante di quello rilevato nel volume del 1907; la fotografia diviene semplice illustrazione, la sequenza perde di compattezza e si sfalda, ponendosi all’assoluto servizio del testo. La completezza e la complessità di articolazione della documentazione fotografica verranno invece riutilizzate in una pubblicazione di poco successiva: esce nel 1910 il n. 13 della serie “Italia Monumentale – Collezione di monografie sotto il patronato della «Dante Alighieri» e del Touring Club Italiano” dedicato a Vercelli, in cui un breve testo introduttivo di Francesco Picco accompagna una serie di fotografie di Pietro Masoero prevalentemente dedicate alla basilica di S. Andrea.[31] Qui sono le stesse caratteristiche editoriali della pubblicazione a far prevalere l’apparato iconografico, ancora una volta coincidente con quello utilizzato nel 1907 ma trattato con diversa attenzione: non solo l’ordine della sequenza abbandona la logica architettonica, disciplinare, a favore di un percorso schiettamente percettivo che passa dalla visione del prospetto principale all’interno, articolando poi sulla cupola – cioè sull’elemento anche visivamente emergente – il ritorno all’esterno, ma anche la singola immagine si presenta in modo diverso: scomparsi i tagli e l’ingrandimento selettivo la lastra viene utilizzata nella sua interezza, perdendo in parte l’efficacia dell’analisi a favore di un approccio più descrittivo, didascalico. Sembra quindi che la documentazione prodotta da Masoero non possa essere assimilata ad una vera e propria opera di rilievo, ma che abbia assunto questa veste solo sotto la guida attenta di Federico Arborio Mella. Si pone così il problema di individuare i tempi ed i modi della  realizzazione delle immagini fotografiche.

L’unica fonte a noi nota è costituita dal fondo Masoero conservato presso il Museo Borgogna di Vercelli, costituito da lastre, diapositive ed autocromie prevalentemente dedicate al patrimonio artistico ed architettonico vercellese;[32] il corpus di immagini relative a S. Andrea comprende un centinaio di lastre alla gelatina­bromuro in formati diversi dal 9/12 al 24/30 e due diapositive,  un esterno ed un dettaglio del portale principale, che sembrano costituire l’unico resto del materiale da proiezione utilizzato da Masoero nel corso della conferenza da lui tenuta a Novara la sera del 25 aprile 1909, dedicata alla basilica. Dal confronto tra le lastre e le immagini utilizzate nelle varie pubblicazioni emerge immediatamente un dato interessante: le fotografie pubblicate nella maggior parte dei casi non corrispondono alle lastre a noi pervenute che, anzi, si presentano in più di un caso come prove non perfettamente riuscite delle riprese poi utilizzate in sede di pubblicazione. Il dato pone interrogativi inquietanti, a cui peraltro non sono ancora in grado di rispondere, soprattutto ricordando che per esplicita volontà dello stesso Masoero, prima amministratore e poi presidente del Museo Borgogna, tutto il suo fondo fotografico era stato donato al museo stesso, come ricordano esplicitamente anche i necrologi pubblicati alla sua morte, nel 1934. Il materiale conservato presso il Museo, prescindendo dalla discontinua qualità delle singole immagini, fornisce comunque dati di rilevante interesse, soprattutto perché molte delle lastre sono accompagnate da annotazioni autografe con indicazioni relative a data e tempi di ripresa. L’11 gennaio del 1890 Masoero fotografa per la prima volta la navata centrale e la navata destra, proseguendo poi fino ai primi di marzo con una attenzione particolare per gli interni o per i singoli elementi quali il confessionale del XVII secolo, la tomba dell’abate Tommaso Gallo (sec. XIII) ed il monumento ad Edoardo Arborio Mella del 1889, escludendo quasi del tutto le riprese in esterno che comprendono solo una serie di tre immagini del transetto e di parte della navata ripresi dal chiostro, interessanti soprattutto per ricostruire il suo modo di impostare la documentazione per aggiustamenti progressivi. Fanno parte di questa prima serie di immagini anche alcuni interni con figure in cui la ripresa architettonica lascia il posto ad annotazioni di costume. Non si può quindi ancora parlare di una intenzione chiara e coerentemente sviluppata (almeno a giudicare dal materiale disponibile) ma, come abbiamo ricordato, in questi anni a Vercelli non esistono esempi di documentazione fotografica dell’architettura a cui fare riferimento, certamente non favoriti dalla presenza di uno studioso come Edoardo Arborio Mella.

Le prime riprese di Masoero, all’epoca ancora direttore dello Studio Castellani, nascono da una iniziativa personale, connessa all’interesse nascente per il patrimonio architettonico ed artistico della città in cui risiedeva, e forse anche alla progressiva conoscenza dell’ opera di altri fotografi piemontesi. L’esempio di Secondo Pia, premiato nel 1890 per la sua opera di documentazione, dovette certamente indurlo a proseguire l’opera di documentazione, impostandola con nuovi criteri di organicità e completezza: nel giugno del 1892 Masoero apre il proprio studio in via Caserma di  Cavalleria al n. 1, dedicandosi soprattutto al ritratto, e circa un anno dopo, dal 20 marzo al 19 aprile del 1893, fotografa la chiesa con lastre 18/24 rilevandone prospetti, interni e dettagli, ritornando sui soggetti fotografati tre anni prima. I dati di ripresa scrupolosamente annotati (pratica del resto comune ad altri) mostrano la preoccupazione di produrre immagini prospetticamente corrette che rendano compiutamente la volumetria dell’intero complesso, fotografato più volte con obiettivi diversi, impiegando il grandangolare solo in casi eccezionali, quando le condizioni di ripresa non consentono alternative. La campagna fotografica del 1893 risulta essere la più completa (altre immagini vennero realizzate ancora nel 1896 e nel 1899 in modo certamente più occasionale e saltuario)[33], ma rimarrà inutilizzata ancora per molti anni e probabilmente sconosciuta  anche in ambito locale se l’unica immagine di S. Andrea presente nel già ricordato fascicolo di “Arte Sacra” del 1898 si deve a Giuseppe Costa. L’attività fotografica di Masoero, che pure in quegli anni riceverà una significativa serie di riconoscimenti, era caratterizzata dalle sue note capacità di ritrattista e, in ambito più strettamente professionale, dalle iniziative sostenute a favore della costituzione di scuole di fotografia, mentre si andava consolidando la sua fama di divulgatore e di studioso della scuola pittorica vercellese. La documentazione dell’architettura della basilica di S. Andrea, che pure per quasi vent’anni costituirà uno dei temi ricorrenti del suo lavoro, viene lasciata in secondo piano, per essere ripresa solo nel 1907 quando, dietro lo stimolo di Federico Arborio Mella, Pietro Masoero tornerà per l’ultima volta  fotografare la chiesa, con lastre di grandi dimensioni (24/30), attento soprattutto ad “evitare un pericolo … di cadere nel manierato … Al vero, unicamente al vero deve l’arte fotografica attingere le sue ispirazioni … L’arte fotografica deve avere un’ispirazione, di diventare il documento inspiratore e coadiuvatore dell’arte, con le sue potenti verità”.[34]  Per Masoero, appassionato studioso della pittura vercellese, la fotografia di architettura non era che un documento.

 

Note

 

 

[1] Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, Pietro Masoero, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli. Vercelli: Gallardi e Ugo, 1907. In seguito citato come PMM.

 

[2] Daniela Biancolini,  Carlo Emanuele Arborio Mella (1783­1850), in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980,  voI. III, p. 1387.

 

[3] Carlo Emanuele Arborio Mella, Cenni storici sulla chiesa ed abbazia di Sant’Andrea in Vercelli. Torino: Lit. Giordana, 1856.

 

[4] Edoardo Arborio Mella, Studio delle proporzioni dell’antica chiesa di S. Andrea in Vercelli. Torino: Stamperia Reale di G.B. Paravia e C.,1881.

 

[5] Anna Maria Rosso, Il fondo disegni di Edoardo Arborio Mella conservato presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli,  in

Edoardo Arborio Mella (1808­-1884): Mostra commemorativa, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Camillo Leone, novembre 1985).  Vercelli: Istituto di Belle Arti  – Archivio di Stato di Vercelli, 1985, pp. 67-75.

 

[6] Lucetta Levi Momigliano, La Giunta di Antichità e Belle Arti,  in Cultura figurativa e architettonica 1980,  vol. 1, pp. 386-387.

 

[7] Camilla Barelli, Carlo Costa 1826-1897 in Edoardo Arborio Mella 1985  pp. 149­-158.

 

[8] Milano, Civica Raccolta Stampe A. Bertarelli, Pubblicità di fotografi. Il verso della carte de visite porta, oltre all’intestazione dello studio, una veduta della basilica di S. Andrea.

 

[9] Istituto di Belle Arti di Vercelli, Fondo Mella. Il fondo proviene dal lascito di Federico Arborio Mella: “Lascio pure al suddetto Istituto di Belle Arti tutta la raccolta di disegni del compianto mio padre, quella di riproduzioni fotografiche di monumenti, di quadri, di statue”,  cfr. A.M. Rosso, il fondo disegni, op. cit., p. 67.

 

[10] Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880. Roma: Quasar, 1978, p. 55. A Vittorio Besso si deve anche lo splendido Album artistico ossia raccolta di 326 disegni autografi di valenti artisti italiani” del 1868, conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, che gli valse una medaglia all’Esposizione di Vienna del 1873.

 

[11] P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura,  in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp. 107-123

 

[12] I Esposizione Italiana di Architettura: Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L. Roux e C., 1891, p. 49. Si veda anche Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza, 1981.

 

[13] Cfr. Paolo Costantini, Italo Zannier, a cura di, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale, 1986. Una più ampia traduzione del brano di Ruskin è riportata a p. 16.

 

[14] Pietro Masoero,  L’Esposizione fotografica di Torino Note e appunti , “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), p. 278. Non mancavano però le critiche rivolte all’uso indiscriminato della fotografia nella pratica architettonica. Si veda in proposito Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891, p. 18: ” non riuscì altrettanto di buon augurio il vedere come molti architetti, dilettanti fotografi, preferiscano servirsi di quest’arte nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano … Quello che riesce di maggiore giovamento all’ educazione artistica dell’architetto è il paziente e intelligente rilievo fatto sul sito”.

 

[15] Becchetti 1978, p. 126.

 

[16] Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra, apparato documentario a cura di Claudia Cassio. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977 p. 27, Tav. XXIV.

 

[17] Françoise Heilbrun, Charles Nègre et la photographie d’architecture,  “Monuments historiques, Photographie et Architecture”, 1980, n. 110, p. 18. Per ulteriori informazioni sui rapporti tra tutela e documentazione fotografica in Francia si veda Françoise Bercé,  Les premiers travaux de la Commission des Monuments historiques, 1837-1848. Paris: Picard, 1979.

 

[18] Liliana Pittarello: La posizione di Edoardo Arborio Mella all’interno del dibattito ottocentesco sul restauro , in Cultura figurativa e architettonica 1980, vol. 2, p. 768.

 

[19] Luigi Bruzza: storia, epigrafia, archeologia a Vercelli nell’Ottocento, Guida alla mostra. Vercelli: Cassa di Risparmio di Vercelli, 1984.

 

[20] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero,1887, p.1.

 

[21] Esposizione Genera1e Italiana di Torino 1884: Arte contemporanea Catalogo Ufficiale. Torino: Unione Tipografica Torinese, 1884, p. 114. L’ingegnere Giuseppe Gioacchino Ferria aveva presentato nel luglio del 1883 una memoria Sul rilevamento architettonico coll’uso della fotografia poi pubblicata in “Atti della Società degli Ingegneri e degli Industriali di Torino”, 17 (1883). Torino: Tip. Salesiana, 1884, pp. 43-48, che viene unanimemente considerato il primo studio italiano di fotogrammetria. Gli interessi di Ferria non sembrano aver influito sulle opinioni di Federico Arborio Mella relative all’uso della documentazione fotografica dell’architettura; un riferimento più concreto, forse un modello, potrebbe invece essere individuato nella monumentale opera dedicata alla Basilica di S. Marco edita da Ferdinando Ongania a Venezia, di cui l’Istituto di Belle Arti di Vercelli possedeva una copia.

 

[22] “Arte Sacra”, Torino, n. 4, 1898, numero monografico dedicato a Vercelli.  La basilica di S. Andrea era già compresa nel catalogo Alinari. Cfr. Liguria, Piemonte, Lombardia. Vedute, bassorilievi, statue, quadri, affreschi ecc. Riproduzioni fotografiche pubblicate per cura dei Fratelli Alinari.  Firenze: Tip. G. Barbera, 1899. Le immagini della basilica, nn. 15877-15881, comprendevano esterno, facciata, abside, interno, confessionale del XVII secolo.

 

[23] Antonio Taramelli, Per la diffusione della cultura artistica , “L’Arte”, 6 (1901), pp. 212-213: “Prima di lasciare il Piemonte debbo ricordare come alcuni studiosi abbiano cercato di aiutare la diffusione della cultura artistica col mezzo di conferenze illustrate da proiezioni di fotografie. Debbo ricordare a titolo d’onore, quella del sig. Masoero di Vercelli, che a Torino ed a Firenze, espose una brillante serie di sue fotografie illustranti la pittura de’ Vercellesi”. Si veda anche P. Cavanna: Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, 19895), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano, , Milano, Electa, 1985, pp. 150-154.

 

[24] Romualdo Pastè, Storia documentata dell’Abbazia di S. Andrea di Vercelli nel periodo medioevale 1219-1466, “Miscellanea di Storia Italiana”, Serie III, Tomo VII. Torino: Bocca, 1902, pp. 345-458. Questo studio era stato recensito da Masoero in “La Sesia” del 17 settembre 1901.

 

[25] Federico Arborio Mella in PMM 1907, p. 439. L’affermazione richiama il concetto di “Documento/Monumento” espresso da Jacques Le Goff in anni recenti.

 

[26] Ivi, p. 489, sottolineatura nostra. Sono ormai lontani i tempi in cui Pietro Selvatico pensava che la fotografia offrisse “le esatte apparenze della forma”. Pietro Masoero, sempre molto attento ai problemi posti da un uso corretto della strumentazione fotografica, aveva redatto uno studio relativo a La dilatazione dei supporti positivi, in “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 11 (1899), pp. 74-78.

 

[27] “Archivio della Società Vercellese di Storia e d’Arte”, 1 (1909), n. 3-4.

 

[28] “La Sesia”, 27 settembre 1908.

 

[29] Guido Marangoni, Il Sant’Andrea di Vercelli,  “Rassegna d’Arte”, 9 (1909), n. 7, pp. 122­126; n. 8/9, pp. 154-158; n. 11, pp. 180-186. I tre articoli vennero riediti in Guido Marangoni, Il bel Sant’Andrea di Vercelli Note ed appunti critici. Milano:  Alfieri & Lacroix, 1910. Il giudizio sul volume collettivo del 1907 è alla p. 12 di questa edizione. La volontà di compilare una semplice rassegna degli studi critici precedenti era stata palesemente espressa da Federico Arborio Mella: ” Mi asterrò nel mio scritto … da ogni giudizio mio personale; essendo unico mio scopo quello di mostrare il S. Andrea quale fu nei tempi passati e quale è oggi; illustrandolo coi giudizi e colle opinioni di quanti io conosco essersi proposto ad oggetto degli studi loro il nostro monumento” (Cfr., PMM, op. cit., p. 439). Ma in almeno un’occasione non può esimersi dal formulare la propria opinione, criticando proprio l’intervento del padre che nel 1850 aveva realizzato gli altari della cappella di S. Carlo e di S. Francesco di Sales “in uno stile archiacuto tedesco del secolo XIV” impiegando “un unico materiale bianco “. Ormai si sono fatta strada i nuovi concetti di restauro propugnati da Camillo Boito e da Alfredo d’Andrade e le teorie di Viollet-le-Duc sono state abbandonate. “Sarebbe stata certamente ottima cosa che il monumento ci fosse pervenuto integro anche in quelle parti, che dal punto di vista architettonico si possono ritenere accessorie … ” conclude amaramente Federico Arborio Mella (ivi, p. 487).

 

[30] “La Sesia”, 25 luglio 1909.

 

[31] Francesco Picco, Vercelli, con “Sessantaquattro illustrazioni fornite dallo Studio fotografico del Cav. Pietro Masoero/Vercelli”. Milano: E. Bonomi, 1910.

 

[32] Il fondo fotografico, pervenuto al Museo Borgogna per lascito dello stesso Masoero, giace per ora scarsamente utilizzato ed in precarie condizioni di conservazione. Le lastre sono in parte conservate nelle loro confezioni originali, corredate da annotazioni autografe, ma prive di protezioni contro luce, polvere ed umidità, tanto che in numerosi casi l’emulsione tende a staccarsi dal supporto, soprattutto ai bordi. Una prima parziale schedatura del fondo, relativa alle riproduzioni delle opere di Bernardino Lanino, è stata realizzata in occasione della mostra del 1985. Cfr.  Laura Berardi, P. Cavanna, Elenco ragionato delle fotografie di Pietro Masoero relative all’opera di Bernardino Lanino. Per ulteriori notizie sulla storia e sulle importanti collezioni del museo si veda Laura Berardi: Il Civico Museo Borgogna ­Vercelli.  Milano: Federico Garolla, 1985.

 

[33] Pietro Masoero,  Il sepolcro dell’abate Gallo in S. Andrea. 14 gennaio 1899 dalle 11.40 alle 12.30, Lastre Orto Cap. [Ortocromatiche Cappelli] da 2 mesi almeno nel chassis, diafr., temo posa (7) “. Vercelli, Museo Borgogna, Fondo Masoero, Scatola 14, lastra 18/24.

 

[34] Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171.

Oggetti, autori, cataloghi (2001)

 

in, Strategie per la fotografia. Incontro degli archivi fotografici, atti del convegno (Prato 30 novembre 2000), a cura di Oriana Goti, Sauro Lusini.  Prato: Archivio Fotografico Toscano, 2001, pp. 37-42

 

 

 

Pensare / Classificare

 

                                                                                                     Che cosa significa la barra di divisione?

                                                                              Che cosa mi si domanda, alla fine? Se penso prima di classificare?

                                                                                    Se classifico prima di pensare? Come classifico ciò che penso?

                                                                                                  Come penso quando voglio classificare?

Georges Perec,  1985

 

 

 

Considero – come molti – un esito particolarmente significativo e un momento importante per la cultura fotografica in Italia la messa a punto da parte dell’ICCD del modello di strutturazione dei dati della scheda di catalogo relativa alle fotografie, e auspico una sua assunzione operativa generalizzata  al fine di porre termine al proliferare di modelli e tracciati a volte di indubbio interesse o valore, e certamente tra loro compatibili o integrabili, ma ormai sostanzialmente superati in termini gestionali  proprio dalla pubblicazione della scheda “F”, poiché ritengo che anche nell’ambito delle politiche di conservazione e tutela del nostro patrimonio culturale è indispensabile, al di là di ogni dirigismo, continuare a riconoscere un ruolo centrale alle istituzioni dello stato affinché risulti concretamente perseguibile l’obiettivo della condivisione diffusa dei dati e delle conoscenze.

Per queste ragioni, e nonostante l’avvenuta pubblicazione della prima parte delle norme possa costituire un limite imposto agli esiti operativi di queste riflessioni, ritengo più che mai importante sottoporre a verifica alcuni dei principi ordinatori sottesi alla loro redazione, per contribuire a meglio definire le modalità di trattamento dei dati che derivano da quella operazione critica standardizzabile che, per la caratteristica assenza di dati testuali, è la catalogazione delle immagini fotografiche, nella convinzione che la messa a punto e la condivisione di alcuni concetti di base abbia fondamentali conseguenze: metodologiche, strategiche e operative.

 

Come è buona norma in ogni progetto catalografico l’obiettivo primo e primario è quello della definizione della natura degli oggetti cui ci si intende applicare, ma poiché nel modello proposto dall’ICCD questa si lega indissolubilmente al  ruolo svolto dall’autore, le considerazioni che seguono tenteranno in particolare di analizzare e discutere le implicazioni di questo nesso, e ciò facendo giungeranno a lambire più spinose questioni intorno alla natura della fotografia e delle fotografie, non ridefinibili in questo contesto, ma certamente rilevanti specialmente quando il nostro riflettere e operare siano orientati alla catalogazione[1].

 

Nell’articolazione strutturale della scheda F il paragrafo og-oggetto è stato destinato a contenere le informazioni che consentono “la precisa e corretta individuazione, sia tipologica che morfologica del bene catalogato”, a partire dalla sua “connotazione funzionale”. Da questa è fatta derivare la necessità di distinguere non solo tra negativi e positivi, ma anche di aggiungere altre classi quali le diapositive (che sono però in tutta evidenza dei positivi) e i cosiddetti unicum, identificati come “immagini fotografiche «uniche», ottenute cioè senza mediazione di «negativi» e che, a loro volta, non possono essere utilizzate come « matrici»” (p.74), definizione estremamente pertinente,  ma certo non immediatamente corrispondente alla dichiarata individuazione del bene in termini di connotazione funzionale: è  chiaro infatti che anche queste tipologie di immagini – se considerate sotto il profilo funzionale – sono sempre (state) utilizzate quali positivi; non solo, questa incertezza definitoria aumenta se consideriamo le esemplificazioni proposte a chiarimento, tra le quali oltre al prevedibile percorso che va dai dagherrotipi alle polaroid (ma che non considera le immagini off camera) ritroviamo altri “prodotti unici (…) come fax o fotocopie”, a proposito dei quali risulta arduo sia sostenere la tesi dell’unicità (poiché in tutta evidenza derivano da matrici, anche se non «negative») sia, e ancor più, quella della natura fotografica, solitamente connessa all’idea di immagine ottenuta dopo esposizione e trattamento di uno strato fotosensibile.[2]

Le ulteriori indicazioni contenute nel manuale sembrano dapprima condividere e confermare quest’ultima classificazione più rigorosa e restrittiva, concordando con la  definizione etimologica della fotografia come “scrittura effettuata tramite la luce”, pur introducendo limitazioni che aprono impensati orizzonti metafisici nel momento in cui si stabilisce che questa “deve essere effettuata (…) per raggi luminosi …provenienti da oggetti appartenenti al mondo reale” (p.22), ma poco oltre questa formulazione  si amplia per comprendere “Nell’insieme «foto-grafia» (…) tutti quei segni che a seguito dell’azione di un pennello di luce (…) siano stati fissati vuoi nella trasmissione chimico-fisica di un sale d’argento, vuoi in una memoria di massa a seguito della trasmissione   dei pacchetti di elettroni accumulati in una CCD, vuoi, infine, sui supporti più vari a seguito di azioni di trasduzione e ri-oggettivazione dell’immagine virtuale” (p.26)[3].   Questa estensione dell’ambito catalografico a ogni immagine originata in maniera diretta o indiretta dall’utilizzo della radiazione luminosa in una qualsiasi delle fasi di produzione, sino a poter comprendere di fatto gli stessi prodotti di fotocomposizione, fotoincisione e fotolitografici, ha come conseguenza evidente  l’illimitata estensione del campo applicativo, dalla quale origina il rischio di una sostanziale inapplicabilità dello stesso progetto catalografico.

È questa onnicomprensività non tecnologicamente giustificata che porta di fatto e paradossalmente alla scomparsa dell’oggetto,  sommerso in una marea indistinta di prodotti apparentemente analoghi, consimili ma non identici. Questa è – a mio parere – la conseguenza più rilevante e preoccupante, sostanzialmente negativa di una impostazione di fondo che sotto una apparente riconsiderazione dell’orizzonte produttivo cela un atteggiamento ancora fortemente idealistico (forse postidealistico) che rifiuta la possibilità di definire e riconoscere la fotografia nella sua pura materialità per  assumere quale fondamento del proprio impianto concettuale “La scarsa rilevanza attribuita al mezzo e la conseguente accentuazione dell’intenzionalità di una comunicazione significante” (p.16)[4],  poiché  “va da sé che ciò che caratterizza una fotografia in quanto tale è unicamente la sua autorialità, ossia, la sua possibilità di trasmettere – in maniera più o meno diretta, convincente ed immediata – un’opinione, un concetto, un sentimento, un’emozione, una testimonianza dell’essere e dell’esistere che i referenti dell’immagine contestualizzano sotto il profilo storico.” (p.15)[5]

Il peso di queste definizioni tutte orientate verso la sola polarità autoriale non è di poco conto né appare privo di conseguenze,  poiché esse rimettono in discussione, senza fondarla teoricamente, una faticosamente acquisita identità ontologica di questa categoria di immagini, per le quali a partire dal Roland Barthes de La camera chiara “Il nome del noema della Fotografia sarà quindi: «è stato», o anche: l’Intrattabile”[6], corrispondendo così alla sua natura semantica di indice nella doppia valenza di segno deittico e indiziario, studiata da numerosi autori a partire dalle riflessioni peirciane del 1895.[7] è questo statuto di esistenza ciò che fa si che “nello stesso istante dell’esposizione propriamente detta la foto possa essere considerata come un puro atto-traccia (un «messaggio senza codici»).   è in quel momento, e solo allora, che l’uomo non interviene e non può intervenire senza cambiare il carattere fondamentale della fotografia.” è in quel momento fondante che la fotografia si caratterizza “in quanto tale” proprio per la totale assenza di autorialità.  è qui che si attiva quello che Franco Vaccari aveva proposto di nominare inconscio tecnologico[8], con tutto quanto notoriamente ne consegue in termini di (scarsa) rilevanza del “piglio inventivo e autorevole dell’autore”[9]; è in questo contesto definitorio che si comprende l’immagine tecnica essenzialmente quale realizzazione di un apparato destinato a produrre simboli, apparato di cui i fotografi non sono altro che  “funzionari”  che “dominano un gioco di cui non sono competenti”[10] e la fotografia è “l’immagine di una magica scena, automaticamente e necessariamente prodotta e distribuita da un apparato programmato nel corso di un gioco determinato dal caso, e i cui simboli rendono l’osservatore disponibile a comportamenti improbabili.”[11]

Se poi orientiamo la nostra attenzione agli oggetti, alle fotografie storiche o a quelle cosiddette documentarie (che certo costituiscono la stragrande maggioranza degli archivi e fondi da sottoporre a catalogazione) allora non dobbiamo dimenticare le riflessioni di Rosalind Krauss che, pur fondate su presupposti diversi ma solo in parte differenti da quelli citati, ha auspicato “la necessità di abbandonare, o almeno di sottoporre a una seria critica, categorie derivate dall’estetica come quelle di autore, opera e genere (come nel caso del paesaggio), [per]  cercare di mantenere la fotografia antica nel suo statuto di archivio e di chiedere che si esamini questo archivio in modo archeologico, come Foucault ce ne ha fornito insieme la teoria e l’esempio.”[12]

Invece nemmeno troppo nascostamente l’idea e la definizione di autorialità proposte dalla scheda F implicano la coincidenza tra autore e artista e l’identificazione della fotografia come opera (d’arte), in un tentativo tanto generoso quanto anacronistico di recuperare dignità a questa categoria di oggetti proponendo ancora una volta di assumerli  nell’empireo dei valori estetici tradizionali invece di riconoscerne lo statuto di novità storicamente determinata che porta alla definizione di un nuovo paradigma  per molti versi incommensurabile alle categorie antecedenti, che richiede strumenti analitici, e quindi anche storico critici nuovi, per i quali infine risulta necessaria e centrale la rinuncia a strumenti interpretativi fondati sulla valutazione estetica a favore del riconoscimento teorico e fattuale della categoria di bene culturale (frutto essa stessa di una cultura di massa fortemente segnata dalla fotografia e dalle altre forme di (ri)produzione e diffusione tecnologica), inteso quale traccia  di un evento o contesto dotato di valore storico, per il quale si porrà semmai il problema della sua determinazione

 

Ad una prima considerazione della   “fotografia intesa fondamentalmente nella sua accezione di Bene Culturale” (p.7) si sovrappone immediatamente quella di “fotografia come bene storico-artistico” (p.14), derivata dalla  “necessità (…) concordemente avvertita come centrale e prioritaria da parte della Commissione di studio promossa dall’ICCD (…) di esprimere la volontà deontologicamente portante di passare (…) ad una concezione qualificativa” di questa tipologia di immagini per le quali  “come avviene per qualsiasi intervento di restauro (…)  il riconoscimento del valore artistico (…) è infatti a monte di ogni attività specifica di catalogazione, anzi si può dire che, come il restauro, anche la catalogazione – considerata nelle sue implicite valenze di tutela e di valorizzazione – si ponga «essenzialmente come momento metodologico del riconoscimento dell’opera (…) nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica.»” (p. 13)

Risulta qui fondamentale e condivisibile – in termini metodologici – il ricorso alle elaborazioni  prodotte dai teorici del restauro, intorno alle quali, credo, la cultura fotografica più  impegnata sul versante della tutela farebbe bene a riflettere per più ragioni, non ultima quella che in questo ambito più che altrove si è riflettuto (e si riflette tuttora) intorno al  problema fondante del rapporto materia / opera,  ma certo vanno anche adottate maggiori cautele affinché l’operazione sia fruttuosa: nella citazione sopra ricordata ad esempio, il pur rilevante e significativo richiamo brandiano[13], di fatto assunto a sostegno di tutto l’impianto teorico adottato, non può esplicitarsi  in una citazione dalla quale sia stata espunta  un’unica e sola parola  (“d’arte”)  per tentare di ridurne quelle implicazioni idealistiche che si ritenevano ormai ampiamente superate, salvo poi individuare nel  “riconoscimento del valore artistico” il solo fondamento delle attività di valorizzazione e tutela dei beni.

 

 

Il determinismo che nell’impianto della scheda lega intenzione dell’autore e definizione dell’oggetto ha imposto ai redattori  “una adeguata riflessione sull’identità autoriale nel campo specifico della fotografia.” (p.14), dalla quale è stata fatta conseguentemente derivare l’indicazione normativa necessaria alla definizione del corrispondente contenuto descrittivo: ecco allora che nel paragrafo au – definizione culturale “Si indicheranno i dati individuativo-anagrafici relativi ai diversi autori responsabili dell’opera in esame, ossia alle persone o agli enti che hanno contribuito al contenuto creativo o intellettuale dell’opera che si sta catalogando (…). Saranno pertanto riportati in questo paragrafo sia gli autori responsabili della realizzazione dell’opera fotografica, sia gli autori dell’opera presa a modello.” (pp. 92-93)

La derivazione disciplinare e normativa dal trattamento catalografico di stampe e matrici incise è in questo passo evidente[14], ma continua a risultarmi incomprensibile  il nesso logico concettuale che unisce le due proposizioni facendole derivare l’una dall’altra: se mi applico all’opera “che si sta catalogando”, cioè a quella specifica fotografia, a quella materia signata  che ne costituisce l’individualità, il suo “contenuto creativo o intellettuale” (per quanto eventualmente ridotto a pura applicazione tecnica) non può che essere attribuito al responsabile della sua produzione e non a quello del referente fotografato. Né la contraddizione appare sciolta quando si analizzi compiutamente la questione de l’altro autore detto anche l’inventore: si scopre qui una ulteriore distinzione (che non saprei dire altro che gerarchica) tra gli  “autori fotografi (…), anche quando non siano direttamente responsabili dell’opera in esame, ma ne siano soltanto gli «inventori» (quando cioè una loro immagine sia stata presa a modello da altro fotografo)” e  “gli altri artisti, autori «inventori» delle opere riprese nelle fotografie oggetto di catalogazione” (ibidem). Anche qui si pongono almeno due ordini di problemi: in primis la definizione di “opera”, non immediatamente scontata e circoscrivibile a meno di ridurla nuovamente alla sola connotazione “artistica”, ma anche – e specialmente – cosa si intenda per  “prendere a modello”. Ci si vuol riferire a quanto tutta una nobile tradizione trattatistica ha inteso in termini di rimandi canonici a schemi compositivi o iconografici oppure più brutalmente, come pare suggerire il secondo caso, si pensa alla “riproduzione” di una fotografia o più generalmente di “un’opera (pittura, scultura, disegno, monumento, etc.) di altro autore (cosiddetto «inventore»)” (p.102)? Poiché è certo che nella prima accezione nessuno si sognerebbe mai di attribuire valore di coautore all’ideatore originario, nessuno indicherebbe Velásquez come “altro autore” delle Meninas di Joel-Peter Witkin, mentre proprio il nuovo riconoscimento di valore nato dalla “volontà deontologicamente portante  di passare da una definizione stantia e ormai ampiamente superata di fotografia, intesa in chiave esclusivamente servile e documentativa di un altro da sé referenziale, nella maggior parte dei casi già di per sé stesso esteticamente definito” (p.14) avrebbe dovuto impedire il formarsi della concezione stessa di qualsivoglia  “altro autore”  rintracciabile al di fuori della storia di produzione dell’immagine in catalogazione.

Io credo invece che in questa, e solo in questa possano essere rintracciati i differenti artefici dell’opera, vale a dire, nella accezione utilizzata nella “Introduzione”,  “tutti quegli autori e quegli operatori che, al momento dello scatto – o nella fase successiva della tiratura degli esemplari – hanno contribuito, concettualmente, esteticamente e tecnicamente alla realizzazione e alla formalizzazione iconica di una determinata fotografia e alla sua diffusione” (p.15). Questa concordanza si rivela però ancora una volta illusoria e di breve durata poiché le successive indicazioni normative per contro  impongono tassativamente di non riportare nel paragrafo relativo alla definizione culturale, e quindi all’indicazione di responsabilità dell’autore, proprio “i dati relativi a personalità che siano intervenute nel ciclo produttivo (…) dell’immagine fotografica con altre funzioni, responsabili ad esempio (…) della stampa/tiratura, di altri interventi tecnici sull’immagine (ritoccatori, coloritori, etc.) (..) che saranno tutti indicati (…) nello specifico paragrafo pd-produzione e diffusione.” (p.93)

Qui, al di là delle macroscopiche contraddizioni interne, si registra ancora una volta il distacco da una concezione materiale e tecnologica del bene a favore di una interpretazione idealistica che ne privilegia i soli contenuti informativi di ideazione e progettazione, certo determinanti ma insufficienti e inadeguati per fondare e garantire quel processo di conservazione e tutela di cui la catalogazione costituisce presupposto e strumento strategico.

Per queste ragioni avrei preferito che nello strutturare la scheda F si fosse tenuto conto  di un’idea di fotografia, di produzione fotografica per cui quella connotata autorialmente non rappresenta che una delle tante tipologie possibili, tutte, per definizione e per principio riconoscibili quali beni culturali e quindi passibili tutte di essere oggetto di catalogazione, a partire da considerazioni e politiche di intervento che non possono che essere storicamente determinate.

 

 

Note

[1] Tutte le citazioni riportate nel testo col semplice rimando di pagina sono tratte da Strutturazione dei dati delle schede di catalogo. Beni artistici e storici. Scheda F / prima parte. Roma: ICCD, 1999. Poiché considero tale elaborato il prodotto collettivo del gruppo di lavoro che lo ha redatto e sottoscritto, ho ritenuto opportuno non operare distinzioni individuali neppure nei confronti dei due testi introduttivi firmati rispettivamente da Marina Miraglia e da Carlo Giovannella, che non solo fanno parte a pieno titolo del sistema normativo della Scheda F, ma anzi ne costituiscono l’esplicitazione dei presupposti teorici e metodologici.

 

[2] Per un chiarimento delle ragioni che porterebbero a considerare queste immagini come “un unico assimilabile a una dagherrotipia” cfr. p.24. È chiaro che in questo contesto non si affronta né si pone in discussione l’eventuale possibilità di riconoscere lo statuto di bene culturale e quindi di catalogare immagini di questo genere, si avanzano dubbi sulla validità dei presupposti e sulla conseguente congruità del modello.

 

[3] Sottolineatura nostra; come già fu alle origini mi pare che il problema sia ancora quello del fissaggio: può una sequenza numerica considerarsi “fissata” così come la dimensione e la posizione di una molecola di argento o di gomma bicromatata? Nello stesso testo sono comprese altre considerazioni opinabili quali l’impropria assimilazione, e conseguente fungibilità “teorica”, dei concetti di discretizzazione e digitalizzazione, il primo ad esempio considerato senza tener conto di una variabile fondamentale quale è il rapporto di scala, tale per cui un’immagine fotografica, comunemente considerata “continua” si rivela ben presto “discreta” se sottoposta a opportuno ingrandimento: basti qui ricordare Il cielo per Nini, la quinta delle “Verifiche” di Ugo Mulas, e certo risulta altrettanto sorprendente scoprire che la “camera chiara” possa essere annoverata tra i “processi di stampa” (p.25). Ora poiché sarebbe ingeneroso supporre una scarsa conoscenza dei termini del problema si può credere che si sia fatto un ricorso eccessivo all’uso metaforico del linguaggio. è proprio questo che va però evitato nel momento in cui si procede alla messa a punto di criteri e procedure per la catalogazione, che comportano – come è ben noto –  il massimo sforzo di standardizzazione e di uniformazione, di chiarezza quindi.

 

[4] Quelle considerazioni “hanno infatti indotto a prendere in  considerazione nella scheda F tutte le possibili «uscite» tecnologiche della fotografia virtuale, anche se queste non hanno più niente di fotografico sotto il profilo chimico.

Per analogia concettuale è stato giocoforza impegnarsi (…) per individuare quei momenti in cui (…) la fotografia stessa si è avvalsa di altri media per la propria visualizzazione. Intendiamo riferirci in modo particolare a tutte le tecniche fotoincisorie – nella loro accezione di tecniche miste (…) Per questi motivi (…) la scheda F prevede la possibilità di prendere in considerazione anche le fotoincisioni, specie in quei casi in cui l’invenzione fotografica veicolata si impone per il proprio carattere di autorialità.” (p. 17). Poiché io ritengo invece che, almeno in una prospettiva catalografica, il mezzo (la materialità tecnologica dell’oggetto) abbia una sua rilevanza,  la verifica della possibile estensione catalografica alle tecniche che stanno “al bordo dello specchio”  quali le varie modalità di fotoincisione doveva essere condotta con maggiore circospezione, analogamente a quanto andava fatto per la cosiddetta  “fotografia digitale”, lemma che – giusta l’osservazione di W.J.Mitchell citato da Roberto Signorini, Ancora più ambigua. Primi tentativi di riflessione teorica sulla fotografia dall’immagine-traccia all’immagine digitale, in corso di stampa –  ha un valore metaforico piuttosto che descrittivo e referenziale, il cui uso rimanda a  quanto accadeva negli anni immediatamente successivi al 1839 quando per descrivere le prime fotografie si ricorreva come è noto ad una terminologia presa in prestito dalle arti del disegno.

 

[5] Questa definizione sembra rimandare al concetto riegeliano di kunstwollen inteso quale “elemento essenzialmente artistico [che si pone] prima del risultato effettivo”,  Mario Perniola, L’estetica del Novecento. Bologna: Il Mulino, 1997, p.54; per Riegl si veda Sandro Scardocchia, a cura di, Alois Riegl: Teoria e prassi della conservazione dei monumenti.  Bologna:  Accademia Clementina – clueb, 1995. Definita l’autorialità in questi termini resta tra le altre cose irrisolta la questione della sua determinazione: quale è e chi determina lo statuto di questa “possibilità di trasmettere”? Si collocano in questo snodo tra gli altri i problemi posti dalle teorie della ricezione (storicizzazione del valore ma anche cooperazione interpretativa) che pongono la questione dei diversi attori dell’intenzione.

 

[6] Roland Barthes, La camera chiara.  Torino: Einaudi, 1980, p.78.

 

[7] Philippe Dubois, L’atto fotografico. Urbino: QuattroVenti, 1996, pp. 53 passim, da cui salvo diversa indicazione sono tratte le citazioni successive.

 

[8] Franco Vaccari,Fotografia e inconscio tecnologico. Modena:Punto e virgola, 1979 (nuova ed., Torino, Agorà, 1994).

 

[9] Devoto – Oli, Nuovo Vocabolario illustrato della lingua italiana. Milano: Selezione del Reader’s Digest,1997, ad vocem “autorialità”. Non dimenticherei neppure, a questo proposito, quanto ricordava Tristan Tzara nel 1922: “Io conosco un tale che fa dei bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica.”, Id., “La photographie à l’envers” in Man Ray, Les champs délicieux. Paris: Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T.Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie.  Torino:  Einaudi, 1975, pp.73-75. La stessa problematizzazione del ruolo dell’autore si pone al centro di importanti ricerche contemporanee: si pensi alle opere di Richard Prince.

 

[10] Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia.  Torino: Agorà, 1987, p.31.

 

[11] Photograph, in Andreas Müller-Pohle, Benrd Neubauer, eds., Flusser Glossary, “European Photography“ 50 (1992) , vol.13, n.2.

 

[12] Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia.  Milano: Bruno Mondatori, 1996, p.48.

 

[13] Non è questa la sede per affrontare i nodi di una possibile lettura fotografica delle teorie brandiane, ma certo la concezione della materia come “supporto” dell’opera, come “tramite dell’immagine” e come stimolo alla sua epifania offre stimolanti elementi di riflessione.

 

[14] Si veda Serenita Papaldo, a cura di, Strutturazione dei dati delle schede di catalogo e precatalogo. Beni artistici e storici Schede S-MI. Roma: ICCD, 1995. L’assunzione del concetto di “altro autore” pare costituire il retaggio della tradizione catalografica del GFN per la quale, com’è noto, il solo “autore” previsto era quello dell’opera fotografata; cfr. Paola Callegari  et alii, a cura di, La Fototeca Nazionale. Roma: ICCD, 1984.

Luigi Ghirri: seduzioni della differenza (1999)

in Luigi Ghirri. Castelli valdostani, catalogo della mostra (Aosta, Torre del Lebbroso, 3 Luglio – 3 Ottobre 1999). Aosta: Musumeci  Editore, 1999

 

Oh che bel castello…

 

“Quando sono chiamato a compiere un lavoro (…) il primo impatto risulta sempre problematico” scriveva Luigi Ghirri nel 1987[1] presentando alcune immagini eseguite su commissione. “Per prima cosa mi ritornano alla mente lavori analoghi svolti in altri luoghi, con modalità e finalità analoghe (…) poi comincio a rivedere e a ripensare a tutto quello che è già stato fatto negli stessi luoghi da altri fotografi e da fotografi di altre generazioni. (…) Non è sicuramente una novità riaffermare che ormai tutti i luoghi sono iper-descritti, raccontati, indagati, tanto che sembra impossibile ad ogni  nostro sguardo sfuggire da un deprimente deja-vu, se non allo stereotipo.”

Questa riflessione, nata in altri siti e occasioni, credo possa essersi affacciata alla mente di Ghirri anche nei momenti che hanno preceduto nel 1991 la realizzazione della campagna fotografica sui castelli valdostani, che qui presentiamo per la prima volta nella sua compiutezza, commissionata dalla Regione Valle d’Aosta nell’ambito di un progetto ideato da Gianfranco Maccaferri.

 

Tradizione iconografica e stereotipo sono in questo particolare contesto elementi specialmente marcati e pericolosamente incombenti: tra pittoresco e sublime l’interesse per le architetture castellane si sviluppa a partire dalla seconda metà del XIX secolo[2], mescolando istanze romantiche e  gusto troubadour con le prime attenzioni archeologiche per il patrimonio costruito che emergono in artisti come Federico Pastoris, il cui verismo “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[3] Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile anche le prime applicazioni – pur non sistematiche[4] – della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico “piemontese” in cui si comprendeva allora anche la Valle d’Aosta.

Il primo viaggio di D’Andrade in valle, accompagnato da Pastoris e datato 1865, tocca oltre ad Aosta proprio i castelli di Fénis, Verrès e Issogne,  al quale già nel 1853 un altro artista torinese come Carlo Felice Biscarra aveva dedicato una serie di studi e disegni, mentre numerosi oggetti di provenienza valdostana entravano a far parte delle collezioni del neonato (1863) Museo Civico di Arti Applicate di Torino.[5] In questo contesto di interessi e passioni va collocato anche l’acquisto del castello di Issogne nel 1872 da parte di un altro esponente  della “scuola di Rivara”, Vittorio Avondo che ne affida il restauro proprio a D’Andrade in collaborazione con Pastoris ed i fratelli Pietro[6] e Giuseppe Giacosa[7], il quale nello stesso anno pubblica in “Nuova Antologia”, con dedica a Pastoris, Una partita a scacchi , poi rappresentata con scenografie di D’Andrade.

È a questo gruppo di artisti che si deve l’invenzione, tutta ottocentesca, dei castelli valdostani, prima assenti da una tradizione iconografica che semmai aveva privilegiato le antichità romane di Aosta. Questo processo di invenzione prenderà forma compiuta,  fascinosamente in bilico tra cura filologica e spettacolarizzazione didattica, nella campagna di studi e rilevamenti che porterà alla realizzazione del Borgo e Rocca Medievale al parco del Valentino per l’Esposizione generale italiana  che si tiene a Torino nel 1884[8], occasione in cui la Prima Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani auspica la formazione di quella  “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni [fotografiche] architettoniche di edifici nazionali” [9]che propone con largo anticipo il problema dei Musei documentari.

Intorno  e ancor di più in conseguenza di  questa realizzazione[10] operano sia fotografi professionisti come Vittorio Ecclesia, che lavora tra l’altro a Fénis senza però dedicare agli affreschi del castello quella attenzione minuziosa con cui leggerà nello stesso periodo i cicli di Issogne, sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[11],  per lungo tempo collaboratore di D’Andrade, al quale si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione dello studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[12]

 

Dal complesso progetto culturale che presiede all’invenzione del Borgo Medievale deriva quella necessità di realizzare una “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni”  delle diverse tipologie di costruzioni che sarebbero andate a costituire il Borgo,  raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio (…) obbligo solo e strettissimo l’autenticità”[13], che testimonia di un percorso intellettuale contraddittorio e affascinante, poi tradotto magistralmente in progetto espositivo, nel quale è facile riconoscere il segno dell’aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, in copie autentiche, analoghe e fungibili al reale. In questo senso esso rivela i propri debiti con le modalità culturali proprie dell’universo fotografico di secondo Ottocento e investe una pratica che si vuole filologica nonostante l’intervento di assemblaggio e collage: ogni frammento, così come ogni fotografia, è (considerato) autentico, vero  in quanto riproduzione fedele all’originale e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, destinato a rappresentare in modo tanto verosimile da divenire reale un soggetto inesistente in quella forma. Il gioco intellettuale e pittoresco della simulazione viene spinto fino alla messa in scena di una rappresentazione più vera del vero che prende forma nella commissione, fatta da Alfredo D’Andrade a Vittorio Ecclesia[14], di una serie di vedute del Borgo animate da figure in costume, che influenzeranno l’opera di un fotografo più giovane come Edoardo di Sambuy[15], titolare almeno dal 1898 di uno “Studio di riproduzioni artistiche” dopo una breve carriera di fotografo amateur.   In questo stesso anno anch’egli realizza una serie di immagini  della Valle d’Aosta (alcune dedicate ad Issogne) animate da personaggi in costume storico che – diversamente da quanto accadeva in Ecclesia – costituiscono  il soggetto principale e il centro di attenzione: il punto di vista si abbassa, solo i primi piani sono a fuoco e l’elemento architettonico è trasformato in fondale scenografico. Queste fotografie rappresentano  per il Piemonte la prima traccia visibile del progressivo slittamento semantico del termine ‘artistico’ applicato alla fotografia: se fino ad allora (e per molti anche dopo, sempre) l’aggettivo qualificativo era riferito alle caratteristiche dell’oggetto fotografato (architettura, dipinto, insomma opera d’arte) qui esso inizia a essere riservato all’immagine in quanto tale,  in accordo a quel  passaggio dalla riproduzione alla fotografia “artistica” che sarà sancito dall’Esposizione internazionale del 1902 di cui lo stesso Di Sambuy fu responsabile.

 

L’influenza della realizzazione del Borgo Medievale  è però particolarmente rilevante sulle campagne documentarie dei fotografi piemontesi, poiché contribuisce a determinare quella “particolare e storica forma di traduzione dell’architettura in immagine. Immagine di una particolare concezione dell’architettura” [16] che si tradurrà progressivamente nella sedimentazione di quegli stereotipi visivi a cui faceva riferimento Ghirri nella riflessione posta in apertura.

Un riscontro immediato di questa influenza ci è dato dall’elenco dei soggetti presentati all’Esposizione del 1884 dagli studi fotografici che intrattenevano più stretti rapporti con la cerchia di d’Andrade quali Berra ed Ecclesia che espongono rispettivamente fotografie relative a S. Antonio di Ranverso e alla Sacra di S. Michele, ma anche  una nutrita serie di vedute dei castelli della Valle d’Aosta, tema che ritornerà ampiamente  anche nell’opera  di altri fotografi piemontesi come Vittorio Besso, per il quale un confronto tra i cataloghi del  1881 e del 1893 mostra un accrescimento  rilevante del repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entra a far parte una serie dedicata ai castelli costituita da ben 17 soggetti, e specialmente Secondo Pia che comprenderà molte di  queste architetture nella sua fondamentale ricognizione fotografica. A partire dalla fine del secolo i castelli valdostani -ormai entrati a far parte del patrimonio pubblico per iniziativa dello stesso D’Andrade che in veste di direttore dell’Ufficio regionale per  la conservazione dei monumenti ne aveva promosso l’acquisto (Verrès, 1894; Fénis, 1895; Issogne, 1907) –  costituiscono mete consolidate del nascente turismo associazionistico-culturale e la loro immagine diviene componente familiare delle prime guide a stampa ad alta tiratura, “abitati da Paggi Fernandi e da abati di Challant le cui regioni di provenienza sono chiaramente ben più quelle mitiche della letteratura che non quelle della realtà effettivamente vissuta.”[17]

 

 

Dichiarazioni autentiche in forma apocrifa

 

I castelli valdostani, allora, sono immagini immaginate, iperdeterminate da un itinerario di costruzione della loro visibilità tutto moderno, che nasce da quella cultura che “facendo della Fotografia, mortale, il testimone principale e come naturale di «ciò che è stato» (…)  ha rinunciato al Monumento. Paradosso: lo stesso secolo ha inventato la Storia e la Fotografia” [18], ma anche il Restauro, connesso storicamente alla riscoperta e forse soprattutto alla reinvenzione del medioevo: dal gothic novel all’eclettismo storicistico su su fino al  cinema e al fumetto, al Luna Park e a Disneyland.

Qui lo stereotipo piuttosto che costituire l’esito di una proliferazione visuale anestetizzante marca in certa misura l’origine stessa della reimmissione dell’oggetto nel contesto culturale, per questo  solo “un tentativo semplice di ricostruire un sentimento di appartenenza e pacificazione, un «percorso possibile» all’interno dei territori da fotografare e raccontare”[19], può ancora consentire di scoprire “l’enorme potere di rivelazione che ogni nostro sguardo può contenere; [la necessità] di una visione che ci «riconsegni» i monumenti e le architetture grandi e piccole che compongono il nostro habitat, nonché i colori che lo determinano e lo definiscono. (…) quasi in un gioco di sottile dimenticanza, per lasciare all’esterno la possibilità di rivelarsi, o comunque cercare nella visione un punto di equilibrio tra la mia soggettività e i dati dell’esterno”[20]. “Penso che oggi bisogna (…) continuare a pensare alla fotografia come desiderio, immagine dialettica, e forse utopia, per mostrare all’altro il nostro stupore nei confronti del mondo (…) e che da questa semplice constatazione o progetto nascono il fare, le percezioni e i sentimenti”[21], perché “mai come oggi l’uomo è travolto dalle immagini, e mai come oggi queste gli dicono poco. L’uomo è talmente saturo che non sa più provare emozioni. La fotografia ha quindi un compito etico ancor prima che estetico.”[22]

 

In questo contesto si colloca il lavoro condotto da Ghirri sui castelli valdostani, lavoro che come molti altri realizzati  su commissione lo porta a confrontarsi coi monumenti,  coi luoghi notevoli, e comuni, di ciascun territorio, apparentemente lontano e in contraddizione coi suoi primi interessi, penso in particolare a In scala (1977-1978 ), ma in realtà tutto compreso all’interno di una riflessione più ampia e matura sui rapporti tra artificio e natura, sulla rappresentazione e  sul doppio, sul nostro essere culturale nella storia: produttori, consumatori e narratori di luoghi ridotti ad immagini;  nella consapevolezza che il rapporto col sito storico si dà sempre e comunque nel presente e nonostante l’appartenenza dell’icona castello al reame dell’immaginario, esiste ancora – e va mostrata – la sottile differenza che distingue Fénis, Issogne e Verrès da Disneyland e altri nonluoghi.[23] Abbandonata per un momento l’indagine sui margini (anche delle convenzioni rappresentative, non solo urbani o geografici) Ghirri si misura con temi compresi tra  Grand Tour e Touring Club (Abbazie, Campanili, Cappelle, Castelli, Centri storici, Chiese, Conventi, Fontane monumentali, Musei, Palazzi, Ponti, Teatri, Torri, Ville) , con spazi e luoghi cioè che non sono  stati “dimenticati dalla storia”. è proprio nell’interrogarsi sulla possibilità di narrare di nuovo questi luoghi facendo i conti con lo stereotipo per “squarciare il muro percettivo che ci accompagna”[24]  che risiede l’interesse alto e la grande qualità della riflessione di cui queste immagini  sono l’esito.

Il punto nodale è allora la comprensione – che determina poi le forme del narrare – del nostro rapporto con la storia, “alla ricerca di quell’originale [necessariamente] perduto” che non possiamo che riscoprire nella contemporaneità della nostra percezione. Ha ricordato Arturo Carlo Quintavalle ormai parecchi anni fa[25] che le foto di Ghirri dimostrano la consapevolezza di chi ha coscienza non solo di essere immerso in “una civiltà dove originale e copia non esistono perché tutto è ambiguamente duplicato, incerto tra realtà e immagine della realtà”,  ma anche esprimono  una “durata” che deriva dal “soffermarsi sulla dimensione della storia degli oggetti, ma una storia che è sempre dentro l’oggi, non documento di una storia staccata, lontana da noi”, trama di una esperienza in cui i  singoli elementi che costituiscono il manufatto storico “ci appaiono come brani di uno straordinario «Romanzo storico». Ed è così che si ha la sensazione che la storia possa essere condensata in questo «Castello in aria» [riferendosi alla Sacra di San Michele in Valle di Susa] dove tutto è sospeso, dove le nuvole in certi momenti nascondono il castello e dove in altri lo mostrano sospeso su loro stesse.”[26]  “Romanzo storico”, “Castello in aria” sono qui termini sin troppo chiaramente sintomatici di un modo di percepire e comprendere il monumento, la “permanenza” di rossiana memoria[27], che Ghirri mostra a partire dalla fine degli anni Ottanta: “Sentiamo che abbiamo abitato questi luoghi, una sintonia totale ci fa dimenticare che tutto questo esisteva e continuerà ad esistere al di là dei nostri sguardi”[28],   e ancora:  “è necessario recuperare una forma di umiltà di fronte al tempo e alla durata delle cose, e proporre un  punto di equilibrio fra artificio e natura, fra rilevazione e rivelazione. Quello che ci è dato di conoscere non è che una smagliatura. Eppure è qualcosa di irripetibile…”[29]. È in questo scarto che risiede la possibilità di rappresentare di nuovo, di  “osservare il mondo in uno stato adolescenziale, rinnova[ndo] quotidianamente lo stupore”[30], che coincide per Ghirri con la ragione stessa del fotografare.

È in questa “piccola smagliatura sulla superficie delle cose, dei paesaggi che abitiamo e viviamo” che si insinua lo sguardo del fotografo scoprendovi il solo spazio “che ci è dato di conoscere, raccontare e rappresentare”;  è qui che “si può spiegare l’aria di inquietante tranquillità che abita luoghi e paesaggi, che sembrano essere abitati di nuovo dal mistero e dai segreti che ancora possiedono”  dove, richiamando le categorie di Roger Callois[31], ciò che emerge non è l’universo meraviglio  del fiabesco “che si affianca al mondo reale senza sconvolgerlo e senza distruggerne la coerenza”,  ma quel fantastico che “rivela uno scandalo, una lacerazione, una irruzione insolita, quasi insopportabile nel mondo reale”[32].

Per questo, come aveva ben compreso Massimo  Mussini, “per Ghirri la fotografia non è «invenzione» nel senso tradizionale pittorico, ma inventio nel senso primo di ritrovamento, scoperta, e dunque disvelamento, della realtà fenomenica” [33] o, come ha detto lui stesso: “credo che la fotografia sia semplicemente la rappresentazione di come si percepisce la realtà”[34].

Qui, nell’accettazione del proprio rapporto dialettico col mondo che si fa immagine, risiede la possibilità per il fotografo di riconoscere il senso, la necessità del proprio ruolo, la sua funzione etica che lo porta a indicare, a suggerire possibili scenari di esistenza e comprensione affascinata delle cose. “So benissimo che l’immagine fotografica non è la realtà – dice Ghirri –  ma l’osservatore, nel momento in cui guarda una fotografia, inevitabilmente viene richiamato alla realtà fotografata: questo istantaneo e duplice sguardo determina la sottile fascinazione della fotografia, per questo non credo sia necessario aggiungere, trasformare, colorare ulteriormente la realtà  fotografata. (…) Io penso di agire e intendo lavorare con leggerezza e trasparenza”[35].

Questo non è un elogio ingenuo della “naturalezza” o della presunta obiettività dell’immagine fotografica; tutto il suo lavoro, inutile sottolinearlo,  si è svolto intorno al profilo problematico di questa presunzione ingenua e storicamente significante. La realtà mostrata non può che essere – da sempre – quella fotografata ma, dopo le ricerche degli anni ‘70, tale postulato non necessità più di essere ostentato, non marca esplicitamente l’esito formale di uno sguardo rivolto a scorci inconsueti per eccessiva normalità. Ora la rivelazione è più complessa e sottile, verificata in contesti più rischiosi, invischiati in una tradizione iconografica dalla quale è possibile liberarsi solo accettando di subire “il sottile fascino malefico della doppia visione che si ha quando si osserva una fotografia, seduzione della differenza che esiste tra la cosa e la cosa fotografata, lo scarto percettivo del doppio sguardo che continua a catturarci”[36].

è  l’esplicitazione della retorica della messa in scena, sottesa alla semplicità di uno sguardo che ormai non ha più bisogno di essere ironico, di segnare una distanza ulteriore e distinta da quella già insita nell’atto della trasformazione in immagine. Ciononostante il lavoro non giunge ad assumere posizioni di straniamento, non più almeno, ma anzi rivela la volontà di raggiungere  “la percezione della quotidianità degli spazi che compongono un paese come l’Italia”[37],  allargando il  Catalogo sino a “realizzare una specie di «legenda» italiana, legenda nel senso di cose da vedere in quanto sono dei modelli, come a dire degli archetipi, oppure un abbecedario.” (p. 305, 1991) nel quale – come sempre – “Le foto assumono senso dal loro essere dentro un «sistema», all’interno di un montaggio o discorso narrativo”, mentre la “rinnovata attenzione alla singola immagine”[38] appartiene al  superamento della fase più marcatamente programmatica di cui si diceva, in direzione di una più complessa condivisione di analiticità e sentimenti .

 

 

 

Teatri di luce e accoppiamenti giudiziosi

 

Per queste ragioni forse alle indagini tematiche più diverse, dai paesaggi padani all’atelier Morandi, ai singoli argomenti sembra essere sotteso un tema di fondo, vero soggetto della riflessione per immagini: il territorio “vastissimo e inesplorato” (1989) costituito da quella rappresentazione dello spazio che “è sempre stata all’interno della fotografia un problema esclusivamente formale mentre, a mio parere, è anche un problema che si lega al concetto di tempo”[39] e quindi di durata e, al limite, di storia. Esso si  traduce in termini di modalità narrative in quel “adoperare la luce per cancellare alcune cose anziché per rivelarle” che costituisce certo la cifra più affascinante e magistrale degli ultimi lavori di Ghirri, ben leggibile in molte delle immagini dedicate ai castelli valdostani. La luce come fondamento stesso della fotografia nella sua concezione aurorale evocata dal ricordo della camera obscura del castello di Fontanellato,  ma anche legata alle  suggestioni di quella “architettura fatta con le ombre (…) svelata dalla luce” di cui aveva parlato Etienne-Louis Boullée riletto da Aldo Rossi[40], luce come legame rivelatore tra atemporalità e durata, tra natura e storia.

Proprio questo sapiente riconoscimento del ruolo costruttivo della luce  impedisce di collocare, ma non siamo certo i primi a riconoscerlo, il lavoro di Ghirri nella tradizione canonica della fotografia di architettura, rivelando un’altra delle sottili questioni del fare e del parlare fotografia, quella dei generi: non è sufficiente che il manufatto architettonico costituisca il soggetto della ripresa perché questa possa essere conseguentemente definita di architettura. Basterebbe il confronto, per questa serie sui castelli e specialmente su Issogne, tra le soluzioni adottate da Ghirri e quelle messe in atto da Vittorio Ecclesia più di cent’anni prima, nobile avvio di una discendenza sempre più sciatta e approssimativa. Non è questione, banalmente, dello scarto culturale tra momenti cronologicamente lontani, non è neppure un problema di inquadrature diversamente sapienti: è una diversa intenzione poetica e narrativa. Scopo dichiarato del fotografo ottocentesco è la restituzione perfetta ed equilibrata della percettibilità dell’insieme, la riduzione intenzionalmente neutrale di uno spazio a tre dimensioni immerso in una luce che tutto lega e distingue; a questa “precisione” Ghirri contrappone un desiderio di “profondità” che si traduce in invenzione dell’ombra, soluzione tutta interna certo al suo universo intellettuale e poetico, ma anche possibile risposta alle affermazioni di chi, come Bruno Zevi, ha sostenuto da sempre l’impossibilità della restituzione fotografica dello spazio architettonico. Qui, nella porzione mantenuta in ombra si colloca il punto (fisico) in cui all’osservatore è consentito di dar vita alla sua propria percezione. L’ombra è scarto e smagliatura intenzionale dell’immagine, offerta per superare la barriera della restituzione piana di uno spazio a quattro dimensioni. Questa assenza densa che è l’ombra traduce in figura quel “sentimento di indicibilità che accompagna per sempre ogni visione. Un misterioso silenzio (…) sembra diventare il modo più evidente e plausibile per costruire un racconto di fronte all’inesauribilità del mondo esterno” [41]. Ma l’ombra introduce anche una distanza, una memoria che consente di mostrare il reale come citazione di sé stesso; essa porta a  fotografare l’oggetto come se fosse memoria di quell’oggetto  stesso, che ormai non può più essere visto che attraverso una trama di rimandi e relazioni, sogni e suggestioni. Impossibili da vedere in sé, il paesaggio, l’architettura,  le cose rivelano un senso solo se ne accettiamo la loro modalità di esistenza attuale,  e per questo più ricca, mitica nel senso che a questo termine dava Aldo Rossi: “Sempre più amo le citazioni o i frammenti del passato, anche i frammenti materiali, le ricostruzioni, tutto ciò che assume un significato nuovo nel contesto (…) Mi sembra che le cose riappaiono con la permanenza del mito e che quindi noi traduciamo sempre un disegno antico.”[42]

 

Questo tradurre nuovamente dà forma a tutto il lavoro di Ghirri sui castelli valdostani, assumendo di volta in volta modalità diverse che nascono, pur nell’unitarietà della realizzazione complessiva, dalla definizione dei problemi che pongono le singole architetture fotografate, vissute essenzialmente come interni, come spazi della rappresentazione piuttosto che come figure rappresentate inserite in un contesto ambientale che non è mai dato di vedere. Certo questo è stato per Ghirri – credo – un modo per sfuggire alle insidie di una tradizione iconografica di matrice “romantica” e turneriana (accettata ad esempio nel lavoro di poco precedente dedicato alla Sacra di San Michele),  ma anche l’esito di un letterale  spaesamento, che lo obbliga a dedicare al paesaggio dei castelli pochissime immagini, poi non selezionate, in cui lo sforzo è di adattare, di “tradurre in piano” se non in pianura l’orografia che li circonda. Né gli importa ormai più di riflettere sull’identità e sul ruolo dei frequentatori turistici di questi luoghi, essi non sono più soggetto sociologico o specchio inquieto della presenza del fotografo, ma puro componente delle fenomenologia di percezione dei siti, presenza indifferente e in perenne movimento, secondo una soluzione formale di cui si ricorderà Thomas Struth nella sua serie sui Musei.

Il problema è quindi – ormai lo abbiamo capito – quello che possiamo definire del rappresentare come rappresentazione: mostrare l’artificio in modo naturale, far sì che il sedimento e la stratificazione che formano la nostra esperienza del mondo siano trasformati in figure non forzosamente retoriche, insistite lasciando “agli spazi, agli oggetti, ai paesaggi, il compito di rivelarsi al nostro sguardo”[43] segnato dalla memoria.

Ecco allora il senso profondo di queste immagini che appaiono  “teatrini che danno il senso di un mondo osservato”, come ha detto Ermanno Cavazzoni[44], dove – come in alcuni interni di Issogne – il letto a baldacchino è proscenio, aperto da cortine  vermeriane. La ripresa è esplicitamente in soggettiva: noi abitiamo l’alcova e osserviamo il mondo, affascinati e protetti, disposti ad accogliere il fantastico; ma il letto è anche spazio nello spazio, luogo misterioso e letteralmente oscuro, per accadimenti privati, teatro segreto del mondo di fronte al quale il visitatore è invitato  a passare senza far rumore, attratto dalla doppia fuga prospettica che si apre sul fondo; apertura su spazi discordi, doppia possibilità di prosecuzione del racconto, tra raccoglimento e azione dinamica, per indicare la complessità e l’articolazione dell’organismo architettonico che vive nel tempo: forma, volume e luce, il colore della luce. Doppie aperture e riquadrature come scatole ottiche  compaiono anche  in molte altre immagini, organizzate in composizioni nelle quali i ritmi neoplastici riemergono come sorprendente reperto antico, e costituiscono la soluzione felice ad un problema sottile e complesso, quello di rendere ragione, di restituire fotograficamente spazi concepiti prima del “paradigma” prospettico, per i quali risulterebbe improprio e inadeguato il ricorso alla frontalità della prospettiva centrale insita nella stessa concezione dell’apparato ottico utilizzato.[45] Ecco allora che l’asse centrale dell’immagine risulta sovente occupato da un elemento sordo e piano, che ha lo scopo di suddividere e raddoppiare l’inquadratura distribuendo lo sguardo su fughe diagonali, a volte con effetti caleidoscopici.  Lo si vede bene nella serie dedicata a Fénis in cui, fin dall’ingresso, la visione è mediata dai fornici degli archi, improvvisamente vuoti e silenziosi dopo il passaggio dei visitatori, mentre l’avvicinarsi allo scalone è progressivo e lievemente obliquo. Poi,  lo sguardo si muove lungo i ballatoi ai diversi piani, fermandosi a definire inquadrature in cui la sottolineatura di una fuga prospettica, raddoppiata ancora da un’apertura finale, è riequilibrata dalla sovrapposizione per piani di più fondali distinti, ciascuno corrispondente ad un differente elemento di articolazione dello spazio del castello, con aggiustamenti progressivi del punto di ripresa che generano sottili ed eloquenti differenze nell’articolazione dell’immagine finale. Il ricorso al codice prospettico che si trasforma in linguaggio e forma della narrazione ritorna ancora negli interni di Verrès,  specie nella sequenza relativa all’antica cucina padronale, dove gli allineamenti ottici informano palesemente e virtuosisticamente lo spazio, mostrandone chiara la sua caratteristica essenziale di “cosa fotografata.”

Quando lo spazio è più ristretto e pieno, come nel punto nodale del loggiato al secondo piano di Issogne, Ghirri procede per direzioni tra loro ortogonali, per mostrare l’addensarsi dei diversi elementi,  avvolti in una luce calda e morbida che riporta alla memoria le architetture fotografate da Frederick Evans. Cunicoli, passaggi e porte,  arcate,  ciascuno di questi costituisce elemento di articolazione e di raccordo, ma specialmente le scale, nelle differenti tipologie e forme, assumono un valore e un ruolo particolare in questo racconto poiché suggeriscono un al di là dello spazio rappresentato, sino a divenire, specialmente per Issogne (guardate attraverso il filtro di suggestioni costruttiviste), elemento strutturale della narrazione, ordito del racconto di cui la sequenza di sguardi costituisce la trama, filo conduttore ed elemento di congiunzione narrativa, suggerimento e anticipazione, ma anche elemento dinamico in grado di muovere lo spazio con espansioni e compressioni che dipendono dalla direzione dello sguardo.

Intrecciati e disseminati lungo il racconto di questo viaggio nei castelli valdostani incontriamo poi segnali e memorie di altri luoghi e di altri sguardi: i toni caldi degli intonaci della Certosa di Capri e delle case emiliane, le ombre rivelatrici dell’Interno di Villa Sorra, le scenografie e i teatrini di Rossi, i graffiti e i monocromi dell’Atelier Morandi, le finestre a crociera di Versailles e quelle della scuola di Fagnano Olona, ancora di Rossi: sono sintomi della forte autoreferenzialità del progetto visionario di Ghirri. Il riemergere di rimandi e analogie, di memorie visuali che suggeriscono autocitazioni consente di  ribadire con leggerezza determinata le ragioni del mostrare;  per ricordare sempre non solo “il fascino malefico della doppia visione”,  ma anche che ciò che si sta progressivamente compiendo davanti ai nostri occhi non può essere altro che la costruzione di un autoritratto per immagini.

 

Note

 

 

[1] Luigi Ghirri, Luigi Ghirri, in Il museo diffuso. Beni culturali e didattica a Cesena, catalogo della mostra (Cesena, Galleria Comunale d’Arte – Palazzo del Ridotto, 4 luglio – 13 settembre 1987). Milano: Mazzotta, 1987, pp.19-20, ora in Luigi Ghirri, Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per una autobiografia, a cura di Paolo Costantini e Giovanni Chiaramonte. Torino: SEI, 1997, pp.125-126. A questa fondamentale raccolta di scritti (d’ora in poi NASS ) si rimanda per i dati editoriali delle fonti bibliografiche citate di seguito, per le quali si forniranno qui solo, titolo, data di  prima pubblicazione e riferimento alle pagine della raccolta.

 

[2] Data al 1869 l’album La Vallée d’Aoste  monumentale photographiée et annotée historiquement di Meuta e Riva, pubblicato a Ivrea dalla Tipografia Garda,  che costituisce sinora  il primo esempio noto di pubblicazione fotografica relativa al patrimonio culturale della Valle.

 

[3]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891: Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna  Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni  Romano. Torino:  Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326.

 

[4]Pierangelo Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981), a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp. 107-123.

 

[5]Bruno Orlandoni, Architettura in Valle d’Aosta. III. Dalla Riforma al XX secolo. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1996, p.354

 

[6] “Questi giovani artisti traversavano la Val d’Aosta nei più fantastici costumi, il cappello ornato di piume, cantando e ridendo” – ricorderà Pietro Giacosa molti anni dopo, ed ancora: “Non so se fu nel 1872 o nel 1873 [in occasione di un Natale] Eppure si cenò in costume quattrocentesco, e qualcuno non disdegnò di indossare maglie e corazze di ferro.”, Pietro Giacosa, Il Castello di Issogne, con fotografie di Augusto Pedrini. Verona: Stamperia Valdonega, 1968, p.4 passim.

 

[7]Il volume di Giuseppe Giacosa, Castelli valdostani e canavesani. Torino: Roux e Frassati, 1898, offerto da “La Stampa” quale strenna ai propri abbonati, sancirà definitivamente la fortuna turistica di questi luoghi. Lo stesso Giacosa aveva firmato l’introduzione all’album  Il castello di Issogne in Val d’Aosta: Torino: Camilla e Bertolero, s.d. [1884], con diciotto tavole fotografiche di Vittorio Ecclesia, destinate a “invogliare gli studiosi ad uno studio speciale intorno a questo singolarissimo edificio.” (p.II). Alcune di queste tavole, tradotte in litografia da Carlo Chessa, verrano utilizzate per illustrare il volume del 1898 ma erano già state ripubblicate da Robert Forrer, Spätgothische Wohnraume und Wandmalereien aus Schloss Issogne.  Strassburg: Schlesier,  1896, con una inspiegabile attribuzione all’editore Manias & Co.

 

[8]Per la ricostruzione delle vicende che portarono alla realizzazione del Borgo cfr. Rosanna Maggio  Serra, Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade, op.cit., pp.19-43. L’operazione di riscrittura apparentemente oggettiva  sottesa alla realizzazione di questo complesso è stata accuratamente studiata da Carla Bartolozzi,  L’invenzione della Rocca e del Borgo Medievale di Torino, in Id., a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995, pp.21-46. Su questi temi si veda ora anche Alfredo d’Andrade. L’opera dipinta ed il restauro architettonico in Valle d’Aosta tra il XIX e il XX secolo, catalogo della mostra (Aosta, 3 luglio  – 19 settembre 1999), a cura di Lia Perissinotti. Aosta:  Musumeci Editore, 1999.

Che non fosse il puro interesse archeologico a costituire il nucleo forte dell’interesse di questo circolo intellettuale ed artistico per  il passato, e quindi anche per le architetture medievali valdostane e per la loro riproposizione, è dimostrato dal clima giocoso in cui si svolse il banchetto offerto ad Alfredo d’Andrade in occasione della stessa Esposizione,  a cui l’ospite d’onore  intervenne “travestito da Ercole [con] in mano una clava ed in testa il gibus”, secondo un gusto della messa in scena che lo aveva visto di volta in volta indossare, col suo ristretto gruppo di amici, costumi medievali o rinascimentali, cfr. nota  6.  Lo stesso Camillo Boito celebrerà il fascino romantico di queste costruzioni ricordando che “Un castello antico è bello al lume di luna, quando gli  sprazzi della luce d’argento mettono sulle sconquassate muraglie qua e là come un lenzuolo candido che le fa parere fantasmi giganteschi;  quando le ombre fitte, i buchi nerissimi trattengono il piede spaurito, e la signora bionda, che  vi  sta a lato, si avviticchia a voi, stretta, tremando.”, cfr.Torino e l’Esposizione Generale Italiana 1884. Cronaca illustrata dell’Esposizione Nazionale Industriale e Artistica del 1884. Torino – Milano: Roux e Favale – F.lli Treves, 1884, p.67 e p.334.

 

[9]Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

 

[10]Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra; apparato documentario a cura di Claudia Cassio. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977; Alfredo d’Andrade, op.cit.

 

[11]Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione Rosanna   Maggio  Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonte, op.cit., pp.17-20. Una prima schedatura del Fondo Nigra conservato presso i Musei Civici di Torino è stata condotta   per la redazione delle due tesi di laurea dedicate a Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra, redatte da Cristina Ghione, Anno Accademico 1993-1994 e Simona  Paggetti, a.a. 1994-1995.

 

[12] La prima edizione di The Seven Lamps venne pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, “Ruskin e il dagherrotipo”, in Paolo Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

 

[13]Giuseppe  Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana Torino 1884, Catalogo ufficiale della sezione Storia dell’Arte. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884, p.9.

 

[14]La corrispondenza di queste fotografie all’immaginario collettivo di argomento castellano fu tale  che vennero ripubblicate ne “La Fotografia Artistica” ( giugno-luglio 1911, pp.98 ss.) e quindi riprese in parte, anonime, nel volume di Carlo Nigra, Il Borgo ed il Castello Medioevale nel 50° anniversario della loro inaugurazione. Torino:  Tipografia Carlo Accame, 1934.

 

[15] Sulla figura e il ruolo del Di Sambuy cfr. Claudia Cassio, ad vocem, in Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990; Paolo Costantini, “La Fotografia Artistica” 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990; Id., Torino 1902: Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, 23 settembre 1994-22 gennaio 1995) a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Rosanna Maggio Serra, Marco Rosci. Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179.

 

[16]Gaddo Morpurgo, L’architettura fra le immagini di se stessa, in Fotografia e immagine dell’architettura, catalogo della mostra (Bologna, Galleria comunale d’Arte moderna, gennaio – febbraio 1980), a cura di Gabriele Basilico, Gaddo Morpurgo, Italo Zannier. Bologna: Grafis, 1980,  pp.9-38 (35).

 

[17]Bruno Orlandoni, op.cit., p.333;  ad ulteriore testimonianza e conferma della connotazione di questo patrimonio architettonico derivata da un medioevo immaginario l’autore richiama il caso del castello di Saint Pierre, ‘restaurato’ nel 1881 da Camillo Boggio adottando “l’infelice soluzione delle quattro torrette angolari pensili che costituiscono una delle icone più vendute dell’odierna Valle d’Aosta turistica.” (p.358). La formazione dell’iconografia della Valle è stata ricostruita da Marco Cuaz, Valle d’Aosta. Storia di un’immagine. Bari: Laterza, 1994, dedicando però scarsa attenzione a quello che lui stesso definisce il “secondo mito, la Valle d’Aosta dei castelli”, p.190; per quanto riguarda la fortuna  fotografica di questo tema va ricordato che già nel 1898 Mario Sansoni, operatore degli Alinari, documenta Fénis, Verrès e Issogne, che compariranno nel n.39 della collana “Italia monumentale” dedicato a La Valle d’Aosta. Firenze: IDEA/Alinari, 1922, con un testo dell’architetto Cesare Bollea. Per le campagne Alinari del 1898 cfr. Mario Sansoni: Diario di un fotografo,   “AFT”, 3 (1987), n.5, giugno, pp.50-51; [F.lli Alinari], Piemonte. Catalogo delle fotografie di opere d’arte e vedute. Firenze: Alinari, s.d. [1925]; Domenico Prola, Vittor Pisani, a cura di, La Valle d’Aosta si affaccia al nuovo secolo. Archivi Alinari 1892/1930. Firenze: Edizioni Alinari, 1979, con immagini Alinari e Anderson.

 

[18]Roland Barthes, La camera chiara. Torino: Einaudi,  1980,  pp.86-94, corsivi dell’autore.

 

[19] Una luce sul muro, 1991, in  NASS, p.166.

 

[20]  Il museo diffuso, 1987, in  NASS, p.125-126.

 

[21] Pensando a un’immagine necessaria, 1987,  in  NASS, p.119.

 

[22] Collezionista di attimi, 1991, in  NASS, p.304.

 

[23]Marc Augé, Disneyland e altri non luoghi. Torino: Bollati Boringhieri, 1999.

 

[24]  Paesaggio e rivelazione, 1990,  in  NASS, p.299.

 

[25]Arturo Carlo Quintavalle, Luigi Ghirri, 1982, ora in Id., Messa a fuoco. Milano: Feltrinelli, 1983, p.445-447

 

[26]Luigi Ghirri, Il romanzo della Sacra, in Giovanni Romano, a cura di, La Sacra di San Michele. Torino: SEAT, 1990, p.353

 

[27]Le “permanenze [sono] un passato che sperimentiamo ancora”,  Aldo Rossi, L’architettura della città.  Marsilio: Padova, 1973 (I ed., 1966), p.51.  Il  rapporto Ghirri Rossi è stato studiato da Paolo Costantini, Luigi Ghirri – Aldo Rossi. Cose che sono solo se stesse.  Milano – Montréal: Electa – CCA, 1996.

 

[28] Il paesaggio impossibile,1989,  in  NASS, p.155.

 

[29]  Paesaggio e rivelazione,1990, in  NASS, p.300.

 

[30] Un canto della terra, 1989, in  NASS,p.296.

 

[31]La citazione tratta dal saggio di Callois Dalla fiaba alla fantascienza che Ghirri richiama per definire la propria idea di paesaggio (Niente di antico sotto il sole, 1988,  in NASS, p.138) era stata da lui utilizzata l’anno precedente (Il punto di scomparsa, 1987, in NASS, p. 98) per definire l’opera dei New Topographers Egglestone, Shore, Baltz, Gossage e Adams, presentati in  Nuovo paesaggio americano. Dialectical landscape, catalogo della mostra (Venezia, Museo Fortuny,  aprile 1987), a cura  di  Paolo Costantini, Silvio Fuso, Sandro Mescola.  Milano: Electa, 1987, e costituisce quindi una indiretta ma nettissima dichiarazione di consonanza se non il riconoscimento di una appartenenza.

 

[32] Niente di antico sotto il sole, 1988, in  NASS, p.138.

 

[33]Massimo Mussini, Luigi Ghirri – «Vera fotografia», in Luigi Ghirri. Parma – Milano: CSAC – Feltrinelli, 1979, pp.9-31 (23)

 

[34] Un canto della terra, 1989, in  NASS, p.298.

 

[35] Viaggio dentro le parole, 1991, in  NASS, p.313.

 

[36] L’enigma fotografia, 1987, in  NASS, p.122.

 

[37] Viaggio dentro le parole, 1991, in  NASS, p.308.

 

[38] Ivi, p.307.

 

[39] Ivi, p.308.

 

[40]Aldo Rossi, Introduzione a Boullée, in Etienne-Louis Boullée, Architettura: Saggio sull’arte. Padova: Marsilio, 1967, citato in Paolo Costantini, Luigi Ghirri – Aldo Rossi, op.cit., p.26.

 

[41] Lo sguardo inquieto, un’antologia di sentimenti, 1988, in  NASS, p.133.

 

[42]Aldo Rossi, Premessa: Altre voci, altre stanze,  in Alberto Ferlenga, Aldo Rossi. Architetture 1988-1992.  Milano: Electa, 1992, pp.7-8, apparato fotografico di Luigi Ghirri e Daniele de Lonti.

 

[43]Luigi Ghirri, Le carezze fatte al mondo di Walker Evans, 1985, in NASS,  pp.70-71. Le parole che Ghirri dedica ad Evans possono essere lette come un viatico alla sua stessa produzione, specialmente quando riconosce la necessità di queste immagini in cui “tutto sembra naturale” e dall’assenza di “contraddizione tra il naturale e l’artificiale” nasce una “sensazione di unità e sintonia.”

 

[44]Citato da Gianni Celati, Commento su un teatro naturale delle immagini, in Luigi Ghirri, Il profilo delle nuvole. Immagini di un paesaggio italiano. Milano: Feltrinelli, 1989, p.n.n.

 

[45]La questione della coerenza culturale, se non ideologica, tra tradizione rinascimentale e apparato fotografico – ormai da tempo oggetto di riflessioni non sempre concordi – è ben sintetizzata da Rudolf  Wittkower: “Una fotografia Alinari è un mezzo ideale per comprendere l’architettura di Brunelleschi, poiché vi compare un punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschiani.”, citato in Carlo Bertelli,  La fotografia come critica visiva dell’architettura,  “Rassegna”, 6 (1984), n.20/4, dicembre, pp.6-13. Le implicazioni  di carattere non tanto simbolico quanto paradigmatico della prospettiva sono state discusse da Hubert Damisch, L’Origine de la perspective. Paris: Flammarion 1987 (trad.it., L’origine della prospettiva. Napoli: Guida Editori, 1992). La consapevolezza di questo ordine di problemi apparteneva naturalmente anche al bagaglio culturale e alla sensibilità di Ghirri, come ha ricordato Gianni Celati, op.cit.: “Ghirri dice che una costruzione neoclassica non potrà mai essere fotografata come una costruzione barocca, perché l’una e l’altra prevedono un certo tipo di visione, frontale od obliqua.”  Gli accorgimenti “prospettici” adottati nella costruzione di Fènis sono stati analizzati da Domenico Prola, Ipotesi di lettura simbolica, in Bruno Orlandoni, Domenico Prola, Il castello di Fenis. Aosta: Musumeci Editore, 1982, pp.3-38 (in particolare alle pp.17-20).

Per un repertorio delle immagini di Vezzolano (1997)

in Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauro, Torino, Umberto Allemandi & C., 1997, pp. 68-77

 

 

In memoria di Paolo Costantini       

 

 

 

“Dimensioni: lunghezza m 6,22; altezza m 1,22. Il ricordato ambone presenta molto interesse. Sopra le colonnine che sostengono i cinque archi sono scolpiti, su pietra calcarea, bassorilievi che, disposti su due fasce sovrapposte, coprono la parete dell’ambone verso l’ingresso della chiesa”. Così Secondo Pia apre la propria ampia scheda di lavoro  (più di tre cartelle) dedicata allo jubé di Vezzolano, redatta dopo il 1904,  che prosegue con una  estesa descrizione del doppio ciclo di figure, con la trascrizione dell’iscrizione dedicatoria e con una lunghissima citazione delle pagine che Adolfo Venturi  dedica a quest’opera  nel terzo volume della sua Storia dell’arte italiana[1]:  “Le figure sono colorate da un segno nero nelle sopracciglia, da un tondo pure nero negli occhi e da una tinta di ciliegia nei pomelli delle guancie, di rosso cinebrino nelle labbra, rosso purpureo nei calzari degli angeli, da un azzurro nel loro manto che pare invetriato e conferisce alla grande scultura l’aspetto di una maiolica smaltata; l’oro illumina le corone e i contorni delle penne degli angeli, il fondo è azzurro nel bassorilievo, verde negli archi”[2]. Si legge come in trasparenza in queste avvolgenti parole di Venturi, e ancor più nella ripresa che ne fa Pia, oltre al fascino per la policromia ricca di queste figure il rammarico di non poterle ancora trasmettere in immagine visibile, fotografica, e lo sforzo di una restituzione in ecfrasi affidata a una cascata cromatica di aggettivi precisamente qualificati. Sono questi gli anni, intorno all’inizio del secolo, in cui le ricerche scientifiche e tecnologiche intorno alla possibilità di riprodurre fotograficamente il colore si fanno più insistenti e mirate sino  a condurre alla messa a punto del procedimento della autocromia da parte dei fratelli Lumière, commercializzato a partire dal 1907 e quasi immediatamente adottato anche da Pia[3].

La redazione di precise schede analitiche dedicate a ciascuna delle opere fotografate è un indicatore esatto dello scrupolo estremo con il quale questo “dilettante fotografo” ha affrontato il suo fondamentale e pluridecennale compito di documentazione del patrimonio architettonico piemontese, ma è anche un indizio ulteriore e preciso dell’elevato livello culturale oltre che specificamente professionale al quale si collocava in Piemonte, a partire almeno dagli anni ‘60 del XIX secolo, la documentazione fotografica del patrimonio artistico ed architettonico, tradizione sulla quale non ci possiamo qui soffermare ma che varrà la pena un giorno di ricostruire criticamente[4] e che pare essere connotata nei casi più significativi dalla volontà di porre in atto un vero e proprio progetto culturale di scoperta e valorizzazione del patrimonio locale, certamente lontano dalle gigantesche imprese commerciali dei più noti studi italiani (da Alinari a Sommer) e prossimo invece alle indicazioni di Ruskin, che nella prefazione alla seconda edizione di The Seven Lamps of Architecture  (1880)  richiamava l’attenzione degli “amateur photographers” verso il compito di delineare accuratamente per mezzo della fotografia “i dettagli delle cattedrali sopra citate” (Lincoln e Wells in Inghilterra; Parigi, Amiens, Chartres, Rheims, Bourges e il transetto di Rouen in Francia) poiché “mentre una fotografia di paesaggio non è altro che un gradevole passatempo, quella di un’antica architettura è un prezioso documento storico; né questa architettura deve essere ripresa solo quando presenta un aspetto pittoresco ma pietra per pietra e scultura per scultura; cogliendo ogni opportunità offerta dai ponteggi per riprenderla più da vicino, orientando l’apparecchio nel modo più opportuno per controllare [la resa delle] sculture, senza il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli”[5]. Ritroviamo qui il fascino per la lettura analitica del manufatto consentita dalla ripresa fotografica che già aveva colpito Viollet-Le-Duc[6] ma – soprattutto – cogliamo l’eco di quella mutazione tecnologica e poi sociale che stava trasformando i dilettanti fotografi in protagonisti attivi della cultura, in particolare nell’ambito specifico della conoscenza e valorizzazione del patrimonio artistico ed architettonico. Poiché se è vero che gli anni della scoperta e del primo affermarsi della fotografia coincidono in ambito europeo con il consolidarsi dell’attenzione per il  patrimonio architettonico – specialmente medievale – e col definirsi dei fondamenti stessi delle moderne teorie del restauro architettonico (insieme alla fotografia sono tra gli elementi costitutivi del “moderno”) è altrettanto vero che la  diffusione  della conoscenza di questo patrimonio e la stessa sua definizione qualitativa e quantitativa molto devono, specialmente nelle aree del Bel Paese tradizionalmente ritenute marginali dal punto di vista artistico come il  Piemonte, alla attività di quei fotografi che mescolando interessi professionali e commerciali ad una profonda passione conoscitiva, ma nella maggior parte fidando solo su quest’ultima, si sono impegnati nella formazione del catalogo visivo dell’architettura e dell’arte di questa regione.

Sono questi i meriti che il Comitato della Prima Esposizione italiana di Architettura (Torino, 1890) riconosce a Secondo Pia  assegnandogli la medaglia d’oro per la sua già  famosa e “numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”, anche con l’intento di stimolare altri dilettanti (gli amateur di Ruskin, appunto) a seguirne l’esempio: questi “dovrebbero assumere nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi”[7]. L’ambiente fotografico piemontese ormai da tempo si era rivelato sensibile a queste istanze e la documentazione ed il rilievo del territorio, consolidati campi di applicazione della fotografia sin dalle origini e, in Italia  – come aveva rilevato Giulio Bollati – strumento di unificazione almeno inventariale, divengono in Piemonte uno dei tracciati del percorso che porta alla definizione ed alla costruzione di una identità territoriale forte, adeguata al mutato ruolo politico della regione, e che si manifesta nel progressivo accrescimento di una documentazione del patrimonio specialmente architettonico[8] che si fa sempre più estesa e minuziosa, sovente precedendo nella scelta dei temi gli stessi studi specialistici.  Nel primo decennio successivo all’Unità quasi tutte le campagne fotografiche[9] ripropongono e confermano le scelte della tradizione  incisoria e litografica, semmai progressivamente distaccandosene nei modi.  Ancora nei  primi anni Settanta quando, con la diffusione degli studi fotografici al di fuori del capoluogo, la documentazione si estende ai centri minori, la logica di rappresentazione non muta: semplicemente se ne  estende l’applicazione per celebrare dopo quelle sabaude le glorie municipali, fatte di  monumenti ma anche di tutte quelle nuove realizzazioni che segnano l’avvento del moderno, dagli asili ai ponti, alle stazioni, ai primi stabilimenti industriali.  Solo coi primi anni Ottanta e ancor più dopo le suggestioni del Borgo Medievale realizzato per l’Esposizione Nazionale Italiana del 1884  a Torino, la logica sottesa alle campagne fotografiche muta sostanzialmente e queste si connotano esplicitamente come campagne di indagine e di documentazione, destinate a produrre e diffondere nuova conoscenza (sono questi gli anni del nascente associazionismo turistico-culturale) e non semplicemente a ribadire, con diversi mezzi, il repertorio delle emergenze monumentali piemontesi.

“Non la conoscevamo – l’amico che mi accompagnava ed io – che da alcune incomplete e vecchie incisioni” ricorda Ettore  Bracco nel 1896 riandando  all’emozione provata “il giorno di una Epifania già lontana” quando appunto gli apparve la chiesa di Vezzolano  “allo svolto di uno di quei ripidi e fangosi sentieri di collina (…)  nelle sue pure e semplici linee, e nella tenera armonia delle sue tinte”[10], a testimonianza di una fortuna e notorietà del monumento ancora recenti. La severa semplicità dell’architettura ed il dolce paesaggio delle colline monferrine in cui questa è immersa non erano fatti per attrarre e soddisfare il gusto goticizzante  dei primi decenni del secolo, tanto che la citazione che ne fa Modesto Paroletti nel secondo volume del suo Viaggio romantico-pittorico è corredata da una illustrazione dello jubé, realizzata   da Francesco Gonin nel 1828, che lo descrive come un elemento completamente passante, che lega piuttosto che separare le due parti di una navata estremamente luminosa, in qualche modo goticizzandolo (Paroletti 1832, tav. IV) tanto da provocare qualche decennio più tardi le dure critiche di Edoardo Arborio Mella,  che contrappone le attenzioni proprie della nascente cultura del rilievo storico-architettonico alla tradizione illustrativa di Gonin.  Nell’intervallo di tempo compreso tra questi due estremi e mostrando un chiaro segno delle trasformazioni culturali in atto sia nella specifica cultura tecnica sia nella fortuna di Vezzolano, si colloca la ricca produzione di Clemente Rovere che dopo una precoce veduta paesaggistica datata 1845, ritorna a Vezzolano nel giugno 1854, forse su suggestione del coevo XXV volume del Dizionario del Casalis[11], per documentare analiticamente, per  rilevare si direbbe, l’insieme e  i dettagli della chiesa e del chiostro, producendo un corpus complessivo di 41 schizzi e disegni (tra i quali una veduta d’insieme dello jubé e tre particolari del fregio che testimoniano un’attenzione per i valori architettonici così come per quelli plastici di questo elemento) che per impegno ed analiticità costituiscono un unicum in tutta la sua produzione[12].

Sono questi gli anni in cui si consolida l’iniziale fortuna critica del monumento, scandita dalla pubblicazione del primo studio di Bosio nel 1859 e da quella di poco successiva delle Notizie di Manuel di San Giovanni (1862) corredate di una puntuale Descrizione della Chiesa di Vezzolano redatta da  Mella che comprende tra le altre una tavola (n.4) dedicata alla “Sezione trasversale avanti al jubé” che mostra l’elemento – qui per la prima volta identificato con terminologia criticamente corretta – inserito nel contesto architettonico della chiesa, quindi senza sottolinearne particolarmente l’apparato scultoreo[13] che costituisce invece il soggetto specifico di una delle tavole disegnate da Pietro Viarengo e litografate da B. Marchisio a corredo del nuovo studio pubblicato da Antonio Bosio nel 1872 dove il “Bassorilievo sul nartece od ambone nell’interno della chiesa”  è considerato, insieme con quello della lunetta del portale, uno degli elementi qualificanti del complesso.

Questi studi danno al complesso  di Vezzolano una prima notorietà  tanto che il fotografo Vittorio Ecclesia, da poco trasferitosi da Torino ad Asti, gli dedica verso il 1879 una serie di otto riprese in grande formato (33x42cm circa) una delle quali è appunto dedicata allo jubé (“Nartece”) e costituisce con la sua ripresa frontale e lievemente rialzata, estesa al pilastro ed alla semicolonna laterali, il modello per buona parte delle riprese successive dello stesso soggetto[14], mentre pochi anni più tardi, nel 1883,  Carlo Nigra si cimenta con una serie di vedute ravvicinate e di dettaglio (MCT, Fondo d’Andrade, n574) che non giungono mai però alla restituzione delle singole figure, come pure si iniziava a fare in quegli anni nell’ambito della documentazione pittorica.

Vezzolano è ormai entrata a far parte a questa data del novero degli edifici piemontesi “aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico”  (Collegio 1887, p.5) presentati in riproduzione fotografica nelle sale del neonato Museo Regionale di Architettura al Borgo Medievale .

La chiesa  costituisce uno dei  soggetti privilegiati delle  “ricreazioni fotografiche” di Secondo Pia già negli anni del suo apprendistato: “A Vezzolano. Prese due pose placca [lastra intera] facciata. Stante gran caldo collodio evapora troppo presto” scrive sul suo diario in data 20 luglio 1882, alle prese con le difficoltà tecniche poste dall’uso della lastra al collodio umido che in quei giorni  alterna ancora alle nuove lastre a secco alla gelatina bromuro d’argento (Falzone del Barbarò, Borio, 1989, p.85) e questo luogo costituirà negli anni uno dei temi da lui più  frequentati  ritornando più volte, almeno fino al 1915, a fotografare particolari di interni ed esterni utilizzando formati e materiali sensibili diversi, con una lettura partecipata, ma anche minuziosa e analitica insieme,  tanto degli elementi scultorei quanto delle architetture, che lungi dall’essere mostrate quali “dettagli fotografici così chiaroscurali, quasi da «racconti gotici» o da fondali melodrammatici” (Falzone del Barbarò, 1989, p.20) sono rilevate nei loro precisi rapporti dimensionali e proporzionali, sovente inserendo in ripresa un riferimento metrico secondo un uso che in quegli anni si andava consolidando specialmente nell’ambito della fotografia archeologica.

Proprio Vezzolano, insieme a Sant’Antonio di Ranverso,  costituisce l’argomento di due raccolte di fotografie pubblicate da Pia nel 1907 (Ricordi fotografici di insigni monumenti religiosi del Piemonte) e intorno al  1919  (Riproduzioni di antichi monumenti nel Piemonte d’Arte Lombarda e Gotica) contenenti rispettivamente 21 e 36 stampe fotografiche dedicate al complesso, tra le quali si segnala nella raccolta più tarda una veduta  di dettaglio dell’intera fascia in bassorilievo dello jubé (n.12, 8x45cm)[15] realizzata accostando in stampa due distinte riprese. In questi album Pia comprende anche immagini realizzate prima dei restauri del 1896, che costituiscono oggi una preziosa documentazione  delle condizioni della chiesa antecedenti quella data, da integrare con quelle, anonime, pubblicate in Bracco 1896 e  Bosio 1896 (le prime ad essere diffuse tipograficamente), e con le due immagini della navata principale e della navata sinistra, datate 21 luglio 1895, attribuibili ad Ottavio Germano, da mettere in relazione con l’inizio del cantiere di restauro della chiesa ed eseguite in conformità alle raccomandazioni espresse da Camillo Boito in occasione del III Congresso degli ingegneri e architetti di Roma nel 1883[16].

A questa data Vezzolano è parte integrante del circuito artistico piemontese: “Andati per ferrovia fino a Chieri poi per omnibus (due ore) fino a Castelnuovo d’Asti da dove siamo andati con una vettura a detta Abbazia. Abbiamo fatto parecchi lavori in chiesa, nel chiostro e nell’interno e dopo siamo andati a Chivasso passando per Torino che lasciamo definitivamente.” Queste note, datate 3 settembre 1898, non sono tratte dal diario di un turista colto, ma di un altrettanto colto e allora giovanissimo fotografo, Mario Sansoni, operatore degli Alinari, che offre un rendiconto dettagliato della loro prima campagna piemontese[17]. Nella foto Alinari lo jubé occupa completamente l’inquadratura, nitidamente restituito nella sua interezza, senza gli ostacoli visivi determinati dai pilastri laterali, a dimostrazione di quella maestria professionale che contraddistingue la produzione di questa ditta (Alinari, n.15872, SBAS) costituendo di fatto  se non il modello certo il termine di riferimento italiano nella documentazione fotografica del patrimonio artistico ed architettonico.

Nel primo decennio del nuovo secolo altre immagini di Vezzolano, e dello jubé, verranno realizzate e pubblicate a corredo di studi di diverso impegno e valore, ma riproponendo sostanzialmente i modi della cultura visiva ottocentesca, quando non le stesse fotografie[18], e solo nei primi anni Venti compare una nuova interpretazione fotografica del monumento, dovuta al fotografo torinese Giancarlo Dall’Armi, che gli dedica una cartella della serie “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia” da lui edita e che aveva già visto la pubblicazione nel 1915 dei sei fascicoli dedicati a  Il Barocco Piemontese (palazzo Morozzo della Rocca, palazzo Madama, palazzo Barolo I/II, palazzo Saluzzo Paesana, palazzo Graneri).   Se nelle fotografie torinesi dalla grande maestria di esecuzione  emerge  ancora una impostazione ottocentesca, come bloccata nel tentativo di far corrispondere esattamente l’immagine all’architettura che l’ha generata, le dodici stampe dedicate a Vezzolano dimostrano una diversa e più matura autonomia della tecnica espressiva;  il progetto di documentazione lascia spazio e condivide evidenti intenzioni interpretative, alla ricerca di una autonomia formale dell’immagine, che non trova più solo nel referente, nel soggetto fotografato,  la propria ragione d’essere.  La novità di sguardo di Dall’Armi (almeno per il panorama locale) sarà rilevata immediatamente dalla critica in occasione della Prima esposizione internazionale di Torino del 1923,  sottolineando che: “nobili sono i paesi esposti e di squisita fattura i brani architettonici come: la porta dell’Abbazia di Vezzolano”[19].

Le campagne fotografiche  sembrano diradarsi nei decenni successivi[20] e si devono attendere i tardi anni ‘50 e i primi ‘60 per veder comparire nuove immagini di Vezzolano, quasi sempre realizzate e pubblicate con intenzioni diverse, meno documentarie ed analitiche, più decorative che illustrative, in cui i soggetti rappresentati si frantumano in tasselli minuti e sconnessi[21] mentre si fa più frequente il ricorso alle riprese cinematografiche e poi televisive. Contemporaneamente nuovi studi mettono in discussione la cronologia delle fasi costruttive della chiesa e, quindi, della realizzazione e collocazione dello jubé: l’ipotesi di un adeguamento dimensionale del ciclo scultoreo che avrebbe portato alla riduzione quantitativa delle figure, derivata dalle analisi di Renate Wagner-Rieger 1956 e fatta propria da Bernardi 1962, prende inaspettatamente consistenza visiva in una singolare e fantastica immagine pubblicata a corredo dell’ennesima riedizione (1966) dell’opuscolo di Achille Motta: la fotografia a doppia pagina che illustra “Il Nartece” si presenta curiosamente tagliata a sinistra in corrispondenza della chiave del primo arco mentre per la prima volta nella breve ma densa storia delle riprese fotografiche di questo elemento compare in tutto il suo sviluppo l’arco di destra, la cui estremità è solitamente coperta alla vista da una  semicolonna; conseguentemente si estende anche la “visibilità” delle fasce scolpite e questo nuovo spazio guadagnato alla rappresentazione viene utilizzato e riempito aggiungendo due figure: un (semi)patriarca al registro inferiore (forse materializzazione scultorea di quello dipinto sulla semicolonna) ed un non meglio identificato personaggio su quello superiore, che volge sdegnosamente le spalle, ignaro, alle storie della Vergine. La resa realistica dell’intervento di manipolazione è elevata: il ritocco, certamente eseguito con pazienza e maestria su di una ripresa appositamente progettata ed eseguita per avere un controllo realistico delle distorsioni prospettiche, ha prodotto un risultato che, almeno nella trasposizione tipografica a cui era destinato[22], può considerarsi talmente buono da passare inosservato, se non ad un occhio attento ed esercitato, quale certamente non si poteva presupporre avessero i destinatari della piccola guida turistica. Perché allora tanto sforzo destinato a rimanere invisibile? Perché faticare sul banco di lavoro e in camera oscura a ricostruire archi, apparecchio murario e figure se non si intendeva dimostrare nulla, forse solo suggerire, quasi in codice, con un gesto sommesso e comprensibile a pochi iniziati, quale avrebbe potuto essere l’aspetto di questo eccezionale insieme scultoreo “se…”?  Alla fotografia, strumento principe della oggettività documentaria, prova provata visibilmente della  realtà delle cose, viene affidato il compito di testimoniare non l’esistente ma il possibile: qui l’immagine fotografica non è più l’analogon né l’indice dei moderni semiologi ma certo un’icona dalle speciali caratteristiche, come sarebbe potuta piacere a Viollet-Le-Duc; non il documento irrefutabile ma – insospettabilmente – lo strumento per ristabilire il manufatto in una condizione di compiutezza che potrebbe anche non essere mai esistita in un momento dato.

 

Note

[1]  Venturi  1904,  pp.80-91, con sei fotografie non firmate dedicate a Vezzolano, a cui si deve aggiungere un’immagine del chiostro pubblicata a p.23. La monumentale opera di Venturi costituisce il primo esempio di impiego editoriale su vasta scala dell’apparato fotografico a corredo di un’opera di storiografia artistica generale (Spalletti 1979, p.469) e riflettette compiutamente il pensiero dello studioso  nei confronti della rilevanza, anche metodologica, della fotografia di documentazione d’arte, espresso una prima volta nella prefazione al catalogo della casa fotografica Adolphe Braun del 1887 (Cfr. Spalletti, 1979, p.471) e ribadito ulteriormente nell’intervista rilasciata ad Anton Giulio Bragaglia nel 1912. Nella stessa occasione Venturi anticipa che in occasione di un prossimo congresso di storia dell’arte medievale sarebbe stata promossa una specifica esposizione di “riproduzioni foto-meccaniche applicate alla storia dell’arte” e indetto “un concorso per la carta occorrente a quelle riproduzioni, carta che si desidera migliore di quella americana ora in uso, la quale per la sua lucentezza danneggia gli occhi.” (in Bragaglia, 1912, p.18)

[2]La scheda redatta da Pia attingendo ampiamente al testo di Venturi è pubblicata in Falzone del Barbarò, Borio 1989, p.94-95. Va qui segnalato come Pia  riprenda senza citarlo  il testo di Bosio 1896, p.5, nel quale i Patriarchi sono descritti “tutti seduti in numero di trentasei”,  senza controllarne la consistenza reale (35) sulle sue stesse riprese fotografiche di dettaglio.  Pur in presenza di un ricchissimo materiale documentario (diari, schede) il problema di una accurata datazione delle immagini di Pia attende ancora una soluzione; si veda ad esempio la ripresa generale dello jubé pubblicata in Falzone del Barbarò, Borio 1989, tav.6 con la data “4 ottobre 1904”  che è stata invece palesemente  realizzata prima dei restauri del 1896. Sulla figura di Secondo Pia cfr. inoltre Tamburini, Falzone del Barbarò 1981 e la scheda biografica redatta  da Cassio 1990, pp.409-410.

[3] A far data dalla loro commercializzazione (1907, cfr. Les frères Lumière 1980, p.11) alcuni fotografi piemontesi particolarmente attivi nel campo della documentazione   delle opere d’arte come il vercellese Pietro Masoero utilizzarono le autocromie per dotarsi di un importante ed innovativo sussidio di studio e di divulgazione (Cavanna 1985). Lo stesso Pia le utilizzerà a partire dal 1909 sia per la documentazione del patrimonio artistico piemontese sia per ricerche personali, producendo in circa vent’anni di attività in questo settore un numero rilevante di immagini a colori (297 secondo le indicazioni fornite in Tamburini, Falzone del Barbarò 1981, p.65 e riconfermate in Falzone del Barbarò, 1989 p.56, che inspiegabilmente si riducono a 262 nella “Nota sull’archivio Secondo Pia” compresa in  Falzone del Barbarò, Borio 1989, p.88.  La sola autocromia dedicata a Vezzolano sinora reperita,  relativa al  chiostro e datata 31 agosto 1910, è stata pubblicata in Miraglia 1990, tav.204.

[4]Una specifica vocazione dei fotografi attivi in Piemonte  per le immagini di documentazione e lettura del paesaggio e dell’architettura emergeva già dal corpus di immagini presentate nella mostra del 1977 dedicata ai Fotografi del Piemonte e risulta sostanzialmente riconfermata anche da Miraglia 1990.

[5] La prima edizione di The Seven Lamps venne pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione da cui  è tratta la citazione è stata ripubblicata in Ruskin 1911, p.21-22 e ripresa in Costantini 1986, p.16.

[6]Compila per il suo Dictionnaire la voce “Restauration” in cui viene per la prima volta codificato l’uso della fotografia nei processi conoscitivi e operativi connessi al restauro degli edifici:  “La photographie  à conduit naturellement les architectes à être plus scrupuleux encore dans leur respect pour les moindres débris d’une disposition ancienne, à se rendre mieux compte de la structure, et leur fournit un moyen permanent de justifier de  leur opérations. Dans les restaurations, on ne saurait donc trop user de la photographie, car bien souvent on découvre sur une épreuve ce qu’on n’avait pas aperçu sue le monument lui-même.” (Viollet-Le-Duc 1860, pp.33-34) Pochi anni prima, nel 1854, Hector Lefuel, che era succeduto a Louis Visconti nella costruzione del nuovo Louvre, aveva fatto ampiamente ricorso alla documentazione fotografica nell’ambito del nuovo, immenso cantiere (Daniel 1994, p.57), mentre nel 1857 su sollecitazione dei Fratelli Bisson l’école des Ponts et Chaussées istituiva un corso di fotografia, poi attivo fino al 1911 (Frizot 1994, p.208) e a Londra veniva fondata la Architectural Photographic Association.. Negli stessi anni in Italia era Pietro Estense Selvatico  nei suoi Scritti d’arte ad affrontare le questioni poste da l’uso documentario, e didattico, della fotografia di architettura e certo le sue riflessioni ebbero un peso rilevante nella formulazione delle più tarde indicazioni di Boito, suo successore alla Accademia di Venezia.

[7]I Esposizione 1890, p.49. Dieci anni più tardi lo stesso Masoero (1900, p.278 ripreso in  Miraglia 1990, pp. 69-70) recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino sulle pagine del “Bullettino” sottolinea che “Nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica.(…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”

[8]Diverso è il caso della documentazione del patrimonio  pittorico, la cui applicazione era fortemente condizionata dalla impossibilità delle emulsioni al collodio di registrare fedelmente l’intero spettro cromatico. Qui la produzione si fa più incerta e sporadica e ricorre  sovente all’espediente della riproduzione indiretta dell’opera (da incisioni o litografie) sebbene siano da ricordare in questo ambito almeno le stampe fotografiche pubblicate negli album della “Promotrice” di Torino a partire dal 1863 (Reteuna 1991) e l’ampio repertorio di riproduzioni di disegni  italiani raccolto  da Vittorio Besso a partire dal 1868 (Cavanna 1991, p.203). Solo intorno alla metà degli anni Ottanta vedrà la luce una realizzazione più impegnativa e narrativamente articolata quale la ricchissima lettura  fotografica (64 tavole in grande formato) che Pietro Boeri compie nel 1886 degli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo in Vercelli. Più complesso risulta conseguentemente il dibattito relativo alla documentazione delle opere d’arte, per la cui ricostruzione si rimanda a Spalletti 1979, Freitag 1980.

[9]Per una attenta ricostruzione di questi temi  si veda Miraglia 1990. Un esempio precoce di attenzione per il patrimonio minore è data dal fotografo biellese Vittorio Besso tra i cui meriti la “Gazzetta Biellese” del 1865 ricorda “quello di usare di questa divina arte (…) anche al nobile scopo di farci ammirare i capolavori di pittura e d’architettura (che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario).”, citato in Cavanna 1991, p.202.

[10]Bracco 1896, p.457. La descrizione del cammino che porta alla scoperta del monumento è – con accenti diversi – uno dei topoi della letteratura su Vezzolano tra Otto e Novecento, cfr. Cena 1898b, p.270; Porter 1917, p.539. Un altro accenno al percorso di avvicinamento è compreso nelle pagine del diario di Mario Sansoni citate più oltre nel testo.

[11]Casalis 1854, pp.76-79. Un primo cenno al complesso era compreso nella voce “Albugnano”, vol.I, 1833, pp.171-172: “Fra le cappelle che sonovi sul territorio, havvene una rimarchevole per la forma gotica, sotto il nome della Beata Vergine di Vezzolano.”  Nel 1854 invece viene dedicata al complesso una ricca voce tutta rivolta  alla ricostruzione delle vicende storiche “in gran parte comunicate dal sig. avvocato Pier Luigi Menocchio (…) che le estrasse dall’archivio del R. Economato apostolico”, p.79 in nota.

[12]Sertorio Lombardi 1978, II, nn. 2235-2275. Allo jubé sono dedicati tre disegni (nn. 2252-54) datati genericamente “1854” relativi al Basso rilievo dell’ambone, a cui si deve aggiungere  il disegno (n. 2255)  della Figura dell’ambone (vale a dire l’elemento architettonico nel suo insieme) ricavato da uno schizzo (n. 2256) datato “11-6-1854”. Nella produzione di Rovere il solo caso confrontabile con Vezzolano è quello della Sacra di San Michele, a cui sono dedicati però solo diciannove disegni.

[13]Per una autorevole ricostruzione della più antica bibliografia dedicata a Vezzolano, a partire da Giulio Cordero di San Quintino, cfr. Porter 1917, III, pp.539-548. La Descrizione di Mella venne pubblicata in  Manuel 1862, pp.268-272. A questa data Mella segnala ancora la “imbiancatura praticata nell’interno” (p.271) che è documentata nei disegni di Clemente Rovere, cfr. nota 12, antecedente agli interventi del 1865 nel corso dei quali le pareti vennero tinteggiate a fasce alterne, e lamenta lo “stato di abbandono e miseria in cui trovasi questo prezioso monumento (…) Nello stato in cui ancora si trova il riattamento non sarebbe opera di gran conto, massime se l’amor dell’arte trovasse intelligenti e disinteressati [come il Mella stesso] direttori delle opere.” (p.272). Alla Descrizione di Mella farà esplicito riferimento Raffaele Pareto 1864,  ripubblicando anche due tavole   (n.14, pianta e n.4, facciata) per favorirne una corretta lettura e apprezzamento, stante le ridotte dimensioni di quelle comprese in Manuel 1862. Pareto aveva già dedicato all’attività di Mella altri interventi, tutti pubblicate nel “Giornale dell’Ingegnere – Architetto ed Agronomo”,  intitolati  rispettivamente al Duomo di Casale, 9 (1861), a Il nuovo pulpito della cattedrale di Casale, 10 (1862) ed alla Chiesa di S.Andrea in Vercelli, 10 (1862).

Mella sembra essere stato il primo studioso italiano ad utilizzare criticamente il termine jubé, verosimilmente su suggestione di Fernand de Dartein , autore a cui fa riferimento anche Giovanni Cena  1898b, p.271.

[14]Vittorio Ecclesia,  Via San Martino, 19, Asti, Abazia di S. Maria di Vezzolano presso Albugnano d’Asti, otto stampe all’albumina virate all’oro 33×42 cm circa, montate su cartoni 50×65 cm circa.   La presenza dell’indirizzo della prima sede astigiana dello studio di Ecclesia  (Cassio 1990, p.379) ci consente di datare queste immagini agli anni 1878-1880,  forse di poco successive alla realizzazione dell’Album artistico della città di Asti – 1878  (cfr. Fotografi del Piemonte 1977, pp.29-30)  che al pari di queste non porta la firma dello studio (Fotografia Alfieri) ma quella del fotografo.  Questa serie faceva parte delle fotografie di Ecclesia comprese  nella sezione “Fotografie Architettoniche” della Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884 (Esposizione 1884, pp.124-125) e sembra verosimile ritenere che in quella occasione venissero depositate alla Biblioteca Reale di Torino in cui oggi sono conservate.  Un’altra copia della foto di Ecclesia dell’angolo sudorientale del chiostro, di  dimensioni lievemente inferiori,  è compresa nel Fondo d’Andrade dei Musei Civici di Torino (Cavanna 1981, tav. 5f).

[15]I due album, conservati alla Biblioteca Reale di Torino,  sono dedicati rispettivamente “A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia” ed  “A Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia principe d’Asti” e comprendono foto parzialmente  inedite sebbene ampiamente note agli studiosi per essere state presentate a numerose esposizioni e in parte conservate in copia alla Galleria Sabauda fin dal 1891 (cfr. Tamburini, Falzone del Barbarò 1981, p.30). Seguendo una consuetudine diffusa tra molti fotografi non solo piemontesi Pia aveva anche realizzato fotografie dei “monumenti della sua Asti nativa, raccolti in un magnifico album che, offerto al Re, gli valse la Croce di Savoia.” (Cena 1898a, p.239).

[16]Le due riprese, anonime, conservate nel Fondo d’Andrade dei Musei Civici di Torino (554F, 555F) devono essere  messe in relazione con le lastre alla gelatina bromuro d’argento 24/30, datate 21 luglio 1895 e 7 gennaio 1896, conservate nell’Archivio fotografico della SBAA di Torino e vanno verosimilmente attribuite ad Ottavio Germano, direttore del cantiere di restauro e buon fotografo dilettante, sempre attento ad un uso accorto dell’immagine fotografica in relazione alla documentazione sia dei cantieri di restauro (Cavanna 1981, p.123; Cassio 1990, p.386) sia di quelli di più libera reinterpretazione, come quello del castello di Banchette (Ivrea) da lui ricostruito nel 1884-96.  Le raccomandazioni formulate dalla prima sezione del Congresso del 1883 costituiscono come è noto uno dei momenti cruciali del formarsi di una moderna cultura del restauro in Italia. Per quanto riguarda i temi che più interessano questo saggio  ricordiamo che al punto 6 queste indicavano che “Dovranno eseguirsi, innanzi di por mano ad una opera anche piccola di riparazione o restauro, le fotografie del monumento, poi di mano in mano le fotografie dei principali periodi del lavoro, e finalmente le fotografie del lavoro compiuto (…).” (Boito 1893, p.25).

[17]Mario Sansoni 1987, p.50-51. Le pagine pubblicate si riferiscono al periodo 27 maggio/ 28 ottobre 1898 e riguardano le campagne fotografiche liguri e  piemontesi, durante le quali verranno realizzate nove riprese relative a Vezzolano (F.lli Alinari 1925, pp. 31-35). Sansoni  (1882-1975) ritornerà  ancora a fotografare lo jubé prima del 1941 (in tre parti, Archivio SBAA nn.4359-61) per incarico della   Frick Art Reference Library di New York che gli aveva affidato in esclusiva l’incarico di documentare l’arte europea.

[18]Oltre ai due album di Pia già citati, cfr.nota 15, ricordiamo qui le fotografie dello jubé in Venturi 1904, pp.85-89, quelle di Ecclesia nel catalogo dell’Esposizione Internazionale di Torino del 1911 (Cassio 1990, p.379)  e quelle poste a corredo della prima edizione del volumetto di Achille Motta 1912, dovute ad E. Serra, V. Ecclesia (il “nartece” ante 1880),  a due fotografi  e studiosi “irregolari” come Secondo Pia e Francesco Negri e specialmente al sacerdote F. Origlia, autore non altrimenti noto ma che si rivela qui di buon livello, con accurate immagini di documentazione; la passione per questo genere di fotografia lo accomuna ad un altro sacerdote fotografo attivo negli stessi anni, il vercellese Alessandro Rastelli, che fornisce le immagini per  un volume dedicato a Lucedio edito nel 1914 (Colli, Negri, Rastelli 1914), che vede tra gli autori dei testi anche Francesco Negri.  Singolare e interessante si prospetta a questo punto l’intreccio di relazioni e interessi tra cultura cattolica e fotografia di documentazione del patrimonio artistico ed architettonico nel Piemonte di inizio secolo.

[19]Angeloni 1924, p.40. Queste immagini di Vezzolano non risultano presenti alla Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese  (La Mostra retrospettiva 1926), una delle ultime occasioni espositive del fotografo torinese, che muore nel luglio 1928 (Necrologio 1928).

[20]Si segnalano qui le fotografie di Emilio Gallo pubblicate nel 1930 (T.C.I. 1930, pp.194-195), quelle – anonime – pubblicate nella riedizione ampliata di Motta 1933 e le immagini di Sansoni (ante 1941) e Pedrini (1941) conservate rispettivamente negli archivi fotografici  della SBAA e della SBAS di Torino.

[21]Costituiscono un’eccezione a questa tendenza le immagini pubblicate in Wagner-Rieger  1956, tavv. 42-45 ma specialmente la campagna fotografica realizzata da Augusto Pedrini nel 1961 per Bernardi 1962, che presenta la grande novità di una estesa utilizzazione delle riprese a colori  ma dimostra anche, nella restituzione dei particolari architettonici e scultorei una certa, inconsueta,  approssimazione.

[22]EPT 1966, s.n. Le immagini a corredo sono dovute agli studi Astifoto, Parvalux ed A. Robba, ma allo stato attuale delle ricerche non è possibile attribuire specificamente la fotografia ritoccata dello jubé.

 

 

Bibliografia e fonti

 

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Giulio Cordero di San Quintino, Dell’italiana architettura durante la dominazione longobarda. Brescia: Bettoni, 1829

 

Costantini 1986

Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in I dagherrotipi della collezione Ruskin, catalogo della mostra (Venezia, 1986), a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier. Venezia: Arsenale Editrice, 1986, pp.9-20

 

Dall’Armi 1923

Giancarlo Dall’Armi, L’abbazia di Vezzolano, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino: Dall’Armi , s.d. (1923ca), Cartella fotografica: 12 stampe alla gelatina-bromuro d’argento, 24×30

 

Daniel 1994

Malcom Daniel, The Photographs of édouard Baldus. New York –  Montreal: The Metropolitan Museum of Art – Canadian Centre for Architecture, 1994

 

Dartein 1865-1882

Fernand de Dartein, Étude sur l’architecture lombarde. Paris: Dunod, 1865-1882

 

Ecclesia 1878-1880

Vittorio Ecclesia, Abbazia di S.Maria di Vezzolano presso Albugnano d’Asti. Asti: Vittorio Ecclesia, s.d. (1878-1880), otto stampe fotografiche: albumina, 42x33cm

 

EPT 1966

Ente Provinciale per il Turismo di Asti, a cura di, L’abbazia di Nostra Signora di Vezzolano, testo di Achille Motta. Colle Don Bosco: ISAG, 1966

 

Esposizione 1884

Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea. Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884

 

Esposizione 1898

Esposizione Italiana 1898. Arte Sacra. Catalogo generale. Torino: Roux Frassati e C., 1898

 

Falzone del Barbarò 1989

Michele Falzone del Barbarò, Secondo Pia fotografo, in Torino Fotografia 89, catalogo della mostra (Torino ottobre-novembre 1989), a cura di Daniela Palazzoli. Milano: Fabbri Editori, 1989, pp.56-63

 

Falzone del Barbarò, Borio 1989

Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia. Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989

 

Fotografi del Piemonte 1977

Fotografi del Piemonte 1852-1899, Catalogo della mostra, Torino, giugno-luglio 1977, a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Freitag 1980

Wolfgang M. Freitag, Early Uses of Photography in the History of Art, “Art Journal”, 39 (1979-80), n.2, Winter, pp.117-123

 

Les frères Lumière 1980

Les frères Lumière à l’aurore de la Couleur, catalogo della mostra, (Parigi, giugno-luglio 1980). Lyon: Fondation Nationale de la  Photographie, 1980

 

Frizot 1994

Michel Frizot, dir., Nouvelle histoire de la photographie. Paris: Bordas, 1994

 

Kingsley Porter 1917

Arthur Kingsley Porter, Lombard Architecture. New Haven: Yale University Press, 1917

 

Manuel di San Giovanni 1862

Giuseppe Manuel di San Giovanni, Notizie e documenti riguardanti la Chiesa e Prepositura di S. Maria di Vezzolano nel Monferrato raccolte dal Barone M.d.S.G. ed illustrate dal Conte Edoardo Mella, “Miscellanea di Storia Patria”, I. Torino: Stamperia Reale, 1862

 

Mario Sansoni 1987

Mario Sansoni: Diario di un fotografo, “AFT”, 3 (1987), n.5, giugno, pp.46-53

 

Masoero1900

Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino. Note ed appunti, “Bullettino della Società fotografica italiana”, 12 (1900), n. 4; n. 8, 1900, pp.124-139; 277-291

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Mostra retrospettiva 1926

La mostra retrospettiva di Architettura Piemontese, “Il Momento”, 24 (1926),  n.128, 2 giugno, p.5; n.132, 5 giugno, p.5

 

Mothes 1884

Oscar Mothes, Die Baukunst des Mittelalters in Italien. Jena: Hermann Costenoble, 1884

 

Motta 1912

Achille Motta, L’Abbazia monumentale di Santa Maria di Vezzolano: Memorie storico-religiose, artistiche illustrate. Torino: Pietro Celanza,  1912

 

Motta 1933

Achille Motta, Vezzolano: Memorie storico-religiose, artistiche illustrate. Milano: Tipografia delle Missioni, 1933

 

Pane [1963] 1987

Roberto Pane, Io non vedo con i miei occhi ma attraverso di essi, in “Napoli Nobilissima”, 2 (1962-1963), pp.78-79, ora in Id., Attualità e dialettica del restauro, a cura di Mario Civita. Chieti: Marino Solfanelli Editore, 1987, pp.250-251

 

Pareto 1864

Raffaele Pareto, Facciata della chiesa di S. Maria di Vezzolano in Monferrato, “Giornale dell’Ingegnere – Architetto ed Agronomo”, 12 (1864) , estratto

 

Paroletti 1832

Modesto Paroletti, Viaggio romantico-pittorico delle Provincie Occidentali dell’Antica e Moderna Italia, II. Torino: Felice Festa Litografo, 1832

 

Pia 1907

Secondo Pia, A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia Questi ricordi fotografici di insigni monumenti religiosi del Piemonte offre riverentemente S.P. Torino: Secondo Pia, 1907, album fotografico: 32 stampe all’albumina, 20×25

 

Pia 1919

Secondo Pia, A Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia principe d’Asti promotore di ogni studio ed arte queste sue riproduzioni di antichi monumenti nel Piemonte d’Arte Lombarda e Gotica offre in ossequioso omaggio il dilettante astigiano Presidente della Società Fotografica Subalpina in Torino. Torino: Secondo Pia, s.d. (1919?), Album fotografico: 73 stampe all’albumina, 20×25

 

Renier 1900

Rodolfo Renier, Una leggenda carolingia ed un affresco mortuario in Piemonte, “Emporium”, 12 (1900),  n. 71, pp.377-382

 

Reteuna 1991

Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino, “Fotologia”, vol.13, primavera-estate 1991, pp.30-39

 

Ruskin   [1880] 1911

John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture [1880].London, Ward, Lock & Co., 1911

 

Selvatico 1859

Pietro Selvatico Estense, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, in Id., Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e Comp., 1859

 

Sertorio Lombardi 1978

Cristina Sertorio Lombardi, a cura di, Il Piemonte antico e moderno delineato e descritto da Clemente Rovere. Torino: Società Reale Mutua Assicurazioni, 1978

 

Spalletti 1979

Ettore Spalletti, Documentazione, critica, editoria, in “Storia dell’arte italiana”, II. Torino: Einaudi, 1979, pp.417-484

 

Tamburini, Falzone del Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza, 1981

 

TCI 1930

Touring Club Italiano, Piemonte, “Attraverso l’Italia”, I. Milano: TCI, 1930

 

Venturi   1904

Adolfo Venturi, L’arte romanica, “Storia dell’arte italiana”, III. Milano: Hoepli, 1904

 

Viollet-Le-Duc 1860

Eugène Viollet-Le-Duc, Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siécle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Reunies, s.d. (1860)

 

Wagner-Rieger 1956

Renate Wagner-Rieger, Die italienische baukunst zu beginn der Gotik. I. Oberitalien. Graz-Köln: Hermann Böhlaus Nachf., 1956