Genealogie del bianco (2005)

in Bianco su bianco: percorsi della fotografia italiana dagli anni Venti agli anni Cinquanta, catalogo della mostra (Aosta, Centro Saint-Bénin, 14 maggio – 25 settembre 2005), a cura di P. Cavanna. Firenze: Alinari, 2005

 

La realtà è solo materia grezza

per la creazione dell’immagine

che vive autonoma,

esprimendosi tutta in sé stessa,

in estreme sintesi formali.”

Paolo Monti, 1957

 

 

“Ho avuto un attimo di speranza quando, giorni fa, incidevo su una lastra di vetro affumicata – scriveva Paul Klee nel 1905 – Dunque il mezzo non è più la linea nera, bensì quella bianca. (…) Dipingere col bianco corrisponde al modo di dipingere della natura.” E ancora, nel dicembre 1910: “Ricordo l’effetto assolutamente convincente del nero come luce nella negativa fotografica.”(Klee 1990, p.181)

Dal confronto con la scrittura della luce, nella rimeditazione dell’antica pratica del cliché-verre (già di Corot e Fontanesi, tra gli altri) il pittore trovava la forza necessaria per avanzare in quella che lui stesso chiamava (in italiano) la  “Terra incognita” di quel nuovo “genere di forma rigorosamente astratto.”

La scoperta del negativo come modo di percezione delle apparenze del mondo, la scoperta delle fotografie come ombre bianche, luminose, consentiva di riconoscere il segno come pura manifestazione di energia, autonoma, slegata da ogni intenzione descrittiva. Il nero del segno rivelato come luce proprio dal processo fotografico, dal meccanismo intrinseco della sua riproducibilità, della sua natura di matrice. In questo eccesso accecante di tenebra risiedeva la possibilità dell’astrazione, dell’allontanamento dalla figura in favore di quella “sensibilità pura” che poi sarà di Malevič: “Il bianco Suprematismo non conosce più il concetto di materia, ancora in auge presso l’uomo medio. Le sue forme sono fenomeni che si ordinano in base a nuovi rapporti emotivi.” (Malevič 1922, p. 203)

Lo “zero delle forme” proprio del credo suprematista sembra trasmettere la propria eco lontana al  processo di mutamento che allora si avviava  nella cultura fotografica, in particolare in quell’ambito che si è soliti definire della fotografia artistica, a partire dagli anni del primo dopoguerra, quelli che vedono un progressivo (e timido, in Italia) allontanamento dagli stilemi pittorialisti in favore di una corrispondente apertura alle suggestioni, se non proprio alle provocazioni moderniste.

Non potendo operare contro la natura referenziale di traccia della fotografia, non potendo rinnegare la sua necessità documentaria, molti autori sembravano dunque volgersi verso qualcosa che potremmo definire uno “zero del significato”,  riducendo il peso narrativo del contenuto referenziale a favore di una crescita dell’autonomia del significante, della forma.

Come puntualmente rilevava Italo Mario Angeloni, uno dei più autorevoli critici militanti dell’universo fotografico italiano tra le due guerre, nelle immagini che iniziano a comparire sulle pagine degli annuari e delle riviste italiane intorno al 1920 “C’è un studiata cura di sopprimere quanto formava il bagaglio inutile della vecchia fotografia aneddotica. (…) è un nuovo mondo che si traduce in sintesi più intime e complesse; si comincia a sentire che in arte contano gli elementi essenziali, che alla nostra anima moderna bastano pochi ma decisi lineamenti per produrre in essa la gioia etica ed estetica della visione.” (Angeloni 1925, p. 68)

“Sintesi” è la parola chiave, il concetto rivelatore utilizzato pochi anni dopo anche da Marziano Bernardi, autorevole critico d’arte del quotidiano “La Stampa”, che nel suo commento al secondo Salon fotografico tenutosi a Torino nel 1928 riconosceva come nella critica fotografica “Ormai (…) s’usa un linguaggio per nulla diverso da quello pittorico: e si accenna a valori, toni, rapporti, a piani, volumi, cromatismo. (…) Ma v’è di più. Ed è il singolare e significativo uniformarsi della fotografia (specie la fotografia dei giovani) a quella tendenza verso la sintesi, l’unità, la semplificazione, la linearità, la regola, onde – dall’architettura alla pittura, dalla decorazione alla scultura e direi quasi alla poesia – sembra oggi improntarsi l’arte tutta quanta.”[1]  Cosa poi s’intendesse quale perfetta “realizzazione sintetista” ci è svelato da un testo di poco successivo, ancora di Angeloni, in cui l’immagine di un paesaggio invernale veniva restituita come “esigua ed infinita parola di bianco e di ombre che ti conduce verso il raccoglimento del sogno.” (Angeloni 1926, p.  243).

Accanto alla “sintesi”: il sogno.

Che è un altro modo per dire sentimento e – sovente – sentimentalismo, in una contraddizione apparente ma forse solo nostra, allora superata dalla comune possibilità di trasformare “la realtà in visione idealizzata”, scegliendo di comporre immagini fortemente  antiprospettiche, prive d’orizzonte e punti di fuga, in palese contrapposizione coi presupposti stessi della tradizionale visione ottica occidentale; allo scopo di ridurre il peso della referenzialità in favore del   riconoscimento del loro puro valore di immagine.

In questo contesto si può comprendere come la scelta del soggetto giocasse un ruolo importante, determinante, inducendo al confronto con porzioni di mondo che consentissero di misurare le proprie capacità espressive.

Ne sono prova le sollecitazioni che spingevano a considerare “il contributo della microfotografia alle arti decorative”, in cui si lasciava intravvedere la possibilità per “gli artigiani di tutte le specialità [di] trovare nel materiale messo a loro disposizione (…) quantità di nuove ispirazioni.” (Il contributo, 1929) o le analoghe riflessioni ospitate sulla rivista “Natura”, che nel 1929 pubblicava un importante articolo dedicato alla Fotografia moderna, poi pubblicato “se pure con certe riserve” anche sulle pagine del “Corriere Fotografico”. (Boggeri 1929a, 1929b)

È oggi sufficiente uno sguardo d’insieme, sintetico e quantitativo alla produzione di quegli anni per constatare, per comprendere quale fosse il soggetto privilegiato di queste prove, di queste un poco ingenue sperimentazioni che non saprei definire altro che discorsive, se non proprio linguistiche: gli autori dell’allora “giovane fotografia” guardavano al bianco del mondo alpino (anche in virtù di un diffuso intreccio di passioni) per  raccogliere la sfida di un confronto che nasceva dal bisogno, se non dalla volontà di far coincidere materia e colore, di ridurre ogni distanza tra forma e contenuto, sino alla rivelazione fascinosa del segno di puro valore espressivo, sebbene  – qui, sempre – velato da uno sguardo ancora crepuscolare.

Vengono alla mente le ben altrimenti consapevoli riflessioni di Alfred Stieglitz, la sua necessità ad un certo punto del proprio percorso di dare forma al progetto che si sarebbe tradotto in Music: a sequence of ten cloud photographs n.8, del 1922: “Volevo fotografare le nubi per scoprire cosa avevo imparato di fotografia in quarant’anni. Attraverso le nubi mettere per iscritto la mia filosofia della vita – mostrare che le mie fotografie non erano dovute alla qualità del soggetto  – le nubi erano a disposizione di chiunque, liberamente – nessuna tassa da pagare finora. (…) Il mio scopo è di fare fotografie che sembrino tali sempre più, al punto che non saranno viste, a meno che uno abbia occhi e guardi – e pure nessuno che le abbia viste una volta, le dimenticherà mai. Spero che questo sia chiaro.” (Stieglitz 1923)

Sarebbe ingenuo, di più, antistorico attendersi la stessa consapevolezza negli autori italiani dei primi decenni del Novecento, lo stesso livello di riflessione critica in una realtà come la nostra in cui lo spazio della ricerca era limitato e ridotto alle pratiche amatoriali, in cui la fotografia era  “per eccellenza un’arte di diletto. Essa è – nelle parole di Guido Rey – il vaso di fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini.” (Rey 1925, p.  6)

Entro questi limiti ben definiti, anche se non netti, è comunque possibile seguire le tracce di più percorsi, a volte nettamente individuati, individuali, altre talmente sovrapposti da risultare quasi coincidenti, da consentirci di parlare, di provare almeno a dire della figura di un autore che è collettivo, che elabora infinite variazioni sul tema, che si muove incerto e lieve, senza sforzo apparente nel tentativo di scrollarsi di dosso il peso della referenzialità fotografica. Un autore che si dedica alla realizzazione di immagini in cui lo scenario naturale  possa funzionare come un pre-testo, un materiale da elaborare per realizzare fotografie di cui negli esiti migliori la critica coeva coerentemente riconosce l’estraneità al genere del “paesaggio.”

Quello spazio bianco su cui condurre le prove, non era una pagina bianca disponibile a nuove scritture, era di  più: soggetto evanescente e quasi immateriale, individuato con naturalezza nello scenario alpino, luogo di antiche frequentazioni e passioni condivise per quelle generazioni. Un intreccio tra alpinismo e fotografia che legava le due pratiche sin quasi dalle origini, aperto da sempre alle suggestioni fantastiche.

Lo sguardo che scopriva le montagne aveva trovato le proprie origini in quel romantico sentire cresciuto dalle radici intrecciate del sublime settecentesco e  del nuovo riconoscimento tutto positivo della fattualità degli elementi naturali (le rocce, le nuvole, i ghiacci), in una oscillazione feconda e mai risolta tra fascino del pittoresco ed analiticità documentaria, quasi cartografica; quella stessa che incantava John Ruskin e buona parte poi della cultura ottocentesca; quella che spingeva i più grandi autori a misurarsi con l’impervio compito – quasi insormontabile – della fotografia di montagna, non solo delle montagne, ancora sulla soglia dell’età del collodio, subito dopo il 1850. Non per caso il lavoro  che destò maggior sensazione all’Esposizione universale di Parigi del 1855 era stato la veduta panoramica in dodici parti del massiccio del Monte Bianco, lunghezza totale due metri, realizzata  da Friedrich von Martens, con la “riproduzione immensamente esatta dei complicati dettagli offerti dai grandi rilievi della catena alpina, e in particolare dei loro ghiacciai”. Il pubblico dei visitatori era stato attratto anche dalle vedute dell’Oberland bernese  realizzate dai Fratelli Bisson, titolari di uno dei più eleganti studi parigini del Secondo Impero, che alcuni anni dopo, intorno al 1860,  saliranno – anzi sarà solo il “giovane” Auguste-Rosalie a farlo –  sul  Monte Bianco per realizzare quelle che sono forse le più importanti e note riprese di montagna della fotografia europea delle origini, poi raccolte in due album di Souvenir, uno dei quali, realizzato poco dopo la cessione della Savoia alla Francia, fu dedicato « A Sa Majesté Victor Emmanuel II Roi d’Italie ». (Infinitamente, 2004)

Già l’interesse di Bisson comportava esplicite preoccupazioni estetiche, come testimonia il coinvolgimento del pittore Gabriel Loppé  nella nuova spedizione del 1861,  e come mostrano le affascinanti immagini dedicate ai ghiacciai. Esse costituiscono l’adattamento fotografico di  un’ostinata variazione sul tema che si svilupperà mutando ogni volta il punto di vista, scegliendo le distanze più adatte al racconto:  dalla maestà geografica della veduta quasi panoramica, al fascino fantastico delle forme in cui avvolgere le figurine dei membri della spedizione. Marionette in uno scenario di fiaba che ha perso per strada ogni semplice intenzione descrittiva. Il soggetto era certo dei più affascinanti, e dei più redditizi anche, come dimostra il suo ricorrere nei cataloghi di numerosi fotografi ottocenteschi,  confermando – ci pare – la sua aderenza, la sua disponibilità all’immaginario, quella stessa che doveva aver condizionato la ripresa che Giorgio Sommer dedicò a Chamounix, Mer de Glace in una data non meglio precisata (Infinitamente, 2004, pp. 52-53), ma non troppo lontana dalla metà degli anni Sessanta del XIX secolo,   offrendo un’interpretazione nuova, che nella scelta del piano ravvicinato si discostava nettamente dai modelli prevalenti, e  – forse memore dell’interpretazione di Byron –  quasi immergendo l’apparecchio nel corpo del ghiacciaio, attratto magneticamente da quelle onde immense, eternamente bloccate dal gelo ancor prima che dalla fotografia, pietrificate e bianche, da cui sembra emergere il dorso di favolosi cetacei: l’apparizione magica della balena di Giona se non ancora di Pinocchio (1880).

È qui, nel concedersi al fantastico che la fotografia si allontanava, ancora inconsapevolmente, da quella missione documentaria che la cultura ottocentesca le aveva affidato. Non più “ancella piena di umiltà, come la stampa e la stenografia”, non più “il segretario e il taccuino di chiunque abbia bisogno di un’assoluta esattezza materiale”, come pretendeva Baudelaire,  ma la scoperta, e la rivendicazione poi, che la fotografia potesse essere strumento e tramite di un dialogo con la natura che doveva andare oltre la pura descrizione: “Il me semble – scriveva Victor Hugo –  que les choses-là sont plus que du paysage. C’est la nature entrevue à des certaines moments mystérieux où tout semble rêver, j’ai presque dit penser (…).”[2]

In questo mutato scenario prendeva forma una possibilità nuova. Da qui iniziava a definirsi lo spazio per il racconto del fotografo, per la fotografia come strumento generatore di immagini e non di semplici (se mai lo sono) documenti. Da qui si avviava la possibilità stessa dell’espressione della soggettività sub specie fotografica, pur continuando consapevolmente ad affidarsi all’ apparente trasparenza documentaria del mezzo, ogni volta mettendo in scena lo spettacolo della verosimiglianza, in costante, fecondo equilibrio tra invenzione narrativa ed insopprimibile analiticità descrittiva.

Lo scopo ambizioso era di ottenere la “documentazione dell’inesistente”[3], conquistando una  coraggiosa equidistanza tra la sublime fotografia alpina che fu di Vittorio Sella e degli altri grandi fotografi del XIX secolo e le più invasive manipolazioni pittorialiste, da cui comunque alcuni dei nuovi autori furono in certa misura tentati.

In questo percorso di rivendicazione un ruolo determinante ebbero, come si è detto,  la scelta del soggetto e delle condizioni di ripresa, la riduzione degli elementi denotativi, l’azzeramento della scena costituito dal bianco su bianco delle masse nevose su cui disporre i segni neri e sintetici di qualche tronco o ramo, di qualche traccia di sci. Qui riconosciamo il progressivo volgersi dell’attenzione dai dettagli del paesaggio al paesaggio di dettaglio; la capacità di vedere e descrivere un universo conchiuso, autonomo. Non una sineddoche:  paesaggi d’invenzione. Reinventati dallo sguardo che li scopre e li mostra, nuovi, per la prima volta; poiché ciò che veniva mostrato non era la trasposizione fotografica del luogo ma la raffigurazione del rapporto che con esso intratteneva l’autore. Una fotografia di fatto “soggettiva”, sebbene ancora lontana dalla consapevolezza critica che al termine sarà data da Otto Steinert nel secondo dopoguerra (Subjective, 1984).

Il primo passo era stato compiuto dal movimento pittorialista,  in tutte le sue differenti declinazioni. Basti pensare all’allontanamento programmatico dalla realtà fattuale che lo caratterizzava a  livello internazionale e di cui costituivano indizi rivelatori non solo elementi apparentemente secondari come il trattamento finale, la presentazione dell’opera, ma specialmente la manipolazione delle apparenze analogiche di ogni fotografia, la tensione alla perdita di ogni vincolo di meccanica referenzialità.

Mentre si moltiplicavano le scene arcadiche e crepuscolari, però, guerra e fotografia si alleavano per offrire alla vista immagini sconosciute del mondo. Non solo – come ha riconosciuto Diego Leoni elaborando un pensiero di Merleau Ponty – si ampliava e si ridefiniva la “appropriazione del campo di percezione entro il quale l’oggetto del contendere si sarebbe definito visivamente e politicamente” (Leoni 2001, p.  8), ma alla rappresentazione prospettica terrestre di tradizione rinascimentale si affiancava, sostituendosi in parte, una visione zenitale e planimetrica, in cui l’immagine fotografica si approssimava all’astrazione cartografica conservando intero il proprio carico di referenzialità[4].

Per questa sola ragione la ripresa aerea ha contribuito a formare in modo nuovo l’esperienza comune del paesaggio e più in generale dello spazio, già toccata dalle modificazioni indotte dalle grandi invenzioni ed elaborazioni teoriche dei decenni a cavallo tra Otto e Novecento. Come ha riconosciuto Gertrude Stein riflettendo sull’opera di Picasso “il Novecento è un secolo che vede la terra come non l’ha mai veduta nessuno[5], la terra quindi ha uno splendore che non ha mai avuto. Nel Novecento tutto si distrugge e niente continua, il Novecento quindi ha uno splendore tutto suo. (…) Ha la singolare qualità di una terra che nessuno ha mai veduto, di cose distrutte come non sono mai state distrutte.” (Stein 1938, p.  86-87)

Lo statuto di queste fotografie era, ancora una volta, ambiguo e ciò ha determinato conseguenze importanti sul loro impatto estetico[6]: certo esse costituivano – secondo la bella definizione di Giovanni Battista Trener, tra le figure più rilevanti del pionierismo dell’aerofotografia italiana –  la registrazione delle “impronte della guerra”[7], consentendo di raffigurare qualcosa di altrimenti invisibile come il campo di battaglia[8], ma la loro assoluta capacità di restituzione ottico geometrica ne riduceva anche drasticamente il campo di riconoscibilità al di fuori dell’analisi specialistica: l’esito supremo dell’applicazione strategica dell’oggettività fotografica conduceva all’astrazione.

Negando ogni confronto comune e il conforto che nasce dall’esperienza diretta, il terribile Paesaggio di rumori di guerra (per riprendere il bel titolo di un piccolo disegno di Depero, del 1915) di queste immagini si trasformava in figura astratta e imponeva suggestioni nuove, fondamentali per la ridefinizione del linguaggio visivo e fotografico ben oltre gli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale.

è appena il caso di richiamare qui l’interesse o la vera e propria passione per le riprese aree di due architetti fotografi come Giuseppe Pagano e Carlo Mollino, o ricordare che Lazlo Moholy-Nagy ricorse alla “Fotografia aerea di una piazza” per la sceneggiatura tipofotografica di Dinamica della grande città, stesa nel 1921-22 con Carl Koch[9]. Più pertinente alla cultura fotografica italiana  era stata la riflessione che Antonio  Boggeri svolse nel  1929 a proposito del concetto di “fotografia moderna” sulle pagine della rivista milanese “Natura”, lucidamente sviluppata nel Commento all’annuario Luci ed Ombre dello stesso anno. “Circa il modo di fotografare, crediamo dover risalire alla fotografia aerea per spiegare la rivoluzione avvenuta repentinamente nella scelta del così detto punto di vista. Senza dubbio le prime fotografie prese dall’aeroplano rivelarono prospettive meravigliosamente nuove” (Boggeri 1929a) “in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari”. (Boggeri 1929b)

Questa notazione destinata a diffondere  in Italia il verbo del modernismo fotografico, della “fotografia pura o integrale”, segnava anche il punto di svolta di un percorso collettivo di ricerca[10] sorretto da istanze non sempre chiaramente espresse se non – più spesso –   ingenuamente formulate. Solo la rilevanza del fenomeno, solo la verifica della sua incidenza, della “evidente affinità di tendenze e di metodi” che già Boggeri riconosceva anche a livello internazionale, ci consentono oggi di ritrovare in quelle opere un senso e un valore  che vanno oltre le semplicistiche dichiarazioni di poetica, oltre le coeve letture critiche di tono crepuscolare.

Solo Mario Gabinio non ne fu toccato, ma in ragione della sua sostanziale marginalità rispetto alla rete degli amateur photographers torinesi. Lo scarto radicale e stupefacente che impose al proprio guardare all’avvio degli anni Trenta, ribaltando il realismo analitico della sua formazione ottocentesca in una nuova visione perfettamente aggiornata, senza pagare alcun dazio alla maniera pittorialista, ma rielaborando semmai suggestioni del divisionismo[11],  restò sostanzialmente ignorato sebbene molte delle opere pubblicate sulle riviste di quegli anni avessero più di un’analogia con esemplari della sua produzione anche significativamente antecedenti.[12]

I nomi che circolavano erano quelli degli esponenti del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica, vale a dire Carlo Baravalle, Achille Bologna e Stefano Bricarelli, dal 1923 direttori e proprietari del “Corriere Fotografico” e di un altro piccolo gruppo di autori, prevalentemente provenienti dall’Italia settentrionale, dal Piemonte al Trentino, che determinavano con le loro opere il tono medio della produzione italiana tra le due guerre, segnata dallo scarto drammatico tra cultura “salonistica” e scenario politico e civile, distacco che procederà, pur con ragioni successivamente diverse sin quasi agli anni del secondo dopoguerra.

Sebbene incominciassero ad affacciarsi, già intorno alla metà degli anni Venti, accenni ad un “nuovo mondo” seppur non ancora ad una “nuova visione”, lo stesso linguaggio critico si abbandonava ancora all’esaltazione della “poesia delle soffici luminosità”, del “temperamento raccolto e sognante” di Francesco Agosti come del romanticismo di Peretti Griva, celebrando la “religiosa passione espressiva” delle immagini di Carlo Baravalle, in cui i “segni del travaglio meccanico” erano ormai scomparsi. Il piemontese Angeloni notava che “la composizione è dettata non solo dalla natura delle cose e dall’anima del disegnatore, ma sì anche da un evidente signorile insegnamento dell’arte pittorica nazionale e più particolarmente di quella scuola che ha in Piemonte i suoi maestri negli Avondo, nei Bertea, nei Fontanesi, nei Follini.”[13] Questi richiami non dovevano certo dispiacere a quegli autori, specialmente ai torinesi che proprio ad un pittore come Cesare Maggi, autore di paesaggi innevati che vivevano delle stesse suggestioni delle autocromie, avevano affidato la “fraterna cura” della sala in cui erano comprese le loro opere in occasione delle II Mostra del Fotogruppo Alpino del CAI, nel maggio 1927, e addirittura, nel gennaio dell’anno successivo dell’intera  Prima Mostra d’arte fotografica del Gruppo Piemontese per la fotografia artistica.[14]

Fu questa la più ricca stagione delle mostre e dei Salon torinesi e della notorietà internazionale dei membri del gruppo: Photograms of the Year 1929 (Photograms 1928) aveva pubblicato un’immagine di Bricarelli[15] e Audax di Giulio (t. XXV), che Gian Luigi Brezzo aveva già giudicato “superbo” presentandolo sulle pagine dell’annuario di Luci ed Ombre per il 1929 (Brezzo, 1929 p.  778).

Cesare Giulio,  autore di “abbacinati paesaggi di neve”[16] quasi sempre  privi di sviluppo prospettico, modellati per superfici pure, segnate da impronte e scie che si trasformano volentieri in texture, era certo stato tra i primi e più coerenti nell’adottare le formule della nuova fotografia, autore di immagini in cui la tendenza alla costruzione della pura forma, astratta, era confermata anche da certi suoi titoli (Trasparenze, ante 1932) analoghi a quelli di autori a lui prossimi come Carlo Baravalle (Sinfonia della neve, 1927)[17].

L’appartenenza di queste fotografie al genere del paesaggio, inteso come “una rappresentazione pittorica – o fotografica – di carattere eminentemente descrittivo e totalitario, nella quale l’insieme domini sul particolare [e] le figure – se figure vi sono – abbiano funzione complementare (…) l’architettura e in genere l’opera dell’uomo siano assoggettate dall’impero incontrastato della natura.” (Bernardi 1927, p.  10) era – come si è detto –  messa in discussione: “non sono paesaggi né le nevi dell’Oneglio e del Giulio né i particolari luministici del Baravalle” (ivi, p.  11).

Sono fotografie che danno “pittoricamente l’impressione del silenzio e della solitudine”, che offrono  “null’altro che una fulminea sensazione di velocità”, nella definizione di Marziano Bernardi de La scia di Cesare Giulio, giudicata “efficacissima per la trovata dei due solchi che diagonalmente tagliano il ripido nevaio.” (ivi  p.  17). La stessa immagine, forse la più nota ed emblematica di tutta questa stagione[18], venne pubblicata come “study in space and movement (…) a skier whose trail through the snow describes a beautiful curving line”, nell’annuario del 1931[19] della rivista londinese “The Studio” (tav. 81), una vera summa della fotografia modernista con immagini di Herbert Bayer, Francis Bruguiere, Florence Henri, Germane Krull, Man Ray e Tina Modotti  tra gli altri, oltre agli italiani Achille Bologna e Stefano Bricarelli.

Questa economia di mezzi, questa riduzione ai minimi termini dei segni e dei toni, l’assenza di manipolazioni in ripresa e in stampa pur nella ricerca ostinata dell’artisticità dell’immagine rappresentavano, più che il superamento, una soluzione alternativa al pittorialismo ancora  imperante, la scelta di altri modelli di riferimento, di altre suggestioni quali la grafica giapponese, esplicitamente richiamata a commento di un’opera di Riccardo Moncalvo presentata in Luci ed Ombre del 1934[20]. L’eliminazione del volume prospettico in favore dell’esaltazione della superficie, l’adozione del tono alto inducevano a fondare il proprio bagaglio espressivo sulle pure potenzialità delle modulazioni tonali, intrecciando il proprio con altri percorsi coevi sebbene distanti: basti qui ricordare i toni alti delle fotografie di fiori di Imogene Cunningham che proprio il “Corriere Fotografico” aveva pubblicato nel 1931 e, ancora, l’opera di  Moholy-Nagy, che aveva utilizzato sequenze di sciatori e scie tratte dal testo Wunder des Schneeschuhs di Arnold Fanck[21], il regista che nel bellissimo libro fotografico dedicato al suo Der weisse rausch /L’ebbrezza bianca, 1931, aveva riproposto con un montaggio efficacissimo e denso circa 2000 fotogrammi ricavati dalle riprese di Richard Angst, montati in sequenze di grande efficacia dinamica cui vennero assegnati titoli quali “Ski- Impressionismus” o “Ski-Expressionismus”. (Le stelle 2004, p.  127)

A conferma di “quanto potentemente [avessero] influito i modi del cinematografo sulla fotografia moderna”  (Pellice 1932, p.  XIV) basti verificare come le campiture di neve delle piste fossero state trasformate in spazi da comporre coreo-graficamente, da attraversare con silhouette sempre meno riconoscibili,  più veloci,  portate sino all’estremo limite della scomparsa della figura: restavano solo le nuvole bianche sollevate dallo sci “wenn der Schnee stäubt” (quando la neve è polverosa). Le ombre in movimento, le tracce e le forme che modulano il bianco erano quelle che ritroviamo in molta fotografia modernista, al limite della citazione, quasi del plagio.

Gli esempi sono numerosissimi[22], in particolare nella produzione di Giuseppe Ghedina (Cortina d’Ampezzo) e dei Fratelli Pedrotti (Trento e Bolzano), attivi anche nel campo del cinema di montagna sin dal 1932 quando Aldo filmò la Prima ascensione direttissima della Paganella. Già Floriano Menapace (2001 p.  53) aveva indicato come  “la vera fonte estetica dei Pedrotti fossero il cinema  e i ritratti fotografici degli attori”, con riferimenti espliciti a Fanck e Luis Trenker, mentre meno convincente appare  il richiamo alle influenze  futuriste (ma di un futurismo ormai semplice “cultura della modernità”) “dopo aver conosciuto Depero e il suo impegno entusiasta per l’avanguardia” di cui ha parlato Giovanni Lista (2001 p.  193), riconoscendo nei “solchi lasciati dagli sci e dalle slitte sui campi di neve, la volontà di una resa astratta capace di trascendere il riferimento ai dati della realtà esteriore e (…) una connotazione calligrafica che traduce i temi formali tipicamente futuristi dei tracciati d’energia e delle linee in movimento continuo.” (ivi  p.  202) Lettura affascinante, ma non convincente. Si potrebbe forse suggerire un percorso diverso, ricordando ad esempio come Enrico Pedrotti, di formazione tardo pittorialista, avesse pubblicato su “Galleria” nel 1934, in un numero in cui comparivano  anche immagini di Erich Angenend, autore vicino alle poetiche della Nuova Oggettività e per lungo tempo punto di riferimento di molta fotografia italiana.[23]

Quando, allo scadere del regime fascista, nel 1943 venne pubblicata Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia per la cura di Ermanno F. Scopinich in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner, lo scenario appariva ormai in profonda trasformazione e  Peretti Griva, storico autore di “paesaggi trascendentali” caparbiamente pittorialisti, stampati al bromolio trasferto,  era il solo rappresentante del gruppo di torinesi vicini al “Corriere Fotografico”.  Risultava assente anche un autore internazionalmente noto come Cesare Giulio, sebbene la fotografia a tono alto, eredità diretta delle prove dei decenni tra le due guerre, fosse rappresentata da un altro torinese come Enrico Giorello (p.39), e dai trentini Enrico e Aldo Pedrotti (tavv.56, 80), cui Giuseppe Turroni avrebbe riconosciuto di aver fornito “la grammatica d’esordio di Fulvio Roiter”[24] [quando] rielabora i moduli astratti (…) i toni sono cioè sempre candidi  [e]  la sintesi calligrafica è ancora il suo campo sperimentale.” (Turroni 1959, pp. 17, 53)

Il Paesaggio invernale  di Aldo Pedrotti si presentava – nella lettura di Zannier (1981 p.  14) come  “una bianca superficie, interrotta soltanto da due esili segni verticali (due pioppelle), che scandiscono lo spazio dell’immagine, di una estrema purezza grafica, inconsueta allora”, sebbene fosse una prova di tono piuttosto narrativo, lontana dalle tensioni astratte presenti nelle opere dei migliori autori del decennio precedente.  Fotografia uscì a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di Luci ed Ombre (1934), che ne costituiva di fatto il precedente editoriale (ma non ideologico) e rappresentò un ulteriore tentativo, non compiutamente risolto, di far procedere il dibattito che avrebbe dovuto consacrare la svolta modernista, timidamente avviato dopo il 1923 dal “Corriere Fotografico”, poi proseguito e affinato sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, nonché col contributo fondamentale di Gio Ponti,  Edoardo Persico e dell’editore Gianni Mazzocchi.

Federico Vender, presente con quattro immagini, era in quegli anni uno degli autori più rappresentativi e considerati del panorama italiano e internazionale almeno dal 1934. Il suo sguardo orientato alla trasfigurazione in senso idealistico della realtà in immagine, era caratterizzato dal ricorso programmatico al tono alto, derivato da Cesare Giulio e dai fratelli Pedrotti ma qui, come in Giuseppe Cavalli, liberato ormai dalla necessità del soggetto e caricato consapevolmente di senso e intenzione, esito della “necessità di allontanare la fotografia che abbia pretese di arte, dal binario morto della cronaca documentaria”[25]. Era dalla considerazione critica di questa sequenza di opere e autori che sarebbe derivata, ormai alla soglia degli anni Sessanta, la possibilità di riconoscere “la costante più vera della nostra fotografia, pur in mezzo a tante contraddizioni e ripieghi: la verità della forma.” (Turroni 1959, p.  17)

La condizione nuova in cui viveva il paese, uscito da poco più di un decennio dalla guerra civile, il punto di vista collocato in una fase di profondi cambiamenti non potevano però non portare, contestualmente, a formulare un severo  giudizio etico: “Nell’immediato dopoguerra la stabilizzazione conformista non accenna minimamente a frangersi in vista di uno sbocco libero, di una finalità narrativa. (…) Questo voluto narcisismo era necessario ai fini di un ulteriore approfondimento del linguaggio? No. Si trattava in sostanza di indifferenza, di pigrizia morale” (ivi, p.  24) giustificabile solo pensando al lungo “periodo di rassegnazione” trascorso.

Erano anni in cui il confronto ideologico all’interno della più viva scena fotografica italiana, incerta tra eredità fotoamatoriale e nuove spinte all’impegno professionale, si manifestava anche attraverso la costituzione di numerosi circoli fotografici militanti: dopo una gestazione quinquennale (e una guerra di mezzo) nel 1947 venne pubblicato su uno dei primi numeri della rivista “Ferrania” il manifesto di palese derivazione crociana de La Bussola, fondata da Giuseppe Cavalli, Federico Vender e Mario Finazzi, cui si aggiunsero Ferruccio Leiss, Luigi Veronesi ed altri in seguito, mentre sul finire dello stesso anno si costituì La Gondola, per iniziativa di Paolo Monti. Ancora per iniziativa di Cavalli veniva fondata nel 1953 l’Associazione Fotografica MISA,  emanazione ‘giovanile’ de La Bussola, che nella sua prima mostra,  a Roma nel 1954, presentò opere di Piergiorgio Branzi, Mario Giacomelli, Francesco Giovannini, Giuseppe Möder ed altri, affiancati da autori più ‘anziani’ come Cavalli e Vincenzo Balocchi.

Di poco successiva fu l’istituzione del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia, costituito nel 1955 a Spilimbergo da Italo Zannier, Fulvio Roiter, Gianni Borghesan, Toni Del Tin, Carlo Bevilacqua, Aldo Beltrame (poi anche Gianni Berengo Gardin), gruppo che si professava di stretta osservanza neorealista, sebbene nella sua produzione si riconoscessero influenze diverse, che avrebbero portato Franco Russoli a parlare per loro di “realismo lirico”[26], individuando la presenza di elementi che implicavano un richiamo alla fotografia soggettiva, quindi ad ambiti di ricerca prossimi ad un autore apparentemente lontano come Paolo Monti.

Per ben vent’anni, luogo privilegiato di confronto e di scambio, di divulgazione consapevole della nuova cultura fotografica italiana fu la rivista “Ferrania”, fondata in quello stesso 1947 che si rivela essere stato un anno chiave per la nuova fotografia nostrana, quale strumento promozionale della più importante industria italiana di prodotti fotografici. Nelle parole di Italo Zannier, che nel 1956 vi pubblicava il suo primo saggio, dedicato ad una lettura neorealista di Giacomelli in contrapposizione all’idealismo del maestro Cavalli, la rivista era “una cronaca colta, che offriva il più attendibile panorama di una cultura visiva nel  passaggio dal residuo pittorialismo al modernismo (…) sino allo sperimentalismo (…) e inoltre il neorealismo sociologico (…) magari privilegiando quello più dolce e lirico dei veneziani Roiter, Del Tin, Bonzuan.” (Zannier 2004, p. 114).

Le opere pubblicate sulle sue pagine ci consentono di ricostruire le intricate vicende di una stagione conflittuale, segnata dalla contrapposizione “tra fotografia d’«arte» e fotografia «vera»”, tra le diverse declinazioni del realismo e la fedeltà “all’assioma fondamentale che in arte il soggetto non ha nessuna importanza”.[27]

Questa doppia posizione si traduceva visivamente nel radicale contrasto tonale tra l’ high key, proprio dei formalisti dichiarati, sovente ridotto a formula stilistica progressivamente esangue, assunto quale elemento significante dell’idealismo artistico, e le “ricorrenze tonali di un nero profondo” (Camisa 1958, p.  105) che contraddistinguevano la nuova fotografia impegnata nel dialogo col vero, per quanto trasfigurato.

Chi in quegli anni si assumeva il compito di riflettere sulle tendenze della fotografia italiana,  ancora una volta non poteva fare a meno di utilizzare un lessico, di richiamare definizioni critiche derivate dal più vasto mondo della cultura artistica, ora consapevolmente accolte.

“Esistono dei termini, delle ‘definizioni’ della forma espressione, validi indipendentemente dalla loro derivazione pittorica – affermava Alfredo Camisa – Anche se non perfettamente propri, alcuni di essi aderiscono al nostro pensiero: e non sta a noi crearne di nuovi. Espressionismo è uno di questi termini. Espressionismo indica rivolta contro ogni residuo naturalistico, espressione di qualche cosa che è dentro di noi: non la traduzione di un brano di natura (…) ma la visione interna fuori da ogni relazione (…) fondata su uno stato d’animo. La forma può apparire sconvolta, lacerata…” (Camisa 1958, p.  106)

La difficoltà di procedere oltre, di giungere a distinzioni nette tra le diverse tendenze e atteggiamenti emergeva però immediatamente: “la definizione stessa che ne abbiamo tentato – riconosceva Camisa –  indica comunque come il ‘passaggio’ dall’espressionismo ad altre forme espressive sia difficilmente individuabile: non sarebbe ad esempio concepibile una fotografia realista ed ambientale che fosse solamente tale e non espressionista”, tracciando così un percorso  che da Monti e Giacomelli si ampliava sino a toccare Berengo Gardin, Branzi, Möder, Zannier e lo stesso Camisa. Questa prima distinzione non era però ancora sufficiente a descrivere l’intero arco della produzione postbellica, cui andava aggiunta la “fotografia lirica-realista, in pieno splendore nel decennio 1945-1955”.  Nella sua “delicatezza di toni, nella ricercatezza e nella compiutezza formale” era facile riconoscere “la derivazione da quella tendenza lirica pura dei nostri maggiori maestri dell’anteguerra. (…)  Una tendenza di grandi orizzonti, di semplice comprensione e di facile presa, anche se , spesso, al limite del manierismo e di un puro compiacimento formale”, in cui venivano fatte rientrare le opere di Bevilacqua, Giovannini, Roiter “ed alcune immagini di Bonzuan.” (Camisa 1958, p.  107)

Riconosciamo qui quella difficoltà o incertezza interpretativa, quella stessa impossibilità feconda di applicare troppo rigide classificazioni che ritroviamo in un’altra lettura delle opere di Mario Giacomelli, i cui paesaggi erano giudicati  “espressionisti eppure placati in una pura scansione ritmica (…) di un significato lirico ispirato.” (Turroni 1959, p.  65)

Dal luglio 1957 aveva fatto la sua comparsa in edicola l’edizione italiana del mensile “Popular Photography”, con Fedele Toscani tra i consulenti tecnici, cui si affiancò sin dal secondo numero Piero Donzelli, aprendo immediatamente al grande reportage internazionale con ampi articoli dedicati alla Magnum ed un’intervista ad Henri Cartier-Bresson (settembre 1957). La rivista riservava un’acuta attenzione critica anche agli autori della fotografia italiana contemporanea, che un articolo di Cesare Colombo definiva Gli eroi complicati, dotati di “una grande sensibilità umana e [di] parecchie inquietudini intellettuali.” (Colombo 1958)

Il notevole spettro di interessi e l’apertura di un redattore come Donzelli erano testimoniati dalla pubblicazione degli Esperimenti di fotografia astratta di Franco Grignani, presentati da Gillo Dorfles (settembre 1958) come delle formalizzazioni di Edward Weston (1886-1957), cui venne reso omaggio a poca distanza dalla morte, mentre su quelle pagine Zannier proponeva i suoi “aforismi e fotografie” di architettura, dimostrando un’attenzione per la cultura visiva statunitense, da Ezra Stoller a Minor White, che andava ben oltre l’impegno realista del suo Gruppo Friulano.

Quando, nell’ottobre del 1959 alla Biblioteca Civica di Sesto San Giovanni si tenne l’ennesima “Prima Rassegna della Fotografia Italiana”, offrendo un panorama estremamente articolato e ricco di oltre cinquecento fotografie dei  migliori autori, il compito non tanto di recensire l’evento quanto “di trarne un insegnamento” venne affidato ancora a Camisa, ma il bilancio che ne fece non fu certo positivo.

Era ancora ben presente infatti l’anacronistico permanere e prevalere del dilettantismo, quello stesso stigmatizzato da Turroni, qui più precisamente individuato e definito nella “mancanza di consapevolezza critica nell’impiego del mezzo fotografico e [nella] conoscenza delle funzioni del [suo] linguaggio.” (Camisa 1959, p.  76).

“Fra i dilettanti presenti a Sesto (…) mostrano particolari lacune (…) Giacomelli e Gardin [presente con Il trenino della Val Gardena], che pure sono fra i migliori dilettanti nostri; entrambi, e in particolare il secondo, difettano per la disparità delle immagini selezionate e dello stile. Per un difetto, cioè, tipico del dilettantesimo fotografico…” (ivi, p.  77)

Era il punto di snodo. L’avvio di una nuova stagione della fotografia italiana.

Note

 

[1] Bernardi 1928, pp.  641- 642. Lo stesso concetto sarà ripreso ancora alcuni anni più tardi in quello che è unanimemente considerato uno dei testi chiave dell’estetica fotografica modernista italiana: nel primo dei suoi quarantaquattro “Concetti per fotografi moderni” Mario Bellavista invitava infatti a “fare la sintesi e non l’analisi dei soggetti da riprodurre. È più intelligente, più abile, più moderno.” (Bellavista 1934, p.  10)

[2] Lettera a Louis Boulanger-Cauterets, citata in Sorbé 1993 , p.  69.

[3] La splendida formula si deve a Emanuele Sella che, rispondendo nel 1922 al quesito rivolto ai lettori del periodico “Il Fotografo” affermava: “La fotografia? È la documentazione dell’inesistente.”, cfr. “Il Fotografo”, 4 (1922),  n.3, p.10. Non esistono per ora elementi certi che consentano di identificare l’autore della definizione con l’omonimo membro della famiglia Sella, economista e poeta, poi Rettore dell’Università di Genova, su cui cfr.il numero monografico Emanuele Sella (1879-1946),  “Rivista Biellese”, 1 (1947),  n.5, settembre-ottobre cortesemente segnalatomi da Aldo Sola, che ringrazio. Due fotografie di E. Sella, di Torino,  Nouvelle lune, e Sérenité marine, vennero pubblicate nel numero di maggio giugno 1915 de “La Fotografia Artistica”. Anche Gio Ponti, nel suo  Discorso sull’arte fotografica, 1932, riconosceva alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio“.  (Ponti 1932, pp. 285-286).

[4] Confermando una programmatica distanza dalle contingenze storiche, il periodico “La Fotografia Artistica” riprendeva – 12 (1915, n. 2,  febbraio, pp.  25-26; marzo, pp. 37-38) lo studio dedicato alla Topofotografia aerea dal capitano Cesare Tardivo, già pubblicato sulla “Rivista d’Artiglieria e Genio”, 3 (1913), in cui si descrivevano le diverse applicazioni senza però fare alcun cenno alla guerra incombente.

[5] Nello stesso secolo ci sarà un altro punto nodale in cui – nuovamente – la terra sarà veduta “come non l’ha mai veduta nessuno”: vista dalla luna in una notte del 1969 e raccontata da Luigi Ghirri 1978, p.  11-12.

[6] Che questo ordine di preoccupazioni non fosse estraneo alle riflessioni dei Comandi Militari è ben documentato  dalle Norme tecniche e d’impiego del servizio fotografico terrestre ed aereo emanate dal Comando supremo nel 1918, che imponevano per la individuazione del punto di vista da cui realizzare i panorami di non  tenere alcun conto “dell’aspetto più o meno artistico che, in base a tale scelta, può assumere il panorama stesso”,  cit. in Zandonati 2000, p.  16. Ciò dimostra la relazione comunque stretta tra la cultura dei fotografi militari e quella fotoamatoriale: se non si fossero presupposte connessioni, non sarebbe stata necessaria tale raccomandazione.

[7] Leoni, Marchesoni, Rastelli 2001, p.  42.

[8] Sull’impossibilità reale di riconoscere e definire lo spazio del proprio agire al fronte è sufficiente rimandare qui alle bellissime pagine del Giornale di guerra e di prigionia  redatto da C. E. Gadda dall’agosto 1915 al dicembre 1919 e pubblicate per cura di Dante Isella, Milano, Garzanti, 1992.

[9] Moholy-Nagy (1925) 1987, p.  126.

[10] “Sulle riviste di quegli anni l’idillio regna sovrano. Colpisce un amore uguale in tutti, quello di una determinata espressione formale. A occhi non smaliziati, non «iniziati», le foto di allora si confondono paurosamente tra loro.” (Turroni 1959, p.  36)

[11] Tronchi in controluce, del 1936 riprende temi e problemi di rappresentazione affrontati alcuni decenni prima da  Vittore Grubicy de Dragon.

[12] Mi riferisco ad esempio al suo Paesaggio invernale, 1915-1920, che presenta molte analogie con le Fantasie di ghiaccio di Piero Oneglio pubblicata sul “Corriere Fotografico” nel dicembre del 1924. Il motivo delle ombre di tronchi sulla neve ritorna anche in un’immagine di Stefano Bricarelli per  “Motor Italia”, 11 (1932) marzo, p.  45 a corredo dell’articolo L’Eden degli sciatori nelle nostre Alpi, ma anche in Photograms of the Year, 1940 (tav. LI),  in una fotografia dell’americano Gustav Anderson.

[13] Angeloni 1926, p.  242. Anche un altro critico torinese parlerà di lì a poco di immagini  “che ci fanno pensare a Maggi, a Chiariva, a Pollonera ad Avondo e Calderini.” (Bernardi 1927, p.  10)

[14] Oltre a Maggi, soggetto anche di un ritratto di Ottaviano Ecclesia, i curatori della mostra, aperta il 21 gennaio 1928 al Circolo della Stampa di Torino,  erano, i critici dei due maggiori quotidiani locali Marziano Bernardi (“La Stampa”) ed Emilio Zanzi (“La Gazzetta del Popolo”). Oltre alle opere dei ventuno membri del gruppo erano presentate le personali di tre notissimi autori stranieri di scuola pittorialista: Marcus Adams, Leonard Misonne e José Hortiz-Hechagüe. In occasione dell’esposizione del Fotogruppo Alpino nel maggio 1927, nella sala del Gruppo Piemontese erano presenti opere di Agosti, Baravalle, Bologna, Bricarelli, Placido Eydallin, Giulio, Oneglio, Pasteris e Sergio Perdomi, mentre le altre ospitavano, tra gli altri,  i lavori di Hess e Reviglio.

[15] Gondole, t. X. Lo stesso Bricarelli aveva redatto un breve profilo della fotografia italiana per Photograms of the Year del 1923 che conteneva ben cinque opere di autori italiani.

[16] Così li definirà Achille Bologna, 1935; va qui ricordato il suo Spiaggia  che nell’uso della texture rimanda ancora a Giulio.

[17] Il richiamo alle forme musicali, oltre all’esempio di Stieglitz, verosimilmente ignoto in Italia, era esplicitamente avanzato da numerosi autori: “Io sono solito ad associare una visione fotografica a una sensazione musicale, la quale, a guisa di pietra di paragone, può darsi mi dia una norma per stabilire l’intensità dell’emozione avuta.” (Peretti Griva 1934, p.  17)

[18] Come conferma uno degli album conservati presso l’Archivio Fotografico del Museo Nazionale della Montagna di Torino, questa immagine notissima costituiva l’esito del taglio in stampa di una più ampia ripresa (n.3795).

[19]Le due più importanti riviste italiane di architettura dedicarono recensioni a questo annuario, pur con valutazioni profondamente diverse: per il redattore di “Domus” si trattava  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  – 4 (1931),  n.47, p.67 –  mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume costituiva l’occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.”, 4 (1931),  n.47, novembre, p.54. Nel marzo dello  stesso anno si apriva a Torino la Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista, a breve distanza dalla redazione del manifesto La fotografia futurista, di Marinetti e Tato, pubblicato nell’aprile del 1930 in occasione del Primo Concorso Fotografico Nazionale di Roma. All’edizione torinese, ricca di ben 170 opere di 22 autori diversi ma poco più che segnalata da due brevi note di cronaca cittadina comparse sui quotidiani locali, non partecipò nessuno dei fotografi vicini al Gruppo Piemontese, ma fu certamente visitata da alcuni di essi: Carlo Matis, ad esempio, possedeva una copia del catalogo.

[20] “Riccardo Moncalvo disegna con sottile malia giapponese un arazzo di brine e di vette”, scriveva Angeloni a proposito di Inverno presentando l’annuario di quell’anno (Angeloni 1934, p.  591)

[21] Moholy-Nagy (1925) 1987, p.   116. è appena il caso di ricordare che Fanck fu l’inventore del Bergfilm, del cinema di montagna,  la cui vera terra d’elezione fu stata la Germania, efficace narratore di questo “idealismo eroico” che contemplava sempre il confronto simbolico tra l’uomo protagonista e le vette, gran costruttore di trame drammatiche, maestro di Luis Trenker e poi di Leni Riefenstahl. Analoghe soluzioni, pur con campi sufficientemente ampi e quasi panoramici, furono adottate da Emanuel Giger circa negli stessi anni, cfr. Audisio, Cavanna 2003, p. 100 passim.

[22] Penso in particolare a certe immagini del torinese Alberto Rossi, di cui Mollino pubblicò un Ritratto di Marlene Dietrich (1949, p.  295) o alle opere di Ettore Santi, di Clavières, datate 1930, perfettamente assimilabili alle foto di scena di Fank.

[23] I rimandi non dovevano però essere a senso unico: si confronti ad esempio  Levico: lago gelato, 1956 (Menapace 1981, p. 121) dei Pedrotti con Gelo astratto, di Angenend,  “Ferrania”,  13 (1959),  n.1, gennaio, p.4.

[24] Immagini dei Fratelli Pedrotti vennero pubblicate anche da Carlo Mollino (1949, p. 365) insieme a due fotografie di Riccardo Moncalvo (Nella tormenta  e Sotto zero, tavv. 362-363, entrambe del 1937, qui datate 1946).

[25] Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Zannier, Weber, 1997.

[26] Zannier 1997, p. 11. Alla luce di questa interpretazione è interessante leggere un’immagine come Finestra a Claut, 1953, di Zannier che offre suggestioni ben lontane dal realismo, e che fa venire alla mente le parole di Minor White: “L’elastica linea tra realtà e fotografia è stata tirata inesorabilmente, ma non è stata spezzata. Queste astrazioni della natura non hanno lasciato il mondo delle apparenze; perché farlo significherebbe spezzare il punto di forza dell’obiettivo, la sua autenticità. (…) Mentre vengono fotografate rocce, il soggetto della sequenza non sono le rocce; mentre sembrano apparire simboli, essi sono indicatori di senso. Il significato appare nello spazio tra le immagini, nel sentimento che suscitano nell’osservatore. (…) Le fotografie possono essere lette senza riserve. L’accidentale è stato messo da parte. La trasformazione della materia originale in realtà fotografica è stata intenzionale; la stampa è stata manipolata per influenzare l’affermazione; ed era stato previsto che appena l’oggetto si fosse rivelato, il Sé dell’osservatore si sarebbe manifestato. Per i dati tecnici, la macchina è stata usata fedelmente.”, (Minor White 1991, pp. 10-12).

[27]  Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Zannier, Weber, 1997.

 

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Domenico Riccardo Peretti Griva, Come deve essere giudicato il valore artistico di una fotografia?, “Galleria”, 2 (1934), n.8, agosto, pp. 16-18

 

Photograms  1928

Photograms of the Year 1929, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1928

 

Photograms  1939

Photograms of the Year 1940, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1939

 

Ponti 1932

Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n.53, maggio, pp. 285-288

 

Rebaudengo 1971

Dina Rebaudengo, Un uomo una città. Torino: Toso, 1971

 

Redazionale 1929

Redazionale, Il contributo della microfotografia alle arti decorative, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 3, marzo, pp. 177 – 178

 

Redazionale 1931a

Redazionale, Inaugurazione della Mostra di fotografia futurista, “La Stampa”, 16 marzo 1931

 

Redazionale 1931b

Redazionale, La Mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “Gazzetta del Popolo”, 16 marzo 1931

 

Redazionale 1984

Redazionale, Giuseppe Vannucci Zauli, “La Nazione”, 5 marzo 1984

 

Redazionale 1993

Redazionale, L’ultimo eroe [Carlo Betti], “Il Resto del Carlino”, 13 ottobre 1993

 

Rey 1925

Guido Rey, Fotografia inutile, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana,  1925- IV annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. V-X

 

Russo 2004

Antonella Russo, a cura di, “Vera fotografia” italiana 1936 – 1984. Arte, costume e società nelle immagini di una collezione privata. Milano: Skira, 2004

 

Schwarz 2001

Angelo Schwarz, a cura di, Guarda, ascolta. L’originale avventura tra musica e fotografia dei F.lli Pedrotti. Trento: Provincia Autonoma di Trento – Temi Editore, 2001

 

Scopinich 1943

Ermanno F. Scopinich, a cura di, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943

 

Sorbé 1993

Hélene Saule Sorbé, Pyrénées. Voyage par les images. Serres-Castet: Editions du Faucompret, 1993

 

Stein 1938

Gertrude Stein, Picasso [1938]. Milano: Adelphi, 1973

 

Le stelle 2004

Le “stelle” parlano al vostro cuore: la fotografia nel cinema delle montagne, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1 dicembre 2004 – 6 febbraio 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004

 

Stieglitz 1923

Alfred Stieglitz, The Clouds, “The Amateur Photographer & Photography”, 56 (1923), n. 1819,  p. 255, ora in Nathan Lyons, Fotografi sulla fotografia, Torino, Agorà Editrice, 1990, pp.136-138

 

Subjective 1984

Subjective Fotografie, catalogo della mostra (Essen, 1984), a cura di Ute Eskildsen, Robert Knodt, Christel Liesenfeld. Essen: Museum Folkwang, 1984

 

 

Turroni 1959

Giuseppe Turroni, Nuova fotografia italiana. Milano: Schwarz Editore, 1959

 

Zandonati 2000

Antonio Zandonati, Il Servizio fotografico nell’esercito italiano durante la Grande Guerra, in Tiziano Bertè, A. Zandonati, Il fronte immobile. Fotografie militari italiane dal monte Baldo al Cimon d’Arsiero. Rovereto: Museo Storico Italiano della Guerra, 2000, pp. 9-20.

 

Zannier 1958

Italo Zannier, Architettura, “Popular Photography”, 2 (1958), n.6, dicembre, pp. 56-60

 

Zannier 1979

Italo Zannier, a cura di, Ferruccio Leiss fotografo a Venezia. Milano: Electa, 1979

 

Zannier 1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

Zannier 1997

Italo Zannier, Il Gruppo “La Bussola” e la fotografia italiana del dopoguerra, in Forme di Luce 1997, pp. 5-19

 

Zannier 2004

Italo Zannier, “Ferrania” maestra di fotografia, in Colombo 2004, pp.  112-116

 

Zanzi 1925

Emilio Zanzi, La raccolta del 1925, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1925-IV annuale.  Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. XI-XV

 

Zanzi 1927

Emilio Zanzi, Montagne, “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 5, maggio, p.87

 

Attraversare la fotografia (2005)

in Stefano Bricarelli Fotografie, catalogo della mostra (Torino, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, 15 luglio- 18 settembre 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Fondazione Torino Musei GAM. 2005, pp. 11-33

 

“L’avevo conosciuta nel 1904” – dirà Stefano Bricarelli ormai novantenne[1] parlandone come di un amore giovanile,  a proposito del suo primo incontro con la fotografia – “quando ero nella quinta classe del ginnasio all’Istituto Sociale di Torino.”  Una felice sintesi del contesto e dell’avvio di quella che sarebbe stata la sua passione più consapevole e forte. Mai una professione però, per scelta.

Il momento non avrebbe potuto essere più opportuno, e propizio.  Da appena due anni si era chiusa a Torino la fondamentale Esposizione internazionale di fotografia artistica, promossa e curata da Edoardo di Sambuy nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa e Moderna, occasione cruciale di crescita e confronto della cultura fotografica italiana e quindi torinese, portata a misurarsi con più di 1300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, dai pittorialisti francesi alla Photo-Secession americana promossa da Alfred Stieglitz, le cui opere suscitarono com’è noto reazioni contrastanti per l’ “esagerazione della ricerca.”[2]

Sulla scia delle riflessioni prodotte da quell’evento espositivo Annibale Cominetti, abbandonato il ruolo di Segretario della Società Fotografica Subalpina assunto sin dalla sua fondazione nel 1899, avviava nel dicembre di quello stesso 1904 la pubblicazione del periodico “La Fotografia Artistica”, dando concretezza all’augurio espresso dal Di Sambuy che la fotografia potesse avere un pubblico di “gente più evoluta, quali potrebbero essere i cultori più distinti dell’arte pura”.

Questa nuova “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33×24),  redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni e tavole f.t. realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa al bromuro alle fotoincisioni, alla similgravure), costituiva l’espressione più rilevante della cultura fotografica italiana di inizio ‘900, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la produzione artistica internazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” richiamato sin dal titolo, cui tendeva tutto il movimento pittorialista, e che qui prendeva forma nella composizione e nelle selezioni operate da una Commissione Artistica tutta formata di membri legati all’Accademia torinese: lo scultore Luigi Belli ed i pittori Pier Celestino Gilardi (sostituito poi da Andrea Tavernier), Paolo Gaidano e Luigi Onetti, autore anche della prima serie di copertine.

L’orientamento era evidente: mentre negli USA il ben più consapevole ma analogo progetto di “Camera Work” si apriva alle opere delle avanguardie europee, in Italia il confronto era cercato con la consolidata e tranquillizzante produzione accademica e il compito di esprimere il programma della rivista era affidato ad un critico come Ercole Bonardi, che aprì con L’arte nella fotografia il primo numero, in cui era ospitato anche l’intervento del francese Léon Vidal, tra i personaggi più noti del panorama internazionale, il quale sosteneva però che “évidemment il n’ya qu’un art, et peut-être est-ce a tort qu’on a fait l’usage des mots photographie artistique”.

Il più cauto Bonardi preferiva invece attenersi al motto che “Ogni arte ha un campo a sé ed anche la fotografia ha naturalmente il suo. Ma (…) essa non deve solo preoccuparsi della esattezza della riproduzione, della sua finitezza in tutte le parti (…) anzi a questo qualche volta dovrà non badare, anzi ancora talora dovrà anche evitare la perfezione materiale e la esattissima riproduzione del soggetto, visto nelle condizioni più normali.” (citato in Costantini, 1990, pp. 150 – 151). Non si trattava d’altro che di una tarda ripresa della cosiddetta teoria del sacrificio[3], qui usata per liberare la fotografia dal soffocante abbraccio del vincolo documentario, evitando nel contempo quell’impraticabile confronto diretto con la pittura che l’adozione letterale delle posizioni di Vidal avrebbe comportato.

L’adolescente Bricarelli (era nato nel 1889)  non poteva non essere attratto e convinto da queste manifestazioni nel momento in cui si avvicina alla fotografia, lui che già allora vedeva in Guido Rey qualcosa di più di un maestro, un modello quasi.

Stupisce semmai la consapevolezza delle sue prime realizzazioni: il semplice apparecchio a lastre che gli venne donato quale premio per gli studi non fu utilizzato – come sarebbe stato lecito attendersi – solo per avviare una spensierata pratica di piccola fotografia familiare, quella che lo avrebbe portato, nella bella definizione di Nico Orengo, a divenire “un collezionista di momenti festosi”[4], ma a ricorrere alle figure ed alle occasioni che l’ambiente familiare alto borghese gli offriva quali spunti per misurarsi con le possibilità espressive del mezzo.

Nella migliore tradizione degli amateur torinesi, anche le sue prime stampe significative si riferiscono a soggetti montani, se non proprio alpini. Sono due riprese dell’inverno del 1908 già ben connotate per qualità compositiva e capacità di sfuggire ai pericoli del bozzettismo insiti nella scelta del soggetto (A32/26). Una di queste ci è giunta nell’originaria versione alla gomma bicromatata (SB0035), forse stampata dal giovane fotografo con la collaborazione di Carlo Moncalvo[5], in anni in cui i diversi processi ai pigmenti costituivano palestra di prova per l’intera comunità internazionale degli “artisti fotografi”, già allora pericolosamente disposti a confondere risorse tecniche e qualità espressive delle proprie immagini.[6]

In questo contesto vanno intese le “otto impressioni di paesaggi piemontesi” con cui Bricarelli partecipò all’Esposizione internazionale di fotografia artistica tenutasi a Torino in occasione delle celebrazioni per il Cinquantenario dell’Unità, una delle quali ebbe l’onore della pubblicazione ne “La Fotografia Artistica”, sola collaborazione[7] col prestigioso periodico torinese cui sempre preferì (forse su suggerimento di Rey, anche lui assente da quelle pagine) il più modesto “Corriere Fotografico” milanese[8] o il prestigioso “The Amateur Photographer” di Londra[9].

A giudicare dalle immagini pubblicate in quegli anni, e dalle stampe rimaste, risulta difficile collocare nello stesso arco di tempo, nello stesso momento di gusto il bellissimo Profilo nella folla (A14/02) ripreso a Torino nel novembre del 1910 (Bricarelli, 1976, p.16), quasi troppo modernista per quella data, ma tutti i primi due decenni della sua produzione sono segnati – come vedremo – da improvvise accelerazioni e ritorni, qui documentati da una bella serie di piccole stampe dedicate agli alberi (tema anche di un concorso de “Il Corriere Fotografico” nel gennaio del 1913) in cui l’adozione di differenti processi di stampa costituisce lo strumento e l’esito di un’attenta verifica di coerenza tra soluzioni tecniche e possibilità linguistiche, in un confronto coi modelli stilistici e compositivi dei maggiori autori della generazione precedente, come Guglielmo Oliaro e specialmente Cesare Schiaparelli.[10]

L’Esposizione del 1911 fu anche la prima occasione per Bricarelli di misurarsi con il ruolo di critico, avviando una pratica sistematica di riflessione che lo renderà una delle figure centrali della cultura fotografica italiana nella prima metà del ‘900. è  un testo tutto centrato – come la coeva serie sugli alberi – intorno al rapporto per lui decisivo in quegli anni delle valenze espressive dei diversi processi interpretativi di stampa.

Così se considerava i paesaggi  di Thèophile Mahèo “troppo poco fotografici, più acquarelli che fotografie”, non mancava di manifestare il proprio apprezzamento per le “gomme Höcheimer” di Oliaro [tecnicamente identiche alle proprie] e per quelle di Ludovico Pachò, ma soprattutto per le  “prove ottenute col processo agli inchiostri grassi, all’olio [di Biagio Barberis, che] possono ben convincere della assoluta superiorità di questo sopra tutti i sistemi artistici di stampa.” (Bricarelli, 1912, p. 1792 passim).

La collaborazione del neolaureato avvocato con “Il Corriere Fotografico”, avviata in quell’anno con la pubblicazione delle prime immagini e di questo testo proseguì costante negli anni successivi, e nel 1913 comparve  Istantanee artistiche di scene animate, corredato di tre sue fotografie: Nella via maestraScene d’accampamento e Processione in montagna (SB0056) già pubblicata come Procession au Village, in “The Amateur Photographer” del 1912.

L’articolo prendeva avvio dalla constatazione che in Italia la maggior parte dei dilettanti “che meritano veramente questo nome” non si dedicano alle “scene animate” sebbene “in nessun altro paese il pittoresco è stato sparso così a piene mani [e] non si conosce in niun altro luogo una vita così varia e pittoricamente interessante (…). Ma –  proseguiva Bricarelli – una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…) Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata.” Per “fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  [sottolineature dell’autore] di un quadro (…) Scelto rapidamente il motivo (…) occorrerà procedere ad una coraggiosa opera di selezione e di eliminazione. (…) In un istante, con gli elementi che avrà riconosciuto necessari ed opportuni, la mente costituirà, organizzerà per così dire, idealmente il quadro, determinandone il taglio, fissando l’importanza relativa delle masse, equilibrando il gioco delle luci e delle ombre; sarà allora di grande aiuto per fare immediatamente avvertire ogni squilibrio e ogni deficienza dell’insieme e porvi rimedio quel senso quasi istintivo della composizione, che molto si acquista osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative.”[11]

Questo scritto si presta a diverse considerazioni, a partire proprio dal fatto che qui si tratta per la prima volta dell’esplicita disamina critica di un “genere” astrattamente trattato e non (come per il 1911) del commento ad una serie di opere esposte, sino all’esplicitazione di alcune indicazioni di metodo; si pensi a quella necessità irrinunciabile “che il soggetto sia inconscio” che richiama in un contesto diverso ma non estraneo le indicazioni formulate nel 1883 dal neuropsichiatria e antropologo Enrico Morselli (188, p. 7), secondo cui “alle fotografie scientifiche [era necessario] aggiungere ancora quelle artistiche, prese cioè coll’atteggiamento naturale e libero degli individui ritratti”, ma anche a quella definizione di composizione “in un istante” che non può non essere letta come una prima formulazione, di metodo e di poetica, delle dichiarazioni bressoniane di quasi mezzo secolo più tarde. Non ultimo poi quel richiamo alla cultura visiva da costruirsi  “osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative” che andava ben oltre i tentativi nobilitanti del più provinciale pittorialismo per sostenere la necessità – vitale per i fotografi – di non confondere dilettantismo e approssimazione; quasi un’anticipazione programmatica di tutta l’attività di editore e promotore che vide impegnato Bricarelli nei decenni successivi.

Il 1911 segnò anche l’avvio della partecipazione ai concorsi settimanali di “The Amateur Photographer”, che quell’anno vinse con The House in the Snow, cioè La Reale Casa di Ricovero del 1908 (SB0035),  e Chevaux à l’aubrevage, entrambe pubblicate, mentre al London Salon of Photography del 1915 furono esposte  Church by Moonlight (307) e Pour nos soldats / Chiesa a Cesana[12], del 1914 (A14/20), che F.C. Tilney, 1915, p. 15, definì “very reminiscent of certain painted pictures but full of feeling and quality of its own (…). Its great merit is the perfect and natural gradation due to the concentrated illumination, and the culmination of this upon the cap of the chief figure, whose face and figure present also the strongest accent of dark. The group behind are also most happily treated. Doubtless there is much control in Pour nos soldats, but there is no aggressive sign of it, for naturalism has never been sacrificed in any particular.” E questo “naturalism” doveva necessariamente corrispondere a quella “verità d’atteggiamenti” còlti su cui convergevano Morselli e Bricarelli a tre decenni di distanza, quella stessa che lo avrebbe portato a non seguire le mise en scéne di Rey, di cui invece fornivano leziose versioni popolaresche autori a lui vicini come Achille Bologna o Raffaele Menocchio[13], privilegiando semmai le riprese d’ambiente, con paesaggi e architetture solo raramente animati, ancora resi con una varietà di tecniche e intonazioni che ben restituisce il gusto dell’epoca e le più ovvie influenze del coevo paesismo pittorico piemontese, penso in particolare a Cesare Maggi, che sarà negli anni successivi particolarmente vicino a Bricarelli e compagni, con le trame delle gomme bicromatate a rievocare in monocromo il segno divisionista, più precisamente assimilabile invece alla trama delle autocromie Lumière, che Bricarelli però non utilizzò mai.

Nel 1917 venne inviato sul fronte del Piave come sottotenente della 18a Compagnia IV Reggimento Pontieri. 400 delle 500 lire che costituivano l’indennità di mobilitazione le impiegò – come lui stesso ebbe modo più volte di raccontare –  per acquistare una Kodak 6×9 pieghevole con pellicola in rullo, apparecchio che utilizzò durante la guerra e “per più anni dopo il ritorno della pace.” È questo un passaggio che si rivelerà decisivo, un primo punto di non ritorno che porterà a concepire e realizzare fotografie con una maggiore libertà compositiva, staccandosi progressivamente dalle più rigide regole di derivazione ottocentesca[14].

Come faranno molti per la prima volta in quegli anni, in quei tragici giorni, anche Bricarelli costruì visivamente un proprio personale racconto della guerra, della propria esperienza, da affiancare (e contrapporre a volte) alla già massiccia documentazione propagandistica ufficiale, destinata a contrastare “le decine di migliaia di immagini che circolavano dal fronte verso il paese” (Della Volpe, 1980, p. 26), che veniva promossa dai Comandi supremi, ma anche dai più diversi Comitati, come quello proposto già nel giugno del 1915 dal fondatore e direttore del “Progresso fotografico” Rodolfo Namias, che intendeva raccogliere e organizzare scientificamente “il lavoro fotografico dei militari e specialmente ufficiali”, per dare fattivo esito all’invito pubblicitario comparso anche su numerosi periodici illustrati italiani allo scoppio del conflitto: “Ogni ufficiale e soldato/ dovrebbe provvedersi dell’apparecchio fotografico/ Vest Pocket Kodak/ dato il suo piccolo formato e minimo peso può essere comodamente portato in una tasca della divisa senz’alcun disturbo.”

Anche nel nostro caso le foto erano destinate quasi naturalmente a confluire in un album, uno dei modi possibili per affrontare il dramma di questa esperienza incommensurabile e altrimenti indicibile[15], se non con le forme stranianti della retorica. Anche per Bricarelli si sarà trattato di nutrire – come fece in più occasioni e quasi sino alla soglia ultima della vita sua – il culto della memoria e di organizzare il ricordo, ma quando ciò accadde assunse una forma inattesa, in cui l’intento diaristico si alternava e confondeva col racconto di storia.

L’album delle Foto dal fronte, composto in una data non precisata ma certo ben oltre la conclusione del conflitto, si presenta infatti di contenuto eterogeneo, con esercitazioni pittorialiste di greggi, ruderi di castelli e specchi d’acqua, quasi a dar forma all’opinione dell’amico Emilio Zanzi (1924, p. 10) che la guerra avesse trovato “nei fotografi più che i suoi cronisti, i suoi storici precisi e i suoi commentatori lirici.” In queste pagine però le più tarde riprese di taglio quasi fototuristico, pronte per i volumi regionali del Touring,  si alternano  drammaticamente  alle immagini di morte: due cadaveri rappresi sul campo che rievocano l’iconografia più nota della guerra civile americana (A4(19a – b); le notazioni di costume  si susseguono ai ricordi della vita militare nelle retrovie. Nulla di troppo diverso (se non per la qualità delle immagini) dal contenuto di altre centinaia di album privati se non fosse per le due pagine poste quasi a chiusura, dedicate all’esecuzione di Cesare Battisti e Fabio Filzi al castello del Buonconsiglio di Trento, il 12 luglio 1916. Non si tratta solo di testimonianze in sé preziosissime, essendo fotografie “tolte ad un prigioniero austriaco al suo passaggio sul nostro ponte di Salettuol [Maserada] appena aperto al transito”, ma – per noi, qui – dell’impaginazione di un vero e proprio servizio giornalistico in forma pressoché definitiva, con esaustive didascalie tratte dall’Enciclopedia Treccani e diligentemente battute a macchina: un bell’esempio di quello stretto rapporto documentario e narrativo tra immagine e testo che Bricarelli utilizzerà ampiamente lungo tutta la sua lunga carriera giornalistica ed editoriale.

“Col ritorno della pace avevo ripreso i rapporti con gli ambienti fotografici esteri, che tenevo da prima della guerra –  ricorderà alcuni decenni dopo (Bricarelli, 1979, p. 12) – specie con quelli inglesi, partecipando regolarmente al molto esclusivo «London Salon of Photography» e contribuendo a «Photograms of the Year»”, ma in queste prestigiose sedi, né altrove del resto, presenterà mai quella che è una delle sue più affascinanti serie di immagini, i bellissimi ritratti di Giovani fanciulle in fiore che compose lungo tutto l’arco degli anni 1913 –1922, scegliendo come modelle alcune delle più affascinanti giovani donne dell’alta società torinese. Sono ritratti a figura intera, pose attentamente studiate e quasi sempre realizzate in esterni, rese con stampe al bromuro variamente intonate ed a volte preziosamente impaginate in ovale, in cui Bricarelli rivela progressivamente e contemporaneamente le proprie capacità di restituzione psicologica e la propria idea di femminilità, di donna. Per questo la serie può essere letta anche nella forma del tema con variazioni,  ispirate alternativamente alle suggestive morbidezze tonali di Rey, come nel ritratto di Maria Fiorenza Margotti, (SB0010) o – precocemente –  al gioco quasi modernista delle ombre come elementi generatori della composizione fotografica come nel caso di Francesca San Pietro (SB0012), che diverrà il motivo caratterizzante del più tardo ritratto di Gabriella Fracassi, del 1940 (A14/12),  passando per citazioni più o meno letterali di autori tanto diversi quanto Constant Puyo (SB0011) e il torinese Oreste Bertieri, i cui ritratti di attrici erano sovente ospitati sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, per approdare – ormai nei primi anni Venti – con quello di Léonie Pallavicino di Priola  ad un’opera in cui la frontalità, appena contraddetta da un’attesa, dello sguardo della giovane donna così come l’insieme degli elementi che costituiscono il décor  rimanda un’eco di modelli casoratiani, tra la Silvana Cenni ed il coevo ritratto di Cesarina Gualino, per non dire della fotografia che lo stesso Casorati fece nel proprio studio a Mariuccia Gandini (Lamberti, 2000, p. 32). Ne esce complessivamente, oltre ad  un insieme di opere tra le più risolte di quella stagione della fotografia italiana, un ritratto di società cui ben si adatta il titolo proustiano scelto dall’autore, forse (ci piace pensare) guidato dalle suggestioni del breve saggio che nel 1925 Giacomo Debenedetti aveva dedicato allo scrittore francese a tre anni dalla morte, sulle pagine del gobettiano “Il Baretti”.[16]

Col 1920 la collaborazione con “Photograms of the Year” assunse maggior impegno e Bricarelli firmò per alcuni anni la breve panoramica dedicata alla Pictorial Photography in Italy . In questo primo contributo, fortemente programmatico, il giudizio negativo espresso sulla situazione italiana d’anteguerra, formulato senza neppure  degnare d’una citazione “La Fotografia Artistica”, appare finalizzato a valorizzare l’iniziativa di Angelo Guido Dell’Acqua, l’editore milanese de “Il Corriere Fotografico”  che all’inizio di quell’anno aveva avviato la pubblicazione del primo Annuario della Fotografia Artistica (con 36 foto di 27 autori): una rassegna organica che consentiva di definire e identificare il meglio della produzione nazionale e che costituirà l’antecedente diretto dei successivi annuari torinesi “Luci ed ombre”.

Per quello stesso numero di “Photograms” il curatore aveva selezionato una singolare immagine di Bricarelli, Reti e barche (A33/6), riconoscibile oggi come uno dei primi esiti compiuti della ricerca di nuove formule narrative, con le reti in primo piano a velare la percezione dello sfondo ma – anche – a consentire la costruzione di una forma grafica autonoma, di ridotto peso referenziale, sebbene allora fossero stati altri gli elementi che maggiormente avevano colpito pubblico e critica: “S. Bricarelli has an eye for the fantastic. – affermava Tilney (1920, p. 33) presentandola –  The curious veil made by the hanging nets amused everyone who, at the Salon, remarked Nets and Boats”.

Sono anni di costanti oscillazioni del gusto: abbandonate definitivamente le stampe alla gomma bicromatata ed ai pigmenti, il trattamento pittorialista si traduce nell’uso del flou, in quella messa fuori fuoco del soggetto che costituiva la più classica delle tecniche di distanziamento dall’incombente referenzialità documentaria della fotografia, sovente accompagnata da intenti esplicitamente simbolisti, come ne Il gorgo (A3/42), esposto a Torino nel 1925 al Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale[17], a proposito del quale due autorevoli commentatori noteranno poco più tardi che “qui il protagonista è il vuoto, anzi l’incubo, l’attrazione del vuoto, sul quale Bricarelli si è attentamente fissato”  (Bernardi, 1927, p. 14), un’immagine che genera  “uno stato inquieto di ansia quasi penosa” (Brezzo 1927, p. 203), mentre per In alto (SB0055)[18] lo stesso critico aveva parlato di “senso dell’abisso nel cielo, entro cui, dall’estrema spiaggia del mondo, lo spirito si lancia pauroso come in un mare senza confini.” (Brezzo 1926, p. 14)

Nel Comitato di quel Primo Salon, aperto nella città lacerata dalle lotte sociali ed ancora sotto l’incubo della strage fascista del dicembre ‘22, si ritrovavano, oltre a Bricarelli anche Carlo Baravalle e Achille Bologna, vale a dire il nucleo promotore di quel Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica[19] che era nato in seno alla Società Fotografica Subalpina nell’inverno del 1921 con l’esplicita intenzione di essere “a new factor in pictorial photography in  Italy, and one likely to exercise a happy influence upon its development.” (Bricarelli, 1922, p. 31). Come è noto ( Luci ed Ombre, 1987)  tra i primi atti del Gruppo vi fu l’acquisto e il trasferimento a Torino del “Il Corriere Fotografico”, cui Bricarelli collaborava ormai da più di un decennio, e la messa a punto del relativo annuario, per poter dimostrare “coll’evidenza degli occhi addirittura, che l’obiettivo, la lastra e le carte fotografiche, nell’offrire all’uomo i loro servigi regolati dalle leggi infallibili della natura, lasciano però ampio campo all’opera di lui, alla sua industria, allo studio del vero, all’apprezzamento del bello, in una parola alle sue facoltà di artista” (Bricarelli, Brezzo 1923), posizione che costituiva un implicito richiamo di condivisione delle teorie espresse da Enrico Thovez in un breve testo del 1898, non a caso parzialmente riedito sullo stesso annuario nel 1926[20], a partire dalla consapevolezza che “in realtà la fotografia è tutt’altro che una fedele immagine del vero.”

Quando, nella presentare il secondo annuario Emilio Zanzi (1924, p. 17) si assunse il compito di commentare le immagini di Bricarelli ne riconobbe il ruolo innovatore di  “squisito interprete della realtà luminosa, liberata d’ogni elemento superfluo. Semplificatore e sintetista (…) cerca sempre di non tradire, coll’artificio di corrusche bengalerie da laboratorio, la luce solare che dà vita al creato.”  Anche un altro critico torinese nel recensire le sue opere presentate al Primo Salon aveva notato: “Altra tempra [rispetto a Schiaparelli], altra qualità di temi, altro metodo d’inquadratura e di diversa ricerca di effetti luminosi in Stefano Bricarelli; sul vetro smerigliato della sua reflex non si arrestano che motivi in cui vinca l’austerità di poche linee e la forza contrastante di larghe ali di luce, contro masse profonde di ombre; pochi sentono la sintesi di un tema come lui: c’è un suo bromuro in cui  non senti che l’ansa larga d’una strada valdostana, un fresco biondeggiar di grano, due ombrati fusti di pioppi; tutto qui, soffuso d’una larga ala di luce, fresco di vento che scende colla Dora dalle rocce di Prè-Saint Didier.” (Angeloni, 1925a, p.  68).

Al di là di un’ancora superficiale revisione della terminologia adottata, con quel ricorso comune al concetto di  “sintesi” come valore discriminante della  nuova cultura visiva modernista, l’insistere dei due interventi sul trattamento degli effetti luminosi lasciava emergere una sostanziale incomprensione dei più specifici problemi posti da quella nuova visione che andava prendendo forma nelle coeve ricerche europee, riflettendo di fatto le stesse incertezze di orientamento della migliore cultura fotografica italiana di quegli anni, Bricarelli compreso.

Erano tensioni ancora non risolte, messe a punto non ancora definite che si mescolavano, che si affiancavano alle ultime prove di esausto pittorialismo. Poiché Bricarelli, come altri della sua generazione non aveva mai del tutto rinunciato alla pratica della fotografia che altrove si sarebbe detta diretta e che qui era – più semplicemente – la prosecuzione della consolidata e autorevole tradizione piemontese della fotografia alpina: da Vittorio Sella ancora a Rey. Risulta così meglio comprensibile la data di realizzazione di un’immagine come Tramonto sulla Valle dell’Arc (A3/133) che è del 1908 – 1909, con l’inserimento elegantissimo e nuovo, al primo piano, dell’artificialità del palo telegrafico a tagliare la maestosa e altrimenti convenzionale veduta, mentre altre immagini di neve e sciatori – ormai negli anni Trenta – risultano così puntualmente assimilabili  a quelle di altri fotografi di quegli anni – penso ad Ettore Santi, ai fratelli Pedrotti ma soprattutto a Cesare Giulio – da risultare quasi coincidenti, da consentirci di parlare, di provare almeno a dire della figura di un autore che era collettivo, che elaborava infinite variazioni sul tema, muovendosi incerto e lieve, senza sforzo apparente nel tentativo di scrollarsi di dosso il peso della referenzialità fotografica.[21] Un autore che si dedicava alla realizzazione di immagini in cui lo scenario naturale  potesse funzionare come un pre-testo, un materiale da elaborare per realizzare fotografie di cui negli esiti migliori la critica coeva coerentemente riconosceva l’estraneità al genere del “paesaggio” se questo doveva essere inteso come  “una rappresentazione pittorica – o fotografica – di carattere eminentemente descrittivo e totalitario, nella quale l’insieme domini sul particolare [e] le figure – se figure vi sono – abbiano funzione complementare (…) l’architettura e in genere l’opera dell’uomo siano assoggettate dall’impero incontrastato della natura (…). Non sono paesaggi né le nevi dell’Oneglio e del Giulio né i particolari luministici del Baravalle” (Bernardi, 1927, pp.  10-11), così come per Bricarelli non lo sarebbero state le lievi, bellissime Tracce[22] sulla neve presentate nel 1932 al London Salon of Photography e pubblicate in “Luci ed Ombre” dello stesso anno, insieme a Parigi Grand Palais 1931 (A33/15).

Quando i temi sono diversi il percorso di allontanamento dalle convenzioni pittorialiste è ancora incerto sebbene irreversibile, come sembra significare anche la caduta – dal 1924 – dell’aggettivo “pictorial” nel titolo della consueta sintesi sullo stato della fotografia in Italia che Bricarelli redigeva per “Photograms of the Year”. Così se le cataste di legna[23] (SB0061) fotografate nel 1923 non portano ancora traccia alcuna del trattamento formale che ad un tema analogo sarebbe stato riservato in ambito Bauhaus, il lavoro insistito sul tema delle Vele (A33/5, SB0053) solo di poco più tardo, indica l’esigenza e il progressivo emergere di soluzioni nuove. La novità nella resa del soggetto, dove la fascinazione per la plastica maestosità delle forme rigidamente ingabbiata dai bordi dell’inquadratura convive con precise possibilità descrittive, venne immediatamente riconosciuta  da un critico vicino a  Bricarelli come Guido Lorenzo Brezzo (1931 p.  13) che ne parlava come di “un quadro in cui l’elemento scenografico novissimo incarna con tanta perfezione ed aderenza l’elemento immutato che l’opera potrebbe figurare in qualsiasi ardita mostra d’avanguardia, ed essere insieme usata a dimostrare le leggi della composizione nel più conservatore dei trattati”. A questi faceva eco il critico de “Il Corriere Fotografico”, che – a proposito della stessa fotografia – modernamente individuava la sequenza complessiva dell’atto fotografico quale elemento generatore della qualità dell’immagine:  “Anche nei soggetti più umili e comuni il fotografo torinese sa trovare motivo di grandezza. Il senso delle dimensioni è da lui magnificato con un’accorta disposizione dell’obiettivo nell’atto di presa e col taglio sapiente della prova fotografica. E tutto ciò è eminentemente moderno e suggestivo.” (De Albroit, 1931)

Fu proprio l’accorta e consapevole scelta dell’inquadratura che consentì la realizzazione, per molti versi inattesa, di quella che rimane una delle più note fotografie di Bricarelli, quella Rampa elicoidale alla Fiat (A13/72) che fu pubblicata sulle pagine di “Motor Italia” nel dicembre del 1927, lo stesso anno in cui – tra maggio e ottobre – aveva presentato alla Terza Mostra internazionale delle arti decorative di Monza Nei prati di Coumayeur (A32/29), esempio estremo di paesaggio pittorialista, in cui l’estenuazione del flou e della gamma tonale portavano quasi alla smaterializzazione del soggetto, svaporato come in una fata morgana. Nel servizio per “Motor Italia”, da lui fondata con un piccolo gruppo di soci nel novembre dell’anno precedente, gli esiti non avrebbero potuto essere più diversi, ma soprattutto le intenzioni. Qui, come sempre più di frequente accadrà nei decenni successivi, Bricarelli abbandonava ogni intenzione semplicemente “artistica”, rinunciava all’autonomia salonistica  delle singole immagini preferendo operare per serie, così come richiedeva la destinazione della carta stampata.  Era un’idea di fotogiornalismo in cui l’accuratezza descrittiva era destinata a tradursi in immagini formalmente risolte, comunicativamente efficaci.

Il servizio fotografico dedicato alla FIAT Automobili – Via Nizza, 250 – Torino (così recita il titolo dell’articolo) venne pubblicato a corredo del testo poi notissimo di Edoardo Persico, e non si può escludere che le suggestioni del giovane critico napoletano avessero contribuito al radicale mutamento di registro espressivo evidente in queste immagini, nonostante le note difficoltà di rapporti tra i due e la profonda disistima di Bricarelli[24].

Il testo di Persico offriva del Lingotto una lettura fortemente simbolica, ai limiti del misticismo; interpretava questa architettura come un percorso iniziatico: “le officine della Fiat innalzano la logica della loro architettura (…) da cui nasce un’impressione di bellezza per l’identità della cosa con la sua funzione (…) dove le combinazioni delle rette con le curve hanno sistemato un attimo dell’eternità. (…) Due strade ascendono a questo luogo di concentrazioni interiori, e lo reggono, invisibili, come un fatto spirituale. (…) Queste due eliche hanno un significato di obbedienza. (…) Queste due eliche sono veramente un modo della libertà umana. (…) L’obbedienza trova in alto, verso il cielo, la sua strada inevitabile, e ne ritorna santificata.” Come ha rilevato Angelo d’Orsi[25] il testo di Persico “coglie in qualche modo il significato ideologico dell’architettura [e] la disvela. Il Lingotto non era che il volto stesso del potere dell’uomo sull’uomo; la logica severa della sua linea architettonica esprimeva la logica stessa del potere”, mentre le immagini di Bricarelli sembrano coglierne più specificamente il derivato fascino razionalista, quella “bellezza per l’identità della cosa con la sua funzione (…) dove le combinazioni delle rette con le curve hanno sistemato un attimo dell’eternità.”

Le fotografie che ne risultarono, specialmente la Rampa elicoidale poi ripubblicata ne “Il Corriere Fotografico” ed in “Luci ed Ombre” del 1929 (t. VIII) costituivano una novità assoluta e disagevole per l’abituale lessico dei lettori della rivista, tanto da indurre Guido Lorenzo Brezzo (1929, pp. 778-779) a fornirne esplicite istruzioni per l’uso: “Una prima occhiata (…) può far credere che Stefano Bricarelli si sia dato al futurismo: ed abbia voluto semplicemente presentare un pattern strambo ed insolito. Ora questo nel quadro c’è certamente, ma c’è anche qualcosa di più, che lo giustifica e lo toglie dalla categoria delle cose che «piacciono per cinque minuti». Il lettore sostenga il libro in posizione orizzontale con le braccia tese in alto e  un po’ in avanti, e guardi la tavola rovesciando la testa indietro. Vedrà allora quale magnifico problema di prospettiva verticale l’autore si sia imposto e come magistralmente l’abbia risolto.” [26]

Credo sia sufficiente richiamare questa ricetta spicciola di ginnastica percettiva e intellettiva per intuire quale ne fosse la difficoltà di comprensione; meglio: quale diffidenza e disturbo ingenerasse una simile opera nelle tranquille e provinciali acque della cultura fotografica italiana e torinese di quegli anni, ormai alle soglie della consacrazione e divulgazione delle profonde revisioni imposte dalla nuova visione centroeuropea che si sarebbe attuata con l’esposizione Film und Foto di Stoccarda, nello stesso 1929.

Fu necessaria la più aggiornata e lucida consapevolezza di Antonio Boggeri per ribaltarne radicalmente l’interpretazione all’interno di una più complessiva riflessione sulla “Fotografia moderna”: nel Commento che apriva l’annuario di quell’anno identificava proprio in Una rampa elicoidale alla Fiat e nei Vasi di Achille Bologna “le due opere che si possono considerare i capisaldi di questa raccolta” e concludeva: “Se i nostri concetti enunciati sul principio hanno bisogno di esempi, vorremmo che soprattutto su di questi il lettore soffermasse l’attenzione. Nel primo, quel nuovo spirito di ricerca, quel rispetto delle leggi fondamentali della fotografia, quell’equilibrio fra concetto e estetica, tra l’eleganza del particolare e la serietà della composizione, creano un vero modello di questa scuola.” (Boggeri, 1929b, p. 16)

La battaglia del modernismo non poteva però ancora dirsi vinta se a proposito di Riva di San Fruttuoso (variante di stampa di SB0040)  si parlava ancora, sulle pagine de “Il Corriere Fotografico”, di  “fotografia documentaria [che] assurge a valore di quadro per una meravigliosa resa di piani” (De Albroit, 1930), mentre un critico come Italo Mario Angeloni notava più in generale che “la composizione è dettata non solo dalla natura delle cose e dall’anima del disegnatore, ma sì anche da un evidente signorile insegnamento dell’arte pittorica nazionale e più particolarmente di quella scuola che ha in Piemonte i suoi maestri negli Avondo, nei Bertea, nei Fontanesi, nei Follini.”[27]

Questi richiami non dovevano certo dispiacere ai membri del rinnovato Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica che proprio ad un pittore come Cesare Maggi, autore di paesaggi innevati che vivevano delle stesse suggestioni delle autocromie, avevano affidato la “fraterna cura” della sala in cui erano comprese le loro opere in occasione delle II Mostra del Fotogruppo Alpino[28] del CAI nel maggio 1927, ed a cui affideranno nel gennaio dell’anno successivo quella della loro Prima Mostra d’arte fotografica, condivisa con  i critici dei due maggiori quotidiani locali Marziano Bernardi (“La Stampa”) ed Emilio Zanzi (“La Gazzetta del Popolo”); mostra in cui oltre alle opere dei ventuno membri del gruppo erano presentate le personali di tre notissimi autori stranieri di scuola pittorialista: Marcus Adams, Leonard Misonne e José Hortiz-Hechagüe.

Dopo l’attivismo dei primi anni, segnato dalla redazione della rivista e del suo annuario come dalla partecipazione a tutte le più importanti manifestazioni espositive torinesi,  il Gruppo doveva aver perso di compattezza se col gennaio del 1927 aveva sentito la necessità di riconsiderare il proprio ruolo e la propria identità con una “più definita ed intensa attività [ricostituendosi], all’occorrenza, su nuove basi (…) seguendo l’azione dei gruppi di «pictorialists» inglesi ed americani, secondo concetti tecnici ed estetici ben chiari e definiti.” [29]

Proprio quest’ultimo richiamo programmatico sembra indicare uno stato di crisi, l’emergere di contraddizioni espressive che cercavano una verifica proprio nella Prima mostra del 1928, ma anche la necessità di dotarsi di strutture più adeguate al confronto con una scena fotografica in profonda mutazione, anche organizzativa, segnata dalla nascita di nuove strutture associative[30] sorte tra i lavoratori della grande industria, come il DAS (Dopolavoro Aziendale Sip) nel 1928 e il gruppo del Dopolavoro FIAT (1929), e  – non ultima – dalla forte attrazione ideologica esercitata dall’Istituto fascista di cultura.

Nel maggio del 1929 Carlo Baravalle, prossimo ad assumere la Direzione generale della Tensi, casa milanese di prodotti fotografici, lasciava opportunamente la direzione della rivista “desideroso di mantenere al  «Corriere Fotografico» il suo carattere di indipendenza da qualunque interesse diretto o indiretto”, ma questa dichiarazione di autonomia non contemplava un’analoga distanza dall’ideologia e dalla politica culturale del regime. Nel 1926 e 1927 gli annuari si erano aperti con due omaggi sabaudi, rispettivamente i ritratti di Ajmone di Savoia Aosta e di Umberto Principe di Piemonte, ma la prima tavola del 1927 riproduceva il ritratto di Benito Mussolini fatto da Eva Barret. Non solo:  i più autorevoli interventi critici, specialmente sulla rivista, erano affidati a figure come Emilio Zanzi, che fu tra i partecipanti al IV Congresso degli intellettuali fascisti del 1926, redattore di testate apertamente schierate come la  “Gazzetta del Popolo”,  diretta da Maffio Maffi che sarà capo Ufficio Stampa del Governo quindi da  Ermanno Amicucci, segretario del sindacato nazionale fascista dei giornalisti, ed il “Il Momento”, giornale cattolico filogovernativo dalle cui fila proveniva anche  Angeloni,  autore nell’ottobre del 1934 di un editoriale de “Il Corriere Fotografico” dall’esplicito titolo Sotto il segno del Littorio, in cui esaltava la funzione politico propagandistica della fotografia, che “ci comunica la Storia in azione nel giro di pochi secondi.” (in Reteuna, 2002, p. 22) Certo si trattava di ribadire la propria adesione, di più, la propria condivisione della politica culturale del regime forse anche allo scopo di arginare la presenza ingombrante del nuovo periodico fotografico che si pubblicava a Torino dal luglio del 1933. L’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, aveva infatti aperto con un editoriale in cui si definiva la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire”, quella stessa che  Luigi Andreis poco oltre  definiva “serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale. (…) Creare il clima, ritornare alla nobile e meravigliosa tradizione artistica italiana, interrotta sulla fine del secolo scorso dal trionfo del cattivo gusto borghese, anche attraverso a sconvolgimenti ed a travagli interni nell’animo dell’artista, intensi e talvolta dolorosi: fu il compito iniziale del fuoco vivificatore del fascismo. Così attraverso il ‘900, il futurismo, ecc. vennero fuori la poesia del motore, nuovo e meraviglioso per la sua sagoma audace e per  il suo ritmo sonoro, forte ed ardimentoso; il severo e rapido passo della vita nuova; la sinfonia della sanità morale; il canto della Roma dei Cesari.” (Andreis, 1933, p.  10)

La fotografia d’autore usciva dall’ambiente chiuso e ormai stantio dei Salon e si riconosceva un ruolo e un compito sociale e quindi politico, in linea con le direttive del regime e con l’uso efficace e spregiudicato che questo faceva di ogni forma di comunicazione di massa. “Documentare con la fotografia le realizzazioni della civiltà fascista che è la nostra civiltà” doveva essere l’imperativo di ogni fotografo moderno, “esaltarne l’infinita bellezza mediante la scelta felice delle immagini aderenti al nostro spirito (…) ecco la missione di cui è investito ogni fotografo italiano che della fotografia voglia fare, oltreché un diletto artistico per il proprio spirito, anche uno  strumento di educazione nazionale attraverso la glorificazione estetica dell’eccezionale periodo storico in cui abbiamo la fortuna di operare.” (Bellavista, 1934, p. 15)

Da qui anche  l’ampia attenzione per la vita fotografica nella Germania hitleriana dedicata da “Il Corriere Fotografico”  sottolineando ad esempio come “il Governo di Hitler sino dal suo avvento al potere si è valso della fotografia come mezzo di propaganda. Il volumetto [Willy Stiewe, Foto und Volk, 1933]  rispecchia assai bene questo nuovo spirito «nazionale» della fotografia tedesca. (…) Ecco un’opera che deve far meditare noi italiani: perché non seguiamo – almeno nel campo della fotografia – l’esempio che ci viene dalla risorta Germania, e magari cercare di far meglio?”[31]

Ancora Angeloni, nel già citato editoriale del 1934 ribadiva che “la stampa periodica politica e tecnica – della quale ultima il Corriere Fotografico si onora di far parte – i libri, la radio, la fotografia, la cinematografia sono tutti dei magnifici mezzi di propaganda, di lotta, di difesa e diffusione delle nuove idee e di conoscenza dei fatti realizzati. Tutti questi mezzi acquistano poi maggiore efficacia quando essi vengono raggruppati in un sol fascio di energie volte ad un unico fine e dirette da una chiara mente che sia sicura e fedele interprete della volontà e dei pensieri del Capo, del Duce.” (in Miraglia, 2001, p. 19)

In questo contesto va compresa l’ulteriore trasformazione del linguaggio fotografico e dell’attività di Bricarelli, che procedeva nel proprio personale percorso di revisione espressiva tanto da essere accolto sulle pagine di “Modern Photography”, il prestigioso annuario pubblicato dalla rivista londinese “The Studio” nel 1931, insieme ad autori come Herbert Bayer,  André Kertesz, Germaine Krull, Man Ray, Lazlo Moholy-Nagy ed altri.[32] Sono di questi anni alcune importanti immagini precisamente riferibili alla svolta modernista, come Nella cupola del parigino Gran Palais, 1931 (A33/15)  e Dal “Rex” nel porto di Genova, 1933 (A32/1), ma anche l’estensione della propria attività, seppure in modo apparentemente discontinuo, alla cinematografia documentaria[33]. Soprattutto però caratterizza questo periodo l’ulteriore e definitivo cambio di attrezzatura fotografica, col passaggio al piccolo formato e l’acquisto del primo apparecchio Leica, modello “C” a telemetro con obiettivi intercambiabili, di cui fu uno dei primi utilizzatori italiani.

L’adozione di questo nuovo strumento, con tutto quanto ciò doveva implicare i termini di modi operativi ed espressivi portò al definitivo abbandono dei residui stilemi pittorialisti spingendolo verso quella progressiva opera di “semplificazione” dell’immagine che era il concetto chiave intorno a cui ruotavano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni.

Se ne rese immediatamente conto Alberto Rossi che nel commento alle tavole di “Luci ed Ombre” del 1933 riconosceva che “fotografie come quelle di Bricarelli, di Pokorny, di Bologna, di Cesare Giulio, di Carlo Baravalle, di Guglielmo Alberti, mostravano come anche presso di noi un gusto europeo, vigile e avvertito, si stesse diffondendo anche nel mondo fotografico. Ora, in questa raccolta, lo stacco è ancor più deciso, la volontà di fare con la fotografia un’arte di pura rappresentazione impersonale, un’arte oggettiva, appare ancor più evidente [e] questa volta Bricarelli, che di solito si compiace di composizioni audaci e di angolazioni modernissime, ha avuto la civetteria di presentarsi con una fotografia estremamente tranquilla, di soggetto e di taglio, [Neve sui tetti /Hiver à Planpincieux, A32/19] come per far risaltare le sue qualità di puro fotografo.” (Rossi, 1933, p. XIV passim)

L’impegno di Bricarelli con il nuovo strumento divenne immediatamente esclusivo e verificato in importanti confronti quali il Concorso nazionale Leica indetto dall’Associazione fotografica Ligure nel 1935 (con Namias, Bologna e Andreis nella giuria) di cui vinse il primo premio nella categoria “A (opere e manifestazioni di regime)”, mentre la sua attività fotogiornalistica si estendeva alla moda, con collaborazioni diverse che andavano dal torinese “Bellezza” diretto da Lucio Ridenti, a “Donna” e  al “Secolo XX”, mostrando significative ricadute stilistiche anche sulla più riservata ritrattistica familiare, come mostra bene il doppio ritratto della moglie Gina con un’amica, riprese al Sestrière nel 1936 (SB0023).

Di ben maggiore fortuna e rilievo fu però il Concours de la meilleure Bobine Touristique Leica 1935 indetto dalla parigina Tiranty[34], che Bricarelli vinse guadagnandosi l’opportunità di un viaggio negli Stati Uniti a bordo del Normandie.

L’avventura americana è stata da lui stesso ampiamente ricostruita molti anni più tardi  in due gustosi ed esaustivi articoli (Bricarelli, 1975a,b) basati sulle annotazioni di un suo piccolo carnet di viaggio e costantemente richiamata da tutta la letteratura critica più recente. Durante quel viaggio, il 17 settembre 1936 incontrò a New York il grafico Paolo Garretto (Napoli 1903 – Montecarlo 1989) che lo presentò all’Agenzia fotografica Daniel, tramite delle collaborazioni con prestigiose testate americane quali “Harper’s Bazar” e “Ladies Home Journal”, per le quali realizzò intensi ritratti di giovani nobildonne italiane (A3/19, A4/12), ideale prosecuzione della serie delle Giovani fanciulle in fiore.   “Per varie ragioni” non poté accettare l’incarico di un reportage in Cecoslovacchia da parte del “National Geographic Magazine”, ma il contatto più prestigioso fu quello con la neonata  “Life”, che dopo avergli pubblicato a piena pagina in uno dei suoi primissimi numeri la notissima immagine delle Niagara Falls (A32/22), gli commissionò un reportage su Mussolini a Palazzo Venezia[35], poi realizzato il 16 gennaio del 1938 ed efficacemente risolto da Bricarelli  con una “concezione libera e moderna” (Miraglia, 2001, p. 21) che richiamava il primo notissimo modello dell’analogo servizio realizzato da Felix H. Man nel 1931 per la “Münchner Illustrierte Presse”.

L’esito non fu però apprezzato dal Duce, che di tutte approvò una sola immagine (SB0049), ma quell’incontro fruttò comunque a Bricarelli un periodo di assidua collaborazione con la “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, che utilizzò sue fotografie sia per il numero speciale della rivista dedicato alla visita italiana di Hitler, che Bricarelli fotograferà ancora al salone di Berlino dell’anno successivo[36],  sia nel giugno 1939 per celebrare la visita del  “Duce a Torino sabauda e fascistissima”, con bellissime immagini notturne di architetture torinesi, che si aggiungevano ad un repertorio tanto interessante quanto poco noto che in quel ristretto numero di anni avrebbe compreso anche le fotografie realizzate per documentare la Mostra dell’Autarchia di Torino e la Mostra Autarchica del Minerale Italiano di Roma.[37]

Il processo di aggiornamento avviato dieci anni prima con le riprese del Lingotto e definitivamente sottoposto a verifica nel corso del viaggio negli Stati Uniti era così compiuto: in queste immagini l’uso sapiente dell’illuminazione artificiale delle riprese notturne o in interni si coniugava con i più aggiornati e dinamici schemi compositivi, ormai ampiamente acquisiti e diffusi in una fase della vita nazionale in cui la pratica del consenso si sviluppava oltre che  con metodi coercitivi e violenti anche con un uso accorto e spregiudicato dei mezzi di comunicazione, non ultimo il massiccio ricorso ad enormi fotomosaici e fotomurali nell’allestimento delle grandi esposizioni, a partire da quella celebrativa del decennale della marcia su Roma, nel 1932. A testimonianza di un interesse non ancora condizionato dalla prospettiva bellica, anche la mussoliniana  “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” aveva pubblicato alcune delle sue bellissime fotografie del viaggio americano nel numero dell’ottobre 1938, a corredo di un articolo intitolato  Dollari, grattacieli, capogiri , ed altre erano state utilizzate nel 1940 sul mondadoriano “Tempo” a corredo dell’articolo Sbarcando a Nuova York (Zupàn, 1940), ma alcune di queste avevano già avuto la loro anteprima italiana al V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti che si era tenuto a Torino dal 29 maggio al 20 giugno 1937, aperto al Circolo  degli Artisti sotto la presidenza di Cesare De Vecchi di Val Cismon, già ministro dell’Educazione Nazionale. Qui Bricarelli aveva esposto, oltre ad un’immagine del Palazzo delle Poste di Napoli, le Niagara Falls, passate quasi inosservate e una ripresa dell’R.C.A. Building che Luigi  Andreis (1937, p. 10) aveva giudicato “modernissimo taglio di un grattacielo.”[38]

Con lo scoppio della guerra l’attività de “Il Corriere Fotografico” si fece difficile nonostante il sostegno economico – sotto forma di introiti pubblicitari – della Ferrania, che aveva nel frattempo acquisito anche il marchio Tensi e  dal 1935  era passata sotto il controllo dell’IFI, la finanziaria della famiglia Agnelli.

Nelle ristrettezze della guerra incombente e poi avviata e con un numero di pagine sempre più ridotto la testata dedicava i propri articoli quasi esclusivamente ad argomenti di carattere tecnico, e in particolare prestava la più costante attenzione all’ Avvenire e problemi della fotografia a colori, riflettendo così – quasi senza parere – uno dei maggiori sforzi prebellici nel settore fotografico, quello che aveva portato al confronto duro tra la statunitense Kodak (Kodachrome, 1935) e la tedesca Agfa, che commercializzò la pellicola per diapositive Agfacolor nel 1936, la sola disponibile in Italia sino al 1942- 43, quando dagli stabilimenti liguri uscirono le prime pellicole Ferraniacolor.

Le limitazioni imposte in regime di guerra portarono alla chiusura temporanea della testata, di cui all’inizio del 1944 era mutato anche l’assetto proprietario: la quota spettante ad Achille Bologna era stata infatti ceduta il 20 gennaio del 1944 ai coniugi Bricarelli, per passare venti giorni più tardi a Mario Carafòli “compresa la rivista al presente sospesa per disposizione del Ministero della Cultura Popolare”, i libri editi e gli arredi per un totale di Lire 40.000.[39]

Restava “Motor Italia” di cui Bricarelli conservava la direzione e la responsabilità quasi esclusiva della redazione e per la quale continuava a realizzare servizi fotografici sia di specifico carattere tecnico sia di informazione turistica e di varia cultura. Tra questi, a guerra ormai conclusa, anche il reportage dedicato a Bernard Berenson, fotografato nel 1947 ai Tatti, in compagnia di Clotilde Marghieri e di Guglielmo Alberti, amico di lunga data di Bricarelli, scrittore e assistente alla regia di Mario Soldati per Malombra, 1940, ma anche autore di interessanti fotografie pubblicate in “Luci ed Ombre” dal 1932 al 1934.[40]

Le immagini mostrano chiaramente quale fosse il suo modo di operare, descrivendo il personaggio attraverso una serie di riprese che lo colgono in momenti e luoghi diversi della sua giornata: dal giardino alle belle sale impreziosite di capolavori, in conversazione coi propri ospiti o solo a riposare sulla grande poltrona; la sequenza si chiudeva con il bel ritratto in primo piano (SB0091), col massimo punto di avvicinamento al soggetto, il centro del movimento di una spirale centripeta: un’immagine che ricorda per certi versi il ritratto che Henri Cartier-Bresson fece a Matisse, a Vence, nel 1944.

“Dopo quasi dieci anni di silenzio, sospesa prima dalle restrizioni della guerra e poi ostacolato dalle difficoltà post belliche” “Il Corriere Fotografico” riprese le pubblicazioni all’inizio del 1952, mentre Bricarelli estendeva la propria rete di collaborazioni ad altre testate come “Bellezze d’Italia” [41], con una ricca produzione di immagini di buon  livello prevalentemente dedicate a temi turistici,  a volte pubblicate con varianti anche su “Motor Italia”. Suggestioni della più diversa provenienza, dai grafismi di gusto Bauhaus alle forme più mature di composizione derivate dal pittoricismo, erano di volta in volta poste al servizio della risoluzione più efficace e formalmente soddisfacente del soggetto, analogamente a quanto accadeva negli stessi anni per un altro prolifico autore di poco più giovane come Bruno Stefani (1901 – 1978), collaboratore di lunga data del TCI per quella collana “Attraverso l’Italia” (cui contribuì anche Bricarelli) che tra il 1931 ed il 1955 aveva ridefinito  l’immagine del Belpaese pubblicando un repertorio di circa 10.500 immagini, distribuite in ventuno volumi.

Sebbene col 1954 Bricarelli fosse divenuto proprietario unico de “Il Corriere Fotografico”[42] la sua presenza sulle pagine della rivista era diminuita mentre lo stesso ruolo della rivista risultava progressivamente marginale in un contesto in cui, nonostante la presenza di Carlo Mollino, il “laboratorio” torinese aveva ormai perduto il proprio primato fotografico a favore del polo milanese, segnato anche dalla presenza di “Ferrania”, rivista che sin dai primi numeri era divenuta la sede privilegiata di confronto e dibattito dell’ultima generazione di fotografi che si stava affacciando sulla scena.

I primi evidenti segnali di questa mutata situazione si erano avuti già nel 1943. In quella che si definiva Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, curata da Ermanno F. Scopinich per l’Editoriale Domus in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner, Domenico Riccardo Peretti Griva era stato il solo rappresentante noto dei torinesi, cui anzi sembravano indirizzarsi gli strali più polemici di Scopinich e – ancor prima, nel 1941 –  di Alberto Lattuada[43]. Il volume, uscito a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di “Luci ed Ombre” (1934) – che ne costituiva di fatto il più autorevole precedente editoriale (ma non estetico) – rappresentava pur tra palesi contraddizioni la sintesi del dibattito italiano e della più generale svolta modernista, timidamente avviati proprio dal “Corriere Fotografico” ma poi proseguiti e affinati sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, e specialmente col contributo fondamentale delle riviste milanesi  dell’editore Gianni Mazzocchi. Neppure Carlo Mollino, che pure era stato gratificato di una copertina in uno degli ultimi numeri de “Il Corriere Fotografico”[44] d’anteguerra e doveva seguire con particolare passione un periodico tecnico come “Motor Italia”, si ricordò di Bricarelli nel suo Messaggio dalla camera oscura (1949), che pure ospitava Peretti Griva. La sospensione delle pubblicazioni della rivista per circa un decennio non pare sufficiente a giustificare un tale silenzio, quasi un ostracismo, ma è innegabile che la linea espressa dalla nuova serie del periodico si collocava ormai su posizioni esplicitamente conservatrici, sebbene arricchita da un’innovativa serie di articoli pionieristicamente dedicati a temi di storia della fotografia[45].

A restituire il clima basti qui citare a titolo esemplificativo il sarcasmo con cui  Maurizio Nèvola recensiva su quelle pagine la “Mostra della fotografia italiana 1953”, organizzata alla Galleria Vigna Nuova di Firenze da Giuseppe Cavalli,  giudicato uno che “per fare una foto, [“di una povertà desolante”] prima consulta il fotometro e poi Benedetto Croce”, per procedere poi a distribuire equamente i propri strali anche verso l’altro grande protagonista della nuova fotografia italiana, Paolo Monti, duramente attaccato per aver  “combinato – l’avreste mai creduto? – un «Fotogramma», cioè uno di quei vecchi giochetti talvolta gustosi, che però bisogna lasciar fare a Luigi Veronesi. Ha presentato il solito foglio nero, con le solite due o tre foglie d’albero macerate, e attorno dei pezzettini di materiale indefinibile disposti alla rinfusa. «Monti, sia buono, non ci dia più di questi dispiaceri».” (Nèvola, 1953)  Di tono non diverso appariva poi un successivo intervento di Guido Pellegrini, presidente del Circolo Fotografico Milanese,  in cui si individuava nel motto “Natura meno bellezza eguale astrattismo!” la formula magica della nuova fotografia soggettiva. (Pellegrini, 1954)

In questo clima conflittuale si collocava anche la poco entusiasta segnalazione del numero monografico di “Camera” dell’aprile 1956 dedicato all’Italia, dove erano riprodotte fuori testo “16 opere, alcune piuttosto discutibili, ma nella maggioranza assai belle” dovute ad un selezionato gruppo di autori della nuova generazione (con l’eccezione di Balocchi), tra i quali spiccava Fulvio Roiter, cui il prestigioso periodico svizzero dedicava anche la copertina, ed autore anche di uno dei due articoli di commento, essendo l’altro di Italo Zannier.

È proprio verso le opinioni espresse in quegli scritti che Bricarelli esprimeva tutto il suo disaccordo, specialmente quando sostenevano le qualità e i meriti del professionismo contro l’atteggiamento dilettantistico[46] degli amateur nostrani, “che concepiscono la fotografia come un «hobby», un passatempo che occupa le ore libere della settimana” (Roiter in Bricarelli, 1956a), attaccando conseguentemente, ma anche strumentalmente, il ruolo dei circoli fotografici  italiani per concludere che “la causa remota è da ricercarsi nell’assoluta mancanza di riviste specializzate e di editori che abbiano il coraggio di intraprendere un intelligente e razionale lavoro editoriale che abbia come base di sviluppo la fotografia.” (ibidem)

Il disappunto, e il dispiacere credo, non avrebbero potuto essere maggiori per chi, come Bricarelli, si era impegnato da sempre per la cultura e nell’editoria fotografica, difendendo come un punto d’onore[47] la propria qualifica di “dilettante”, più una categoria dello spirito che una condizione produttiva per lui, che aveva pubblicato e diretto riviste che si caratterizzavano proprio per l’innovativo ed ampio uso della fotografia.

Erano i termini duri di uno scontro generazionale che non consentiva mediazioni né comprensioni reciproche tra i giovani autori ed il più autorevole e ormai appartato esponente di una generazione che Zannier definiva dei “primitivi” che avevano praticato il “pittoricismo fotografico”.

Non che sulle pagine de “Il Corriere Fotografico” non ci fossero timide aperture ai nuovi autori internazionali:  lo dimostrano i brevi profili della rubrica Fotografi d’oggi  dedicati tra gli altri a Werner Bischof (1/1955), édouard Boubat (9/1956), Jean-Pierre Sudre (12/1956),  Renè Burri (5/1957) e Chargesheimer (5/56), di cui però si presentano solo i ritratti e non le ben più problematiche fotografie concrete,  mentre il numero di agosto del 1955 dedicava amplissimo spazio a Paul Strand , definito “fotografo illustratore americano di grande e non recente fama”, per presentare il volume einaudiano Un Paese, realizzato con Cesare Zavattini. Niente però che avesse a che vedere per qualità dell’approfondimento critico e rilevanza editoriale col puntuale ed  affettuoso ritratto dedicato a Guido Rey nel ventennale della scomparsa[48], corredato della riedizione del suo scritto del 1908 Fotografia inutile?, già comparso a suo tempo (1925) sulle pagine di “Luci ed Ombre”.

La vera novità di quegli anni nella produzione di Bricarelli era costituita dal ricorso sempre più frequente e sistematico all’uso del colore, sotto forma di diapositive nel formato 6×6, realizzate con la biottica Rolleiflex a partire dalla metà degli anni Cinquanta ed utilizzate sia in “Motor Italia” che per le copertine del “Il Corriere Fotografico” sin dalla ripresa delle pubblicazioni, sovente accompagnate dall’indicazione pubblicitaria “da Ferraniacolor”.[49] Nella novità del materiale fotografico a colori Bricarelli ritrovava l’opportunità di verificare e vivificare temi più volte affrontati quali le reti e le vele o l’infinita varietà dei paesaggi italiani, dimostrando una grande sensibilità per questa materia nuova, per le sue specifiche possibilità. Non era infatti un semplice adeguamento, una pura aggiunta cromatica a schemi compositivi predefiniti: il colore diventava l’elemento condizionante ed il vero soggetto dell’immagine, in tutte le sue sfumature, sino a sfiorare volutamente la soglia del monocromo. Negli anni in cui la nuova fotografia italiana e internazionale prediligeva l’uso drammatico del bianco/nero, l’anziano fotografo accoglieva le suggestioni non solo cromatiche delle coeve esperienze artistiche, dal Nouveau Réalisme alla Pop Art, ricercandone fotograficamente le involontarie tracce nella realtà delle cose del mondo. (A21/5_1, 2)

“Il Corriere Fotografico” chiuse definitivamente nel 1963, mentre Bricarelli mantenne la direzione di “Motor Italia” sino al 1976, assicurando ad essa “una costante unità di stile” dovuta al fatto che “durante il primo mezzo secolo di vita della Rivista gran parte delle foto in essa riprodotte erano state [da lui] riprese.” (Bricarelli, 1979, p. 14). Dopo quella data la conclusione della principale attività professionale gli offrì il tempo e l’opportunità di rimeditare la propria ingente produzione fotografica[50], distribuita lungo l’arco di almeno sessant’anni e di avviare una piccola serie di titoli che quasi senza parere la riassumevano.

Già nel 1968 aveva pubblicato L’auto è femmina, antologia di venti anni di fotografie dedicate alle carrozzerie torinesi, di fatto il suo primo libro fotografico, cui fece seguire nel 1976 – ormai quasi novantenne – la sua prima monografia antologica, segnata però da un significativo spostamento di accento:  in quel volume tutta la sua produzione veniva riproposta in termini documentari, con la descrittività a prevalere sull’interesse per il possibile valore e significato artistico. Queste fotografie entravano così a far parte di un differente discorso, ribaltando la consueta freccia direzionale di queste trasformazioni: non dall’archivio al museo, dal documento all’opera, ma viceversa. In questo mutamento di prospettiva anche il  pittoricismo delle prime prove era recuperato come documento etnografico semplicemente evidenziandone il contenuto referenziale, denotativo: Piemonte di ieri & Romantica valle d’Aosta  voleva essere nelle parole del suo autore “un album per rievocare la nostra regione qual’era quando la mia generazione aveva aperto gli occhi e quelle immediatamente antecedenti vi erano vissute” , e come tale venne letto dalla maggior parte dei commentatori.

Tra questi merita di essere ricordato Mario Soldati, che su “La Stampa” del 24 aprile 1976 chiedeva di prestare particolare attenzione ai testi a corredo delle immagini: “certo le fotografie sono fatte perché le vediamo: ma, e se, per capire queste sino in fondo, si dovesse cercare la chiave nelle didascalie?”

Indicazione niente affatto retorica o d’occasione, cui  sembrava corrispondere lo stesso Bricarelli quando nel 1979 poneva in apertura della sua seconda monografia, esplicitamente intitolata alla memoria, una puntuale citazione da Walter Benjamin: “La macchina fotografica diventa sempre più piccola e sempre più capace di afferrare immagini fuggevoli e segrete (…) A questo punto deve intervenire la didascalia, che include la fotografia nell’ambito della letterarizzazione di tutti i rapporti di vita, e senza la quale ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa. (…) La didascalia non diventerà per caso uno degli elementi essenziali dell’immagine fotografica?”[51]

Quasi un epitaffio scelto in vita per chi – come lui – aveva accompagnato fotografia e parola, da sempre.

Note

 

[1] Bricarelli, 1979, p.  9. La sua vicenda artistica e professionale è stata in più occasioni delineata dallo stesso Bricarelli, ma questo mio saggio e la mostra da cui origina non avrebbero mai potuto assumere la loro forma attuale senza il costante e competente sostegno della figlia Carla, cui vanno i miei più sentiti ringraziamenti non solo per la grande disponibilità dimostrata, ma anche (e specialmente) per la determinazione e l’affetto con cui ha sempre operato per la tutela e la migliore valorizzazione del patrimonio fotografico paterno.

[2] L’Esposizione del 1902 e le vicende strettamente connesse de “La Fotografia Artistica” sono state studiate da Costantini, 1990 e 1994 e recentemente riprese in Cavanna, 2000, cui si rimanda per eventuali approfondimenti. Dopo la chiusura della rivista (gennaio-febbraio 1917) Cominetti partecipò ancora alla vita fotografica torinese e italiana come membro di commissioni e di giurie della grande esposizione del 1923 dedicata a L’arte nella fotografia. Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia, aperta al Palazzo del Giornale al Valentino  su iniziativa della Camera di Commercio Torinese. Due anni più tardi gli venne affidata la direzione de “Il Fotografo”, rivista già diretta da Felice Baratelli, redattore Celeste Ferdinando Scavini, che aveva sede a Torino, in via Cernaia 18 (poi in via Accademia Albertina, 1) ed era verosimilmente finanziata dalla Bayer, come sembrano dimostrare i diversi e insistiti richiami ai prodotti dell’industria tedesca. Cominetti riassunse allora il ruolo di direttore di un periodico fotografico, ma senza ripetere il successo dell’impresa precedente. Così nel 1932 la sua morte non venne ricordata neppure sulle pagine del “Corriere Fotografico”, per molti versi solo erede di quel generoso e imperfetto tentativo di avviare una prima riflessione italiana sulla natura della fotografia.

[3] Il riferimento è alla teoria in onore tra pittori e fotografi francesi intorno alla metà del XIX secolo e che Delacroix, tra i più attenti ad un uso positivo della fotografia, aveva applicato al calotipo: “Les photographies qui saisissent davantage sont celles où l’imperfection même du procédé pour rendre de manière absolue, lasse certaines imperfections, certain repos pour l’œil qui lui permettent de ne se pas fixer que sur un petit nombre d’objets.” (dal “Journal”, 1859, citato in Challe, 1996, p. 24)

[4] Orengo, 1979, p.  6. Forse il termine più adatto sarebbe “spensierati”, con un riferimento non troppo implicito al quasi coetaneo Lartigue (1894 – 1986), richiamato anche in Racanicchi, 1994.

[5] La questione della paternità del trattamento dei materiali fotografici di Bricarelli è incerta e le stesse sue testimonianze contraddittorie: così se nel 1979, p.  12 dichiarava che “fin quando impiegai come materiale negativo le lastre le sviluppai sempre di persona”, nell’intervista rilasciata alla figlia Carla circa dieci anni più tardi ricordava che “le fotografie che scattavo nel corso di queste gite le portavo poi a sviluppare in un piccolo laboratorio.” (Bricarelli, 1988, p.  34) Per sapere quale potesse essere il laboratorio in questione è utile risalire ad un testo ampiamente antecedente dedicato alla Ditta Bietenholz & Bosio che aveva sede in Via Arcivescovado all’angolo con piazza Solferino “proprio sul percorso che facevo quattro volte al giorno per andare e tornare dal Ginnasio-Liceo dell’Istituto Sociale”, ditta trasferitasi poi in Corso Oporto presso Corso Re Umberto dove possedeva anche un proprio laboratorio fotografico diretto da Carlo Moncalvo, trasferitosi a Torino da Francavilla Bisio (AL) per fare l’operatore fotografico e cinematografico. Fu lui ad iniziare il giovane fotografo “al trattamento della carta al carbone Illingworth e di quella alla gomma bicromatata Höccheimer (entrambe introdotte in Italia dalla Bietenholz & Bosio), le quali davano modo di ottenere – soprattutto la seconda – quelle stampe cosiddette ‘interpretative’ allora tanto in favore ed ormai ben a ragione abbandonate.” (Bricarelli, 1956b, p.  37) Nacque così un rapporto di amicizia e collaborazione che, dopo la precoce scomparsa di Carlo nel 1935, proseguirà per tutta la vita col figlio Riccardo, a sua volta una delle più importanti figure della fotografia modernista torinese.

[6] Reduce dall’Esposizione di Dresda, Cesare Schiaparelli (1909, p. 46) esortava a ricordare che “nessun processo è migliore dell’altro, perché tanto sono perfette le gomme degli austriaci quanto i carboni degli inglesi, i platini di certi americani od i bromuri e gli höcheimer dei tedeschi, secondo i soggetti per i quali ogni sistema di stampa è specialmente indicato.”

[7] Luglio a Sauze d’Oulx, pubblicato ne “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 8-9, agosto – settembre, col titolo Julliet à Lanze d’Osilia (sic).

[8] Alla porta di casa (Costume di Val di Susa),  “Il Corriere Fotografico”, 8 (1911), n. 4 aprile, p. 1585.

Sul Monginevro e Cappella Alpina, “Il Corriere Fotografico”, 8 (1911), n. 12 dicembre, pp. 1767, 1776.

Due Studi di paese, “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 3 marzo, pp.  1857-1858.

Studio alpino,  “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 5 maggio, p. 1914.

Due paesaggi a corredo dell’articolo anonimo La Fotografia degli Alberi,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 1 gennaio, pp. 2086-2088.

Tre paesaggi, tra cui Giorno di febbraio sulle Alpi, a corredo dell’articolo anonimo Fotografie invernali,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 3 marzo, pp. 2134-2138.

Particolare della facciata di una chiesa in Val di Susa a corredo dell’articolo anonimo Fotografie d’Architettura,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 7 luglio, pp. 2230-2236.

Nella via maestra, Processione in montagna e Scene d’accampamento a corredo dell’articolo Istantanee artistiche, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 8 agosto, pp. 2255 – 2260.

Il Gran Paradiso da ovest nelle pagine dedicate al concorso per Fotografie Alpine,  “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 1 gennaio, p.  2382.

Il ritratto della Signorina M.M.C.B. nelle pagine dedicate al concorso per Ritratti femminili,  “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 3 marzo, p. 2439.

Cavalli al fiume. nelle pagine dedicate al concorso per Fotografie di animali, “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 7 luglio, p. 2570.

[9] Chevaux à l’aubrevage (1911), The House in the Snow (1911), Encampment Life (1912), Procession au village (1912), A Summer Impression (1912), Pour nos soldats (1914), The Far-off Village (1916), A l’ombre de l’église, s.d.,  The Harvester, s.d.  La consultazione in estratto delle sole tavole, con indicazioni cronologiche autografe, non ha consentito una più puntuale individuazione dei fascicoli.

Per un eventuale ulteriore approfondimento potrà essere utile il regesto delle opere presentate alle edizioni annuali del London Salon of Photography: 1915: Pour nos soldats, Church by Moonlight; 1916: Procession au Village; 1917: The Scout (A View of the War in the Alps); 1919: The far-off Village; 1925: Two Ages, Bard Vallée d’Aoste; 1926: The Edge of the Cliff, Ripples, The Abyss , The Mountain Past ; 1931: Sails Drying, Lumber; 1932: Domatori, Tracce.

[10] Sulla figura di Schiaparelli oltre agli studi generali dedicati alla cultura fotografica torinese di inizio Novecento (Costantini, 1990 e 1994; Miraglia, 1990) si vedano Sentieri di luce, 2002;  Schiaparelli, 2003.

[11] Bricarelli, 1913.  Il suo intervento e alcune sue immagini di quegli anni come Processione a Oulx, possono essere utilmente confrontati con quanto scrisse anni dopo lo zio Carlo (Bricarelli, 1924, pp.  6-7), gesuita con studi in architettura e poi in matematica, sulle pagine di “Luci e Ombre”: “Bisogna imparare a vedere: a vedere i crocchi de’ contadini sulla fiera, e ne’ profili, negli scorci, nelle stature, nelle complessioni, ne’ gesti, scorgere linee, intrecci, elementi di composizioni pittoriche: vedere nello sfilare d’una processione la varietà e l’armonia insieme di cappe, di cotte, di gonfaloni e di croci, linee frastagliate e gruppi e bozzetti, e atteggiamenti, e colori. Molto di nuovo e di bello si scoprirà scegliendo bene il punto di vista, e l’angolo giusto da rinchiudere in un quadro o una prospettiva.”

[12] Quest’immagine – forse la più nota del periodo pittorialista di Bricarelli venne ripubblicata in antiporta della terza  edizione del volume di Castruccio, Come riuscire in fotografia (1922) quindi ancora nel 1930, col titolo Light from Heaven, dallo stesso Tilney nel suo manuale The Principles of Photographic Pictorialism, testo ormai fuori tempo massimo in quell’anno, che si apriva con la solenne dichiarazione  “This book is not for the beginner in photography but for the beginner in art.” (p. I)

La tesi principale dell’autore che “The beginning of photography were pictorial” (5) corrispondeva alla prospettiva con cui Heinrich Schwarz leggeva negli stessi anni l’opera di Hill e Adamson (Costantini, 1992) e riconfermava i riferimenti fatti propri da una parte degli autori presenti alla grande esposizione di Stoccarda del 1929 Film und Foto, mentre l’affermazione contenuta poco oltre  “There is olny one « Art »: it is «universal»; it was, and still is and must always be” (p. 22) è quasi una traduzione letterale della già citata frase di Léon Vidal pubblicata nel 1904 nel primo numero de “La Fotografia Artistica”.

Va segnalato in ultimo che la foto di Bricarelli, conosciuta forse proprio per il tramite del volume di Tilney, ha costituito un riferimento preciso per un’immagine del ciclo The Church, 1991, di Andres Serrano (New York, 1950).

[13] Un’immagine di quest’ultimo, cui lo legavano stretti legami di parentela, pubblicata in “Luci ed Ombre” del 1924 (tav. XXIII) col titolo Botta e risposta, venne utilizzata da Bricarelli nel 1976, p. 67 senza segnalarne la diversa paternità, quindi esposta a suo nome nella bella mostra antologica al salone torinese de “la Stampa” del 1983, ristampata da Riccardo Moncalvo.

[14] Già nel 1915 Bricarelli aveva pubblicato Artiglieria da montagna  e Riposo  nelle pagine de “Il Corriere Fotografico” dedicate al concorso per Fotografie militari,  12 (1915), n. 1 gennaio, pp.  2683-2684, bandito prima dello scoppio della guerra “quando in Europa gli eserciti servivano a pacifiche parate, ed a far  schioppettare delle cartucce a salve”, mentre nel 1917 era stata esposta con il n. 327 al London Salon of Photography The Scout (A View of the War in the Alps), un’immagine molto efficace e forte poi pubblicata in Photograms of the Year, 1917-1918, p.  XLIII accompagnata da questo commento di W.R. Bland: “The paramount call of duty is poignantly sounded in The Scout, in which decoration is called in as if to alleviate, if only by a hair, this everyday aspect of the hardships of a soldier’s lot. The picture has a remarkable dramatic force and truth.” (Bland, 1918, p. 17)

[15] Avevo vent’anni quando sono andato al fronte – dirà André Kertész a proposito della sua esperienza durante il primo conflitto mondiale – Credo che la mia macchina fotografica mi abbia aiutato a sopravvivere.” (Citato in Borhan, 1998, p. 8).

[16] Poi ripubblicato come Proust 1925  in Giacomo Debenedetti, Rileggere Proust, Milano, Mondadori, 1982, pp. 90-91.

[17] L’esposizione si tenne dal 19 dicembre 1925 al  10 gennaio 1926 presso la Galleria centrale d’Arte, via Po 4 Torino, sotto gli auspici del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e della Società Fotografica Subalpina, gestita da un Comitato permanente presieduto da Teofilo Rossi di Montelera con Giuseppe Ratti vicepresidente, di cui  facevano parte anche Italo M. Angeloni, Alfredo Laezza, Guido  Rey e Cesare Schiaparelli, con Sem Benelli, Gino Pestelli, Edoardo Rubino ed Emilio Zanzi,.

Parteciparono 227 espositori di 22 nazioni diverse; tra gli italiani, oltre al gruppo compatto dei torinesi, si segnalarono Bragaglia, Sella e Wulz, mentre il panorama straniero spaziava da Drtikol a Mortensen, da Dubreuil, a Sudek, da Funke a Ortiz-Echagüe e Polak in un mescolarsi di tradizionalismo pittorialista e influenze del nuovo.  Risultava assente Guido Rey, che aveva scritto a Bricarelli per declinare l’invito ad esporre non avendo lavori nuovi da inviare e un poco intristito dalla giornata e dalla vecchiaia che avanza: “il fotografo pur sente più del consueto la neve che gli è caduta sul capo negli anni.”, lettera del 3 luglio 1925, in Archivio Bricarelli, Torino.

[18] A questa immagine, tra le più note realizzate da Bricarelli in quegli anni e immediatamente pubblicata anche in “Photograms of the Year”, 1926, tav. XLIV e “Luci ed Ombre”, 1926, tav. VIII, si richiamerà esplicitamente Carlo Matis con Mistica, presentata al V Salone del 1937 (377).

[19] Dal 15 gennaio 1924 il Gruppo ebbe la propria sede presso gli uffici torinesi del “Corriere Fotografico”, in via Stampatori 6, dove  erano “a disposizione dei Membri residenti in Torino e di quelli di passaggio una estesa biblioteca artistico-fotografica e tutte le Riviste di fotografia che si pubblicano nel mondo.”

[20] “Luci ed Ombre” 1926, pp. 7-9  in cui l’annosa disputa sul carattere stilistico della fotografia veniva “risolta in una nuova riflessione circa la sua presunta verità” (Costantini, 1990, p. 11).  Anche Rey era stato chiamato a far parte del Comitato promotore della rivista (“Caro Bricarelli, il compito che la sua amicizia m’impone non è facile, ma, se Ella mi aiuta, cercherò di adempiervi come meglio io sappia. (…) Sono lieto che la sua iniziativa sia per avere buon esito e Le do tutta la mia simpatia. Dev. Guido Rey”, lettera del 15 luglio 1922, Archivio Bricarelli, Torino) e la prima tavola del primo numero (1923) sarà proprio la sua L’attesa, mentre nel volume del 1925 venne riproposto il suo scritto Fotografia inutile? del 1908.  Se consideriamo ancora la parziale riedizione nel 1926 di un testo di Thovez del 1898 si può credere che il Gruppo volesse ancora poggiarsi all’autorevolezza dei maestri della generazione precedente, o – come sosteneva Costantini, 1987, p. 29 – che intendesse “ribadire la continuità della tradizione” torinese.

[21] Si vedano a questo proposito le immagini pubblicate in Bianco su bianco, 2005.

[22] “l’astrattismo di Bricarelli, alla tav. 17 [Tracce], è documentario pur non parendo. Era tuttavia meglio che paresse…Qui se il pericolo [dell’astrattismo] non c’è, lo rasentiamo.” (Pellice, 1932, p. XVI).

[23] “Umile soggetto, concepito ed eseguito in quella forma e tecnica singolarissima, che fa d’ogni bromuro dell’Artista torinese un’opera densa di pensiero e suggestiva all’anima. Altre volte abbiamo detto come il Bricarelli si compiaccia dei forti contrasti di linee e di piani, di ombre e di luci, dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande: contrasti che egli sa rendere sulla lastra e far accettare temperati ed addolciti da un’armonica connessione di parti. Minuscoli esseri umani in una vasta solitudine di nevi o di ghiacciai; il formidabile scafo d’una nave in un piccolo specchio d’acqua, l’immensa mole di cataste di legna sovrastante ad un breve primo piano suscitano potentemente nell’animo di chi osserva il senso della realtà.” (De Albroit, 1932)

[24] Angelo d’Orsi (1987) ha ricostruito nel dettaglio le brevi e difficili relazioni tra Bricarelli e Persico, che aveva “trovato un posticino” a “Motor Italia” forse per intercessione “dei pittori di Torino” –  come ricordava Bricarelli – o più verosimilmente di Emilio Zanzi, il critico della “Gazzetta del Popolo” da lunga data collaboratore anche del “Corriere Fotografico”.

“Per me è stato un fallimento completo – ricorderà Bricarelli, intervistato da D’Orsi nel novembre 1985 – Che fosse una persona geniale lo capivo: ma era uno sfaticato di prim’ordine. (…) Io gli davo uno stipendio modesto, ma, per quei tempi, non era disprezzabile: mille lire al mese. (…) Io ero ai primi anni della rivista e avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse [ma] il lavoro redazionale di Persico si è concentrato tutto in un articolo [in realtà furono tre]” (citato in D’Orsi, 1987, pp. 39-40). Tale situazione conflittuale è confermata anche da un’informativa della Prefettura di Torino dell’ottobre 1929: “Persico Edoardo (…) segnalato, in via confidenziale, a codesto on. Ministero, come elemento antinazionale (…) fu pure alle dipendenze della Rivista «Motor Italia» che lo esonerò dall’impiego per scarso rendimento.” (Ivi, p. 43)

[25] D’Orsi, 1987, p. 38. Una rassegna critica delle diverse letture del Lingotto è stata ordinata da Buffa, Ortoleva, 1994.

[26] Brezzo, 1929, pp.  778-779. Il senso dispregiativo assegnato all’aggettivo “futurista”, già utilizzato per denigrare la sala casoratiana “degli analfabeti” alla Quadriennale torinese del 1919, corrispondeva a quella “radicata avversione con cui (…) i più vasti strati del pubblico continuarono a guardare a tutto ciò che si fosse discostato dalla più tradizionale visualizzazione dell’oggetto” di cui ha parlato a suo tempo Angelo Dragone (1978, p. 192), ricordando il retroterra di “disinformazione e pregiudizio” di un ambiente artistico e culturale che aveva tra i propri punti di riferimento Enrico Thovez  (direttore della Galleria civica d’Arte Moderna dal 1913 al 1921), il critico che aveva accusato di “degenerazione artistica” le opere di Degas, Renoir e Manet ed aveva definito “terroristi della pittura” autori come Cézanne, Gauguin e Van Gogh. Lo stesso termine venne utilizzato dal critico de “La Stampa” Ugo Pavia per commentare alcune delle opere presentate nel dicembre 1925 al «Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale»:  rilevando la novità costituita dagli artisti russi e cechi, il “cubista Drtikol”, il suo discepolo Funke ed il polacco Dederko,  parlava infatti di “questi artisti-fotografi futuristi [che] anche se non persuadono, destano però molta curiosità nei visitatori.”  E ancora:  “Si rallegrino i futuristi: la teoria del “volume” e quella della “sintesi” è accettata anche dagli artefici dell’obiettivo” (Pavia, 1925)

Ancora nel 1931, quando a Torino si aprì la Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista l’uso del termine avrebbe presentato, su entrambi i fronti, alcune indecisioni: “Ecco oggi la “Fotografia Futurista”! – scriveva in catalogo Giuseppe Enrie (1931, p. 3) – Ultima, in ordine di tempo, essa non si accoda ma si lancia nel movimento totalitario che ha ormai investito tutta l’Arte e decisamente tenta le vie di una espressione nuova e generosa. (…) Ma non occorre diventare eccessivamente spregiudicati ed aconvenzionali, basterà rimanere liberi e sinceri per subire la suggestione di opere come quelle che figurano in questa prima Esposizione Sperimentale”.

Contro la Mostra si scagliò Guido Lorenzo Brezzo (1931, pp. 10-11) nel testo di apertura di “Luci ed Ombre” del 1931, facendosi evidentemente portavoce delle opinioni del gruppo redazionale. Il testo si basava sull’assunto che “l’artista vero è sempre naturalmente moderno (…) il pseudo-artista vuole essere moderno, vuole essere futurista, perché non può essere artista. (…) E d’altra parte che cos’è cotesta novissima modernità che si decanta come la sola, la definitiva perfezione dell’arte in genere e della fotografia in ispecie? [Essa ha] per soggetto fondamentale la macchina, realtà monofronte a solo aspetto pratico, essenzialmente limitato e temporaneo, sterile perciò di trascendenza e incapace, salvo rari casi e speciali, di servire d’oggetto all’atto d’intuizione estetica. Inoltre la frequenza del soggetto macchina ingenera negli operatori un’abitudine di visione meccanica, che viene trasferita a qualsivoglia soggetto sia di tipo naturale (figura o paesaggio) che artificiale (architettura).”

[27] Angeloni, 1926, p. 242. Anche un altro critico torinese parlerà di lì a poco di immagini  “che ci fanno pensare a Maggi, a Chiariva, a Pollonera ad Avondo e Calderini”, (Bernardi, 1927, p. 10).

[28] Nella sala del Gruppo Piemontese erano esposte opere di Francesco Agosti, Carlo Baravalle, Achille Bologna, Stefano Bricarelli, Placido Eydallin, Cesare Giulio, Piero Oneglio, Ugo Pasteris e Sergio Perdomi, mentre le altre ospitavano, tra gli altri,  i lavori di Adolfo Hess e Maurizio Reviglio.

[29] Il nuovo statuto fu redatto dal Presidente Baravalle avendo quali membri del Consiglio direttivo Agosti, Bologna, Bricarelli, Giulio, Corinaldi e Vittorio Ambrosio (“Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 3, marzo, p. 49).

[30] Su questi temi si veda Miraglia, 2001, pp. 13, 25 passim.

[31] Recensione al volume di Willy Stiewe, Foto und Volk. Halle-Saale: Wilhelm Knapp, 1933, “Il Corriere Fotografico” , 31 (1934), gennaio, p.  32. L’esaltazione del modello culturale nazista raggiungerà il proprio imbarazzante e inqualificabile apice nel 1938 quando, in un breve ritratto del fotografo personale di Hitler,  Federico Ferrero, che sarà redattore ancora nel dopoguerra, dichiarava che “Heinrich Hoffmann è qualcosa di più di un semplice fotografo o fotogiornalista: egli è l’amico intimo, il confidente di Adolfo Hitler, il quale per mezzo di Hoffmann sa valersi abilmente di quel potentissimo mezzo di propaganda che è l’obiettivo fotografico per diffondere non dico la propria immagine – ché Hitler è timido e rifugge dalla facile popolarità – ma soprattutto le gesta e le opere del regime Nazista, dalle più importanti alle meno salienti.” (Ferrero, 1938).

[32] Di Bricarelli venne pubblicata Aurora Umbrarum Victrix ( Modern Photography, 1931, p. 22), già molto apprezzata in Italia. Nel commento di  Guido Lorenzo Brezzo (1930, pp. 774-777) “Aurora umbrarum victrix di Stefano Bricarelli, fissata a lungo ad occhi semichiusi, porta la fantasia dell’osservatore in mezzo all’oceano dello spazio e lo fa assistere da un punto fuori del tempo all’erompere del primo giorno in mezzo alle tenebre del caos”, mentre per Cesare Meano (1930, p. 14) si trattava di “una composizione piena di audace ingegnosità e di strani effetti”. Le sole altre immagini di autori italiani pubblicate in questo annuario furono La scia di Cesare Giulio (81) e La spiaggia di Achille Bologna (876).

[33] Nel novembre del 1931 realizzò per la Cines-Pittaluga Bacini di carenaggio a Genova, un documentario di 9’ su testi di Emilio Cecchi, di cui fu regista e direttore della fotografia, mentre al 1936 risale la sua sola altra prova nota: Sulle orme di Dante esule per la regia di Teonesto Deabate e con la collaborazione di Onorato Castellino, già fondatore e direttore, con la moglie Francesca, di “Cuor d’oro” un periodico per ragazzi (1922-1927) con belle copertine disegnate dallo stesso Deabate, ma anche da Massimo Quaglino, Giulio Da Milano e da un giovanissimo Giulio Carlo Argan “ancora incerto sul proprio avvenire”, D’Orsi, 2000, p. 93.

Troppo scarse sono ancora le nostre conoscenze su Bricarelli regista e cineoperatore, ma non possiamo escludere che questo ampliamento di mezzi espressivi fosse in relazione con quella politica di  “lotta, di difesa e diffusione delle nuove idee” che – come abbiamo visto – “Il Corriere Fotografico” condivideva.

[34] La “Revue Leica”, 3 (1936), n. 15, mai, nel comunicare l’esito del concorso pubblicava l’intero rullo di immagini realizzate da Bricarelli (che per ragioni di opportunità era indicato come residente a Nizza) per adempiere alle condizioni del concorso, considerate dalla giuria “d’une qualité tout à fait exceptionelle. M. Bricarelli peut être fier, puisque sa bobine est assurément une des meilleures bobines Leica, que nous ayons vues jusqu’à ce jour.” Altre sue fotografie del sacrario dedicato a Cesare Battisti a Trento furono pubblicate in copertina e all’interno del n. 26, mars – avril 1938, della medesima rivista.

[35] In quell’occasione nacque – su proposta di Garretto accolta da Mussolini – l’idea di realizzare un servizio propagandistico sui confinati a Ponza, da proporre a “Life” per “sfatare il confronto del confino con la deportazione in Siberia” (Bricarelli, 1979, p. 34), ma la testata non pubblicò mai le immagini. In una lettera a Garretto del 7 settembre 1938 Wilson Hicks, il primo editor fotografico di “Life”, proveniente dall’Associated Press, accennava ad una plausibile spiegazione, forse diplomatica, delle ragioni per cui il giornale non avesse usato “the fine pictures you sold to it last winter. The editors saw and were greatly impressed with Mr. Bricarelli’s and yours sets of fine photographs showing Mussolini, various ministers and their ministries, the documentation of a labor appeal case, Il Confino (sic) and other valuable pictures which now are in our files. LIFE’s ways sometimes are hard for persons who are not familiar with our peculiar handling of pictures to understand.” (Archivio Bricarelli, Torino).

[36] Si veda “La Rivista illustrata”, 16 (1938), n.4, con altre fotografie dell’Istituto LUCE, della Regia Aeronautica, del tedesco F.F. Bauer (che aveva fotografato il Congresso nazista di Norimberga dello stesso anno), di Giulio Parisio, di B. Morgagni (forse in relazione col Direttore Manlio Morgagni), di Raimondo Niccolini e di Bruno Stefani. Il servizio sul salone di Berlino comparve invece in “La Rivista illustrata”, 1939, n.4, pp. 70-71. Alcune di queste fotografie vennero poi riedite in Italia Imperiale, edizione speciale della “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” pubblicata nel  1937 per la cura del suo condirettore Manlio Morgagni.

[37] Si vedano rispettivamente “La Rivista Illustrata”, 16 (1938), n. 11, pp. 97-104 e “La Rivista Illustrata”, 17 (1939), n.1, p. 90 passim.

Nella mostra fotografica Il volto e l’anima di Torino fascista che si era tenuta a Palazzo Lascaris nel febbraio del 1937 con un centinaio di fotografie di Bertoglio, Bellavista, Schiaparelli, Andreis, Zumaglino, Moncalvo, Fecia di Cossato e altri, Bricarelli non risultava presente, cfr. “Il Corriere Fotografico”, 34 (1937), n.3, marzo, p. 77.

[38] Andreis 1937, p. 10. Nella stessa occasione Angeloni aveva sottolineato che “il numero maggiore delle fotografie italiane qui esposte fu operato negli anni più tragici ed eroici del nostro dopoguerra; l’assedio economico, le barriere, le jugulazioni dirette dal capitalismo straniero contro il giovane Fascismo avrebbero dovuto deprimere ogni azione specialmente in campo artistico. Il V Salone dimostra invece il contrario. (…) gli Italiani hanno ben imparato il mussoliniano «saper fare da sè»” (Angeloni, 1937, p. 134).  Procedendo nella  rassegna delle più significative presenze straniere segnalava (ivi p. 161) “l’amore della cosa nuova, del taglio originale [che] occupa in tutte le sue espressioni l’arte di Renger Patzsch”: una presenza sorprendente e quasi inosservata.

[39] Copia dell’atto in Archivio Bricarelli, Torino. Carafòli, fotoamatore e redattore de “La Stampa”, sarà tra i collaboratori del “Corriere” ancora negli anni ’50, con articoli di forte opposizione ideologica alla fotografia neorealista:  “Ma ascolti solo sé stesso – scriverà rivolgendosi a Luciano Ferri – e diffidi della rivista e delle biblioteche comunali che – con i fondi della borghesia e le tasse di tutti i contribuenti – fanno della propaganda marxista.” (Carafòli, 1957).

[40] Si vedano Alberti, 1959; Bricarelli, 1979, pp. 68-69, 87. Dell’incontro non rimane purtroppo traccia nei diari pubblicati di Berenson, 1966.

[41] Nel 1951 questa collaborazione gli aveva fruttato “un segno di distinzione” al “Premio Torino di Giornalismo”, anche in riconoscimento “della sua nota attività di fotografo.” (Archivio Bricarelli, Torino).

[42] Nell’aprile del 1954 aveva rilevato per 500.000 lire la quota proprietaria di Carafòli, divenendo unico proprietario della testata. (Archivio Bricarelli, Torino).

[43] Scopinich, 1943. Anche Alberto Lattuada, aveva vivacemente polemizzato con gli epigoni torinesi del pittorialismo: “Credo inutile fare osservazioni sulla tecnica fotografica. Mi pare giusto dire soltanto questo: recentemente ho visto pubblicato su un quotidiano di Torino una fotografia dalla quale, con l’aiuto di filtri, velature, bagni chimici e altri accorgimenti, l’autore era riuscito a ricavare un quadro; si trattava di una scena fluviale in controluce, sfumatissima e la dicitura diceva che tale opera aveva vinto il concorso della più grande esposizione internazionale di fotografia.”,  citato in Berengo Gardin, 1982, p. 15.

[44] Scalpo d’oro, per il numero del settembre 1941.

[45] Già nel 1923 era stato pubblicato un articolo di Enrico Unterveger dedicato a L’opera di Niceforo Niepce, ed ancora nel 1938 si era celebrato il primo centenario dell’invenzione, mentre Lamberto Vitali su “Emporium” si occupava di Ritorno all’antica fotografia (1936), ma fu a partire dal 1954 che gli articoli si fecero più assidui e poi sistematici, con la rubrica dedicata Alle sorgenti della fotografia  affiancata da importanti recensioni, come quella dedicata nel numero 49  del 1957 all’Album romano pubblicato da Silvio Negro, corredata di numerose illustrazioni: ben nove pagine che citano ampiamente il testo di presentazione pubblicato su “La Stampa” da Paolo Monelli, nello stesso anno in cui si apriva alla  Triennale di Milano la fondamentale mostra sulla storia della fotografia realizzata da Lamberto Vitali, affiancando alle opere della collezione Gernsheim le prime eccezionali testimonianze raccolte nella sezione italiana, esposte tutte nella  speranza di poter creare a Milano un Museo di fotografia.

[46] Alcune fonti per la ricostruzione del vivace dibattito di quegli anni sono ora disponibili in Colombo, 2003.

[47] Tale caparbia definizione era continuamente ribadita anche dalla partecipazione a concorsi esplicitamente banditi per i dilettanti, come quello del periodico “Le Vie d’Italia”, da lui vinto nel dicembre del 1955. (Lettera di Cesare Chiodi, presidente TCI del 26-10-1955, Archivio Bricarelli, Torino).

[48] Bricarelli, 1955. Questo saggio, pubblicato nello stesso anno in cui furono edite da Viglongo le sue Opere complete, non è noto alla scarsa letteratura dedicata all’autore, ma costituisce di fatto il primo tentativo di comprensione critica dell’insieme dell’opera di Rey, in cui si pone come primo problema quello della discrepanza tra i due diversi e lontanissimi mondi fotografici da lui praticati della fotografia artistica e di quella alpinistica, analizzata questa chiarendo precisamente le differenze con Vittorio Sella. Per quanto riguarda la sua più nota produzione pittorialista, Bricarelli ne ricordava le doti di disegnatore e “intenditore di pittura antica e contemporanea” da cui derivavano le sue composizioni, eclettiche quanto ad ispirazione ma “tutte legate da uno stile comune, fatto di sobrio equilibrio, di sottile armonia, di antiretorica spontaneità [sic], che era quello innato dell’autore”, segnalandone infine il singolare carattere di “ricca e molto pittoresca iconografia familiare.”

[49] Già i numeri di dicembre delle due annate 1940 e 1941 presentavano fotografie a colori di Bricarelli, ma allora da Agfacolor.

[50] Il Fondo Bricarelli, donato dalla figlia Carla nel 1997, ha una consistenza di circa 40.000 fototipi, 35.000 dei quali negativi.

[51] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 55-78 (77), citato in Bricarelli, 1979, p.  18.

 

 

 

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Paolo Costantini, Una “sana ed eclettica modernità”. L’esperienza di Luci ed Ombre tra conservazione e innovazione, in Luci ed Ombre, 1987, pp. 25-35

 

Costantini 1990

Paolo Costantini, «La Fotografia Artistica» 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990

 

Costantini 1992

Paolo Costantini, Introduzione, in Heirich Schwarz, Arte e fotografia. Precursori e influenze. Torino: Bollati Boringhieri, 1992

 

Costantini 1994

Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, catalogo della mostra (Torino  1994), a cura di Rossana Boscaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci, Milano, Fabbri Editori, 1994, pp. 94-179

D’Orsi 1987

Angelo d’Orsi, «Il doloroso inverno»,  l’esperienza torinese, in De Seta 1987, pp. 21-56

 

D’Orsi 2000

Angelo d’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre. Torino: Einaudi, 2000

 

De Albroit 1926

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926), n. 3, marzo, p. 60

 

De Albroit 1930

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 1, gennaio, p. 9

De Albroit 1930

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 3, marzo, p.213

 

De Albroit 1932

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 7, luglio, pp. 369

 

De Albroit 1931

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 28 (1931), n. 11, novembre, pp. 812

 

De La Sizeranne 1899

Robert De La Sizeranne, La Photographie est-elle un art?.  Paris: Hachette & C.ie, 1899

De Seta 1979

Cesare De Seta, a cura di, Giuseppe Pagano fotografo.  Milano: Electa, 1979

De Seta 1987

Cesare De Seta, a cura di, Edoardo Persico. Napoli: Electa Napoli, 1987

 

Deabate 1984

Teonesto Deabate tra pittura e architettura, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 3-29 aprile 1984). Torino:  Provincia di Torino, 1984

 

Della Volpe 1980

Nicola della Volpe, Fotografie militari. Roma: Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, 1980

 

Dragone 1978

Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino tra le due guerre, catalogo della mostra (Torino, marzo – giugno 1978). Torino, Musei Civici, 1979, pp. 188- 227

 

Enrie 1931

Giuseppe Enrie, La Fotografia contro il suo assoluto, in Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista, catalogo della mostra (Torino, 15 marzo – 6 aprile 1931).  Torino: Tip. Fedetto, 1931, pp. 3-6

Ferrero 1938

Federico Ferrero, Heinrich Hoffmahn, fotografo ufficiale del Reich, “Il Corriere Fotografico”, 35 (1938), n. 5, maggio, p. 110

 

Fotografia luce della modernità 1991

Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier, a cura di, Fotografia luce della modernità. Torino 1920/1950,

dal pittorialismo al modernismo. Firenze: Alinari, 1991

 

Gabinio 1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

Inaugurazione 1931

Anonimo, Inaugurazione della Mostra di fotografia futurista, “La Stampa”, 16 marzo 1931

 

Lamberti 2000

Maria Mimita Lamberti, a cura di, Lionello Venturi e la pittura a Torino 1919 – 1931. Torino: Fondazione CRT, 2000

 

Lista 2001

Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001

 

London salon 1915- 1932

Catalogue of the London Salon of Photography.  London: Women’s Printig Society Ltd., 1915-1918; 1919; 1925-1926; 1931- 1932

Luci ed Ombre 1987

Luci ed Ombre. Gli annuari della fotografia artistica italiana 1923 – 1934, catalogo della mostra (Firenze, 1987-1988), a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1987

 

Marescalchi 1936

Arturo Marescalchi, Il volto agricolo dell’Italia. Milano: TCI, 1936

 

Meano 1930

Cesare Meano, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, IX annuale 1930. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1930, pp. XIII-XV

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia 2001

Marina Miraglia, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione De Fornaris – Hopefulmonster, 2001

Modern Photography 1931

Modern Photography. London: The Studio, 1931

Mollino 1949

Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [1950]

 

Moncalvo 2001

Riccardo Moncalvo. Figure senza volto, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea,  2001), a cura di Italo Zannier. Torino: Edizioni GAM, 2001

 

Morgagni 1937

Manlio Morgagni, a cura di, Italia Imperiale. Milano: Rivista Illustrata del Popolo d’Italia, 1937

Morgan 1939

Claude Morgan, Neiges, “L’Illustration”, 4 fevrier 1939, n. 5005, pp. 133-143

 

Morselli 1883

Enrico  Morselli, Programma speciale della sezione di Antropologia. Torino: Stamperia Reale – Paravia, 1883

Mostra di fotografia futurista

Anonimo, La Mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “Gazzetta del Popolo”, 16 marzo 1931

Nèvola 1953

Maurizio Nèvola, Mostra della fotografia italiana 1953. La montagna e il topolino, “Il Corriere Fotografico”, 50 (1953), n. 12, settembre, pp. 27 -30

 

Olmo 1994

Carlo Olmo, a cura di, Il Lingotto 1915 – 1939, l’architettura, l’immagine, il lavoro. Torino: Umberto Allemandi & C., 1994

 

Orengo 1979

Nico Orengo, Come il cavalluccio di legno…, in Bricarelli 1979, pp. 5-7

Paoli 1998

Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  I,  Fotografia e raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, VIII, 1998,  pp. 99-128

Pellegrini 1954

Guido Pellegrini, L’astrattismo cos’è – Ritorna primavera, “Il Corriere Fotografico”, 51 (1954), n. 19, aprile, pp. 36-37

Pellice 1932

Donato Pellice, La fotografia artistica in Italia nel 1932, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana , 1932– XI annuale. Torino: Il Corriere Fotografico, 1932, pp. VII – XVIII

 

Persico 1927

Edoardo Persico, FIAT Automobili – Via Nizza, 250 – Torino, “Motor Italia”, 2 (1927),  dicembre, pp. 27-30; 64

 

Photograms 1915

Photograms of the Year 1915, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1915

Photograms  1928

Photograms of the Year 1929, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1928

Photograms  1939

Photograms of the Year 1940, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1939

Ponti 1932

Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n.53, maggio, pp.285-288

Primo Salon 1925

Primo «Salon» Italiano d’Arte fotografica Internazionale – Catalogo. Torino: Tipografia P. Celanza & C., 1925

 

V Esposizione 1932

V Esposizione Fotografica di Montagna – Catalogo. Torino: CAI, 1932

V Salone 1937

V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 29 maggio – 20 giugno). Torino: Stabilimento Tipografico Ajani & Canale, 1937

 

Racanicchi 1994

Piero Racanicchi, Cultura fotografica in Piemonte tra Ottocento e Novecento, in Accademie, salotti, Circoli nell’Arco Alpino Occidentale, atti del XVIII Colloqui franco-italien (Torre Pellice, 6-8 ottobre 1994). Torino: Centro Studi Piemontesi, 1994, estratto

 

Ratti 1961

Giuseppe Ratti, a cura di, Flor ’61. Esposizione internazionale Fiori del Mondo a Torino.Torino: Tipografia Editrice Torinese, 1961

 

Rebaudengo 1971

Dina Rebaudengo, Un uomo una città. Torino: Toso, 1971

 

Redazionale 1927

Red., Montagne: La II mostra del Fotogruppo Alpino della sezione di Torino del C.A.I., “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 5, maggio, pp. 87

 

Redazionale 1928

Red, Il trionfale successo della “Prima Mostra d’arte fotografica” organizzata dal “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 1, gennaio, pp. 1-3

Redazionale 1929

Red., Il contributo della microfotografia alle arti decorative, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 3, marzo, pp. 177 – 178

 

Redazionale 1931a

Red. Inaugurazione della mostra di fotografia futurista, “La Stampa”,  65 (1931), n. 64, 16 marzo, p. 2

 

Redazionale 1931b

Redazionale, La mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “La Gazzetta del Popolo”, anno 84 (1931), n. 64, 16 marzo, p. 2

 

Reteuna 2000

Dario Reteuna, Cinema di carta. Storia fotografica del cinema italiano. Alessandria: Edizioni Falsopiano, 2000

Rey 1925

Guido Rey, Fotografia inutile, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana,  1925- IV annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. V-X

 

Rossi 1933

Alberto Rossi, Fotografia come arte, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1933- XII annuale, Torino, Edizioni del Corriere Fotografico, 1933, pp. IX-XVIII

 

Royal Photographic Society 1919

Royal Photographic Society of Great Britain, Exhibition of Pictorial Photographs which have received awards in the Competition organised by “The Amateur Photographer and Photography”.  London:  Women’s Printig Society Ltd., 1919

Russo 1999

Antonella Russo, Il fascismo in mostra. Roma: Editori Riuniti, 1999

 

Schiaparelli 1909

Cesare Schiaparelli, L’Arte fotografica mondiale all’Esposizione di Dresda. Torino: Stabilimento Tipografico Guido Momo, 1909 [1910]

Scopinich 1943

Ermanno F. Scopinich, a cura di, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943

Sentieri di luce 2002

Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1930 al 1946, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 2002), a cura di Dario Reteuna. Torino – Firenze, Circolo degli Artisti – Alinari, 2002

Sentieri di luce 2004

Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1946 al 1970, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 2004), a cura di Dario Reteuna. Torino – Firenze, Circolo degli Artisti – Alinari, 2004

 

VI Esposizione 1934

VI Esposizione fotografica di montagna – Catalogo. Torino: CAI, 1934

 

VII Esposizione 1940

VII Esposizione fotografica alpina – Catalogo.  Torino: CAI, 1940

 

Tilney  1920

Frederick Colin Tilney, Some Pictures of the Year, “Photograms of the Year 1920”. London: Iliffe & Sons, 1920

 

Tilney 1930

Frederick Colin Tilney, The Principles of Photographic Pictorialism. Boston: American Photographing Publishing Co., 1930

 

TCI 1956

Touring Club Italiano, L’Italia in 300 immagini. Milano: TCI, 1956

 

Weaver 1925

John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n.3, marzo, p. 36

 

Wolff 1936a

Paul Wolff, Olimpiadi 1936. Milano: Bompiani, 1936

 

Wolff 1936b

Paul Wolff, Skikamerad Toni. Frankfurt am main: H. Bechhold Verlagsbuchandlung, 1936

Zannier 2004

Italo Zannier, “Ferrania” maestra di fotografia, in Colombo 2004, pp. 112 – 116.

 

Zanzi 1924

Emilio Zanzi, Arte, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1924-III annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1924, pp. IX-XX

 

Zanzi 1925

Emilio Zanzi, La raccolta del 1925, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1925-IV annuale.  Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. XI-XV

Storia con fotografie  (2005)

in P. Cavanna, a cura di, Dalla pittura al museo.  Vittorio Avondo e la fotografia. Torino : Fondazione Torino Musei-GAM, 2005, pp. 12-55

 

 

“La parola ha qualcosa da dire

a colui che parla.”

Giorgio Manganelli, 1987

 

 

 

 

1 – L’Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei

 

Da raccolta ad archivio: piccola storia delle fotografie al Museo Civico

 

L’attenzione italiana per la fotografia storica e contemporanea si consolida negli ultimi decenni del Novecento con la realizzazione di ricerche, progetti editoriali ed espositivi che sempre più sottendono un approccio sistematico e rigoroso, ben evidenziato anche dal ricco dibattito intorno ai temi della catalogazione e conservazione del patrimonio fotografico.[1] Dopo le pionieristiche imprese di Silvio Negro e Lamberto Vitali, ancora negli anni Cinquanta[2], una delle prime iniziative storicamente rilevanti in tal senso fu la mostra dedicata ai Fotografi del Piemonte promossa dai Musei Civici di Torino[3] nel 1977. Fu quella la prima occasione per affrontare in modo innovativo e scientificamente accorto il discorso sulle origini della fotografia in questa regione e, più specificamente, sui destini del  patrimonio fotografico storico anche dei Musei Civici torinesi, in particolare del Fondo D’Andrade, poi proseguito nei decenni successivi con più sporadiche incursioni alternate a importanti indagini, inserite in più ampie e sistematiche ricostruzioni storiografiche, come quella condotta da Marina Miraglia[4] nel 1990, sino alla realizzazione del progetto di catalogazione analitica del fondo di stampe Gabinio[5] e ad una prima ricognizione sistematica[6] dei ricchi ed eterogenei fondi che costituiscono il patrimonio museale attuale, condotta da chi scrive nell’anno 2000,  che ha consentito di delinearne la ricchezza qualitativa e quantitativa in maniera esauriente sebbene non esaustiva, essendo quella ricognizione limitata ai soli esemplari conservati presso l’Archivio fotografico (AFFTM) ed i depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna.

I primi materiali fotografici entrarono verosimilmente nel Museo torinese già negli anni immediatamente successivi alla sua istituzione (1863), sotto forma di illustrazioni fuori testo di pubblicazioni artistiche, come i preziosissimi fascicoli pubblicati da Benjamin Delessert a Parigi nel 1853-1855 Notice de la vie de Marc Antoine Raimondi, ma anche di album fotografici dedicati all’illustrazione della città, come Turin ancien et moderne di Henri Le Lieure, 1867 (forse pervenuto per il tramite di Pio Agodino, primo Direttore del Museo e tra i redattori dell’album) così come alla riproduzione di opere d’arte contemporanea, sia in forma occasionale ed episodica legata a scambi di informazioni tra artisti e responsabili museali o a richieste di perizia e proposte di acquisto[7], sia in forma sistematica, frutto di precise operazioni editoriali quali l’album che Cesare Bernieri dedicava a L’opera pittorica di Massimo D’Azeglio, ancora del 1867. Fu questo un esempio  precoce dell’applicazione di questa tecnica alla riproduzione (e quindi alla diffusione e allo studio oltre che alla celebrazione) delle opere d’arte in un contesto come quello torinese particolarmente attento a questo ordine di problemi, come testimonia l’articolo che Carlo Felice Biscarra dedicò alla tecnica della Fotoglittica (Biscarra, 1870), vale a dire della tecnica di stampa meglio nota come woodburytipia (dal nome dell’inventore) che consentiva di ottenere stampe tipografiche di grande qualità dalle matrici fotografiche e che il fotografo Le Lieure “procuratasi testé con ingente somma (…) acquistando per tutta l’Italia il brevetto della recente invenzione (…) adoperata in Francia con esclusiva proprietà dal rinomatissimo editore Goupil, che vi ha consacrato ben mezzo milione di lire.”

Come si vede il tema era quello delle arti applicate all’industria, ben connesso alle questioni che erano state poste alla base della stessa istituzione del Museo Civico.

Ulteriori importantissimi documenti sono quelli connessi ad un altro degli ambiti canonici di applicazione della fotografia del XIX secolo, quello dell’architettura, in particolare in relazione con le prime iniziative postunitarie di riconoscimento e tutela dei ‘monumenti’ che coinvolsero – in relazione ai lavori della Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità – lo stesso Biscarra, Crescentino Caselli e Vittorio Avondo, i cui  beni pervennero al Museo per legato testamentario, ma anche Alfredo d’Andrade, il cui fondo – ricchissimo di fotografie – perverrà ai Musei nel 1931[8].

Alla fine del XIX secolo il dibattito sulla necessità della istituzione di archivi fotografici o Musei documentari fondati su di un utilizzo massiccio della fotografia era particolarmente pressante: alla Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tenne a Torino nel 1890 molti progetti e realizzazioni furono documentati fotograficamente,  mentre solo due anni più tardi si ebbe l’istituzione del Gabinetto Fotografico Nazionale con il compito di eseguire le riproduzioni del “materiale artistico mobile e immobile esistente nel Regno” (Brera, 2000, p. 14) e nel 1897 Giovanni Vacchetta, futuro direttore della sezione di Arte antica del Museo, elaborava per il Circolo degli Artisti di Torino un progetto di catalogazione del patrimonio piemontese  proponendo l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, che nella sezione V doveva ospitare “negative fotografiche”, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni. I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto ridotto infine alla formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.” (Albanese, Finocchiaro, Pecollo, 1990, p. 141) L’iniziativa non ebbe alcun seguito  sebbene la Sezione di Architettura del Circolo raccogliesse negli anni le fotografie presentate alle diverse esposizioni, poi cedute al Museo Civico nel maggio 1900.

A questa data esso era già certamente dotato di un piccolo nucleo di documentazione fotografica eterogenea, cui si era aggiunta la sistematica documentazione della sezione di Arte antica realizzata per la pubblicazione della cartella del 1905 (Museo Civico, 1905) in parte utilizzate anche da Pietro Toesca nel 1911, l’anno della grande esposizione del cinquantenario dell’Unità, e poi ancora nel primo volume della collana “Attraverso l’Italia” dedicato al Piemonte che il Touring Club Italiano pubblicò nel 1930.

Nel 1913, a tre anni dalla morte di Avondo, Vacchetta venne nominato Direttore della “Sezione Arte Antica e Arti Applicate alla Industria” del Museo Civico, per la durata di sei anni, mentre ad Enrico Thovez fu affidata la Pinacoteca moderna. Tra i primi atti di Vacchetta vi fu proprio l’istituzione di un primo nucleo di archivio fotografico con l’acquisizione  delle 463 lastre commissionate all’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo in occasione della realizzazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911, e successivamente di altre 126 riprese eseguite dagli Alinari nel 1912. (Albanese, Finocchiaro,  Pecollo, 1990, p. 193). Pochi mesi prima, il 30 gennaio,  Lorenzo Rovere aveva proposto alla SPABA di “raccogliere colla cooperazione di tutti i soci le fotografie dei monumenti d’arte e di antichità del Piemonte costituendo nella società un archivio fotografico.”[9]

Secondo la testimonianza di Vittorio Viale (Viale, 1933, p. 4) in questo periodo il Museo disponeva di circa 600 “lastre”, che costituivano “il maggior complesso di documentazione fotografica, che di monumenti e di oggetti d’arte del Piemonte sia liberamente a disposizione degli studiosi”, vale a dire di un primo nucleo non formalizzato di fonti fotografiche per lo studio del patrimonio artistico e architettonico piemontese, ben distinto in termini di funzioni e soprattutto di accessibilità dal pur ricco archivio che si stava costituendo presso la Regia Soprintendenza ai Monumenti del Piemonte, nuova (1916) definizione istituzionale dell’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti diretto da D’Andrade, attivato nel 1891.

Nel 1930 Vittorio Viale venne nominato nuovo Direttore. Dopo aver richiesto invano al Podestà l’autorizzazione all’acquisto di attrezzature fotografiche per poter documentare le collezioni senza più essere “alla mercé dei fotografi di professione”[10] il Direttore formalizzava l’istituzione dell’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino (1931) con una dotazione annua di L.8.000, con la quale avviava un’ulteriore campagna di riproduzione dei “principali quadri e i più interessanti oggetti del Museo torinese” (Viale, 1933, p. 5) orientando la propria attenzione al patrimonio museale esistente piuttosto che alla estensione della conoscenza del territorio,  confermando necessariamente le scelte che già avevano caratterizzato le precedenti iniziative di Avondo e la campagna realizzata da Augusto Pedrini per il volume di Mario Soldati, Galleria d’Arte Moderna del Museo Civico di Torino, edito nel 1927 ancora sotto la direzione di Lorenzo  Rovere.

Nel 1932 Viale presentava poi al Congresso SPABA di Cavallermaggiore la propria proposta di costituzione di un Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” (riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Vacchetta e Rovere, pur senza citarle) allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle Società di Studi, a rischio di dispersione. Nella stessa occasione invitava i soci a donare “le lastre, anzi le belle lastre, che ogni anno qui fra noi, studiosi e fotografi, eseguiscono per le loro ricerche archeologiche o artistiche.” (Viale, 1933, p. 5). Le sollecitazioni del Direttore non restarono senza risposta se negli anni immediatamente successivi confluirono nell’AFFTM le fotografie raccolte dalla SPABA (nel corso di una più complessa operazione destinata a preservare il patrimonio culturale della Società), quelle prodotte in occasione della Mostra della SS. Sindone, 1931, per iniziativa del conte Lovera, e verosimilmente anche quelle realizzate da Albert Erich Brinkmann per il volume Theatrum Novum Pedemontii. Düsseldorf: L. Scwann, 1931. A queste si aggiunsero progressivamente le riprese commissionate per le grandi esposizioni promosse da Viale quali Gotico e Rinascimento in Piemonte, Torino 1938-1939 e Vercelli e la sua provincia dalla romanità al fascismo, Vercelli 1939.

Nel 1940 l’AFFTM si arricchiva di parte dell’importante Fondo Gabinio, sebbene la totalità delle lastre acquisite fosse sottoposta a drastica selezione da parte dello stesso Viale, ancora insensibile agli autonomi valori espressivi fotografia,  ed anche il decennio successivo si presenta ricco di importanti acquisizioni (Nigra: 1940-1942; Rovere: 1950; Celanza: 1951) mentre nei primi anni Sessanta vennero commissionate quasi settemila riprese in vista della realizzazione della Mostra del Barocco piemontese, 1963.

Alla fine del mandato di Viale (1965) il patrimonio complessivo dell’ AFFTM era valutato in più di ventimila fototipi, ai quali si aggiunsero verso la fine del decennio (1968) i circa 6.500 negativi e positivi di Mario Gabinio pervenuti con la donazione Marcellino-Alessio, più altri tremila fototipi provenienti da commesse e doni diversi, non specificati dalle fonti (Mallè, 1970). Nei decenni successivi e sino ad oggi l’accrescimento del patrimonio fotografico è rimasto costante, sebbene le  commesse prevalgano sulle donazioni e i lasciti, tra cui meritano di essere segnalate le fotografie di Francesco Aschieri donate dopo il 1984 dalle eredi del fotografo, l’acquisto di un ulteriore importante nucleo di stampe di Mario Gabinio (1991) e specialmente l’acquisizione del notevolissimo fondo di Stefano Bricarelli, autorevole esponente della fotografia artistica italiana nel periodo compreso tra le due guerre mondiali (1997). In quello stesso anno venne acquisito anche l’importante l’archivio di studio di Augusta Lange, mentre nel 1998 entrarono a far parte del patrimonio dei Musei Civici venti stampe di Vittorio Sella, tra i più importanti fotografi di montagna tra XIX e XX secolo.

 

 

2- Derive e approdi

 

Le vicende che hanno portato alla conformazione e consistenza attuale del patrimonio fotografico dei Musei civici torinesi hanno lasciato tracce evidenti e ben riconoscibili nella sua stessa strutturazione archivistica: così se la maggior parte dei fototipi novecenteschi (negativi e positivi) risultano sistematicamente compresi in serie coerenti, riferibili a specifici fondi tematici, ad acquisizioni e lasciti, i materiali fotografici ottocenteschi presentavano e in parte presentano ancora improprie forme di aggregazione, che sono frutto di una sequenza di accorpamenti e smembramenti successivi che la tradizionale, storica disattenzione per il patrimonio fotografico, sino ad anni recentissimi ritenuto puro materiale di consumo, non sembra sufficiente a giustificare.

In particolare la ricognizione effettuata nell’anno 2000 ha fatto emergere la presenza di importanti serie di fotografie di architettura, riferibili alle campagne documentarie piemontesi di Berra ed Ecclesia del 1882 ed alla Prima Esposizione di architettura del 1890, suddivise impropriamente in fondi diversi così come è accaduto per altri documenti fotografici coevi, in particolare di documentazione delle opere d’arte, verosimilmente riconducibili ai primi e sostanzialmente ignoti momenti della formazione dello stesso patrimonio fotografico del Museo, per la gran parte riferibili agli anni della direzione Avondo (1890 – 1910), ma solo in piccola parte archiviati in forme tali da identificarne con sicurezza la provenienza, [11] mentre proprio la loro cronologia, le analogie tematiche e la presenza di sporadici indizi documentari sollecitavano la necessità di porli in relazione con le stampe fotografiche costituenti il fondo Avondo vero e proprio (per la cui descrizione analitica rimando al repertorio in catalogo), a sua volta suddiviso tra Archivio fotografico, Fototeca e depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna.

La presenza di un nucleo di ben precisa e definita paternità collezionistica, se non di chiara provenienza costituiva però l’elemento catalizzatore di ulteriori problemi: verificata rapidamente l’impossibilità di una ricostruzione documentale delle vicende di formazione e acquisizione del Fondo così come delle ragioni della sua disseminazione in (almeno) tre sedi, si poneva il problema della definizione della sua (ipotetica) consistenza originaria, della sua integrità e completezza. Se i numerosissimi ritratti in formato carte de visite e le vedute di località svizzere dovevano necessariamente avere una provenienza privata, la presenza di un ridotto numero di immagini di Issogne non poteva che essere indizio (e residuo) dell’importante e nota (Barberi, 1999) campagna commissionata ad Ecclesia, di cui il Fondo in sé conserva però scarse tracce, mentre nel patrimonio bibliotecario museale risultano presenti ben tre esemplari dell’album[12] che ne fu il frutto (in due diverse edizioni) e sempre riferibili ad Avondo, e ancora di Ecclesia, sono i due gruppi di Fotografie del Castello Feudale e del Borgo Medioevale di Torino, realizzate nel 1884 e riferibili piuttosto ai diversi ruoli e incombenze pubbliche di Avondo, cui pare di poter attribuire anche la responsabilità della presenza, in fondi diversi, delle fotografie presentate alla già citata Esposizione di Architettura del 1890[13].

Che dire poi della provenienza di altri nuclei di fotografie quali le anonime, bellissime immagini di campagna romana, pervenute anni orsono senza ulteriori indicazioni da Palazzo Madama, mai poste in relazione col nostro ma la cui genealogia culturale orientava inequivocabilmente e quasi obbligatoriamente agli anni romani di Avondo?

Alla sua figura di artista, collezionista e Direttore del museo erano inoltre riferibili le numerose  riproduzioni di opere d’arte, specialmente dipinti ottocenteschi e gli esiti della citata campagna documentaria per la pubblicazione del 1905, di cui si erano conservate alcune decine di stampe originali. Tutti indizi sufficienti a imporre con la dovuta evidenza la necessità di indagare più a fondo l’articolazione e la consistenza di questi materiali verificando la possibilità di ricondurli alla presenza e al ruolo di Vittorio Avondo, alla sua biografia artistica e professionale, procedendo all’identificazione delle vicende e degli elementi costituenti l’archivio per giungere a delinearne l’identità quale strumento ulteriore – ma imprescindibile – di tutela attiva ma anche di conoscenza del responsabile della sua costituzione, così come delle diverse forme della cultura fotografica, dell’agire storicamente con la fotografia; di come e per quali scopi venisse utilizzata nei personali percorsi di formazione e nella definizione e gestione di un museo di “arti applicate all’industria”; di come poi queste sue testimonianze venissero abbandonate e quindi ancor più che dimenticate: confuse e lasciate (andare) alla deriva.[14]

 

3- Artista e gentiluomo

 

“F: Firenze – Alinari – Via Nazionale 8, Roma, via del Corso 90 – fotografi.” Nello scorrere i superstiti taccuini di Avondo[15] questo è il solo riferimento presente. Certo non irrilevante, sebbene piuttosto scontato per un cultore delle arti belle quale lui fu, ma specialmente sorprendente considerando che della produzione del prestigioso studio fiorentino quasi non si trova traccia  tra i numerosi ed eterogenei documenti fotografici in diversa misura a lui riferibili.

I ritratti intanto, che scandiscono per rare tappe tutto l’arco della vita sua[16] a partire dal primo bellissimo, realizzato in due versioni (FVA064, FVA063) da Carlo Duroni[17] intorno al 1860  congiuntamente a quello dell’amica Marie Dunner (FVA0352), cui Avondo – in studiatissima posa di ‘artista da giovane’, forse appena tornato da Roma , doveva essere particolarmente affezionato se lo scelse per Telemaco Signorini[18] in quella consuetudine di scambio di carte de visite che costituiva uno dei gesti sociali più diffusi in ambiente borghese nei decenni immediatamente successiva alla seconda metà dell’800, quando la circolazione di queste immagini assurse a vero e proprio fenomeno di moda e tra le principali attività dei più noti studi fotografici (Sagne, 1994). Di circa dieci anni più tardi sono invece le due versioni di ritratto in piedi realizzate nello studio Fotografia dell’Alta Italia di Alessandro Guglielminotti nella stessa occasione in cui si fa ritrarre anche il padre Carlo (FVA032), forse a celebrazione e suggello di un evento particolare e a noi oggi non noto.

Sono riprese sostanzialmente coeve al ritratto a figura intera (FVA118) in elegante costume da “antico gentiluomo inglese” (Gribaudi Rossi 1979, p. 28; Dragone 2000, p. 120) realizzato da Giovanni Battista Berra nello studio Fotografia Subalpina, a celebrazione e ricordo dell’invito al gran ballo offerto dal duca Amedeo d’Aosta il 16 febbraio 1870, analogamente a quanto fecero moltissimi degli esponenti della nobiltà e della borghesia torinese allora presenti e le cui immagini, raccolte in un album poi donato all’ospite, ritroviamo in parte anche tra i documenti personali di Avondo, a testimonianza di legami solidi e duraturi come quello con Severino Casana, di cui si conservano sia il ritratto per il ballo, in coppia con la moglie in serissimo costume da fulmini con la scritta anticlericale “Ils ne blessent pas, ils ne sont pas du Vatican”, sia un più tardo e ufficiale ritratto da senatore del regno in una bella platinotipia dello Studio Bertieri.

La messa in scena, il tableau vivant offerto ad un pubblico più o meno ampio assumeva nella cultura dell’epoca significati diversi e non sempre per noi facilmente comprensibili e distinguibili, in elegante equilibrio tra culto esibizionistico di sé – basti pensare all’esempio clamoroso della contessa Verasis di Castiglione[19] – passione storicista e goliardia.  Riprese in studio e balli di corte certo, ma anche le feste in costume al Circolo degli Artisti e i Cavalieri del Bogo; gli orientalismi e il melodramma, gli Ordini cavallereschi, il neogotico e la riconsiderazione del medioevo: come stupirsi allora se per il Natale del 1872, nell’appena acquistato maniero di Issogne, Avondo, D’Andrade, Pastoris e i due Giacosa festeggiarono vestendo “maglie e corazze e cotte sdrucite d’uomini d’arme così, per il piacere di guardarsi assaporando nell’ondeggiar delle lanterne e del focolare lampi di realtà che li colmavano di deliziosi brividi.”[20] Un bellissimo regalo di Natale, fanciullesco e giocoso ben oltre i programmi culturali, cui per altro nessuno intendeva rinunciare, assumendo comportamenti che a noi oggi paiono inconciliabili, ma a cui vanno assegnate anche altre vicende tipiche di questo gruppo di artisti e intellettuali, quali la decorazione di poco antecedente (1866) di una sala del castello di Lozzolo, realizzata mentre intorno le cose “andavano ad magnam meretricem”[21], ma di cui possiamo ritrovare traccia anche nelle cronache intorno ai ben altrimenti fondati interventi per il restauro di Issogne (contro la teatralità di più illustri esempi francesi) e per la  realizzazione del Borgo medievale per l’Esposizione del 1884.[22]

È una trama di relazioni e amicizie che troviamo illustrata, restituita in immagine nella ricca serie di ritratti conservati nel fondo, in parte raccolti da Avondo, come allora era uso, in un album[23] tascabile di carte de visite, quasi un piccolo oggetto devozionale, un pantheon personale e affettivo le cui presenze, troppo consuete e vicine, non necessitavano di identificazione scritta: D’Andrade, a Roma nel 1862, e  Bertea,  fotografato a Parigi da Disderi tra i primi, quindi una serie di presenze per noi prevalentemente anonime, specialmente quelle femminili; oggi figure mute ma non per questo meno interessanti e significative nelle loro caratteristiche di insieme, nel loro essere rappresentazione corale di un’élite composita ma chiaramente identificabile, definita[24].

Col ritorno da Roma nell’anno della proclamazione dell’Unità Avondo avviava la propria sistematica partecipazione, anche istituzionale, alle vicende della cultura artistica torinese: da subito membro del Circolo degli Artisti,  nel 1863 venne chiamato a far parte del Giurì del nascente Museo Civico[25], nel cui Comitato direttivo siederà dal 1870, anno in cui partecipò anche ai lavori della Commissione per l’individuazione dei monumenti nazionali, segretario Biscarra, poi (1874) a quelli della Regia commissione conservatrice provinciale con Severino Casana, Ariodante Fabretti, Crescentino Caselli, Riccardo Brayda, Pietro Vayra e  Carlo Ceppi (Volpiano, 1999, p. 48). Nel 1880 venne coinvolto, nella duplice veste di collezionista e di membro della Commissione nella preparazione della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, mentre ben noto è il ruolo da lui svolto nella messa a punto del progetto per la successiva Esposizione del 1884.

Può essere fatta risalire alla fine di questo decennio l’altra rara serie di ritratti di quest’uomo di “natura altera e alquanto bizzarra” (Rossi, 1912,p. 3) che Luigi Cantù, dal 1889 collega di Avondo nel Comitato del Museo[26], realizzò nella forma della sequenza, muovendo intorno al soggetto, seduto e col sigaro tra le dita, quasi una rievocazione dei primi suoi ritratti eseguiti da Carlo Duroni, in una relazione palese di grande familiarità, lontanissima dall’ufficialità distante del suo ultimo (S48-05 fot 207), realizzato nel 1908 da Oreste Bertieri[27]: quello stesso che Thovez sceglierà per aprire la monografia del 1912.

 

4 – Motivi per ricordare

Forse è ancora troppo presto, nel 1852, perché il giovanissimo Avondo acquisti fotografie nel corso dei viaggi compiuti in Toscana al seguito dei genitori; compilerà invece degli album, con piccoli paesaggi dove “il disegno a matita, ingenuo e malfermo (…) rivela il principiante.” (Maggio Serra, 1997,p. 64). Deciderà poi, come è noto, di recarsi a Ginevra per studiare presso “l’inevitabile Calame” (la definizione è di Marziano Bernardi[28])  facendovi base almeno sino all’aprile del 1857, ma da qui compiendo numerosi viaggi: non solo brevi puntate a Torino, ma anche in Savoia e nel sud della Francia – come documentano i taccuini e le opere esposte alla Promotrice del 1856 (Signorelli, 1997,p. 25) – e forse a Parigi per l’Esposizione del 1855: viaggio mitico di cui non restano tracce documentali dirette, esplicite.[29]

“Il Fontanesi e l’Avondo avevano avuta la rivelazione [della nuova pittura di paesaggio] dalla mostra di Parigi del 1855 (…) L’Avondo visitò l’Esposizione parigina e vi conobbe la scuola del trenta: Corot, Daubigny, Rousseau, Huet, Dupré: ritornò a Ginevra sconvolto da  quella visione di un’arte più libera e vera, più profonda e potente. Non nascose al Calame la sua meraviglia; ed egli amava raccontare, sorridendo, come il Calame fosse rimasto quasi offeso da quell’entusiasmo”. Così ricorderà Thovez nel 1912, e non c’è ragione di non credergli viste le sue opportunità di frequentazione diretta, sebbene poi proprio dell’incontro con la metropoli del XIX secolo nulla rimanga: non un appunto, un piccolo disegno, una qualsiasi veduta urbana tra le sue carte; restano però ben quattro ritratti nel formato carte de visite realizzati da altrettanti studi parigini[30].

Anche di altri luoghi canonici di quei suoi anni di peregrinazioni formative restano tracce scarse o nulle, quasi tutte nell’allora diffusissima forma della stereoscopia: nessuna veduta di Ginevra risulta superstite, ma troviamo immagini dei castelli di Chillon e Thun, realizzate dal fotografo ginevrino Joseph Florentin Charnaux, ed una veduta di Losanna col campanile della cattedrale che svetta sui tetti delle case, soggetto cui sembra riferibile anche un piccolo disegno a matita compreso nel lascito ai Musei civici (inv.fl/574), oltre ad alcune vedute di Friburgo (FVA0523-25), dell’ Oberland bernese[31]e delle cascate del Reno a Sciaffusa, compresa questa  nell’importante serie di Views of Switzerland and Savoy  realizzata da  William England nel 1863, cioè in una data successiva al soggiorno ginevrino di Avondo.

E poi l’Italia: dalle montagne della Valle d’Aosta a Pisa e Firenze, quindi  Ceccano e Roma e Pompei: elementi di una serie di stereoscopie edite da Richter di Napoli che di fatto rappresentano i soli monumenti archeologici documentati nel fondo.

 

4.1 – Immagini della Campagna romana

Ammesso che il fondo ci sia pervenuto integro, sono veramente pochi i ricordi fotografici rimasti dei diversi viaggi compiuti da Avondo, che ci appare legato alla memoria delle persone piuttosto che dei luoghi. Quando la sua attenzione ne è attratta le ragioni si presentano  diverse, immediatamente artistiche, legate alla comprensione problematica ed alla restituzione sentimentale del paesaggio, al confronto col vero, all’esercizio della pittura: in questo il biennio 1855-57 si presenta cruciale.

Pur non essendo documentalmente confermata l’esperienza parigina e il conseguente “incontro sconvolgente con la pittura naturalistico-romantica dei Barbizonniers” (Maggio Serra, 1997, p. 70) è impossibile non riconoscere nell’andamento dei disegni come dei dipinti successivi a quella data l’accadere di una qualche esperienza decisiva, da collocarsi necessariamente in questo ristretto arco di tempo. Avondo è a Roma forse nel 1856, certo dal ’57 e pare rimanervi sino ai primi mesi del 1861, anno in cui entra a far parte del Circolo degli Artisti (Volpiano, 1999, p. 46) sebbene sia certa la sua presenza a Torino già all’inizio di luglio del 1860, quando incontra Telemaco Signorini reduce da Pozzolengo (Dini, 1997, p. 269) e poi ancora ad ottobre, quando effettua un prestito in denaro (Signorelli, 1997, p. 14). Primo esito pittorico dell’esperienza romana fu Effetto di mattino nella valle di Ariccia esposto alla Promotrice torinese dello stesso anno, mentre nel 1861 invierà Scirocco nella campagna romana;  a quel periodo appartengono anche Tramonto sul Teverone e Teverone, nei quali “la scelta in direzione verista appare già compiuta” (Maggio Serra, 1997, p. 70). Sono questi i primi “bellissimi studi dal vero della campagna romana” cui si riferirà Thovez nel 1912,  “mirabili per larghezza di sintesi e per economia di mezzi”,  sottolineando per primo quella sostanziale mutazione di modi espressivi che costituirà da allora un punto fermo nella comprensione critica del percorso artistico di Avondo; giudizio confermato a decenni di distanza da Rosanna Maggio Serra che ha parlato a questo proposito di “struttura compositiva e tavolozza ridotte all’essenziale”, riconoscendone la genesi proprio in quegli studi di Campagna romana da lei così attentamente studiati[32] e collocati cronologicamente in un arco di tempo compreso tra 1857 (Gruppi C, D) e 1865 (Album nn.4, 14, Gruppi F, G, H), studi che sembrano preludere, o almeno letteralmente anticipare le opere presentate nei decenni successivi, a partire dal 1866,  alle diverse esposizioni torinesi del Circolo degli Artisti e della  Promotrice delle Belle Arti, in una sequenza che pare fluire morbidamente senza soluzioni di continuità, scandita da apprezzamenti e letture che colgono la sensibilità di questa “anima intuitiva, che vibra (…) alla linea vasta della bella natura” (Mario Michela, 1880, in Di Macco, 1997, p. 49), confermando la sua capacità di realizzare opere in cui “si respira l’incanto della campagna laziale, pregna di storia e poesia secolare.” (Maggio Serra, 1997, pp. 71-72)

La loro cronologia offre spunti per considerazioni interessanti: quasi tutti i dipinti infatti sono stati realizzati a distanza di anni, di decenni anche dal soggiorno romano, confermando un’osservazione non proprio innocente di Thovez per il quale Avondo “aveva studiato così acutamente il vero, che poté concedersi il lusso di lavorar completamente di maniera, pur riuscendo spesso a  una verità maggiore di molti veristi”, seguito in questo da Marziano Bernardi che nel 1936 parlava di “rari quadretti (…)  elaborati a distanza d’anni su ricordi della campagna romana.” (1936, pp.n.n).

Si tratta certo del metodo consueto della rielaborazione in studio di bozzetti e disegni realizzati en plein air: all’Ariccia,  a Cervara, lungo il corso del Tevere, al Casale della Crescenza e così via, ma è ancora Thovez a ricordare, sempre nel 1912,  come “lasciando Roma [dove Avondo aveva creato “forse le sue cose più belle”] fece, come era uso fra gli artisti di quel tempo, una vendita di tutte le cose sue: i documenti più preziosi dei suoi studi dal vero andarono così in molta parte dispersi.” Dato interessante, informazione utile che potrebbe dar conto delle ragioni dell’imponente lacuna cronologica nelle testimonianze grafiche oggi note, datate o databili – come si è visto – al 1857 e al 1865, non solo escludendo così quasi l’intero periodo della sua permanenza (1857-1860) e della possibilità di praticare l’osservazione dal vero, ma confermando per converso la tradizione di una redazione dei disegni e più ancora dei dipinti condotta in forma più che indiretta.

Per comprendere la novità non solo individuale della sua pittura, di quella  sua capacità di imprimere ai “paesaggi una poesia così tranquilla [in cui] le lontananze sono così artisticamente ondulate, l’aria così diafana, l’erba così molle (…).” (Pietro Giacosa, 1870, in Signorelli, 1997, p. 18, nota 60), quella sua “lunghezza infinita di sguardo che ricerca il colore dell’aria” (Maggio Serra, 1997, p. 72) può non essere sufficiente  allora tener conto delle influenze degli artisti e delle opere incontrate tra Roma e Firenze: Nino Costa, certo, affettuosamente ricordato anche nel rifugio di Lozzolo (Dragone 2000, pp. 74-75) e già in contatto con Enrico Gamba, e poi Mariano Fortuny, a Roma dal marzo 1858, e ad alcuni artisti inglesi come G.H. Mason e Charles Coleman, di cui Avondo possedeva piccole opere[33] ma che certo non possono essere chiamati a sostenere la sua svolta espressiva.

I tempi e i modi del suo operare, così come gli esiti delle opere ci portano, ci obbligano quasi a considerare una più ampia trama di relazioni e suggestioni, a riflettere sulle conseguenze dell’incontro con i luoghi rappresentati, sullo scegliere e quasi sull’essere scelti da quel paesaggio di campagna romana che aveva attratto allora diverse generazioni di pittori[34] e che proprio in quegli anni veniva nuovamente rivelato dai più sensibili esponenti della cosiddetta Scuola fotografica romana[35], anch’essi frequentatori del Caffé Greco, come Costa, come Ippolito Caffi, tornato a Roma nel 1855 dopo aver soggiornato anche a Torino (Pirani, 2003, p. 43) e in stretta relazione di amicizia con uno dei più importanti fotografi della Scuola, il padovano Giacomo Caneva.

Non diciamo nulla di nuovo richiamando le forti intersezioni e influenze, reciproche, tra fotografia e pittura per gli artisti ottocenteschi. Ben prima delle indagini di Schwarz, delle sintesi estreme di Mollino e delle più tarde sistematizzazioni di Scharf[36], Telemaco Signorini riconosceva che “la macchia (…) nacque nel 1855 da tre artisti e non dei peggiori in  Italia, coadiuvata dalla fotografia, invenzione che non disonora poi il nostro secolo e non ha colpa nessuna se qualcuno decade in arte abusandone”[37], ed alla stessa sensibilità credo debba essere assegnata la scoperta entusiasta che Saverio Altamura di ritorno da Parigi faceva del “ton gris” di Decamps, ottenuto con “uno specchio nero che, decolorando la natura, permettere di cogliere la totalità del chiaroscuro, la macchia”[38], abbandonando la ricerca ostinata, analitica del dettaglio, analogamente a quanto andavano facendo i primi fotografi che lasciavano la precisione ottica del dagherrotipo per misurarsi col calotipo, avvalendosi di tutte le possibilità espressive e interpretative fornite dal negativo di carta e dai diversi possibili trattamenti delle carte di stampa. Già nel 1851 il critico Francis Wey in un articolo sul periodico parigino “La Lumière” aveva notato come “La photographie est, en quelque sorte, un trait d’union entre le daguerréotype et l’art proprement dit. Il semble que passant sur le papier, le mécanisme se soit animée. (…) la photographie est très souple, surtout dans la reproduction de la nature ; parfois, elle procède par masses, dédaignant le détail comme un maître habile, justifiant la Théorie des sacrifices, et donnant ici l’avantage à la forme, et là aux oppositions des tons.”[39] Molti autori francesi avevano adottato la nuova tecnica, da Le Gray a Le Secq, da Marville  a Joseph Vigier, realizzando études  che sono vere e proprie raccolte di soggetti d’après nature destinati agli artisti[40], come quelle che Louis-Désiré Blanquart-évrard pubblicava a Lille nel 1853 -54 (Jammes, 1981, p. 73).

È quella stessa attività cui si era dedicato l’ancora misterioso Firmin Eugène Le Dien[41] ma soprattutto Giacomo Caneva, a Roma dal 1839 dove aveva esercitato per alcuni anni l’attività di pittore[42] prima di passare alla fotografia, attività in cui  “allontanandosi dagli intenti ‘monumentali’ e vedutistici della fotografia dell’epoca e della ‘Scuola romana’ di fotografia in particolare – ci mostra, negli interessi al paesaggio e alla campagna romana, uno degli aspetti della sua attività, in genere poco studiato ma fra i più stimolanti del suo percorso (…) con esiti di grandissima qualità anche emotiva, confermati da numerosi altri soggetti fra loro coerenti, come studi di piante, di rocce e di fogliami, ripresi nel verde delle ville di città e nella campagna, a Castelfusano e a Ostia.” [43]

Nel 1850 Caneva pubblicava una prima raccolta dedicata a Roma in fotografia 12 Tavole per 8 scudi romani / Ogni tavola separata Otto paoli cui farà seguire nel  1855 un’altra serie di Vedute di Roma e dei contorni in fotografia. È lo stesso anno della pubblicazione del suo Della fotografia. Trattato pratico. Roma: Tipografia Tiberina, considerato il primo testo organico redatto in italiano, in cui analizzando in termini di coerenza espressiva le diverse tecniche allora disponibili riconosceva come “del contrario [al vetro] le negative su carta danno tutta la scabrezza, la ruvidità e la immensa varietà dei toni della natura. (…) E il paesaggio, i monumenti antichi, le rocce ecc. ecc. converrà sempre trarle con carta”[44],  eventualmente “servendosi d’uno sfumino in carta e della piombaggine, [per] comporre un cielo, dar prospettiva aerea ed effetto a una negativa che manchi di tali prerogative.” (Caneva, 1855, pp.11, 50).

È alla seconda di queste due serie che devono essere verosimilmente assegnate buona parte delle trentasette stampe su carta salata, cerata o albuminata, oggi presenti nel fondo Avondo, molte delle quali ritraggono proprio quella  “pianura povera e brulla che altri non avrebbe degnato di uno sguardo”, che tanto aveva affascinato Vittorio Turletti nel 1874, posto di fronte all’avondiano Di mattina.[45]  Sono fotografie che Avondo doveva considerare importanti o quantomeno utili e ancora utilizzabili se al momento della sua partenza da Roma decise di non separarsene, di tenerle con sé per il resto della sua vita. Fotografie che oggi sembrano costituire l’elemento sinora ignoto, nascosto come la lettera di Poe, per procedere ad una migliore comprensione della sua vicenda pittorica.

È la sola loro presenza – in quanto fotografie – che già ci consente di riconsiderare alcune sue soluzioni stilistiche: non mi riferisco solo ad un comporre che procede per masse ed alla significativa riduzione della gamma cromatica, che tanto deve alla resa tonale propria delle diverse varianti del calotipo, penso anche all’ampiezza quasi grandangolare di molte vedute, non solo in disegno; all’uso non infrequente di contrasti luminosi marcati e in particolare del controluce, quale lo vediamo nel piccolo carboncino Osteria di papa Giulio fuori porta del popolo [sic] o Nei Prati di Castello (Bernardi, 1936, t.23) e specialmente nel piccolo olio compreso nel lascito ai Musei in cui il motivo del profilo urbano da cui emergono le cupole adotta una formula analoga a quella utilizzata da Edgar Degas, Roma vista dalle sponde  del Tevere, 1857ca.[46] Il confronto sistematico tra queste fotografie ed il corpus complessivo della produzione grafica di Avondo, reso possibile dalla schedatura su supporto informatico redatta da Chiara Maraghini per la direzione di Virginia Bertone, consente di individuare elementi ricavati da singole fotografie e restituiti con differenti gradi di rielaborazione in numerosi disegni e dipinti[47], come accade ad esempio per le suggestioni fortemente materiche che rendono per noi così affascinanti molte di queste fotografie e che riconosciamo nel piccolo olio su carta Sul Teverone  (inv. P/865) come nel più tardo Afa, 1885 (Thovez, 1912, t.24). In altri casi poi il riscontro è immediato, puntuale: si confronti il disegno de Il Teverone a nord di Roma (inv. fl/447) con la Veduta del Tevere a nord di Roma (FVA590) o ancora la parte destra dell’altra fotografia del Tevere a nord di Roma col disegno Teverone e cupola (inv. fl/571), ma soprattutto Nella valle del Pussino, 1874, oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, con Campagna di Roma. La Crescenza detta Valle di Pussin fuori Porta del Popolo [sic] che è una delle più note immagini di quello stesso Caneva, cui si devono anche le vedute precedenti, che Avondo acquistò dallo stesso fotografo o più probabilmente da Cuccioni, editore per cui Caneva lavorava e di cui il fondo conserva anche un album litografico di costumi romani.[48]

L’interesse forse non solo strumentale di Avondo, come di molti pittori suoi contemporanei, per la produzione fotografica è del resto testimoniato anche dalle due bellissime riprese di soggetto fiorentino (FVA606, 607), anonime, ma che per caratteristiche tecniche e livello qualitativo possono essere avvicinate alla produzione di John Brampton Philpot (Falzone del Barbarò, 1989) così come da alcuni disegni che rimandano ad immagini note ma non più presenti nel fondo quali la Passeggiata lungo il Tevere, con S. Pietro (fl/452), che ripropone graficamente uno dei luoghi canonici del vedutismo fotografico romano[49], di fortuna analoga a quella Veduta del Vicolo Sterrato che costituisce il tema non dichiarato di uno dei disegni pubblicati da Italo Cremona (1946, p. ix), a sua volta direttamente derivato da una fotografia di autore non identificato[50] e oggi non presente in collezione.

 

5 – “Le antichità gli furono assai più care dell’arte”  (Thovez)

Il ritorno a Torino corrispose per Avondo ad un coinvolgimento totale nella vita artistica e culturale della città, dal Circolo degli Artisti alla Società Promotrice delle Belle Arti al nascente Museo Civico sino alla collaborazione con l’Accademia Albertina (1870), da cui derivò immediatamente l’invito a far parte della Commissione consultiva per i monumenti nazionali d’antichità e belle arti (Vitulo, 1997).  Tra gli edifici indicati venne compreso anche il castello di Issogne, che Avondo aveva segnalato nel 1871 e acquistato nel 1872, già oggetto di vivo interesse da parte di numerosi artisti piemontesi sin dai primi anni ’50 (Dragone, 2000, p. 65-66) e ancora pochi anni prima (1865, 1868) una delle mete scelte da Pastoris e D’Andrade.[51]

Il suo inserimento nell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  ne determinò pochi anni dopo la prima sistematica documentazione fotografica, condotta nell’ambito della campagna promossa – su richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione – dalla Commissione conservatrice dei monumenti di antichità e d’arte della Provincia di Torino, di cui Avondo faceva parte dal 1876,  che dopo una prima ipotesi  non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” (18 giugno 1881) aveva deliberato di assegnare l’incarico a due dei migliori professionisti piemontesi: Giovanni Battista Berra[52] per il circondario di Torino e Susa e Vittorio Ecclesia[53] per il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli.[54]  Circa un anno più tardi, il 24 agosto 1882 Federico Pastoris, ospite a Issogne, scriveva ad Avondo comunicandogli che la campagna era in corso: “Ecclesia aveva eseguito otto foto per il Ministero e quattro per conto suo «e fece bene, perché son certo che a quanti le vedranno piaceranno assai e serviranno a dare del tuo castello un’assai buona idea»”[55]. Avondo fu però di parere nettamente diverso, tanto da diffidare formalmente il fotografo presso la Regia Pretura di Asti affinché non “vengano poste in commercio, né sieno in alcun modo pubblicate le fotografie da esso Signor Ecclesia ricavate nell’interno del Castello d’Issogne”, ciò specialmente in virtù dei danni che ne sarebbero derivati “in conseguenza della pubblicazione di dette fotografie, la quale lo pregiudicherebbe sicuramente nell’utile che egli solo intende ed ha diritto di ricavare dalla riproduzione in qualsiasi modo della sua proprietà d’Issogne.”[56] Come accadde in altre occasioni della sua vita fu nell’attenta valutazione dell’utile che se ne poteva ricavare che Avondo collocava il limite alla propria liberalità culturale, sebbene non dovesse dispiacergli l’occasione, e la possibilità di celebrare in certa misura il decennale dell’acquisto del castello, dei suoi interventi di restauro conservativo[57] come dei criteri e degli esiti del suo riallestimento quasi filologico.

Forse anche per queste ragioni il contenzioso venne risolto due anni più tardi con la stipula di uno specifico contratto che prevedeva la realizzazione di “due opere artistiche da mettersi in vendita in forma di Album con vedute fotografiche tratte dal detto Castello, l’uno di n. 20 fotografie della grandezza di 21 per 27 centimetri l’altro di 13 per 18 centimetri. (…) Il costo dei vetri, clichets, sui quali il Si.r Ecclesia Vittorio ha fatte le negative in n. di settantadue è a spese comuni” , così come la stampa e la confezione degli album e delle singole stampe da mettersi in vendita “nonché le spese necessarie per prenderne la privativa dal Governo” cioè  per la “tutela della proprietà artistica”;  Ecclesia era inoltre incaricato della vendita, i cui proventi dovevano essere divisi mensilmente. Alla scadenza quadriennale “essendo le negative di proprietà comune si dovranno vendere al miglior offerente, nonché gli album e copie in fotografia che potessero rimaner invendute, ed il Signor Ecclesia Vittorio non potrà più d’allora in poi produrre, né vendere vedute del detto Castello senza il consenso del Cav.re Vittorio Avondo.” [58]

La realizzazione procedeva speditamente affidando alla  Tipografia e Litografia Camilla e Bertolero di Torino  la tiratura di 500 più 500 copie del testo,  firmato da Giuseppe Giacosa, stampato  nei due diversi formati, grande e piccolo, “compreso lo stemma in litog. a 3 colori” e già nel maggio 1884 Ecclesia poteva vendere il primo “album piccolo senza copertina e senza testo [e] un album gran formato con la copertina e testo.”[59] Alla Libreria Francesco Casanova venivano poi lasciati in deposito alcuni esemplari, per la gran parte invenduti dopo cinque anni[60], nonostante la grande qualità delle riprese di Ecclesia, attento sempre a restituire dinamicamente i rapporti volumetrici tra le diverse parti del castello, mediante l’utilizzo sistematico di sapienti accorgimenti quali il fotografare interni ed esterni tenendo sempre le porte aperte, a mostrare o suggerire almeno le connessioni spaziali tra i diversi ambienti, come farà più di un secolo dopo anche Luigi Ghirri (Cavanna 1999), ma non dimenticando – forse su suggerimento dello stesso Avondo – quelle suggestioni medievaleggianti che qui lo portarono ad introdurre un armigero poggiato al bordo della fontana del melograno, analogamente a quanto andava facendo nello stesso anno nelle riprese del Borgo Medievale[61], animate da personaggi in costume. Ritroviamo qui – in forme diverse –  quella apparente oscillazione del gusto che tanta parte aveva nella cultura di questi intellettuali, quella stessa che aveva prodotto anche il Ritorno dalla Terra Santa di Pastoris (1880) in cui si ritrovano felicemente coniugati il realismo analitico della precisione descrittiva delle architetture e dei decori del cortile del castello e l’immaginario storicista della scena. Sarà quella stessa cultura visiva che verrà ripresa e sviluppata da Edoardo di Sambuy nel 1898, quando si spinse sino alla citazione letterale di Ecclesia variandone però significativamente il trattamento, la resa: qui sono le figure in costume a divenire il soggetto principale e il centro d’attenzione[62]; il punto di vista è abbassato, solo i primi piani sono a fuoco e l’elemento architettonico è ormai trasformato quasi in fondale scenografico. Sono immagini che costituiscono la prima concreta testimonianza piemontese di quel passaggio dalla riproduzione alla fotografia artistica che sarà sancito dall’Esposizione internazionale del 1902, di cui lo stesso Di Sambuy fu direttore artistico.

Se il successo commerciale degli album fu ridottissimo le immagini di Ecclesia ebbero invece ampia circolazione, sebbene in forme certo più soddisfacenti per il committente che per il suo autore: la seconda edizione del volume di Giuseppe Giacosa dedicato ai Castelli Valdostani e Canavesani, pubblicato a Torino da Roux e Frassati nel 1898 era corredata da  illustrazioni di Carlo Chessa (1855 – 1912) ricavate dalle sue fotografie, ma già prima, nel 1896 lo studioso francese  Robert Forrer (1866 – 1947), che aveva visitato Issogne nell’ambito di una sua più ampio studio delle residenze castellate[63], aveva pubblicato a Strasburgo illustrandolo con 12 stampe anonime tratte dalle fotografie di Ecclesia, il suo Spätgothische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne, certo per accordo con lo stesso Avondo, che ne disponeva di copie per la vendita in Italia.[64]

In questa comunanza di interessi collezionistici e museografici si collocava il commento introduttivo di Forrer, per il quale  “il castello costituisce  un vero e proprio repertorio per l’industria delle arti applicate, per coloro che intendano allestire ambienti in stile gotico, restaurare manieri antichi o realizzarne dei nuovi in stile a scopo abitativo o museale” (citato in Barberi, 1997, p. 146), richiamando così e riconfermando il senso del favorevole commento pubblicato da Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux- Arts” a proposito dell’Esposizione di Torino del 1880, che aveva avuto Avondo tra i membri della Commissione ordinatrice[65], in cui la disposizione degli oggetti si presentava come nella casa di un uomo di gusto «quand on entre, on est touché par une sorte d’armonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les œuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite.» (in Di Macco, 1997, p. 53).

Alla morte di Emanuele Tapparelli d’Azeglio nel 1890 Vittorio Avondo venne nominato direttore del Museo Civico e quindi chiamato a far parte della Commissione della II sezione, di Arti applicate, della Prima Esposizione italiana di Architettura, promossa dalla corrispondente Sezione del Circolo degli Artisti (Volpiano, 1999,pp. 89, 107 nota 28), tappa importante di un processo di trasformazione che coinvolgeva contemporaneamente  la ridefinizione del ruolo culturale e professionale dell’architetto così come dello studio e della comunicazione dell’architettura in una società industriale.

Nel 1884 la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani, che si tenne a Torino in occasione dell’Esposizione Generale Italiana aveva affidato al Collegio torinese il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[66], iniziativa che ebbe quale primo esito la donazione da parte di Camillo Riccio dell’album  contenente i progetti di tutti gli edifici da lui realizzati per l’Esposizione, ancora oggi conservato al Circolo degli Artisti, cui fece seguito nel 1886 la richiesta avanzata al Ministero della Pubblica Istruzione di poter organizzare una “speciale esposizione di opere architettoniche”. In occasione del successivo Congresso di Venezia del 1887 il Collegio torinese fu quindi in grado di presentare il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale: esso era costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”

In quello stesso anno maturava la decisione del distacco dalla  Società degli ingegneri e industriali e la costituzione della Sezione di architettura del Circolo degli Artisti, che continuava ad arricchire – come ricordava Mario Ceradini nel 1890 – “il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, mentre prendeva forma l’idea della grande esposizione di architettura, poi inaugurata nel febbraio del 1890 sotto la presidenza di Giovanni Angelo Reycend, vicepresidente della Società degli Ingegneri e presidente della stessa Sezione, proprio nel palazzo progettato da Camillo Riccio per la Sezione di Belle Arti della precedente Esposizione del 1884.

Mentre in ambito disciplinare fu di grande rilevanza l’apertura ai temi urbanistici, in termini di strumenti per la divulgazione e lo studio, di comunicazione quindi, la grande novità – non per tutti positiva[67] – era costituita dal definitivo ricorso alla fotografia, che già aveva svolto un ruolo determinante nelle Esposizioni precedenti e nell’allestimento museografico del Museo Regionale e che confermò qui le proprie rilevanti potenzialità documentarie, ampiamente testimoniate non solo dalla ricca sezione dedicata alle pubblicazioni con opere di Secondo Pia, Vittorio Ecclesia , Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet (mentre mancavano gli Alinari), ma anche dalla grande quantità di fotografie esposte nella divisione di “edilizia moderna”, dedicata alle urbanizzazioni di “oltre cinquanta città europee ed extraeuropee”, e da quelle regioni come la Lombardia e l’Emilia che esponevano esempi di documentazione fotografica del proprio patrimonio architettonico o di importanti restauri, come quello della Basilica di San Marco.

Il successo dell’iniziativa fu tale da indurre il Ministro Boselli a chiudere la manifestazione dichiarando l’intenzione di renderla permanente, conservando parte dei materiali governativi e sollecitando la generosità di municipi e privati. La proposta venne immediatamente fatta propria dal Comune di Torino che offrì la sede procedendo anche alla nomina di un comitato per la messa  a punto di un progetto di regolamento, ma il Museo non  venne mai realizzato.

Le dotazioni dapprima confluite al Circolo degli Artisti, consentendo così a Vacchetta – come si è detto – di formulare l’ipotesi di istituirvi nel 1897 un  “Museo Piemontese di Architettura”, vennero quindi donate, nell’aprile dell’anno 1900, tranne i disegni e i libri appartenenti alla Biblioteca,  al Museo Civico di Architettura “con che nel Museo ciascun oggetto porti una targa colla scritta ‘Dono del Circolo degli Artisti – Sezione Architettura” (Atti Municipali, 1900, II, p. 817). Avondo, chiamato a norma del nuovo regolamento ad esprimere un parere valutava positivamente la donazione, che avrebbe potuto trovare “appropriata sede nell’edificio già delle Belle Arti al Valentino, dove si trovano i calchi di Bari” e nella successiva seduta del 5 maggio  la Giunta comunale approvava “con riserva di provvedere (…) all’allestimento del locale.” (ibidem).

Entrarono così  a far parte del patrimonio del Museo Civico anche decine e decine di fotografie, da allora collocate e forse dimenticate nei depositi di Palazzo Madama, sebbene ne facessero parte, insieme ad importanti esempi della migliore produzione internazionale dell’epoca, intere serie documentarie realizzate dai più autorevoli fotografi italiani: dai palazzi veneziani fotografati da Paolo Salviati alle architetture ferraresi minuziosamente descritte da Pietro Poppi (Fotografia dell’Emilia), dalla campagna documentaria sul patrimonio monumentale friulano di Antonio Sorgato alle affascinanti vedute siciliane di Giuseppe Bruno: un primo reale nucleo di collezione e di archivio fotografico di cui nessuno dei direttori successivi seppe riconoscere l’interesse e il valore.

Quelli dal 1890 furono per Avondo anni di ben diverso impegno, dedicati a questioni di ben maggiore  importanza, connesse alla necessaria separazione fisica delle due sezioni di cui era costituito il Museo. Col completamento dei lavori di adattamento della palazzina della Esposizione operaia realizzata per l’Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880 e il successivo  trasloco nell’aprile 1895 si imponeva la necessità di una revisione museografica degli allestimenti, condotta in tempi rapidissimi e che ottenne il plauso del Comitato direttivo, Sezione Arte antica, invitato da Avondo nel dicembre dello stesso anno a “fare un giro per le sale del Museo onde riconoscere il modo in cui vennero esposte le varie collezioni e anche il modo in cui furono spese le somme (…) compiuto questo giro tutti i consiglieri si congratularono vivamente col Comm. Avondo pel modo razionale ed artistico con cui le collezioni vennero ordinate.” [68] Un esito così apprezzato comportava, imponeva quasi il progetto di “una pubblicazione che illustrando il museo lo renda sempre più praticamente utile (…) e che possa apparire nella prossima Esposizione Nazionale di Torino, quale un nuovo importante documento del progresso artistico della nostra città.” (in Pettenati, 1997, p. 97) rimeditando certo su modelli stranieri ben noti, ma anche in implicita competizione con quanto andavano realizzando negli stessi anni e con identici scopi altre importanti istituzioni torinesi quali l’Armeria Reale (Cavanna 2003). Soprattutto interessante il ricorrente richiamo alla funzione di pratica utilità che ancora si riconosceva al Museo, cui non corrispondeva in quegli anni una soddisfacente affluenza di pubblico[69] e la volontà di testimoniare il “progresso artistico” torinese, in aperta contrapposizione con chi come Antonio Taramelli  ancora negli stessi anni lo giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[70], riproponendo ormai tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra.” (in Maggio Serra, 1981, p. 29)

L’appuntamento con l’importante esposizione torinese non fu però rispettato e solo nel febbraio del 1899 la Giunta comunale di Torino approvò la proposta di Avondo di realizzare la “pubblicazione illustrativa”, col sostegno determinante del sindaco Casana che in prima persona presentava “alcune tavole in fotografia e fotocollografia per dare una idea del come sarà per riuscire l’opera.” (Delibera del 15 febbraio 1899, AMCTO CMS 23, 1900, doc. 138). Un primo parere informale venne immediatamente richiesto ad Edoardo Balbo Bertone di Sambuy, titolare di uno Studio di riproduzioni artistiche, cugino di Ernesto, già Sindaco di Torino e senatore del Regno,  che lo formulò corredandolo di interessanti osservazioni tecniche in merito alla possibilità di realizzare le riproduzioni a colori[71]; notazioni che furono sostanzialmente accolte dal Comitato direttivo della Sezione Arte applicata all’industria, presenti Avondo, Fontana e Calandra, che nel giugno del 1900 deliberava che la realizzazione “della riproduzione fotografica e quindi in fotocollografia e in cromolitografia dei migliori capi d’arte del Museo [fosse] affidata allo studio di riproduzioni artistiche di proprietà del Cav. Edoardo di Sambuy” per un totale di 85 tavole, in parte semplici (una sola riproduzione) in parte doppie (due o più per tavola), quasi tutte in fotocollografia, mentre le cromolitografie dovevano essere riservate “per le stoffe e le ceramiche”; che il n. di copie [fosse] di 250 e che “la spesa totale, comprese le copertine e la parte tipografica non [dovesse] oltrepassare la somma di L. 8740, disponibile per tale pubblicazione. (…) che la proprietà artistica [dovesse]  rimanere interamente riservata al Municipio (…)”. (Verbale del 15 giugno 1900, AMCTO CAP5, n.80).

La decisione venne successivamente fatta propria dal Consiglio comunale, ma non senza obiezioni che rivelavano chiaramente le differenti concezioni di politica culturale; così se Reycend giudicava la spesa “assai elevata” in relazione allo scopo della pubblicazione che “sarebbe veramente utile nel solo caso che potesse diffondersi largamente”, per il Sindaco Casana “il catalogo sarebbe oggetto di scambio coi principali Musei e potrebbe essere messo in vendita a collezioni complete od a tavole separate, a vantaggio degli artefici che ne avessero speciale bisogno.”[72]

Le riprese e le prime prove di stampa si susseguirono già nei primi mesi del 1901, non senza difficoltà di ordine tecnico, specie nella riproduzione delle stoffe, ma anche professionale, in particolare nei rapporti con l’ing. Molfese, imposto dal Sindaco e titolare dell’omonimo stabilimento di fototipia, che si dichiarava non disponibile a fare le copie di prova “se non gli si da l’ordinanza di tutto il lavoro, il che sarebbe sommamente imprudente.”[73] Anche le più complesse prove in cromolitografia ricevettero l’apprezzamento del Direttore e del Sindaco, sebbene proprio le difficoltà connesse alla loro realizzazione furono poi quelle che imposero, ormai nel 1903, una modifica del piano editoriale e dei tempi di realizzazione: su proposta di Avondo i soldi stanziati per la stampa delle nove cromolitografie restanti (sulle 10 previste, una essendo già stata terminata) vennero allora impiegati nella realizzazione di 32 nuove  fotocollografie monocrome “anche nella considerazione che il Museo si è nel frattempo arricchito di non pochi oggetti ben degni di essere riprodotti (…) si avrebbe così un’illustrazione del Museo di oltre 100 tavole.”[74]

La stampa venne affidata all’Eliotipia Calzolari e Ferrario di Milano, forse per il tramite di Luigi Cantù che nel 1898 aveva già avuto modo di apprezzarne la professionalità in occasione della stampa dei tre volumi dell’Armeria antica e moderna di S.M. il re d’Italia, cui si affiancava l’opera prestigiosa del veneziano Carlo Jacobi, stampatore dei sontuosi volumi delle edizioni di Ferdinando Ongania, ma i nuovi inderogabili termini di consegna fissati dalla Giunta comunale al 30 novembre 1903 vennero ampiamente superati e ancora nella primavera dell’anno successivo Avondo era costretto a richiamare Di Sambuy minacciandolo di “ricorrere al Sindaco”;  il fotografo per altro difendeva il proprio operato confermando l’avvenuta spedizione da parte di Carlo Jacobi delle ultime 30 tavole, col che si completava “la consegna di tutta l’opera. Ella vedrà che le tavole eseguite dal Jacobi sono anche più perfette della altre già consegnate.”[75]

La vigilia di Natale del 1904 la prima copia della pubblicazione dedicata al Museo Civico di Torino – Sezione Arte antica. “Cento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo, Torino, Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo di Sambuy”, venne presentata al Sindaco, quindi distribuita e posta in vendita dai primi mesi del nuovo anno, richiesta da studiosi e istituzioni diverse da Forrer a Bernard Berenson, dalle Scuole di Arte applicata di Venezia a  R. Agostoni, fabbricante torinese di mobili[76], adempiendo almeno in parte agli scopi del Museo ed alle intenzioni del suo Direttore che ne fece segno tangibile e strumento di conoscenza del nuovo allestimento, strutturato “per serie e per materiali” che coesistevano con quel “criterio della ricostruzione di sale ambientate secondo gli stili, definito nell’ultimo decennio dell’Ottocento «Kulturgeschichte oder Interieur Prinzip»” (Pettenati, 1997, p. 98) che – come ha precisato Michela Di Macco[77] – era già stato in parte utilizzato per la IV Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880, tanto apprezzato da Louis Gonse e tramandato dalla bella pubblicazione[78] di cento tavole in fototipia, stampate dai Fratelli Doyen, che già restituiva questa strutturazione ostensiva per prodotti e per tipologie, affiancata da presentazioni più libere ed eterogenee di cui invece non ritroveremo più traccia nelle tavole del 1905.

Qui tutto, dalle belle riprese di Edoardo di Sambuy alla nitida stampa in fototipia e – più ancora – l’ordinata sequenza logica delle tavole è pensato per marcare il passaggio da quel “complesso di cose disparate e di poco valore” che fu il Museo delle origini alla ricchezza delle nuove collezioni ormai “degne di molta considerazione” che caratterizzavano la Sezione d’Arte Antica (applicata all’industria) all’avvio del nuovo secolo, per testimoniare  – e giustamente celebrare, anche – il percorso compiuto sotto la guida del nuovo “Direttore il pittore Vittorio Avondo.” (Museo Civico, 1905)

 

 

 

Note

 

Abbreviazioni

 

ASCTO:                   Archivio Storico della Città di Torino

ASMCT:                   Archivio storico dei Musei civici di Torino, ora Fondazione Torino Musei

FTM – GAM- FA:     Fondazione Torino Musei –Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea: Fondo Avondo

FTM – PM – FA:       Fondazione Torino Musei – Palazzo Madama, Archivio: Fondo Avondo

FVA:                        Fondazione Torino Musei – Archivio fotografico: Fondo Avondo

SPABA:                   Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti – Torino

 

 [1] Nell’ormai ampia letteratura dedicata alla tutela e valorizzazione del patrimonio fotografico storico vanno segnalati almeno gli atti del convegno di Prato del novembre 2000 (Strategie 2001) ed alcuni volumi dedicati a specifici fondi o archivi fotografici come quelli di Brera (1899 un progetto di fototeca, 2000), al Fondo di Lamberto Vitali ora all’Archivio Fotografico del Castello Sforzesco a Milano (Paoli 2004) e – in un diverso contesto – al patrimonio di fotografie conservato presso la Soprintendenza per il patrimonio storico artistico di Bologna (Giudici 2004).

[2] Mollino 1949; Negro 1956; Paoli 2004.

[3] Fotografi del Piemonte 1977.

[4] Miraglia 1990 che oltre a costituire un riferimento imprescindibile per la storia e la storiografia fotografica pubblicò numerosi, importanti esemplari tratti dalle collezioni della Galleria Civica d’Arte Moderna, a partire dal preziosissimo dagherrotipo di Enrico Federico Jest, dell’8 ottobre 1839 (t.1).

[5]Mario Gabinio 1996; Mario Gabinio 2000. La prima delle due mostre, esito di un analitico progetto di catalogazione costituì anche l’occasione per la messa a punto di uno dei primi esempi italiani di accesso al fondo su supporto digitale.

[6] Cavanna 2000b; I dati quantitativi complessivi riferibili ai fototipi compresi nell’Archivio Fotografico, nella Biblioteca e nei depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea (GAM) per la sola parte storica, cioè tutti quei fototipi che potevano essere considerati patrimonio storico dei Musei, indicavano una consistenza complessiva di circa 300.000 unità. Non fu invece purtroppo verificata, in quella occasione, la consistenza dei fondi fotografici conservati a Palazzo Madama né di quelli eventualmente presenti nelle collezioni dell’allora Museo di Numismatica, Etnografia, Arti Orientali. Tranne rare eccezioni i fototipi conservati si riferiscono alla documentazione del patrimonio artistico, specialmente museale e piemontese in genere, ma arricchito di una imponente documentazione più generalmente riferibile alla storia dell’arte; documentazione che trova il suo nucleo forte nel Fondo Lorenzo Rovere,  mentre le riproduzioni coeve di opere ottocentesche (Fondo Avondo, Biblioteca, Fondo Celanza) costituiscono una fonte importantissima, sostanzialmente inedita e scarsamente utilizzata per la conoscenza e lo studio del periodo. Ciò che invece costituiva un dato di novità era la presenza di una ricca e importante serie di immagini di architettura (piemontesi, italiane e non solo) che fanno dei Musei Civici uno dei più importanti archivi fotografici tematici dell’Italia settentrionale.

A questi nuclei forti vanno aggiunti quelli relativi a un ambito più propriamente fotografico, per i quali il valore referente, documentario dell’immagine forma un tutt’uno con quello espressivo: penso naturalmente a molte delle immagini costituenti i fondi Bricarelli e Gabinio, al piccolo nucleo di paesaggi romani del Fondo Avondo qui studiati, alle stampe di Vittorio Sella.

[7] Testimonia la rilevanza di queste forme di accumulo non programmato di documentazione fotografica il puro dato quantitativo di stampe di riproduzione di opere d’arte delle più diverse tipologie conservate nella parte di Fondo Avondo che qui si presenta e per la quale rimando al Regesto così come quelle – in numero ancora maggiore – recentemente ritrovate nei depositi di Palazzo Madama, sempre cronologicamente riferibili per la gran parte alla seconda metà del XIX secolo, quindi agli anni compresi tra l’istituzione del Museo (1863) e il compimento della direzione di Avondo (1910). Tale materiale, sinora mai studiato presenta certo un rilevantissimo interesse in relazione alle vicende del mondo dell’arte piemontese,e in parte italiana, in tutte le sue sfaccettature, dalla produzione al collezionismo alla museologia e costituisce l’ulteriore testimonianza dell’ invasività della fotografia nella cultura delle belle arti nell’età di Avondo; una presenza con cui ormai non si poteva non fare i conti, pur in modi e con atteggiamenti diversi a seconda dei contesti e delle situazioni: la pratica artistica ne prevedeva un uso privato, e quasi riservato, segreto – sebbene fosse per tutti i pittori dell’800 un segreto di Pulcinella – la gestione museale, pubblica, faceva del ricorso alla fotografia uno strumento indispensabile del proprio operare quando non addirittura un fiore all’occhiello, un segno di aggiornamento e di apertura, un positivo esempio di industria applicata all’arte.

[8] Maggio Serra 1977; Cavanna 1981.

[9] Ancora da studiare e comprendere i nessi tra questa proposta di Rovere e la precedente iniziativa della Società che nella seduta del 5 maggio 1904, su proposta dell’avv. Olivieri  stabiliva di pubblicare in  volume la ricca documentazione fotografica prodotta da Secondo Pia, corredandola coi testi delle conferenze svolte dai soci sugli stessi temi. A tale scopo venne istituita una commissione interna e nei mesi successivi si avviarono trattative con l’editore Bocca, mentre i soci si impegnavano a segnalare al fotografo i monumenti della provincia di Novara per “colmare le lacune che per alcuni paesi esistono nella collezione Pia.” (18-11-1904)

La ricognizione proseguì negli anni successivi toccando anche il Tortonese, soggetto di una conferenza di Pia nel marzo 1907, ma una serie di contrasti relativi alla stesura del contratto portò il fotografo a rassegnare le dimissioni dalla Società negli stessi mesi, determinando di fatto la sospensione del progetto, ora assunto dalla libreria editrice R. Streglio e C., per indisponibilità della stessa documentazione fotografica che doveva costituire il cardine della pubblicazione. (MCT/PM – Pacco SPABA)

[10] “Naturalmente io non chiedo né chiederò mai un fotografo, cercando di fare da me, e servendomi del personale del Museo. Io sono certo che in uno o due anni, con la notevole economia che si avrebbe (…) si otterrebbe che quasi tutto il fondo per l’archivio fosse, secondo la mia intenzione, rivolto, invece che a pagare le riproduzioni degli oggetti del Museo, a completare quella magnifica raccolta di lastre, illustranti i monumenti del Piemonte.” Lettera di V. Viale al Podestà di Torino, 9 giugno 1931, n. 007343, ASMCT – CAA.89 – 1931.

[11] Al momento del loro rinvenimento le stampe erano confezionate in pacchi di carta da imballo chiusi con nastri adesivi, solo in rari casi identificati in base al loro contenuto od alla loro presunta provenienza, con  scritte a pennarello sulle confezioni.

[12] Una di queste copie, con dedica autografa ad “A. Pozzi antiquario”, va verosimilmente assegnata al legato di Ettore Mentore Pozzi, 1931. Numerose altre copie delle stampe Ecclesia di Issogne sono comprese nel fondo recentemente fatto pervenire in Archivio da Palazzo Madama, per iniziativa del suo Direttore Enrica Pagella, che qui ringrazio unitamente a tutti i suoi giovani Conservatori per la disponibilità e l’aiuto che mi hanno fornito durante questa ricerca.

Interessante ed utile per la documentazione della produzione artistica – non solo di Avondo – è poi il fondo Emanuele Celanza, pervenuto per donazione alla Biblioteca Civica e da questa ai Musei nel 1951. Il Fondo raccoglie le riproduzioni di opere d’arte di autori italiani del XIX secolo utilizzate dall’editore torinese, attivo anche nel campo della pubblicistica fotografica, per la collana “I Maestri dell’Arte. Monografie di artisti moderni compilate da Francesco Sapori”, edita nel 1917 – 1921ca. Gli autori considerati sono settantadue e la documentazione, pur incompleta, costituisce un eccezionale repertorio fotografico del panorama artistico ottocentesco italiano, a volte corredato dai ritratti fotografici degli artisti, dalle prove di stampa e dai testi manoscritti del curatore.

[13] Oltre che nel fondo Avondo altre immagini appartenenti a queste serie, ma anche alla campagna Berra – Ecclesia del 1882, sono conservate in cinque distinti fondi della Galleria d’Arte Moderna e dell’Archivio fotografico, in parte provenienti da Palazzo Madama nel 1985.

[14] Significativa in tal senso l’assoluta assenza di riferimenti ad un nucleo preesistente di documentazione fotografica nei diversi progetti e programmi di volta in volta avanzati dai successori di Avondo alla direzione del Museo, da Vacchetta a Rovere a Viale, soprattutto considerando la rilevante consistenza quantitativa degli stessi: agli esemplari nominalmente costituenti il fondo Avondo  e a quelli a lui riferibili conservati nei diversi fondi citati, vanno aggiunti quelli recentemente trasferiti da Palazzo Madama all’Archivio fotografico dei Musei civici, per una consistenza complessiva di circa tremila unità. Di questo ultimo rilevantissimo nucleo (circa 1700 unità), di cui parevano essersi confuse e quasi disperse le tracce dopo il 1997, anno in cui alcune delle immagini che lo costituiscono vennero studiate e riprodotte a corredo del volume dedicato ad Avondo (Maggio Serra, Signorelli 1997) fanno parte non solo elementi che opportunamente integrano e completano serie già note (Esposizioni del 1880 e del 1890, Issogne) e in parte immediatamente riferibili al legato Avondo (Actis Caporale 1997, p.  40 nota 63), ma anche esemplari più antichi e verosimilmente riferibili ai primissimi anni di esistenza dell’istituzione museale come gli esemplari sciolti di vedute torinesi di Henri Le Lieure, tratte dall’album Turin ancien et moderne che il fotografo dedica alla città nel 1867 e di cui esiste copia nella Biblioteca, da riferirsi alla presenza di Pio Agodino,  primo direttore del museo e autore di uno dei brevi saggi che corredano il volume, dedicato alle Porte Palatine. Ulteriore e dolorosa conferma della ‘invisibilità’ prima di tutto culturale di cui hanno sofferto questi materiali che sorprendentemente solo oggi riconosciamo come importanti e preziosi è il loro attuale stato di conservazione: non solo infatti i fototipi furono sommariamente impacchettai e identificati utilizzando materiali non idonei (carta da pacchi, nastri adesivi, scritte a pennarello sulle confezioni), ma vennero poi collocati in ambienti inadatti e caratterizzati da un elevatissimo grado di umidità relativa, come dimostrano la diffusa presenza di muffe e di carte ed emulsioni incollate tra loro.

[15] FTM-PM-FA.

[16] La più recente e approfondita analisi della biografia e della figura di Avondo (Torino 1836-1910) è quella costituita dall’insieme dei saggi raccolti in Maggio Serra, Signorelli 1997, cui si rimanda.

[17] Testimonianza dei duraturi legami con il fotografo è costituita non solo dal grande numero di immagini di Duroni conservate nel fondo ma anche da una ricevuta di 500 franchi “en accompte sur son capital” da lui firmata in data 24 novembre 1869, conservata tra le carte di Avondo: MCT/ PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture.”

[18] Matteucci 1997, p. 232 nota 207. I rapporti tra i due artisti, testimoniati dal reciproco possesso di piccole opere (Maggio Serra 1999, p. 71), dovettero essere frequenti a partire proprio dal 1860, anno in cui Avondo espose alla Promotrice fiorentina, mentre nel luglio si era incontrato con Signorini, reduce da un pericoloso arresto di polizia, proprio a Torino, luogo in cui il pittore toscano tornerà ancora l’anno successivo per esporre alla Promotrice, in viaggio per Parigi (Dini 1997, p. 270) e quindi almeno ancora una volta nel 1880, in occasione del IV Congresso artistico. Un ulteriore legame tra i due era poi costituito dalla comune amicizia per Anatolio Scifoni, amico d’infanzia di Signorini, attivo a Parigi con Pittara e Pastoris nel 1864-65 e tra gli artisti i cui nomi erano elencati nella sala del castello avondiano di Lozzolo (Signorelli 1997, p.  11 nota 57), e di cui si conserva una stampa Goupil del suo Les bulles de savon, 1864 post (23×15) GAM S48 B8, con dedica ad Avondo. Ancora Signorini ricordava la “continua corrispondenza di ideali artistici con Alfredo d’Andrade per la libera scuola di Rivara in Piemonte” (Per Silvestro Lega. Firenze: Civelli, 1896) e proprio un ritratto di D’Andrade eseguito a Torino da Henri Le Lieure è ancora conservato tra le sue carte (Matteucci 1997, p. 235 nota 236)

[19] La Contessa di Castiglione, 2000. Quasi superfluo ricordare qui in quali ambienti, anche non distanti da Avondo, circolassero a Torino le sue conturbanti rappresentazioni fotografiche, realizzate con la complicità di Pierre-Louis Pierson.

[20] Giuseppe Giacosa 1908, citato in Barberi 1997, p.149. Anche il fratello Pietro ricorderà quell’occasione, con una nota conclusiva amara e per noi incomprensibile: “Non so se fu nel 1872 o nel ’73 (…) Eppure si cenò in costume quattrocentesco, e qualcuno non disdegnò di indossare maglie e corazze di ferro. (…) Fu l’ultimo sprazzo di vita di Issogne.” (Giacosa 1968, p. 12).

[21] Carandini 1925 citato in Dragone 2000, p. 74.

[22] Al banchetto offerto “A d’Andrade l’architetto/ Del Castello Medio-Evale/ Che non ebbe mai l’eguale” (G. Giacosa) “intervennero un centinaio di persone in costumi eroici, umoristici (…) Il D’Andrade, travestito da Ercole, aveva in mano una clava ed in testa il gibus.” (Torino, 1884, n. 8, p. 67), ma la stessa attrazione storicista per le rovine immediatamente trascolorava: “un castello antico è bello al lume di luna, quando gli sprazzi della luce d’argento mettono sulle sconquassate muraglie qua e la come un lenzuolo candido (…) quando le ombre fitte, i buchi nerissimi trattengono il piede spaurito, e la signora bionda, che vi sta a lato, si avviticchia a voi stretta, tremando.” (Torino, 1884, n.42, p. 334)

[23] FVA0336, con 20 ritratti di amici ed amiche di Avondo. La sequenza è aperta da un ritratto giovanile di Alfredo d’Andrade, realizzato dai Fratelli D’Alessandri nel 1862 (Bernardi, Viale 1957, p.n.n.), cui fa seguito il già citato ritratto di Avondo fatto da  Carlo Duroni, quindi Ernesto Bertea, e Antenore Soldi tra gli altri, mentre tra i ritratti non in album vanno almeno segnalati quelli di Giuseppe Giacosa, Ferdinando di Breme, Lorenzo Delleani e Vincenzo Vela, ma anche in una rete più ampia di conoscenze quelli di Galileo Ferraris e di Giosué Carducci, questo da mettere forse in relazione con la visita del poeta ad Issogne (Signorelli 1997, p. 18), risalente alla sua prima visita in Valle d’Aosta nel 1889.

[24] Una vera foto di gruppo fu quella realizzata molto più tardi, il 30 maggio 1909 raccogliendo sulla scalinata del castello di Fenis Avondo e D’Andrade, i fratelli Boito e Melchiorre Pulciano, ma anche i più giovani Cesare Bertea, Ottavio Germano ed altri, cfr. Carandini 1925, p. 49.

[25] Ceresa, Mosca, Siccardi 2001, p. 73 passim.

[26] Su Luigi Cantù, “Consigliere Comunale distinto fotografo ed artista, Conservatore della Regia Pinacoteca (…) altamente apprezzato nel ceto artistico torinese”, Vicepresidente della Commissione della Sezione fotografica dell’Esposizione Nazionale di Torino del 1898, membro del Circolo degli Artisti  – di cui documenta fotograficamente l’inaugurazione umoristica dell’Esposizione del 1886 (ASCTO, Nuove acquisizioni, C6/1 – DA 1086-88) –  e tra i promotori della Società Fotografica Subalpina nel 1899, si vedano le notizie riportate in Stella 1893, pp. 596-597, che lo descrive impegnato nei diversi ambiti della pittura, dell’illustrazione araldica e del “restauro” (“ripulì e ritoccò, coi migliori metodi oggi usati, parecchie antiche tavole e dipinti sui muri, per collezioni private”), ma anche come “fotografo [che] si dedicò al ritratto e alle riproduzioni di opere d’arte, acquistando fama di specialista abilissimo”, sebbene oggi queste sue abilità siano testimoniate solo da rari esemplari. Altre segnalazioni della sua presenza in Miraglia 1990, p. 368; Reteuna 1997, p. 60; Società 1999, pp.14-16. Per il ruolo da lui svolto nella realizzazione dei volumi dedicati all’ Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino editi a Milano dall’ Eliotipia Calzolari e Ferrario nel 1898,  con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, rimando a Cavanna 2003, pp. 96-97.

[27] Dopo la morte del titolare nello stesso 1908, la moglie Clarice scriveva ad Avondo, su carta intestata “Photochromatographie Bertieri/ rue du Po, 25 Turin”: “Ill.mo Sig. Comm.re/ memore dell’antica amicizia che legava V.S. al povero defunto mio marito Cav.re Oreste Bertieri pregiami farle noto che ho riattivato lo studio fotografico provvedendomi di personale speciale che valga a mantenere alto il nome.”, MCT/ PM- FVA, m. D, “Corrispondenza”, lettera del 23-12-1908.

[28] Bernardi 1936,  p.n.n. Un ritratto carte de visite di Alexandre Calame, con quelli di Antonio Fontanesi, Ernesto Bertea ed altri, è compreso tra le carte di uno dei meno entusiasti calamisti piemontesi quale fu Alfredo d’Andrade (Bernardi, Viale 1957).

[29] Vero è che nel fondo documentario Avondo nulla conferma questo dato ma, per intanto, neppure vi è nulla che lo smentisca (come una sua eventuale presenza in altri luoghi) né le condizioni generali in cui ci è pervenuto consentono di garantirne la consistenza originaria. È appena il caso di ricordare qui che tra i visitatori di quell’Esposizione e della mostra dei pittori di Barbizon (e chissà se anche del “Pavillon du réalisme” di Courbet) vi furono – oltre a D’Andrade – anche Saverio Altamura e Nino Costa che sarà uno dei riferimenti di Avondo durante il suo soggiorno romano, di poco successivo.

[30] Sono due ritratti maschili  e due femminili, non tutti identificati realizzati rispettivamente da Benque (FVA0132), Tourtin (FVA0336.3), Disderi (FVA0336.5) e Ladrey (FVA0349). Pur considerando che, data la loro circolazione, il luogo di realizzazione non debba per forza coincidere con quello dell’acquisizione, come dimostra proprio il caso di Bertea, la loro presenza (specialmente quella dei ritratti femminili) costituisce a mio parere l’indizio piuttosto forte di una frequentazione parigina di Avondo.

[31] Immagini dell’Oberland bernese, all’epoca ancora in una fase di esplorazioni pionieristiche, furono presentate all’Esposizione universale di Parigi del 1855 dai Fratelli Bisson, accanto a quelle realizzate in Alvernia da  Edouard Baldus, ma il lavoro  fotografico che destò maggior sensazione fu la veduta panoramica in dodici parti del massiccio del Monte Bianco ripreso da La Flégère, per una lunghezza totale di due metri, realizzata  da Friedrich von Martens. (Infinitamente 2004).

[32] Maggio Serra 1997, cui si deve la prima fondamentale considerazione filologica e critica della produzione grafica, in precedenti occasioni illustrata a partire da pure considerazioni stilistiche (Thovez 1912; Bernardi 1936; Cremona 1946).

In particolare si deve alla studiosa la più che convincente attribuzione di alcuni degli album ad un autore diverso da Avondo, essendo “il nome che viene alle labbra” quello di Enrico Gamba. In forse restava l’assegnazione di altri due taccuini, il n.12 e il n. 8 “nel quale i disegni di architettura non hanno la nitidezza di quelli di Gamba e che diremmo perciò di Avondo (…) se non ci mettessero in dubbio un lungo appunto di lettura strettamente tecnica dei dipinti fiorentini e un elenco di persone cui l’autore donò la fotografia di un dipinto di Tiziano non identificato” (Maggio Serra 1997, p. 67). Una più attenta riconsiderazione di questo appunto al foglio 85 verso, con l’elenco delle persone amiche cui l’autore aveva destinato più copie ciascuno della riproduzione fotografica dell’opera in questione – di cui un esemplare è presente anche nel fondo Avondo – mi porta a ritenere che non si trattasse tanto di “un dipinto di Tiziano non identificato”, quanto piuttosto de I funerali di Tiziano, cioè del più noto dipinto di Gamba, confermando così l’attribuzione anche di quest’ultimo album.

Quanto alle ragioni per cui questi cinque taccuini siano stati conservati congiuntamente agli analoghi di Avondo, pur non escludendo la possibilità che siano stati “forse ottenuti in prestito da Avondo” o che “forse derivano da viaggi comuni”, io non tralascerei l’ipotesi che questa commistione possa più banalmente derivare da una storia archivistica non sempre chiara e documentata, come dimostra del resto la stessa vicenda del fondo fotografico Avondo.

[33] Una Testa di Bufalo, ad olio, di George Hemming Mason e due litografie di  Charles Coleman (FA Grf486-487), tratte da A series of subjects peculiar to the Campagna of Rome and Pontine Marshes designed from nature and etched by C. Coleman, Rome, 1850, album di 74 fogli con 53 tavole (De Rosa, Trastulli 1988).

[34] Da Claude Lorrain e Nicolas Poussin, insieme nei primi decenni del ‘600, sino a Turner e Corot, la bibliografia è ormai molto ampia e di livello diverso; si vedano almeno Corot 1994; Galassi 1994; In the Light of Italy 1996, La Campagna romana 2001.

[35] Becchetti 1983; Pittori fotografi 1987; Caneva 1989; Miraglia 2003; Roma 1850 2003.

[36] Si rimanda qui ai noti saggi raccolti in Schwarz 1992 ed alla prima sintesi organica di Scharf 1979, senza voler dimenticare l’assoluta novità italiana della sintesi storica contenuta ne Il messaggio dalla camera oscura di Carlo Mollino, 1949 [1950], che ampliava sostanzialmente gli orizzonti da noi pionieristicamente delineati da Lamberto Vitali nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento (Paoli 2004).

[37] Telemaco Signorini, Cose d’arte, 1874, citato in Bordini 1991, p. 595. In ambito locale un riconoscimento del ruolo ausiliario della fotografia era venuto  da Federico Pastoris, che in un commento pubblicato nell’ Album della Promotrice del 1862, quindi in un contesto sostanzialmente tradizionalista, aveva riconosciuto quanto questa potesse servire “a cercare [la] verità. […] Per cui io credo che la fotografia, invece di nuocere alla pittura, possa giovarle, nel senso che facilita agli artisti i mezzi d’imitazione”, citato in Reteuna 1991, p. 34. Un nuovo importante contributo per la conoscenza dei rapporti storicamente intercorsi tra pittura e fotografia nel corso del XIX secolo è quello recentemente fornito da Marina Miraglia 2005.

[38] Come risulta dalla testimonianza di Telemaco Signorini in Silvestro Lega, Firenze, 1896, ma anche nell’opinione di Diego Martelli. Il metodo non era in sé nuovo, anzi largamente praticato nello studio del paesaggio almeno a partire dal XVII secolo, significativa ne è semmai la sua attualizzazione. Quanto all’interesse degli artisti ottocenteschi per le tecniche fotografiche va almeno ricordato, sebbene avesse implicazioni diverse, l’uso del cliché-verre da parte di artisti come Corot e Fontanesi, cfr. Corot 1994; Cavanna 1997.

Altamura venne a Torino per presentare il dipinto Excelsior, oggi ai Musei Civici, all’Esposizione del 1880, fermandosi in città per ben quattro mesi durante i quali si incontrò con De Amicis, Giacosa e Fontana, ma – apparentemente – non con  Avondo (Simone 1965, p. 55) sebbene in questo fondo sia conservato un suo bel ritratto fotografico che è stato accostato al Ritratto di Eleuterio Pagliano, 1850 ca, di Luigi Sacchi da Cassanelli 1998: sch. I. 4, pp.148-149.

[39] Wey 1851. Opinione condivisa da Gustave Le Gray (Photographie: nouveau traité, 1852) : “à mon point de vue, la beauté artistique d’une épreuve photographique consiste au contraire presque toujours dans le sacrifice de certains détails, de manière à produire une mise à l’effet  qui va quelquefois jusqu’au sublime de l’art » (citato in Aubenas 2002, p.  48). Il riferimento insistito in questi testi al “sacrifice” richiama esplicitamente la teoria in onore tra i pittori francesi e che Delacroix, tra i più attenti ad un uso positivo della fotografia, aveva applicato alla fotografia e in particolare proprio al calotipo: “Les photographies qui saisissent davantage sont celles où l’imperfection même du procédé pour rendre de manière absolue, lasse certaines imperfections, certain repos pour l’œil qui lui permettent de ne se pas fixer que sur un petit nombre d’objets.” (dal “Journal”, 1859, citato in Challe 1996, p. 24). Anche per Rosalind Krauss (1996, p. 57) “I calotipi degli anni 1850 che conosciamo assomigliano sorprendentemente alle pitture di Daubingy. Sappiamo che Daubigny e gli altri pittori della Scuola di Barbizon erano rimasti sbalorditi dalla fotografia e ci rendiamo conto che devono averne tratte le conseguenze.” Per una presentazione dettagliata di queste immagini si rimanda a Challe, Marbot 1991.

[40] Senza poter entrare nel merito dei problemi sollevati da queste produzioni non possiamo che sottoscrivere l’opinione di Michel Frizot 1994, p. 83:  “anche quando il fotografo si pone al servizio del pittore non si tratta di pura imitazione servile dei luoghi comuni naturalisti. Il fotografo crea un’immagine di tipo nuovo, di cui non si ritroverà che superficialmente l’equivalente pittorico, disegnato o inciso.”

[41] Le Dien frequenta e fotografa gli stessi luoghi di Caneva: il Tevere (o l’Aniene) a nord di Roma, la passeggiata detta “del Poussin”, gli ulivi sulla strada di Tivoli ecc., forse sollecitato dai suoi due compagni di viaggio, i pittori Léon Gérard e Alexandre de Vonne (Aubenas 2002, p. 297); recentemente gli è stata attribuita una carta salata delle collezioni del Musée d’Orsay, Paysage à Rome ,1852 – 1853, già assegnata a Caneva (Heilbrun 2004, t.8).

[42] Scrive il 14 marzo 1844 all’abate padovano Pier Antonio Meneghelli: “Vado eseguendo piccoli quadretti di commercio” e ancora, nel Natale dello stesso anno “Ho apparecchiato delle piccole cosette in carta in tela come bozzetti, sperando nella concorrenza de forestieri d’inverno.” Citato in Vanzella 1997, pp. 40; 43.

[43] Miraglia 2003, p. 574, sch. XI.5.12. A partire dai primi fondamentali studi di Piero Becchetti del 1983, la figura dell’autore padovano è andata via via assumendo sempre maggior rilievo e dettaglio sino a costituire la presenza più rilevante tra i fotografi della Scuola romana, ormai ampiamente studiata (Becchetti 1983a – 1983b; Pittori fotografi 1987; Caneva 1989; Becchetti 1994; Vanzella 1997; Rampin 2001; Roma 1850 2003, Gasparini 2005), sebbene – come rileva Miraglia nel saggio citato – dedicando ancora, purtroppo, scarsa o nulla attenzione alla sua produzione di studi di campagna romana e di paesaggi di dettaglio, che pure sono di qualità altissima ed ebbero già all’epoca vasta considerazione e diffusione come dimostrano non solo le stampe acquistate da Avondo ma anche l’opinione di altri fotografi quali Luigi Sacchi che riconosceva a Caneva “oltre la grandissima sua capacità in questa nuova arte, (…) il talento di rinomato pittore” – “L’Artista”, 1 (1859), n. 2, 12 gennaio, p.16, citato in Cassanelli 1998, pp. 156-157 –  e la presenza di esemplari delle sue stampe nelle raccolte di artisti come il reggiano Alessandro Prampolini (Gasparini 2005) o il francese Théophile Chauvel (1831-1910), pittore del gruppo di Barbizon, ma anche autore di fotografie e membro fondatore della Societé Française de Photographie, (Heilbrun 2004: 19) che, alla pari di Corot,   possedeva una ricca collezione di fotografie, in parte pubblicata in Calle, Nèagu 1988. Ad ulteriore conferma di indizi per una ricerca ancora in gran parte da svolgere basti ricordare che nella testimonianza di L. Celentano (1883) Michele Cammarano cercava fotografie “specialmente di alberi e qualche dettaglio di pietra, da poter studiare guardandole, confidandogli che allora d’altro non si consigliava che della fotografia.”( Bordini 1991, p. 586) Per la circolazione internazionale di modelli o soggetti fotografici per pittori va ricordato ad esempio che  Bringing Home the May di Henry Peach Robinson, 1862, era in vendita a Milano da Spagliardi & Silo (Paoli 2004, p. 158), mentre per quanto riguarda la contraddittorietà e la scarsa intelligenza critica dei rapporti pittura-fotografia degli autori coevi basti qui richiamare una posizione come quella di Pietro Selvatico, certo ben nota proprio a Torino, che nel 1871 dalle pagine de “L’Arte in Italia” attaccava il metodo di insegnamento fontanesiano curiosamente contrapponendogli quello adottato da “tal professore [sic] Domenico Bresolin all’Accademia di Venezia, cioè la copia da un album di fotografie del tedesco Robert Kummel, utilissimo «a chi si avvia al paesaggio, come eccellente grammatica».” (Maggio Serra 1988, p. 101) Sul ruolo determinante di Bresolin, tra i più importanti protofotografi italiani, nella definizione del paesaggismo veneto di secondo Ottocento, lui docente  all’Accademia veneziana dal 1864  avendo come allievi pittori quali G. Ciardi, G. Favretto, L. Nono ed altri, cfr. Prandi  1979, mentre più in generale sulla sua figura si vedano la bibliografia citata in Cassanelli 1998, p. 46 nota 29 e Paoli 2000.

[44] Di tutt’altro avviso un autore di formazione e cultura affatto diverse come Giuseppe Venanzio Sella, per il quale invece “le immagini positive tirate dalle negative su carta rimangono sempre più o meno confuse ed indistinte.” (Sella 1856, qui citato dalla seconda edizione, 1863, p. 11).

[45] V. Turletti, Rivista artistica, in “Serate Italiane”, 1 (1874), n. 4, 25 gennaio, p. 61, citato in Maggio Serra 1988, p. 101; di analogo tenore il commento del 1873 firmato A.B. a proposito di Tevere: “Che luce, che cielo smagliante, quella volta immensa e nuvolosa ma risplendente sembra colla descrizione della vasta sua parabola accrescere gli spazi di quell’immensa provincia romana nuda ed imponente di cui  non vediamo sul quadro che le sole prime linee.” (citato in Signorelli 1997, p. 18 , nota 60).

[46] Il piccolo disegno a carboncino è inventariato col n. fl/623 e potrebbe essere a sua volta una parziale rielaborazione di elementi presenti in alcune stampe fotografiche del Fondo (Vigna S. Stefano), mentre il piccolo olio può essere utilmente confrontato col disegno pubblicato in Cremona 1946, p. XIX; per Degas cfr. Galassi 1994, t. 280).

[47] Devo qui segnalare  la presenza di due stampe fotografiche che paiono essere in scarsa se non nulla relazione con gli interessi pittorici di Avondo: si tratta di una donna in costume laziale (FVA 605) soggetto non estraneo ma certo da lui poco praticato, ed un bellissimo nudo di schiena, conservato tra le carte personali (PM/FA, m.B – N, busta “Città di Torino”) di cui non si trova riscontro nell’opera grafica o pittorica.

[48] [Valenti], Nuova raccolta/ dei principali Costumi di Roma / e suoi contorni, Roma, Presso l’Editore e Calcografo Tommaso Cuccioni Negoziante di Stampe ed Oggetti di Belle Arti, via della Croce n.88, s.d. [1850 ca].

[49] Già nel 1953 Silvio Negro segnalava la consuetudine, che faceva risalire proprio a Cuccioni, di utilizzare “pescatori con la lenza messi in pose  suggestive nei punti più panoramici del Tevere”, citato in  Paoli 2004,  sch. 83 a firma Marina Gnocchi, che descrive analiticamente una fotografia di soggetto analogo, dovuta ad un fotografo non identificato da confrontare, tra le altre, con Altobelli e Molins, Il Tevere a Castel Sant’Angelo, 1862ca in Becchetti 2003, p. 38.

[50] La fotografia, conservata nella collezione Cianfarani Negro, venne pubblicata in Negro 1964, p. 212, cui si deve anche il commento sulla fortuna del soggetto.

[51] Nel 1894 Alberto Pasini  dedicherà “All’amico V. Avondo” il suo Interno del maniero di Issogne, Torino, GAM (Dragone 2000, p. 304), mentre altri autori come Vittorio Cavalleri indagheranno il soggetto ancora nei primi anni del ‘900, continuando a riscuotere l’interesse di Avondo (Maggio Serra 1993,  190, scheda di Caterina Thellung de Courtelary).

[52] Su G.B. Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Miraglia 1990, p. 358; Cavanna 2003; La borghesia 2004, p. 123. Il fotografo, e pittore, era in stretta relazione con le maggiori istituzioni culturali torinesi quali la Società Promotrice delle Belle Arti e l’Armeria Reale, da cui nel 1874 aveva ricevuto l’incarico di produrre alcune prove di riprese fotografiche e di cui pubblicherà un ampio catalogo fotografico proprio nel 1882,  mentre nel 1880 aveva realizzato il grande album dedicato alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti,  dedicandolo a Umberto I. Sarà ancora lui, ormai alla fine della propria vita, a realizzare nel 1892 l’album con le riproduzioni fotografiche dei bozzetti del concorso per il Monumento nazionale al Principe Amedeo che il Comitato esecutivo aveva offerto ai membri della giuria (FVA0300).

[53] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano, cui si devono forse le due medaglie conquistate a Napoli nel 1878 ed a Milano nel 1881 (Miraglia 1990, p. 379).

[54] Cavanna 2000a. La richiesta ministeriale ai Prefetti comportava di acquistare o “al caso far eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” A Caselli si deve – credo –  il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, così come appare proprio nelle immagini valdostane di Ecclesia.

[55] Barberi 1999, p.  93 nota 111. Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, e poi ancora – per iniziativa ministeriale – nel salone centrale dell’Esposizione di architettura del 1890 (Volpiano 1999, p. 59). Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Piemonte.

[56] Atto del 22 dicembre 1882, MCT- PM, FA m. E.

[57] Nella copia dedicata “Al Preg.mo Dottore Rovere” il dedicante si definisce esplicitamente quale “ristauratore del Castello”. Quasi superfluo ricordare che una tale precisa intenzione documentaria ed esplicitamente celebrativa condotta con la complicità di Giacosa, questa accurata e lunga messa a punto di un autoritratto in forma di castello che fu l’intera operazione di Issogne, questo intreccio di sentimenti e culture dell’abitare che richiama alla mente l’opera di una vita di Mario Praz, non si espresse in forme neppure lontanamente paragonabili nelle poche occasioni in cui il ruolo di Avondo fu quello di consulente, come per Palazzo Silva a Domodossola o Casa Cavassa a Saluzzo, ma neppure per il castello di Lozzolo, cui pure fu molto legato negli anni giovanili ma di cui non si conserva nel fondo neppure un’immagine.

[58] Contratto del 12 gennaio 1884, MCT- PM- FVA, m. L, n.132; come risulta da una nota del 29 marzo successivo Ecclesia aveva impiegato sette giorni , coadiuvato dal custode del castello, per realizzare le 72 riprese (36 grandi, 36 piccole) del castello; le spese vive totali ammontavano a L. 311,50 (MCT- PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture”). Una seconda ricchissima campagna documentaria del castello e dei suoi arredi, con immagini di grande qualità, raccolta in un album Alfieri e Lacroix oggi compreso nel Fondo Avondo (FVA570) quale evidente esito di una integrazione successiva, sarà condotta nel 1935-36 verosimilmente in relazione con le iniziative assunte da Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, il quale “animato da una nuova ondata di passione medievalista a sfondo littorio”  (Barberi 1999, a cui si rimanda per la ricostruzione dell’intera vicenda) aveva elaborato un ambizioso progetto relativo ai castelli valdostani, che per Issogne prevedeva oltre al restauro (sciagurato) degli affreschi, anche che “tutti gli ambienti [fossero] restaurati e convenientemente arredati” (Bruno Molaioli 1936), con la graduale sostituzione “dell’arredamento di imitazione antica con mobili originali” (Carlo Aru 1936), ciò che potrebbe rendere ragione della ricca documentazione di arredi, anche del Museo Civico, nelle pagine dell’album.

[59] FTM- PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture”. Che gli album avessero edizioni anche molto diverse tra loro, e non solo per il formato, è confermato dal confronto tra i diversi esemplari conservati presso la Biblioteca della Fondazione Torino Musei;  non solo varia l’ordine delle tavole, ma vengono utilizzate stampe tratte da negativi anche significativamente diversi relativi allo stesso ambiente: la Parte del cortile col pozzo (t. IV), che nell’edizione in piccolo formato presenta un uomo in costume da armigero poggiato alla fontana del melograno, risulta assolutamente spopolata nella versione in formato maggiore, mentre in altri casi muta la disposizione degli arredi secondari o il momento della ripresa, con conseguente diversa illuminazione, senza che per ora sia possibile stabilire una dettagliata cronologia delle singole riprese.

[60] Nota del gennaio 1889, MCT- PM- FVA, m. E. Ancora nel 1898 Ecclesia scriveva ad Avondo per chiedergli l’autorizzazione ad esporre per la vendita le fotografie di Issogne all’Esposizione “visto che nella speculazione fatta (…) ci abbiamo rimesso specialmente io che più nulla mi rimane” (Lettera del 13 aprile 1898, MCT-PM- FVA, m.L, n.60), ma la querelle dovette proseguire ancora a lungo se nel 1910, per ovviare al contenzioso, le fotografie vennero consegnate alla Soprintendenza torinese (Barberi 1999, p. 93, nota 111).

[61] Le immagini ebbero un successo notevole: vennero riproposte sulle pagine de “La Fotografia Artistica” del giugno-luglio 1911 poi ancora in parte riprese da Carlo Nigra nella sua pubblicazione del 1934 dedicata al cinquantenario della realizzazione del Borgo Medievale, pur omettendone la paternità.

[62] Questa tradizione, molto piemontese, proseguirà ben oltre le raffinate ambientazioni pittorialiste di Guido Rey sino a comparire, singolarmente, nella produzione di un fotografo di cultura modernista come Riccardo Moncalvo che ancora nel 1938 fotograferà con tenero sentimentalismo due ragazze in costume nei castelli di Fenis e di Issogne (Moncalvo 1997).

[63] La visita a Issogne era connessa all’incarico di consulente per gli interni  e gli arredi avuto dall’architetto Bodo Ebhardt, responsabile del vistoso restauro stilistico del castello di Haut-Koenigsbourg in Alsazia. Su Forrer, archeologo con interessi antiquariali, direttore del Museo Archeologico di Strasburgo dal 1907 al 1940,  autore di numerosissime  pubblicazioni illustrate e albi, compresi nel Fondo Rovere della Biblioteca della Fondazione Torino Musei ma in parte risultato di scambio con la pubblicazione del 1905, rimando alla fondamentale monografia di Bernadette Schnitzler 1999, che qui ringrazio per avermi fornito preziosissime indicazioni relative al ruolo dello studioso. Di tutt’altro tenore le considerazione di un altro illustre corrispondente di Avondo, Luigi Palma di Cesnola, che in una lettera del luglio 1901 per molti versi adulatrice (“Ho bisogno che un artista come Lei che è universalmente riconosciuto, mi consigli”) gli ricordava come “Qui, di vecchi Castelli né di nuovi, esistono; tutto è democratico.” (PM- FVA, m. A).

[64] Il 2 gennaio 1902 la Libreria Clausen pagava ad Avondo L.40 per una copia dell’album Ecclesia (L.30) e “L. 10 pel Forrer, che è il suo vero prezzo ordinando l’esemplare in Germania, e che non dubito Ella vorrà rilasciarmi all’identica condizione” (MCT- PM- FVA, m. A), ma pare che anche questa pubblicazione avesse – ancora una volta – scarsa circolazione se un addetto ai lavori come Charles Chauvet, redattore e disegnatore de “L’Art pour tous” ricordando l’incontro torinese del 1898 con “l’homme sympathique, l’artiste, l’érudit qui est le directeur, M. le commandeur Avondo”, cui doveva la sua scoperta di Issogne e la possibilità “de rapporter en France, la quasi découverte d’une architecture, de decorations peintes inattendues sur le sol italien” (Chauvet 1901) mostrava di conoscere il testo di Giacosa ma non quello di Forrer. Il periodico, fondato nel 1861 da émile Reiber, ospitò dal 1898 molte tavole relative ad oggetti del Museo, disegnati da Chauvet proprio in occasione della visita compiuta a Torino per le Esposizioni di quell’anno.

[65] Esposizione 1880, i cui scopi – come ricordava Mario Michela nella presentazione – furono quelli di “raccogliere le reliquie della antica Arte sparse e nascoste per queste vecchie provincie; scuotere la polvere obliosa di nomi ingiustamente dimenticati.”  In quella occasione Avondo mise a disposizione una ventina di opere dalle sue collezioni di armi, arredi, tessuti e oreficerie, tra cui il reliquiario di Giorgio di Challant per la chiesa di Verrès (Sala III, vetrina A n.7).

[66] Per una prima ricostruzione di queste vicende mi sono avvalso di quanto pubblicato in Collegio Architetti 1887; Volpiano 1999, cui rimando per ogni citazione successiva, salvo diversa indicazione.

[67] Uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizzava il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano” (Donghi 1891, p. 18). Diverso il parere di Giovanni Sacheri, per il quale “ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!” (Volpiano 1999, p. 99); già alcuni anni prima (1883) Sacheri  si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32) concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[68] AMCTO CAP5, n.65 Verbale del 23-12-1895, sottolineatura nostra.

[69] Novara 1992, p. 255; l’attenzione per la comunicazione museale e per una più vasta divulgazione della conoscenza del suo patrimonio è testimoniata da una serie di cartoline in fototipia conservate nel fondo, tra cui il dipinto di V. Marinelli, Ferrante Catara porta in trionfo per Napoli Masaniello.

[70]Taramelli 1898. Il permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” è stato riconosciuto da Giovanni Romano 1988, p. 23.

[71] “Volendosi fare alcune tavole a colori si potrebbe ricorrere alla tricromia: ma questa, per quanto fedele, non conviene per tirature  così limitate. (…) Io proporrei invece di eseguire le dette tavole in cromolitografia a tinte piatte servendosi pei calchi della fotografia.” (Lettera dell’11 novembre 1899, AMCTO CMS 23)

[72] AMCTO CMS 23, 1900, XLII. Anche altri interventi rimarcarono il carattere elitario della pubblicazione in 250 copie, mentre alcuni consiglieri come Carlo Ceppi esprimevano dubbi “anche sul modo della pubblicazione perché le maioliche, i vetri, le stoffe ed altri oggetti a colori non si possono rappresentare colle sole risorse della fotografia.” Luigi Cantù, certo sulla scia dell’esperienza raggiunta con la curatela tecnica dell’analoga pubblicazione dell’Armeria Reale confermava infine che le lastre utilizzate dal Di Sambuy, nei due formati 18×24 o 24×30, sarebbero rimaste di proprietà del Municipio, secondo quanto meglio specificato dalla successiva scrittura privata di affidamento d’incarico che al punto 4° prevedeva: “Il presente contratto essendo stipulato per semplice locazione di opera e non altrimenti il Municipio intende rimanga interamente riservata a sé la proprietà artistica dell’opera completa, delle lastre fotografiche e delle riproduzioni che se ne potranno trarre con qualsiasi sistema e la custodia delle lastre viene affidata alla Direzione del Museo a cui verranno consegnate dal Nobile Sambuy ad opera compiuta debitamente assestate in apposite cassette scanalate, chiuse a chiave e sigillate col sigillo del prefato Nobile di Sambuy” 5° “Ad opera ultimata le pietre litografiche che servirono per le riproduzioni delle tavole in cromo saranno cancellate alla presenza del Direttore del Museo e del Nobile di Sambuy, a meno che il Municipio di Torino non intenda acquistarle al prezzo di costo della pura pietra”  6° “Nel frontespizio dell’opera (…) sarà indicato come esecutore delle riproduzioni lo studio di riproduzioni artistiche del Nobile di Sambuy”. (AMCTO CMS 23, 15 marzo 1901)  In quegli stessi giorni il Direttore riceveva da Luigi Palma di Cesnola, la conferma dell’invio di “una cassetta contenente le fotografie dei principali quadri esposti nel Metropolitan Museum” (PM- FVA, m. B.N. n.252) “dalle quali potrà farsi un idea [sic] più chiara della raccolta di oggetti d’arte che questo Museo possiede, il valore totale delle quali, in danaro costano e rappresentano sessantadue milioni di lire italiane.” (PM- FVA, m. B.N. n. 117), ma allo stato attuale non è rimasta traccia di tale invio.

[73] AMCTO CMS 23, Lettera del 9 gennaio 1901. Nel 1896 alla Fototipia Molfese e Charvet, via XX settembre, 56, era stato affidato l’incarico di stampa dei tre volumi illustrati dell’Armeria Reale, poi realizzati dallo stabilimento milanese Calzolari e Ferrario, per sopraggiunti insanabili contrasti tra il contitolare Alberto Charvet  e Giovanni Assale, responsabile delle riprese realizzate dallo Studio Berra (Cavanna 2003).

[74] AMCTO CAA 32.3  Lettera del 13 luglio 1903.

[75] AMCTO CAA 32.4 Lettera del 31-3-1904. I lunghi tempi di realizzazione erano anche dovuti alle caratteristiche intrinseche del procedimento adottato; nell’ottobre del 1903 Calzolari e Ferrario avevano a loro volta richiesto una sollecita approvazione per poter procedere coi lavori “stante che i nostri fototipi essendo a base di gelatina  influiscono molto [sic] come igrometro al tempo pessimo che siamo e che continuerà.” Ancora nel novembre successivo osservavano che “se il sole si fa desiderare non vorremmo pregiudicare la perfetta riuscita del lavoro per accelerare la consegna di qualche settimana.” AMCTO CMS 23, Memorandum del 29-10-1903; AMCTO CMS 23 Lettera del 27-11-1903.

[76] AMCTO CAA 37.1, “Pubblicazione illustrata – Copie spedite – Riscossioni e versamenti”. Non risulta tra gli acquirenti il nome di Alfredo Melani che nel 1902 aveva scritto ad Avondo per ottenere alcune fotografie degli oggetti del museo essendo stato avvertito da Bertea del catalogo in preparazione, riproduzioni che a lui sarebbero servite  per la preparazione del volume dedicato alla Storia dell’Industria artistica che “uscirà a fascicoli fra molto tempo”; richiedeva inoltre l’invio – a suo tempo – del Catalogo “per metterlo in evidenza o nell’”Arte Italiana”   o in qualche Rivista Estera (…) Abbiamo molti amici in comune: il Boito, il D’Andrade, il Giacosa, il Reycend da cui potevo farmi presentare; e scusi se sono andato così per le spicce.” Avondo rispose con grande sollecitudine ma con altrettanta freddezza ricordando che Di Sambuy ne “ha la proprietà artistica” e che per quanto riguardava l’invio del volume avrebbe potuto a suo tempo “dirigersi al Sindaco per averne una copia”. (AMCTO CAA 32.2 Lettere del 23 e 24 marzo 1902) Gli accordi con Di Sambuy non avevano però impedito ad Avondo, negli stessi giorni, di concedere a Secondo Pia di fotografare “vari oggetti esistenti nel Museo Civico” per illustrare una conferenza dell’Avv. Rondolino su Torino Medievale. (AMCTO CAA 32.2 Lettera del 21-3-1902).

[77] Di Macco 1997, p. 52, ha parlato a questo proposito di “modelli espositivi (messi a punto più tardi in sede museale).”

[78] Avondo svolse un ruolo importante nei confronti dell’Esposizione non solo come organizzatore e prestatore ma anche quale membro del Comitato per la pubblicazione illustrata. Degli scambi e suggerimenti di oggetti intercorsi tra i diversi membri del Comitato promotore resta traccia in una fotografia di una delle porte del castello di Lagnasco, esposta in mostra, compresa tra le immagini del fondo con dedica di Emanuele d’Azeglio allo stesso Avondo.

 

 

 

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Ulrike Gauss, a cura di, Eugène Cuvelier 1839 – 1900. Stuttgart/ Ostfildern-Ruit: Staatsgalerie / Cantz Verlag, 1996

 

Gelao  1999

Clara Gelao, Tra calchi e monumenti. A cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, in Castelli e cattedrali 1999, pp. 33-47

 

Gentile  2001

Guido Gentile, Importazioni di opere e migrazioni di artisti lungo le vie delle Alpi, d’Alemagna e delle Fiandre, in Tra Gotico e Rinascimento. Scultura in Piemonte, catalogo della mostra (Torino, 2001), a cura di Enrica Pagella. Torino: Museo Civico d’Arte Antica, 2001, pp. 114-116

 

Giacosa  1884

Giuseppe Giacosa, Notizie storiche intorno alla famiglia di Challant, in Castello d’Issogne 1884

 

Giacosa  1898

Giuseppe Giacosa, Castelli valdostani e canavesani. Torino: Roux e Frassati, 1898

 

Giacosa  1968

Pietro Giacosa, Il castello di Issogne. Verona: Stamperia Valdonega, 1968

 

Giudici  2004

Corinna Giudici, a cura di, C’era due volte. Fondi fotografici e patrimonio artistico. Bologna: SPSAD / Minerva Edizioni, 2004

 

Giusa  1995

Antonio Giusa, Fotografi e fotografie della S.A.F., “Immagine e cultura”, 2 (1995), n.2, marzo, pp.22-33

 

Grabaudi, Falzone  1979

Elisa Gribaudi Rossi, Michele Falzone del Barbarò, Carnet di ballo. Milano: Longanesi & C., 1979

 

Griseri, Gabetti  1973

Andreina Griseri, Roberto Gabetti, Architettura dell’eclettismo: un saggio su Giovanni Battista Schellino. Torino: Einaudi, 1973

 

Grohn 1971

Hans Werner Grohn, L’opera completa di Holbein il giovane. Milano: Rizzoli, 1971

 

Heilbrun  2004

Françoise Heilbrun, Paesaggio e natura. Milano: 5 Continents Editions, 2004

 

Heilbrun, Néagu  1986

Françoise Heilbrun, Philippe Néagu, Musée d’Orsay. Chefs-d’œuvre de la collection photographique. Paris: Philippe Sers – Réunion des musées nationaux, 1986

 

L’immagine rivelata  1998

L’immagine rivelata. 1989. Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, 1998), a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998

 

Infinitamente  2004

Infinitamente al di là di ogni sogno. Alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra (Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004

 

Invention  1989

L’invention d’un regard (1839 – 1918), catalogo della mostra (Parigi, 1989), a cura di, Françoise Heilbrun, Bernard Marbot, Philippe Néagu. Paris: Réunion des Musées Nationaux, 1989

 

L’Italia d’argento  2003

L’Italia d’argento 1839/ 1859. Storia del dagherrotipo in Italia, catalogo della mostra (Roma, Firenze, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli. Firenze: Alinari, 2003

 

Italien  1994

Italien. Sehen und Sterben. Photographien der Zeit des Risorgimento, catalogo della mostr (Colonia, 1994), a cura di Bodo von Dewitz, Dietmar Siegert. Köln: Agfa Foto-Historama, 1994

 

Jammes  1981

Isabelle Jammes, Blanquart- évrard et les origines de l’édition photographique française: catalogne raisonné des albums photographiques édités 1851 – 1855. Genève: Droz, 1981

 

Jammes, Parry Janis  1983

André Jammes, Eugenia Parry Janis, The Art of French Calotype. Princeton: Princeton University Press, 1983

 

Krauss  1996

Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia.  Milano: Bruno Mondadori, 1996

 

In the Light of Italy  1996

In the Light of Italy. Corot and Early Open-Air Painting, catalogo della mostra (Washington, Brooklyn, Saint Louis, 1996 – 1997), a cura di Peter Galassi. Washington: National Gallery of Art, 1996

 

Maccaferri, Sergi  1986

Gianfranco Maccaferri, Fortunato Sergi, a cura di, 1870 – 1940. I fotografi della Valle d’Aosta. Aosta: Musumeci, 1986

 

Maestà di Roma  2003

Maestà di Roma. Da Napoleone all’Unità d’Italia, catalogo della mostra (Roma, 2003), a cura di Sandra Pinto, Liliana Barroero, Fernando Mazzocca. Milano: Electa, 2003

 

Maggio Serra  1977

Rosanna Maggio Serra, La fotografia nel Fondo D’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonte 1977, pp. 17-20

 

Maggio Serra  1979

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  Galleria Civica d’Arte Moderna. Acquisizioni 1971 – 1978. Torino: Città di Torino – Assessorato per la cultura – Musei Civici, 1979

 

Maggio Serra  1981

Rosanna Maggio Serra, Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade 1981, pp. 19-43

 

Maggio Serra  1988

Rosanna Maggio Serra, Il vero e il paesaggio in Piemonte: vent’anni di polemiche e dibattiti, in Il Secondo ‘800 italiano. Le poetiche del vero,  catalogo della mostra (Milano, 1988), a cura di Renato Barilli. Milano: Mazzotta, 1988, pp. 90-104

 

Maggio Serra  1993

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  L’Ottocento. Catalogo delle opere esposte. Milano: Fabbri Editori, 1993

 

Maggio Serra  1994

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  Repertorio delle opere su carta acquisite per la Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino 1982 – 1992.  Torino: Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris – Umberto Allemandi & C., 1994

 

Maggio Serra  1997

Rosanna Maggio Serra, Qualche novità su Avondo pittore. Studi sul fondo di disegni e dipinti della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 61-93

 

Maggio Serra  2003

Rosanna Maggio Serra, L’arte in mostra nella seconda metà dell’Ottocento, in Umberto Levra, Rosanna Roccia, a cura di, Le esposizioni torinesi 1805 – 1911,. Torino: Archivio Storico della Città di Torino, 2003, pp. 297-322

 

Maggio Serra, Signorelli 1997

Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo (1836 – 1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, Nuova Serie – Atti – v. IV, 1997

 

Mallè  1970

Luigi Mallè, I Musei Civici di Torino. Acquisti e Doni 1966 – 1970. Torino: Museo Civico di Torino, 1970

 

Marbot  1991

Bernard Marbot, Les photographes oubliées de la  forêt de Fontainebleau, in Challe, Marbot 1991 , pp. 14-18

 

Margiotta  2003

Anita Margiotta, La Scuola Romana di Fotografia, in Roma 1850 2003 , pp. 28-34

 

Mario Gabinio  1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Mario Gabinio  2000

Mario Gabinio. Valli piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, 2000-2001), a cura di P. Cavanna. Torino: Edizioni GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 2000

 

Mascia  2000

  1. M. [Alessandra Mascia], Paolo Gaidano, (scheda biografica), in Dragone 2000, pp. 334

 

Matteucci  1997

Giuliano Matteucci, Il fondo fotografico di Telemaco Signorini dell’archivio Vitali, in Telemaco Signorini. Una retrospettiva, catalogo della mostra (Firenze, 1997). Firenze: Artificio, 1997, pp. 184 -236

 

1899, Un progetto di fototeca  2000

1899, Un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, 2000), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici – Electa, 2000

 

Millozzi  2005

Federica Millozzi, Studio Salviati, in Venezia, la tutela per immagini. Un caso esemplare dagli archivi della Fototeca Nazionale, catalogo della mostra (Roma, 2005), a cura di Paola Callegari, Valter Curzi. Bologna: Bononia University Press, 2005

 

Miraglia  1981

Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839 – 1911),  “Storia dell’Arte italiana”, 9, “Grafica e immagine. II. Illustrazione e fotografia”. Torino: Einaudi, 1981, pp. 421-543

 

Miraglia  1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia  1996

Marina Miraglia, a cura di, Alle origini della fotografia. Luigi Sacchi lucigrafo a Milano 1805 – 1861. Milano: Federico Motta Editore, 1996

 

Miraglia  2003

Marina Miraglia, La fotografia, in Maestà di Roma 2003, pp. 565-581

 

Mirisola  2004

Vincenzo Mirisola, a cura di, Sicilia Mitica Arcadia – Von Gloeden e la “Scuola” di Taormina. Palermo: Edizioni Gente di Fotografia, 2004

 

Mirisola, Di Dio  2004

Vincenzo Mirisola, Michele di Dio, a cura di, Sicilia ‘800 – Fotografi e Grand Tour.  Palermo: Edizioni Gente di Fotografia – Fototeca Regionale, 2004

 

Mollino  1949

Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [1950]

 

Moncalvo  1997a

Enrico Moncalvo, Tableaux vivants tra Romanticismo e Modernismo, in Presenze. L’avanguardia temperata di Riccardo Moncalvo, catalogo della mostra (Torino, 1997-1998), a cura di Aldo Audisio. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1997, pp. 78-91

 

Moncalvo  1997b

Enrico Moncalvo, La residenza torinese di Vittorio Avondo: la palazzina di via Napione nel contesto delle tipologie coeve, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 199-208

 

Monumento Nazionale  1892

Monumento Nazionale al Principe Amedeo. Relazione della Giuria. Torino: Vincenzo Bona, 1892

 

Museo Civico  1905

Museo Civico di Torino – Sezione Arte anticaCento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo. Torino: Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo di Sambuy, 1905

 

Naef  1980

Weston Naef, The beginning of Photography as Art in France, in After Daguerre: Masterworks of French Photography (1848 – 1900) from the Bibliothèque Nationale, catalogo della mostra (Paris, New York, 1980-1981), Bernard Marbot, Weston J. Naef, eds. New York / Parigi: The Metropolitan Museum of Art / Berger-Levrault, 1980

 

Natale  1993

Vittorio Natale, Alessandro Puttinati, in Maggio Serra 1993, p. 109

 

Negro  1956

Silvio Negro, Album romano. Roma: Gherardo Casini Editore, 1956

 

Negro  1964

Silvio Negro, Nuovo Album romano. Fotografie di un secolo. Vicenza: Neri Pozza Editore, 1964

 

Novara  1992

Carla Novara,  La Galleria d’Arte Moderna della città di Torino: la storia di un’istituzione: 1863 – 1910, tesi di laurea in Storia della critica d’arte, relatore Giovanni Romano, Università degli studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1991 – 1992

 

Paoli  2000a

Silvia Paoli, Domenico Bresolin, in 1899, un progetto di fototeca 2000, p. 161

 

Paoli  2000b

Silvia Paoli, Guigoni & Bossi, in 1899, un progetto di fototeca 2000, p. 187

 

Paoli  2004

Silvia Paoli, a cura di, Lamberto Vitali e la fotografia. Collezionismo, studi e ricerche. Milano: Silvana Editoriale, 2004

 

Papone  2003

Elisabetta Papone, “Al chiarissimo Antonio Cipolla… il Municipio di Genova”: un album tra fotografia, architettura e politica, in Fotografi e fotografie, “Bollettino dei Musei Civici Genovesi, 23 (2001), nn. 68/69, maggio – dicembre, pp. 6-19

 

Pettenati  1996

Silvana Pettenati, Francesco Marmitta, in Il tesoro della città 1996, pp. 41-42

 

Pettenati  1997

Silvana Pettenati, Vittorio Avondo e le arti applicate all’industria, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 95-102

 

Piemonte  1930

Touring Club Italiano, Piemonte, “Attraverso l’Italia”, I. Milano: Touring Club Italiano, 1930

 

Pirani  2003

Federica Pirani, “Amici e rivali. Ippolito Caffi e Giacomo Caneva tra pittura e fotografia”, in Roma 1850  2003, pp. 42-47

 

Pittori fotografi  1987

Pittori fotografi a Roma 1845 – 1870, catalogo della mostra (Roma, 1987), a cura di, Lucia Gavazzi, Anita Margotta, Simonetta Tozzi. Roma: Multigrafica Editrice, 1987

 

La poesia del vero  2001

La poesia del vero. Pittura di paesaggio a Roma tra Ottocento e Novecento da Costa a Parigini, catalogo della mostra (Macerata – Camerino, 2001), a cura di Gianna Piantoni. Roma: De Luca, 2001

 

Porretta  1976

Sebastiano Porretta, Ignazio Cugnoni fotografo. Torino: Einaudi, 1976

 

Prandi  1979

A.P. (Alberto Prandi), Veneto, in Fotografia italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Venezia, 1979), a cura di Daniela Palazzoli, Marina Miraglia, Italo Zannier. Milano / Firenze: Electa / Alinari, 1979, pp. 123-126

 

Prandi  2003

Alberto Prandi, La dagherrotipia nel Veneto, in L’Italia d’argento 2003, pp. 194-200

 

Prima Esposizione  1890

Prima Esposizione Italiana di Architettura. Torino 1890: Catalogo. Torino: Tip. Origlia, Festa e Ponzone, 1890

 

Quintavalle  2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Rampin  2001

Marina Rampin, Giacomo Caneva pittore, “Fotologia” v. 21-22, 2001, pp. 58-61

 

Reteuna  1991

Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino, “Fotologia” v. 13, 1991, pp. 30-39

 

Reteuna  1997

Dario Reteuna, a cura di, Album di famiglia 1850-1940, catalogo della mostra (Torino, 1997). Torino: Fondazione Italiana per la Fotografia, 1997

 

Roma 1850  2003

Roma 1850: il circolo dei pittori fotografi del Caffè Greco, catalogo della mostra (Roma /  Parigi, 2003 – 2004), a cura di Anne Cartier-Bresson, Anita Margiotta. Milano: Electa, 2003

 

Romano  1988

Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp. 11-32

 

Romano  1994

Serena Romano, a cura di, L’immagine di Roma 1848 – 1895. La città, l’archeologia, il medioevo nei calotipi del fondo Tuminello. Napoli: Electa Napoli, 1994

 

Rossetti Brezzi  1999

Elena Rossetti Brezzi, L’arredo pittorico, in Barberi 1999, pp. 51-54

 

Rossi  1912

Teofilo Rossi, In memoria di Vittorio Avondo. Inaugurazione della lapide decretata dal Municipio a Vittorio Avondo nella sede del Museo Civico di Arte applicata all’Industria, 14 dicembre 1912. Torino: Tip. G.B. Vassallo, 1912

 

Rouillé  1992

André Rouillé, La photographie entre controverse et utopie, in Usage de l’image au XIXe siècle, atti del convegno, (Paris, Musée d’Orsay, 1990), Stéphane Michaud, Jean-Yves Moloinier, Nicole  Savy, dir. Paris: Editions Créaphis, 1992 , pp. 249 – 256

 

Sagne  1994

Jean Sagne, Portraits en tout genre. L’atelier du photographe , in Michel Frizot, dir., Nouvelle Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1994 , pp. 102-122

 

Scaramella  1999

Lorenzo Scaramella, Fotografia. Storia e riconoscimento dei procedimenti fotografici. Roma: Edizioni De Luca, 1999

 

Schnitzler  1999

Bernadette Schnitzler, Robert Forrer (1866 – 1947) archeologue, écrivain et antiquaire. “Recherches et documents”, tome 65. Strasbourg: Société Savante d’Alsace, 1999

 

Schrader  1910

Bruno Schrader, Die Römische Campagna. Leipzig: E.A. Seemann, 1910

 

Scharf  1979

Aaron Scharf, Arte e Fotografia. Torino: Einaudi, 1979

 

Schwarz  1992

Heinrich  Schwarz, Arte e Fotografia. Precursori e influenze,  a cura di Paolo Costantini. Torino: Bollati Boringhieri, 1992

 

Sella  1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del fotografo. Trattato teorico-pratico di fotografia. Torino: Tipografia G.B. Paravia e Comp., 1863

 

Signorelli  1997

Bruno Signorelli, Il personaggio di Vittorio Avondo e le fonti documentarie per ricostruirne la figura, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 11-29

 

Simone  1965

Mario Simone, a cura di, Saverio Altamura. Pittore – patriota foggiano nell’autobiografia, nella critica e nei documenti. Foggia: Studio Editoriale Dauno, 1965

 

Simonetti  1999

Antonella Simonetti, Campagne fotografiche storiche di monumenti pugliesi nella Fototeca della Soprintendenza di Bari, in Castelli e cattedrali 1999, pp. 81-85

 

Società  1999

Società Fotografica Subalpina 1899-1999. Torino: Daniela Piazza Editore, 1999

 

Solomon-Godeau  2002

Abigail Solomon-Godeau, Calotypomane. Guide du gourmet en photographie historique, “ètudes photographiques”, n.12, novembre 2002, estratto

 

SPABA  1880

“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880

 

SPABA  1883

“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”,  IV, 1883

 

Stella  1893

Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte. Torino: Paravia, 1893

 

Strategie  2001

Strategie per la fotografia. Incontro degli archivi fotografici, atti del convegno (Prato, 2000), a cura di Oriana Goti, Sauro Lusini.  Prato: Comune di Prato – Archivio Fotografico Toscano, 2001

 

Tamassia  2002

Marilena Tamassia, Firenze ottocentesca nelle fotografie di J.B. Philpot. Livorno: Sillabe, 2002

 

Tamburini, Falzone del Barbarò  1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza, 1981

 

Taramelli  1898

Andrea Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp. 106-110; n.22, pp. 171-175; n.23, pp. 177-179

 

Il tesoro della città  1996

Il tesoro della città. Opere d’arte e oggetti preziosi da Palazzo Madama, catalogo della mostra (Torino, 1996),  a cura di Silvana Pettenati, Giovanni Romano. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Thovez  1912

Enrico Thovez, L’opera pittorica di Vittorio Avondo. Torino: Edizioni d’Arte E. Celanza, 1912

 

Tittoni, Margiotta  2002

Maria Elisa Tittoni, Anita Margiotta, a cura di, Scenari della memoria. Roma nella fotografia 1850 – 1900. Roma: Comune di Roma – Electa, 2002

 

Toesca  1911

Pietro Toesca, Torino.  Bergamo: Istituto italiano d’arti grafiche, 1911

 

Torino  1884

Torino e l’Esposizione Italiana. Cronaca illustrata della Esposizione Nazionale Industriale e Artistica del 1884. Torino / Milano: Roux e Favale / Fratelli Treves, 1884

 

Torino 1902  1994

Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994

 

Vanzella  1997

Giuseppe Vanzella, Padova. I fotografi e la fotografia nell’Ottocento. Campodarsego: Gruppo Carraro, 1997

 

Varignana  1993

Francesca Varignana, Pietro Poppi “peintre-photographe”, in Andrea Emiliani, Italo Zannier, a cura di, Il tempo dell’immagine. Fotografi e società a Bologna 1880 – 1980. Torino: Seat, 1993, pp. 57-85

 

Viale  1933

Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte. Torino: Tip. Anfossi, 1933

 

Viale  1949

Vittorio Viale, In memoria Lorenzo Rovere (1869 – 1950), “Bollettino SPABA”, N.S., 3 (1949), pp. 164-166

 

Viale  1965

Vittorio Viale, Museo Civico di Torino. Acquisti e doni dal 1961 al 1965, dattiloscritto, s.d. [1965]

 

Vitulo  1997

Clara Vitulo, Vittorio Avondo e la Commissione consultiva per i monumenti nazionali d’antichità e belle arti, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 191-197

 

Volpiano  1999

Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura. Torino: Celid, 1999

 

Wey  1851

Francis Wey, De l’influence de l’héliographie sur les Beaux-Arts, “La Lumière”, 1851, ora in Michel Frizot, Françoise Ducros, dir., Du bon usage de la photographie. Paris: Centre national de la Photographie, 1987, pp. 57-71

 

Zannier  1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

 

Scenderò nei vostri cuori a corda doppia: il racconto del cinema per immagini fisse (2004)

in  Le “stelle” parlano al vostro cuore: la fotografia nel cinema delle montagne, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1 dicembre 2004 – 6 febbraio 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004, pp. 17-31

 

 

Non so cosa avesse in mente William Wadsworth Hodkinson nel 1914. Fu quando pensò ad una montagna coronata di stelle per il marchio della neonata casa di distribuzione della Paramount: un colpo da maestro per chiunque avesse dovuto promuovere un’impresa destinata a vendere sentimenti & sogni.

Il cinema non aveva ancora vent’anni e già si avviava a diventare industria, consumo di massa; già sentiva il bisogno  vitale di legare a sé lo spettatore, l’agognato acquirente dei propri prodotti con lo strumento irresistibile della fascinazione, con l’astuta costruzione di icone, di immagini a forte carica simbolica.

Qui: la montagna, le stelle. Passi per queste ultime, per quell’intreccio di richiami che contengono, in cui la bandiera americana incontra lo splendore inarrivabile e freddo del firmamento siderale, profezia più che promessa del sistema hollywoodiano. Ma la montagna? Certo, l’aggettivo (paramount / supremo) conteneva il sostantivo e con questo il marchio, ma soprattutto questo ne era, a sua volta, la più efficace e sintetica raffigurazione, carica di secoli di tradizione iconografica, non ancora tragicamente interrotta, se mai lo fu – in quell’anno, e negli USA poi – dal sipario della Grande guerra. Come ci ha mostrato Hobsbawm, in quel 1914 si era solo alle soglie del “secolo breve”; i conti col XIX secolo erano tutt’altro che chiusi e l’immaginario collettivo poteva ancora facilmente comprendere e condividere tutto il carico simbolico e fantastico che si era accumulato intorno al tema della montagna almeno a partire dalla seconda metà del Settecento, portando poi uno spirito raffinato e sensibile come John Ruskin, ormai ben oltre la metà dell’800, a rievocare la sua prima visione dello spettacolo alpino come qualcosa “incredibilmente al di là di ogni sogno”,  rinnovando lo stupore fiabesco e terribile che aveva toccato i primi esploratori come  Pierre Martel, colui che per primo aveva utilizzato il toponimo di Monte Bianco, nel 1744, cui le sorgenti dell’Arveyron erano apparse fatte di “volte interamente di ghiaccio, di uno stile simile a quello delle grotte di cristallo inventate dalla favolistica come dimora delle Fate.” (Joutard, 1993: 87)

Non solo la montagna veduta però, con la sua geologia fantasmagorica sarà fonte di meraviglie e racconti. Anche la civiltà alpina, con le sue Storie e storie e poi il fiorente sviluppo dell’alpinismo (anche lui frutto maturo del XIX secolo) forniranno infinita materia per narrazioni tra evento e metafora, tra cronaca ed etica: come le fiabe.

Purezze di ambienti e di sentimenti; sacrifici necessari o liberamente scelti; ascensioni e ascesi: figure e percorsi comuni alle più antiche culture del mondo si offrivano,  disponibili ad alimentare la fame insaziabile di storie della nascente industria; un intero universo in cui lo scenario alpino era immediatamente leggibile, e utilizzabile quindi come elemento connotativo della psicologia dei personaggi, sino ad assumere un vero e proprio ruolo drammaturgico: la montagna (forse ancor più di altri luoghi) non è mai stata semplice scenario, fondale indifferente.

Insieme al cinema e alla sua industria  nasceva il materiale illustrato con funzione promozionale, specialmente manifesti dapprima, adottando forme di pubblicizzazione di altri spettacoli a basso costo come il music-hall, il teatro popolare e il circo. Nei primi anni di questa vicenda il soggetto del manifesto si riferiva piuttosto allo spettacolo in sé che non ai suoi contenuti, anzi era specialmente il pubblico con la sua vivace reazione alle prime proiezioni ad essere raffigurato (Bozza, 1995: 12), mentre la presentazione del soggetto, le suggestioni della trama erano piuttosto affidate alle fotografie di scena, distribuite sotto forma di cartoline o di vere e proprie stampe fotografiche, montate su eleganti supporti, destinate a svolgere in parte la funzione che poi sarebbe stata affidata alle fotobuste. Una collezione di scene cruciali offerta al potenziale spettatore, a ciascuno di noi; ai non proprio infiniti modelli di lettore per cui sono state pensate e prodotte, consapevolmente costruite per far leva sui meccanismi del nostro immaginario, per suggerire attrattive e senso di quel titolo, per indurci a varcare la soglia che separa la banalità del quotidiano dall’amniotico spazio sognante del cinematografo.

Attenzione però. Le foto di scena non sono il film, anzi potremmo quasi arrischiarci a dire che intrattengono con questo un rapporto analogo a quello che il ritratto ha con la persona: ne rileva alcuni aspetti, dice di ciascuno solo alcune cose. Queste fotografie sono il racconto di un racconto, forme diverse di narrare quella vicenda complessa che è costituita dalla trama del film, con quegli interpreti, sotto la direzione di quel regista, che si svolge in quei luoghi, e così via. Esse sono da sempre un racconto parallelo alla narrazione filmica, da cui le distingue non solo l’intenzionalità ma anche la logica espressiva;  si pensi all’uso di inquadrature diverse, anche molto lontane dai vincoli propri della ripresa cinematografica quali ad esempio il ricorso al formato verticale.  Sono immagini che presuppongono la  “reinvenzione dell’inquadratura e della recitazione degli attori”, si veda qui La roccia incantata di Giulio Morelli (1950),  necessariamente mutate nel passaggio dalla mobile durata del film  all’immobile istantaneità della fotografia, così come dalla diversa fruizione cui sono destinate: come ha ricordato icasticamente Angelo Schwarz “Guardare un film e guardare una fotografia non sono la stessa cosa”. (Schwarz, 1995: 43).

È da questa necessità comunicativa, ancor più che dalle forti limitazioni tecniche che nascono l’impossibilità di utilizzare il semplice fotogramma estratto dalla ripresa filmata e la volontà di concepire un prodotto specifico; ed è ancora per questo che le foto di scena e di cast non sono e non possono essere un puro duplicato del fotogramma stesso, ma comportano e impongono un’ulteriore messa in scena, che è fotografica; un racconto per immagini fisse destinato a dialogare, in modi più o meno efficaci e felici, con le altre componenti grafiche della fotobusta o del manifesto: dalle figure al carattere ed al corpo dei testi. Per queste ragioni ciò che più ci ha interessato in questa occasione non è stato tanto il cosa viene narrato, che è poi quasi un’invariante: drammi, sentimenti, tragedie del cuore, avventure e prodezze, ma il come. Come viene orchestrata questa narrazione che è anticipo e promessa di un ben più complesso narrare, verificandone a titolo esemplificativo i meccanismi e i generi sulla copiosa collezione di materiali cinematografici promozionali (manifesti, locandine, fotobuste, fotografie di scena e di lavorazione, albi e pubblicazioni a stampa varie) del Museo nazionale della Montagna di Torino, che ha negli anni dedicato una particolare attenzione a questi temi anche mediante la produzione di mostre e cataloghi, per indagare “il cambio di approccio alla montagna, all’alpinismo, all’esplorazione.” (La cordata delle immagini, 1995: 59)  Questi strumenti si sono rivelati indispensabili anche per la realizzazione del nostro progetto, che ad essi idealmente si riferisce adottando però il punto di vista parziale e settoriale della verifica delle modalità d’uso della fotografia in queste strategie di comunicazione, cioè di quella tipologia di immagini che più si approssima e quasi si confonde con quella cinematografica godendo però del credito di un maggior realismo, verificandone gli esiti nello specifico contesto del cinema di montagna. Abbiamo così provato a indagare i modi e i significati della reinvenzione dell’universo alpino, sovente ridotto alle sue componenti più connotate e paradigmatiche, per far emergere ricostruzioni che mostrano nell’artificiosità retorica del discorso non solo un’efficace funzionalità pubblicitaria, ma anche una più sottile e precisa capacità di rivelare le molteplici forme che le diverse idee di montagna hanno assunto nell’immaginario collettivo degli ultimi cento anni, offerte agli sguardi e alle attese degli spettatori immersi nel buio della sala.

Con l’affermarsi della montagna quale luogo accessibile, liberato da vincoli sacrali, e poi dell’alpinismo si definisce quella dicotomia ancora attuale che porta a distinguere la montagna immaginata, concepita e vissuta come scenario, da quella praticata: nella dura fatica quotidiana dei valligiani così come nella frequentazione sportiva e agonistica. È quella stessa distinzione che ritroviamo nella produzione cinematografica a soggetto, quando la scena e i personaggi che la animano si trasformano esplicitamente in spettacolo, luogo e ambiente di diverse trame possibili, contesto adeguato alla messa in scena di passioni forti, distillate. Una dura e maestosa scenografia in cui si muove  un manipolo di attori: protagonisti, comprimari e comparse ma sempre eroi, del bene o del male, disposti di volta in volta a coprire ruoli drammatici, romantici o più raramente comici, dove argomento o ambientazione alpina contemplano funzioni diverse, coerenti ai differenti generi. A ciascuno di questi corrispondono modi specifici di comunicare, ulteriormente distinguibili per cronologia e nazionalità; tutti elementi concepiti per meglio far presa sull’immaginario di uno specifico pubblico, per soddisfare le sue attese, per quanto indotte.

Per questo insieme di ragioni la nostra scelta ha privilegiato il cinema in montagna, i lungometraggi a soggetto, piuttosto che il cinema di montagna, più tecnico e documentaristico, che in virtù di differenti mezzi e finalità di produzione e per essere esplicitamente destinato ad un pubblico specializzato e attento, competente e informato ci è parso utilizzare una minore varietà di strutture narrative e di strategie di comunicazione.

L’attenzione ai modi del comunicare ed alla loro efficacia è stata valutata in termini di esperienza piuttosto che di verifica di ipotesi critiche, badando alle forme di costruzione di senso ed ai sistemi di valori, anche affettivi, sentimentali su cui si fondano e rimandano, ciò che ci ha portati a considerare non tanto le singole produzioni né le diverse tipologie di autori coinvolti (dagli art director, ai fotografi di scena ai grafici, cui andrebbe dedicata una storia a sé) quanto piuttosto a istituire confronti diretti da cui far emergere la presenza di stereotipi, la messa in atto (non la messa a punto) di luoghi topici del racconto riferibili a precisi orizzonti culturali, proponendo una riflessione che parte dall’empirica immediatezza dell’evidenza visiva.  Il nostro è stato un procedere per gradi, dotato di una sistematicità che si vuole solo strumentale, destinata a comprendere  non a classificare. Poiché la necessità era quella di stabilire utilitaristicamente un percorso  di lettura, in prima approssimazione abbiamo considerato le differenze tra i materiali che presentano un uso esclusivo della fotografia e quelli che la combinano con la grafica, senza tener conto delle diverse tipologie di prodotto, dai manifesti alle pubblicazioni promozionali,  per porci alla continua ricerca di senso attraverso le permanenze e le innovazioni visuali legate ai temi ed ai diversi contenuti del racconto cinematografico, sin quasi a sfiorare il concetto stesso di “genere”, ma senza porci qui il problema della necessità critica della sua utilizzazione, in favore di una maggiore libertà, e arbitrarietà quindi degli accostamenti e dei confronti. Una questione di sguardi.

Tra fiaba e mitologia i primi materiali promozionali, come la bella serie di cartoline dedicate al Guillaume Tell di Lucien Nonguet (1904), mostrano scenografie alpine di puro artificio melodrammatico: villaggi, foreste e dirupi da teatro di posa, offerti in tutta la loro convenzionalità rappresentativa, in relazione strettissima coi fondali dipinti e le attrezzerie varie, le rocce in gesso e cartapesta che si utilizzavano negli studi fotografici ottocenteschi quali elementi connotativi per la realizzazione del ritratto, qui offerti come pura invenzione attingendo alle convenzioni  di una precedente forma di rappresentazione, il teatro, e il teatro musicale in particolare, quasi a rivendicare una familiarità, una consuetudine, a suggerire una novità meno perturbante. Questo ordine di preoccupazioni sarà ben presto abbandonato e ribaltato anzi, tanto che le foto promozionali giocheranno sempre consapevolmente con tutti i codici della verosimiglianza per sottolineare la meraviglia del cinema, per costruire una finzione col massimo grado di realtà apparente,  confermata proprio dal mezzo utilizzato per veicolare l’informazione, da quella fotografia che tutta la cultura del secolo XIX aveva considerato massimamente oggettiva. Le prodezze narrate, così mostrate, non potevano che essere vere, sebbene inverosimili, contribuendo a trasformare l’interprete protagonista in divo, qualcuno cui era concesso di agire e vivere al di sopra della mediocre quotidianità, disponibile alla mitica proiezione del sogno dello spettatore. Le prime fotobuste non per caso presentano – si veda quella di The Valley of Silent Men (Frank Borzage, 1922) – un trattamento grafico complessivo che richiama proprio le forme di presentazione delle più lussuose stampe fotografiche coeve, con l’immagine a pieno campo racchiusa da un’elegante cornice grafica che richiama le decorazioni degli esemplari reali, mentre le informazioni testuali, con l’esclusione di quelle relative alla casa di produzione, sono sovrapposte alla figura; non solo titolo e interprete, però: al tempo del muto la locandina riporta anche la didascalia della scena raffigurata, generando una relazione testo – immagine che la colloca in una concatenazione di formule illustrative che  dal romanzo d’appendice  giunge sino al  fotoromanzo, mentre negli esempi successivi la distinzione tenderà a farsi più netta, con l’assumere d’importanza  – per trattamento e contenuti – della cornice grafica. È questa a costituire una delle tipologie ricorrenti dei materiali promozionali, in particolare proprio delle fotobuste, cioè  dell’insieme degli stampati pubblicitari esposti dagli esercenti in occasione della proiezione del film, di formato non superiore ai 50×70 cm, in cui  accanto alle indicazioni testuali vengono riprodotte una o più fotografie di scena (Schwarz, 1995: 43). Al contrario di quanto accade con il manifesto (o la locandina, che ne deriva) che ha una funzione sintetica, determinata dalla necessità di “inventare una nuova struttura di figurazione dotata di logiche e interrelazioni proprie” (Bertetto, 1995: 25), in grado di emergere visivamente dal sovraccarico contesto urbano, fornendo una “rappresentazione concentrata-esemplare del film” di cui costituisce un “correlato visivo-formale [una sua] intensificazione emozionale e visiva” (idem) le fotobuste si pongono rispetto all’insieme della narrazione filmica come “una sorta di indice analitico” (Sturani, 1995: 50) e da queste differenti funzionalità deriva un’ulteriore autonomia e specificità delle due forme narrative, pur comprese all’interno di uno stesso progetto promozionale, in cui ogni elemento è strategicamente dotato di significato. Tale diversità si coglie in particolare  nella diversa risoluzione dei problemi posti dalla rappresentazione del tempo, nei diversi modi utilizzati per restituire compiutamente la durata propria del racconto cinematografico, ciò che impone di far ricorso a più immagini, siano esse nettamente distinte tra loro come nelle fotobuste sia che la loro utilizzazione avvenga mediante diverse forme di assemblaggio, dal collage all’accostamento seriale. Lo svolgimento nel tempo si traduce sempre in articolazione nello spazio e dello spazio, aggiornando ulteriormente soluzioni iconografiche di tradizione millenaria. Quando invece è una sola immagine a prevalere ad essa è affidato il compito di suggerire le caratteristiche complessive del film avvalendosi quasi esclusivamente di elementi connotativi, non potendo quasi mai – nella cinematografia qui considerata – affidarsi alla presenza risolutiva dell’effigie del divo. Vediamo allora entrare in gioco, sapientemente utilizzati, una serie infinita di rimandi e richiami alle culture visive più diverse: dalle raffinatezze calligrafiche della tradizione pittorialista ai richiami, quasi citazioni, ai grandi modelli della fotografia del XIX secolo, non solo di montagna; dalle letture ironicamente familiari dell’universo di segni urbani alle soglie della Pop Art (si veda la perfetta foto di scena di Bus Stop, Joshua Logan,1956) sino alla più recente appropriazione di formule descrittive derivate dalla produzione televisiva nelle sue più diverse accezioni (Hot Dog, Peter Markle, 1984; Cinquième saison, Bahram Beizai, 1997).

Anche il ritratto, pur nella sua apparente povertà di elementi costitutivi, rivela un universo di riferimenti precisamente orientati: si veda il primissimo piano di Trenker/ Carrel in Der Kampf ums Matterhorn / La grande conquista (Mario Bonnard, Nunzio Malasomma, 1928) accostabile ai migliori esempi fotografici presentati nel 1929 a Film und Foto la grande esposizione di Stoccarda che sancì l’affermazione delle poetiche moderniste, ma anche quello di poco successivo di Leni Riefenstahl sulla copertina dell’ “Illustrierter Film-kurier” dedicato a Das blaue licht/ La bella maledetta (Leni Riefenstahl, 1932), cui sembra a sua volta  rifarsi il disegno della copertina per  Die Geierwally / Wally dell’avvoltoio (Hans Steinhoff,1940). Non è difficile procedere in questo modo sino alle produzioni più recenti e provare a rintracciare ulteriori modelli e riferimenti: dal ritratto in studio alla fotografia antropologica, dal riaffiorare di elementi neorealisti alla patinata vacuità da soap opera. Un elemento forte pare riproporsi nel tempo, costante: lo sguardo. Indispensabile per la connotazione del personaggio, ma anche palese rispecchiamento del gesto compiuto dallo spettatore. Anche le più consuete immagini domestiche, di produzione casalinga e privata possono però essere utili allo scopo quando sia necessario presentare drammi e vicende familiari (Seine Tochter ist der Peter, Heinz Helbig, 1936) o commedie sentimentali di vario  tono e ambientazione (Everithing happens at night, Irving Cummings, 1939;  Sans Lendemain/Tutto finisce all’alba,  Max Ophüls, 1940) in cui il ritratto ambientato da album privato può coniugarsi coi modelli proposti dai settimanali per famiglie del secondo dopoguerra (è l’amor che mi rovina, Mario Soldati, 1951). Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, quasi all’infinito. Per questo è più opportuno limitarsi a rilevare indizi, ad avanzare ipotesi provando ad esempio a notare il senso di spaesamento che emerge dalle immagini tanto simili utilizzate per due film francesi così diversi quanto Le fugitif  (Robert Bibal) e La Symphonie pastorale (Jean Delannoy) , ma entrambi del 1946; a confrontare il diverso trattamento di elementi analoghi (la coppia, la neve) utilizzati per definire l’erotismo nei manifesti di Downhill racer/ Gli spericolati  (Michael Ritchie, 1969), con l’incombenza iperrealista dei volti in primissimo piano,  e di Narayama Bushiko / La balada de Narayama (Shoei Imamura,1983,  remake di un film di identico titolo del 1958) con l’efficacissimo contrasto ottenuto dal sovrapporsi privo di mediazioni dell’algido, etereo paesaggio innevato con la potenza tragica dell’abbraccio dei due corpi nudi nell’inserto in primo piano.

Quest’ultimo esempio appartiene ad una specifica tipologia d’immagini, che prevede l’uso di una sintassi per accostamento di elementi diversi, con soluzioni che spaziano dalla pura sovrapposizione ellittica, come in questo caso, alla costruzione di percorsi visivo narrativi ad andamento circolare sino alla costruzione di vere e proprie sequenze, adattando alle esigenze della comunicazione cinematografica schemi della  più diversa provenienza, dalle pagine dei primi grandi periodici illustrati di inizio Novecento come il “Daily Mirror” o lo sportivo “La vie au Grand Air” (Lemagny, Rouillé, 1988: 76- 77) alle più mirate e radicali sperimentazioni delle avanguardie storiche: dai collage dadaisti di Raoul Hausmann a quelli surrealisti di Georges Hugnet (Krauss, Livingstone, Ades, 1985: 212 – 213) sino ai fotomurali ampiamente utilizzati negli allestimenti razionalisti degli anni Trenta. In questo periodo il fotomontaggio sembra essere una delle forme privilegiate di comunicazione del film sia nelle sue produzioni d’avanguardia (basti ricordare Walter Ruttmann) sia – e forse soprattutto – nelle diffusioni rivolte al grande pubblico come la copertina firmata Alexandre, del numero speciale di “VU” del Natale 1934, interamente dedicato al cinema (Frizot, 1994: 445) o le decine di “Film-Kurier” prodotti in area tedesca. Per verificare l’esito di questa diffusione osmotica tra avanguardie e produzioni di massa basti qui considerare la bellissima doppia pagina del fascicolo dedicato a Das blaue licht, 1932, con quella concitata giustapposizione di personaggi e azioni che ruotano intorno al testo centrale, avvinti gli uni agli altri da una catena di sguardi, controllatissima, che avrebbe fatto la gioia del John Baldessari di A Movie: Directional Piece Where People are Looking, 1972-1973 (Van Bruggen, 1990: 84), ma anche i due interessanti manifesti realizzati per l’inglese Climbing High (Carol Reed, 1938)  e lo svedese Rötägg / Neiges Sanglantes  (Arne Mattsson, 1946) che adottano un’accorta delimitazione delle scene ottenuta con sottili tracciati geometrici piuttosto che ricomponendo il contorno delle figure; ne deriva una migliore leggibilità complessiva, una sottolineatura delle scene salienti che orienta in maniera più chiara lo sguardo dello spettatore. Questo è certamente lo scopo che ha guidato art director e grafici nell’adozione di uno schema per scene più o meno nettamente separate sin dagli esempi più precoci quali The Gold Rush /La febbre dell’oro (Charlie Chaplin, 1925) per il quale va segnalato un fenomeno che poi sarà ricorrente: l’adozione di soluzioni narrative diverse a seconda delle edizioni:  dalla fotobusta  foto/grafica, con differenti proporzioni (foto prevalente per l’Italia; grafica prevalente per il Messico), al manifesto con più scene accostate ma non sovrapposte (Italia), cui però corrispondono locandine a immagini sovrapposte a formare una nuova scena altrimenti inesistente, insieme sintesi e nuovo racconto, con belle costruzioni interne. La separazione delle singole foto conduce poi quasi naturalmente ad adottare una forma di presentazione lineare delle stesse, palesemente derivata dalla successione di fotogrammi della pellicola cinematografica, pur senza ancora  giungere a produrre una vera e propria sequenza. La perfetta definizione e leggibilità delle singole scene obbliga comunque l’occhio dell’osservatore a muoversi dall’una all’altra, come nello scorrere un testo, introducendo in maniera molto evidente il fattore temporale nella staticità del foglio stampato, come accade nella doppia pagina del fascicolo dedicato a Le fugitif (1946) in cui – volutamente – non risulta possibile identificare chiaramente l’inizio o la fine del racconto per lasciare a chi guarda la libertà della definizione dell’ordine e della stessa direzione di lettura di questa struttura circolare: occasione e stimolo ad esercitare la memoria o viceversa la propria capacità di immaginare storie a partire da semplici indizi, per investigare sulla trama del film che ci si appresta a vedere.

Molte sono in quegli anni le sperimentazioni visive in ambito anche fotogiornalistico, si pensi ai fotoracconti realizzati da Luigi Crocenzi per “Il Politecnico” di Elio Vittorini nel 1946-1947 (Zannier, 1986: 191) certo influenzati dal cinema, ma che a loro volta suggerirono modelli che è facile riconoscere in alcune fotobuste, come quelle de  Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi. Il confronto tra grafica pubblicitaria e fotografia si fa esplicito per giungere sino alla citazione a chiave con 13 Jours en France di Claude Leluch e François Reichenbach (1968) nel cui manifesto spunta, tra una ben orchestrata serie di immagini disposte geometricamente a cornice del titolo, la fotografia di una mano che regge una striscia di provini ottenuti con una photomatic, l’apparecchio automatico per fototessera: il più comune esempio di sequenza fotografica. L’uso più pertinente di questa formula narrativa lo ritroviamo però nel bel manifesto dell’edizione giapponese di Des Hommes et des montagnes di Jean-Jacques Languepin e Gaston Rébuffat (1953), in cui la netta sequenza di scene acrobatiche sulla sinistra costituisce un commento a parte, un approfondimento quasi alla scena centrale così come accade nel manifesto del più recente Pau i el seu germà /Pau et son frère di March Recha (2001), in cui vengono utilizzati congiuntamente due modi propri del racconto fotografico quali la sequenza e il mosso, condotto questo sino ai limiti della riconoscibilità dell’immagine.

Negli esempi sin qui considerati il ruolo della grafica è limitato al lettering o confinato nello spazio più o meno angusto della cornice, ma naturalmente esistono altrettanti esempi di uso combinato con la fotografia e solo la nostra empiria ci ha costretti a separare nettamente le due categorie. È evidente sin d’ora però, e ancor più lo sarà proseguendo il nostro discorso che questa distinzione schematica ha puro valore strumentale. Ciò che ci interessa però non è tanto l’ovvia constatazione della compresenza dei due diversi linguaggi quanto, di nuovo, e ancora, comprenderne le funzioni, il senso. Non pare esserci di molto aiuto per questo la fotobusta messicana di State Secrets /Panico en las Montañas di Sidney Gilliat (1950) col bellissimo raddoppiamento retorico di una scena cruciale restituita col disegno e con la fotografia sul medesimo supporto, mentre più utili indicazioni ci vengono da produzioni antecedenti come Der ewige Traum /Rêve Eternel di Arnold Fanck (1934) o La montagna di cristallo di Edoardo Anton[elli] e Henry Cass (1948) con le fotografie dei due protagonisti sovrapposte a collage su di uno sfondo di cime stilizzate, ad accentuare qui le atmosfere sognanti o melodrammaticamente antirealistiche richiamate dai titoli, impostazione che ritroviamo sostanzialmente immutata anche per The White Tower / Det Hvide Taarn di Ted Tetzlaff (1950)  con la comunione di sguardi dei due protagonisti, rivolti all’impresa degli scalatori disegnati in secondo piano. Qui la diversa natura delle figure pare voler significare il pensiero e il ricordo, il riandare con la memoria ad un episodio decisivo per i loro destini, mentre il volto femminile, assorto, tratteggiato nello spazio uniforme del cielo oltre le montagne di cartapesta de Im schatten des Berges /Les Risque Tout di Alois Johannes Lippl  (1940) assume il significato evidente di una evocazione della protagonista femminile quale deus ex machina dell’intera vicenda. Al contrario, nessuno potrebbe immaginare mai – credo – il conflitto psicologico intorno al quale si sviluppa la vicenda narrata da Urzeczona/ Spellbound di Alfred Hitchcock (1945) a partire dagli indizi forniti dall’elegante manifesto polacco, con la sua grafica leggera, sottilmente ironica, quasi frivola,  che richiama le sole componenti sentimentali della vicenda, trasformando il dramma onirico in commedia. L’utilizzo del montaggio a collage della fotografia su di un campo prevalentemente grafico è in effetti quasi una costante delle tecniche di comunicazione del cinema comico e leggero in genere, ma identico pare essere il meccanismo di funzionamento, identica la riduzione del realismo complessivo della scena raffigurata, che è la conseguenza più evidente e precipua di questa commistione di linguaggi, come mostra in modo paradigmatico il manifesto di 101 dalmatians / La carica dei 101: questa volta la magia è vera di Stephen Herek (1996), esito di un’operazione di merchandising che “serve  – come ammette la stessa Crudelia De Mon – a vendere macchie”. (Morandini, 2001: ad vocem).

Tutti i materiali qui presi in considerazione sono riconducibili alle categorie qui sommariamente delineate, ma per procedere oltre è necessario affinare i criteri, entrare maggiormente nel dettaglio, vedere come queste diverse formule si trasformino compiutamente in retoriche adattandosi e trasformandosi in relazione ai generi e sottogeneri del cinema  “con le montagne”.

L’alpinismo allora, come primo banco di prova. Lo spettacolo puro della montagna celebrato dal gesto inequivocabile della fotografia di scena (e della locandina grafica che ne deriva) di Im kampf mit dem berge di Fanck (1921);  quello spettacolo che era nato con Rescued from an Eagle’s Nest di E.S. Porter, interpretato da David Griffith nel 1907, primo esempio di cinema di finzione a soggetto montano, prima produzione che istituiva anche scenograficamente quella logica di commistione tra riprese in esterni e ricostruzioni in studio che sarà una costante di gran parte di questa cinematografia, costituendo anche elemento discriminante nella identificazione del vero e proprio cinema di montagna. Anche per noi questa differenza può costituire un discrimine, ma non tanto per i suoi risvolti produttivi quanto, come di consueto, per il suo significato, per il diverso meccanismo di coinvolgimento dello spettatore. È per questo che il primo e più interessante degli aspetti emersi dall’osservazione di questi materiali è risultato essere quello dei gesti ricorrenti e – in quanto tali – emblematici, tali da identificare la pratica alpinistica e la figura stessa dell’alpinista nell’immaginario collettivo. Scopriamo così, inaspettatamente, che non è tanto la scena del raggiungimento della vetta ad essere destinata ad attrarre  l’attenzione quanto la sequenza di azioni che conduce alla sua conquista; è l’azione per che affascina, che tocca l’immaginazione dello spettatore, che innesca il meccanismo di identificazione, e il desiderio.

Lo spettacolo della montagna è la montagna spettacolare certo: quella dei grandi panorami e dei silenzi, delle nevi eterne e quiete (o terribili), delle luci taglienti sui crinali, delle bufere, delle piccole silhouette stagliate su scenari immani. Ma questo non basta. Perché lo spettacolo sia completo occorrono il gesto e il dramma, il pericolo, la morte magari: come nell’arena dei gladiatori, e dei tori. Occorrono il sacrificio e la caduta, perché maggiore sia il valore della conquista, in piena coerenza con le radici religiose dell’etica occidentale. C’è sempre un prezzo da pagare, preferibilmente in anticipo. Ecco allora immagini acrobatiche di arrampicate in solitaria, superamento di tetti e salti di crepacci. Lo sforzo si fa terribile, mentre scemano le forze; l’eroe è allo stremo nel momento in cui più gli sarebbe necessario disporre di tutte le proprie energie per sconfiggere l’antagonista (persona o destino che sia). Sempre sul ciglio del burrone. Infine la vittoria sarà raggiunta, e la veloce discesa in corda doppia radicherà per sempre nei nostri cuori il ricordo delle emozioni di questa vicenda. Quando, nel 1928, François Mazeline  pubblica sotto forma di romanzo illustrato l’adattamento della sceneggiatura di Der Kampf ums Matterhorn di Fanck col titolo Le drame du Mont-Cervin, “le fotografie del film” che corredano il testo esauriscono già tutto questo repertorio di scene e costituiscono il prototipo di tutte le produzioni successive, anche quelle meno sensazionalistiche e quasi eticamente “neorealiste”, come  Les étoiles de midi (1959) a proposito del quale il regista Marcel Ichac parlava  – anche polemicamente – di “accent de vérité  si precieux (…) Au lieu de trasposer en montagne une quelconque histoire de rivalité amoureuse ou d’espionnage, pourquoi ne pas raconter des aventure vécues par des alpinistes ? (…) Les tendances actuelles du cinéma sont favorables à ces tentatives. » (Ichac, 1959)

A maggior ragione questi episodi ricorrono nei film girati prevalentemente in studio, nel regno delle montagne d’invenzione con facili location esterne, come nel “picturesque mountain village of Cortina” (Cliffhanger, 1993), della finzione condivisa, della messa in scena inverosimile, fatta di rocce finte e di scaltre riprese dal basso, ad escludere imbarazzanti orizzonti, a rendere monumentale la figura e l’azione, con una montagna resa teatrale e un poco patetica, quando non ridicola, anche nell’era attuale degli effetti speciali massicciamente utilizzati “to simulate reality without the audience noticing the difference” (idem). Se pensiamo a ciò che accadeva alle origini quando – come ricordava Samivel – dopo la visione di Traversata del Grépon di André Sauvage (1925 ca) “i direttori delle sale avevano ricevuto lettere di protesta da certi spettatori che, del tutto sconcertati dall’asperità dei paesaggi di alta montagna in genere (…) accusarono André Sauvage per aver girato su “rocce di cartapesta.”  (citato in Le montagne del cinema, 1990: 108), scopriamo che ora il pubblico è disposto a credere; a farsi illudere dall’inverosimiglianza, ad esserne ammaliato anzi, abbandonandosi volutamente (e voluttuosamente) alle seduzioni della finzione sino a figurarsi almeno per un poco nei panni del protagonista, non a caso posto sempre in bella evidenza in manifesti e fotobuste, e non solo per il puro richiamo divistico. Come spiegare altrimenti l’imbarazzante spettacolo offerto dal buon Spencer Tracy (The Mountain, Edward Dmytryk, 1956) o dall’erculeo Stallone (Cliffhanger, Renny Harlin, 1993) in quei manifesti e locandine inutilmente verticali a sottolineare – oltre all’autonomia dall’inquadratura cinematografica di riferimento – le sovrumane difficoltà dell’impresa, quelle stesse che tanto spassosamente avevano attratto Enrico Sturani? (1995: 48b – 50) Nel cinema di finzione infine non è la verosimiglianza che conta, per definizione; la scelta dichiarata dell’artificio costituisce anzi un  elemento essenziale al mantenimento del meccanismo di  identificazione e al suo rinnovamento: è la percezione della rassicurante convenzionalità del falso (per quanto iperrealistico) che consente di condividere idealmente le peripezie della vicenda così com’è il riconoscimento dell’incommensurabile diversità e distanza dall’audacia e dal tecnicismo dell’alpinista vero che impedisce ai più di partecipare emotivamente al racconto, interponendo il filtro freddo dell’ammirazione.

I mezzi adottati per coinvolgere lo spettatore (la spettatrice? Non sappiamo) giungono sino alla diretta chiamata in causa: “Hang on / Accrochez Vous” intimava sempre Cliffhanger, ma già l’anno prima  aggrappati con le unghie a “20.000 feet / 8000 metri” correvamo il rischio di morire “in 8 secondi” per un’improvvida scarica di adrenalina, determinata infine dalla semplice visione di K2 The Ultimate High / K2 L’ultima sfida  (Franc Roddam, 1992) o anche solo del suo fantastico manifesto dove è raffigurata “una vertiginosa parete (inesistente, si capisce, sul K2): parallelamente vi pende una corda, un uomo è aggrappato a quella corda. C’è tutto il brivido e la drammaticità dell’azione alpinistica” (Cassarà, 1995: 29), forse.  La situazione più emblematica rimane però quella che si svolge sul ciglio del burrone, sulla soglia dell’abisso: dal salvataggio al limite alla tragica caduta e all’eventuale riemergere, inatteso, in una gamma infinita di soluzioni narrative che muove dal tragico al comico. Già uno dei primi manifesti, uno dei più antichi verrebbe da dire nonostante il breve arco di tempo che ci separa da quel 1908, raffigura quel dramma: ne L’enfant de la montagne è mostrato il momento topico dell’uomo che precipita nell’abisso, il fulminante attimo della sua caduta: infotografabile (La cordata delle immagini, 1995: 8). Essere sul ciglio del burrone comporta l’affacciarsi o lo scomparire dalla scena; esso è la soglia, lo spazio limite, il punto di catastrofe dell’azione, la sua massima tensione statica con forti implicazioni psichiche: dalla sua soluzione dipende l’esito del racconto.  Nei casi più drammatici questa condizione rappresenta la visualizzazione retorica della suspense, è – non solo nominalmente – la sospensione degli eventi incarnata nella sospensione del corpo (dell’attore, di colui che agisce: dell’agente); raffigura l’attimo che precede il precipitare (letterale) dei corpi e – con loro – degli eventi. Dopo tutto è dato.

Nel “Film-Kurier” di Die weisse Hölle von Piz-Palü /La tragedia di Pizzo Palù di Fanck e G.W. Pabst (1929) la figura sul ciglio del burrone è una donna, ma nel disegno del manifesto francese per la riedizione sonorizzata del 1938 (L’enfer blanc) il personaggio è maschile, raffigurato al  culmine del dramma. Di nuovo: la corda appena spezzata, il volto deformato dal terrore. Nulla  di più distante dal metafisico stupore di Stan Laurel (Swiss Miss/ Les montagnards sont là, John G. Blystone, 1938) qui comicamente preoccupato, non preoccupante, che ritroviamo identico anche nel manifesto grafico dell’edizione francese, disegnato da Grinsson (La cordata delle immagini, 1995: 107). Tra tragedia e comicità l’elemento che accomuna le scene – ancor più della figura appesa, a volte non visibile – è la tensione della corda, palese visualizzazione della condizione psichica dei protagonisti e (si spera) degli spettatori.

Le immagini promozionali del cinema dedicato allo sci volentieri abbandonano le formule più esplicitamente narrative per misurarsi con le astrazioni e  sperimentazioni formali delle avanguardie, trasformando le campiture di neve delle piste in spazi da comporre coreo-graficamente, da attraversare con silhouette sempre meno riconoscibili: più veloci.   È quanto realizza magistralmente Arnold Fanck nel libro fotografico dedicato a Der weisse rausch /L’ebbrezza bianca, 1931, pubblicato in sei fascicoli settimanali venduti a prezzi popolari.  Sulle pagine del volume vengono riproposti, con un montaggio efficacissimo e denso circa 2000 fotogrammi ricavati dalle riprese di Richard Angst, montati in sequenze di grande efficacia dinamica cui vengono assegnati titoli quali “Ski- Impressionismus” o “Ski-Expressionismus”, in contrapposizione non sempre chiara ma con l’evidente intento di legittimare artisticamente il proprio operato. Già il manifesto di un precedente film (1922) di Fanck, Das Wunder des Schneeschuh’s (La cordata delle immagini, 1995: 64) utilizzava graficamente il mosso per significare la velocità della discesa, con derivazioni evidenti dalle cronofotografie di Jules- Etienne Marey, magari mediate dalle fotodinamiche dei fratelli Bragaglia, piuttosto che dalla grafica e pittura futurista, ma in questi fascicoli la ricerca dell’astrazione pura è portata all’estremo limite della scomparsa della figura stessa dello sciatore: restano solo le nuvole di neve sollevate dallo sci “wenn der Schnee stäubt” (“quando la neve è polverosa”);  le tracce e le forme che modulano il bianco, analogamente a quanto accadeva in molte opere della coeva fotografia modernista.

Una particolare attenzione per la qualità compositiva dell’immagine sembra accomunare i film dedicati allo sci ed i loro materiali promozionali anche nei decenni successivi: basti confrontare qui le diverse formule di resa del mosso adottate per i manifesti di Czarna Blyskawica/ Der schwarze Blitz (Hans Grimm, 1958) o di Downhill racer/ Gli spericolati (Michael Ritchie, 1969) come anche di Snow Job/ The Ski Raiders  (George Englund, 1972) che riprende la formula di Fanck, oppure considerare con attenzione i materiali promozionali di Le grand élan / Avventure al Grand Hotel (Christian- Jaque, 1940)  commedia di poche pretese sugli sport invernali le cui foto di scena anticipano però di più di un decennio le celebrate acrobazie fotogeniche di Leo Gasperl (Presenze, 1997: 132 – 139). La commedia sciistica, la ‘scicommedia’ è però soprattutto occasione di leggere trame sentimentali,  di vicende (piccolo)borghesi destinate a far sognare, da cui deve essere necessariamente bandita ogni distrazione acrobatica, ogni modello estraneo e mediamente irraggiungibile, così le immagini utilizzate per manifesti e fotobuste tornano a pescare i propri modelli nella produzione familiare delle fotoricordo o delle riprese da rotocalco rosa, parenti prossime del fotoromanzo. Si veda la fotobusta di un altro film di Christian-Jaque, Adorables creatures / Quando le donne amano, del 1952 o il più casereccio Siamo tutti inquilini (Mario Mattoli, 1953) in anni, almeno per l’Italia, di incipiente boom economico, quando le vacanze sulla neve si apprestano a divenire pratica di massa. Perché ciò accada è necessario anche suggerire modelli efficaci: location alla moda (il Sestriere, su tutte, Gstaad, Davos o Aspen non erano così riconoscibili e note),  automobili, pellicce e locali notturni, vicende sentimental amorose oscillanti tra l’adolescenziale di Emmer e le piccole perdizioni da night club evocate da  Maurizio, Peppino e le indossatrici, firmato nel 1961 da Stanley Lewis (Filippo Walter Ratti) a poca distanza dallo spogliarello scandaloso di Aiké Nanà al “Rugantino” di Roma nel 1958 (nella sequenza memorabile di Tazio Secchiaroli) e di tutto quanto fu poi identificato come Dolce vita (1960), suggestioni cui non rinuncia – seppur pudicamente – neppure il manifesto di Europa dall’alto (1959) di un altrimenti misurato Severino Casara (La cordata delle immagini, 1995: 205).  Solo coi primi anni ’60 compaiono le gite in torpedone, sempre per merito dell’ineffabile Ratti. Sono le prime Vacanze sulla neve:  i fratelli  Vanzina non sono lontani.

Il cinema in montagna si è misurato però sin quasi dalle origini, anche con il tema drammatico della guerra, e proprio ad un personaggio fantastico del primo conflitto mondiale venne dedicato – nel pieno svolgersi della Grande guerra – Maciste alpino (Luigi Maggi, Luigi Romano Borgnetto, 1916) , facendo emergere a furor di popolo dalla selva di personaggi che popolavano la scena di Cabiria  (1914)  la figura del protagonista,  per dar corpo con le sue  “italiche gesta” al patriottismo necessario a sostenere una fase cruciale del conflitto, per risolvere individualmente l’incombente tragedia, con involontaria prefigurazione del superomismo casereccio della più tarda iconografia mussoliniana, ben riconoscibile in alcune delle fotografie promozionali, benissimo presentate, giocate tutte sull’alternanza tra protagonismo e scene corali. Tra queste emerge per spettacolarità quella bellissima del  trasporto di armi e vettovagliamenti in montagna, ripreso anche nella  serie promozionale di cartoline da xilografie, che questo film condivide con le coeve realizzazioni di Luca Comerio,  in particolare Adamello, guerra d’Italia a 3000 metri  e  che ritroveremo, quasi una citazione, nella locandina tedesca di  A Farewell to Arms/ In einem andern land (Charles Vidor, John Huston, 1957), a testimonianza del valore paradigmatico di una produzione segnata dalle eccezionali “doti di Segundo de Chomon, mago dei trucchi cinematografici [che] richiamano le coeve poesie di Ungaretti” (Brunetta, 1999: 265) e che fanno di Maciste alpino “il film più moderno rispetto alla produzione italiana del periodo.” (idem)

Ad un diverso modello, costituito semmai dai primi fotoricordi di guerra, consentiti dalla diffusione degli apparecchi portatili a pellicola o a piccole lastre, si rifanno invece le immagini utilizzate per la promozione de Le scarpe al sole (Marco Elter, 1935) o di alcune fotobuste italiane di A Farewell to Arms/ Addio alle armi (1957) caratterizzate tutte da una voluta, bassa spettacolarità e da inquadrature sapientemente casuali, sebbene in quest’ultimo esempio la distanza incommensurabile dai modelli di inizio Novecento sia data dall’inevitabile uso del colore. La connotazione documentaria, ora neorealista, segna anche i materiali promozionali di due film italiani come La mano sul fucile (Luigi Turolla, 1962) – con la significativa presenza dell’immagine del soldato morto in primo piano, ad illustrare didascalicamente l’assunto etico del film (“Il nemico a trecento metri è un bersaglio a cinque metri è un uomo”) – e Una sporca guerra  (Dino Tavella, 1964), con quel bordo frastagliato della foto: strappata,  spezzata come la carriera del protagonista.

Nulla di più lontano dagli spettacolari schemi narrativi hollywoodiani adottati da una produzione  come The Heroes of Telemark /Gli eroi di Telemark  (Anthony Mann, 1965). Nelle immagini realizzate a collage per le fotobuste i due protagonisti sono posti in primissimo piano, senza che prospettiva e valori di illuminazione gli consentano di condividere lo stesso spazio, lo stesso luogo in cui – alle loro spalle – si svolgono vicende diverse, raccordate senza soluzioni di continuità: un’organizzazione spazio temporale che genera – anche qui – una nuova, inedita scena di sintesi.

L’universo della montagna non si può esaurire però, non si è mai esaurito nelle sole pratiche alpinistiche o nelle divagazioni sciistiche né – fortunatamente – è stato ridotto a puro scenario delle tragedie belliche. La montagna è stata ed è ancora la gente che la abita, che vive la contemporaneità senza dimenticare di compiere gesti antichi, ancora necessari, pur tra mille contraddizioni irriducibili all’oleografia dell’immagine folklorica, pittoresca che pure per molto tempo si è data di loro.  Anche la raffigurazione della vita in montagna che ci è stata offerta dal cinema e dalle sue rappresentazioni ha toccato tutta la gamma di declinazioni possibili, con le più diverse accezioni e connotazioni simboliche, con riferimenti a diversi  e contrastanti sistemi di valori: dalla celebrazione epica a quella dell’identità culturale della piccola patria, con pericolose derive nazionalistiche o -peggio – regionalistiche, sino alle prevedibili variazioni pecoreccie del pornosoft, sino alla più recente rilettura dei valori più alti di un mondo arcaico e quasi in via di estinzione, riscoperti in polemica contrapposizione alle presunte degenerazioni della condizione  urbana.

I primi esempi considerati, due tra le numerosissime rivisitazioni della vicenda fondante di Guglielmo Tell (1904, Lucien Nonguet; 1934, Heinz Paul) trattano non a caso il tema delle radici storiche dell’identità e – pur senza troppo forzare l’ipotesi – non possiamo fare a meno di notare come le cartoline promozionali del primo illustrassero scene di impianto prevalentemente corale, senza per nulla celare il décor  palesemente teatrale, che inseriva queste immagini nella  tradizione dei tableau vivant (Pelizzari, 2004: 161) ma assimilandole formalmente a certa fotografia pittorialista coeva piuttosto che alla spettacolare verosimiglianza  dei set cinematografici. Così come accadeva nella serie di titoli dedicati a Tell, l’obiettivo che si ponevano i Volkische Film nati nell’Austria del primo conflitto mondiale, i film di Luis Trenker  degli anni Trenta come Der Rebell (1932) e Der Feuerteufel (1939) e – nel secondo dopoguerra – l’enorme produzione di Heimatfilm, e ancora oltre sino alla ripresa dei romanzi di Ludwig Ganghofer lungo tutti gli anni Settanta, è da sempre quello di celebrare le caratteristiche storico identitarie del “luogo dove si è nati, dove si hanno le proprie radici, per cui si è attaccati al suolo, agli antenati, alle tradizioni. La confluenza commedia – melodramma costituisce la norma. Le riprese fatte nella regione (…) generano un pittoresco destinato innanzitutto al mercato nazionale, adempiono infatti a una funzione ideologica, fatta di nostalgia rurale e di passatismo.” (De la Bretèque, 1999: 519) Da qui la pletora di chalet e stelle alpine, di costumi tradizionali, di cime (di monti, di pini) svettanti su cieli tersi; apoteosi tirolesi di reinvenzione alpestre segnalate immancabilmente dall’uso smodato di caratteri tipografici neogoticheggianti.

Anche quando le vicende si fanno più personali e sentimentali permane però l’elemento caratteristico della montagna poiché “i paesaggi che compaiono sullo schermo cinematografico descrivono anche i paesaggi interiori dei protagonisti” (Bliersbach, 2000: 132) e le vicende narrate continuano a mettere “in scena l’esperienza condivisa di perdite e privazioni (…) la disillusione dai grandiosi sogni di gloria.” (idem). Lo scenario in cui si muovono i personaggi raffigurati nei materiali promozionali di  Wetterleuchten um Maria (Trenker, 1957), drammone a tinte fosche in cui la Maria del titolo pare gradire oltre misura le amorose attenzioni del giovane guardiacaccia, che però le uccise il padre (!) è ancora quella  delle cartoline di soggetto alpestre di inizio Novecento, solo parzialmente aggiornato da una regia visiva influenzata dalla parallela produzione di fotoromanzi, in una trama fitta di rimandi che rielabora ancora una volta la tradizione illustrativa del feuilleton, anche quando si traduce in scena farsesca (Almenrausch und Edelweiss, Harald Reinl, 1957).    Sebbene non siano escluse improvvide comparse di figli naturali, come nella trama del film appena citato, la drammaturgia  heimat sembra aver pudicamente nascosto per lungo tempo le dinamiche del desiderio sessuale, ben presente invece sotto forma di tenero affetto, poco più che malizioso, già nell’italiano I trecento della 7° , Mario Saffico, 1943 (“…oltre l’amore…”), e ormai palese nella fotobusta di Penne nere (Oreste Biancoli, 1952) che con la sua rappresentazione icastica della valligiana “donna con gerla” (tema ricorrente in tanta pittura e poi fotografia di genere sin dalla seconda metà dell’800), costruisce un oggetto del desiderio su misura per lo sguardo urbano. È  già la sessualità palese di Riso amaro (1949) e del cinema delle “maggiorate”, cerniera e annuncio delle più esplicite trasformazioni dei decenni successivi, quando le produzioni tedesche riproporranno l’ambientazione alpestre in versione pornografica più o meno soft:  Geh, Zieh Dein Dirndl Aus / Sole, sesso e pastorizia (Siggi Goetz, 1973), efficacemente titolato negli USA Love Bavarian Style, risulta – come tutti i titoli di questo filone – particolarmente efficace proprio in virtù del confronto / contrasto, della deviazione da una tradizione narrativa da sempre intessuta di sentimenti epici, di sacrifici, di eroismi e passioni di ben altro tenore, cui si richiama invece il bel manifesto di Ljubezen na odoru (Vojko Duletic, 1973) con l’intimità forte della scena di sesso in esterni, appena toccata dalle essenziali informazioni testuali.  È una trasformazione di lettura, e di senso, una mutazione del  percorso di avvicinamento e di racconto, un senso di rispetto che possiamo rintracciare anche in un ultimo gruppo di film dedicati alla celebrazione e poi alla riscoperta – non sempre priva di semplificazioni ed equivoci –  dei valori etici fondanti della civiltà alpina, priva però di connotazioni passatiste: pensiamo al significato delle immagini bucoliche di Der verlorene Sohn / Il ritorno del figlio prodigo (Trenker, 1934) contrapposte alle deludenti visioni dei grattacieli newyorkesi, o alla retorica iperbolizzazione della purezza dell’universo montano prodotta con l’accoppiata (tutto meno che virtuosa o innocente) bambino/ agnellino (con possibile variante caprettino), che ritroviamo in molti manifesti del secondo dopoguerra come Barnen Från Frostmofjället / Les Orphelines de la Montagne (Rolf Husberg, 1945), Alpenglühn im Wetterstein (Max Michel) e Bonjour Jeunesse (Maurice Cam), entrambi del 1956, sino a Le rossignol des montagnes, 1961, di Antonio del Amo (La cordata delle immagini, 1995: 212).

Nelle produzioni più recenti l’intenzione si fa diversa ed anche le caratteristiche proprie delle immagini promozionali mostrano una palese inversione di rotta: a partire da un “film carico di simbolismi, capace di trasmettere nello spettatore un acuto disagio” (Le montagne del cinema, 1990: 189) come Si le soleil ne revenait pas (Claude Goretta, 1987) il racconto della dura vita in montagna cambia di senso e dalla rappresentazione stereotipata si passa alla misurata nostalgia critica per un mondo perduto,  di cui si celebrano gli ultimi testimoni,  come ne La dernière saison (Pierre Beccu, 1991), o – con progressivo slittamento di senso verso la riflessione filosofica – la significativa continuità delle presenze (Hirtenreise ins Dritte Jahrtausend /Transumanza verso il terzo millennio, Erich Langjahr 2003).  Ciò che accomuna queste forme di testimonianza rielaborata narrativamente è il ricorso coerente ad uno stile documentario, dove il realismo ricercato della fotografia si vela, lievemente, di oleografia.

 

 

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There was no tought in any of us for a moment of their beeing clouds.

They were as clear as crystal, sharp on the pure horizon sky ( … ).

Infinitely beyond all that we had ever thought or dreamed ¬–

the seen walls of Eden could not have been more beautiful to us“.

John Ruskin, 1885

 

Quando Ruskin descrive l’emozionante incon­tro richiamato in esergo, sono passati ormai più di cinquant’anni da quella sera del 1833 in cui – quattordicenne – si era trovato per la prima volta al cospetto delle Alpi, viste da Schaffausen[1]. L’incanto restava però, immu­tato, a testimoniare ancora – per noi – di un’intera stagione della cultura e del gusto che definiamo genericamente romantica, di quel Romanticismo che nelle parole di Baude­laire per il Salon del 1846 “non sta né nella scelta dei soggetti, né nell’esattezza del vero, ma nella maniera di sentire ( … ). Il romantici­smo è l’espressione più recente e più attuale del bello”[2]. È quello stesso sentimento di cui Ruskin parla, tracciandone un efficace e sintetico profilo genetico in cui si intrecciano auto­biografia e storia culturale: “In nessun periodo della storia umana sarebbe stato possibile im­maginare un più felice ingresso nella vita per un bambino che avesse un carattere come il mio. È vero però, che il carattere dipende an­che dal periodo storico. Pochi anni prima, meno di cento, non sarebbe potuto esistere alcun bambino che si interessasse tanto alle montagne e ai loro abitanti. Prima di Rous­seau non c’era l’amore ‘sentimentale’ per la natura, e prima di Scott non c’era l’amore an­sioso per ‘ogni aspetto e condizione’ dello spirito e del corpo. San Bernardo di La Fon­taine, guardando verso il Monte Bianco coi suoi occhi da fanciullo, vedeva la Madonna er­gersi al di sopra, e San Bernardo di Talloires non vedeva il lago di Annecy, ma i morti della zona tra Martigny e Aosta. Per me, invece, le Alpi e la loro gente sono belle rispettivamente per la neve e per la loro umanità, e non desi­deravo né per esse né per me, la visione di troni celesti ma solo la vista delle rocce e non sentivo il bisogno di vedere spiriti in cielo, ma solo nuvole”[3]. Romantico sentire sorto dalle radici del sublime settecentesco e nuovo rico­noscimento della fattualità degli elementi na­turali (le rocce, le nuvole) si incontrano senza contraddirsi in questo sguardo rivolto alle montagne, nelle ragioni che lo spingono a di­segnare e poi a far fotografare i ghiacciai e le vette alpine[4]  sin dall’estate del 1849. Sono, quelli, anni in cui l’esperienza della montagna era stata tradotta ormai da tempo in spettacolo per le popolazioni urbane, co­me dimostra la scelta di un tema alpino per l’inaugurazione a Parigi del Diorama di Bou­ton e Daguerre l’11 luglio 1822, quando una delle rappresentazioni proposte fu per l’ap­punto La vallée de Sarnen: “Jamais aucune représentation de la nature n’était arrivée, se­lon nous, à ce point de réalité qui peut faire croire (…) que la vue n’est pas reposée sur des imitations, mais sur les objets imités eux­memes”[5]. Era l’effetto di realtà, l’esito ultimo e allora apparentemente insuperabile della mimesi spettacolare offerta dal diorama che affascinava in questa esperienza, quello stes­so che circonderà di attonito stupore la prima comparsa del dagherrotipo, meno di vent’an­ni più tardi, rafforzato da quella maniera di restituire il sentimento attraverso la scelta del soggetto  di cui diceva Baudelaire, che ritroviamo ribadito e riproposto dalla coeva pittura di tema alpino e ulteriormente raffor­zato poi, letteralmente moltiplicato nella lar­ga diffusione garantita dalle nuove tecniche di riproduzione a basso costo, come la litografia e soprattutto la fotografia. Si vedano le due ri­produzioni di dipinti realizzate a Monaco di Baviera da Josef Albert[6] nei pri­mi anni Sessanta del XIX secolo scegliendo in un repertorio di paesaggismo romanticamen­te eroico, tra Julius Lange e Alexandre Cala­me[7].

Alla soglia degli anni Cinquanta la fotografia si avviava ad assumere le pratiche e le forme che oggi le riconosciamo come proprie, pas­sando compiutamente dall’unicità del proces­so dagherrotipico alla riproducibilità consenti­ta dal ciclo del negativo, avviato da Talbot e successivamente perfezionato dall’uso delle emulsioni al collodio su lastra di vetro, ulte­riormente amplificata con l’avvio delle prime stamperie fotografiche, come quella aperta nel 1851 a Lille (nel sobborgo di Loos-les-Lil­le), la più nota e importante della Francia di metà Ottocento. Qui Louis-Désiré Blanquart Évrard (Lille 1802-1872) avviò una produzione industriale di album fotografici applicando al trattamento dei positivi il processo di svi­luppo dell’immagine latente messo a punto da Talbot per il calotipo.[8] Le immagini pubblica­te, frutto di apposite campagne fotografiche o di raccolte di produzione eterogenea, erano montate su fogli titolati e riuniti in album non rilegati e venduti a dispense o unitariamente. L’attività di questo stabilimento fu brevissima e la stamperia chiuse improvvisamente nel 1855 per scarsa redditività, incapace di soste­nere la concorrenza delle stampe fotolitogra­fiche e delle fotoincisioni su rame o su ac­ciaio, ma ciò nonostante il ruolo svolto da Blanquart-Évrard fu determinante per la diffu­sione e la conservazione di una parte fondamentale della fotografia francese delle origini poiché qui vennero realizzate alcune delle opere più importanti della prima stagione del­l’editoria fotografica, ciascuna destinata a presentare i diversi campi di applicazione del­la fotografia: “études d’architecture, voyages, reproduction de gravures, souvenirs histori­ques”[9]. I soggetti spaziavano dal vicino Orien­te, conteso tra fascino esotico ed erudito inte­resse archeologico, tra l’Egypte, Nubie, Pale­stine et Syrie di Maxime du Camp (1852) e la Jerusalem di Auguste Salzmann (1854) [10], al pittoresco occidentale dei grandi fiumi e – ap­punto – dei paesaggi alpini, tra Les Bords du Rhine di Charles Marville (1853) [11] e i Souve­nir des Pyrenées di John Stewart[12], dello stesso anno, offerti in splendide tavole oggi rarissime[13] caratterizzate dalla dizione, appa­rentemente piuttosto ambigua, “Photo­graphié et édité par Blanquart-Évrard”, che pare contraddire la diversa attribuzione autoriale dei lavori mentre testimonia invece, or­gogliosamente il ruolo propositivo che l’imprenditore si attribuiva.

Già Alexandre Dumas con le sue Excursions sur les bord du Rhin del 1838, aveva dedica­to la propria attenzione alle leggende e alle tradi­zioni di questo fiume, una delle figure centrali della mitologia teutonica, e il tema continuerà a sollecitare interessi diversi, variamente con­nessi al fascino del pittoresco ancora negli an­ni delle ricognizioni di Marville, che qui ripren­de – da fotografo – un genere che aveva già frequentato da incisore, collaborando con Charles Nodier (1780-1844) alla serie dedi­cata a La Seine et ses bords del 1836. L’al­bum dedicato al Reno non rappresenta che uno dei titoli da lui realizzati per Blanquart­-Évrard, di cui fu il più assiduo collaboratore prima di dedicarsi alla documentazione dell’architettura e della città su commessa di archi­tetti e grandi restauratori come Paul Abadie e Eugene Viollet-Le-Duc, così come della stessa Municipalità, per la quale documentò il “Vieux Paris” (1865) prima delle trasformazioni hau­smanniane[14]. Diversamente da quanto accadrà nelle vedute parigine, questa ripresa ravvici­nata de La vallée suisse a St. Goarshausen Marville si distingue per una ecceziona­le e poetica attenzione ai dettagli del paesag­gio, al paesaggio di dettaglio forse, confer­mando uno sguardo riconoscibile anche in quella Barrière ouverte che era stata compre­sa nella prima serie degli Études photo­graphiques, pubblicati sempre a Lille nel 1853[15];  una lettura affettuosa, quasi intima degli elementi costituenti lo scenario alpino, dove ai tronchi affusolati in primo piano corri­sponde la delicatezza delle luci sulle foglie dei cespugli, un insieme di elementi a scala umana reso con dolcezza lontana da ogni furore senti­mentale, nonostante il peso mitico del tema.

Se la distanza di Marville dal paradigma ro­mantico si traduceva in differenti attenzioni di scala, quella posta in atto da John Stewart nel­la sua lettura dei Pirenei adottava strategie di­verse: in Environs d’Elsaut i modelli non sono certo quelli stabiliti e accolti dal gu­sto del pittoresco; semmai emerge un naturali­smo in bilico tra rilevamento geologico e at­tenzione analitica, in cui “scienza e arte con­vergono anziché divergere, e la ricerca esteti­ca della forma dilaga nell’idea goethiana e humboldtiana della morfologia della natura e del paesaggio”[16]. È quanto accade anche per Le pont de Sarrance, con la ripresa eseguita dal greto del torrente, quindi dal bas­so, ciò che porta a ridurre ai minimi termini e quasi a escludere lo scenario alpino, cioè pro­prio l’elemento drammaticamente connotativo delle coeve raffigurazioni pittoriche, nelle qua­li la presenza del ponte assumeva forte valore simbolico, strumento di salvezza che àncora l’uomo al mondo consentendogli di affrontare la terribilità della natura, mentre in questa ri­presa tutto è più domestico: stradale. Il tratta­mento del tema de Le torrent d’Arudy, pur orientato alla descrizione degli aspetti geologici del paesaggio rivela invece altre sug­gestioni: un interesse, un’attrazione quasi per le componenti materiche dello scenario natu­rale, dagli alberi alle rocce appunto, che Stewart condivide con molti autori coevi, non solo i fotografi della scuola di Barbizon o quel­li attivi nella campagna romana, mentre per­mane traccia del fascino di un tema proprio della poetica preromantica del sublime: quello della Gorge, della gola e dell’antro.

Quando Stewart pubblica le diciannove tavole del proprio album questi luoghi, i Pirenei ­- sebbene ormai ampiamente visitati e illustrati in album[17] con titolazioni a volte identiche, in cui il termine di Souvenir costituisce la formu­la più ricorrente – rappresentano la più recen­te novità in fatto di mete alpine, poiché “n’ayant pas comme les Alpes la chance de se trouver sur le chemin de l’Italie”[18] vennero am­piamente preceduti da Chamonix e – ancor prima – dall’Oberland bernese. Qui però, co­me scrisse Victor Hugo, “Il me semble, que les choses-là sont plus que du paysages. C’est la nature entrevue à des certaines moments mystérieux où tout semble rêver, j’ai presque dit penser”.[19] Certo doveva risultare difficile corrispondere visualmente a queste percezio­ni, poiché il restituire fotograficamente questi paesaggi poneva problemi di ordine meno im­mediatamente letterario, ma pur sempre e squisitamente discorsivo: “Les vallées des Pyrénées, à peu d’exception près, s’étendent du nord au midi – ricordava Maxwell Lyte, amico e sodale di Stewart – conséquemment elles reçoivent seulement une lumière oblique le matin et le soir. Cet éclairage oblique est nécessaire pour produire des effets vraiment artistiques de lumière et d’ombres, et pour donner une valeur réelle aux différents plans. (…) La chaleur du soleil parait aussi, durant le jour, soulever habituellement des vapeurs qui, si elles ne peuvent se condenser en nuages, interposent néanmoins un voile bleu de brume, d’une nature antiphotogénique, entre nous et les montagnes. Sachant que ces obstacles existent, je m’arrange toujours pour être sur le terrain et à l’œuvre autant que possible de bonne heure, et par conséquent plus des neuf dixièmes de mes épreuves sont exécutées à la lumière du matin, entre cinq et huit heures; les autres sont prises, presque sans exception, à la lumière du soir.”[20]

Allo stesso ambito di scoperta romantica del paesaggio francese può esser fatto risalire an­che il viaggio che nell’ estate del 1854 Edouard Baldus[21] compie in Alvernia, uno dei luoghi topici di questa fase sin dai Voyages pittoresques et romantiques dans l’ancien­ne France del barone Taylor e di Nodier (1829), in compagnia del suo maturo allievo Fortuné Joseph Petiot-Groffier (1788 ­1855), allo scopo di descrivere i monumenti e i paesaggi di una regione ancora poco toccata dalle profonde trasformazioni dell’industrializ­zazione e della modernizzazione che interes­savano altre aree. La collaborazione dei due fu tanto stretta da produrre alcune stam­pe virtualmente identiche firmate di volta in volta Baldus o Petiot-Groffier e altre firmate da entrambi. Alla serie di riprese realizzate dal solo Baldus appartiene invece quella indicata nel Catalogue del 1863 col numero 73, col titolo di Chaine des Monts-Doré (paysage) Puy-de­-Dome[22]. Essa fu esposta nel 1855 prima all’Esposizione Universale di Parigi[23] e poi ad Amsterdam col titolo attuale Mont d’Or, e testimonia di una fase di passaggio – e di cre­scita – dello sguardo fotografico di Baldus, che qui si misura non solo con le emergenze architettoniche e le vedute magistrali dei pic­coli nuclei urbani della regione, come Saint­ Nectaire, ma anche – per la prima volta – con­sapevolmente con gli elementi naturali, realiz­zando una serie di immagini che fanno consi­derare “the Auvergne photographs as master­pieces of early landscape photography”[24]. Qui Baldus crea “a new kind of landscape – spare, precisely composed, intensely tactile, highly sensitive to the play of texture and tone, volu­me and silhouette, on the two-dimensional page”[25], affidandosi a quell’apparente traspa­renza documentaria di cui si è nutrita la fecon­dità della fotografia soprattutto delle origini, ogni volta tradotta nello spettacolo della vero­simiglianza, qui mantenuto in elegante equili­brio tra fascino del pittoresco e analiticità de­scrittiva. Come aveva immediatamente rilevato il critico Ernest Lacan: “si vous êtes poète, si vous aimez ( … ) le silence des solitudes alpestres ( … ) suivez M. Baldus au milieu des sites grandioses de l’Auvergne. Il est peintre, il sait choisir les points de vue et diriger votre admiration. Chacun de ses épreuves est un poème, tantôt sauvage, imposant, fantastique, comme une page d’Ossian; tantôt calme, mélancolique, harmonieux comme une méditation de Lamartine”[26]. L’ampia ripresa che Baldus dedicata al Mont d’Or sembra infatti compo­sta avendo in mente le parole di Taylor di po­chi decenni prima, quando descriveva il sito come “un angolo della creazione che rappre­senta ancora l’immagine del caos. Le rocce staccate o pronte a cadere in valanghe (…) i terreni messi a nudo dalla caduta di pietre (…) pochi arbusti, qualche abete sparso qua e là (…) vi compongono un quadro severo, terribi­le e misterioso”[27].

All’Esposizione Universale del 1855 il lavoro fotografico che destò maggior sensazione fu però certamente la veduta panoramica in do­dici parti del massiccio del Monte Bianco ri­preso da La Flégère, per una lunghezza totale di due metri, realizzata da Friedrich von Mar­tens[28] utilizzando lastre albuminate che gli per­misero di ottenere quella “riproduzione im­mensamente esatta dei complicati dettagli of­ferti dai grandi rilievi della catena alpina, e in particolare dei loro ghiacciai”, che solo la fotografia poteva offrire e che tanto affascinavano il pubblico, pieno di ammirato stupore anche per le enormi difficoltà di realizzazione che si intuivano dietro lo splendido risultato: “Tutti coloro che hanno compiuto escursioni a quelle altezze – fu il commento di Ernest Lacan – possono apprezzare le difficoltà insite in una simile im­presa e la dedizione ch’essa esige. Oltre alla fatica di ascensioni lunghe e penose, e alle spese che impone il trasporto di apparecchia­ture pesanti, le condizioni variabili dell’atmo­sfera sono – troppo spesso – un ostacolo in­sormontabile. Molte volte si parte con un tem­po magnifico e un cielo limpido, ma dopo quattro, cinque, sei ore di salita si è sorpresi da un temporale, oppure d’improvviso, le nu­vole vengono semplicemente a nascondere il panorama nel momento in cui l’apparecchio è montato e pronto a funzionare. Allora bisogna rifare i bagagli e ridiscendere, rinviando l’ope­razione a un altro giorno”[29].

Anche i Fratelli Bisson, titolari di uno dei più eleganti studi parigini del Secondo Impero[30], furono presenti all’Esposizione, dapprima con sole strabilianti immagini di architettura quindi con alcune vedute dell’Oberland ber­nese, all’epoca ancora in una fase di esplora­zioni pionieristiche, realizzate nel corso di un viaggio promosso da Daniel Dollfus-Ausset, glaciologo originario di Mulhouse e loro socio in affari, per il quale fotografarono i due ghiacciai del Finster-Aar e del Lau­ter-Aar, cui aggiunsero quelle terribili del ter­remoto che colpì il Vallese il 25 e 26 luglio. “Toutes, parfaitement réussies – sottolinea an­cora Lacan – donnent une idée exacte des accidents survenus au moment des convulsions du sol et des traces déplorables qu’ils ont laissées. Ces épreuves n’ont pas seulement un grand intérêt au point de vue de la science, elles ont encore comme œuvres d’art un mérite incontestable, ce sont de charmants tableaux d’un effet pittoresque et d’une grande beauté de détails”[31].  Poi, dopo il pittoresco terremoto, andranno sul Monte Bianco. Anzi vi andrà solo il ‘giova­ne’ Auguste-Rosalie a realizzare quelle che sono forse le più importanti e note riprese di montagna della fotografia europea delle origi­ni, poi raccolte in due album dal titolo quasi identico di (Souvenir de la) Haute-Savoie. Le Mont Blane et ses Glaciers, ma ben distinti nelle intenzioni essendo l’uno il Souvenir du voyage de LL.MM. L’Empereur et L’Impéra­trice (1860) mentre l’altro, realizzato poco dopo la cessione della Savoia alla Francia, fu dedicato “A Sa Majesté Victor Emmanuel II Roi d’Italie”.  L’insieme delle riprese eseguite nelle diverse ascensioni spazia dai passaggi sui seracchi, for­se il primo esempio di fotografia di tecniche di scalata, al panorama del Monte Bianco preso dal Mont Buet, dalla Mer de Gla­ce alle singole terribili vette; co­me sottolineava il pittore di corte August Marc, il giovane Bisson “rischiando la vita, ha percor­so tutte le vie praticabili e non praticabili del Monte Bianco per prendervi i cliché di quelle magnifiche vedute che gli amatori comprano e che egli vende a troppo buon mercato, se si pensa a tutti i pericoli a cui si espone”[32]. La pratica fotografica richiedeva ancora tempi lunghi, di preparazione piuttosto che di ripre­sa, soprattutto quando si operava con lastre di grande formato come Bisson, ma era proprio la qualità di resa delle luci e dei dettagli che queste consentivano ad emozionare i contem­poranei (e noi ancora). L’interesse di Bisson era rivolto alla sfida tec­nica dell’ascensione fotografica, ma senza di­menticare i problemi di ordine estetico, tanto che il 25 luglio 1861 partì da Chamonix con una nuova spedizione guidata ancora da Bal­mat, ma della quale faceva parte anche il pit­tore Gabriel Loppé, incaricato di fornire con­sulenza artistica al fotografo.[33] Considerando l’insieme delle campagne documentarie risul­ta evidente come la scelta dei temi e dei punti di vista più specificamente topografici, pur in tutta la novità non solo tecnologica della ri­presa fotografica, non si discostasse molto dalla tradizione, riassunta già nel 1777 dal re­pertorio di venti miniature incise da C. G. Geisser su di una sola lastra a partire da mo­delli iconografici diversi[34], mentre le riprese più ravvicinate o realizzate a quote più basse rivelano in maniera esplicita l’adesione a quel diffuso sentire romantico che Lacan aveva ri­conosciuto – come si è visto – nelle stesse ri­prese dei luoghi terremotati. Basti il confron­to tra una delle immagini dell’ album donato a Vittorio Emanuele II (L’Aguille du Dru et An­guille Verte) e il dipinto nella maniera di Ca­lame[35] pubblicato da Albert, in cui la corrispondenza iconografica è quasi letterale, con quel primo piano di tronchi e detriti che rappresentano l’esito en­tropico della maestà degli elementi naturali, delle guglie perfette così come degli alberi che ne costituiscono la cornice visiva, in una sim­bolizzazione sin troppo evidente sui temi del destino e del tempo, della morte infine [con le due figure che – nel quadro – si riparano, inermi, dal terribile scatenarsi degli elementi], mentre i nessi con l’altro dipinto sono meno puntuali ma non per questo meno significati­vi: se il tema della Via Mala dipendeva dal fascino sublime dell’ orrido, del cammino sull’orlo dell’abisso tra pareti incombenti, le fotografie di Bisson comprendono in più casi e quasi celebrano la nascente rete infrastruttu­rale, che muta profondamente la naturalità in­contaminata del paesaggio alpino nel preciso momento in cui ne favorisce la percezione e l’appropriazione, la conquista anche, da parte del nuovo viaggiatore, del futuro turista. Ma certo le immagini più affascinanti sono quelle dedicate ai ghiacciai, un apporto continua­mente rinnovato alle variazioni sul tema della Mer de Glace, un richiamo alla tradizione ico­nografica e una sfida portata dalla fotografia alle arti del disegno. Dalla Svizzera alla Savoia Bisson indaga osti­natamente il tema, svolgendolo nei suoi diver­si aspetti, scegliendo di volta in volta i punti di vista, le distanze più adatte al racconto; dalla maestà geografica della veduta ampia, quasi panoramica, al fascino fantastico delle forme in cui avvolgere le figurine dei membri della spedizione: marionette in uno scenario di fiaba. Certo il soggetto è dei più affascinanti, e dei più redditizi anche (crediamo) se in brevissimo arco di tempo i ghiacciai entrano a far parte del catalogo di più autori, rinnovando più anti­che fortune calcografiche.

Lo stesso Baldus presentò nel 1861, alla IV Esposizione della Société Française de Photo­graphie, tra le altre, due vedute della Mer de Glace e di Chamounix[36], interesse conferma­to dal catalogo del 1863 che comprendeva an­che una ripresa della Vallée de Chamounix ed una della Source de l’Aveyron, mentre devo­no essere state realizzate poco prima del 1860 anche le due stampe de­dicate rispettivamente alla Vallée de Chamo­nix vue du Chapeau  ed alla Mer de Glace prise du Montenvers  firmate da Victor Muzet, attivo a Grenoble in società con Bajat, che figura anche nel ruolo di edito­re[37], e comprese in una serie di Vues photo­graphiques de Dauphine (sic) et de la Sa­voié[38] per la quale nel 1860 ricevettero una non meglio precisata “medaille d’or”[39]. In questo caso però il maggior motivo di inte­resse non è dato tanto dalla ricorrenza dei soggetti quanto dalla sostanziale coincidenza delle riprese di Muzet con quelle realizzate da Auguste-Rosalie Bisson negli stessi anni, somiglianza che ha fatto erroneamente ritenere un passaggio di mano delle lastre negative o ­peggio – una appropriazione indebita da par­te del fotografo meno noto.[40] Se la Vallée de Chamonix venne realizzata da Bis­son nel corso della prima ascensione del 1859, come conferma la sua ripresa xilografi­ca ne “L’Illustration” dell’aprile 1860[41], è al­trettanto probabile che nello stesso torno di tempo, e per analoghe ragioni commerciali[42], venisse realizzata anche quella di Muzet, pub­blicata ancora senza alcun riferimento alla medaglia vinta nel 1860, presente invece nel­l’altro esemplare, così come possono essere riferite cronologicamente allo stesso periodo anche le due riprese della Mer de Glace qui pubblicate, che Bisson intitola però Grande Jorasse Mont Tacul, portando l’at­tenzione sulle cime dello sfondo piuttosto che sul primo piano, nelle quali appaiono sor­prendentemente simili anche la distribuzione e la forma delle diverse placche innevate, tan­to da lasciar supporre un lasso di tempo veramente breve, forse solo di qualche giorno, tra la realizzazione delle due riprese. Al di là della verosimile coincidenza cronologica, ciò che risulta per noi più interessante in quanto sin­tomo e traccia di un gusto condiviso, è la qua­si puntuale corrispondenza – in entrambi i ca­si – delle modalità adottate dai due fotografi, che non solo scelgono lo stesso punto di vi­sta, ma utilizzano anche ottiche di analoga lunghezza focale e formati di negativo non dissimili, come rivelano le relazioni prospetti­che tra i diversi elementi raffigurati e le stesse misure delle stampe a contatto[43]. Così se la valle di Chamonix trova il suo punto di osser­vazione privilegiato al Chapeau, giusto al di sopra dell’imbocco della Mer de Giace, la ripresa ravvicinata del ghiacciaio non poteva che essere realizzata dai pressi dell’ hospice del Montenvers, il rifugio costruito nel 1779 da Charles Bloir, già frequentato da numerosi viaggiatori illustri: da Goethe all’imperatrice Maria Luisa, da Byron e Shelley a Hugo e Du­mas, al già citato Ruskin. Se in queste fotografie il ghiacciaio costituisce la base da cui spiccano i volumi dei monti, in una restituzione che potremmo definire topo­grafica, in altri casi i fotografi cedono al fasci­no del sublime, introducendo la figura umana, la sua presenza nell’universo fantastico di for­me dei ghiacciai. Ancor più dei Seracs des Bosson  è significativa in questo sen­so la ripresa che Giorgio Sommer[44] dedica a Chamounix, Mer de Glace  in una data non meglio precisata, ma che non do­vrebbe essere troppo lontana dalla metà degli anni Sessanta. Certo la rinnovata attenzione per questo soggetto doveva molto del suo vi­gore proprio al successo riscosso dalle foto­grafie realizzate da Auguste-Rosalie Bisson, ma Sommer riesce a costruire un’iconografia nuova, che nella scelta del piano ravvicinato si discosta nettamente dai modelli prevalenti, richiamando semmai i modi utilizzati da Jean Antoine Linck (1766 – 1843) in un disegno che aveva dedicato allo stesso soggetto circa mezzo secolo prima[45] o – per restare in ambi­to fotografico – la ripresa del ghiacciaio di Grindelwald, nell’Oberlad bernese, che Von Martens aveva realizzato verso il 1853[46]. Ora Sommer, forse memore dell’interpretazione di Byron, quasi immerge l’apparecchio nel corpo del ghiacciaio, attratto magneticamen­te da queste onde immense, eternamente im­mobili, bloccate dal gelo ancor prima che dal­la fotografia, pietrificate e bianche, da cui emerge il dorso di favolosi cetacei: l’appari­zione magica della balena di Giona se non an­cora di Pinocchio (1880)[47].

Di tutt’altro tenore e senso l’opera che chiu­de questo ciclo di immagini, realizzata da Al­berto Luigi Vialardi[48], già autore nel 1863 di un Album del Monviso[49], quindi di una rara documentazione di quella grande opera infra­strutturale che è il Canale che poi sarà intito­lato a Cavour, destinato a razionalizzare e po­tenziare la rete irrigua della pianura risi cola piemontese, cui il fotografo lavorò fino ai pri­mi giorni del 1864 su commissione della stes­sa Associazione Irrigazione Ovest Sesia, pro­motrice dell’opera, dopo un primo affida­mento allo Studio Bernieri[50]. Ad ulteriore conferma della solidità della sua rete di rela­zioni istituzionali, anche il grande cantiere del traforo del Frejus (1868-1871) venne docu­mentato da Vialardi in un album destinato in maniera affatto nuova a trovare il proprio posto “nel boudoir dell’elegante signora, come nelle biblioteche dell’artista e dell’uomo di scienza e d’affari” e di cui i giornali dell’ epoca diedero ampia­mente conto, segnalando le “nove stupende vedute fotografiche che rappresentano i due panorama [sic] dei cantieri nelle vallate di Bardonéche e Modane, le due entrate del gran tunnel, i due cantieri dei compressori, l’interno degli edifici dei compressori medesi­mi – di questi straordinari motori che per la prima volta entrano nel mondo industriale ­la macchina perforatrice con tutti gli operai in azione entro la galleria e per ultimo un esemplare litografico della topografia e della sezione longitudinale della montagna. Ad ogni veduta sta di fianco una relativa descri­zione particolareggiata”[51]. È il trionfo del­l’ingegneria, l’esito ormai italiano della politi­ca internazionale preunitaria, cavourriana. La fotografia si rivela il medium più aderen­te, più adeguato a celebrare questa importan­te realizzazione, il primo dei grandi trafori al­pini, un segno tangibile del mutato spirito del tempo: al fascino emotivo, potente e terribile della montagna si affianca – se proprio non si sostituisce – quello altrettanto forte, positivi­sta e industriale della straordinaria macchina: costruita dall’uomo.

 

Note

[1] Cfr. John Ruskin e le Alpi, catalogo della mostra (Tori­no, Museo Nazionale della Montagna, 1990), a cura di Ja­mes S. Dearden, Torino, Museo Nazionale della Monta­gna, 1990, in particolare alle pp.17 – 19. Per l’affascinan­te lettura del testo completo si rimanda a John Ruskin, Praeterita.  Orpington: George Allen, 1885 – 1889, I, pp.194-195, § 134, p.113 (ed it., Palermo: Edizioni No­vecento, 1992, traduzione di Maria Croci Giulì e Giusi de Pasquale).

[2] Charles Baudelaire, Salon del 1846, ora in Id., La cri­tica d’arte, a cura di Antonio del Guercio. Roma: Editori Riuniti, 1996, pp. 109 – 128 (110).

[3] Ruskin, 1885 – 1889: § 134, p.113. Per una accurata e sintetica ricostruzione delle variabili storiche del rapporto tra cultura occidentale e montagna si veda Paola Giaco­moni, “Dare del tu alle rocce”, in Montagna. Arte, scien­za, mito da Dürer a Warhol, catalogo della mostra (Rove­reto 2004), a cura di Gabriella Belli, Paola Giacomoni, Anna Ottani Cavina. Milano: Skira, 2004, pp. 19-40.

[4] 4 “The first sun-portraits [e qui Ruskin richiama l’originaria terminologia di William Henry Fox Talbot, che parlava di “sun pictures”] even taken of the Matterhorn (and as far as I know of any Swiss mountain whatever) was taken by me in 1849″, citato in John Ruskin e le Alpi, 1990, p. 18, cor­sivo di chi scrive. Come è noto l’affermazione di Ruskin non de­ve essere presa alla lettera, non essendo lui l’autore mate­riale di queste immagini, di volta in volta realizzate dai suoi camerieri personali John ‘George’ Hobbs (1849) e Frede­rick Crawley (1854 – 1856), ormai alle soglie dell’abban­dono di questa tecnica; cfr. Paolo Costantini, Italo Zan­nier, a cura di, I dagherrotipi della Collezione Ruskin.  Venezia: Arsenale Editrice, 1986. La veridicità letterale dell’affermazione in merito alla pri­mogenitura non pare invece essere contraddetta da quan­to sinora noto sulle prime riprese dagherrotipiche delle Al­pi, cfr. Le daguerréotype français. Un object photo­graphique, catalogo della mostra ( Paris 2003 – New York 2004), a cura di Quentin Bajac, Dominique Planchon De Font-Réaulx. Paris: Réunion des Musées Nationaux, 2003, cat. 136, p.227. In quella mostra sono stati presentati an­che altri dagherrotipi di ambiente alpino in particolare la Vue d’une vallée dans les Alpes, compresa in una serie che Marie Charles lsidore Choiselat (1815 – 1858) e Sta­nislas Ratel (1824 – 1904) realizzarono nell’agosto del  1845 durante una missione il cui itinerario era stato stabi­lito dal consiglio dell’Ecole royale des mines quale eserci­tazione conclusiva del ciclo di studi di Ratel e che costitui­scono, ad ora, le più antiche riprese note effettuate nelle Alpi, come ricordava anche uno dei viaggiatori: “Ces vues sont les seules qui soient encore sorties du fond de ces montagnes que les artistes ne visitent pas assez et où ils pourraient trouver des sujets que leur imagination n’avait pas besoin de grandir pour les rendre majestueux”. (citato in Q. Bajac, M.C.I. Choiselat, S.- Ratel, in Le da­guerréotype français, 2004,  cat. 155, p. 246).

[5] 5 “Le Miroir des Spectacles”, 12 luglio 1822, citato in Claudine Lacoste-Veysseyere, Les Alpes romantiques. Le thème des Alpes dans la littérature française de 1800 à 1850. Genève: Editions Slatkine, 1981, p.195.

[6] Josef William Albert (1825 – 1886), più noto come foto­grafo ritrattista, fu attivo a Monaco, anche come fotografo di corte di Massimiliano II e Luigi II, con studio in Brien­ner Strasse nel 1865-1878. A lui si devono anche rigorose vedute urbane e di architettura (il Glaspalast di Monaco, 1861; l’Esposizione di Vienna del 1873) oltre ad alcuni in­teressanti paesaggi, tra i quali Il fotografo in posizione a Hohenschwangau, 1857, in cui – oltre ad Albert all’appa­recchio – si vede una cabina portatile per il trattamento delle lastre al collodio, analoga a quella utilizzata dal valde­se David Peyrot alcuni anni più tardi e oggi conservata al Museo nazionale del Cinema di Torino, cfr. Michel Frlzot, a cura di, Nouvelle Histoire de la Photographie.  Paris: Bordas, 1994 pp. 115 passim; Helmut Gernsheim, Storia della fotografia. 1850 1880 L‘età del collodio. Mila­no: Electa, 1981, p.232; Maria Adriana Prolo, Luigi Carluccio, Il Museo Nazionale del Cinema Torino. Tori­no: Cassa di Risparmio di Torino, 1978, p.139. Una foto­grafia di Richard Wagner realizzata da Albert nel 1880, servì l’anno successivo per la realizzazione di un noto ri­tratto ad olio dipinto da Franz von Lenbach, cfr. Carola Muysers, Das bürgerliche portrait im Wandel.  Zürich – ­New York – Hildesheim: Georg Olms Verlag, 2001. Nel 1868 il fotografo mise a punto un procedimento commer­ciale di stampa planografica delle matrici fotografiche analogo alla litografia (collotipia), identico a quello proposto da Alphonse Poitevin, che da lui prese il nome di Alberty­pe. Nel 1876 fu tra i primi ad utilizzare la collotipia a colo­ri, ma a lui si deve anche lo studio di un processo di inver­sione (negativo/ positivo) della lastra al collodio mediante utilizzo di acido nitrico. Il tema degli studi (da Adolphe Braun a Dornach a Jean Jaques Heilmann a Pau, solo per citarne due) impegnati nella riproduzione fotografica dei dipinti e delle opere d’arte è troppo vasto perché possa essere in questa sede anche solo accennato, mi limito per­tanto a rimandare, a titolo esemplificativo, ad una recente approfondita analisi della maggiore impresa italiana attiva in questo settore: Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003.

[7] Poiché i cartoni di supporto non ripor­tano sufficienti indicazioni, l’identificazione delle opere presenta alcune difficoltà e incertezze: il primo dipinto ri­prodotto, identificato come Via Mala, soggetto già affron­tato da W. Turner nel 1843, è firmato Julius Lange (Darm­stadt 1817 – München 1878), 1860, mentre per il secon­do, anonimo, non posso far altro che notare una sorpren­dente comunanza di temi e di modi con la produzione di François Diday (Ginevra 1802 – 1877) e soprattutto di Alexandre Calame (Vevey 1810 – Mentone 1864) intorno al 1850, per la quale rimando a Valentina Anker, Alexan­dre Calame. Vie et œuvre. Catalogue raisoné de l’œuvre peint. Friburg: Office du Livre, 1987, ma la prudenza del­la mia incompetenza suggerisce di non spingermi oltre.

[8] Le varianti di preparazione e di trattamento del materiale sensibile messe a punto da Blanquart-Évrard non ci con­sentono di definire le stampe realizzate dal suo stabilimen­to come “calotipi positivi”, ma credo sia altrettanto errata e fuorviante la consuetudine da molti adottata di indicarle tecnicamente come “carte salate”. Come è noto queste appartengono alla famiglia dei materiali sensibili ad anne­rimento diretto, mentre il procedimento utilizzato a Lille si fondava al contrario sullo sviluppo del positivo, quindi sul principio dell’immagine latente, allo scopo di ridurre tem­pi e costi di realizzazione e di vendita degli album. Per questa ragione ritengo più corretto  adottare la dizione “carta a sviluppo (metodo Blanquart-Évrard)”.

[9] “La Lumière”, 1854, citato in Isabelle Jammes, Blan­quart-Évrard et les origines de l’édition photographique en France: catalogue raisonnée des albums photo­graphiques édités 1851-1855,. Genève: Librairie Droz, 1981, p.67 ; si veda anche, Frizot, 1994, pp.  80- 89.

[10] Sulla paternità del corpus delle fotografie attribuite a Salzmann o al suo collaboratore Durheim, e sulla natura problematica del concetto di opera che ne deriva cfr. Abi­gail Solomon-Godeau, A Photographer in Jerusalem, 1855: Auguste Salzmann and His Times, “October”, n.18, autumn 1981, citato in Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, a cura di Elio Gra­zioli. Milano: Bruno Mondatori, 1996, p.43 n.19,  ma an­che – con una più estesa riflessione critica sulla discutibile applicazione alla fotografia di alcune categorie interpreta­tive derivate alla storia dell’arte – Abigail Solomon-Go­deau, Calotypomania. The Gourmet Guide to Nine­teenth-Century Photography,  “Afterimage”, vol. 11, n.1-2, Summer 1983, successivamente riedito in “études photographiques”, n. 12, novembre 2002, consultato in estratto.

[11] Charles Marville (1816 – 1879), realizzerà anche una serie di Vedute di Torino. Turin: Maggi, (editore e libraio presso il quale erano in vendita anche le stampe di Luigi Crette, Vialardi e Guido Gonin) oggi nota attraverso l’e­semplare conservato presso la Biblioteca centrale della Fa­coltà di Architettura del Politecnico di Torino e studiata per la prima volta in  Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp.37-­38, con una datazione proposta al 1865-1870 che Marina Miraglla, Culture fotografiche e società a Torino 1839 1911. Torino: Allemandi, 1990, p.334, aveva già anti­cipato al 1861-62, ma che sarà più corretto attribuire al 1858-59, quando Marville è in Italia e in Grecia con Char­les Cordier per realizzare la campagna fotografica dedica­ta alla Sculpture Ethnographique, commissionatagli dal governo francese nel 1850 (vale a dire prima della ben più nota “Mission Héliographique”) e quindi pubblicata in fasci­coli. Un esemplare dell’opera venne dedicato “A S.M. Vic­tor Emmanuel Roi d’ltalie”. L’occasione per la realizzazio­ne di queste riprese di Marville potrebbe essere individuata nella campagna di documentazione dei disegni della Biblioteca Reale di Torino e della Biblioteca Ambrosiana di Milano, che faceva seguito all’impegno analogo per le col­lezioni del Louvre, pubblicate pochi anni prima. La data­zione delle riprese italiane potrebbe forse essere ulterior­mente anticipata alla metà del decennio considerando che Marville usava la qualifica di “Photographe du Musée Im­perial du Louvre”, che ritroviamo sui cartoni delle stampe torinesi, nel periodo in cui collaborava con Blanquart­Évrard, vale dire sino al 1855.

[12] John Stewart (1800 – 1887), inglese, membro della So­ciété Française de Photographie e genero di Sir John Her­schel (1792 -1871) uno dei padri fondatori della fotogra­fia, fu – come molti fotografi coevi – anche uno sperimen­tatore, apportando interessanti innovazioni nel trattamen­to dei negativi di carta e del loro ingrandimento. Attivo prevalentemente in Francia, si trasferì nel 1847 a Pau, do­ve realizzò molte delle sue vedute utilizzando la tecnica del calotipo (o sue varianti) ed entrò in contatto con autori della generazione successiva come Jean Jacques Heilmann (1822 – 1859), e l’altro inglese Farnham Maxwell Lyte (1828 – 1906), ma anche con Adolphe Godard, Jo­seph Vigier ed Henri-Victor Regnault, che accompagnerà in un viaggio in Inghilterra. Dopo la collaborazione con Blanquart-Evrard le sue immagini vennero pubblicate da Theophile Marx e da Heilmann, che nel 1854 aveva aper­to a Pau un’analoga Imprimerie photographique, da cui uscirono immagini anche di Maxwell Lyte, cioè dell’insie­me di autori poi identificati come “école de Pau”. Sebbene Heilmann e Maxwell Lyte utilizzassero anche il nuovo pro­cedimento al collodio, ciò che li contraddistingue comples­sivamente è appunto il ricorso al negativo di carta nelle sue diverse varianti, poiché – come ricordava Maxwell Ly­te sulle pagine del “Journal of the Photographic Society of Edinburgh” del dicembre 1854, v. II, p.95, “I must still en­tertain my old opinion that paper is the process for views”. Numerosi esemplari di queste opere sono conser­vati alla Biblioteca di Pau e presso gli Archives départe­mentales des Pyrénées Atlantiques, cfr. Paul Mironeau, Christine Jullat, Lucie Abadia, Pyrénées en images. De l’oeil à l’objectif 1820 -1860. Pau: Musée national du Chateau de Pau, 1996; Alexandre Allain, Les collec­tions photographiques des bibliothèques municipales et l’exemple de Lille, Memoire d’étude. Paris: École Natio­nale Supérieure des Sciences de l’lnformation et des Bibliothèques, 2000.

[13] Il solo esemplare completo dell’album di Marville così come quello più ricco di Stewart sono oggi conservati alla Biblioteca di Lille, cfr. Allain, 2000, p.  31. Una delle tavole di Stewart, Le pont d’Orthez, è pubblicata in Frizot, 1994, p. 88 e può essere utilmente confrontata con la ripresa dello stesso soggetto realizzata e pubblicata da Heil­mann col titolo Vieux pont d’Orthez, cfr. Collection M. + M. Auer. Une histoire de la photographie, catalogo della mostra (Nice – Genève, 2004), a cura di Michèle e Michel Auer. Hermanace: Editions M.+ M., 2004, p. 71 n.30. Un album anonimo di Souvenir des Pyrenées, composto però di 24 tavole, è conservato nella collezione Edward Alexander Parsons dello Harry Ransom Humanities Re­search Center dell’Università del Texas, ad Austin.

[14] Queste trasformazioni sono state recentemente studiate da Rosa Tamborrino, Parigi: i! piano di Hausmann, “Storia dell’Urbanistica Piemonte”,  IV”, Roma, 2000.

[15] Frizot, 1994, p.  87.

[16] Giacomoni, 2004, p. 33.

[17] Rimandando ai testi citati alle note successive per una disamina puntuale della produzione iconografica sul tema dei Pirenei, voglio qui ricordare che le illustrazioni per il Voyage aux Pyrénées di Hippolyte Taine, 1855, vennero fornite da Gustave Doré servendosi anche di fotografie, realizzate verosimilmente dagli autori della “scuola di Pau”.

[18] Philippe Comte, in Les Pyrénées Romantiques, catalo­go della mostra (Pau, Musée des Beaux Arts, estate 1979), a cura di Marguerite Gaston. Pau: Musee des Beaux-arts, 1979, p p.n.n.

[19] Lettera a Louis Boulanger-Cauterets, citata in Hélene Saule Sorbé, Pyrénées. Voyage par les images. Serres­Castet: Editions du Faucompret, 1993, p.69.

[20] Farham Maxwell Lyte, lettera pubblicata nel “Moniteur de la Photographie” del 15 novembre 1861, citata in Ber­nard Marbot, Des ciels dans les paysages photographi­ques, dossier della mostra Quand passent les nuages. Paris, Bibliothèque Nationale de France, 1988.

[21] Edouard Baldus (1813 – 1889), nato a Grunebach in Prussia, come pittore espone a Parigi ai Salon del 1847, 1848 e 1851 ma risulta attivo come fotografo almeno dal 1848, segnalandosi immediatamente come uno degli auto­ri più importanti della fotografia francese, membro della Mission héliographique promossa dal governo francese nel 1851; cfr. Malcom Daniel, The Photographs of Édouard Baldus.  New York –Montreal:  The Metropolitan Museum of Art -Ca­nadian Center for Architecture, 1994, p. 231. Ove non diversamente indicato, tutte le informazioni rela­tive all’attività di Baldus sono tratte da questo studio.

[22] Le pagine del catalogo, oggi conservato nella biblioteca del Victoria and Albert Museum di Londra, sono riprodot­te in Daniel, 1994, p.  231 passim.

[23] Ch. P. Magne, Exposition universelle de 1855,  “L’Il­lustration – Journal Universel”, XXXI, n.644, p.331, cita­tato in Michele Falzone del Barbarò, a cura di, Il Monte Bianco dei Fratelli Bisson. Ascensioni fotografiche 1859-1862. Milano: Longanesi, 1982, p. 9.

[24] Daniel, 1994, p.  39.

[25] Ivi, p. 40.

[26] Ernest Lacan, “La Lumière”, 1855, poi ripubblicato in Id., Esquisses photograpiques.  Paris: Gaudin, 1856, pp.26-29, citato in Daniel, 1994. p.  262, nota 91.

[27] Citato in Bruno Foucart, La montagna nella pittura francese dell’Ottocento, in Le seduzioni della monta­gna. Da Delacroix a Depero, catalogo della mostra (Grenoble, Tori­no, 1998), a cura di Marisa Vescovo. Milano: Electa, 1998, pp. 29 -36.

[28] Noto anche come Vincent Frédéric Martens, (Venezia? 1809 – Parigi 1875), di famiglia originaria del Wurten­berg, studia all’Accademia di Belle Arti di Venezia e quindi a Basilea, perfezionandosi come incisore. Naturalizzato francese, dopo aver partecipato ai Salon dal 1834 al 1848 con vedute urbane e marine, si dedicò costantemen­te alla fotografia mettendo a punto anche un nuovo appa­recchio di ripresa panoramico per dagherrotipi. Nel 1851 espose a Londra una serie di immagini realizzate a partire da negativi su vetro albuminato (metodo Niepce de St. Victor), che la stampa inglese definiva “Talbotypes”, cfr. Collection M. + M. Auer, 2004, p. 86.

[29] Ernest Lacan, 1855, citato in P. Cavanna, Le prime ascensioni fotografiche. I Fratelli Bisson, “ALP”, 10 (1994), n.112, pp.116-119. Sulle pagine del parigino “La Lumière”, allora certo la più autorevole pub­blicazione periodica dedicata alla fotografia, il critico ave­va dato ampio conto della produzione fotografica presen­tata all’Esposizione, segnalando in particolare le opere di documentazione architettonica e artistica di Baldus e dei fratelli Bisson, poste in opposizione dialettica.

[30] Louis Auguste (1814-1876) e Auguste Rosalie (1826­1900) già attivi indipendentemente come dagherrotipisti, aprono nel 1852 uno studio in società che due anni dopo avrà sede in Rue Garancière, 8 nel palazzo di Sourdèac, proprietà di Henri Plon, stampatore dell’Imperatore; la lo­ro produzione, caratterizzata dall’utilizzo di lastre di gran­dissimo formato (mediamente 40×50 ca, ma con formati variabili dal 30×40 sino al 50×70 e 60×75), che stampano ed editano in proprio è dedicata in un primo momento al­la sola architettura, in aperta concorrenza con Baldus. Sul­la scia della Mission Heliographique del 1851, cui non sono chiamati a partecipare, avviano in proprio la pubbli­cazione della raccolta di Reproductions photographiques des plus beaux types d’architeture et de sculture d’a­près les monuments les plus remarquables de l’Anti­quité, du Moyen Age, et de la Renaissance (1855-1858)  per passare quindi alle riprese di montagna ed in partico­lare del massiccio del Monte Bianco, che Auguste Rosalie fotograferà più volte tra 1858 e 1862, poi ancora nel 1868, realizzando una serie molto nota di immagini, raccolte in due album pubblicati come Bisson Fréres al nuovo indirizzo di Boulevard des Capucines 35. In quello stesso stabile in cui operava anche Gustave Le Gray dal 1848, “al pianoterra i fratelli Bisson, finanziati dai Dolfus di Mulhouse, aprirono un sontuoso negozio dov’erano alli­neati, davanti a un pubblico sorpreso ( … ) vedute della Svizzera in dimensioni fino allora sconosciute” ricorda Na­dar, Quando ero fotografo. Roma: Editori Riuniti, 1982, p.137, (traduzione di Stefano Santuari). Dopo il fallimento dello studio nel 1863, acquistato da Emile Placet, fotografo e fotoincisore che continuerà a ti­rare stampe dai negativi Bisson, Louis Auguste ne divenne il direttore mentre Auguste Rosalie proseguì la propria at­tività realizzando stereoscopie per conto della Maison Léon et Levy, ma intorno al 1870 entrambi i fratelli ab­bandonarono la pratica fotografica.

[31] Citato in M.-C. S.-G., Bisson frères, http://exposi­tions.bnf.fr/napol/grand/048.htm, senza indicazione del­la fonte (Ernest Lacan) sottolineatura di chi scrive. I due ghiac­ciai in realtà costituiscono i due bracci del ghiacciaio del­l’Aar, ripreso anche in dagherrotipo da Camille Bernabé (Lyon 1808 – 1860 post) già nel 1850, da un “padiglione” fatto co­struire nel 1846 proprio da Daniel Dollfus-Ausset, che fu anche il committente di queste prime immagini, esposte (con le stampe Bisson?) nel 1856 alla Société des amis des arts di Strasburgo e autore, con Henri Hogard, di un volu­me di Materiaux pour servir à l’étude des glaciers. Stra­sbourg: Simon, 1854. Interessante come sempre la testimonianza relativa alla realizzazione del dagherrotipo: “On à dû séjourner pendant huit jours par le froid, la pluie et la neige, avant d’avoir obtenu une heure de temps favorable pour faire les trois vues de ce glacier”, citato in Marie ­Sophie Corcy, Camille Bernabé, Glacier de l’Aar, in Le daguerréotype français, 2003,  sch. 275, p.341.  Nel 1852 Von Martens di ritorno da Losanna gli fece visita e così poi ne scrisse: “J’ai vu chez lui très beaux portratits au collodion, de belles vues sur verre, et une délicieuse vue de montagne sur plaque d’argent.”, citato in Collection M. + M. Auer, 2004, p.  69 n.25. Segnaliamo qui, come traccia di possibili legami e percorsi di ricerca, che anche Alexandre Calame aveva visitato i ghiacciai dell’Aar in compagnia di Dollfus-Ausset, cfr. Anker, 1987, p. 108 che trascrive una lettera di Eduard Desor a Calame del 12 gen­naio 1846.

[32] Citato in Cavanna 1994.

[33] Cfr. Cavanna 1994. Sull’insieme delle riprese alpine di Auguste-Rosalie si veda Falzone del Barbarò, 1982, mentre dell’album donato a Vittorio Emanuele II è stato realizzato un facsimile Souvenir de la Haute-Savoie. Le Mont Blanc et ses Glaciers, MM. Bisson frères Photographes  de l’Empereur. Excursions dirigées par Auguste Balmat, testo introduttivo di Angelo Schwarz. Torino: Gruppo Editoriale Forma, 1982. Gabriel Loppé (1825-1913) era anche fotografo (Musée d’Orsay), cfr. Marie-Noel Borgeaud, Gabriel Loppé: Peintre, Photographe & Alpiniste. Grenoble: Glénat, 2002.

[34] M.T.V. (Marie-Christine Vellozzi), C.G.Geisser,  “Vin­ght [sic] vues sur un méme feuille“, 1777, in Immagini e immaginario della montagna 1740 – 1840, catalogo della mostra,  (Torino, Museo nazionale della montagna, 15 febbraio-2 aprile 1989). Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1989, sch. 138, p. 103.

[35] Già Theophile Gautier aveva posto in relazione le due differenti letture, sebbene con ragioni diverse: “Le monta­gne sembrano finora aver sfidato l’arte. È mai possibile in­quadrarle in un dipinto? Ne dubitiamo, perfino dopo le te­le di Calame. (. .. ) L’artista può solo far intravedere, ultimo e sublime piano, la silhouette ghiacciata d’argento di una montagna nei fumi azzurri dell’orizzonte ed è proprio ciò che rende tanto preziose le belle prove fotografiche dei si­gnori Bisson”, citato in Foucart, 1998, p. 34.

[36] Daniel, 1994, p. 245.

[37] I dati sono desunti dalle iscrizioni e dai differenti timbri a secco delle due stampe: men­tre i negativi sono sempre numerati e firmati dal solo Mu­zet (1828 – 1885 post) i timbri parlano alternativamente di “Muzet et Bajat Photographes / Grenoble” o più semplicemente di “Bajat à Grenoble”, senza ulteriori specificazioni, ciò che parrebbe indicate piuttosto il ruolo di editore di que­st’ultimo, confermato anche dalla pubblicazione dell’al­bum litografico di G. Margain, Grenoble et ses environs. Vingt Vues dessinées d’après nature et lithographiées. Avec texte explicatif, 1865 ca, indicato come in vendita ” Chez Bajat, Place S.te Claire “. Sia le Vues photo­graphiques sia quelle dessinées d’après nature uscivano però da Maisonville & Fils & Jourdan Editeurs. Scarse sono le notizie relative a Muzet, che alcuni indicano attivo a Lione (sotto la firma Muzet et Joguet, autori di ste­reoscopie, 1860 ca, dove risulta attivo anche Bajat nel 1842). In questa occasione non ci è stato possibile verifi­care il legame tra Muzet e la Société Dauphinoise des Amateurs Photographes, di cui la Biblioteca municipale di Grenoble conserva oggi 25.000 lastre prevalentemente dedicate a temi alpini, cfr. Allain, 2000, p. 47.

[38] Un’altra stampa con veduta di una cascata e mulini, ap­partenente alla stessa serie, è conservata all’Harry Ran­som Humanities Research Center all’Università del Texas ad Austin, collezione Gernsheim.

[39] Il dato si ricava dal timbro a secco della veduta della Mer de Glace, presente anche nella stampa conservata ad Au­stin.

[40] Cfr. Giuseppe Garimoldi, Fotografia e alpinismo. Sto­rie parallele. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1995, p.7 che ri­prende un’analoga osservazione di Falzone del Barbarò, 1982, p. 12. La stessa interpretazione è stata ancora recen­temente ribadita senza riconoscere non solo che le due riprese, come si è detto, sono sottilmente diverse ma an­che, come doveva risultare evidente dal confronto diretto, che la stampa di Muzet è firmata ben due volte sulla lastra, una in negativo (in chiaro) per effetto di una scrittura so­vrapposta all’emulsione, l’altra in positivo (in scuro) quale esito di una incisione dell’emulsione stessa, cfr. G. G. [Giu­seppe Garimoldi], Auguste Rosalie Bisson, in Le catte­drali della terra. La rappresentazione delle Alpi in Ita­lia e in Europa 1848-1918, catalogo della mostra (Milano,  Museo della Permanente, 24 gennaio – 19 marzo 2000), a cura di Letizia Scherini. Milano: Electa, 2000, sch. 103, p. 181 e didascalia p. 134.

[41] Per la ripresa di Bisson, molto nota, cfr. N.V, [Nicola Vassallo], Louis-Auguste (nato 1814) e Auguste-Rosa­lie (nato 1826) Bisson, Album del Monte Bianco, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), III, sch.1435, pp.1326-1327, n.14; Souvenir de la Haute­ Savoie, 1982, t.nn.; Falzone del Barbarò, 1982: t. 12 e t.14.

[42] Giova ricordare che anche Edouard Baldus, presentò al­la IV Exposition de la Societé Française de Photographie del 1861 due immagini di analogo soggetto, cfr. Daniel, 1994, p. 230, e che questi temi riscuoteranno larghissimo successo ancora negli anni e decenni successivi, enorme­mente diffusi con la produzione stereoscopica, in partico­lare con la serie realizzata tra 1863 e 1868 da William En­gland (1830 – 1896) per l’Alpine Club di Londra.

[43] Per la Vallée de Chamonix si ha rispettivamente (in mil­limetri, altezza per base) 305x 406 per Bisson e 327×388 per Muzet, mentre i valori della Mer de Glace corrispon­dono a 236×384 e a 243×354.

[44] Giorgio Sommer (Francoforte sul Meno 1834 – Napoli 1914), attivo a Roma nel 1857-1872, con Edmond Beh­les (1841 – 1921) , quindi a Napoli 1873 – 1891. Ipotiz­zando che possa aver visitato la Savoia negli stessi anni in cui lo troviamo a Torino (1863 – 1865 ca, prima che la Mole in costruzione emergesse dalla tessitura urbana a nord di Piazza Vittorio, come mostra un suo panorama della città da Villa della Regina, cfr. Miraglia, 1990, tav. 85), che il rinnovato interesse – ora fotografico – per il soggetto molto dovesse alla recente pubblicazione del pri­mo album Bisson, e considerando che l’indicazione di responsabilità posta in calce all’immagine si riferisce al solo Sommer e non alla coppia Behles – Sommer, scioltasi ­come ha ipotizzato Miraglia, fra il 1865 e il 1867, credo che si possa verosimilmente collocare in que­sto arco di tempo la realizzazione della ripresa e della stampa qui presentata. Per un’attenta e affettuosa presen­tazione critica della figura di questo fotografo rimando a Marina Miraglia, Giorgio Sommer, un tedesco in Italia, in Un viaggio fra mito e realtà. Giorgio Sommer foto­grafo in Italia 1857 – 1891, catalogo della mostra (Ro­ma, Palazzo Braschi, 5 dicembre 1992-10 gennaio 1993), a cura di Marina Miraglia, Ulrich Pohlmann.  Roma: Carte Segrete, 1992, pp. 11 – 32 (in particolare alle pp. 12, 26 n. 11, 31 n.84).

[45] M.T.V. (Marie-Christine Vellozzi), J.A. Linck, “Crevas­se sulla Mer de Glace et Grands Charmoz”, s.d., in Im­magini e immaginario della montagna, 1989,  sch. n. 163, p.133.

[46] Garimoldi, 1995, p.  49. Un ricchissimo repertorio di ico­nografia alpina prefotografica è costituito dalla collezione Paul Payot depositata al Conservatoire d’Art et d’Histoire di Annecy e pubblicata in Mont-Blanc. Conquete de l’Imaginaire.  Montmélian: La Fontaine de Siloé, 2002.

[47] Per i riferimenti letterari al tema cfr. Mario Domenichel­li, Il monte e la balena: il sublime dell’origine nel ro­manticismo, in Alpi gotiche. L’alta montagna sfondo del revival medievale, atti delle giornate di studio (Torino 1997), a cura di Cristina Natta-Soleri, Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1998, pp. 123 – 131, che pensa piuttosto a Poe e Melville.

[48] Alberto Luigi Vialardi (1833 -1912), membro dei CAI, tra i più noti fotografi torinesi della sua generazione, risul­ta essersi dedicato alla professione per un brevissimo arco di tempo, compreso tra il 1863 e il 1869, sebbene di lui siano note alcune immagini di Figurini del personale del­la Real Casa, datati 1871 e conservati presso la Bibliote­ca Reale di Torino. Lo svolgersi della sua attività, e il suo stesso avvio forse, sembrano essere strettamente connessi al ruolo nuovo di capitale nazionale, e poi alla sua perdita, svolto da Torino immediatamente dopo l’Unità, così come gli incarichi da lui assunti, quasi certamente determinati dalla buona conoscenza e dai buoni rapporti con il milieu burocratico statale che gli derivavano dall’essere stato se­gretario presso il Ministero delle Finanze e autore di un Annuario del Debito Pubblico (1862) che allora godette di una certa fama, cfr. Claudia Cassio, ad vocem, in Miraglla,1990,  pp.430-431.

[49] N.V, [Nicola Vassallo], Alberto Luigi Vialardi, Album del Monviso, 1863, in Cultura figurativa e architettoni­ca,  sch.1436, pp.1329-1331. Una stampa della stessa se­rie, annotata e colorata a mano, è conservata anche nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna, cfr. Sche­rini, 2000, p. 135, sch. 104. Gli altri membri della spedizio­ne furono Giuseppe e Luigi di Rovasenda e Luigi e Mel­chiorre Pulciano, quest’ultimo noto ingegnere e restaura­tore che sarà particolarmente attivo in area saluzzese. Da una cronaca coeva citata da Vassallo si apprende come ­nonostante il significato anche politico dell’impresa – l’aspetto più innovativo della spedizione fosse considerato “lo sperimento della fotografia” e in particolare l’uso delle nuove lastre al collodio secco, sebbene l’autore ritenesse che Vialardi avesse “fors’anco abusato del nuovo sistema secco del tanino [sic] proposto dal maggiore Russel, col non sviluppare le prove ottenute che al finire del viaggio”, contrariamente a quanto era invece indispensabile fare uti­lizzando il collodio umido, come nel caso di Auguste-Rosa­lie Bisson. (V.G.,  “L’Opinione”, 21 agosto 1863).

[50] All’album di Vialardi dedicato al cantiere del Canale Ca­vour conservato presso l’Archivio Storico della Associazione Irrigazione Ovest Sesia di Vercelli, si devono aggiunge­re le immagini di Bernieri e di Tarantola conservate presso l’Archivio Storico dei Canali Cavour di Novara ed in alcu­ne collezioni private. Le fotografie di Vialardi divennero di fatto l’immagine ufficiale della grande opera, diffuse sotto forma di piccole vedute a volte assemblate in un unico car­tone, corredate di tavola topografica relativa al percorso del canale. Undici di queste fotografie, montate in cornici dorate, vennero inviate alla Esposizione Internazionale di Dublino del 1865, cfr. ASCC, Novara, Libro Mastro A, f.170, 27 aprile 1865.

[51] “La Gazzetta Piemontese”, 31 maggio 1869, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800.  Aosta: Musumeci, 1980, p.365. Ricordo qui che già le immagini dell’Album del Monviso erano corre­date di ampie didascalie che mostravano un’attenzione particolare per il tema, recente e scottante, della defini­zione dei confini con la Francia. I resoconti relativi all’at­tività di Vialardi che  Cassio ha ricavato da fonti gior­nalistiche coeve sono interessantissimi, sebbene risulti assolutamente incomprensibile il riferimento – contenuto in un articolo della “Gazzetta del Popolo” del 1864 – ad un inesistente “traforo del Moncenisio” che sarebbe stato realizzato nel 1863; lungo quel percorso gli unici lavori che comportarono la costruzione di gallerie (artificiali) fu­rono quelli relativi alla realizzazione della ferrovia a cre­magliera nel 1868.

Mostrare paesaggi ovvero  “La documentazione dell’inesistente”[1] (2003)

testo integrale per  L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, Galleria Civica di Modena, 23 novembre 2003 – 25 gennaio 2004) a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2003

 

La parte più nobile della fotografia italiana postunitaria aveva proseguito e consolidato, estendendola in misura mai prima immaginabile, l’esperienza indiretta della conoscenza visiva di luoghi e paesaggi avviata dai primi dagherrotipisti e poi dai grandi studi che si aprono nelle principali città d’arte italiane già intorno al 1850. A questo compito erano state chiamate anche le schiere sempre più nutrite di fotografi dilettanti, di amatori che (seguendo le suggestioni di Ruskin senza neppure conoscerne il nome) si erano assunti l’onere di documentare e illustrare  il “belpaese” anche nei suoi aspetti meno noti e celebrati, mentre le stesse municipalità si avviavano ad utilizzare lo strumento della fotografia per testimoniare le trasformazioni urbane in corso.  Si forma così quel “catalogo visivo” del patrimonio italiano cui miravano gli intelletti più accorti della cultura storico artistica nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo: da Camillo Boito ad Alfredo d’Andrade, da Giovanni Morelli a Corrado Ricci, sovente in piena consonanza con gli esponenti di maggior rilievo della cultura fotografica come Pietro Masoero e Giovanni Santoponte.

Un paese fatto di vestigia e paesaggi in cui schiere di poeti “hanno camminato molte volte”[2], e che rischia – già in quegli anni – di essere ridotto ad una rappresentazione omologata in cui “il luogo comune si trasforma in un ideogramma”[3], ma anche un paese che avvia la propria rivoluzione industriale e mostra orgogliosamente i ponti e le stazioni, i teatri,  le gallerie urbane e i cimiteri monumentali sempre più spesso citati dalle guide: l’immagine che così prende forma è quella che sulla scia dell’abate Stoppani, Gustavo Strafforello illustrerà nella serie regionale di volumi più retoricamente dedicati a La Patria[4], pubblicati a partire dal 1890 con un corredo di incisioni ricavate da fotografie, sovente ritoccate senza una precisa consapevolezza dei luoghi raffigurati, mentre Baedeker si affidava ancora alla sola efficacia della parola.

Mentre industrializzazione e urbanizzazione mutano il volto delle città,  gli esponenti più sensibili e curiosi della classe dirigente si fermano a osservare e testimoniare a futura memoria il mondo rurale che cambia, come sarà per Vittorio Sella e Domenico Vallino nelle vallate del Monte Rosa (1890) e – negli stessi anni – per la periferia e la campagna romane descritte da Giuseppe Primoli, incarnazione suprema del fotografo “irregolare” definito da Lamberto Vitali, “non legato a nessuna formula di meccanica uniformità e da nessuna schiavitù di mestiere [che] per posizione sociale e per cultura, era in grado di esercitare in modo tutt’affatto diverso la propria facoltà di osservazione.”[5]  Per Primoli la funzione di mediazione dell’esperienza che egli riconosceva alla sua sensibilità letteraria si riflette e corrisponde a quella necessità di cogliere l’evento, di porre  “una distanza in rapporto al presente”[6] per il tramite della rappresentazione fotografica che è – a  mio parere – il fondamento dell’estrema libertà e forza delle sue immagini, di quelle istantanee in cui lui stesso scopriva analogie non tanto con la più avanzata cultura visiva coeva, a lui ben nota per le costanti e qualificate frequentazioni parigine,  quanto con la sincerità e la verità delle rappresentazioni delle “peintures primitives “: quella “affettuosa, profumata castità di visione”[7] che caratterizza il suo uso dell’apparecchio fotografico e che trasmette senza sforzo apparente sottili elementi di lettura e giudizio, a volte affidati a notazioni quasi marginali, in altre ottenuti con un’orchestrazione bidimensionale degli elementi costitutivi che anticipa gli esiti più formalmente connotati della fotografia diretta (le bellissime Pecore al pascolo, 1890ca, col frontale della staccionata e gli animali disposti otticamente lungo le traverse come su un pentagramma costruttivista), ma sempre orchestrati per serie fotografiche raccolte su grandi cartoni in cui la singola immagine, per quanto accattivante non è che un elemento necessario del quadro complessivo.

Quello di Primoli è sovente paesaggio con figure, in cui i due elementi si compenetrano e giustificano a vicenda: il paesaggio è il luogo di quella figura, di quel tipo (mai un ritratto, ovvio), è il contesto necessario in cui collocare  lo svolgimento di un’azione che sensibilmente slitta dalla scena (Carro coi buoi ai Prati di Castello;  Buttero che sorveglia contadine che zappano, 1891ca; Contadina ad Ariccia, 1895ca) ancora ricca di debiti pittorici, alla rapidità dell’istantanea che blocca il gesto del Toro preso al laccio, 1890ca.

Nella sua intenzione descrittiva il mondo popolare  è lavoro e vita quotidiana, accettazione senza vagheggiamenti dello stato delle cose;  Primoli non sottostà alle mitologie dell’amico Michetti né al verismo verghiano[8], fenomeni che vanno invece inscritti – come il coevo richiamo classicista di Von Gloeden – in quella “attenzione nei confronti della cultura folklorica” – di cui ha parlato Luigi Lombardi Satriani – che “costituisce un tratto molto diffuso nella temperie culturale di quegli anni. La cultura italiana si avverte sempre più attratta da un altrove i cui tratti caratterizzanti delimitano variamente una topografia dell’immaginario”[9] identificato sempre come “spazio per l’idoleggiamento della semplicità”, che muovendo dalle prime reinvenzioni medievaleggianti si spinge poi verso l’oriente esotico o il mondo popolare extraurbano (a quello urbano pensava Bava Beccaris).

Nella rete di relazioni che lega, non solo personalmente, Primoli, Verga, Michetti e Von Gloeden le posizioni si fanno però distinte in rapporto al ruolo delle immagini e più specificamente all’uso della fotografia. Per Michetti[10] esso è – come noto – strutturale, inserendosi dapprima nel contesto più ampio delle diverse declinazioni del realismo e delle questioni connesse all’uso anche strumentale della documentazione fotografica, pur senza dimenticare la lezione di Luigi Capuana, per il quale  “l’artista non fotografa, neppure quand’egli stesso crede soltanto di fotografare”[11]. Si ripropone in questa lucida precisazione la questione del rapporto tra documentazione e interpretazione, chiave di volta non solo del dibattito in corso sul riconoscimento della possibile artisticità della fotografia, ma anche e più in particolare dei rapporti tra questa e la cultura verista, e ancora – in termini generali – del possibile esaurirsi della funzione artistica a favore della presunta oggettività della conoscenza scientifica, con l’apparecchio fotografico destinato a rappresentarne contemporaneamente il simbolo e lo strumento di attuazione. Anche il rapporto figura/sfondo che attira la critica letteraria verghiana e che viene riconosciuto come caratteristico della pittura ‘bidimensionale’ di Michetti, è anche un tema specificamente fotografico. Dopo la fatidica data del 1900 si assiste in Michetti al passaggio dalla fotografia come studio e repertorio al riconoscimento del valore della sua autonomia espressiva, in un ribaltamento delle gerarchie artistiche tradizionali che ha portato molti critici, specialmente nella prima metà del Novecento, a identificare negativamente questo passaggio come “crisi”, mentre sarà più corretto riconoscerlo come “scarto” e collocarlo in un pensiero segnato dal positivismo e dalla fascinazione per l’industrialesimo, dove l’urgenza del fare[12] che sempre lo aveva caratterizzato si traduce ora nel ricorso prevalente alla nuova tecnica, nella velocità di realizzazione come nell’accrescimento esponenziale delle immagini, fatte a macchina, per una produzione che si potrebbe definire potenzialmente seriale e quasi “a catalogo”[13]. Se solo portiamo alle conseguenze ultime l’interpretazione e il senso di quel suo sistema di codici e rimandi che legava fotografie e bozzetti, vediamo come l’operare dell’ultimo Michetti prefiguri questioni centrali dell’estetica e della produzione artistica del secolo che si apriva.

A questa trasformazione produttiva corrisponde all’abbandono dei temi demologici, la perdita di interesse per i contenuti narrativi a favore dell’indagine compositiva e formale, coloristica anche (mediante l’uso delle autocromie), mentre emergere il paesaggio come tema autonomo, indagato nelle sue componenti strutturali e minute, per orizzonti chiusi, “quasi che l’occhio meccanico michettiano si affidi al tatto, divenga – come ha riconosciuto Renato Barilli – lo strumento delegato a realizzare un corpo a corpo.”[14]

Al “grande artista che così mirabilmente consacrò sulla tela la sua terra natia” aveva guardato esplicitamente nei primi anni della sua attività anche Wilhelm von Gloeden, che proprio da Michetti aveva ricevuto vividi apprezzamenti per i suoi “primi modesti lavori fotografici”[15]. Sono gli anni intorno al 1880,  quando il fascino delle “classiche contrade della Sicilia” lo spinge a “rivivere fra i pastori arcadici e Polifemo”, a costruire una sua propria mitologia, per molti versi derivata e parallela a quella del pittore abruzzese, nella quale  evocazioni simboliste e cultura omosessuale si intrecciano indissolubilmente con le suggestioni più diverse, da Mariano Fortuny a Lawrence Alma Tadema, per mettere in scena un’ arcadia classicheggiante  che presenta analogie con i tableaux vivants cristologici di un autore coevo come Fred Hollad Day[16], ma che si rivela anche piena e ricca di elementi di acuta comprensione demologica[17]. Ciò che qui interessa sottolineare è che questo bagaglio di rimandi e suggestioni, questa “congerie di istanze culturali, umane ed estetiche”[18] non sia mai intesa da Von Gloeden come soluzione puramente stilistica, orientata alla conquista di un presunto valore “artistico” per le proprie immagini: suo scopo è di “far rivivere nell’opera fotografica i sentimenti che [l’autore] provò davanti alla natura”, senza fare ricorso “a esagerazioni che non possono essere approvate [quali] i formati giapponesi più strani, l’imitazione di pitture antiche o moderne, gli ingrandimenti confusi ricavati da piccole negative, la grana eccessiva e numerosi altri artifici cui oggi in fotografia si ricorre”[19], perché – dice Von Gloeden – “io non ho mai creduto necessario che la fotografia per elevarsi debba rinnegare la sua origine.” Insomma un rifiuto netto e circostanziato degli espedienti e dell’estetica pittorialista, e una presa di posizione che ci consente di non incorrere in equivoci in merito alle intenzioni se non agli esiti della sua poetica: nel rifiuto di ogni imitazione, dallo sforzo  di far “rivivere e sognare la Sicilia pastorale” (Anatole France[20]) prende forma quella sua aspirazione all’atemporalità del classicismo che è costretta a misurarsi con la temporalità ineluttabile della fotografia.  Da qui nascono queste immagini di un “genere spietato”, in cui “tutto lo sfumato sublime della leggenda entra in collisione (…) con il realismo della fotografia”[21], producendo un corto circuito in cui Von Gloeden riconosce la derivazione genealogica, l’identità letterale (e non letteraria) tra le figure modellate dalla mitologia  e l’umanità terragna dei giovani contadini taorminesi. In questa tensione trova la propria collocazione necessaria il paesaggio, sia – più raramente – come presenza autonoma sia nella sua funzione di elemento di definizione della figura, intriso degli stessi valori delle figure che lo animano: quasi fondale oleografico nelle immagini dedicate ai pescatori (debitrici dei “tipi” della fotografia ottocentesca, da Bernoud a Sommer) o luogo della quotidianità come della drammaticità della cronaca (terremoto di Messina e Reggio, del 1908) diviene, nella sua produzione più nota, sostanza e scena della celebrazione della mediterraneità primigenia, vista con gli occhi di un artista che si autorappresentava pensando a Dürer.

Ragioni affatto diverse portano al confronto col paesaggio un autore coevo come Francesco Negri, e più tardi Giuseppe Gallino, qui considerato quale rappresentante particolarmente significativo della selezionata pattuglia di fotografi che subisce il fascino delle autocromie Lumière. Non che Negri non lo avesse mai affrontato prima di quel 1901 in cui si misura con la difficoltà tecnica delle tricromie, ma qui – appunto – il senso e le ragioni della scelta risiedono principalmente nei vincoli imposti dal procedimento; si direbbe anzi che da questi possa essere derivata non solo la scelta del tema ma anche del luogo: ritorna infatti a indagare quel paesaggio fluviale e collinare che segna i dintorni della sua città (Casale Monferrato) e che tante volte ha già descritto e studiato, nello sforzo tutto positivo di annodare le fila di tutte le trame che costituiscono un territorio, in anni in cui si avviano in Italia le prime riflessioni in merito alla tutela del paesaggio[22]. Ora  la novità dirompente, assoluta, oggi incommensurabile è il colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel (Lippman, 1908). L’assunzione del tema non ha in queste prove di Negri nulla di ideologico:  il soggetto è imposto, quasi  ineluttabile nel momento in cui ci si voglia misurare col colore (insieme, non a caso, alla natura morta). Certo, stabilito questo, nella determinazione dell’inquadratura e nella costruzione generale dell’immagine influiscono e rientrano suggestioni e stimoli visivi e culturali precisi, sguardi educati a vedere secondo canoni determinati, non casuali. Ciò che più attira e colpisce l’attenzione dei contemporanei è però la novità dell’applicazione, il passaggio dalla sperimentazione di laboratorio al plen-air, quel suo essere “il primo credo, [che] dalla natura morta osò riprodurre a colori la natura aperta come un’aiuola di viole del pensiero e un canale del Po con effetto di tramonto (…) sintesi di un lungo e paziente lavoro, il quale lascia dietro di sé un enorme sciupio di lastre, pellicole e colori[23], come sottolinea Masoero nel presentare le tricromie di Negri in mostra all’Esposizione torinese del 1902, avvio di una pratica che solo negli ultimi decenni del Novecento avrà il sopravvento.

Tanto il metodo interferenziale di Lippmann costituiva – nelle sottili parole dei Lumière – “una meravigliosa esperienza di laboratorio e una elegante conferma della teoria fisica della luce” priva però di qualsiasi utilità pratica, tanto la nuova tecnica dell’autocromia da loro messa a punto nel 1904 e commercializzata tre anni dopo forniva la prima soluzione praticabile su larga scala al problema della fotografia a colori. Lo schermo tricromo in fecola di patata attirò da subito numerosi fotografi, specialmente in area piemontese (Masoero, Pia, Tournon, Vercellone, solo per citarne alcuni) non solo per il fascino divisionista della grana colorata di queste immagini (certo prossimo a Pellizza, a Morbelli), ma anche e soprattutto per le possibilità offerte di affrontare con strumenti linguistici nuovi un tema con cui la fotografia artistica si era a lungo misurata e che continuava ad essere considerato centrale anche nei primi decenni del Novecento.

Mentre il trattamento del paesaggio che si afferma prepotentemente negli anni della “Fotografia Artistica” predilige i toni bassi e brumosi (fontanesiani quasi), qui insieme al colore entra in gioco la luce, meglio ancora la luminosità che poteva essere restituita in tutte le sue gradazioni al momento della visione per proiezione delle autocromie. Mostrano bene questa attenzione inedita per le modulazioni cromatiche, slegate quasi da ogni vincolo narrativo e per questo lontane da quella “sentimentalità di un colorismo kitsch” che tanto preoccupava Lazlo Moholy-Nagy[24], i paesaggi alpini di Giuseppe Gallino,  esponente poco noto[25] di quella diffusa cultura piemontese che coniugava passione per la montagna e fotografia. Disegnatore, pergamenista e miniaturista, Gallino mostra nelle sue immagini di essere perfettamente aggiornato sulla pittura piemontese coeva, da Giuseppe Bozzalla (Il torrente d’inverno, 1910,  GAMTO) a Cesare Maggi, di poco più giovane, e ai suoi paesaggi innevati della metà degli anni Venti che vivono delle stesse suggestioni delle autocromie, mentre le luci calde a cui ricorre in altre riprese rimandano alle stagioni immediatamente precedenti. Nelle sue opere un solo tono satura l’immagine: solo bianchi invernali, le infinite gradazioni verdi o rossastre dei boschi nelle diverse stagioni. Solo raramente si preoccupa di articolare lo spazio per piani, di costruire una profondità che richiami l’idea di paesaggio come panorama, per restituire invece un effetto di superficie coloristica, non di rado racchiusa in un profilo centinato che riprende i modi della messa in cornice pittorica, ampiamente utilizzati anche da altri autori (si pensi a Cesare Schiaparelli o ad Andrea Tarchetti) fedeli ai modelli autorevoli proposti  sulle pagine de “La Fotografia Artistica”.

Non ha qui senso ripercorrere le ragioni e i termini del pittorialismo in tutte le sue differenti declinazioni; basti richiamarne l’allontanamento programmatico dalla realtà fattuale che lo segna a  livello internazionale e di cui costituiscono indizio rivelatore non solo elementi apparentemente secondari come il profilo di una cornice,  ma anche e specialmente il manipolare le apparenze analogiche di ogni fotografia, la tensione alla perdita di ogni vincolo di meccanica referenzialità.  È in questo contesto che nel secondo decennio del secolo si genera quello scarto drammatico tra la cultura fotografica di riviste e salon e lo scenario politico e civile che procederà in Italia, pur con ragioni successivamente diverse quasi sino agli anni del secondo dopoguerra.

Mentre si moltiplicano le scene arcadiche e crepuscolari guerra e fotografia si alleano per  offrire alla vista immagini sconosciute del mondo: non solo – come ha riconosciuto Diego Leoni elaborando un pensiero di Merleau Ponty – si amplia e si ridefinisce la “appropriazione del campo di percezione entro il quale l’oggetto del contendere si sarebbe definito visivamente e politicamente”[26], ma alla rappresentazione prospettica terrestre di tradizione rinascimentale si affianca e si sostituisce in parte una visione verticale e planimetrica; l’immagine fotografica si approssima all’astrazione cartografica conservando però intero il proprio carico di referenzialità[27]. Per questa sola ragione la ripresa aerea contribuisce a formare in modo nuovo l’esperienza comune del paesaggio e più in generale dello spazio, già toccata dalle modificazioni indotte dalle grandi invenzioni ed elaborazioni teoriche dei decenni a cavallo tra Otto e Novecento. Come ha riconosciuto Gertrude Stein riflettendo sull’opera di Picasso “il Novecento è un secolo che vede la terra come non l’ha mai veduta nessuno[28], la terra quindi ha uno splendore che non ha mai avuto. Nel Novecento tutto si distrugge e niente continua, il Novecento quindi ha uno splendore tutto suo. Picasso è di questo secolo. Ha la singolare qualità di una terra che nessuno ha mai veduto, di cose distrutte come non sono mai state distrutte.”[29] Lo statuto di queste fotografie è, ancora una volta, ambiguo e ciò determina conseguenze importanti sul loro impatto estetico[30]: certo esse costituivano – secondo la bella definizione di Giovanni Battista Trener, tra le figure più rilevanti del pionierismo dell’aerofotografia italiana –  la registrazione delle “impronte della guerra”[31], consentendo di raffigurare qualcosa di altrimenti invisibile come il campo di battaglia[32], ma la precisa formalizzazione ottico geometrica della rappresentazione ne riduceva anche drasticamente il campo di riconoscibilità al di fuori dell’analisi specialistica. Negando ogni confronto e il conforto che nasce dall’esperienza comune e diretta, questo terribile Paesaggio di rumori di guerra che  Depero descrive nel 1915 (oggi al Mart di Rovereto)  si trasforma in figura astratta e impone suggestioni nuove, fondamentali per la ridefinizione del linguaggio visivo e fotografico degli anni successivi al primo conflitto mondiale.é appena il caso di richiamare qui l’interesse o la vera e propria passione per le riprese aree in due architetti fotografi come Pagano e Carlo Mollino, mentre Moholy-Nagy ricorre alla “Fotografia aerea di una piazza” per la sceneggiatura tipofotografica di Dinamica della grande città, stesa nel 1921-22 con Carl Koch[33], e Antonio  Boggeri  nel 1929 annovera tra le possibilità di costruire una nuova visione “lo spostamento del punto di vista dell’obiettivo: in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari”[34].

Questa notazione destinata a diffondere  in Italia il verbo del modernismo fotografico, apparve – come noto – sulle pagine dell’annuario Luci ed Ombre, testimonianza della volontà di apertura del gruppo redazionale, di stretta formazione pittorialista, e ulteriore conferma della contraddittoria vitalità di quel “laboratorio” torinese che si avviava a perdere il proprio primato: luogo di una cultura fotografica sempre più autoriferita e sterile, che si sclerotizza nella sua settorialità mentre la ben più viva realtà milanese si apre ai confronti con discipline diverse, dall’architettura alla pubblicità, e per questi tramiti si misura con gli esempi più alti della cultura visiva e fotografica internazionale.

Anche un autore di grande prestigio internazionale e di solida formazione analitica e positiva come Vittorio Sella si misura con le suggestioni tardopittorialiste durante il viaggio in Algeria e Marocco fatto nel 1925: ne ricava stampe morbide, di medio formato e virate in tono caldo, le sole ad essere ospitate sulle pagine del “Corriere Fotografico” e poi di Luci ed Ombre[35] e le ultime sue ad essere note al pubblico, prima del suo definitivo allontanamento dalla pratica professionale[36]. Sono immagini che vanno considerate quale avvio di una più ampia fase, che comprende anche la  ristampa di negativi realizzati alcuni decenni prima e ora trattati con viraggi semplici (blu, rossastri) o a doppio tono, sino alle colorazioni parziali e alle sbianche utilizzate nelle stampe realizzate per conto di altri autori quali Mario Piacenza e i fratelli Gugliermina, in cui risulta evidentissimo l’interesse per la pittoricità del gesto e dell’esito, lontani da ogni intenzione di verosimiglianza, poiché non era certo un maggiore effetto di realtà che interessava Sella in quegli anni, come dimostra indirettamente il fatto che non abbia mai realizzato (per quanto sinora noto) fotografie a colori. Questi ricordi di un viaggio finalmente familiare, sempre in bilico tra ricordo e autonoma ragione espressiva  più che un’anomalia nel percorso dell’autore devono essere considerati l’avvio di un riemergere di quella passione pittorica che aveva toccato il giovane Sella, ora pienamente accettata e accettabile, compresa e coerente com’era al gusto medio della fotografia italiana tra le due guerre, illustrato dall’importante serie di mostre che si susseguono in Italia a partire dal 1923 (Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia a Torino, a cui partecipano anche Drtikol e Rodcenko, sostanzialmente ignorato) e poi ancora a Monza nel 1927, mostra che doveva “rappresentare il contributo italiano alla Pictorial Photography”[37], mentre a Stoccarda – solo due anni dopo si sarebbe aperta Film und Foto,  la grande esposizione che segnava la maturità espressiva delle avanguardie fotografiche internazionali.

Il distacco dalle contingenze del reale non rappresenta, per molti degli autori di questo periodo, solo una sommaria adesione al neoidealismo, in un intreccio di ragioni che coniuga la reazione al materialismo ottocentesco con l’aspirazione all’arte fotografica (pur messa in dubbio da Benedetto Croce): i riferimenti ideali e astorici, il ripiegamento sui valori intimisti delle piccole cose, costituiscono un contraltare alla dura realtà politica e civile del paese e alla retorica roboante del regime; anche così si  giustifica in parte la produzione di quegli anni, il rifiuto generalizzato per quanto non esclusivo delle suggestioni provenienti dalle ricerche internazionali.

“A Sandro G.G. [Galante Garrone], per ricordargli, di fronte al brutto passeggero, il bello eterno”[38] recita il testo di una dedica (datata 1934) di Domenico Riccardo Peretti Griva,  uno degli autori più rappresentativi di questa stagione e membro autorevole di numerosissime giurie fotografiche in cui si celebrano “i candori squisiti di «purezze alpine» (…) il misticismo delle buone donnette del villaggio che, nella tregua della dura fatica dei campi, vanno alla bianca chiesetta, bianche esse pure nel sole che inonda le vicine messi.” [39] , mostrando come fosse possibile e quasi  naturale coniugare retorica passatista e fascinazione per il modernismo del tono alto delle immagini. Come ha rilevato Marina Miraglia[40], in quelle occasioni Peretti Griva elabora il concetto, poi ripreso da Mollino alla fine del decennio successivo, del prevalere dell’efficacia comunicativa sulla modalità di realizzazione, sullo stile: “io non vado cercando nei lavori fotografici il mezzo usato per ottenere l’effetto (…) io non faccio differenza fra ottocentisti e novecentisti, fra romantici e realisti”[41] afferma Peretti Griva,  che ancora anni dopo dirà “io non intendo sollevare discussioni sulla tecnica fotografica, né, tanto meno, ho la pretesa di sostenere la superiorità del procedimento (bromolio-trasferto), che io soglio praticare, su quello comune al bromuro.”[42] Sarà questa onestà di intenti, l’apertura critica mostrata e per certi versi palesemente contraddetta dalle sue scelte stilistiche, a giustificare la sua presenza a chiudere, con Sole nel cortile, l’Annuario di Domus del 1943, dopo una tesissima e ampia sequenza ultramodernista (pp.188-203); presenza che segna le incertezze e contraddizioni dell’intera operazione[43], ma certo non inserita “quasi per una svista”[44] se lo stesso Mollino riconosceva in lui pochi anni dopo un “artista tra i pochissimi dove l’atmosfera avvolgente di questa pericolosa tecnica fotografico-pittorica  giunge all’evocazione di un autentico mondo di poesia.”[45]

In quella che si definiva Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia  Peretti Griva è il solo rappresentante del gruppo di torinesi vicini al “Corriere Fotografico”, cui anzi sembrano indirizzati implicitamente gli strali più polemici di Scopinich[46]. Risulta quindi assente su quelle pagine anche un autore internazionalmente noto[47] come Cesare Giulio, sebbene la fotografia a tono alto sia rappresentata da un altro torinese come Enrico Giorello (p.39), e dai trentini Aldo (p.80) ed Enrico Pedrotti (p.56)[48], che nei ritratti anticipa Vender. Giulio era stato tra i primi ad adottare coerentemente e sistematicamente questa soluzione stilistica, a partire almeno dalla seconda metà degli anni Venti: “abbacinati paesaggi di neve”[49] quasi sempre  privi di sviluppo prospettico, modellati per superfici pure, segnate da impronte e scie che si trasformano volentieri in texture, immagini in cui la tendenza alla costruzione della pura forma, astratta, è confermata anche da certi titoli suoi (Armonie invernali, 1925; Trasparenze, ante 1932) e di altri autori[50] a lui prossimi come Carlo Baravalle (Sinfonia della neve, 1927)  e Stefano Bricarelli (Tracce, 1932). Questa economia di mezzi, questa riduzione ai minimi termini dei segni e dei toni, l’assenza di manipolazioni in ripresa e in stampa pur nella ricerca ostinata di una artisticità dell’immagine rappresentano, più che il superamento, una soluzione alternativa al pittorialismo imperante, la scelta di altri modelli di riferimento, di altre suggestioni quali la grafica giapponese. L’eliminazione del volume prospettico in favore della risoluzione e dell’esaltazione della superficie, l’adozione del tono alto portano a fondare il proprio bagaglio espressivo sulle pure potenzialità delle modulazioni luminose, intrecciando il proprio con altri percorsi coevi sebbene distanti: basti qui ricordare ancora Moholy-Nagy, che utilizza sequenze di sciatori e scie tratte dal testo Wunder des Schneeschuhs di Arnold Fanck e Hannes Schneider[51] e i toni alti delle fotografie di fiori di Imogene Cunningham che proprio il “Corriere Fotografico” pubblica nel 1931.

Tra misticismi, purezze alpine e mondi di poesia la fotografia artistica si prodiga di fatto per ottenere quell’occultamento sistematico del reale cui tendeva, pur con intenti e strumenti opposti anche quella più propriamente di regime e di propaganda; “grande e infamante occasione”  per la fotografia italiana l’ha definita Giulio Bollati, chiamata e votata a “documentare l’inesistente” in un senso certamente meno poetico di quanto avesse potuto intendere Emanuele Sella nel 1922[52].

È quello che è stato definito “periodo d’oro dell’arcadia fotografica”[53], ma la prospettiva troppo prossima da cui tale giudizio era stato formulato oggi va in parte rivista, riconoscendo una varietà di posizioni e di effetti, una complessità di situazioni che trova il proprio interesse proprio nella ricchezza della sua articolazione.

Così, per rimanere ancora a Torino, accanto a Peretti Griva e Giulio si muove in un isolamento quasi assoluto e caparbio, forse imposto, Mario Gabinio che all’avvio degli anni Trenta impone uno scarto radicale e stupefacente al proprio guardare, ribaltando il realismo analitico della sua formazione ottocentesca in una nuova visione perfettamente aggiornata, senza pagare alcun dazio alla maniera pittorialista. Superate le indagini sistematiche sul patrimonio architettonico aulico e sulle strade della città quadrata, Gabinio si dedica alla ricognizione, non senza intenti celebrativi, degli “elementi che caratterizzano oggi la città (…) capitale dell’industria, ricchissima di forze plastiche moderne”, secondo la definizione del pittore Fillia[54].  Sono i lavori per il primo tratto di Via Roma (1931-1933) ad attirare la sua attenzione, intento ad indagare gli spazi di questa città “deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi”, per riprendere le parole che  Benjamin dedica nello stesso 1931 alla Parigi di Atget[55]; è la costruzione dello stadio, sono le dotazioni infrastrutturali che ridisegnano lo spazio delle periferie, affrontate circa negli stessi anni con declinazioni diverse anche da Stefani e da Pagano. È lo scenario della città nuova, che conquista alla propria vita il tempo modernista della notte, attraversata a Parigi da Brassai e Kertesz, con i selciati bagnati di pioggia che avevano affascinato Stieglitz ormai più di tre decenni prima, e che ora costituiscono per Gabinio l’occasione estrema per confrontare il proprio racconto fotografico la “nuova cultura della luce”.

La cultura fotografica che qui emerge non è di certo quella dei Salon o degli annuari, piuttosto quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che nel maggio del 1932 ospita l’importante Discorso sull’arte fotografica  del direttore Gio Ponti, che riconosce alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio“.[56]

I fermenti e le contraddizioni di questa stagione della fotografia italiana si traducono in sincretismo nelle prime produzioni di Bruno Stefani, attivo dalla seconda metà degli anni Venti, che oscilla tra una visione ancora tardo pittorialista della periferia milanese (Effetto di nebbia/ Riflessi Parco Lambro, 1930) e la dolorosa tensione grafica di Alta tensione, una cui versione più edulcorata sarà pubblicata in Luci e Ombre del 1932 (tav.10). è questo il periodo in cui, oltre a svolgere un ruolo fondamentale nella definizione dell’immagine della Montecatini, avvia la collaborazione con il TCI per la collana “Attraverso l’Italia” di cui Stefani fornirà la parte anche quantitativamente più rilevante dell’apparato iconografico, contribuendo a definire l’immagine del Bel Paese nella prima metà del Novecento, aggiornando e sostituendo in parte i modelli Alinari, ma contribuendo a sua volta a definire nuovi stereotipi narrativi, costruiti per reiterazioni di schemi compositivi in un contesto in cui “la committenza e la destinazione di queste fotografie diventano un motivo unificante al di là della dislocazione geografica.”[57] Sono immagini in cui una cultura fotografica ampia e aggiornata è di volta in volta posta al servizio della risoluzione più efficace e formalmente soddisfacente del tema affrontato, accogliendo via via le suggestioni astrattiste di Giulio e i grafismi di gusto Bauhaus come le forme più mature del pittoricismo, aggiornato dall’uso del colore, portate a volte a convivere nella stessa immagine. Dall’enorme quantità di immagini prodotte e raccolte per la realizzazione della collana viene ricavato nel 1956 “un estratto quintessenziale di quell’immenso patrimonio di bellezza” come lo definì Cesare Chiodi, presidente del TCI, un’antologia dell’Italia in 300 immagini che costituirà per la generazione attiva dagli anni Settanta “un modello sbagliato [ma] che aveva una sua compattezza, era nell’insieme interessante, era – nel giudizio di Ghirri – un libro di immagini «basse», volutamente «basse». Il modello era sbagliato perché era la riconferma dello stereotipo ma, d’altra parte, per quel periodo (…) era il massimo che si poteva fare.”[58]

Sul fronte meno immediatamente legato alla pratica professionale la situazione si presenta diversa: già Turroni aveva notato come “la fotografia italiana degli anni 1930-40 è nelle mani degli architetti e dei futuri registi di cinema, oltre che dei professionisti di studio. Gli architetti di Milano sono raccolti intorno alla rivista Domus (…) Non si può tracciare un panorama dell’estetica fotografica di ieri e di oggi senza tener conto di Fotografia della Domus”[59] , diretta da Ponti, ma certo vanno ricordati anche gli interventi e il ruolo centrale di Edoardo Persico in “La Casa Bella” (con la direzione di Giuseppe Pagano dal 1933), così come il ruolo svolto da un altro periodico non settoriale come “Natura”, su cui pubblicano Pagano e Stefani, che nel 1930 bandisce un concorso “onde stimolare anche in Italia la produzione di fotografie artistiche con novità di soggetti a carattere essenzialmente moderno.”[60] Attorno a queste riviste milanesi si concentra la più avanzata ricerca fotografica italiana, vivificata dalle relazioni strette con la migliore cultura architettonica e grafica del momento, in una fase della vita nazionale in cui la pratica del consenso si sviluppa oltre che  con metodi coercitivi e violenti anche con un uso accorto e spregiudicato dei mezzi di comunicazione, non ultimo il massiccio ricorso ad enormi fotomosaici e fotomurali nell’allestimento delle grandi esposizioni, a partire da quella celebrativa del decennale, nel 1932.

Nell’ambito della Mostra internazionale di Architettura della Triennale di Milano (maggio-ottobre 1936) si tiene la  Mostra di architettura rurale, risultato di un’indagine “intrapresa con lo scopo di dimostrare il valore estetico della sua funzionalità[61] che costituisce l’occasione per Giuseppe Pagano di avvicinarsi alla pratica fotografica. Obiettivo dell’indagine condotta con Guarniero Daniel è “la conoscenza delle leggi di funzionalità e il rispetto artistico del nostro imponente e poco conosciuto patrimonio di architettura rurale sana ed onesta, [che] ci preserverà forse dalle ricadute accademiche, ci immunizzerà contro la rettorica ampollosa e sopratutto ci darà l’orgoglio di conoscere la vera tradizione autoctona dell’architettura italiana: chiara, logica, lineare, moralmente ed anche formalmente vicinissima al gusto contemporaneo.”

Questa lucida analisi di matrice funzionale, razionalista coniugata con suggestioni diverse, presenta significative analogie con quanto si andava elaborando – pur ad un livello più schematico – in contesti prossimi quali la pubblicistica fotografica; basti il confronto con l’editoriale del primo numero dell’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, pubblicato a Torino nel luglio del 1933, che definisce la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire”, mentre Luigi Andreis poco oltre  descrive “la moderna fotografia, schietta, serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale”, rivelando infine la comune matrice nazional-popolare sottesa, che si traduce in richiamo esplicito alle direttive di Mussolini espresse nel discorso di inaugurazione della Mostra d’arte del Novecento Italiano nel 1926. Una comprensione strutturalmente lontana da quella prestata negli anni Venti ai temi e ai nessi della cultura popolare italiana da geolinguisti ed etnografi come Ugo Pellis o Paul Scheuermeir[62], sebbene anche Pagano avesse consapevolezza della necessità di riconoscere e considerare le relazioni tra condizioni socioeconomiche, contesto ambientale e forme architettoniche.[63]

La sua ricerca fotografica prosegue per poco meno di un decennio, sino alla prematura morte nel campo di concentramento di Mauthausen nel 1945 (dove muore anche Gian Luigi Banfi), articolata per temi, perfettamente scanditi e riflessi nell’organizzazione del suo archivio, in cui il paesaggio nelle sue diverse declinazioni e componenti, anche geografiche, assume un ruolo rilevante. Sono immagini in cui i canoni della composizione modernista, la geometrizzazione spinta ai limiti dell’astrazione  sono sempre intesi e coerentemente utilizzati quale strumento di comprensione analitica del reale, destinati  ad assumere “il valore di uno stile. Stile fatto di rapporti di chiaroscuro, di cadenze prestabilite, di assoluta dedizione all’irreale realtà della fotografia, e soprattutto tecnica di una nuova notazione pittorica: nitida, acuta, inesorabilmente obbiettiva e pur tanto poetica nella sua meccanica semplicità.”[64]

La rilevanza del ruolo svolto dalla cultura architettonica di area milanese nella definizione del carattere della fotografia italiana che si era avviato sin dai primi anni Trenta si conferma e si consolida nel decennio successivo, in un intrecciarsi di relazioni personali che resistono alle differenze ideologiche: la pratica fotografica e la passione per il cinema univano Pagano a Luigi Comencini, tra i primi commentatori delle sue fotografie, ma anche con i più giovani Enrico Peressutti e Gian Luigi Banfi (entrambi membri dello studio BBPR e redattori di “Quadrante”), Pier Maria Pasinetti  e Alberto Lattuada, che nel 1940 aveva pubblicato su “Corrente” una recensione di American Photographs, 1938, di Walker Evans[65].  Li unisce, in un momento di profondo e drammatico ripensamento ideologico, una concezione realista dello spazio esistenziale in cui – per dirla con Lattuada – è “sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose. La presenza dell’uomo è continua; e anche là dove son rappresentati oggetti materiali, il punto di vista non è quello della pura forma, del gioco della luce e dell’ombra, ma è quello dell’assidua memoria della nostra vita e dei segni che la fatica di vivere lascia sugli oggetti che ci sono compagni.”[66] 

Bel pensiero con echi pavesiani  che Pagano può condividere, ma di cui si faticherà a trovare traccia nella successiva rilevante occasione di affermazione e bilancio della fotografia italiana: l’annuario che E. F. Scopinich cura nel 1943[67] ancora per l’Editoriale Domus in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner. Fotografia esce a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di Luci ed Ombre (1934), che ne costituiva di fatto il precedente editoriale (ma non ideologico) e rappresenta la sintesi compiuta del dibattito e della svolta modernista, timidamente avviati dal “Corriere Fotografico”, poi proseguiti e affinati sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, nonché col contributo fondamentale di Ponti,  Persico e dell’editore Gianni Mazzocchi. La qualità della riflessione qui si fa però più incerta, sin dalle prime valutazioni iniziali sullo stato della fotografia italiana, considerata “giovane” da Scopinich e invece matura, tecnicamente e artisticamente da Mazzocchi. La logica del progetto segna poi un sostanziale ripiegamento, tutta rivolta com’è al chiuso mondo del puro esercizio fotografico, alla sin troppo ovvia messa in discussione di quelle “tre  generazioni di fotografi [che] hanno svolto per anni il tema delle pecore al pascolo (…) senza preoccuparsi del mondo, della vita (…) della rivoluzione prima e dell’evoluzione poi, dei valori etici e morali della nostra cultura”[68], con un richiamo ormai politicamente fuori tempo massimo, nel 1943.

Come era già accaduto al tempo del primo conflitto mondiale sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, anche le pagine di questo annuario non ci dicono quasi nulla di ciò che stava accadendo in Italia e nel mondo; solo alcune riprese dell’Istituto LUCE richiamano la drammaticità del momento, mentre Scopinich si prodiga a giustificare un poco maldestramente l’incerta poetica delle scelte.[69] Ritroviamo in quelle pagine molti degli autori da noi considerati: da Pagano a Peressutti[70], da  Peretti Griva a Stefani e Federico Vender, che tra le altre pubblica una Natura morta a colori che risulta essere la versione un poco maldestra de La fourchette di Kertesz, del 1928. Vender[71] rappresenta in quegli anni un’altra delle figure di rilievo dell’ambiente fotografico milanese, contiguo ma non coincidente con le posizioni espresse dal gruppo che ruotava intorno all’Editoriale Domus.  Uno degli autori più rappresentativi e considerati del panorama italiano, ben noto anche a livello internazionale almeno dal 1934, anche lui vicino alla cultura architettonica razionalista per il tramite del fratello[72] e direttore dal 1939 di quel Circolo Fotografico Milanese cui apparteneva anche Stefani, Vender risulta lontano dal realismo che affascinava Lattuada e Pagano, orientato semmai ad una trasfigurazione in senso idealistico della realtà in immagine, scelta che si traduce stilisticamente nel ricorso programmatico al tono alto, derivato da Cesare Giulio e dai fratelli Pedrotti ma qui caricato consapevolmente di senso, espressione di quella “necessità di allontanare la fotografia che abbia pretese di arte, dal binario morto della cronaca documentaria”[73] che costituirà il presupposto e il credo estetico del gruppo de “La Bussola”. Le immagini realizzate da Vender consentono però letture più articolate e complesse, mutevoli, in cui suggestioni materiche si alternano e a volte si affiancano ad altre di pura evocazione poetica, mentre cresce con gli anni, accanto al grande interesse per il ritratto femminile, una vocazione sempre più marcata per la geometrizzazione del paesaggio, che origina e si misura dapprima con la lettura evocativa delle architetture razionaliste ma si amplia poi e si estende alle occasioni più varie, non tanto per sottoporre il mondo ad una rigida griglia interpretativa, totalizzante quanto piuttosto e più pianamente alla ricerca di occasioni e pretesti: lo scopo non è di formulare giudizi quanto di ricavare pretesti, fedele “all’assioma fondamentale che in arte il soggetto non ha nessuna importanza”.[74]

 

Note

[1] La splendida formula si deve a Emanuele Sella che, rispondendo al quesito rivolto ai lettori del periodico “Il Fotografo” affermava: “La fotografia? È la documentazione dell’inesistente.”, cfr. “Il Fotografo”, 4 (1922),  n.3, p.10. La rivista, indicata come milanese in Italo Zannier, Leggere la fotografia: Le riviste specializzate in Italia (1863-1990), con la collaborazione di Maria Beltramini. Firenze: La Nuova Italia Scientifica, 1993, p. 250, diretta da Felice Baratelli, redattore Celeste Ferdinando Scavini, aveva invece sede a Torino, in via Cernaia 18 ed era verosimilmente finanziata dalla Bayer, come sembrano dimostrare i diversi e insistiti richiami ai prodotti dell’industria tedesca. Nel 1923 la sua gestione viene affidata a una società appositamente fondata che ne stabilisce la nuova sede in via Accademia Albertina, 1 e ne affida la direzione dal n.1 del 1925 ad Annibale Cominetti, che quindi riassume il ruolo di direttore di un periodico fotografico dopo l’importante esperienza del “La Fotografia Artistica”, ma senza ripetere il successo dell’impresa precedente. Non esistono per ora elementi certi che possano consentire di identificare l’autore della definizione con l’omonimo membro della famiglia Sella, economista e poeta, poi Rettore dell’Università di Genova, cfr. il numero monografico Emanuele Sella (1879-1946),  “Rivista Biellese”, 1 (1947),  n.5, settembre-ottobre,  cortesemente segnalatomi da Aldo Sola, che ringrazio. Due fotografie di E. Sella, di Torino,  Nouvelle lune, e Sérenité marine, vennero pubblicate nel numero di maggio giugno 1915 de “La Fotografia Artistica”.

[2] George Gissing, 1888, citato in Diego Mormorio, Vedute e paesaggi italiani dell’Ottocento. Milano: Federico Motta Editore, 2000, p. 18.

[3] L’efficace definizione è stata formulata da Leonardo Di Mauro, L’Italia e le guide turistiche dall’Unità ad oggi, in Cesare de Seta, a cura di, Il paesaggio, “Storia d’Italia – Annali”,  5. Torino: Einaudi, 1982, pp. 369-428 (389)  per descrivere il senso della rappresentazione che Gustav Klimt offrì del teatro di Taormina, realizzata per il Burghtheater di Vienna nel 1886-1888, negli anni di Von Gloeden.

[4] Gustavo Strafforello, La Patria: geografia dell’Italia. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1890 –1900. è indizio chiaro del formarsi di una nuova, più ‘moderna’ gerarchia di valori che nell’elencazione delle tipologie di beni compresa nel frontespizio dell’opera i “monumenti” siano posti a chiudere l’elenco, dopo “fiumi, canali, strade, ponti, strade ferrate, porti”.

A testimoniare su di un fronte solo parzialmente diverso l’interesse per una conoscenza non superficiale della nazione ricordiamo la fondazione nel 1894 del TCCI Touring Club Ciclistico Italiano, TCI dal 1900. Per quanto riguarda la funzione di strumento non indifferente di conoscenza del territorio italiano  è opinione comune che le guide TCI abbiano svolto la stessa funzione della produzione Alinari, di cui del resto facevano ampio uso.

[5] Lamberto Vitali, Un fotografo fin de siècle: Il conte Primoli, Torino: Giulio Einaudi Editore, 1968 (nuova ed. riveduta e aumentata 1981, p. 14).

[6]  Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2. Torino: Einaudi, 1981, pp. 421-544  (490-91).

[7] Lamberto Vitali in “Emporium”, citato da Silvio Negro, Album Romano. Roma: Gherardo Casini Editore, 1956, p. 17.

[8] Le implicazioni connesse allo scambio di fotografie tra Primoli e Verga, documentato da una lettera citata da Silvio Negro e pubblicata da Marcello Spaziani, sono discusse in Alberto Abruzzese, Carlo Grassi, La fotografia. In Alberto Asor Rosa, a cura di, Letteratura italiana: Storia e geografia, 3: L’età contemporanea. Torino: Einaudi, 1989, pp.1177-1222 (1193).

[9] Luigi M. Lombardi Satriani, La realtà e gli sguardi, in Francesco Paolo Michetti: Il cenacolo delle arti: tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia, 6 marzo-1 maggio 1999; Francavilla al Mare, Museo Michetti, 25 maggio-30 agosto 1999), a cura di Claudio Strinati. Napoli: Electa, 1999, pp. 65-71.

[10] Dopo le prime segnalazioni di Carlo Bertelli, Le fotografie di F. P. Michetti, “Musei e Gallerie d’Italia”, 1968, n. 36, settembre-dicembre, pp. 22-29,  l’approfondimento analitico della sua attività lo si deve – come è noto – a Marina Miraglia, a partire dalla monografia del 1975 (Marina Miraglia, Francesco Paolo Michetti fotografo. Torino: Einaudi, 1975) sino al più recente contributo alla mostra promossa nel 1999 dalla Fondazione Michetti (Marina Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, in Francesco Paolo Michetti: Il cenacolo delle arti, op. cit., pp. 13-64).

[11] Luigi Capuana, Spiritismo?.  Catania: N. Giannotta, 1884, pp.221-222, citato in Abruzzese, Grassi, op. cit., p. 1193.

[12] “Egli era impaziente al sommo. Trovato un mezzo più rapido di resa, si elevava di un grado. Sicché se avesse potuto fare in un attimo un quadro, l’avrebbe fatto in maniera eccellente.”, Eugenio Jacobitti, Francesco Paolo Michetti.  Firenze: Seeber, 1933 cit.  da Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.14. Notazione certo molto interessante, che colloca l’atteggiamento del pittore all’interno dei modelli interpretativi canonici (Gisèle Freund, ad esempio) ma anche in una tradizione di ‘urgenza’ di produzione di immagini di perfezione naturale che origina dal sogno di Giphantie. Bisognerebbe però riflettere che se la fotografia consente di “fare” il quadro in un attimo, implica però un “vedere” dilazionato nel tempo. A questa urgenza si associava l’interesse per l’osservazione e la resa del movimento, oltre alla precisa consapevolezza “circa l’autonomia del linguaggio fotografico”,  Miraglia,  Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.15.

[13] “E ancora sessant’anni dopo [1920ca] il vecchio Michetti diceva a Carlo Tridenti, ch’era andato a fargli visita a Francavilla, e faceva passare un fascio di schizzi fatti a colore sul vero: «Lascia stare quelle porcherie e vieni qua se vuoi vedere la natura e il vero colore». E gli mostrava decine di angoli di prati in fiore, e di campi di zucche mature, fotografati da lui con lastre a colori, e proclamava che valevano molto più dei suoi quadri.” (Negro, Album Romano, op. cit., p. 16) L’episodio fa il paio con quello ricordato nei Taccuini di Ugo Ujetti: “Lino Pesaro [il gallerista] mi parla di Michetti. L’ha veduto giorni fa al convento di Francavilla. Che cosa ha di pronto Senatore? Quanti quadri vuole! Me li mostri, e Michetti lo conduce davanti ad uno schedario con diecimila schede grandi di cartone (…) in un angolo  un numero” che rimanda allo schedario delle fotografie “Come vede, qui lei ha 10.000 quadri. Perché non li fa? Ma per me sono fatti. E per il pubblico? Non me ne importa niente. Dovrei eseguirli. Facile ma noioso. Io, li vedo perfetti.” citato in Miraglia,  Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.15.

[14] L’ultimo Michetti: Pittura e Fotografia, catalogo della mostra (Firenze, Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, 27 novembre 1993-27 febbraio 1994)  a cura di Renato Barilli. Firenze: Alinari IDEA, 1993, p. 13.

[15] Wilhelm von Gloeden in Bruno Caruso, a cura di, Ritratti di Von Gloeden con una nota autobiografica. Roma:  Edizioni dell’Elefante, 1964, p.n.n.

[16] Si veda Verna Posever Curtis, F. Holland Day: The poetry of photography,  “History of Photography”,  18 (1994), n. 4, pp. 299-321 e più in generale sulle rappresentazioni fotografiche del Cristo: Nissan N. Perez, Corpus Christi: les representations du Christ en photographie, 1855-2002.  Paris: Marval, 2002.

[17] Francesco Faeta, Wilhelm von Gloeden: per una lettura antropologica delle immagini,  “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 88-104. Già Cesare Schiaparelli nel presentare le opere di Von Gloeden esposte a Dresda nel 1909 aveva parlato a questo proposito di capacità di esprimersi artisticamente “in modo affatto speciale ed etnologicamente personale”, C. Schiaparelli, L’arte fotografica all’Esposizione internazionale di Dresda 1909.  Torino: Stab. Tipografico G. Momo, 1910, p.46.

[18] Marina Miraglia, Wilhelm von Gloeden fra realismo e simbolismo, in Michele Falzone del Barbarò, M. Miraglia, Italo Mussa, Le fotografie di Von Gloeden.  Milano: Longanesi, 1980, pp. 7-14 (14).

[19] Wilhelm von Gloeden in Caruso 1964, op. cit., p.n.n., sottolineatura nostra. Analoghi concetti erano espressi da esponenti di primo piano della cultura fotografica italiana proprio negli anni in cui si poteva avviare il confronto con la produzione pittorialista internazionale:“L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro” affermava ad esempio Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171(165), che riparlerà di “esagerazione della ricerca” anche a proposito della sezione americana recensendo l’Esposizione di Torino del 1902: Pietro Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia di Torino. Relazione al Consiglio direttivo,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 14 (1902, pp. 465-479). Tali concetti erano in netto contrasto con quelli espressi ad esempio da Livio Castellani, secondo il quale “per essere considerata opera d’arte, una fotografia deve spogliarsi da tutto quanto palesa l’azione meccanica del mezzo adoperato.”, cit. in Paolo Costantini, L’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica, in Torino 1902: Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, 23 settembre 1994-22 gennaio 1995) a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179 (97).

[20] Citato in Le fotografie di Von Gloeden 1980, op. cit. , p. 18.

[21] Roland Barthes, Wilhelm von Gloeden. Napoli:  Amelio Editore, 1978, pp.9-10.

[22] Nicola A. Falcone, Il paesaggio italico e la sua difesa: studio giuridico-estetico. Firenze: Alinari, 1914.

[23] Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia 1902, op. cit.

[24] Lazlo Moholy-Nagy, Pittura fotografia film (1925). Torino: Einaudi, 1987, p.  33.

[25] Segnalato per la prima volta da René Willien, Valle d’Aosta in bianco (e nero): un secolo di documentazione fotografica. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1976 , è stato poi compreso nel dettagliato panorama realizzato da  Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino:  Umberto Allemandi, 1990, pp. 345-346.

[26] Diego Leoni, Patrizia Marchesoni, Achille Rastelli, a cura di, La macchina di sorveglianza: la ricognizione aerofotografia italiana e austriaca sul Trentino (1915-1918).  Trento: Museo storico in Trento, 2001, p. 8.

[27] Confermando una programmatica distanza dalle contingenze storiche il periodico “La Fotografia Artistica” riprende ( 12 (1915), n.2 febbraio , pp. 25-25; n.3  marzo, pp. 37-38) lo studio dedicato alla Topofotografia aerea dal capitano Cesare Tardivo, già pubblicato sulla “Rivista d’Artiglieria e Genio”, 30 (1913), n. 3, pp. 57-75,  nel quale si descrivono le diverse applicazioni pur senza far cenno alla guerra incombente.

[28] Nello stesso secolo ci sarà un altro punto nodale in cui – nuovamente – la terra sarà veduta “come non l’ha mai veduta nessuno”: vista dalla luna in una notte del 1969 e raccontata da Luigi Ghirri, Kodachrome: Prefazione, ora in Paolo Costantini, Giovanni Chiaramonte, a cura di, Luigi Ghirri. Niente di antico sotto il sole.  Torino: SEI, 1997, pp. 18-19.

[29] Gertrude Stein, Picasso, 1938, in Stephen Kern, The Culture of Time and Space 1880-1918. Cambridge, Massachussetts: Harvard University Press, 1983 (trad.it. Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento.  Bologna: Il Mulino, 1988, p. 395).

[30] Che questo ordine di preoccupazioni non fosse estraneo alle riflessioni dei Comandi Militari è ben documentato  dalle Norme tecniche e d’impiego del servizio fotografico terrestre ed aereo emanate dal Comando supremo nel 1918, che imponevano per la individuazione del punto di vista da cui realizzare i panorami di non  tenere alcun conto “dell’aspetto più o meno artistico che, in base a tale scelta, può assumere il panorama stesso” (p.12) citato in Tiziano Bertè, Antonio Zandonati, Il fronte immobile : fotografie militari italiane dal monte Baldo al Cimon d’Arsiero. Rovereto: Museo storico italiano della guerra –  Osiride, 200, p. 16. Ciò dimostra la relazione comunque stretta tra la cultura dei fotografi militari e quella fotoamatoriale: se non si fossero presupposte connessioni, non sarebbe stata necessaria tale raccomandazione.

[31] Leoni, Marchesoni, Rastelli 2001, op. cit., p.  42.

[32] Sull’impossibilità reale di riconoscere e definire lo spazio del proprio agire al fronte è sufficiente rimandare qui alle bellissime pagine del Giornale di guerra e di prigionia  redatto da C. E. Gadda dall’agosto 1915 al dicembre 1919 e pubblicati per cura di Dante Isella, Milano: Garzanti, 1992.

[33] Moholy-Nagy (1925) 1987, op. cit., p.126.

[34] Antonio Boggeri, Commento, “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1929, pp. 9-16.

[35] La porta del mercato di Marrakesch, “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1925, tav. IV.

[36] Lodovico Sella, Vittorio Sella: cronologia, in Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982,  pp. 29-33 (p. 33).

[37] Antonella Russo, Il fascismo in mostra. Roma: Editori Riuniti, 1999, p.  186.

[38] Alessandro Galante Garrone, Domenico Riccardo Peretti Griva,  “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 20-27, ora in Fotografia luce della modernità: Torino 1920/1950, dal pittorialismo al modernismo, catalogo della mostra (Torino, Museo dell’automobile Carlo Biscaretti di Ruffia, 10 ottobre-17 novembre 1991) a cura di Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1991, pp. 151-163.   Oltre a quelli familiari, vanno ricordati qui anche i legami di passione politica e d’amicizia che legavano i due ed entrambi a Domenico Morelli, architetto e nipote dell’omonimo pittore napoletano, presso il cui studio si ritrovavano a Torino gli uomini del Partito d’Azione negli anni della Resistenza, cfr. Virginia Bertone, Da casa Morelli alle collezioni del Museo, in Domenico Morelli: il pensiero disegnato: opere su carta dal fondo dell’artista presso la GAM di Torino, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, 20 dicembre 2001-3 febbraio 2002), a cura di Claudio Poppi. Torino: GAM, 2001, p. 61.

[39] Cit. in Marina Miraglia, a cura di, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris –  Hopefulmonster, 2001, pp. 26-27.

[40] Ibidem.

[41] Ibidem.

[42] Presentazione della sua mostra La fotografia è una cosa seria, Torino, “Piemonte artistico e culturale”, 1959.

[43] L’opera di Peretti Griva risaliva infatti addirittura al 1930, anno in cui fu esposta a Torino al “Terzo Salon italiano d’Arte fotografica internazionale” (Miraglia 2001, op. cit., p.  41, nota 50).

[44] Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Bari-Roma: Laterza, 1986, p.  291.

[45] Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [gennaio 1950], p. 32; tavv. 135-137.

[46] Ermanno Federico Scopinich, con Alfredo Ornano e Albe Steiner, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943. Anche Alberto Lattuada, aveva vivacemente polemizzato con gli epigoni torinesi del pittorialismo: “Credo inutile fare osservazioni sulla tecnica fotografica. Mi pare giusto dire soltanto questo: recentemente ho visto pubblicato su un quotidiano di Torino una fotografia dalla quale, con l’aiuto di filtri, velature, bagni chimici e altri accorgimenti, l’autore era riuscito a ricavare un quadro; si trattava di una scena fluviale in controluce, sfumatissima e la dicitura diceva che tale opera aveva vinto il concorso della più grande esposizione internazionale di fotografia.”,  Alberto Lattuada, Occhio quadrato. Milano: Corrente, 1941.

[47] La sua Scia/ The Trach era stata pubblicata ad esempio in un volume importante come Modern Photography, numero speciale del trimestrale “The Studio”. London: 1931, p.81.

[48]  Si veda Daniela Floris, Floriano Menapace, Fratelli Pedrotti: immagini.  s. l. : s. n.[Trento, 1981], e in particolare, per la produzione di Enrico, Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001, p.  201 in basso, che mostra stringenti analogie con Emanuel Gyger e Giulio e che risulta più difficile collocare in un contesto di secondo futurismo, come fa lo studioso, nonostante i rapporti con Depero.

[49] Così li definirà Achille Bologna, 1935; va qui ricordato il suo Spiaggia,  che nell’uso della texture rimanda ancora a Giulio.

[50] Ricordiamo qui che anche gli Equivalents di Stieglitz (1923) vennero dapprima presentati come Songs of the Sky e furono preceduti da Music: A Sequence of Ten Cloud Photographs (1922), cfr. The Art of photography: 1839-1989, (catalogo della mostra itinerante,  Houston, Canberra,  London 1989), a cura di Mike Weaver. London: Royal Academy of Arts, 1989, p.  206.

[51] Moholy-Nagy (1925) 1987, op. cit., p.116. è appena il caso di ricordare che Fanck fu l’inventore del Bergfilm, del cinema di montagna,  la cui vera terra d’elezione è stata la Germania; efficace narratore di questo “idealismo eroico” che contemplava sempre il confronto simbolico tra l’uomo protagonista e le vette, gran costruttore di trame drammatiche, maestro di Luis Trenker e poi di Leni Riefenstahl. Analoghe soluzioni, pur con campi sufficientemente ampi e quasi panoramici, furono adottate da Emanuel Gyger circa negli stessi anni, cfr. Aldo Audisio, P. Cavanna, a cura di,  L’Archivio fotografico del Museo nazionale della montagna.  Novara: De Agostini, 2003, pp. 100 passim.

[52] Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, , pp. 5-55 ( 53); per E. Sella cfr. nota 1.

[53] Giuseppe Turroni, Nuova fotografia italiana. Milano: Schwarz, 1959, p. 12.

[54] Cit. in Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino 1920 1936. Società e cultura tra sviluppo e capitalismo.  Torino:  Edizioni Progetto, 1976, pp. 97-151 (112).

[55] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia [1931], in Id. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 57-78 (71), che riconosce anche Atget quale padre della “nuova fotografia”.  Questa relazione è sottolineata anche nella recensione di Edoardo Persico, Camille Recht: Atget,  “La Casa Bella”, 10 (1931), n.2, febbraio, p.51: “Non si tratta, infatti, di novantasei fotografie pittoresche; ma di altrettanti studi eseguiti sulla scorta di un’intelligenza acutissima; e quasi di un fine determinato, che è certo la rappresentazione dello spirito del proprio tempo. (…) Atget è il fondatore di un’«arte» della fotografia come sarà intesa parecchi anni dopo, in America ed in Germania, sotto la spinta della tecnica cinematografica”. Lo stesso Persico recensirà nello stesso anno l’importante volume di Franz Roh e Jan Tschichold, Foto-Auge – 76 Fotos der Zeit. Stuttgart: Wedekind,1929, “La Casa Bella”, 10 (1931), n.5, maggio, pp.57-58. A proposito di mediazioni culturali Germania-Italia, Floriano Menapace ricorda – in  Federico Vender: Photographien-Fotografie-Photographs 1930-1955, catalogo della mostra (Bolzano, Galerie Foto-Forum, 9 dicembre 1997-24 gennaio 1998; Innsbruck, Galerie Fotoforum West, 29 gennaio-21 febbraio 1998; Trento, Palazzo Geremia, 17 aprile-14 maggio 1998) a cura di Gunther Waibl. Bolzano: Raetia 1997, p. 9-  che Vender possedeva, forse per il tramite del fratello architetto,  una copia di questo volume.

[56] Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n. 53, maggio, pp. 285-283, corsivo dell’autore. Sottolineerei l’uso dell’aggettivo “disumana” che pare evocare (o  involontariamente presupporre) il concetto di “inconscio tecnologico”  espresso da Benjamin l’anno precedente. Se “Domus” dedica ampio spazio alla pubblicazione di immagini è su “Casa Bella” che compaiono in quegli anni le segnalazioni e recensioni  più attente di volumi dedicati alla nuova fotografia; si confrontino ad esempio le recensioni di Modern Photography, del 1931, che contiene due importanti saggi di Godfrey Hope Saxon Mills e di Cyril Leeston Smith e fotografie di autori quali Bayer, Bruguiére, Henry, Beaton e altri, tra i quali gli italiani Bologna, Bricarelli e Giulio: per il redattore di “Domus” si tratta  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  – 4 (1931), n.47, p.67- mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume è occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.” – (1931),  n.47, novembre 1931, p.54. All’Editoriale Domus di Giulio Mazzocchi si deve in questi anni la pubblicazione oltre che di “Casa Bella” e “Domus” anche di “Fotografia”, edita dal 1932 ancora sotto la direzione di Gio Ponti e la cura di Guido Pellegrini.

[57] Roberto Campari, a cura di, Bruno Stefani. Parma: Università di Parma, 1976, pp. 7-8.

[58] Luigi Ghirri, Viaggio dentro le parole: conversazione con A.C. Quintavalle, in Viaggio dentro un antico labirinto (1991), ora in Costantini, Chiaramonte 1997, op. cit., pp. 305-314.

[59] Turroni 1959, op. cit., pp.  9-10.

[60] Luci ed ombre: Gli annuari della Fotografia Artistica Italiana 1923-1934, catalogo della mostra (Firenze, Largo Fratelli Alinari, 1987-1988) a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier, introduzione di Valerio Castronovo. Firenze: Alinari, 1987,  p. 32.

[61]  Giuseppe Pagano, Guarniero Daniel, Architettura rurale italiana. Milano: Hoepli, 1936, p.  6, sottolineatura di chi scrive.

[62] Cfr. Miraglia, Note per una storia,  1981, op. cit.; Gianfranco Ellero, Italo Zannier, a cura di, Voci e immagini: Ugo Pellis linguista e fotografo. Milano: Federico Motta, 1999.

[63] Per le quali considera determinante “l’influenza del paesaggio circostante”(Pagano, Daniel 1936, p. 76). Orientamenti analoghi esprimerà Giuseppe De Santis che, proseguendo i discorsi di Lattuada e Pagano, scriverà nel 1941 (“Cinema”, n.116, 25-4-1941): “Ma come altrimenti sarebbe possibile intendere e interpretare l’uomo se lo si isola dagli elementi nei quali ogni giorno vive, coi quali ogni giorno comunica”, cit. in Piero Berengo Gardin, a cura di, Alberto Lattuada fotografo 1938-1948: Dieci anni di occhio quadrato. Firenze: Alinari, 1982, p.  8. Sono questi i temi condivisi in quegli anni da molti  intellettuali italiani di fronda, poi ripresi e sviluppati nella stagione neorealista.

[64] Giuseppe  Pagano, Un cacciatore di immagini, “Cinema”, dicembre 1938, pp. 401-403, ora in Giuseppe Pagano fotografo, catalogo della mostra (Bologna, Galleria d’arte moderna, 10 marzo-9 aprile 1979; Roma, Istituto Nazionale per la Grafica,  15 maggio-30 giugno 1979) a cura di Cesare De Seta. Milano: Electa editrice, 1979, pp. 155-156, sottolineatura di chi scrive. Già alcuni anni prima Pagano, Struttura e architettura, in Id.,  Dopo Sant’Elia. Milano:  Editoriale Domus, 1935, pp.94-120, aveva parlato di “retorica della semplicità” e questa tensione non può non richiamare la “semplificazione” di cui parlava Italo Mario Angeloni, La partecipazione dei dilettanti italianai al «IV Salon Internazionale» di Torino,  “Il Corriere Fotografico”, 28 (1933), n.5, maggio, p.252.  Pare essere questo il concetto chiave intorno a cui ruotano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni; già Marziano Bernardi nel 1927 aveva parlato di “conquista di stile” e di “concetto semplificatore” riconoscendo una rinnovata attenzione per le questioni compositive, mentre due anni più tardi Antonio Boggeri ne riprendeva i temi riconoscendo tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della “fotografia pura, o integrale” proprio la messa al bando di  “ogni concessione al gusto popolare [e la] aristocratica semplicità dello stile”, Boggeri  1929, pp. 9-16 (14).

[65] Lattuada risentirà della lezione di Evans nella formulazione del suo Occhio Quadrato, 1941; per Ennery Taramelli  il libro di Evans, penetrato clandestinamente in Italia, provocò un “profondo choc visivo (…) nella giovane bohème raccolta a Milano”  attorno a “Domus” e “Corrente. (Ennery Taramelli, Viaggio nell’Italia del neorealismo: la fotografia tra letteratura e cinema. Torino: SEI,  1995, p. 66) Va ricordato qui che sia Lattuada che Pagano collaboravano anche col settimanale illustrato “Tempo”.

[66]  Lattuada, Prefazione, in Id.,  Occhio quadrato, 1941, ora in Berengo Gardin 1982, op. cit., p. 15.

[67] Cfr. Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in  Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini. vol. 1, Fotografia e raccolte fotografiche, “Quaderni/ Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali Scuola Normale Superiore”, 8. Pisa: Scuola Superiore Normale di Pisa, 1998, pp. 99-128 ( 106-112).

[68] Scopinich 1943, op. cit., p.  7.

[69] “Nella selezione delle opere non abbiamo accettato nessun compromesso e se qualcuno troverà riprodotte nel volume delle opere in aperta contraddizione con le teorie estetiche del sottoscritto, pensi che il nostro compito ci impone di presentare anche degli esempi negativi, perché con l’accostamento grafico ed il confronto diretto si ottiene spesso di più che con un’arida discussione”, Ivi, p.  10.

[70] Un altro architetto che raccontava luoghi e “paesaggi” e tra i visitatori di Film und Foto a Stoccarda nel 1929. L’Annuario pubblica la sua bellissima Riflessi, (tav.76). Spiace di non aver potuto presentare in questa occasione le fotografie di Peressutti, autore anche di drammatiche immagini della campagna di Russia, pubblicate in Bertelli, Bollati 1979,  II, pp. 648-655, ma pare che i pochi originali ancora reperibili a quella data siano poi andati dispersi.

[71] Della nutrita bibliografia su questo autore si vedano almeno Italo Zannier, Federico Vender: Un maestro della scuola mediterranea, “Fotologia”, 7 (1990), n. 12, primavera-estate, pp. 48-59; Federico Vender: Gli esordi: 1930-1937, catalogo della mostra (Arco, Palazzo dei Panni) a cura di Floriano Menapace, prefazione di Italo Zannier. Trento –  Arco: Provincia Autonoma di Trento, Servizio Beni Culturali, Ufficio Beni Storico Artistici –  Comune di Arco, Assessorato alla Cultura, 2003.

[72] Claudio Vender condivideva con Marco Asnago uno dei più interessanti studi di architettura: cfr. Cleto Zucchi, Asnago e Vender. Milano: Skira, 1999, con fotografie di Olivo Barbieri.

[73] Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Italo Zannier, Susanna Weber, a cura di, Forme di luce. Il gruppo “La Bussola” e aspetti della fotografia italiana del dopoguerra.  Firenze:  Alinari, 1997.

[74]  Ibidem.

Un’astratta fedeltà: le campagne di documentazione fotografica 1858-1898 (2001)

in Paolo Venturoli, a cura di, Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898.Torino: Umberto Allemandi, 2001, pp. 79-98

 

 

Quando, nel 1865, Antonio Perini pubblica il suo album dedicato alle collezioni della Regia Armeria si premura di esplicitarne le ragioni e i modi: “Per far conoscere i pregi di tanti capolavori – afferma nell’introduzione –  la descrizione è inefficace, mentre nessun altro mezzo è più opportuno della fotografia, la quale con fedeltà pressoché matematica riproduce eziandio i meno spiccati dettagli.”[1] Questo richiamo ai pregi caratteristici del nuovo mezzo è interessante non tanto per la sua eccezionalità quanto, al contrario, per il suo essere conferma di un pensiero preciso e di un atteggiamento di chiara coerenza metodologica che era comune ai migliori esponenti della cultura fotografica dei decenni immediatamente successivi alla sua invenzione. La “fedeltà” cui si richiama Perini non è altro che la riproposizione pressoché letterale di quella  “precisione quasi matematica” di cui aveva parlato Arago[2] a proposito del dagherrotipo in occasione della sua presentazione nel 1839, ora confermata e accresciuta della consapevolezza che derivava ai fotografi dalla riflessione attenta sulle possibilità linguistiche offerte dalle diverse tecniche a disposizione, ben esemplificata dal lucidissimo testo che Benjamin Delessert[3] premette ai propri fascicoli di riproduzioni fotografiche delle incisioni di Marcantonio Raimondi, nel 1853.

La documentazione archivistica non ci ha restituito sinora le ragioni che portarono Perini a lavorare a Torino, impedendoci quindi di ricostruire appropriatamente la genesi, le motivazioni e le condizioni del suo operare: non siamo quindi in grado per ora di stabilire se si sia trattato  di un esempio precocissimo di strategia celebrativa e comunicativa da parte della Direzione dell’Armeria, attuato facendo ricorso ad una tecnologia più innovativa ma considerata ancora per certi versi inaffidabile, oppure – come appare più probabile – di un’iniziativa dello stesso fotografo editore; questa seconda ipotesi però, oltre a testimoniare l’ormai raggiunta notorietà della collezione sembra corrispondere meglio all’intenzione espressa dallo stesso Perini nella presentazione del facsimile del Breviario Grimani (1862), di voler operare “non tanto per servire alla dotta curiosità dei ricercatori, quanto perché se ne potessero giovare le arti del disegno”, proponendo armi e armature quali modelli d’arte, illustrati con una sequenza che risulta priva di caratterizzazioni tematiche o tipologiche sebbene sia aperta dall’efficace confronto visivo, di preciso valore critico,  tra la statua di Bartolomeo Colleoni che il Verrocchio realizza per Venezia e l’armatura equestre B5;  una proposta di lettura che rivela, oltre le analogie formali, il permanere del significato politico del monumento equestre, implicito anche nella sua forma apparentemente più neutra di puro artificio ostensivo. Tale suggestione sottile, verosimilmente da attribuirsi allo stesso Perini sebbene la statua del Colleoni non risulti compresa nel sommario delle figure, contrasta radicalmente con le scelte operate nella preparazione delle tavole successive, con gli oggetti collocati in uno spazio astratto, completamente scontornati, privi di sostegni o appoggi e senza alcuna traccia di sfondo, soluzione che concentra tutta l’attenzione sull’opera e ne cancella il contesto, lo spazio della Galleria Beaumont, la cui descrizione è demandata alla prima tavola, ancora fuori numerazione. Così facendo, con la mascheratura e con il ritocco il fotografo rifiuta di fatto il valore di traccia della fotografia e ripropone con nuovi strumenti la tradizione rappresentativa delle arti del disegno, solo apparentemente liberata da ogni intenzionalità interpretativa: accade cioè che l’autore si affidi alla fotografia per la sua riconosciuta possibilità di fedeltà oggettiva nella descrizione dell’opera, disconoscendo però le conseguenze del suo stesso operare nel trattamento generale della tavola, in quel vuoto assoluto intorno all’opera che costituisce l’elemento di continuità con le raffigurazioni precedenti. Sulla stessa pagina convivono lo spazio concreto, referenziale, del corpo dell’armatura e lo spazio astratto, disegnato, del segno manuale del ritocco, secondo una formula che ritroveremo ancora, sostanzialmente immutata, in altre rilevanti imprese successive.

Proprio la volontà di garantire la fedeltà al modello, piuttosto che la possibilità di “riproducibilità” offerta dal nuovo mezzo,  è ciò che porta a scegliere e poi a privilegiare sempre più la fotografia quale tecnica di “riproduzione”. è questa necessità di verosimiglianza che aveva indotto Primo Feliciano Meucci a disegnare nel 1860-61 “varii oggetti della Galleria (…) valendosi del prisma[4] attalché l’effigie ne riuscì più che perfetta”, ma anche ad adottare per alcune tavole una modalità descrittiva “a figure piene” e non a linee di contorno come era nella tradizione neoclassica, tanto da portare l’allora Direttore Actis a sottolineare come in quelle prove “la somiglianza al vero [fosse] insuperabile.”[5]

Nei lunghi mesi in cui Meucci lavorava a produrre le sue prime lastre incise, la fotografia aveva già fatto la propria comparsa quale tecnica di riproduzione degli oggetti dell’Armeria. Risale infatti al 1860 circa la prima documentazione fotografica, oggi nota dagli esemplari conservati all’Accademia Albertina: un insieme di trentasei riprese, integrate da altre non riferibili ad opere della stessa collezione,  in parte anonime e in parte realizzate da Francesco Maria Chiapella[6] da cui è stato ricavato un insieme di sessantuno stampe, verosimilmente commissionate o acquistate a scopo didattico, come lascia supporre la presenza di più copie della stessa lastra e la scarsa cura della presentazione e del montaggio, quasi sempre con supporti a profili irregolari. Esse costituiscono la prima testimonianza della fortuna fotografica del tema e dell’inversione di tendenza nella scelta del mezzo di traduzione, ulteriormente confermata, pur con accenti diversi, dalle copie fotografiche di alcuni disegni di Pietro Ayres, tra cui uno dell’armatura Martinengo B5, che Balbiano d’Aramengo[7] realizza negli stessi anni, riproduzioni alle quali sembra potersi riferire la lettera di Seyssel d’Aix ad Ayres del 15 aprile 1866 in cui richiede di verificare i tempi necessari all’esecuzione di 12 disegni per  la realizzazione “della prima parte dell’Album Fotografico per l’illustrazione della R. le Galleria”.[8]

In questa prima campagna fotografica di Chiapella e di autore anonimo l’elemento caratterizzante, specialmente evidente per confronto con le successive, è dato dalla scelta dei soggetti: vengono infatti fotografate molte armi da fuoco (un terzo del totale), con particolare attenzione agli aspetti decorativi in genere e in particolare per i due archibugi M12 e M11, quest’ultimo soggetto anche di un grande disegno acquerellato sostanzialmente coevo ora attribuito a Meucci,  la cui  ricca lavorazione a intarsio in avorio, argento e oro “di sorprendente bellezza, cioè fogliami, volute, animali, chimere, isolati o posti a contorno od ornamento di figure e di storie.”[9] costituiva un caso esemplare di modello didattico.

Mentre con Chiapella e poi Perini, e non considerando il progetto Seysell a cui collabora Balbiano d’Aramengo,  le opere si configurano come “illustrazione” delle eccellenze del patrimonio dell’Armeria, al più corredate di notizie tratte dal precedente catalogo, il lavoro di Isaia Ghiron, Iscrizioni arabe della Reale Armeria. Firenze: Le Monnier, 1868, con otto tavole con stampe all’albumina di sciabole, archibugi, armature ed elementi delle stesse, costituisce il primo esempio di studio analitico di un importante settore del museo corredato di sistematica documentazione fotografica, sulla scia di produzioni editoriali analoghe e ormai di una certa diffusione: basti pensare al volume  che nel 1865 Angelo Angelucci, aveva dedicato a Le armi di pietra donate da S.M il Re Vittorio Emanuele II al Museo Nazionale d’Artiglieria. Torino: Tip. Cassone & Comp., corredato da una tavola f.t. con 3 stampe all’albumina anonime.

Sono gli anni in cui si afferma la notorietà dell’istituzione: mentre la tavola di apertura dell’album di Perini con la veduta della Galleria Beaumont avrà funzione di contestualizzazione delle opere presentate nei fogli successivi, la ripresa dello stesso soggetto realizzata dal francese Charles Marville nel 1858-1859 è la prima a testimoniare fotograficamente l’inserimento della prestigiosa sede museale tra i luoghi rimarchevoli della città, insieme con Palazzo Reale e Palazzo Madama, piazza San Carlo, la chiesa della Gran Madre di Dio, il Monte dei Cappuccini e la basilica di Superga; scelta ancora anomala e suggerita forse dal concomitante impegno del fotografo francese nella documentazione del patrimonio artistico della Biblioteca Reale[10].

Quando nel 1874 si apre a Milano l’Esposizione Storica d’Arte Industriale la “Classe V – Armi e Armature”, curata da Gian Giacomo Poldi Pezzoli (dalla cui collezione provengono molte delle armi esposte) e da Walter Craven[11], comprende numerosi esemplari provenienti dalle collezioni della Regia Armeria, per la prima volta esposti al di fuori della sede torinese. Scopo dell’iniziativa, legata all’istituzione a Milano di un Museo d’Arte Industriale, era quello di “formare il gusto degli operai”[12]  e di “accrescere il corredo di buoni disegni che devono essere la prima dotazione del Museo levando copia degli oggetti esposti più rimarchevoli e più degni di studio e d’esempio ai nostri artefici”[13], ragione per cui viene richiesta l’autorizzazione a riprodurre gli oggetti esposti “in fotografia o a matita”, con l’intenzione di vendere poi le fotografie a prezzo di costo[14]. Frutto di questa partecipazione e della concessione alla riproduzione delle opere è la realizzazione di una “stupenda collezione delle fotografie” costituita dalle “riproduzioni degli oggetti di quest’Armeria [e] delle fotografie delle altre armi e armature state costì esposte da altri proprietari”[15],  che risulta pervenuta in Armeria in data 2 maggio 1875, ma di cui si è perduta sinora ogni traccia.[16]

Di pochi anni più tarda deve essere la cartella dedicata A S.S.R.M./ Vittorio Emanuele II Re d’Italia/ Omaggio/ di A. Pietrobon/ di/ Venezia[17], forse prodotta dal fotografo, già attivo a Firenze, per ottenere il privilegio regio di cui si fregiava nella città toscana, ma che il confronto ha consentito di verificare come realizzata con stampe ricavate dalle lastre realizzate da Antonio Perini per l’album del 1865.  In questa nuova versione, che comprende anche una Veduta generale della sala d’armi firmata in lastra all’angolo inferiore sinistro, “A. Pietrobon & C./ Torino”,  gli oggetti non sono identificati né con sigla né con numero, ma i cartoni riportano al verso un’identificazione più tarda corrispondente al catalogo Seyssel d’Aix del  1840, evidentemente assegnata dopo l’ingresso dell’album nelle collezioni reali; sebbene non si tratti di una produzione ex novo va rilevato come l’edizione Pietrobon oltre a confermare il prestigio e la notorietà della collezione, si segnali per la presenza di stampe di grande qualità ed efficacia, specialmente per il bel viraggio nero violaceo all’oro che valorizza l’uso  accorto delle luci che fu di Perini.

È questo il decennio che segna anche l’avvio del progetto del nuovo catalogo della Regia Armeria, affidato nel 1873 al maggiore Angelucci,  e proprio per la sua illustrazione pare riaprirsi il confronto, in forme più pragmatiche, tra incisione e fotografia, forse influenzato dall’esperienza della partecipazione all’Esposizione milanese. Sappiamo dalla corrispondenza tra Seysell d’Aix e lo stesso Angelucci che sin dal 1874 almeno si pensava ad un catalogo illustrato da tavole fotografiche fuori testo, sul modello di esempi noti e di precedenti realizzazioni torinesi di diverso impegno: da Ghiron allo stesso Angelucci al Le Lieure di Turin ancien et moderne, sebbene forti fossero le perplessità rispetto alla permanenza ed alla stabilità dell’immagine[18]  e soprattutto proibitivi i costi: “Anche in me nacque il dubbio ch’esse non sieno durevoli – scrive il Direttore – ma disgraziatamente v’è un male ben maggiore, cioè la spesa a cui montano di 200 fotografie per n.° 2000 esemplari al prezzo ristretto di otto centesimi caduna che forma la piccola bagatella di lire trentaduemila.”[19] Ecco allora farsi avanti l’ipotesi di utilizzare la fotografia non in forma diretta ma quale modello intermedio per la realizzazione delle incisioni, scelta che porta a commissionare a Giovanni Battista Berra, titolare dell’importante studio Fotografia Subalpina “di fotografare mezz’armatura di Antonio Martinengo riposta in una delle nuove vetrine ed  i moschetti a ruota di Eman.le Filiberto che proverò poscia di far incidere sul legno dal Salvioni o dal Monaret.”[20] Le riprese vengono realizzate nei giorni immediatamente successivi, decidendo però di sostituire i moschetti con “due dei nostri più ricchi elmi” e le stampe, giudicate “discrete” sono inviate all’incisore “Meunier di Parigi, quello stesso che fece i clichets [sic] dell’opera di Lacombe [Les Armes et les Armures] onde conoscere se bastano per bene incidere sul legno e quanto costerebbe cadun clichet.”[21] Pochi mesi dopo risultano spese L. 2500 per 400 incisioni su legno “da stamparsi nel nuovo catalogo” e L. 200 per “fotografie per l’esecuzione di dette incisioni”[22].

Successivamente a queste commesse Berra otteneva da Valfré di Bonzo “la facoltà di fotografare l’insigne collezione”, forse utilizzando in parte le riprese su lastra al collodio già realizzate, e nel settembre 1882 a compimento del proprio impegno offre “in attestato di omaggio la raccolta delle fotografie da me testè condotta a termine”[23], cioè i due volumi dedicati alla Regia/ Armeria/ di/ Torino[24], con stampe all’albumina[25], che il fotografo dona anche alla Biblioteca del Re. Non possiamo escludere che questa scelta sia stata dettata a Berra da un intento puramente promozionale, destinato a consolidare definitivamente il proprio ruolo di preminenza nell’ambito degli studi fotografici torinesi impegnati nella documentazione del patrimonio artistico ed architettonico, ma va ricordato che questi soggetti godevano di ampio interesse in quegli anni e che le stampe relative erano commercializzate dal suo studio anche in forma non rilegata, come dimostra la raccolta completa proveniente dall’archivio di Adolfo Coppedé[26].  Mentre l’apertura del primo volume con la veduta della Galleria verso il Medagliere riprende modelli precedenti (Perini riproposto da Pietrobon), la sequenza successiva comporta una presentazione ordinata di armature equestri, viste quasi sempre di lato o in leggero scorcio, di riprese frontali di armature pedestri complete, corazze con elmi, alcune armi da fuoco e da taglio e finimenti, mentre il secondo volume è dedicato agli elmi, alle parti di armatura e infine agli scudi;  quasi a confermare il permanere di un interesse “neomedievale” e una scelta orientata dal gusto per i balli e le cerimonie in costume ancora presente nella società umbertina, solo due delle 130 tavole sono dedicate alle armi da fuoco.

La rappresentazione degli oggetti, identificati in lastra mediante iscrizione manoscritta su striscia in carta posta in testa all’immagine, risulta puramente documentaria, con evidenti intenzioni di oggettività descrittiva, senza il ricorso a suggestioni narrative di alcun genere, quelle che avrebbero consentito e imposto inquadrature di maggio effetto scenografico, riscontrabili in alcune delle riprese non utilizzate. Gli oggetti sono ripresi frontalmente su sfondo neutro ma visibile, comunemente costituito da un panno unito che separa dal contesto dell’Armeria anche le grandi armature equestri, combinato a volte ad un uso accorto del fuori fuoco e dei diversi valori di illuminazione, senza interventi successivi di scontornatura o mascheratura, che sono invece presenti sui negativi che saranno riutilizzati nel 1937; le luci sono morbide e ben controllate ad evitare i riflessi del metallo; i supporti sono mantenuti visibili, sino al chiodo a cui è appeso lo scudo: l’oggetto vive nello spazio reale in cui avviene la ripresa.

A testimoniare la fondatezza dei dubbi di Seysell in merito ai problemi di stabilità dell’immagine, alcune tavole dell’esemplare conservato in Armeria (es. I, 45) hanno una seconda prova, presumibilmente identica, sovrapposta alla prima, forse per ovviare a una debolezza intrinseca della stampa rilevata dopo la rilegatura, ciò che farebbe pensare ad una data di realizzazione lievemente posteriore all’esemplare conservato in Biblioteca Reale, in cui il forte sbiadimento generalizzato ha reso evidentissimi i pesanti ritocchi operati sui positivi, non visibili invece nell’altro esemplare.[27]

La realizzazione di queste fotografie si colloca in un momento in cui alle originarie spinte del revival neogotico si sovrappongono progressivamente  e si mescolano – come si è accennato – interessi antiquariali, collezionistici ed eruditi accanto a più generali questioni di gusto: pur non potendo qui affrontare il merito del problema, basti pensare all’interesse per le armature testimoniato dalle fotografie realizzate da Charles Clifford nel1850-1860 e conservate nella collezione di Mathew Digby Wyatt,  alle collezioni di  Gian Giacomo Poldi Pezzoli a Milano e di Frederick Stibbert  a Firenze naturalmente[28], ai già citati Coppedé così come alle raccolte veneziane di Mariano Fortuny y Madrazo, che aveva tra le proprie collezioni anche le fotografie di C. Chevaliers dell’armeria del castello di Pierrefonds (1870ca).  Per il Piemonte ricorderemo qui le armature della collezione reale  prestate per il ballo in maschera del Duca di Teano nel 1875[29] , le collezioni e i temi delle opere di Edoardo Calandra, ma anche la figura di Vittorio Avondo, collezionista poi donatore ai Musei Civici di armi da taglio e da fuoco, già dal 1865, e nel cui castello di Issogne erano presenti armature fotografate da Ecclesia[30] nel 1882,  appena prima dei personaggi in costume che animavano il Borgo Medievale. A queste  si ispireranno le fotografie ambientate realizzate dallo Studio di Riproduzioni Artistiche di Edoardo Balbo Bertone di Sambuy[31], effettivo tramite tra il gusto sabaudo dei caroselli e dei balli in costume e il nascente pittorialismo storicistico di Guido Rey.

Dobbiamo ritenere che proprio in virtù del lungo rapporto di collaborazione tra Fotografia Subalpina e Direzione dell’Armeria Raffaele Cadorna abbia poi deciso di affidare allo Studio Berra, il titolare era morto alcuni anni prima, nel 1894, la realizzazione del grande progetto celebrativo e documentario che prenderà corpo con i tre volumi editi nel 1898, pubblicazione fondamentale per definire visivamente l’identità delle collezioni avendo quale supporto identificativo il Catalogo pubblicato da Angelucci nel 1890, forse già prefigurata dieci anni prima, come lascerebbe intuire una lettera dello stesso Cadorna  a Berra, datata 1888, in cui il Direttore rileva come “a rendere più praticamente utile e ad un tempo più pregevoli i due volumi delle accurate fotografie (…) occorrerebbe che in qualche modo si facesse risultare quale oggetto rappresenti ogni singola fotografia”[32], lettera corredata da un’annotazione a matita blu, forse più tarda, che recita: “Fototipia Turati a Milano”.

Le indicazioni progettuali fornite dal Direttore sono estremamente precise e comportano la realizzazione di album con stampe in fototipia “interamente conformi a quelli stati recentemente pubblicati dal Museo d’Artiglieria di Parigi (…) Ogni serie di album si comporrà di una prefazione ed in media di 40 tavole di fototipia caduna[33]  oltre ad un indice delle tavole stesse recante le indicazioni corrispondenti alle classificazioni descritte nel catalogo Angelucci (…) è riservata al Direttore dell’Armeria la indicazione degli oggetti a riprodursi, il loro ordine e la composizione dei gruppi per ogni serie [mentre] la Fotografia Berra si assume l’incarico di provvedere sotto la esclusiva sua responsabilità, ad ogni lavoro e provvista occorrente alla compilazione di quella serie di album”[34], svolgendo di fatto il ruolo di editore.

Secondo questi primi accordi il progetto doveva essere compiuto per “l’epoca dell’apertura della Esposizione Nazionale indetta pel 1898 in Torino” e affidato per la stampa allo stabilimento torinese Fototipia Molfese e Charvet, via XX settembre, 56. L’accordo prevedeva inoltre che le lastre realizzate in quell’occasione dovessero essere conservate dallo Studio Berra, ma ad esclusiva disposizione della Real Casa.

Di questa prima fase di produzione, non interrotta alla morte di Cadorna nel 1897, rimangono una prima serie di riprese realizzata da Berra nel 1896 e stampate da Alberto Charvet, che ci ha lasciato puntuali indicazioni di lavoro in cui tutta la sua esperienza di fotografo ed editore è rivolta alla determinazione della resa più efficace nella raffigurazione di oggetti complessi e difficili come le armature e le armi: “Pessima modellazione – Errore grave l’aver posto drappi bianchi sotto l’armatura – riflessi di luci secondarie”, commenta a proposito della prima ripresa delle armature C25 e C13, e l’annotazione rasenta addirittura il sarcasmo quando a proposito dell’armatura B6 parla di “Grave distorsione – ingrandimento delle parti più avanzate – Nessuna modellazione (Pennaccio [sic] uso baldacchino da letto).”[35]

La lettura di queste prime prove di stampa e il rinvenimento di alcune delle relative riprese, oltre a costituire un’importante testimonianza del livello qualitativo dell’editoria d’arte torinese allo scadere del XIX secolo, consente di valutare una soluzione formale di presentazione distante dai modelli precedenti e sostanzialmente diversa da quella finale: non solo, seguendo scrupolosamente le indicazioni di Cadorna gli oggetti riportavano su etichetta “la indicazione della lettera di alfabeto col numero corrispondente al catalogo Angelucci”, fornendo un’utile indicazione che appesantiva però le immagini, ma soprattutto le parti di armature erano sempre presentate poggiate su supporti, a volte coperti di tessuti in broccato, secondo un gusto che risulta prossimo a realizzazioni di molto precedenti, quali ad esempio la raccolta di tavole dedicate a L’Arte Antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880, che lo stabilimento dei Fratelli Doyen aveva pubblicato nel 1882[36].

Le pungenti critiche di Charvet determinano però l’incrinarsi dei rapporti con lo stabilimento Berra e in particolare col suo direttore Giovanni Assale, accusato dallo stampatore  di essere “privo di quelle cognizioni pratiche necessarie in un simile e non troppo facile lavoro. Questi dissidi richiesero l’intervento del Cav. Cantù. Ma per quanto le negative fotografiche fossero poi fatte sotto la direzione del prelodato Signore, non erano eseguite con quella perfezione e con quella cura prescritte e richieste dalla grave esigenza della fotografia e fototipia”[37], ragione per cui Charvet propone o di “fare le negative fotografiche per conto delli Berra” o di “rimediare alla imperfezione delle negative col ritoccarle, fare un positivo su vetro, ritoccare questi e fare altra negativa per contatto”, ma tali proposte non vengono accettate  e “Il Cav. Cantù d’accordo col fotografo  ha persuaso l’Onorevole Direzione Reale Armeria [sic] che io non ero capace di fare la buona fototipia.”

La divergenza si era infatti trasformata in causa civile e il direttore dell’Armeria Luigi Avogadro si era visto costretto a rivolgersi “ad alcune persone intelligenti nella materia e tra esse (…) al Sig. Cav.re Cantù, Consigliere Comunale distinto fotografo ed artista Conservatore della Regia Pinacoteca (…) altamente apprezzato nel ceto artistico torinese”[38], che firmerà anche  la litografia con l’immagine del cavaliere in armi in antiporta dell’edizione definitiva dei volumi[39].

Di quali fossero le effettive difficoltà di esecuzione del lavoro sin dalla fase di ripresa ci rimane testimonianza nelle parole di Assale che  nel gennaio del 1897 conferma  che “Sarà cura del sottoscritto di non lasciar trascorrere inutilmente la futura propizia occasione di una nevicata per la esecuzione delle negative degli interni della Galleria e della Rotonda”[40], ma anche nelle prescrizioni dello stesso Avogadro di Quaregna che – su indicazione dello stesso fotografo –  ricorda tra le difficoltà da superare per la realizzazione del progetto “anche quella della difettosa illuminazione interna (…) che per scarsità di luce e per i molti riflessi non si addice alle riproduzioni fotografiche. Onde eliminare si fatto inconveniente si dovette addivenire alla costruzione di una forte impalcatura provvisoria nell’interno dello scalone ove la luce è più abbondante e propizia”[41],  oltre a disporre una tenda di percalle bianco al “gran finestrone nello scalone” e una “tenda oscura per la finestra attigua alla galleria della Prefettura per impedirne la luce”, mettendo a disposizione del fotografo il “personale di fatica occorrente al trasporto dei monumenti equestri sopra l’impalcata dello scalone e rimettere nella galleria dopo la loro riproduzione fotografica.”[42]

Già dall’agosto del 1897 Luigi Cantù sottopone a verifica le prime prove di Charvet e le confronta con quelle dello stabilimento milanese Calzolari e Ferrario, forse nel frattempo contattato dallo Studio Berra[43], prove che saranno  giudicate dal Direttore “assai superiori per merito artistico a quelle del Charvet le quali (…) sono sbiadite e difettose.”[44]

La verifica del nuovo ciclo di stampe avviene a ritmo serrato sino al luglio dell’anno successivo, mentre procede la causa tra fotografo e stampatore, che nel gennaio 1898 aveva presentato un memoriale difensivo direttamente al Re[45].

Avviandosi ormai alla conclusione del progetto, ma necessitando ulteriori finanziamenti per il suo compimento, Luigi Avogadro rileva come “Quantunque siasi limitato assai il lavoro delle riproduzioni fotografiche alle sole armi ed oggetti di maggior pregio artistico e storico qui conservate, raggruppandone anzi molti a guisa di trofei, si dovette tuttavia eseguire ben n.° 200 riproduzioni [sic] tavole mentre nel primitivo progetto erano state preventivate a calcolo approssimativo solo 120 tavole”[46] , rendendo così ragione di una modalità di presentazione delle opere e di impaginazione solo raramente adottata nei due volumi fotografici di Berra del 1882 e qui invece sistematicamente applicata nella presentazione di armi e di parti di armature. Forse anche in conseguenza di questo vincolo le nuove tavole con le immagini definitive ritornano a una concezione più astratta e didascalica, per nulla narrativa: armature e armi non sono mai ambientate e – ove possibile – neppure poggiate. Ancora una volta vince la presentazione astratta da ogni contesto, secondo la consuetudine illustrativa già adottata da Perini.

Le armi vivono in uno spazio assoluto, autoreferenziale, in cui solo la presenza dei piedistalli delle armature complete riporta alla pesante materialità dell’oggetto e anche la disposizione degli oggetti nello spazio di ciascuna tavola risponde ad una logica che è tutta compositiva,  mai referenziale. L’autonomia rappresentativa della fotografia sembra ancora una volta essere esclusa, lo strumento è trasparente, l’illusione è quella di accedere alla pura forma dell’oggetto nella sua essenza di opera: solo le frange delle rotelle cascano irrimediabilmente verso il basso.

La ripresa fotografica acquista invece tutta la sua potenzialità funzionale nelle tavole di apertura dedicate agli spazi dell’Armeria ed a loro allestimento, nel campo e controcampo della Rotonda come nella minuziosa sequenza delle vetrine e panoplie della Galleria Beaumont: per la prima volta la referenzialità fotografica registra le tracce dell’immaginario d’origine, “fatto per appagare la vista del visitatore”, ormai positivisticamente trasformato dal Maggiore Angelucci per consentire al visitatore “lo studio dei monumenti che gli si parano dinanzi.”[47]

 

Note

[1] Armeria Reale/ di/ Torino/ Venezia mdccclxv/ Stabilimento fotografico di Antonio Perini proprietario ed editore/ Calle largha S. Marco ponte dell’Angelo n.403, con 54 tavv. fotografiche all’albumina da negativi al collodio descritte nel testo + 3 tavv. non elencate:  1 veduta generale della Galleria Beaumont su carta salata, 1 monumento equestre a B. Colleoni e – in chiusura –  1 elmo figurato. Ricordiamo qui che anche Angelucci, nella presentazione del suo catalogo dichiarerà (pur optando per un mezzo diverso) di aver voluto “illustrarlo con numerose incisioni che valgano a mostrare l’esattezza delle descrizioni”, Angelo  Angelucci, Catalogo della Armeria Reale. Torino: Tip. Candeletti, 1890, p. viii, sottolineatura nostra. Come ha ricordato Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi, 1990, p.338, su segnalazione di Claudia Cassio: “Potrebbe essere un pagamento a saldo per il suo lavoro all’Armeria Reale, l’erogazione di 40 lire nel secondo quadrimestre del 1867, riportata nei registri contabili dell’archivio dei Duchi di Genova”, ma non è escluso che allo stesso acquisto si possa riferire l’imprecisa registrazione di una spesa di sessanta lire per un “Album fotografico del Sig. Pasini [sic] in Venezia”, ASAR, f.2, Corrispondenza … dal 9mbre 1856 al Xmbre 1877, n.119, 17 giugno 1873.

Antonio Perini, veneziano (1830-1879) era ben noto all’epoca per aver dato “impulso alla riproduzione de monumenti (…) di quadri, di opere antiche.” (G. Jankovic, citato da Alberto Prandi, nella scheda relativa al fotografo in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979, pp.171-172). In particolare fu il primo a pubblicare nel 1862 il facsimile del Breviario Grimani conservato alla Biblioteca Marciana, presentandolo all’Esposizione di Londra di quell’anno, e così avviando la fortuna editoriale del Breviarium secundum consuetudinem Romanae curiae appartenuto al cardinale Domenico Grimani, poi proseguita con la pubblicazione in facsimile realizzata sempre a Venezia da Ferdinando Ongania nel 1880, con 112 eliotipie e 4 cromolitografie, negli anni del monumentale impegno dell’editore per l’illustrazione della Basilica di San Marco. Perini pubblicherà poi, quasi alle soglie della morte, il Fac-Simile delle miniature di Attavante Fiorentino contenute nel codice Marciano Capella “Le Nozze di Mercurio colla Filologia” che si conserva nella Biblioteca Marciana. Venezia: Stabilimento fotografico di A. Perini, 1878, che si affianca ad altre analoghe imprese, ancora di Ongania, cfr. Paolo Costantini, Ferdinando Ongania editore veneziano e l’illustrazione della Basilica di San Marco, “Fotologia”, 1, giugno 1984, pp.4-10.

Nel 1915 Ulrico Hoepli scriverà alla Direzione per avere notizie del volume dedicato all’Armeria, che descrive composto di 61 tavole, del quale non riesce ad avere traccia neppure da altri librai specializzati e ne chiede eventualmente la disponibilità di una copia. A stretto giro di posta (4 gg.) la Direzione risponde identificando il volume con l’album Perini che però viene descritto formato da “55 fototipie”, cioè con una errata indicazione della tecnica e della consistenza (ASAR B1391).

[2] François Arago, Rapport sur le Daguerreotype. Paris: Bachelier,1839 (facsimile, Milano: Labor, 1964). Per il ruolo svolto dal fisico francese nella definizione stessa delle applicazioni e implicazioni connesse alla nuova scoperta si veda François Brunet, La naisssance de l’idée de photographie. Paris: Presses Universitaires de France, 2000.

[3] Benjamin Delessert, Notice de la vie de Marc Antoine Raimondi graveur Bolonais accompagné de reproductions photographiques de quelques uns de ses estampes, 7 voll.  Paris- Londres: Goupil & C. – Colnaghi & C., 1853-1855. Nella nota esplicativa afferma: ” les planches qui accompagnent cette Notice sont la reproduction la plus exacte possible des gravures mêmes de Mar-Antoine. La grandeur est scrupuleusement celle de l’original ; et non seulement l’effet général de l’estampe, mais chaque trait, chaque contour doit être fidèlement rendu. J’ai voulu faire moi-même les négatifs de ces planches; tous ont été faits sur papier. Quelques personnes m’ont conseillée des types sur glace par l’albumine ou le collodion : j’aurais obtenu plus de finesse et de netteté, mais je n’aurais pu éviter, je crois, une dureté et une séchesse qui n’existent pas dans les estampes de Marc-Antoine; ces  procédés selon moi, conviennent principalement aux graveurs de l’école de Pontius, de Bolswert, de Wille.”, vol. I, p.27. Sul dibattito in area anglosassone intorno alle questioni filologiche poste dalla riproduzione fotografica di opere d’arte si veda Anthony Hamber, “A higher branch of the art”. Photographing the Fine Arts in England 1839-1880. London – Amsterdam, Gordon & Breach, 1996, mentre un significativo esempio italiano è stato studiato pochi anni fa da Roberto Cassanelli, Morris Moore, Pietro Selvatico e le origini dell’expertise fotografico, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  I,  Fotografia e raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, VIII, 1998,  pp.41-47.

[4] Vale a dire della camera chiara o lucida, messa a punto da W. Wollaston nel 1807.

[5] Lettera del Direttore Actis, [10 ottobre 1861], ASAR f.73. Ancora una volta si confermano le ragioni del fascino esercitato dall’oggettività fotografica sulla cultura ottocentesca sin dalla prima comparsa delle nuove immagini; si pensi a quanto affermava già il “Messaggere Torinese” nel riportare la notizia del primo annuncio del dagherrotipo, nel numero del 23 febbraio 1839: “Il dagherrotipo (…) renderà comuni le più belle opere d’arte di cui non si hanno che copie a caro prezzo ed infedeli ” cfr. Miraglia 1990, op. cit.,  sottolineatura nostra, ma anche alle riflessioni a proposito della “mania di abbellire innata in ogni artista” che John Alexander Ellis antepone nel 1849 al proprio progetto di Italia in dagherrotipo (cfr. Piero Becchetti, La fotografia a Roma dalle origini al 1915. Roma: Editore Colombo, 1983,p.12), o – per limitarci all’Italia – alle più tarde e analoghe riflessioni di Pietro Estense Selvatico, cfr.  Tiziana Serena, Pietro Selvatico e la musealizzazione della fotografia, “Annali della Scuola Normale di Pisa”, Classe di Lettere e Filosofia, ser. 4, v. 2, 1 (1997), pp. 75-96.  Risulta chiaro da queste testimonianze quanto fosse il valore di verosimiglianza piuttosto che quello della riproducibilità a far progressivamente preferire la fotografia alle tecniche calcografiche nella documentazione del patrimonio artistico e architettonico.

[6] Per la datazione di queste stampe si rimanda all’attenta analisi di Miraglia 1990, op. cit.,schede nn.124-125, p. 338, confermata e precisata dalle ricerche condotte da  Paola Manchinu – che ringrazio – per questa occasione: la concessione “d’inalberare il R.o Stemma sulle insegne di Negozi, Opifizi ec. Non che di Titoli di Provveditori della M. S.” fu infatti concessa a Chiapella il 15-9-1860, ASTO, Casa di S. M., Cartelle, Fasc. 619/2 n.23.  Dalla stessa fonte si ricava che “in Torino non possono essere concessi più di quattro Brevetti di R.o Stemma per ogni arte, mestiere, industria, ecc.”

Del fotografo va ricordato, oltre alle imprese note, l’album non datato A.S.S.R.M./ Vittorio Emanuele II/Fotografie/ di Francesco Maria Chiapella conservato alla Biblioteca Reale di Torino, costituito da venticinque tavole con stampe all’albumina, che contiene, oltre alla riproduzione di un ritratto del re, una serie eterogenea di saggi fotografici che spaziano dalla riproduzione delle incisioni del ciclo decorativo di Paul de la Roche per il Louvre a sculture e dipinti di soggetto risorgimentale, dalle vedute dei dintorni torinesi (il Monte dei Cappuccini, Alpignano, Collegno) ad alcune residenze sabaude (Valentino, Moncalieri, Stupinigi), da porre in relazione con l’album richiamato in Miraglia 1990, op. cit.,scheda n.60. p.330, e databile 1857-1860.

[7] Appartiene alla nutrita schiera (F. Barbaroux, M. Beria d’Argentine, Edoardo de Chanaz, Radicati Talice di Passerano tra gli altri) di esponenti della nobiltà piemontese che si dedicano professionalmente (in modi ancora tutti da definire) alla pratica fotografica, specialmente nell’ambito del ritratto in formato carte de visite, ma evidentemente non solo, come dimostrano queste riproduzioni inedite e il suo album, su commissione del Duca d’Aosta, di riproduzioni di disegni del carosello storico realizzati dal pittore Cerruti Bauduc, prodotto nel 1864 alla vigilia della conclusione della sua breve attività professionale (1856ca-1865). Cfr. Miraglia 1990, op. cit., scheda p.354.

[8] ASAR, fasc.1, Nuova Direzione, n.7. La mancata realizzazione dell’opera non consente di verificare nel concreto la coerenza del progetto, ma basti qui ricordare che nell’accezione ottocentesca il termine “Album fotografico” poteva riferirsi anche ad una raccolta di disegni riprodotti fotograficamente, analogamente a quanto accadeva, ad esempio, con gli album della Società Promotrice delle Belle Arti. Va comunque sottolineata la coincidenza temporale e (parziale) di intenti tra l’edizione Perini e il progetto del Direttore. Sebbene l’album Perini risulti acquistato solo nel 1873 (cfr. nota 1), è inimmaginabile che la prima documentazione fotografica sistematica delle collezioni dell’Armeria non fosse nota al nuovo Direttore; non escluderei anzi che proprio dall’esempio di Perini si possa essere formata in Seyssel d’Aix l’intenzione di illustrare a sua volta le armature a cavallo con un “Album fotografico”, sebbene concepito ancora come raccolta di riproduzioni di disegni, forse per non rinunciare, come ipotizza Venturoli, alla “romantica” chiave interpretativa fornita dalle tavole di Ayres. Ringrazio Paolo Venturoli per la segnalazione di questo e di altri notevoli documenti conservati presso l’Archivio storico dell’Armeria.

[9] Angelucci 1890, op. cit., pp.410-414. Studio Bertieri di Torino realizzerà una serie di riprese del fucile M11 presentate all’Esposizione di Firenze del 1899, come testimonia una stampa conservata nell’Archivio fotografico dell’Armeria.

[10] Charles Marville, Vedute di Torino. Turin: Maggi, s.d., [1859ca],citato  in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp.37-38, con una datazione proposta al 1865-1870 che Miraglia 1990, op. cit., p.334 aveva già anticipato al 1861-62, ma che sarà più corretto attribuire al 1858-59, quando Marville è in Italia e in Grecia con Charles Cordier per realizzare l’impresa dedicata alla Sculpture Ethnographique, commissionata dal governo francese nel 1850 (vale a dire prima della notissima “Mission Héliographique) e quindi pubblicata in fascicoli successivi. Un esemplare dell’opera venne dedicato “A S.M. Victor Emmanuel Roi d’Italie”. Potrebbero essere identificate con questa ripresa – oggi nota attraverso l’esemplare conservato presso la Biblioteca centrale della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino – le dieci “Fotografie di Maggi della R. Armeria”, ricordate in un Quadro dimostrativo” datato 1 aprile 1888, ASAR, Strumenti, 47. Va ricordato che l’Armeria non sarà compresa – ad esempio – nell’album di Henri Le Lieure, Turin ancien et moderne, 1867ca, mentre verrà più tardi documentata da Brogi e quindi da Alinari. L’occasione per la realizzazione di queste riprese di Marville potrebbe essere individuata nella campagna fotografica di documentazione dei disegni della Biblioteca Reale e della Biblioteca Ambrosiana, (circa 150 stampe di riproduzione in formati diversi edite nel 1864 ca,  che faceva seguito all’impegno analogo per le collezioni del Louvre, pubblicate pochi anni prima e certamente note anche a Torino, come testimoniano i fogli oggi conservati all’Accademia Albertina di Belle Arti. La datazione delle riprese italiane potrebbe essere ulteriormente anticipata  alla metà del decennio precedente considerando che egli usava la definizione di “Photographe du Musée Imperial du Louvre”, che ritroviamo sui cartoni delle stampe torinesi, prima del 1855, anno di chiusura della stamperia di Blanquart-Evrard a Lille, di cui fu uno dei più assidui collaboratori.

[11] Esposizione storica d’arte industriale in Milano, Catalogo Generale. Milano: Stabilimento Tipografico Fratelli Treves, 1874, pp.135 e segg., Le opere dell’Armeria occupano le vetrine dalla n. li alla n. lxv

[12] Antonio Beretta, presentazione al Catalogo Generale, 1874, cit. s.n. Il testo del Presidente dell’ Associazione Industriale Italiana costituisce una precisa testimonianza del progetto culturale sotteso a queste manifestazioni, ben sintetizzato dalla sua definizione dei Musei quali “raccolte pubbliche di buoni modelli.”  Per un utile confronto con le diverse strategie dell’analogo torinese si veda Carlo Olmo, L’ingegneria contesa. La formazione del Museo industriale, in Pier Luigi Bassignana, a cura di, Tra scienza e tecnica. Le Esposizioni torinesi nei documenti dell’Archivio storico AMMA 1829-1898.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1992, pp.103-122.

[13] Dalla lettera di richiesta di autorizzazione alla riproduzione degli oggetti esposti inviata al Direttore dell’Armeria dal Presidente del Comitato Esecutivo dell’Esposizione, ASAR, f. 892, Milano, 12 luglio 1874.

[14] ASAR, f. 1278, Esposizione 1874.

[15] ASAR, f.2, Nuova Direzione, n.140.

[16] ASAR, f.2, Nuova Direzione, nn.130,166, 167.

[17] 50 stampe all’albumina  montate su tavole sciolte che riportano in calce a destra la scritta litografata “A. Pietrobon – Torino. Alberto Pietrobon partecipò alla spedizione italiana in Persia del 1862 guidata dal ministro Marcello Cerruti, come assistente di Luigi Montabone (1827 ca.-1877), cfr. Michele Falzone del Barbarò, L’album persiano di Luigi Montabone, “Fotologia”, 3 (1986), n. 6, dicembre, pp. 24-33.

Di Pietrobon è nota anche una serie di N° XXV / Fotografie delle pitture di Gaudenzio Ferrari nell’/ interno della Chiesa della Madonna delle Grazie in / Varallo  realizzate nel 1887 ma che entrano a far parte delle collezioni reali “con foglio dell’Amm.ne R.C. [Real Casa] 3 marzo 88” ,BRT Y-31 (22).  Si tratta di stampe all’albumina di qualità palesemente inferiore alle tavole che costituivano il lavoro per l’Armeria.

Come risulta dal confronto tra fonti archivistiche e bibliografiche, prima della sede veneziana Pietrobon esercitava a Firenze in Via Solferino, 4 sotto l’insegna di “Arte e Natura”, potendosi fregiare del titolo di fotografo del Re, concesso in data 24 giugno 1865. Verosimilmente la produzione dell’album torinese era destinata ad ottenere la concessione anche per la nuova sede. Cfr: ASTO, Casa di S. M., Cartelle, Fasc. 619/2 n.24, Concessioni fatte da S. M. d’inalberare il R.o Stemma sulle insegne di Negozi, Opifizi ec. Non che di Titoli di Provveditori della M. S.; Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880. Roma: Quasar, 1978, p.67.

[18] Sulle iniziative in merito alla soluzione del problema della stabilità delle stampe fotografiche dopo la metà del XIX secolo si veda Sylvie Aubenas, La photographie est une estampe. Multiplication et stabilité de l’image, in Michel Frizot, a cura di, Nouvelle histoire de la photographie.  Paris:  Bordas, 1994, p.224-231.

Esemplare dell’attenzione italiana per questi temi l’intervento di Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica. Stabilimento Le Lieure in Torino, “L’Arte in Italia”, iv, 1870, p.58, ora in Piergiorgio Dragone, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895. Torino: Banca CRT, 2000, p.130,   in cui celebra e descrive il “mirabile processo” messo a punto in Inghilterra nel 1864 da Woodbury (e non Woodburg, come recita il testo) “mezzo immediato e prontissimo di riproduzione dei lavori artistici e soprattutto degli oggetti di scultura i quali specialmente, per essere monocromi, non vanno soggetti a veruna alterazione di colore, di tinta”, così che l’opera risulta “integralmente tradotta come attraverso ad uno specchio”. Con questo processo, noto anche come woodburytipia, si poteva ottenere “tutta la sfumatura graduata del modellato e dell’ombreggiatura proprio delle migliori fotografie, serbandone di più l’inalterabilità, epperciò preferibile a queste ultime soggette a svanire, come è notissimo.” (ibidem)

Ancora alla fine del decennio un acuto osservatore e buon fotografo come il biellese Domenico Vallino, così si esprimeva sulle  possibili applicazioni della fotografia alla stampa col sistema della fotolitografia, prendendo spunto dal recente testo di Lugi Borlinetto, I moderni processi di stampa fotografica. Milano: Pettazzi, 1878: “I miracoli della moltiplicazione dei pani e dei pesci  sono una fanciullaggine rispetto alla moltiplicazione dei prodotti dell’ingegno a’ giorni nostri e la fede nella scienza la quale verrà a sostituire la fede teologica, riceve oggidì in questi miracoli il suo nutrimento. Dopo la stampa a mano, la stampa a macchina, la stampa celere, la litografia, l’incisione, ora si aggiunge un’arte novella per moltiplicare il pane eucaristico della nuova fede. Alludo alle recentissime applicazioni della fotografia alla stampa e queste si chiamano: fotolitografia, fotogliptia, foto-incisione, fototipia, eliografia ecc. ecc.”, D.Vallino, Un’arte novella, in “L’Eco dell’Industria”, 28 febbraio, 7 marzo, 10 marzo 1878.

[19] ASAR, f.2, Nuova Direzione, n.93, 3 febbraio 1874.

[20] Ibidem.

[21] ASAR, f.2, Nuova Direzione, n.95, 10 febbraio 1874.

[22] ASAR, f.2, Nuova Direzione,n.120, 24 giugno 1874.

[23] ASAR, f.1207, Lettera di G.B. Berra, Torino 25 settembre 1882.

[24] È questo in realtà il titolo dell’edizione conservata presso la Biblioteca Reale, mentre l’altra porta la dedica “Alla Direzione della Reale Armeria di Torino/ Omaggio dell’Autore Cav.re G. B. Berra Pittore e Fotografo” con una formula che ricorda quella dell’album realizzato dallo stesso fotografo per la IV Esposizione Nazionale di Belle Arti del 1880: “A S.M. Umberto I/ che più di tutti/ ama la grandezza/ della Patria/ Questo ricordo/ della IV Esposizione Nazionale/ di Belle Arti/ offre con riconoscente ossequio/ il pittore fotografo/ G.B. Berra/ Torino agosto 1880”. Ricordiamo qui che nella stessa occasione sei foto Berra di Rivara sono presentate da D’Andrade e viene realizzata la cartella a tavole sciolte in fototipia di Doyen in cui compaiono anche armi e armature.

Su Berra si veda Miraglia 1990, op. cit.,p.358, pur con imprecisioni  dovute “alla non sempre precisa segnalazione delle guide”: è infatti probabile che il “pittore” di cui parla la Guida Galvagno del 1872 fosse proprio Giovanni Battista, che muore nel 1894 mentre l’attività dello studio (Fotografia Subalpina) sarà proseguito dalle due figlie.

Dopo essersi segnalato in occasioni diverse quale autore di riproduzioni di opere d’arte, nel 1882 Berra viene incaricato, con Vittorio Ecclesia, di fotografare i circondari di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente da Biscarra e da Crescentino Caselli, su incarico della Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità, cfr. P. Cavanna, Documentazione fotografica del patrimonio architettonico in Piemonte 1861-1931,  “Architettura & Arte” , n.11-12, luglio-dicembre 2000, pp. 16-23. 

[25] Le stampe costituenti le due serie di volumi conservate rispettivamente in Armeria e presso la Biblioteca Reale si presentano in diverse condizioni di conservazione. A oggi si conservano 113 lastre al collodio 21×27; qualche lastra presenta ritocchi e mascherature non rilevabili nelle stampe coeve, segno certo di una riutilizzazione successiva per ora non precisamente identificata.

[26] Le foto Berra anche nel fondo Coppedè ora all’AFT, 15 album e oltre 170 fotografie sciolte acquisiti nel 1986, vedi la Scheda descrittiva del Fondo in “AFT”, 3 (1987), n. 5, giugno, p.12, che contiene anche due brevi saggi orientativi sul clima culturale e sull’attività della famiglia: Carlo Cresti, Eclettismo come costume di vita, pp.13-21, e Mauro Cozzi, L’abbecedario dei Coppedè, pp.22-31.

Gli album appartennero ad Adolfo e dovevano servire quali raccolte di modelli decorativi. Mariano, Gino, Carlo e Adolfo: Dinastia fiorentina di intagliatori (il padre Mariano), pittori (Carlo) e  architetti gli altri due, ma di humus di iperbolico virtuosismo artigianale fecondato dalle architetture effimere dei padiglioni espositivi e dalla scenografie del melodramma e del nascente cinematografo.

[27] Il volume secondo dell’esemplare BRT non solo è costituito da 65 (invece di 63) tavole, con titolo, manoscritto in calce che coincide alla lettera con le scritte autografe presenti sulle lastre conservate presso l’Archivio fotografico della Soprintendenza, ma anche la sequenza presenta un ordine diverso: il volume si apre infatti con armature a piedi (tavv.1-22) ed  elmi (23-60) per chiudere con finimenti (61-63), il rostro romano (64) e l’elsa “di Donatello” (65).

La catalogazione delle lastre superstiti ha consentito in alcuni casi di analizzare anche le varianti di ripresa (laterale/ scorciata; fuori fuoco o con sfondo neutro) o la documentazione di oggetti poi non compresi nella versione  definitiva degli album, ma comunque messi in circolazione autonomamente (Zuccotto da parate E93, presente nell’esemplare conservato presso la Biblioteca Reale di Torino ma anche tra le stampe del Fondo Coppedè).

[28] Firenze: in occasione dell’inaugurazione della facciata del duomo nel 1887 Umberto I e Margherita giungono a Firenze, festeggiati tra le altre cose da un corteo storico e un gran ballo in costume medievale nelle sale di Palazzo Vecchio, organizzato da Frederick Stibbert, che si presentò vestito della copia di un’armatura inglese del 1370, proveniente dalla sua collezione privata (56.000 pezzi) ospitata nella villa di Monturghi, alle porte di Firenze, con un gusto che richiama piuttosto l’eclettismo imaginifico che sarà di Fortuny o e poi di D’Annunzio (del dandy insomma) che non l’attenzione filologica dello studioso, cfr. Frederick Stibbert. Gentiluomo, collezionista e sognatore, catalogo della mostra ( Firenze 2001), a cura di Kirsten Aschengreen Piacenti. Firenze: Polistampa, 2001. Il gusto della celebrazione in costume, al limite (a volte tranquillamente superato) della giocosità carnevalesca, ma certo intriso anche di celebrazione storicista. Si pensi agli analoghi torinesi.

[29] Ne da notizia in due successive lettere al marchese di Montereno, gentiluomo di corte di S.A.R. la Principessa di Piemonte, il Direttore Luigi Seyssell, chiedendo contestualmente l’invio delle fotografie realizzate in quell’occasione. ASAR, F.2, Nuova Direzione, nn.159, 161, 28 febbraio, 2 maggio 1875.

[30] Vittorio Ecclesia, Castello d’Issogne in Valle d’Aosta, con un testo di G. Giacosa. Torino: Camilla e Bertolero, s.d. [1882 post], 20 albumine 27/27 (dell’opera esiste anche un’edizione con 18 stampe in formato 13/18).

[31] Cfr. P.  Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp. 107-123.

[32] ASAR, f.1207, 7 marzo 1888.

[33] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898, in cui segnala la necessità di un ulteriore finanziamento connesso proprio al maggior numero di tavole realizzate.

[34] Convenzione tra Raffaele Cadorna, Direttore e Conservatore della Reale Armeria e le titolari dello Studio Berra, Celestina Berra Bussolino e Gustava Berra Favale, Torino, 30 luglio 1896, ASAR C387.

Lo scambio di documenti e cataloghi col Museo d’Artiglieria di Parigi si era avviato all’inizio del decennio ed era proseguito sino al 1896, ASAR, B 1502, circa gli stessi anni in cui si realizzava anche il catalogo illustrato dell’Armeria Imperiale di Vienna (ASAR B1503), Wendelin Boeheim, Album Hervorragender Geganstande aus der Waffensammlung. Wien, J. Löwry, K.U.K. Hofphotograph, 1894 (I)-1898 (II).

[35] Su Alberto Charvet si veda Miraglia 1990, op. cit., pp. 371-372. L’archivio storico dell’Armeria conserva una cartella di Prove fotografiche e stampe di armature (…) da cui si ricava conferma della realizzazione di “nuove negative”, cioè del rifacimento parziale delle prime riprese. Di questa prima fase di produzione si sono conservate 19 lastre e 138 fototipie.

[36] In quell’occasione la Regia Armeria non aveva concesso alcun oggetto della propria collezione: Lettera del Ministro della Real Casa al Direttore, Roma, 11 marzo 1880, ASAR, f.895.

[37] ASAR, f.1207, Copia del Memoriale Charvet, 30 gennaio 1898; da questo documento, salvo diversa indicazione,  provengono anche le citazioni successive.

[38] Per le sinora scarne notizie su Luigi Cantù, Vicepresidente della Commissione della Sezione fotografica dell’Esposizione Nazionale di Torino dello stesso 1898, membro del Circolo degli Artisti, tra i futuri promotori della Società Fotografica Subalpina e vicino alla famiglia del Duca di Genova, si veda Miraglia 1990, op. cit., p. 368; Album di famiglia 1850-1940, catalogo della mostra, (Torino, Fondazione Italiana per la Fotografia, 1997), a cura di Dario Reteuna. Torino: FIF,  1997, p.60; Società Fotografica Subalpina 1899-1999. Torino: Daniela Piazza Editore, 1999, pp.14-16. Non si esclude che possa riferirsi ad una ulteriore fase intermedia la prova eliotipica di “Armi antiche” firmata da Carlo Bazzero e conservata tra le carte dell’Archivio dell’Armeria.

[39] Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino. Milano: Eliotipia Calzolari e Ferrario, s.d.  [1898], con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna; tre volumi per complessive 198 tavole in fototipia (1/69 – 70/129 – 130/198). Questa edizione si caratterizza per l’antiporta disegnata da Luigi Cantù e per le impressioni in oro al piatto anteriore e al dorso, mentre la successiva del 1902 è priva di immagine all’antiporta e di veline alle tavole, le impressioni sono in argento e il dorso è muto. Una collezione completa in tavole sciolte, da esporre, venne inviata nello stesso anno alla Esposizione di Bologna a favore della Cassa Soccorso Studenti (ASAR, B 1288). Altre copie delle stesse tavole venivano inviate a studiosi dietro richiesta (ASAR, B 1554) o vendute sciolte: ciò spiega la presenza del gran numero (100-150 esemplari) di copie sciolte e mute dei soggetti di maggior successo, quali le armature. Della campagna fotografica realizzata in questa occasione si sono conservate 216 lastre (comprese quindi le varianti) alla gelatina bromuro d’argento nel formato 24×30, per le quali nel giugno del 1898 si registra  il pagamento di L. 1480 “Con mille ringraziamenti e cordiali saluti (…) alle sorelle Berra, fotografe.”, ASAR,  B1554.

[40] ASAR, f. 1207, lettera di G. Assale al Direttore.

[41] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898.

[42]ASAR, f.1207, nota di L. Avogadro del  2 giugno 1897.

[43] “nel restituirle vi unirò la prova del Calzolari”, scrive Cantù ad Avogadro il 3 agosto, ASAR, f.1207, biglietto di Cantù ad Avogadro,  3-8-1897. In vista della partecipazione all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno 1900 lo Stabilimento milanese chiede l’autorizzazione a “esporre a Parigi qualche saggio delle eliotipie eseguite per la Reale Armeria” sotto forma di tavola composita, di cui inviano copia fotografica, costituita dal montaggio di differenti immagini dall’antiporta col cavaliere in armi disegnato da Cantù, a due armature equestri (tra cui la B3 Martinengo), la targa da parata F3, elmi ed armi varie; come si ricava dalla corrispondenza successiva, in quell’occasione la ditta fu insignita di Medaglia d’oro ASAR, f. 1210.

[44] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898.

[45] ASAR, f.1207, Copia del Memoriale Charvet, 30 gennaio 1898. La vertenza venne chiusa il successivo 18 marzo col riconoscere allo stampatore un compenso complessivo a saldo di L.1500 e alle sorelle Berra la possibilità di rientrare in possesso delle lastre conservate da Cantù; ASAR, f.1207, Copia della transazione della vertenza giudiziaria tra il Sig. Charvet e lo Stabilimento Berra, 18-3-1898.

[46] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898.

[47] Angelucci 1890, op. cit., p. viii.

Scoprire le architetture: patrimonio storico e documentazione fotografica in Piemonte 1861 – 1931  (2000)

“Architettura & Arte” , 3 (2000), n.11-12, luglio-dicembre, pp. 16-23

 

Gli anni della scoperta e del primo affermarsi della fotografia – come è noto – coincidono in ambito europeo con il consolidarsi dell’attenzione per il patrimonio architettonico, specialmente medievale, e col definirsi dei fondamenti stessi delle moderne teorie del restauro architettonico che, insieme alla fotografia,  sono tra gli elementi costitutivi del “moderno”. è altrettanto vero però che la  diffusione  della conoscenza di questo patrimonio e la stessa sua definizione qualitativa e quantitativa molto devono, specialmente nelle aree del Bel Paese tradizionalmente ritenute marginali dal punto di vista artistico come il  Piemonte, alla attività di quei fotografi che mescolando interessi professionali e commerciali ad una profonda passione conoscitiva, ma nella maggior parte dei casi fidando solo su quest’ultima, si sono impegnati nella formazione del catalogo visivo dell’architettura e dell’arte di questa regione.

Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione invia ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti e rimessole nel 1875, voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.”[1]  Con questo atto, le cui conseguenze iniziano appena a essere conosciute e studiate, lo stato italiano si poneva sulla scia delle iniziative avviate dal governo francese nel 1851 con l’istituzione della Mission Héliographique e si colloca in un orizzonte di sempre più precisa attenzione delle possibilità offerte dall’uso strumentale della tecnica fotografica, sperimentate a partire dal 1875 dallo stesso Istituto Geografico Militare sotto specie di fototopografia.

Il decennio che precede queste iniziative, segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, è anche il periodo di prima massiccia diffusione degli album fotografici: dopo le produzioni documentarie degli anni ‘50 con le opere di Giuseppe Venanzio Sella, Ludovico Tuminello, Francesco Maria Chiapella, in cui  i soggetti sono ancora quelli  privilegiati dalla produzione calcografica e litografica precedente,  nel decennio successivo si sviluppa una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolge a tutto il territorio regionale.

L’attività di documentazione fotografica si fa più specifica ed il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: accanto alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864) con immagini di grande qualità, il traforo del Frejus, documentato ancora da Vialardi nel 1863, a partire dagli anni ’70 compaiono i primi album di vedute realizzati dai numerosi studi fotografici ormai presenti nelle maggiori città piemontesi; in queste opere viene riproposta, adeguandola alla realtà locale, la sequenza consolidata dei luoghi canonici – che si presentano come ovvi e ineluttabili – specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il sito[2], ma proprio il loro riferirsi alla specificità del luogo ne costituisce la novità, che non è ancora di sguardo ma di cosa osservata. Sulla scia dei precedenti torinesi di Le Lieure e Marville, nei primi anni Settanta numerose sono le produzioni documentarie, tra le quali si ricordano l’opera di Pasquale Bossi per il Lago Maggiore (1870), di Giovanni Ferrari a Saluzzo (1871ca), di Luigi Natale Fariano a Cuneo, con un album dedicato alla città (1872) ed uno, non datato ma verosimilmente coevo, esteso a tutta la provincia, ed ancora le realizzazioni di Castellani, Viglietti, Berra ed Ecclesia alle quali faranno seguito nei due decenni successivi produzioni relative ai principali centri piemontesi da Biella (Emilio Gallo, 1891) a Tortona (Castellani), da Novara (Tarantola) a Pinerolo, dove Pietro Santini, figlio di Pietro, propone nel 1881 un Album del viaggio di Umberto I da Pinerolo a Perrero che richiama modestamente ma in tutta evidenza  il modello dell’album commissionato dal barone James de Rothschild a édouard Baldus nel 1855, in occasione della visita di stato condotta in Francia dalla regina Vittoria.[3]

Emerge da questa produzione un segno diverso e distintivo rispetto alle campagne precedenti: la celebrazione delle glorie municipali avviene ancora per il tramite consueto dell’illustrazione dei principali monumenti affiancando però, con pari dignità, le nuove realizzazioni che segnano le trasformazioni della città e del territorio, gli emblemi della modernità: asili e scuole, stabilimenti industriali e idroterapici,  stazioni e ponti, le banche, il gasogeno. Gli album sono a volte commissionati dalla municipalità (Acqui, Susa), da committenti o sottoscrittori privati, ma più sovente sono realizzati per iniziativa dello stesso fotografo sia a fini promozionali sia quale precisa iniziativa editoriale e commerciale. Primo significativo esempio di questa strategia culturale e commerciale è Turin ancien et moderne che il parigino Henri Le Lieure, a Torino dal 1859, dedica alla città nel 1867 corredando le ventidue splendide albumine che lo formano di brevi saggi dei personaggi più in vista della cultura torinese di quegli anni: da Luigi Cibrario a Pio Agodino, da Michele Lessona e Vittorio Bersezio a Federico Sclopis, Carlo Felice Biscarra e altri.

Se i soggetti di Le Lieure ripropongono ancora i temi delle litografie che nel 1845 Enrico Gonin include in Turin et ses environs, i fotografi attivi nei centri minori rivolgono la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche, specialmente per quanto ci riguarda, a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase è proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li porta  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrisponde allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili.  Sono questi gli anni in cui la documentazione fotografica si avvia a una utilizzazione mirata  anche da parte di studiosi e architetti, come indicano alcune partecipazioni alla Esposizione torinese del 1880: qui ad esempio Alfredo d’Andrade, seguendo le ben note indicazioni di Viollet-Le-Duc[4] e anticipando le risoluzioni boitiane, documenta il suo primo intervento architettonico, il restauro del castello di Rivara, proprio con sei fotografie realizzate da Giovanni Battista Berra e  da Giuseppe Vanetti.[5] è da qui che  la  fotografia architettonica  muove  i suoi primi passi, utilizzata specialmente  in virtù delle sue più efficienti possibilità tecniche che consentono di sostituire in modo rapido ed economico i processi di stampa calcografica e litografica, senza che si pensi ancora ad una sua utilizzazione quale specifico strumento di documentazione e di studio del patrimonio storico architettonico[6]; perché questo percorso si compia, almeno in area piemontese,  debbono giungere a maturazione le riflessioni e le esperienze nate dai contatti tra cultura artistico archeologica (piuttosto che specificamente architettonica)  e fotografica  e  contestualmente avviarsi le procedure per esaudire le richieste provenienti dalla amministrazione centrale.

Nel 1878 viene istituita la Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità (sulla base del R.D. 3 agosto 1870), composta da sette membri tutti appartenenti alla neonata (1875) Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino. Nella seduta nel 31 ottobre viene illustrata alla Commissione la citata  richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione (circolari del 21/10 e 14/11), ma solo quattro anni più tardi, nel 1882, dopo una prima ipotesi non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” per documentare il patrimonio (18 giugno 1881) definito  dell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte” redatto nel 1871 dalla specifica commissione diretta da Carlo Felice Biscarra[7],  la Commissione delibera di assegnare a due dei migliori professionisti piemontesi, Berra (Fotografia Subalpina) e Ecclesia, il compito di fotografare il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente dallo stesso Biscarra e da Crescentino Caselli, al quale ultimo si deve verosimilmente il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, quale appare proprio  nelle immagini di Ecclesia.[8]  Negli esiti di  queste campagne di ricognizione l’intenzione documentaria si sposa con la poetica  di Biscarra   ed ancor più di Federico Pastoris che vedeva nella fotografia un efficace strumento ausiliario alla sua aspirazione verista, quella stessa che gli “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[9]

Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile anche le prime applicazioni  della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico piemontese che ancora alla fine del secolo si giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[10], riproponendo tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra”[11] e la cui infondatezza sarà di lì a poco  tradotta in evidenza espositiva dalla realizzazione del Borgo Medievale nel parco del Valentino in occasione della Esposizione generale italiana del 1884,  “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni” delle diverse tipologie di costruzioni selezionate dal gruppo di studiosi coordinato da D’Andrade, raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio” e compiendo un’opera  assimilabile “a quella di un compilatore di una raccolta di oggetti per museo o galleria o di un dizionario d’arte e d’archeologia” (…) obbligo solo e strettissimo l’autenticità.”[12] In questo monumento nuovo, punto nodale per la formazione di una consapevolezza professionale e civile del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano, è facile riconoscere il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, in copie autentiche, che dichiara in tutta evidenza i propri debiti con le modalità culturali proprie dell’universo fotografico. Qui l’idea di copia oggettiva, e quindi autentica, analoga e fungibile al reale propria dell’ideologia fotografica di secondo Ottocento   investe   una pratica che si vuole filologica nonostante l’intervento di assemblaggio e collage: ogni frammento, così come ogni fotografia, è considerato autentico in quanto riproduzione fedele all’originale e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, destinato a tradurre dalla raffigurazione alla realizzazione  un soggetto inesistente in quella forma.

Intorno e ancor di più in conseguenza di questa iniziativa[13] operarono sia fotografi professionisti come Ecclesia (verosimilmente contattato da D’Andrade grazie ai buoni auspici di Vittorio Avondo)[14], sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[15], che sarà per lungo tempo collaboratore di D’Andrade. A lui si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione del giovane studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[16]

Lo stesso 1884 costituisce però momento importante per la storia della documentazione fotografica dell’architettura anche per l’avvio del progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si tiene in occasione dell’Esposizione affida  al Collegio torinese; nel successivo congresso (Venezia,1887)  questo presenterà il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato proprio al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” [quindi con una presentazione artistica] se dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[17]

La realizzazione del Borgo e la successiva istituzione del Museo favorirono una attenzione nuova per quella tipologia di edifici che erano serviti da modello alla sua realizzazione;  ad essi venne dedicata da allora una attenzione fotografica sempre più ampia sia da parte dei professionisti[18] sia degli amateur photographers  tra i quali accanto a Nigra e, in misura minore,  ad Ottavio Germano[19] la figura più rilevante fu quella di Secondo Pia[20], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione.

In occasione della Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tiene a Torino nel  1890 mentre uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizza il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte   nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano”[21], a Pia viene assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[22], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi.”[23]

Una ulteriore occasione di conoscenza sarà poi costituita dalla Esposizione di Arte Sacra del 1898, nel corso della quale Pia espone circa 600 fotografie mentre Giovanni Cena gli dedica un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[24]

L’accumulo di notizie a cui Cena si riferiva  prendeva nel frattempo la forma di un ricchissimo corpus di precise schede analitiche, dedicate a ciascuna delle opere fotografate, che costituisce oltre che una fonte importante e sinora non utilizzata per la storiografia artistica piemontese anche un indicatore esatto dello scrupolo estremo con il quale questo “dilettante fotografo” ha affrontato il suo fondamentale e pluridecennale compito di documentazione; esso è anche un indizio ulteriore e preciso dell’elevato livello culturale oltre che specificamente professionale al quale si collocava in Piemonte, a partire almeno dagli anni ‘60 del XIX secolo, questa attività fotografica, che nei casi più significativi è connotata dalla volontà esplicita di porre in atto un vero e proprio progetto culturale di scoperta e valorizzazione del patrimonio locale, muovendosi in direzione opposta rispetto alle gigantesche imprese commerciali dei più noti studi italiani (da Alinari a Sommer).

Ad un progetto analogo si richiama esplicitamente Pietro Masoero, di professione fotografo ritrattista, che avvia nel 1890 un esteso rilievo fotografico della basilica di S. Andrea a Vercelli, pubblicato nel 1907 parallelamente ai relativi rilievi grafici realizzati da Federico Arborio Mella a corredo di un volume sulla storia della basilica che si poneva quale “contributo al recente risveglio pel culto dell’arte sacra”, uno dei temi più interessanti del dibattito culturale nel Piemonte di secondo Ottocento, strettamente connesso alla rivalutazione della tradizione artistica locale e quindi anche al dibattito e alle prime iniziative di tutela[25].

In questa pubblicazione  “Si volle che la riproduzione fotografica di questo gioiello, sviluppata in una serie logica e possibilmente completa di parti armonizzanti col tutto, desse all’opera un senso di realtà e di vita”  con immagini fotografiche che “riproducono in modo mirabile, non svisato o alterato da alcun manierismo, la vera parvenza o carattere stilistico”[26] della basilica.  Mentre negli anni ‘50 Pietro Estense Selvatico sceglieva la fotografia perché credeva potesse offrire “le esatte apparenze della forma” contro le alterazioni dell’accademia, cinquant’anni più tardi, dopo la fotografia di ispirazione pittorialista,  il rischio di cui un intellettuale attento come Masoero è ben conscio è quello di leggere come obiettiva in quanto fotografica una immagine svisata o alterata dal “manierismo”, inteso quale gratuito formalismo interpretativo dell’opera, per non dire del mondo.[27]

Nel secondo decennio del Novecento la documentazione fotografica del patrimonio storico piemontese si estende sia per iniziativa di alcuni grandi stabilimenti fotografici italiani quali Alinari, che ampliano nel 1912 il ristretto repertorio realizzato nel 1898, e l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, a cui vengono commissionate più di quattrocento riprese[28] in  occasione della realizzazione del padiglione piemontese all’Esposizione romana del 1911, mentre prosegue la collaborazione tra nuove generazioni di studiosi,  organismi di tutela e fotografi particolarmente sensibili alla conoscenza e divulgazione del patrimonio artistico e architettonico, collaborazione già per certi versi anticipata negli anni Ottanta dell’800 dal rapporto tra Riccardo Brayda e Alberto Charvet[29], ma che assumerà nei primi decenni del’900 forme più precisamente connotate: dalle cartelle dedicate da Giancarlo dall’Armi al Barocco  Piemontese, con bellissime immagini corredate dai testi di Cimbro Gelati, Carlo Camerano, Emanuele Provana di Collegno, Melchior Pulciano e Paolo R.Deville[30], alla collaborazione un poco più tarda di Augusto Pedrini con  Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi.[31]

Il ruolo svolto da Brayda risulta fondamentale anche per comprendere l’opera di Mario Gabinio, in particolare la serie realizzata nei primi mesi del 1900 per partecipare al concorso bandito dal Comune di Torino  per la “Collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”.  Gabinio si aggiudica il premio con la serie dedicata a Torino che scompare:  84 stampe che per scelta  dei soggetti, esaustività della documentazione e per l’approccio quasi da reportage consentito dall’uso del medio formato costituiscono una novità assoluta nel panorama della fotografia di documentazione urbana piemontese e italiana.

A partire dagli anni Venti data l’inizio effettivo dell’interesse di Gabinio per il patrimonio architettonico di Torino, già indagato con Torino che scompare e con alcune più sporadiche riprese degli ani ‘10, del quale ci restituisce un catalogo sostanzialmente esaustivo, ritornando più volte sullo stesso soggetto, alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta.

Il suo lavoro intorno all’architettura assume la forma dell’indagine tipologica nella serie dedicata a portali e  portoni degli edifici sei-settecenteschi, riprendendo un tema non nuovo della produzione fotografica torinese, qui connotato da una più marcata attenzione per il dato architettonico e da evidenti preoccupazioni compositive, che si concretizzano nella ostinata concatenazione di spazi e superfici tra facciata e cortile interno; intendendo il portale come cornice architettonica e punto di accesso al cannocchiale prospettico puntato verso il cortile, con la presenza costante di un elemento collocato centralmente a sottolineare la posizione del punto di fuga.[32]

Agli edifici torinesi Gabinio dedica serie costituite da numerose immagini, in cui architettura e presenza urbana sono indagate con inquadrature singolari e sapienti, tanto poco ortodosse quanto efficaci, dove l’interesse per i volumi edificati e per le possibilità di lettura che ne offre la fotografia, per i problemi posti dalla relazione tra illuminazione e forma architettonica, convive col rigore topografico nella determinazione dei punti di ripresa, fornendo esempi concreti di quel connubio tra documentazione e fotografia artistica che molti ritengono  non realizzabile e che costituisce una delle manifestazioni del più generale ambito di discussione sulla natura del documento fotografico che si trascinava almeno dalla metà dell’Ottocento.

“La fotografia architettonica – afferma T.H.B. Scott, vicepresidente della Royal Photographic Society di Londra,  nel 1925 – non può essere fotografia artistica; essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve rinnegarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”; sentenza senza appello alla quale tenta debolmente di opporsi J.R.H. Weaver quando afferma che “Nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo”.[33]

Di queste posizioni esteticamente poco consistenti, fortemente legate a una poetica “pittorialista” e antimodernista avrà ragione negli stessi anni la nuova concezione della fotografia in varie forme legata o determinata dalle realizzazioni delle avanguardie storiche, immediatamente recepita e fatta propria anche da Gabinio che nella documentazione dei due importanti cantieri torinesi della Società Reale Mutua Assicurazioni si abbandona al fascino costruttivista dell’architettura del ferro, qui sapientemente confrontata con la città e le sue permanenze, in un dialogo suggestivo tra struttura architettonica e maglia urbana.

Superando concretamente la cultura ottocentesca dell’immagine ottica, tutta orientata e rinchiusa nella celebrazione dei valori documentari propri della fotografia, per aprirsi alla soggettività della nuova visione propria del moderno,  Gabinio segna il passaggio cruciale alla modernità della cultura fotografica torinese, guardando non tanto alle opere presentate ai  Salon o pubblicate in Luci ed Ombre, sostanzialmente ancorate ad un tardo pittorialismo in lenta trasformazione, con la sola eccezione di alcune opere di Stefano Bricarelli e delle prime prove di Riccardo Moncalvo, ma invece a quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che contribuisce al formarsi di una precisa consapevolezza delle modalità di trascrizione del reale proprie del mezzo, su queste fondando le stesse possibilità espressive e documentarie dell’immagine ottica.

La pacifica convivenza tra possibilità documentaria e espressione estetica, compositiva, la moderna coscienza che l’un atteggiamento non escluda l’altro si ritrovano nell’opera – meno stilisticamente connotata ma non per questo indifferente alle determinazioni estetiche – di uno studioso come Albert Erich Brinckmann (1881 – 1958), tra i primi e più autorevoli  storici ad affrontare sistematicamente l’analisi delle architetture barocche piemontesi ponendole in relazione con le più importanti scuole internazionali. Le immagini a cui ci riferiamo, tutte ricavate da negativi su lastra nel formato 9/12, vennero  realizzate nel corso dei primi viaggi compiuti in Piemonte nel 1928 – 1930 quindi pubblicate nel suo fondamentale studio del 1931[34], e donate all’Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” che Vittorio Viale aveva da poco costituito presso i Musei civici di Torino, riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Giovanni Vacchetta e Lorenzo Rovere, anche allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle diverse Società di Studi, a rischio di dispersione.[35]

La figura di studioso interessato direttamente alla utilizzazione appropriata delle possibilità offerte dalla fotografia per documentare ma ancor più per interpretare e leggere, non solo formalmente le architetture si delinea in area piemontese proprio con gli anni Trenta del Novecento, avviando una stagione nuova di esperienze e realizzazioni che porterà almeno sino a Carlo Mollino e al più giovane Roberto Gabetti, certo oggi non ancora interrotta ma da conoscere e comprendere compiutamente.

Note

[1] Il testo qui presentato costituisce una prima occasione di sistematizzazione di informazioni e riflessioni relative all’argomento sino ad ora sparse in contributi diversi, parzialmente citati nelle note che seguono, e non pretende pertanto una esaustività che mi auguro possa in futuro essere almeno ipotizzata, anche grazie all’approfondimento e all’estensione degli studi specifici.

Il testo della comunicazione ministeriale è qui citato dalla copia conservata presso l’Archivio di Stato di Lecce, Prefettura, I serie, I vers., b.44, f.413, consultata nel corso di una più ampia ricerca relativa alla definizione dei processi di sedimentazione dell’immagine (fotografica e non solo) del patrimonio culturale regionale condotta nell’ambito del corso di Storia e tecnica della fotografia presso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università di Lecce. Per i documenti relative alle parallele vicende piemontesi cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va segnalato infine l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire tanto che ancora nel 1904 Giovanni Santoponte dovrà richiamare esplicitamente la necessità metodologica di dotarsi di materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte (individuando) i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali”, Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni. Roma: 6 (1905), pp.38-48.

[2]Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863; la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedica nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di ‘archivio’ o ‘museo’ fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839 – 1911.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1990;  P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[3] cfr. Malcom Daniel, The Photographs of édouard Baldus. New York: The Metropolitan Museum of Art – Montreal, Canadian Centre for Architecture, 1994.

[4] Eugène Viollet-Le-Duc,  voce Restauration, in Id., Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siécle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Reunies, s.d. [1860], pp.33-34,  in cui viene per la prima volta codificato l’uso della fotografia nei processi conoscitivi e operativi connessi al restauro degli edifici.

[5] IV Esposizione nazionale di Belle Arti. Catalogo. Torino: L. Roux e C.,  1880, nn.182-183; va ricordato qui anche l’album fotografico che G.B.Berra dedica a questa esposizione. La novità  costituita dall’utilizzo di fotografie per la presentazione di progetti architettonici (utilizzate da quattro dei settantanove espositori della sezione “Architettura”), è ulteriormente indicativa se pensiamo alle ben note qualità di disegnatore di D’Andrade, cfr. Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981; Alfredo d’Andrade. L’opera dipinta ed il restauro architettonico in Valle d’Aosta tra il XIX e il XX secolo, catalogo della mostra (Aosta, 3 luglio  – 19 settembre 1999), a cura di Lia Perissinotti. Aosta:  Musumeci Editore, 1999.

[6]è noto che la documentazione urbana e d’architettura anticipa, per molteplici ragioni, non solo tecniche, quella relativa alla pittura; cfr. Miraglia, Culture fotografiche e società , op. cit.; P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, in Tiziana Serena (a cura di), Per Paolo Costantini, I,  Fotografia e raccolte fotografiche, «Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni», VIII, (1998),  pp.49-55.

[7] Cfr. Carlo Felice Biscarra, Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte, in “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, II, Torino, 1878, pp.225-230.

[8] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884 congiuntamente ad analoghe campagne condotte nell’Alessandrino da Federico Castellani. Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte.

[9]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891: Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna  Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni  Romano,. Torino:  Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326, da leggersi in parallelo  a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andradeop. cit.,pp.19-43.

[10]Antonio Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp.106-110 (p.107); n.22, pp.171-175; n.23, pp.177-179. Del permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” ha parlato ancora in anni recenti Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela  di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp.11-32 (p.23).

[11]Francesco Gamba, L’arte antica in Piemonte, 1880, citato in R. Maggio Serra, Uomini e fatti, op. cit., p.29.

[12] Giuseppe Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana, Catalogo, 1884, p.9.  Dalle più recenti ricerche risulta però che per queste realizzazioni non si possa parlare di  copie “esattissime” ma semmai di accurate trascrizioni sapientemente adattate per essere inserite nel nuovo contesto, cfr. Carla Bartolozzi, a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995.

[13] Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in  Fotografi del Piemonteop. cit.  e in Alfredo d’Andrade, op. cit.

[14]  Vittorio Avondo aveva commissionato proprio a Ecclesia più copie delle fotografie realizzate nel castello di Issogne, da lui acquistato e restaurato anche col sostegno di D’Andrade,  nel corso della campagna del 1882 allo scopo di realizzare una serie di album, cfr. Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo (1836 – 1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: SPABA, 1997.

[15] Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonteop. cit.,  pp.17-20. Per il ruolo svolto da Nigra nel mantenere in area piemontese un rapporto fecondo con la tradizione della “scuola storica”, cfr. Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte.  Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[16] La prima edizione di The Seven Lamps fu pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in P.Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[17] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1; tale indicazione proponeva con largo anticipo il problema dei Musei documentari,  ripreso in Piemonte dieci anni più tardi da Giovanni Vacchetta, il quale  elabora un progetto di catalogazione del patrimonio artistico piemontese  e propone alla Sezione di Architettura presso il Circolo degli Artisti di Torino l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, unitamente alla formazione di un archivio fotografico, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni; la sezione V del Museo doveva ospitare “negative fotografiche”.  I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto proponendo infine solo la formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.”,  Roberto Albanese, Emilio Finocchiaro, Maristella  Pecollo, a cura di, G.Vacchetta. Volontà d’arte: il gusto del particolare.  Cuneo: Comune di Cuneo – Assessorato per la Cultura, 1990, p.141.

[18] Per fare un solo esempio il confronto tra i cataloghi di Vittorio Besso del 1881 e del 1893 mostra come in questo lasso di tempo si fosse accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entrò a far parte una serie dedicata ai castelli costituita da ben 17 soggetti mentre per il Biellese la serie dedicata al castello di Gaglianico passò da tre a quindici titoli.

[19]Su Ottavio Germano, che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra ed inoltre Claudia Cassio, in Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola  Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino:  Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (p.77, n.23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992. Sull’attività fotografica legata alle prime attività di tutela  piemontese molto resta ancora da conoscere ma va segnalata almeno la presenza a Palazzo Madama di un vero e proprio laboratorio di sviluppo e stampa gestito da Germano e Nigra, come si ricava da una lettera datata 3 gennaio 1892: “Favorisco farmi sapere  se prima di tornare a Sartirana puoi venire a Palazzo Madama a sviluppare le rimanenti lastre già impressionate e fare altre stampe.”, citato in Cristina  Ghione, Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra,  Anno Accademico 1993-1994, p.87.  Sulle necessità di definire compiutamente i compiti e le metodologie operative dei gabinetti fotografici degli Uffici regionali si esprimerà Pietro Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica istruzione, “L’Arte”, 7 (1904), pp.80-82, inserendosi in un dibattito più ampio, anche internazionale,  a proposito della necessità di attuare raccolte sistematiche di documentazione fotografica, i cosiddetti Musei Documentari. Il riferimento metodologico costituito da  Toesca  è stato analizzato da Giovanni Romano, Pietro Toesca a Torino,  “Ricerche di Storia dell’arte”, 21 (1996), n.59, pp.5-19 ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 1-21. Per la ricostruzione del dibattito su queste istituzioni, nuclei originari e occasioni primarie di riflessione per ogni successivo  musée imaginaire fotografico o comunque virtuale si vedano Paolo  Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990, in  particolare alle pp.58-72;  P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’impegno”, 11 (1991), n.3, dicembre, pp.41-48; Brera 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, Palazzo di Brera, Sala della Passione, 17 febbraio-25 aprile 2000) a cura di Matteo Ceriana, Marina Miraglia. Milano: Electa, 2000. La particolare attenzione di Toesca per le possibilità consentite dalla documentazione fotografica, già espressa in una lettera a Secondo Pia del 1907 (cfr. Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia.  Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, p.31) lo porterà nel secondo dopoguerra a curare i volumi della collana “Artis Monumenta photographice edita”, della quale usciranno i titoli dedicati a San Pietro al Monte a Civate  ed alla Cappella di San Silvestro in Santa Croce a Firenze,  mentre rimarrà inedito il terzo, sulla Basilica Superiore di Assisi, tutti con fotografie di Mario Sansoni e Carlo Bencini, cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 57-198 (pp.158-159); Paola Callegari et alii, La Fototeca Nazionale. Roma:  Ministero per i Beni Culturali, ICCD, 1984.

[20]Tamburini, Falzone Il Piemonte fotografato da Secondo Pia, op. cit.;    Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale del Cinema, 19 ottobre-19 novembre 1989) a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò. Torino: Allemandi & C., 1989; P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, op. cit.; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia: Immagini, di Asti e dell’Astigiano, catalogo della mostra (Asti, Archivio Storico, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998) a cura di Gemma Boschiero. Asti: Archivio Storico del Comune di Asti, 1998. L’altro grande dilettante piemontese del periodo, il più giovane Francesco Negri  era invece – come noto – più impegnato nello studio e nella documentazione del patrimonio artistico, cfr. cfr. P. Cavanna, Cinquant’anni di sguardi: la fotografia scopre il Sacro Monte, in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea.  Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998, pp.137-145.

[21] Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891, p.18;  nella stessa occasione rilevava come Pia “girando tutta la regione del vecchio Piemonte, seppe scovare una quantità  di monumenti in gran parte ignorati, ch’egli presentò in tre album di oltre 200 fotografie.”

[22] Lo stesso concetto era ribadito da Pietro Masoero che ancora  dieci anni più tardi recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino sottolineava come “nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), n.4, , p.278. Altra grande occasione espositiva per Pia si presentò nel 1926 con la “Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese” che si tenne a Torino alla palazzina della Promotrice delle Belle Arti al parco del Valentino nell’ambito della “II Mostra Internazionale di Edilizia”; nella sala VII erano ospitati rilievi di d’Andrade, Brayda, Mella, Ferrante, Nigra, Pulciano, Vacchetta e Tornielli mentre “tutta una parete della sala [era] occupata da ben 22 vetrine dell’avv. Secondo Pia contenenti fotografie di grande formato di edifizi piemontesi dal periodo romanico, al gotico, al rinascimento: è la più completa raccolta di fotografie della Mostra”., cfr. La Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese, in “Il Momento”, 24 (1926), n.128, 2 giugno, p.5.

[23] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, op. cit.

[24]Giovanni  Cena, Piemonte antico, in “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240. A quella stessa occasione risale anche, come è noto, la prima fotografia della Sindone, realizzata proprio da Pia, che a questa impresa deve – impropriamente – la sua scarsa notorietà.

[25] P. Cavanna, Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione, “Fotologia”, studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier, n.6, 1986,  pp. 34 – 45

[26] Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, Pietro Masoero, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli. Vercelli: Gallardi e Ugo, 1907, p.439 passim, sottolineatura nostra.

[27] Per Masoero infatti si doveva “evitare il pericolo di cadere nel manierato (…) Al vero, unicamente al vero deve l’arte fotografica attingere le sue ispirazioni (…) L’arte fotografica deve avere un’ispirazione, di diventare il documento ispiratore e coadiuvatore dell’arte, con le sue potenti verità.”,  P. Masoero, Arte fotografica, in “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 10 (1898), pp.161-171.

[28] Le 436 lastre allora realizzate sono oggi conservate presso l’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino; per quanto riguarda la datazione va rilevato che essa potrebbe anche essere lievemente antecedente: si vedano alcune delle stampe relative a Ranverso conservate nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che  riportano  una datazione (tarda però) “prima del 1907”  e le due stampe all’albumina relative a San Sebastiano (una vela di volta e la Crocifissione)  comprese nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 22) , non datate ma tecnicamente attribuibili al più tardi ai primi anni del Novecento. Naturalmente già nella seconda metà del XIX secolo frequentarono il  Piemonte anche operatori di altri importanti stabilimenti fotografici quali Brogi e Sommer, ma la loro produzione specifica non è ancora sufficientemente nota e studiata.

[29] Riccardo Brayda,  Porte Piemontesi dal XV al XIX secolo,  1888.  La collaborazione tra i due origina dal precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, Torino, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.  L’opera di Alberto Charvet costituisce un importante esempio della ricchezza del panorama torinese e più ampiamente piemontese di fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e d’architettura con produzioni di costante alto livello. Per Charvet cfr. Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., pp.371-372.

[30]Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino:  Dall’Armi, s.d. [1915], sei cartelle fotografiche corredate di  notizie storico-critiche. Anche Dall’Armi (1881-1928) come Pietro Masoero, era professionalmente molto noto specialmente per la sua attività di ritrattista,  genere nel quale adotterà con grande eleganza e misura  stilemi di matrice pittorialista, conservati ben oltre la loro stagione più efficace nella produzione dello studio, gestito dalla moglie Giovanna Andrate fino al 1951.

 [31]  Di Augusto Pedrini, una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi a Torino nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento, oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”;  Pedrini viene chiamato nel 1932, con Gabinio, a documentare il cantiere della nuova sede della Società Reale Mutua Assicurazioni di Torino.

[32] Cfr. Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P.  Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996.

[33] John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 35-36. Dallo stesso articolo è tratta la citazione di Scott con cui l’autore polemizza utilizzando strumenti e categorie molto deboli e confuse, del resto proprie della maggior parte della pubblicistica di quegli anni, specialmente quella rivolta al grande pubblico dei dilettanti.

[34] Albert Erich Brinckmann, Theatrum Novum Pedemonti: Ideen, entwürfe und bauten von Guarini, Juvarra , Vittone. Düsseldorf: L. Schwann, 1931.

[35] Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte.  Torino: Tip. Anfossi, 1933.

Il trapianto del mito: acque, risaie, mondine nell’iconografia ottico-meccanica (2000)

“Studi di museologia agraria: notiziario dell’Associazione Museo dell’Agricoltura del Piemonte”, 17 (2000), n. 33, pp. 23 – 37

 

 

Fotografie e storie

 

Come è stato rilevato da più parti, il maggior limite individuabile nel corrente utilizzo storiografico del documento fotografico è costituito dal  riconoscimento acritico della sua natura mitica di impronta oggettiva, per certi versi socialmente necessaria e utile di analogon del mondo, di documento puro che pare non potersi mai trasformare o essere anche monumento, e per il quale quindi non sembra necessario né possedere né tantomeno fornire adeguate chiavi di interpretazione e lettura. Si  preferisce ancora credere che ogni fotografia si esaurisca tutta in quell’ “hic et nunc con cui la realtà ha folgorato il carattere dell’immagine” di cui parlava Benjamin all’inizio del Novecento, oltre i linguaggi e i codici di costruzione, oltre le modalità e i contesti di utilizzazione dell’immagine, pensata come traccia di una realtà immediatamente attingibile – e quindi conoscibile – da parte dello storico; da questa fiducia (controbilanciata da opposti atteggiamenti di rifiuto totale) originano i problemi posti dall’utilizzo dell’immagine fotografica quale documento per la ricerca storica[1]. Tranne casi sporadici esso  ha sempre oscillato, e continua ad oscillare, tra una mera funzione illustrativa, priva di significato intrinseco, ed una funzione referenziale assoluta, di puro dato che racchiude “parte importante del soggetto, lo significa, ma insieme lo evoca e lo presentifica”[2], dimenticando come – contestualmente alla sua natura semiotica di indice – l’immagine fotografica sia anche documento/monumento, prodotto specifico di una condizione culturale e tecnologica, storica e sociale, per la cui comprensione risulta indispensabile non solo individuare e collocare cronologicamente il soggetto, ma anche stabilirne le relazioni con il fotografo, le occasioni e committenze, i condizionamenti sociali e culturali, tecnologici e iconografici che ne hanno segnato la produzione, ponendo in atto un’indagine storica della comunicazione visuale che renda ragione di “quello che può o non può essere fotografato, quale contenuto può essere mostrato, quale effettivamente viene mostrato, e come è stata organizzata e strutturata quella rappresentazione”[3], tenendo presenti insomma tutti i problemi delle diverse scritture fotografiche (posa o istantanea, uso delle luci, singole immagini o sequenze narrative) e dei modelli comportamentali e iconografici di riferimento (la tradizione pittorica e figurativa in genere, le relazioni prossemiche, le forme simboliche di disposizione dei personaggi nel taglio operato dall’inquadratura.

Quando poi si debbano affrontare i problemi posti dalla ricerca e dallo studio di un insieme tematicamente omogeneo di immagini non possiamo non considerare, anche per la fotografia, la questione delle fonti: dalla natura degli archivi disponibili alle vicende frequenti di dispersioni o conservazioni parziali, alla tipologia e alle finalità delle pubblicazioni che hanno ospitato documentazione fotografica su questi temi. Vale a dire che al cosa e come è stato fotografato, e perché, vanno anteposte considerazioni a proposito di  cosa è stato conservato o pubblicato, e perché.

Anche nel nostro caso quindi i materiali esaminati non possono essere intesi tout court quali elementi per una ricomposizione esaustiva (tanto meno fedele) del percorso che ha condotto alla formazione e al consolidamento di una  precisa e riconoscibile iconografia del mondo della risaia, ma solo, e in modo più pericolosamente complesso e sfuggente, quasi un effetto di memoria, il risultato selettivo e occasionale di iniziative individuali o istituzionali di conservazione attiva o passiva di documenti della propria storia, l’emergere di tracce editoriali per ora poco note e studiate o il semplice permanere inerte di materiali destinati ad una obsolescenza che è di contenuto ancor prima che fisica, con fotografie  private di indicazioni per noi oggi indispensabili quali autore, titolo e data di esecuzione della ripresa, come se il peso del reale di cui la  fotografia sarebbe portatrice potesse  liberarla dalla necessità di possedere un corredo paratestuale di elementi identificativi.[4]

 

Fotografie del lavoro

Ricordava Arturo Carlo Quintavalle ormai molti anni fa in quello che è forse il primo saggio italiano dedicato al lavoro in fotografia[5], che quando si conduce una ricerca sul tema attraverso e per mezzo dell’immagine fotografica ci si deve ricordare come anche la fotografia sia lavoro, ogni immagine essendo contemporaneamente risultato di una pratica fotografica ed effetto strutturale del lavoro fotografico come sistema complesso di produzione dell’immagine. Qui entrano in gioco quelle scritture fotografiche a cui abbiamo fatto cenno, che si intersecano con le condizioni e le ragioni per cui quella fotografia è stata commissionata e quindi realizzata; ragioni che dipendono da una dinamica economica e sociale, la cui comprensione comporta il riconoscimento dei reciproci ruoli (committente – soggetto – fotografo) e relazioni (occasionali, parentali o professionali), i rapporti di classe e la conseguente scelta dei temi e dei modi, dei diversi linguaggi fotografici.

Poiché il lavoro non è un tema che attraversa tutta la storia della fotografia indistintamente, né la sua rappresentazione si manifesta secondo accezioni immutabili: se escludiamo la più antica produzione dagherrotipica e calotipica, nel cui ambito le immagini di lavoro risultano rare e sostanzialmente frutto di posa, vere rappresentazioni,  le prime immagini che riconosciamo – oggi – legate a questo tema avevano piuttosto, al momento della loro realizzazione, un intento bozzettistico (si pensi alla produzione di Giorgio Sommer ad esempio)[6], di raffigurazione di stereotipi che si andavano codificando in una fase di lenta ma progressiva costituzione del nuovo modello industriale, portando con sé il cristallizzarsi di figure e mestieri prima immersi indistintamente in un unico orizzonte produttivo[7].  Questa fase si estende almeno fino al primo decennio del Novecento e assume toni diversi solo nelle rare fotografie occasionali eseguite da dilettanti, comunque più tarde, ormai legate alla diffusione di massa della fotografia di piccolo formato, che costituiscono le prime testimonianze di una pratica fotografica interna al mondo del lavoro, slegata dalle convenzioni grammaticali e rappresentative del fotografo professionista o amateur[8]. Solo col secondo dopoguerra si assiste ad una accresciuta attenzione per la narrazione del lavoro che trova le proprie origini nel più ampio contesto di rinnovato interesse per la cultura delle classi popolari di matrice neorealista, per giungere infine alle indagini   politicamente connotate condotte  a partire dagli anni Sessanta, tutte giocate sulla identificazione tra le categorie di popolare e subalterno e sulla conseguente rivalutazione di questa cultura come antagonista, “come capitolo specificamente italiano della dinamica fra ceti e classi.”[9]

 

Risaia

Pur lette con tutte le cautele e gli accorgimenti prima sommariamente indicati, anche le immagini del lavoro in risaia offrono, come tutte le fotografie, una traccia forte del reale dal quale sono state formate[10]; raccontano dei soggetti rappresentati più di quanto potrebbe fare qualsiasi altro tipo di raffigurazione (manuale, cinematografica, televisiva) e in ciò risiede il loro fascino e il loro interesse, per lo storico del lavoro e della società, per l’antropologo, a cui noi vorremmo segnalarle per una analisi, per una interpretazione extrafotografica che non ci compete. Ma alcune considerazioni, alcuni suggerimenti e percorsi di lettura (da cui forse far derivare delle cautele, ma anche degli stimoli)  possono essere proposti e indicati proprio ancorandosi allo specifico fotografico e anzi su questo fondando il possibile loro interesse.

Intanto la prima e più importante: la progressiva comparsa della documentazione del lavoro come lavoro in atto, non come ambiente e contesto: proprio come azione lavorativa, assente di fatto in tutta la produzione ottocentesca, e la conseguente documentazione – più strumentale e tecnica che etnografica – dei gesti del lavoro; altra conquista iconografica progressiva che segna il distacco dalla posa (modificazione tecnica), ma anche l’affermarsi del lavoro stesso come tema figurativo e fotografico in particolare (modificazione socioculturale), per ritornare quindi ancora, più sottilmente, alla posa concepita in termini di ‘neorealismo’.[11]

La storia moderna della risicoltura in Italia, e nella Pianura Padana occidentale in particolare, data a partire dagli anni intorno alla metà del XIX secolo, col passaggio da estensivo a intensivo dei sistemi colturali, dalla risaia stabile ai sistemi a rotazione, a cui si accompagna un grande sforzo di ridisegno, potenziamento e trasformazione gestionale della rete irrigua, in particolare a partire dal 1853 con l’istituzione della Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia (AIOS)[12], a cui viene affidata la gestione delle acque demaniali, e più ancora con la realizzazione del grande canale di irrigazione che sarà intitolato a Camillo Cavour[13].

La realizzazione di questo imponente cantiere è stata ampiamente documentata fotograficamente per volere della stessa società promotrice e sono proprio queste immagini, databili tra il 1864 e il 1866, a costituire le più antiche rappresentazioni fotografiche sinora note della pianura risicola tra Vercellese e Novarese, esempio importante di documentazione e rilevamento del territorio, di quegli ambiti cioè in cui la fotografia trova una delle sue prime applicazioni, sulla scia di una tradizione di iconografia ‘topografica’ particolarmente significativa in ambito piemontese, qui connotata da una particolare attenzione per gli aspetti ingegneristici del cantiere e delle opere. Le immagini dei Fratelli  Bernieri e di Alberto Luigi Vialardi evidenziano il senso del progetto mostrandone le differenti fasi di realizzazione, la tipologia funzionale delle macchine impiegate, le caratteristiche dell’organizzazione del lavoro, fino a trasformare in alcuni casi l’enorme cantiere in grandioso apparato scenografico nel quale si muovono visitatori di rango, preludio alle immagini celebrative della cerimonia di inaugurazione.[14]

La ridefinizione della rete irrigua (e di ciò che questo comporta in termini di dimensione proprietaria, struttura gestionale ecc.) accelera il processo di razionalizzazione e modernizzazione della risicoltura, che si traduce sia nel ridisegno della trama fitta delle risaie sia nella riplasmazione del patrimonio edilizio, avendo sovente come modello  quello della nascente architettura industriale[15], con investimenti che presuppongono una programmazione di lungo periodo, scarsamente influenzata dalla crisi che colpisce il settore nel periodo 1880 -1885, tutta fondata sulla messa a punto di un meccanismo produttivo centrato sulla ottimizzazione di impiego del capitale fisso mentre un assoluto disinteresse è dimostrato nei confronti della forza lavoro.

Il mondo della risaia ormai non è più malarico e infetto, ma certo non riesce ancora a essere (forse non lo sarà mai) tema di esercitazioni bucoliche, né letterarie né iconografiche; non ha il richiamo georgico della campagna asciutta né tanto meno il fascino dei paesaggi alpini popolati di greggi e pastorelle, tanto cari all’iconografia piemontese tra Otto e Novecento: tra pittura e fotografia artistica.

Quando il mondo della risaia prende forma di figure il tema è – da subito – quello delle  condizioni della forza lavoro, protagonista politica delle prime rivendicazioni sindacali e oggetto d’affezione per certa pittura di simpatie più o meno distintamente socialiste: da Morbelli a Pellizza da Volpedo.

“Hai fatto la risaia andando a vederla presso Casale e ritornando poi a casa a lavorare il quadro a memoria hai condotto le figure servendoti di fotografie”[16] rimprovera Pellizza all’amico a proposito della realizzazione del dipinto Per ottanta centesimi[17] in una lettera databile tra 1896 e 1897, dove l’appunto non pare riguardare tanto l’uso della fotografia come modello o come aide-memoire, del resto estremamente diffuso in tutto il XIX secolo[18] e consuetamente praticato da Morbelli, fotografo amatore, quanto una eccessiva adesione all’impianto fotografico, oggi leggibile come tentativo di “sperimentare la validità di un approccio «fotograficamente oggettivo»”, modalità che si ritrova ancora nel successivo dipinto di Morbelli dedicato allo stesso tema: In risaia, 1901, oggi al Museum of Fine Arts di Boston.[19]

Ciò che qui interessa è l’esplicita connotazione sociale dichiarata dal titolo del primo dipinto, a testimonianza della chiave di approccio al tema prima suggerita, e soprattutto il documentato ricorso a riprese fotografiche di risaia, oggi non reperibili, realizzate dallo stesso Morbelli o dal suo amico casalese Francesco Negri, tra i più importanti fotografi italiani di secondo Ottocento, presso il cui archivio forse potrebbe valer la pena di condurre qualche ricerca.[20] Prestando fede all’appunto di Pellizza, e supponendo una forte analogia di impianto con Per ottanta centesimi, noi possiamo ritenere che la ripresa fotografica di riferimento, chiunque ne sia stato l’autore, possa essere considerata la più antica immagine di un gruppo di mondine al lavoro e costituisca  l’elemento di definizione tipologica del modello iconografico di rappresentazione del tema: le   mondine al lavoro riprese di schiena, ricurve, immerse nell’orizzonte lungo dei campi allagati. Strumenti di lavoro ancor prima che persone, negate nella loro identità.

Un analogo gruppo in azione sotto l’occhio vigile del patronato compare anche nella vignetta di testata de “La Risaia. Giornale socialista vercellese” il cui primo numero si pubblica a Vercelli il primo dicembre 1900 per iniziativa di Modesto Cugnolio, promotore anche del successivo “La Monda”, organo della Federazione Regionale Agricola Piemontese, fondato nel 1903. Qui la testata è ornata da una fotografia: è ancora la  dimensione del paesaggio a dominare e connotare l’immagine, col piccolo gruppo di mondariso sperduto nello spazio aperto, certo non protagonista; in contraddizione evidente – per noi, ora – con il programma politico di cui il giornale era portavoce.[21]

La produzione iconografica muta temporaneamente registro, accentuando il ruolo dei lavoratori in occasione delle rivendicazioni sindacali che portano  allo sciopero per le otto ore del 1906, un momento di rottura radicale con le consuetudini antiche delle campagne che vede per la prima volta esplicitamente protagoniste le donne. A Vercelli nella giornata del primo giugno “il corteo dei dimostranti, con le solite bandiere bianche  e rosse, era imponente per numero, essendosi uniti agli scioperanti volontari quelli forzati, frotte di ragazzi e sfaccendati. (…) Verso le ore 10 uscì la truppa, la quale accorse nei pressi dello stabilimento Tarchetti e C. già Locarni, dove erano i dimostranti. Vi fu un sequestro di bandiere subito dopo però restituite. La fanteria fece una carica per sgombrare il passaggio a livello dell’Isola. La massa dei dimostranti, dopo aver atterrato il casotto del dazio, tentò di fermare la truppa rovesciando due carri di ghiaia.”[22]  L’evento e il suo significato devono essere stati dirompenti per la piccola società locale,  ma il corteo riesce comunque ad affascinare, con la sua carica vitale, lo sguardo di un borghese come Andrea Tarchetti, fratello di un grande amministratore terriero[23], che ad esso dedica tre istantanee di grande bellezza ed efficacia (Sciopero), mai pubblicate da alcuna delle riviste fotografiche con le quali collaborava. In quegli anni a Vercelli egli è certamente l’autore più attento al mondo della pianura irrigua[24]; le sue “Scene di vita e di lavoro” delle classi popolari (urbane e rurali) sembrano staccarsi dai modi della rappresentazione più tradizionale per mettere a frutto almeno in parte le possibilità di narrazione, sempre in incerto equilibrio tra verismo e simbolismo, offerte dallo strumento fotografico, mostrando di aver saputo cogliere le suggestioni più vive offerte dalle opere presentate alla grande Esposizione di Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902 e dal dibattito italiano che intorno a queste era nato.[25]

Sette di queste immagini vengono esposte alla Mostra d’arte della campagna irrigua che si tiene a Vercelli tra l’ottobre e il novembre del 1912 in occasione della Esposizione Internazionale di Risicoltura e di Irrigazione, mostra che accosta significativamente opere pittoriche (Follini, Reycend, il già citato Morbelli e altri)[26] e fotografiche, tra le quali  “la magnifica raccolta esposta dall’avv. Andrea Tarchetti di fotografie relative alla coltura, ai costumi agli aspetti poetici della campagna irrigua; a quella meno numerosa ma altrettanto degna di elogio, di fotografie del colore [autocromie] di scene della campagna vercellese, mandate alla mostra dal conte ingegnere Adriano Tournon, figlio dell’illustre generale e senatore.”[27]

Il palese carattere celebrativo dell’Esposizione, fortemente criticata dal foglio socialista “La Risaia”, contrasta con la fase di ulteriori conflitti sociali, qui  solo lontanamente evocati e comunque ‘trasfigurati’ dalle immagini degli autori presenti, semmai orientate alla rappresentazione di un mondo rurale collocato in un orizzonte sociale bloccato.

Specialmente in Tournon[28], che sarà poi Presidente dell’Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia, la morbida suggestione dei colori propria del procedimento messo a punto dai fratelli Lumière pochi anni prima, rimanda alla tradizione pittorica, sebbene la riproposizione insistita del tema delle mondine al lavoro costituisca certamente una novità, almeno per quanto riguarda la produzione fotografica. Ciò che permane immutato nelle immagini sinora considerate, a prescindere dall’autore, dalla tecnica e dalla eventuale utilizzazione, è lo schema iconografico: ciò che assume rilievo è il rapporto tra gruppo – a volte collocato in primo piano – e contesto/ paesaggio. I volti restano nascosti dalla postura o dall’ombra forte dei copricapo: la mondina è ancora invisibile.

Il lavoro di risaia non ha ancora prodotto in questi anni una propria cultura (materiale, linguistica) sedimentata: pur nella sua conduzione arcaica, ancora quasi completamente manuale, è paradossalmente un lavoro moderno. Nei primi decenni del secolo non ha una propria tradizione intrinseca che non sia di lotte e forse per questo risulta il grande assente dall’imponente  repertorio raccolto e ordinato da Paul Scheuermeier nel 1919 -1925.[29]

Le donne e gli uomini della risaia non hanno neppure il loro cantore, nessuno che li celebri in quella stagione della fotografia che si colloca tra pittorialismo e prima etnografia, come accade negli stessi anni con le immagini partecipate dell’Agro Romano che realizzano  Luciano Morpurgo,  Aldo Ravaioli e – un poco più tardi – Adolfo Porry Pastorel.[30]  Nei primi anni Venti le testimonianze fotografiche si limitano a foto di gruppo che conservano intatto lo schema compositivo e prossemico della tradizione ottocentesca del genere[31], fornendo al più indicazioni sulle caratteristiche dell’abbigliamento da lavoro:  ancora fazzoletti e gonne, pochi cappelli di paglia e un solo pantaloncino corto.[32]

Alla fine del decennio si verifica una ulteriore congiuntura sfavorevole per il comparto risicolo, con una rovinosa caduta dei prezzi sul mercato interno dovuta alla concorrenza del prodotto estero, alla quale il Regime risponde con l’istituzione dell’Ente Nazionale Risi (1931) che promuove economicamente il settore favorendo le esportazioni a prezzi sovvenzionati e sostenendo i prezzi interni, anche con campagne promozionali destinate ad aumentarne il consumo alimentare in prospettiva autarchica (malto e “caffèriso”), il tutto inserito nei programmi della “battaglia del grano” (1925), qui da intendersi nella specifica variante colturale riassunta ne “l’aureo assioma del Duce, che: nel problema granario italiano il riso è frumento.”[33] In questo contesto si collocano anche le sperimentazioni genetiche (già avviate dalla Stazione Sperimentale di Risicoltura di Vercelli, istituita nel 1908) e tecnologiche, con la messa a punto di nuovi attrezzi e macchinari, la cui pubblicizzazione costituisce fonte ulteriore di documentazione iconografica del lavoro di risaia: in alcune di queste immagini appare per la prima volta la mondina ripresa singolarmente, anticipando un modello che avrà larga fortuna solo nel secondo dopoguerra, però qui il senso è diverso: non si tratta di raccontare la figura della mondariso, ma di documentare con precisione ad esempio il Trapianto del riso coll’apparecchio “Rosso”, costituito da “una lama di ferro ricurva le cui due estremità terminano in tre grosse punte. (…) Lo scopo di questo apparecchio è quello di agevolare il trapianto nel senso che l’operaia non è costretta ad affondare le piante colle dita, operazione questa che a lungo andare nei terreni duri e sassosi, provoca escoriazioni alle dita che rallentano di molto le operazioni del trapianto.”[34]

In questi anni alcune Congregazioni religiose si dedicano all’assistenza e alla diffusione della stampa cattolica, specialmente in alcune zone risicole come il Pavese: visitano le risaiole sul luogo di lavoro, nei campi o in cascina e gestiscono servizi di ristoro nelle stazioni e mense[35], affiancandosi alle iniziative promosse dal Regime che “nel suo slancio verso il popolo, e con particolare simpatia verso il popolo dei rurali, ha messo il problema su un alto piano di giustizia e di umanità sociale [organizzando] treni confortevoli (…) posti di ristoro nelle stazioni di partenza, di transito e di smistamento (…) appositi modernissimi edifici costruiti dall’Ente Risi [che] ospitano in lieti refettori, ed in ampie e comode camerate, le squadre.”[36] Tra le piccole provvidenze offerte dal “vigile amore” del Regime vi è anche la fornitura dei grandi cappelli di paglia, avviata con successo nel 1938 e documentata da alcune significative immagini quali la fotografia di un Gerarca che passa in rassegna le mondine nella tenuta Sacerdoti di Carpi, tutte allineate in fila parallela all’argine o nella successiva foto di un Gruppo di mondine di Carpi, 1939, entrambe dello Studio  Bandieri, nella quale finalmente la posa concilia gruppo, ambiente di lavoro e individualità.[37] In altre immagini  coeve relative al Vercellese, la composizione, pur non discostandosi dallo stereotipato rapporto figura/sfondo che riduce il racconto della vita di monda alle variazioni sul tema mondine in risaia, assume un tono meno celebrativo, che non cela le fatiche delle condizioni e dei rapporti di lavoro,[38] mentre nella bellissima fotografia del ravennate Alvaro Casadio, Ravenna, lavoro in risaia, 1938,  il senso della ripetitività e della perdita di identità del lavoro di gruppo è affidato al gioco grafico delle ruote di biciclette ribaltate lungo una ‘corda’, orchestrate sulla diagonale dell’immagine secondo i dettami della “nuova visione” fotografica di matrice mitteleuropea.[39]

Altre immagini di quegli anni assumono un tono più documentaristico, assimilabile semmai all’estetica del reportage, a partire ancora da una bella immagine dei  Bandieri, I bagagli delle mondine modenesi, 1938, nella quale un intero mondo di storie di vita e di fatica è narrato per sineddoche col nitidissimo mucchio di poveri bagagli poggiati a terra nel triangolo formato dai corpi acefali delle mondariso in attesa del treno.

Altre immagini di altre partenze si susseguono fino agli anni Cinquanta: donne in attesa cariche di sporte e sacchi, affacciate ai finestrini di terza classe[40] o ammassate al portellone di un carro ferroviario, durante una sosta,  le braccia protese a ricevere generi di conforto, in una fotografia che per composizione e cronologia (1955ca) non può non rimandare alle immagini tragiche di altri convogli umani.[41]

“Tornavo da Parigi dove ero andato a presentare Caccia tragica, aspettavo una coincidenza, ero praticamente da solo, saranno state le due di notte, c’era un’atmosfera da film espressionista. Quando, all’improvviso sento delle voci di donne che cantano. Vado a vedere e trovo due treni fermi, su due binari vicini, con migliaia di donne che mangiavano, ballavano, ridevano, cantavano: erano le mondine in transito verso Vercelli, andavano verso la pianura del riso. Insomma io mi sono messo a parlare con queste ragazze, ho perso il treno, e ho passato la notte con loro. Così comincia Riso amaro.”[42] è il 1949 e l’uscita del film col suo singolare connubio di istanze politiche e neorealiste amalgamate da una forte  “carica di carnalità e di erotismo” (De Santis) che trova nella figura di Silvana Mangano la sua compiuta definizione simbolica, costituisce un punto di non ritorno nella generazione dell’iconografia della mondina e nella sua assunzione nell’immaginario collettivo, specialmente maschile.

Con questo film l’attenzione si sposta dal gruppo alla singola protagonista, dalle mondariso alla mondina, dal lavoro alla figura immediatamente disponibile a essere trasformata in icona nazionalpopolare.[43]

Come è noto dure polemiche accolsero il film di De Santis, il quale nonostante  un “amore per la realtà che rasenta il fanatismo” (Italo Calvino) era rimproverato (da sinistra)  per aver mostrato “le mondine (…) sotto una luce di avventurosa immoralità, che non è proprio di questo lavoro: lavoro sacrosanto e duro”[44] mentre – da parte di esponenti della cultura agraria più conservatrice, come il presidente dell’Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia – lo si accusava di essersi celato “sotto le più strabilianti parvenze di una pretesa artistica di ben nota ispirazione, [per convertire] nelle più assurde e inverosimili scene dello schermo quelle che avrebbero potuto essere invece l’esaltazione di un poema grandioso vissuto in armonia di comun lavoro; (…) al solo fine di raggiungere coll’architettata mistificazione (…) quel fine ben noto che tutt’ora ci accora se pur sdegnosamente obliato con sor… riso veramente amaro.”[45]

Al di là delle polemiche il film contribuì, insieme al successivo La risaia di Raffaello Matarazzo (1955) a porre al centro dell’attenzione la mondina specialmente (ma, progressivamente, non solo) in quanto donna-oggetto del desiderio e quindi protagonista dell’immagine, dando avvio a una cospicua produzione fotografica nella  quale accorto mestiere del fotografo e gratificazione della modella occasionale si incontrano sul piano di un blando erotismo ruspante, che assume l’arcadico mondo rurale nella nascente cultura del fotoromanzo.

Così come nell’iconografia precedente la mondina non era persona né  ancor meno corpo, negazione indiretta ma esplicita delle fatiche e condizioni terribili a cui questo era sottoposto, ora, a partire dai primi anni Cinquanta, accanto a immagini di impianto più tradizionale compaiono con sempre maggiore frequenza fotografie di giovani donne in calzoncini corti e blusa, come quelle che fotografa Enrico Pasquali nei primi anni Cinquanta, quando ritrova quelle stesse donne alle quali da bambino distribuiva l’acqua, in compagnia della madre, nelle campagne intorno a Medicina.[46] Sotto le ampie tese del cappelli volti immancabilmente sorridenti e ammiccanti: “Il sudore gronda dai visi e incolla alle reni le bluse leggere. Eppure la mondina canta” recita l’esergo di un articolo pubblicato sulla rivista “Il Riso”, a marcare il tono complessivo dell’iconografia di questi anni, sostanzialmente simile in pubblicazioni padronali o sindacali; si veda il caso de “Il Lavoro”, settimanale della CGIL edito dal 1948, che più volte dedica la copertina alla mondina, lavoratrice protagonista e quindi figura singola, anche qui con progressivi slittamenti e concessioni all’erotismo di derivazione cinematografica, semmai bilanciato da titoli e didascalie che richiamano la “dura fatica, dura vita”[47]. Un tono analogo si ritrova negli opuscoli informativi dell’ENPI nei quali sono pubblicati “candidi disegnini di mondine che con scarso sforzo ci conducono all’idea di donne-vamp o delle bamboline lenci (…)”,[48] mentre permangono immutati i ritmi di lavoro e le gravi condizioni igienico-sanitarie nelle quali le mondariso sono costrette a vivere, ben documentate sia dai lavori della  Sottocommissione istituita dal Senato nel 1950 sia dalle relazioni presentate al Convegno di studi sulla Risaia promosso dall’Amministrazione Provinciale di Pavia nel 1955, nei cui Atti compaiono anche immagini significative delle patologie dermatologiche che colpivano le mondariso[49], duro contraltare all’iconografia corrente. A queste può essere utilmente affiancata la fotografia della bella mondina modenese ricoverata in ospedale[50], che nello stridente contrasto tra eleganza delle fattezze e dell’acconciatura e condizioni patologiche degli arti inferiori sembra racchiudere in sé dandogli forma efficace di figura, la contraddizione insanabile tra immaginario e realtà.

A queste altre immagini si affiancano negli stessi anni, meno stereotipe, nelle quali il riconoscimento dell’individualità della donna al lavoro, delle condizioni esistenziali della persona pare essere più immediatamente connesso alle conquiste politiche e culturali del secondo dopoguerra: le figure intere, frontali, i primi piani di  volti, lo sguardo diretto in macchina raccontano di una consapevolezza nuova[51], di soggetto culturale e politico, di momenti di vita che non coincidono più solo col lavoro in risaia. Anche in questo il film di De Santis ha avuto un ruolo; fotoreporter e giornali allargano lo sguardo alla vita in cascina, ai momenti di socializzazione: dalla distribuzione del rancio alle occasioni di svago[52], mentre il mondo della risaia, le fatiche e le lotte, divengono soggetto di opere letterarie e pittoriche tutte inserite in quel filone che un poco genericamente si continua a chiamare “neorealismo”.[53]

Nei primi anni Cinquanta l’impiego di manodopera per la stagione di monda, le condizioni di vita e di lavoro in molti centri e cascine non si discostano di molto dalla realtà dell’anteguerra e – per certi versi – addirittura di inizio secolo, mentre incomincia a diffondersi l’uso dei diserbanti, dapprima visto come efficace ausilio alla diminuzione del carico di lavoro, ma ben presto individuato come la causa ultima di un progressivo e radicale calo occupazionale, tanto che le Federazioni sindacali si ritrovano a combattere una battaglia per certi versi di retroguardia, lamentando – ormai nel 1964 – che “buoi e cavalli sono stati sostituiti da trattori e mietitrebbie.”[54]

Mutazioni economiche degli anni del “boom”, conflittualità politica e modificazione dei modelli culturali e sociali, ristrutturazioni aziendali e dei cicli colturali determinano nell’arco di un quindicennio la drastica riduzione della forza lavoro femminile impiegata in risaia, che passa dalle 200.000 unità del 1952 alle 70.000 nel 1960 per giungere a poco più di 14.000 nel 1968. Nell’Italia settentrionale il modello occupazionale vincente, in termini reali e immaginari, è ormai quello urbano del lavoro di fabbrica o nel terziario: le fotografie realizzate in questi anni ci mostrano giovani donne, riunite la sera nelle camerate,  ormai indistinguibili per abbigliamento e abitudini dalle coetanee impiegate in città[55], con abiti e acconciature che guardano al mondo di Sanremo e del Cantagiro.

I gruppi di donne curve nell’acqua melmosa scompaiono progressivamente dai campi e dall’iconografia; se ne trovano ancora solo alcune tracce relitte nella più vieta produzione fotoamatoriale e in certa pubblicistica sindacale, sovente poco attenta all’aggiornamento dei contenuti e delle forme di comunicazione.[56]

La pianura irrigua è divenuta ormai la “fabbrica del riso”.

“L’elicottero è la mondina degli anni Sessanta.”[57]

 

 

 

Note

[1] Alcuni elementi di  riflessione su questo tema sono contenuti in P. Cavanna, Frammenti, incisi, suggestioni intorno alla storia e alle immagini, in  Paola Corti, Chiara Ottaviano, a cura di, Fumne: Storie di donne storie di Biella. Torino: Cliomedia Edizioni, 1999, pp.145-152. Le difficoltà ancora attuali di “fare storia” con la documentazione fotografica sono ben esemplificate dalla recente collana di “Storia fotografica della società italiana” diretta per gli Editori Riuniti da Giovanni De Luna e Diego Mormorio:  nonostante l’aggettivazione del titolo i testi a corredo dei volumetti che la compongono suggeriscono scarse cautele critiche per la lettura dei testi fotografici proposti, del resto pubblicati con una povertà di cura che l’edizione economica non pare sufficiente a giustificare.

[2] Francesco Faeta, Le figure inquiete. Milano: Franco Angeli, 1989, p.20.

[3] Sol Worth, Margaret Mead and the Shift from “Visual Anthropology”  to the “Anthropology of Visual Communication”  (presented at a symposium honoring Margaret Mead, American Association for the Advancement of Science, 1976), ” Studies in Visual Communication”,  6 (1980), pp. 15-22, citato in Paolo Chiozzi, Storia, antropologia, fotografia,  “AFT. Rivista di Storia e Fotografia”, 5 (1989), n.10, dicembre, pp.46-51 (p.50).

[4] A queste considerazioni altre vanno aggiunte, specialmente pertinenti ai primi esiti qui presentati. Essi sono il frutto di un’indagine condotta a campione e utilizzando prevalentemente fonti edite, operando generalizzazioni che tengono conto solo parzialmente ad esempio delle eventuali differenze regionali o delle caratteristiche editoriali delle fonti a stampa che nel corso del Novecento hanno pubblicato materiale fotografico comunque connesso al ciclo di coltivazione del riso. Un discorso a parte inoltre andrà fatto (in altra occasione) per la fortuna fotografica del tema del paesaggio della risaia.

[5] Arturo Carlo Quintavalle, Il lavoro e la fotografia, in Aris Accornero , Uliano Lucas , Giulio  Sapelli   a cura di,  Storia fotografica del lavoro in Italia 1900-1980. Bari: De Donato, 1981, pp. 311-333, ora in A. C. Quintavalle, Messa a fuoco. Studi sulla fotografia. Milano: Feltrinelli, 1983, pp.53-92; Cesare Colombo, La fabbrica di immagini. Firenze: Alinari, 1988; Angelo Bendotti, Eugenia Valtulina, a cura di, Uomini, macchine, lavoro. Immagini fotografiche dalla fine Ottocento agli anni Cinquanta. Bergamo: CGIL, IBSML, 1989; Cento anni di lavoro. CGIL Modena Immagini per la storia del Movimento Operaio,catalogo della mostra (Modena, Palazzo Comunale,  27 aprile-23 giugno 1991), a cura di Claudio Silingardi. Milano: Mazzotta, 1991; Cent’anni a Venezia. La Camera del Lavoro 1892-1992.  Venezia: Il Cardo, 1992.

[6] Cfr. Un viaggio fra mito e realtà: Giorgio Sommer fotografo in Italia: 1857-1891. catalogo della mostra (München, Fotomuseum im Münchner Stadtmuseum, 11 settembre-8 novembre 1992; Roma, Palazzo Braschi, 5 dicembre 1992-10 gennaio 1993) a cura di Marina Miraglia, Pino Piantanida, Ulrich Pohlmann, Dietmar Siegert. Roma: Carte Segrete, 1992; Marina Miraglia, Cesare Vasari e il “genere” nella fotografia napoletana dell’Ottocento, “Bollettino d’Arte”, serie 6, 70 (1985), n. 33-34, pp. 199-206. 

[7] Si veda l’attenta ricostruzione di un esempio biellese di trasformazione dell’immagine del lavoro da documento a stereotipo condotta da Rita Vineis, Rappresentazioni del lavoro femminile tra Ottocento e Novecento. Un’esperienza di ricerca, in Corti, Ottaviano, Fumne, op. cit., pp.177-187.

[8] Numerosi ormai sono gli esempi pubblicati ai quali è possibile fare riferimento, specialmente nei tanti volumi prodotti da Pro Loco e associazioni o cultori di storia locale, troppo sovente intesi quale occasione per celebrare dubbi revival nostalgici, volumi che nella migliore delle ipotesi possono servire ad ampliare il repertorio delle immagini note, ma certamente non a salvarle dall’oblio. Troppo sovente infatti la fase di ricognizione e raccolta è finalizzata alla semplice pubblicazione, non accompagnata da interventi tanto semplici quanto efficaci quali la catalogazione, la registrazione dei prestatori e la duplicazione delle immagini a futura memoria, e la costituzione di un nucleo per quanto minuto di archivio fotografico locale, magari collegato alla Biblioteca Civica o all’Archivio Comunale, con la conseguenza di garantire solo una fugace apparizione di questo ricchissimo patrimonio, comunque sottoposto a rischio di dispersione.

[9] Lello Mazzacane, Visual Anthropology ed etnofotografia,  “Fotologia”, 5 (1988), n.9, maggio, pp.78-81, (p.80).

[10] Sul concetto di traccia fotografica come indizio e come indice (semiotico) si veda Philippe Dubois, L’atto fotografico. Urbino: Edizioni QuattroVenti, 1996,  da porre in relazione alle sempre affascinanti riflessioni di Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia.  Torino, Einaudi: 1980: “La Fotografia non dice (per forza) ciò che non è più, ma soltanto e sicuramente ciò che è stato. (…) E’ una profezia alla rovescia: come Cassandra, ma con gli occhi fissi sul passato, essa non mente mai: o piuttosto: essendo per natura tendenziosa,  può mentire sul senso della cosa, ma mai sulla sua esistenza.  (…) Facendo della Fotografia, mortale, il testimone principale e come naturale di «ciò che è stato», la società moderna ha rinunciato al Monumento. Paradosso: lo stesso secolo ha inventato la Storia e la Fotografia.” (pp.86-94, corsivi dell’autore).

[11] Significative risultano a questo proposito le copertine di  “Lavoro. settimanale dei lavoratori italiani” (poi “settimanale della C.G.I.L.”) dedicate alle donne lavoratrici e in particolare alle mondine nel decennio 1951-1960, pubblicate nella “Appendice fotografica” in Simona Lunadei, Lucia Motti,  Maria  Luisa Righi, è brava, ma… Donne nella CGIL 1944-1962.  Roma: Ediesse, 1999, pp.529-573.

[12] L’Associazione d’Irrigazione dell’Agro Ovest-Sesia in Vercelli. Cenni storici, Ordinamento amministrativo e tecnico. Vercelli: G. Lignetti, 1930; AIOS, La celebrazione del primo centenario 1853 – 1953. Vercelli: Tip. “La Sesia”, 1953. 

[13] Una prima ipotesi di realizzazione di un canale di derivazione delle acque del Po per irrigare la Lomellina e il basso Novarese venne formulata nel 1842 da Francesco Rossi, agrimensore e agente generale della famiglia Cavour nella tenuta di Leri (Trino). Lo stesso Camillo Cavour ne affidava il progetto di fattibilità all’ing. Carlo Noè nel 1852, ma solo nel 1862  dopo la morte del promotore vennero reperiti i capitali, inglesi e francesi, per la realizzazione dell’opera, avviata nel 1863 per iniziativa di Quintino Sella e compiuta nel 1866 senza che  venissero realizzati i canali sussidiari, ciò che condusse al fallimento della società concessionaria e al successivo riscatto del canale da parte dello stato. Cfr. Romeo Piacco, Il Canale Cavour,  “Risicoltura”,   13 (1950), nn.4,5,7, , consultato in estratto, e i diversi saggi  compresi ne Gli assetti del territorio: il Canale Cavour, “Padania”, 4 (1992), n.12.

[14] All’Album Vialardi, conservato presso l’AIOS di Vercelli devono infatti essere affiancate le immagini dei Fratelli Bernieri di Torino e del fotografo novarese Felice Tarantola conservate presso l’Archivio Storico dei Canali Cavour di Novara (ASCC) e in alcune collezioni private. Di fatto però le fotografie di Vialardi divennero le immagini ufficiale della grande impresa, diffuse anche sotto forma di piccole stampe montate in serie su di un unico supporto (Biella, Biblioteca Civica, Archivio Fotografico), corredate di mappe relative al tracciato del canale. Undici di queste immagini vennero inviate all’Esposizione di Dublino del 1865, cfr. ASCC, Novara, Libro Mastro A, f.170, 27 aprile 1865. Nel 1884 Oreste Canavotto, impiegato dell’Amministrazione dei Canali Demaniali, realizzerà l’album Amministrazione dei canali Demaniali d’irrigazione Canale Cavour. Riproduzioni fotografiche e disegni delle opere più importanti dei Canali derivati dal Po, dalla Dora Baltea e dal Sesia, oggi conservato presso l’Associazione Irrigazione Est Sesia, Novara, mentre nell’ASCC  è conservata un’altra serie, anonima, di immagini relative al Canale Cavour e ai principali rami della rete irrigua vercellese, non datate ma verosimilmente riferibili alla realizzazione della mostra Vercelli e la sua Provincia dalla Romanità al Fascismo, realizzata nel 1939 a Vercelli nelle sale del Museo Leone appositamente riallestito da Augusto Cavallari Murat, per la cura di Vittorio Viale, direttore dei Musei Civici di Torino ma di origine trinese e già direttore dei musei vercellesi.

[15] P. Cavanna, Due secoli di trasformazioni nella zona delle grange di Lucedio. Trino: Circolo Culturale Trinese, 1991.

[16] Citato in Luciano Caramel, Angelo Morbelli: le ragioni del vero e quelle della pittura, in Angelo Morbelli, catalogo della mostra  ( Alessandria, Palazzo Cuttica, aprile – maggio  1982), a cura di L. Caramel.  Milano: Mazzotta, 1982, pp.9-20. I rapporti Morbelli – fotografia sono stati analizzati nella stessa occasione da  Marisa Vescovo, Ombre e luci come grafia e mimesi del reale,  ibidem, pp. 21 – 32.  Va ricordato inoltre che il figlio di Morbelli, Alfredo, eserciterà la professione di fotografo a Varese nel periodo 1920-1940 senza però avvicinarsi se non tangenzialmente ai temi di matrice verista affrontati dal padre; cfr. Morbelli Angelo & Morbelli Alfredo, catalogo della mostra (Masnago e Casale Monferrato, giugno luglio 1995), a cura di Giovanni Anzani e Filippo Maggia.  Varese:  Lativa, 1995.

[17] Vercelli, Museo Borgogna, firmato e datato Morbelli 1895;  il dipinto venne esposto alla Prima Biennale di Venezia nello stesso anno e presentato, tra le altre, anche alla Esposizione di Risicoltura e di Irrigazione di Vercelli del 1912, cfr. Aurora Scotti, Angelo Morbelli. Soncino: Edizioni dei Soncino, 1991, p.76 anche per una presentazione analitica del dipinto. Significativamente il titolo viene modificato nel più innocuo Le risaiole nella prolusione tenuta dal presidente Giuseppe Borsarelli nel 1954 in occasione delle celebrazione del centenario dell’Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia quando, lamentando di non conoscere “opera pittorica (…) dalla quale risulti la grandiosa odierna imponenza della terra vercellese in pieno fervore di agricola attività”, ricorda il dipinto di Morbelli come “unica opera d’arte che sa donarci, con esasperata applicazione del divisionismo, il vibrare della luce e dell’atmosfera sui vasti specchi della risaia assolata”, opportunamente dimenticando il significato sociale del titolo originario; cfr. AIOS, La celebrazione,  pp. 23-39.

[18] Della ormai amplissima bibliografia relativa ai rapporti tra la fotografie e le altre forme d’arte si vedano almeno Combattimento per un’immagine: Fotografi e pittori, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’arte moderna e contemporanea, marzo-aprile 1973) a cura di Luigi Carluccio, Daniela Palazzoli. Torino: Associazione Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea, 1973; Aaron Scharf, Arte e fotografia. Torino: Einaudi, 1979;  Peter Galassi, Prima della fotografia: la pittura e l’invenzione della fotografia. Torino: Bollati Boringhieri, 1989; Heinrich Schwarz, Arte e fotografia: Precursori e influenze, a cura di Paolo Costantini. Torino: Bollati Boringhieri, 1992; Silvia Bordini, Aspetti del rapporto pittura-fotografia nel secondo Ottocento, in Enrico Castelnuovo, a cura di, La pittura in Italia: L’Ottocento, vol. 2. Milano: Electa, 1990 pp. 581-601; Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento: Una storia senza combattimento. Milano: Bruno Mondadori, 1999; The Artist and the Camera:  Degas to Picasso, catalogo della mostra (San Francisco – Dallas – Bilbao, 1999-2000), a cura di Dorothy Kosinski. Dallas: Dallas Museum of Art, 1999.

[19] Scotti, Angelo Morbelli, op. cit.,  p.82.

[20] Sulla figura e l’opera di Negri cfr. Cesare Colombo, a cura di, Francesco Negri fotografo a Casale 1841-1924.  Milano-Bergamo: CIFe Cooperativa Il Libro Fotografico, 1969; P. Cavanna, Francesco Negri e la Biblioteca Civica di Casale Monferrato,  “AFT”, a7 (1991), n.14, dicembre, pp.57-63.

[21] Cfr. Francesco Rigazio, Il movimento socialista nel Vercellese dalle origini al 1922.  San Germano Vercellese: Circolo Modesto Cugnolio, 1993.

[22] Da un articolo del giornale padronale vercellese “La Sesia”, citato in Adolfo Fiorani, Se otto ore vi sembran poche… Vercelli: Comune di Vercelli, 1976, pp.17-18.

[23] Il fratello Giovanni era agente dei Savoia-Aosta nella tenuta di Vettignè, presso Santhià (VC).

[24] Andrea Tarchetti, notaio: Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, Auditorium di Santa Chiara, gennaio-febbraio 1990) a cura di P. Cavanna, Domenico Vetrò. Vercelli: Assessorato alla Cultura, 1990. Le interpretazioni del paesaggio di risaia sono poi ulteriormente mediate – in caso di pubblicazione – dai titoli redazionali  assegnati: così una stessa immagine del 1909 compare come Quiete campestre sulle pagine del milanese “Il Progresso Fotografico” per assumere quello più rarefatto e astratto di Nuages et rizières nella torinese e aristocratica “La Fotografia Artistica”.

[25] Cfr. Paolo Costantini, L’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica. In Torino 1902: Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, 23 settembre 1994-22 gennaio 1995) a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179.

[26] Esposizione Internazionale di Risicoltura e di Irrigazione – Mostra d’arte della campagna irrigua. catalogo delle opere esposte. Vercelli: Gallardi e Ugo, s.d. [1912].

[27] Anonimo, La Mostra d’arte della campagna irrigua,  “La Sesia”, 42 (1912), 22 ottobre.

[28] Questa serie di riprese costituisce per Tournon, autore anche del saggio Il problema del riso. Roma:  Provveditorato generale dello Stato, 1928,  un exploit eccezionale, egli infatti non ne realizzerà altre dopo il 1911, cfr. Claudia Cassio, ad vocem, in Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990, p.426, tavv.211-216. L’approccio di Tarchetti e Tournon risulta lontano dall’analiticità dell’indagine, non solo fotografica, condotta da Vittorio Sella e Domenico Vallino in contesto alpino, cfr. P. Cavanna,  La montagna abitata di Domenico Vallino,  “Rivista Biellese”, 3 (1999), n.1, gennaio, pp.51-58.

[29] Alle prime campagne condotte in questo periodo fecero seguito alcune riprese nel 1928 e poi ancora nel 1930-1935, anni in cui fu accompagnato da Paul Boesch, autore dei disegni che corredano l’edizione del 1943, mentre le fotografie come è noto sono dello stesso studioso, cfr. Paul Scheuermeier, Bauernwerk in Italien der italienischen und rätoromanischen Schwiez. Erlenbach – Zürich: Eugen Rentsch Verlag, 1943 (ed italiana,  Il lavoro dei contadini. Milano:  Longanesi, 1980; Marina Miraglia, a cura di, Fotografia e ricerca sul lavoro contadino in Italia 1919-1935. Milano: Longanesi, 1981.  Nella  fondamentale disamina di Scheuermeier il ciclo di coltivazione del riso non è preso in considerazione, neppure nel capitolo dedicato all’irrigazione.  Non è stato possibile in questa occasione consultare l’importante archivio di immagini realizzate da Ugo Pellis, a sua volta in contatto con lo studioso svizzero, realizzate nel 1925-1942 nel corso delle inchieste per la realizzazione dell’Atlante Linguistico Italiano, cfr. Voci e immagini. Ugo Pellis linguista e fotografo, catalogo della mostra (Lestans, 1999), a cura di Gianfranco Ellero, Italo Zannier. Milano: Federico Motta – CRAF, 1999.

[30] Cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante”, in C. Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp.121-122, tavv.171-172, 379-380.

[31] Guardare la storia. Immagini di Pavia e della sua provincia 1915/1945,  “Annali di storia pavese”, n.12-13, giugno 1986, p.210, n.5: Anonimo, Cascina Boragno Lomello (Valle Lomellina), Mondine di Mantova che lavorano nelle risaie lomelline, 1920.

[32] Anonimo, Gruppo di mondine in posa sul traghetto di Pontestura, 1932, Trino, Biblioteca Civica , Archivio Fotografico.

[33] Vercelli e la sua provincia dalla romanità al fascismo, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Leone, 1939), a cura di Vittorio Viale.  Vercelli: Federazione dei Fasci di Combattimento, 1939. p.92.

[34] Riccardo Chiappelli, Il riso. Pratiche colturali, “Quaderni della Stazione Sperimentale di Risicoltura – Vercelli”, 9 (1939), n.19, aprile, pp.156-157, sottolineatura nostra.  Documentazione analoga è reperibile in altre pubblicazioni dello stesso ente, in testi analoghi quali Romeo Piacco, Il riso. Torino:  Società Editrice Internazionale, 1942, ma anche nelle immagini pubblicate in Guardare la storiaop. cit., pp.319-320.

[35] Guardare la storiaop. cit., pp.451-454.

[36] Viale, Vercelli e la sua provincia, op. cit., pp. 96-97.

[37]  Cento anni di lavoro,  op. cit., pp.113-114.

[38]Anonimo, Di buon mattino le mondine sono già al lavoro; Anonimo, Mondina durante il trapianto, Torino, Archivio “La Stampa”, entrambe con data di pubblicazione 6 giugno 1937, e ancora, nello stesso archivio,  Anonimo, Gruppo di mondine al lavoro, 19 giugno 1938, in cui oltre alla novità dei grandi cappelli di paglia, compare al centro dell’immagine la figura della giovane mondariso in piedi, mentre osserva il fotografo.

[39] Pubblicata in Italo Zannier, a cura di, Segni di Luce. III. La fotografia italiana contemporanea. Ravenna: Longo Editore, 1993, p.73.  Non si distacca invece dalla più consolidata tradizione (da Morbelli a Tournon e oltre) la ripresa di Bruno Stefani, Raccolta del riso in Lombardia, s.d. [1940ca], pubblicata in Storia fotografica del lavoro in Italia, op. cit., p.166.

[40] Anonimo, Vercelli, partenza delle mondine, 1950ca, Torino, Archivio “La Stampa”.

[41] Anonimo, Mondine assistite a un posto di ristoro durante il viaggio verso le zone di impiego, in Amministrazione Provinciale di Pavia, Atti del Convegno di studi sulla risaia (Pavia, ottobre 1955). Milano:  Alfieri & Lacroix, 1956, f.t.

[42]  L’arte della profondità. Conversazione con Giuseppe De Santis, in Sergio  Toffetti, a cura di, Rosso fuoco. Il cinema di Giuseppe De Santis.  Torino: Museo Nazionale del Cinema – Lindau, 1996, pp.17-53 (p.40). A proposito del recente, meritorio restauro di questa pellicola si  veda  Giorgio Simonelli, Guido Michelone, Riso amaro. La storia, il cinema, il restauro. Alessandria: Edizioni Falsopiano, 1999.

[43]  “La Mangano in Riso amaro l’ha inventata Martelli [direttore della fotografia], nella realtà non era come la crea lui, aspettavamo delle ore perché le andasse via qualche macchia sul viso o la pelle d’oca sulle gambe, stavamo attenti a non girare in certe ore per controllare meglio le ombre, insomma, l’abbiamo curata molto.”, L’arte della profondità, op. cit., p.45. A questa costruzione iconica non contribuì invece il reportage di Robert Capa, interessato non al  soggetto ma al film, di cui documenta la lavorazione per circa dieci giorni, cfr. Anna Gobbi, Come abbiamo lavorato per «Riso amaro», Cinema , 14 (1949), n.8, 15 febbraio, ora in Toffetti, Rosso fuocoop. cit., pp.201-207.

[44] Giuseppina Palumbo, Riso amaro, intervento pronunciato al Senato nella seduta del 17 maggio 1951, ora in Irea Gualandi, Mondine tra cronaca, storia e testimonianze.  Roma: Ediesse, 1984, pp.131-140.

[45] Borsarelli, in La celebrazione del primo centenarioop. cit., p.27.

[46] Cfr. Enrico Pasquali, Il Po si racconta, in Invitation au voyage, catalogo della mostra (Napoli, 1993), a cura di Ennery Taramelli, Claude  Nori. Roma: Carte Segrete, 1993, pp.122-127. 

[47] Cfr. l’Appendice fotografica in Lunadei, Motti, Righi, è brava, ma, op. cit., pp.529-573.  Altre realizzazioni fotografiche coeve legate alla risaia non affrontano il tema delle mondine, ma piuttosto quello del paesaggio: è il caso della cartella di stampe ricavate da originali al bromolio commissionata dall’AIOS a Domenico Riccardo Peretti Griva sempre in occasione delle celebrazioni del centenario dell’Associazione, con una presentazione di Adriano Tournon, mentre sulle pagine della rivista “Il Riso” negli stessi anni compaiono belle immagini, sempre anonime, di attrezzi di lavoro o di presentazione del prodotto che risentono di una cultura fotografica eclettica, in bilico tra Tina Modotti e le più moderne esperienze della “Subjektive Fotografie”.

[48] Carlo Fermariello, segretario della Federbraccianti Nazionale, intervento al “Convegno di studi sulla risaia”, ottobre 1955, in Amministrazione Provinciale di Pavia, Atti,  op. cit., pp.128-132.

[49] Ibidem, f.t.

[50] Anonimo, Conseguenze del lavoro di mondariso, s.d. [1955ca], Modena, Archivio Cgil, in Cento anni di lavoro, op. cit., p.167.

[51]  Si vedano a titolo di esempio: Anonimo, Una mondina finalese in partenza per la risaia con il figlio, s.d. [1955ca], Modena, Archivio Cgil, ibidem, p.166; Anonimo, Ritratto di mondina con la sigaretta in mano,  s.d. [1955ca], in Pietro Cerutti, Enrico Villa, a cura di, Scriviamo un libro insieme, III. Vercelli: Cassa di Risparmio di Vercelli, 1984, p.105.

[52] Publifoto, Mondine durante la distribuzione del rancio  nel Vercellese, 27 giugno 1951, Torino, Archivio “La Stampa”.

[53] Roberta Viganò pubblica Mondine.  Modena: Arti Grafiche Modenesi, 1952, dedicato alla memoria e alla figura di Maria Margotti, mondina di Filo d’Argenta uccisa da un carabiniere nel 1949, alla quale sono state dedicate opere di Renato Guttuso e Gabriele Mucchi, ma molti altri artisti in quegli anni si accostano con partecipazione un poco idealistica a questa realtà; cfr. Arte e mondo contadino, catalogo della mostra (Torino – Matera, 1980), a cura di Mario De Micheli. Milano: Vangelista, 1980. Nel 1953 l’Ente Nazionale Risi realizza a scopo di propaganda registrazioni di cori di mondine a Veneria di Lignana, nella stessa azienda in cui era stato girato Riso amaro. Per una rassegna esaustiva delle registrazioni di canti delle mondine piemontesi cfr. le indicazioni e i riferimenti contenuti in Roberto Leydi, Materiali per una discografia e nastrografia della musica popolare in Piemonte e Valle d’Aosta, in Archivi sonori, Atti dei seminari ( Vercelli, 1993; Bologna 1994; Milano, 1995). Roma: Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1999, pp.89-123.

[54] Federbraccianti Provinciale di Vercelli, Documento n.1. Vercelli: Stamperia Vercellese, 1964, p.7.

[55] Foto Moisio, Mondine che si preparano per la festa, 13 giugno 1963, Torino, Archivio “La Stampa”.

[56] Il quadro nazionale è stato illustrato da Carlo Cerchioli, Sindacato e fotografia, in Il lavoro della Confederazione. Immagini per la storia del sindacato e del movimento operaio in Italia 1906-1986.  Milano: Mazzotta, 1988.

[57] Federbraccianti Provinciale di Vercelli, Documento n.4.  Vercelli: Stamperia Vercellese, 1967, copertina; Id., Documento n.1,  p.6.

Tornare a Ranverso (2000)

in Walter Canavesio, a cura di, Jaquerio e le arti del suo tempo.  Torino:  Regione Piemonte – Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 2000, pp.  111 – 133

 

 

“Jaquerio si conosce andando  a Ranverso”, ricordava Andreina Griseri nel ricostruire le vicende della fortuna critica del pittore[1], poiché proprio in quel luogo si era compiuta la scoperta dell’autografia delle opere mentre se ne forniva per la prima volta la conferma fotografica[2];  esito piuttosto che avvio delle campagne di documentazione della produzione pittorica del tardogotico piemontese, risultato non occasionale di una collaborazione tra studiosi e fotografi che era andata maturando a partire dagli stessi giorni in cui la nuova tecnica di produzione e riproduzione d’immagini aveva fatto la sua sconvolgente comparsa sul finire del quarto decennio dell’Ottocento, quando alle prime entusiastiche previsioni avevano fatto seguito considerazioni più attente e specifiche, che affrontavano  nel merito l’effettiva possibilità (almeno tecnica) di documentare correttamente le opere d’arte ed i dipinti in particolare.

Già il “Messaggere Torinese” del 23 febbraio 1839 aveva individuato uno dei temi che saranno poi cari a molta pubblicistica ottocentesca, ipotizzando che “il dagherrotipo (…) renderà comuni le più belle opere d’arte di cui non si hanno che copie a caro prezzo e infedeli”[3], e ancora nell’ottobre dello stesso anno Felice Romani aveva ricordato dalle pagine della “Gazzetta Piemontese” che “già si pensa a poter  riprodurre gli oggetti non solo colle loro forme e coi loro rilievi, ma eziandio coi loro colori”[4].  Nel novembre successivo però il fisico Macedoni Melloni, presentando alla Regia Accademia delle Scienze di  Napoli la sua Relazione intorno al Dagherrotipo[5], primo esempio italiano di analisi lucida e scientificamente attrezzata del fenomeno, a fronte della speranza espressa da molti di “ottenere sulle lamine dagherriane, se non i vivi e svariati colori che ci presentano la natura e il genio delle arti, almeno le loro traduzioni esatte in chiaroscuro” affermava: “Ci duole l’animo di non poter confermarli in codeste lusinghe (…) No, gli oggetti colorati non possono rappresentarsi esattamente a chiaroscuro sulle lamine del Dagherrotipo (…) Dunque la copia riprodurrà gli effetti di chiaroscuro dell’originale, in quei casi soltanto, ov’essi derivano da una tinta o colorazione, presso a poco, omogenea in ogni  punto del quadro. Stando alle cognizioni sinora acquistate, par certamente improbabilissimo che si giunga ad ottenere la stessa azion chimica dai colori superiori e inferiori dello spettro solare: tuttavia non intendiamo negare con ciò la possibilità d’imitare un giorno coi processi fotografici il chiaroscuro risultante da varie colorazioni riunite in un sol quadro; e fors’anche, gli stessi colori.” La discussione del problema, almeno in Italia  pare per lungo tempo limitarsi ai soli aspetti tecnici, tanto che  le successive messe a punto dei procedimenti all’albumina e al collodio sono considerate progressivamente risolutive e in alcune rassegne dedicate alle sue applicazioni si riconosce che “felicemente oggi la riproduzione della pittura è uno de’ migliori attributi della fotografia”[6], dimostrando non tanto una scarsa conoscenza dei processi fotografici quanto una ormai acquisita insensibilità ai problemi posti dalla trascrizione dell’opera, propria di una cultura che si avvia a dimenticare il significato di traduzione per adottare progressivamente quello di riproduzione e poi di copia, in un  processo di slittamento semantico che corrisponde ad una sostanziale perdita di comprensione critica, certo in parte dovuta alla concezione positivistica del processo fotografico quale generatore di immagini obiettive, per definizione fedeli  e in quanto tali preferibili alle modificazioni introdotte dal lavoro dell’incisore: “Les reproductions de tableaux sont devenues des notes indispensables à ceux qui collectionnent l’oeuvre d’un maître – afferma Philippe Burty nel 1861- elles traduisent mot à mot ce que le burin (…) modifie toujours”[7], mentre alcuni anni più tardi, nel 1876,  Hermann Vogel riconosce ancora il maggior valore, almeno  artistico, dell’incisione di  traduzione, poiché la fotografia è sì in grado di fornire riproduzioni fedeli delle opere d’arte ma “cette reproduction n’est pas aussi artistique que celle donnée par la gravure (…) elle suffit pour faire rapidement connaître partout ce qui est nouveau. La gravure vien ensuite et conserve sa valeur” , per proseguire quindi, in una ingenua commistione di presunta oggettività ed effettiva manipolazione dell’immagine, ricordando che “les négatifs d’apres peinture à l’huile exigent la collaboration du retoucheur chargé de répartir entre les tons photographiques les proportions faussées par l’effet inégal des couleurs. Cette retouche peut être mal faite, si elle est exécutée par une main  inexperimentée. La plus habile est celle de l’artiste qui a peint l’original. Dèjà des peintres connus se sont essayés avec succès à la retouche…”[8]. Sono le stesse difficoltà a cui aveva fatto cenno Paul Liesegang nel 1864: “Trattandosi di quadri ed in particolare di quadri ad olio, s’incontrano spesso gravi difficoltà per ottenere un complesso armonioso”[9], e ancora all’inizio del nuovo secolo Paul N. Hasluck confermava che “i quadri riprodotti con lastre ordinarie vengono da queste talmente falsati, che il risultato merita decisamente la qualifica di pessimo  [ragione per cui] vanno riprodotti con lastre ortocromatiche combinate col filtro.”[10]

Come si è detto, ancora a questa data il problema sembra essere circoscritto alle sole questioni  tecniche; non si pongono esplicitamente questioni di ordine critico, linguistico: ciò a cui si tende è lo statuto della duplicazione perfetta[11] e la migliorata resa dei valori cromatici derivante dall’aggiunta di sensibilizzatori ottici alle emulsioni porta autorevoli studiosi a sottolineare acriticamente l’enorme valore assunto dalla fotografia nello studio della storia dell’arte. Così Adolfo Venturi nella Premessa al Catalogo 1887 della casa editrice fotografica Adolphe Braun riconosce come “inventata la fotografia, la critica fece un gran passo, allora furono resi possibili i riscontri diretti tra l’una e l’altra opera di un autore, e il metodo si fece più corretto, più fino e sicuro. Mentre tutte le discipline umane delle scienze naturali imparavano il rigore del metodo, anche la storia dell’arte si rinnovò in gran parte mercè il suo nuovo strumento di osservazione”[12], dichiarando una aspirazione allo statuto scientifico della nuova disciplina che ritroviamo circa negli stessi anni anche in Bernard Berenson per il quale  “When this continous study of originals is supplemented by isochromatic photographs, such comparision attains almost the accuracy of the physical science”[13], dimostrandosi lontano da alcune isolate, autorevoli posizioni come quella di Heinrich Wölfflin, ma in perfetta sintonia con le preoccupazioni delle maggiori case fotografiche che per adeguarsi ai continui e radicali avanzamenti tecnologici erano portate a rinnovare temi e soggetti già presenti in catalogo.[14]

Ciò che affascina e interessa è insomma la pura, e presunta, capacità tecnologica di duplicazione del reale e proprio su questa si misurano le prime iniziative, anche piemontesi, legate a questo particolare campo di applicazione della fotografia che in Italia a partire dalla metà del XIX secolo poteva ormai contare su imprese fotografiche di sempre maggiore rilevanza, dagli Alinari a Sommer.

Nella nostra regione le prime realizzazioni non sporadiche datano a partire dagli anni ‘60 con l’ampio repertorio di riproduzioni di disegni italiani raccolto  dal biellese Vittorio Besso a partire dal 1868, al quale si deve anche la documentazione di quei “capolavori di pittura e d’architettura che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario”[15] di cui riferisce un articolo della “Gazzetta Biellese” del 1865, ma particolarmente significativa è la comparsa delle prime riproduzioni fotografiche di dipinti comprese nell’Album della Promotrice di Belle Arti di Torino del 1863: sei albumine realizzate da Francesco Maria Chiapella.[16] Nonostante le riserve legate alla meccanicità del procedimento, che ne escludeva l’artisticità,  ed alla non eccellente qualità di stampa di alcuni esemplari, questo “album con magnifiche fotografie” viene considerato una “bella novità” ripresa ancora negli anni successivi, dopo l’interruzione del 1864, affidando l’incarico ad alcuni dei più noti fotografi torinesi quali Luigi Montabone, Alberto Luigi Vialardi, Fotografia Subalpina e Cesare Bernieri, che si era già distinto nel 1866 con un album fotografico dedicato a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato.[17]

La fotografia di opere d’arte quindi muove in Piemonte i suoi primi passi rivolgendosi specialmente al contemporaneo, intesa a sostituire i processi di stampa calcografica e litografica quale mezzo più rapido ed economico, piuttosto che  proporsi o essere utilizzata quale strumento di documentazione e di studio del patrimonio storico artistico[18].  Perché questo percorso si compia debbono giungere a maturazione le riflessioni e le esperienze, i contatti tra cultura artistica e fotografica che prendono forma non tanto col rapporto tra Bernieri e le opere neomedievali di gusto troubadour di Massimo d’Azeglio[19] quanto con Carlo Felice Biscarra ed ancor più con Federico Pastoris che vedeva nella fotografia un efficace strumento ausiliario alla sua aspirazione verista, quella stessa che gli “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[20] Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile le prime applicazioni – pur non sistematiche[21] – della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico piemontese che ancora alla fine del secolo si giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[22], riproponendo tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra”[23] e la cui infondatezza era stata tradotta in evidenza espositiva dalla realizzazione del Borgo Medievale nel 1884, con “una ricchezza e una varietà che i sussidi grafici e fotografici non avevano ancora potuto dare e in cui erano compresi i più illustri esempi della pittura e della scultura tardomedievale piemontese, che non erano stati oggetto, ancorché di riproduzione, nemmeno di studio.”[24] Intorno  e ancor di più in conseguenza di  questa realizzazione[25] operarono sia fotografi professionisti come Vittorio Ecclesia, che lavora tra l’altro a Fenis senza però dedicare agli affreschi del castello quella attenzione minuziosa con cui leggerà nello stesso periodo i cicli di Issogne, sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[26], che sarà per lungo tempo collaboratore di D’Andrade, al quale si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione dello studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[27]

Esemplari in questo senso sono le fotografie realizzate da Nigra in San Bernardino a Lusernetta nel 1885 e quelle fatte nella primavera del 1887 nella chiesa di San Pietro ad Avigliana, a Ranverso e verosimilmente anche in San Pietro a Pianezza[28], qualitativamente non eccelse e con scarsa attenzione per una illuminazione ottimale degli affreschi, poco più che appunti visivi su cui condurre successivamente gli studi, mentre le immagini realizzate nei decenni successivi, almeno fino agli anni Trenta, dimostrano un più maturo controllo della strumentazione ed il ricorso sapiente a lastre di maggiore formato.

Anche per Nigra, come già era stato per il “verista” Pastoris interpretato da Stella ma seguendo forse un percorso inverso,  “la conoscenza della storia dei monumenti antichi contribuisce ad aumentare la suggestione che ne emana ed a completare il godimento del loro valore estetico, facendo nello stesso tempo meglio comprendere lo spirito dei tempi”[29] e l’inevitabile oggettività fotografica diviene strumento insostituibile di questo progetto culturale.

Accanto a Nigra e, in misura minore,  ad Ottavio Germano[30] la figura più rilevante è però quella di Secondo Pia[31], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione. La cronologia delle sue campagne è relativamente ben nota, ma certo l’attuale campagna di catalogazione condotta sul Fondo donato dal figlio Giuseppe al Museo Nazionale del Cinema consentirà in futuro di definirne meglio l’operato e forse anche di correggere la datazione di alcune riprese, in alcuni casi  stabilita da Pia molti anni dopo la loro realizzazione. Ciò che qui però interessa sottolineare è come il suo percorso di indagine percorra inizialmente le stesse canoniche tappe seguite da Nigra circa gli stessi anni: da Avigliana (1886)  a Ranverso (1887)  a Pianezza (1889) per compiere prima dello scadere del secolo una ricognizione esaustiva dei cicli pittorici del Quattrocento piemontese e in parte aostano: Issogne, Marentino, Manta, Fenis,  Villafranca Piemonte, Forno di Lemie, Roletto, Bastia, Chieri, Piobesi e Piossasco, in una ricerca sostanzialmente isolata, certo condotta a partire da indicazioni di numerosi e diversamente qualificati informatori, ma spesso in anticipo sui tempi della ricerca storico artistica, tenendosi a volte a ridosso  dei primi interventi di restauro[32]. Questo suo impegno viene giustamente celebrato specialmente in ambito torinese già a partire, quando espone circa 600 fotografie e Giovanni Cena gli dedica un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[33]

Cena conferma ciò che  il catalogo della mostra ed ancor più le pagine del giornale dell’Esposizione dimostrano: quanto ridotto fosse ancora l’interesse per la pittura quattrocentesca piemontese nonostante una prima disponibilità di segnalazioni e studi specifici, prevalentemente dedicati a Ranverso (da Gamba e Brayda a Cena stesso) ma anche al Pinerolese (E. Bertea) ed a San Giovanni ai Campi di Piobesi, studiato da Nigra in occasione della Esposizione torinese del 1890.[34]

Questa scarsa considerazione della pittura tardogotica piemontese emerge dalla stessa regia con cui Pia impagina le immagini di Ranverso nei due album dedicati rispettivamente “A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia” (1907) ed “A Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia principe d’Asti” (post 1920)[35]; sia nel primo che – specialmente – nel secondo gli affreschi jaqueriani sono collocati buoni ultimi nella sequenza di presentazione, dopo i particolari scultorei e gli stessi arredi, dopo la minuziosa documentazione e ricomposizione fotografica del polittico di Defendente Ferrari.

Ad ulteriore conferma di questa condizione di ridotta visibilità e rilevanza monumentale ricordiamo che neppure gli operatori degli Alinari, in Piemonte e Valle d’Aosta tra luglio e ottobre del 1898 comprenderanno nella loro campagna di documentazione luoghi come Ranverso o la Manta[36]; solo gli affreschi del castello entreranno a far parte del loro repertorio a partire dal catalogo del 1925 [37], mentre gli operatori dell’Istituto di Arti Grafiche di Bergamo pare siano a  Ranverso e in San Sebastiano a  Pecetto prima del 1907 ma forse, più correttamente, entro il 1911[38].

Nel 1914 infine giunge a compimento sotto la direzione di Cesare Bertea la pluridecennale vicenda dei restauri di Ranverso, i cui  importanti esiti sono immediatamente resi noti dalla pubblicazione negli “Atti della Società di Archeologia e belle Arti per la provincia di Torino” , corredando il testo con una serie di tavole fotografiche, dovute a Giancarlo dall’Armi[39], che nell’urgenza della scoperta mostrano il cantiere di restauro ancora non ultimato e rivelano finalmente la firma di Jaquerio. Questa impresa risulta importante non solo in sé ma anche quale momento significativo di una collaborazione precisa e fruttuosa tra studiosi, organismi di tutela e fotografi particolarmente sensibili alla conoscenza e divulgazione del patrimonio artistico e architettonico, collaborazione già per certi versi anticipata dal rapporto tra Riccardo Brayda e Mario Gabinio, ma che assumerà negli anni successivi forme più precisamente connotate: dalle cartelle dedicate dallo stesso Dall’Armi al Barocco  Piemontese, con testi di Cimbro Gelati, Carlo Camerano, Emanuele Provana di Collegno, Melchior Pulciano e Paolo R. Deville[40], alla collaborazione un poco più tarda di Augusto Pedrini con  Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi.[41]

La scoperta degli affreschi sollecita altri autori a tornare a Ranverso: Secondo Pia, che fotografa le pareti del presbiterio nel 1920,  e Mario Gabinio[42], che vi ritorna molti anni dopo le prime visite compiute con l’Unione Escursionisti per realizzare  una ventina di immagini che comprendono anche le nuove scoperte, e costituiscono, insieme a quelle di Santa Maria di Vezzolano, le sole testimonianze dell’interesse di questo autore per la storia della pittura piemontese.

Nei due decenni successivi, anche sulla scia di una bibliografia più generosa e attenta che consente ad alcune opere piemontesi di raggiungere una prima notorietà anche al di fuori degli ambiti specialistici o locali[43], le campagne fotografiche si estendono sia per iniziativa dei grandi studi nazionali (Alinari, Istituto Italiano di Arti Grafiche) sia di committenti istituzionali come le Soprintendenze e l’Ordine Mauriziano, che fa rifotografare Ranverso nel 1929, sia infine per un’importante istituzione internazionale quale la Frick Reference Library di New York, che affida a Mario Sansoni, uno dei più importanti e noti professionisti italiani del settore, l’incarico di documentare le testimonianze artistiche europee. La campagna piemontese, condotta negli anni 1934-1935 in compagnia di Helen Frick, risulta estremamente approfondita e dettagliata, singolarmente attenta anche agli episodi allora meno noti e studiati,  in questo confrontabile solo col precedente di Pia, verosimilmente condotta a partire da informazioni che presuppongono non solo la conoscenza della letteratura specifica.[44]  La documentazione, anche qui, è condotta in modo esemplare e rigoroso, con riproduzioni  che prediligono l’insieme dell’opera senza mai isolare il motivo né tanto più tentare trasposizioni personalizzate, alla ricerca di temi o elementi coi quali ottenere una restituzione narrativa dell’opera, letteraria o critica che fosse, in ciò mostrando non tanto di rifarsi ad un approccio ancora sostanzialmente ottocentesco, in debito coi  modi rappresentativi delle stampe di traduzione[45], quanto di aderire compiutamente al ruolo richiesto dal progetto della committenza, quello di raccogliere una documentazione precisa ed esaustiva, utile strumento e supporto per il conseguente lavoro degli storici.

Nei luoghi visitati da Sansoni si muovono circa negli stessi anni giovani studiosi torinesi come Umberto Chierici (affreschi nella cappella del  castello della Manta, 1937ca)  e specialmente Augusto Cavallari Murat, che in preparazione del suo intervento al Congresso storico di Asti del 1933 fotografa gli affreschi in San Giovanni ai Campi, a Ranverso e in San Pietro a Pianezza[46], preludio della collaborazione al grande progetto storiografico ed espositivo che Vittorio Viale metterà a punto nel 1939 con la mostra dedicata a Gotico e Rinascimento in Piemonte, realizzazione “che costituisce, ancora oggi, un riferimento insostituibile per ogni storico dell’arte piemontese”[47]. Qui, nello scenografico riallestimento delle sale  vengono riproposti, in ingrandimenti fotografici realizzati da Riccardo Scoffone, “Re David, una delle sei figure che ancora ornano la parete sinistra del presbiterio [mentre] su uno stesso piano è un’altra pittura della parete di fronte, là dove sotto le storie di S. Antonio, ora purtroppo molto svanite, il Jaquerio con una stupefacente realismo ha dipinto due contadini che recano al Santo l’offerta del simbolico animale.”[48]

La fotografia ha ormai raggiunto lo statuto di consapevole strumento di conoscenza e di salvaguardia del patrimonio artistico ed architettonico, costituendo a volte purtroppo anche l’ultima consolazione di fronte alle irreparabili perdite: nel 1931 viene istituita la Fototeca Municipale  di Torino mentre Viale, dal 1930 direttore del Museo Civico, predispone un primo nucleo di archivio fotografico che si propone di trasformare in Archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte[49].  A partire da questa data la raccolta organica di documentazione d’arte non spetta più solamente all’iniziativa di singoli studiosi come Lorenzo Rovere, ma diviene istituzionalizzata coinvolgendo e formando intere generazioni di fotografi piemontesi, torinesi in particolare.

Ciò che resta invece ancora oggi parzialmente inadeguata è la nostra capacità di guardare a queste immagini come documenti complessi e non come pure tracce del referente, mettendo da parte ogni superficiale pretesa di oggettività della riproduzione per riconoscerne fruttuosamente lo statuto di traduzione quando non di trascrizione delle opere.

 

Note

[1]Andreina Griseri, Ritorno a Jaquerio, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo  Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni Romano.. Torino:  Città di Torino, Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.3-29.

Per aver contribuito con suggerimenti e precisazioni alla realizzazione di questa ricerca, che si propone quale prima occasione di ricognizione di un tema vasto e complesso, desidero qui ringraziare Giovanni Romano e  Virginia Bertone;  per la consueta disponibilità dimostrata nel favorire l’accesso alle fonti fotografiche ringrazio inoltre Rosanna Roccia e Annamaria Stratta, Archivio Storico del Comune di Torino; Daniele Jalla, Nunzia Mangano e Adriana Viglino, Musei Civici di Torino; Donata Pesenti e Cristina Monti, Museo Nazionale del Cinema di Torino; Lino Malara e Paola Salerno, Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte; Elena Ragusa, Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte.

[2]Cesare Bertea , Gli affreschi di Giacomo Jaquerio nella chiesa dell’abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino”, 8 (1914), fasc. 3, pp.194-207, estratto, con fotografie di Giancarlo dall’Armi poi ripubblicate per la prima volta nel 1979 da Enrico Castelnuovo, Giacomo Jaquerio e l’arte nel ducato di Amedeo VIII, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, op.cit. pp. 30-57 (pp.35-41)  e quindi in parte riprese da Guido Curto, S. Antonio di Ranverso presso Buttigliera Alta: i restauri degli affreschi, in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp.284-294.

[3] Questo articolo venne segnalato per la prima volta da Maria Adriana Prolo, Alcune notizie sulla dagherrotipia a Torino, in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp.13-16, ed è stato poi ampiamente ripreso in numerosi studi relativi alle origini della fotografia in Italia. Il richiamo alla “fedeltà” della riproduzione fotografica rimanda al dibattito, ancora vivo e fecondo in quegli anni, relativo alla distinzione tra traduzione e copia, cfr. Ettore Spalletti, La documentazione figurativa dell’opera d’arte, la critica e l’editoria nell’epoca moderna (1750-1930). In Giovanni Previtali, a cura di, L’artista e il pubblico, “Storia dell’arte italiana”, I. 2.Torino: Einaudi, 1979, pp. 415-484.

[4] Felice Romani, Fotografia. Primo Daguerrotipo in Torino, “Gazzetta Piemontese”,  42 (1839), n.234, 12 ottobre, ora in Paolo Costantini, Italo Zannier, Cultura fotografica in Italia: Antologia di testi sulla fotografia 1839-1949. Milano: Franco Angeli, 1985, , pp.69-71.

[5] Ora in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp.212-232. Per la fortuna editoriale del testo di Melloni cfr. Costantini,  Zannier, op.cit., p.88 nota 2; nello stesso volume, al quale si rimanda anche per una buona antologia di testi relativi alle prime applicazioni della fotografia,  è compresa (pp.96-109) anche la trascrizione della successiva, analitica relazione di Melloni dedicata alle Esperienze sull’azione chimica dello spettro solare e loro conseguenze.

[6] Luigi  Corvaja,  La fotografia e le sue applicazioni, I, “Panorama Universale”, 30 giugno 1855, p.107, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta: Musumeci Editore, 1980,  p.51.

[7] Philippe  Burty, La photographie en 1861,  “Gazette des Beaux-Arts”, 9 (1861), pp.241-249.

[8] Hermann Vogel, La photographie et la chimie de la lumière. Paris: Librairie Germer Baillière, 1876, pp.217-218. Ricordiamo che Vogel, docente di chimica fotografica alla Technische Hochschule di Berlino, fu il primo maestro di Stieglitz, dal 1883 al 1887, cfr. William Innes Homer, Alfred Stieglitz and the American Avant-Garde. Boston: New York Graphic Society, 1977, pp.11-13.

[9]Paul Liesegang, Manuale illustrato di fotografia; prima traduzione italiana per Antonio Mascazzini. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1864, p.225.

[10]Paul N. Hasluck, La fotografia; prima traduzione italiana a cura di Giulio Sacco. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1905, p.518. Anche altri autori, dopo aver ricordato che “i risultati che possono dare le lastre ordinarie sono addirittura pessimi” confermavano che “i veri amatori d’arte preferiscono una buona incisione ad una riproduzione fotografica (…) ricorrendo invece a lastre ortocromatiche (…) la fotografia si eleva  al di sopra di qualsiasi altro genere di riproduzione”, Carlo Bonacini, La fotografia ortocromatica, Milano, Hoepli, 1896,  p.237-238, ma tutto il paragrafo dedicato alla Riproduzione delle pitture, pp.237-247, costituisce una interessantissima documentazione delle ragioni tecnologiche di un lavoro di riproduzione che voglia restituire “non soltanto una traccia qualunque del disegno (…) ma il carattere artistico della composizione”.

Nonostante gli avanzamenti costituiti dall’uso delle lastre ortocromatiche la manualistica consigliava ancora di procedere ad una “pulitura” preliminare del dipinto mediante spugnature con una emulsione a base di bianco d’uovo sbattuto, acqua e glicerina, cfr. E. J., Reproduction des tableaux,  “Photo-Gazette”, 11 (1901), n.7, 25 maggio, pp.138-139.

[11]Le preoccupazioni di correttezza nella resa proporzionale dei volumi o della cromia evidenziate da Jakob Burckardt  e Hans Tietze (cfr. Wolfgang M. Freitag, Early Uses of Photography in the History of Art, “Art Journal”, 39 (1979/80), n. 2,  winter, pp.117-123, in particolare alla p.122) erano sostanzialmente estranee al dibattito italiano. Per quanto sinora noto Pietro Masoero è il solo fotografo a riflettere in questi anni su alcuni  problemi di lettura fotografica delle opere d’arte; si veda ad esempio l’articolo dedicato a La dilatazione dei supporti positivi, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 11 (1899), pp.74-78 e le osservazioni fatte a proposito della “Madonna col Bambino”   dell’Ospedale di Vercelli, che Masoero attribuisce a Cesare Lanino: “Fu, questa tavola, anche molto ritoccata e la fotografia, nel riprodurla svelò tutta la parte più recente della pittura, che non era ben visibile all’occhio umano.”, Pietro Masoero, La Scuola Pittorica Vercellese 1460-1586, manoscritto, p.74. Per la sua attività di studioso e divulgatore rimando a P. Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, aprile – luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154.

[12] Citato in Spalletti, op.cit., p.471. Lo stesso Venturi molti anni dopo definirà la fotografia come “il migliore mezzo di riproduzione che distrugge la ragione d’essere della incisione e della calcografia.”, cfr. Anton Giulio Bragaglia, L’arte nella fotografia:  interviste a Ernesto Biondi, Adolfo Venturi, Aristide Sartorio, Gustavo Bonaventura, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n.2, febbraio, pp.17-19 (p.18).

[13]Da un appunto datato 14 ottobre 1893, citato in Freitag, op.cit., p.119. Più accorte e consapevoli saranno le considerazioni fatte da Berenson cinquant’anni più tardi: “Per cominciare dobbiamo scartare l’idea che la fotografia riproduca un oggetto come è, quale essenza oggettiva di alcunché. Una tal cosa non esiste. All’«uomo medio» non è stato mai detto che il suo modo di vedere ha una lunga storia alle spalle, utilitaria, pratica, perfino cannibalesca (…)  Facendo debita attenzione all’illuminazione, e collocando la macchina a un determinato angolo con l’oggetto, voi potete, entro certi limiti, farle riprodurre l’aspetto di quell’oggetto che risponde al vostro fine momentaneo, senza dubbio rispettabile ma con una buona dose di  parzialità, (…) Il compito di fotografare un dipinto è pressoché insormontabile dov’è questione di conservare i valori, i rapporti e i passaggi di colore. Per altro verso è più facile, molto più facile che per gli oggetti a tutto tondo o in altorilievo.(…) L’esperienza mi spingerebbe a dire: più sono scadenti i dipinti, e migliore è la fotografia.”, Bernard Berenson, La fotografia, in Id., Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva. Firenze:  Electa, 1948, pp.327-338.

[14]Carlo Brogi, Circa la proposta di colpire con una tassa le riproduzioni fotografiche dei monumenti nazionali, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 4 (1892), pp.101-103. Lo stesso Brogi  molti anni più tardi  ribadiva che “le fotografie hanno giovato immensamente allo studio della Storia dell’Arte (…) ed hanno servito a divulgare (…) l’esistenza spesso ignorata di tanti patrii tesori.”, Carlo Brogi, A proposito del divieto fatto ai fotografi di trarre riproduzioni nei Musei e nelle Gallerie dello Stato; prefazione di Giovanni Rosadi. Firenze: Tip. E. Ariani, 1904, p.10.

[15] P. Cavanna, Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese. In Antichità ed arte nel Biellese, atti del convegno (Biella, 14-15 ottobre 1989) a cura di Cinzia Ottino, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, N.S., 44 (1990 -1991), monografico, pp. 199-216 (p.203).

[16]Cfr. Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino,  “Fotologia”, 8 (1991), vol.13, primavera/estate, pp.30-39. I testi a corredo degli album costituiscono anche una interessante testimonianza del dibattito piemontese intorno alla questione del valore artistico della fotografia e delle sue relazioni con la pittura; si vedano in particolare i contributi di Carlo Felice Biscarra (1860) e di Federico  Pastoris (1862).

[17]ibidem, p.36. Ricordiamo qui che si deve a Bernieri anche l’importante lavoro di documentazione del cantiere del Canale Cavour, cfr. P.Cavanna, Culture photographique et societé en Piemont: 1839-1998, in Photographie, ethnograhie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), n. 2/4, monografico 1995, pp.145-160.

[18]è noto che la documentazione urbana e di architettura anticipa, per molteplici ragioni, non solo tecniche, quella relativa alla pittura; cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990; P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, in “Bollettino d’Informazioni” del Centro di ricerche informatiche per i Beni Culturali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Quaderno VIII,  Pisa: Scuola Normale Superiore, 1998, 49-55.

[19] Quando Massimo d’Azeglio disegna San Giorgio e il drago da Fenis, nel 1825 non è interessato tanto ad una “lettura puntuale del testo (…) quanto a trarne uno spunto per una illustrazione di gusto troubadour”, Franca Dalmasso, Massimo d’Azeglio, 1825. San Giorgio e il drago (da Fenis), in Giacomo Jaquerio, op.cit., p. 327.

[20]Antonio Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891. Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio, op. cit., pp.325-326, da leggersi parallelamente a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade, op.cit., pp.19-43.

[21] P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo d’Andrade, op. cit., pp.107-125.

[22]Antonio Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp.106-110 (p.107); n.22, pp.171-175; n.23, pp.177-179. Del permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” ha parlato ancora in anni recenti Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela  di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp.11-32 (p.23).

[23]Francesco Gamba, L’arte antica in Piemonte, 1880,  citato in Maggio Serra, Uomini e fatti, op.cit., p.29.

[24] Ivi, p.36.

[25]Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in  Fotografi del Piemonte, op.cit.; Alfredo d’Andrade, op.cit.

[26]Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione Rosanna Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonteop. cit.,  pp.17-20.

Una prima schedatura del Fondo Nigra conservato presso i Musei Civici di Torino è stata condotta   per la redazione delle due tesi di laurea dedicate a Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra, redatte da Cristina Ghione, a.a. 1993-1994 e Simona Paggetti, a.a. 1994-1995. Oltre al Fondo Nigra i Musei Civici conservano anche 249 stampe di questo autore comprese nel Fondo D’Andrade,  qualche centinaio di negativi su lastra compresi nell’archivio corrente della Fototeca e alcune stampe sciolte nel Fondo Rovere. Altre fotografie (negativi e positivi) fanno parte dell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte mentre le immagini di argomento familiare sono conservate presso la Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Torino, a cui pervennero per lascito testamentario nel 1984. Per il ruolo svolto da Nigra nel mantenere in area piemontese un rapporto fecondo con la tradizione della “scuola storica”, cfr. Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte.  Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

Il riferimento metodologico costituito da Toesca  è stato analizzato da Giovanni Romano, Pietro Toesca a Torino,  “Ricerche di Storia dell’arte”, 21 (1996), n.59, pp.5-19 ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 1-21.

[27] La prima edizione di The Seven Lamps venne pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in P.Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[28] Musei Civici di Torino, Fondo D’Andrade, rispettivamente F43-45; F55-62; F.71-78. Le immagini relative a Pianezza non sono datate ma le modalità di realizzazione fanno supporre una cronologia di realizzazione corrispondente agli altri soggetti.

[29] Carlo Nigra, Torri, castelli e case forti del Piemonte dal 1000 al secolo XVI, I, Il Novarese. Novara: E. Cattaneo, 1937, p.5.

[30] Su Ottavio Germano, che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade, op. cit. ed inoltre Claudia Cassio, ad vocem, in Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola  Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino:  Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77 (p.77, n.23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992. Sulla attività fotografica legata alle prime attività di tutela piemontese molto resta ancora da conoscere ma va segnalata almeno la presenza a Palazzo Madama di un vero e proprio laboratorio di sviluppo e stampa gestito da Germano e Nigra, come si ricava da una lettera datata 3 gennaio 1892: “Favorisco farmi sapere se prima di tornare a Sartirana puoi venire a Palazzo Madama a sviluppare le rimanenti lastre già impressionate e fare altre stampe.”, citato in Ghione, op.cit., p.87.

Sulle necessità di definire compiutamente i compiti e le metodologie operative dei gabinetti fotografici degli Uffici regionali si esprimerà Pietro Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica istruzione,  “L’Arte”, 7 (1904), pp.80-82, inserendosi in un dibattito più ampio, anche internazionale,  a proposito della necessità di attuare raccolte sistematiche di documentazione fotografica, i cosiddetti Musei Documentari; cfr. Paolo  Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990, in  particolare alle pp.58-72;  P.Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’impegno”, 11 (1991), n.3, dicembre, pp.41-48.

La particolare attenzione di Toesca per le possibilità consentite dalla documentazione fotografica, già espressa in una lettera a Secondo Pia del 1907 (cfr. Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia.  Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, p.31) lo porterà nel secondo dopoguerra a curare i volumi della collana “Artis Monumenta photographice edita”, della quale usciranno i titoli dedicati a San Pietro al Monte a Civate  ed alla Cappella di San Silvestro in Santa Croce a Firenze mentre rimarrà inedito il terzo, sulla Basilica Superiore di Assisi, tutti con fotografie di Mario Sansoni e Carlo Bencini, cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 57-198 (pp.158-159); Paola Callegari et alii, La Fototeca Nazionale. Roma:  Ministero per i Beni Culturali, ICCD, 1984.

[31]Oltre al testo indicato alla nota precedente si vedano: Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale del Cinema, 19 ottobre-19 novembre 1989) a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò. Torino: Allemandi & C., 1989; P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, op. cit.; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia: Immagini, di Asti e dell’Astigiano, catalogo della mostra (Asti, Archivio Storico, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998) a cura di Gemma Boschiero. Asti: Archivio Storico del Comune di Asti, 1998.

[32]Si vedano le due riprese, datate 1902, con “dettagli di affreschi recentemente scoperti”  relativi rispettivamente a San Eutropio e San Dionigi dalla terza cappella a sinistra di Ranverso, conservate nel Fondo Pia del Museo Nazionale del Cinema, F30992, F3099; cfr. anche Giovanni Romano, Storie della vita della Vergine. Buttigliera Alta, Sant’Antonio di Ranverso. Giacomo Jaquerio, 1402-1410?, in Giacomo Jaquerio, op.cit., pp.393-397.

[33]Giovanni Cena, Piemonte antico, in “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240. Ancora oggi la figura di Pia è ricordata nelle poche storie della fotografia italiana solo in virtù della sua notorietà quale primo fotografo della Sindone e Presidente della Società Fotografica Subalpina (1908-1923).

[34]Carlo Nigra, La chiesa di S.Giovanni di Piobesi, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, 11 (1927), n.3-4, consultato in estratto. La redazione del saggio nasceva da una prima visita condotta nel 1889, quando ancora “l’abside era completamente coperto da un sottile intonaco bianco rosato sotto del quale potei intravedere tracce di dipinti”, p.7. Alcune delle riprese effettuate da Nigra nel 1889-1890, ma in una stampa più tarda (1927?), sono conservate nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 20).

[35]Secondo Pia, Ricordi fotografici di insigni monumenti del Piemonte, 1907; Id., Riproduzioni di antichi monumenti nel Piemonte d’Arte Lombarda e Gotica, 1920ca; I due album, conservati alla Biblioteca Reale di Torino, comprendono rispettivamente 32 e 73 stampe all’albumina di diverso formato e datazione, così distribuite: 1907, Sant’Antonio di Ranverso (1-11); Santa Maria di Vezzolano (12-32).  Vezzolano (1-36); Ranverso (37-73).

L’attività pur eccezionale di Secondo Pia va collocata nel ricco contesto di autori piemontesi , solo di rado professionisti,  particolarmente attenti all’utilizzo della fotografia quale strumento di conoscenza e di divulgazione del patrimonio artistico locale; ricordiamo qui almeno i nomi di Pietro Boeri e Pietro Masoero, di Francesco Negri e di Alberto Durio (entrambi in relazione con Samuel Butler), di alcuni religiosi come F. Origlia, A. Rastelli e G. Valle, tutti legati a Negri, Edoardo Barraja, Eugenio Olivero, Alessandro Roccavilla ed ancora Mario Gabinio, Giancarlo dall’Armi ed Augusto Pedrini, per i quali ultimi la documentazione d’arte assumeva modi e impegni che esulavano dalla pura pratica professionale. 

[36]A far comprendere questi soggetti nel catalogo Alinari non era evidentemente servita la notorietà derivante dalla loro riproposizione al Borgo Medievale, né le successive attenzioni critiche, cfr. Elena Ragusa, Fortuna degli affreschi della Manta, in Giovanni Romano, a cura di, La sala baronale del castello della Manta. Milano:  Olivetti, 1992, pp.73-80.

[37]Per le campagne Alinari del 1898 cfr. Mario Sansoni: Diario di un fotografo,  “AFT”, 3 (1987), n.5, giugno, pp.50-51; [F.lli Alinari], Piemonte. Catalogo delle fotografie di opere d’arte e vedute. Firenze: Alinari, s.d. [1925].

[38]Si vedano alcune delle stampe relative a Ranverso conservate nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che riportano appunto una datazione (tarda però) “prima del 1907”  e le due stampe all’albumina relative a San Sebastiano (una vela di volta e la Crocifissione) comprese nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 22) , non datate ma tecnicamente attribuibili al più tardi ai primi anni del Novecento. In realtà la ripresa n.7441 “1792 Facciata dell’antico Ospedale dell’Abbazia” mostra l’edificio addossato alla facciata dell’Ospedale in uno stato certamente successivo al marzo 1907, data dell’ingiunzione ministeriale all’abbattimento della porzione di parete inglobante il pinnacolo di sinistra. (Daniela Brusaschetto, Silvia Savarro,  Cesare Bertea (1866-1941): note sul restauro in Piemonte nei primi decenni del Novecento. Tesi di laurea, Politecnico di Torino, Corso di laurea in Architettura, 2000, relatori Maurizio Momo, Daniela Biancolini, pp. 223 – 224). Le riprese potrebbero allora riferirsi tutte alla campagna realizzata per il padiglione piemontese alla Mostra Etnografica di Roma del 1911.

[39]  Bertea , Gli affreschi, op.cit. Come risulta da un primo confronto tra le tavole qui pubblicate e le stampe conservate nel Fondo Dall’Armi dell’Archivio Storico della Città di Torino e nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte, il corpus realizzato dal fotografo è più esteso del pubblicato da Bertea, ma occorrerà un confronto con le lastre appunto conservate nel Fondo Dall’Armi per una più puntuale verifica di questa importante campagna di documentazione. Per Dall’Armi cfr. Dario Reteuna, Primario studio. Da Dall’Armi a Cagliero sessant’anni di vita a Torino.   Torino: Regione Piemonte, Fondazione Italiana per la Fotografia, 1998, che costituisce un primo sommario tentativo di presentazione dell’attività di questo importante professionista torinese.

[40] Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino: Dall’Armi, s.d. [1915], sei cartelle fotografiche corredate di  notizie storico-critiche.

[41] Di Pedrini oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”.

[42] Le immagini, non datate,  sono comprese negli album A34 ed A10 del Fondo Gabinio della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino; una prima occasione documentata di visita a Ranverso risaliva al 4 novembre 1906, in occasione di una gita compiuta con l’Unione Escursionisti, a cui Gabinio apparteneva, sotto la guida di Riccardo Brayda; una delle immagini realizzate in quella occasione venne utilizzata dallo stesso studioso per la copertina del suo Una visita a Sant’Antonio di Ranverso (Valle di Susa).  Torino: Tip. Massaro,  1906. Per una più estesa discussione dei rapporti Brayda / Gabinio  cfr. P. Cavanna, Mario Gabinio, vita attraverso le immagini, in Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996, pp. 7- 35.

[43]Piemonte, “Attraverso l’Italia”, I, Milano, Touring Club Italiano, 1930 comprende due riproduzioni degli affreschi in San Sebastiano a Pecetto (tavv.124, 125) mentre di Ranverso è pubblicata solo l’immagine del prospetto della chiesa.

[44]Mario Sansoni (1882-1975) dopo un primo periodo di attività come operatore Alinari si mette in società con Giulio Bencini nel primo dopoguerra e quindi in proprio intorno alla metà degli anni Venti, dedicandosi esclusivamente alla documentazione delle opere d’arte. In questa veste viene incaricato dalla Frick Reference Library di New York di compiere una grandiosa campagna di documentazione del patrimonio artistico medievale e rinascimentale in Europa, cfr. redazionale, I nostri antenati, “AFT”, 3 (1987), n.5,  giugno, pp. 44-45. Una più approfondita conoscenza di questo progetto documentario potrà essere ricavata dallo studio attento dei diari di lavoro di Mario Sansoni, conservati presso l’Archivio Fotografico Toscano di Prato, che non è stato possibile consultare in questa occasione; ricostruzione che sarà da porre a corredo di quel “recupero delle fotografie realizzate da Mario Sansoni per miss Helen Frick all’inizio degli anni Trenta [che] è ormai un obbligo metodologico”, di cui ha parlato  Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Pittura e miniatura del Trecento in Piemonte. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1997, p.12.  L’individuazione del fotografo fiorentino quale responsabile di una così vasta e impegnativa campagna di documentazione si inserisce non solo nel progetto culturale  della famiglia Frick, ma costituisce anche una ulteriore conferma della  specifica attenzione per l’uso appropriato della fotografia, e del conseguente riconoscimento del lavoro dei fotografi,  che nella cultura statunitense risulta un dato acquisito ben prima che ciò accada in Europa; basti pensare, per fare solo alcuni esempi, all’attenzione prestata  da Arthur Kingsley Porter, Romanesque Sculpture of the Pilgrimage Roads.  New York: Hacher Art Books, 1966 (I ed. 1923), buon fotografo e severo giudice dell’attività degli studi più rinomati (“The catalogue is unfortunately of little use”, per Romualdo Moscioni, “Photographs of the highest quality”, per Clarence Kennedy e così via)  ed alle precisazioni contenute nella prefazione che Harry Dobson Miller Grier, direttore della collezione,  scrive per The Frick Collection. An illustrated catalogue, I-II. New York: The Frick Collection, 1968, p. xxii: “The black and white photographs of the paintings were made by Francis Beaton, our staff photographer, who has faithfully served the Collection for over thirty years. The reproductions in those and subsequent volumes of this catalogue will provide an enduring record of his talent, which has never been duly acknowledge. For the color reproductions of the paintings,  ektachromes were made by Joseph Corboy and Geoffrey Clements. The photograph of the Frick Collection building is by Ezra Stoller, and the colour photographs of the galleries are by Lionel Freedman.”

[45]Cfr. Massimo Ferretti, Fra traduzione e riduzione. La fotografia d’arte come oggetto e come modello, in Gli Alinari fotografi a Firenze 1852-1920, catalogo della mostra (Firenze, Forte di Belvedere, 1977) a cura di Wladimiro Settimelli, Filippo Zevi. Firenze: Edizioni Alinari, 1977 pp.116-142 (p.124), che per la casa fiorentina colloca a partire dal  1876 il periodo in cui le campagne di documentazione “diventano l’occasione di un rilevamento ravvicinato e linguisticamente più problematico”, ma sostanzialmente legato alla estrapolazione di elementi “decorativi” con immediata valenza commerciale e connessi al nascente interesse italiano per i rapporti tra arte e industria; si veda anche E. Spalletti, op.cit., p.473. Un diverso atteggiamento, orientato ad una lettura contestuale dell’opera e della scena rappresentata lo si ritrova invece, negli anni a cavallo tra i due secoli nelle fotografie dei gruppi statuari del Sacro Monte di Crea realizzate da Francesco Negri, non a caso nella doppia veste di fotografo e di studioso, cfr. P. Cavanna, Cinquant’anni di sguardi: la fotografia scopre il Sacro Monte, in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea.  Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998, pp.137-145. Come è noto un uso mirabilmente critico della documentazione fotografica venne per primo realizzato in Italia da Roberto Longhi, Piero della Francesca. Roma: Valori Plastici, 1927.

[46] Augusto Cavallari Murat, Considerazioni sulla pittura piemontese verso la metà del sec. XV, “Bollettino  Storico Bibliografico Subalpino”, 38 (1936), n.1-2, gennaio-giugno, pp.43-79, corredato di una interessante documentazione fotografica prevalentemente dovuta all’autore stesso ma anche a Toesca (Fenis, cappella, particolare con una Santa), Rossi (Villafranca Piemonte, chiesa della Missione, particolare dell’Arcangelo e Deposizione) e Bertea (naturalmente per Ranverso, da confrontare con la produzione Dall’Armi). Questo significativo apparato di immagini è stato escluso dalla riedizione del saggio in Id., Come carena viva, I. Torino: Bottega d’Erasmo, 1982, pp.99-128.

[47] Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[48]Vittorio Viale, Gotico e Rinascimento in Piemonte, catalogo della 2a mostra d’arte a Palazzo Carignano.  Torino: Città di Torino, 1939. Mentre Scoffone realizza gli ingrandimenti per le sale 4, 5 e 6 a Paolo Beccaria si devono le fotografie per il catalogo.

[49]Cfr. Cavanna, Mario Gabinio, op.cit., p.19.