Genealogie del bianco (2005)

in Bianco su bianco: percorsi della fotografia italiana dagli anni Venti agli anni Cinquanta, catalogo della mostra (Aosta, Centro Saint-Bénin, 14 maggio – 25 settembre 2005), a cura di P. Cavanna. Firenze: Alinari, 2005

 

La realtà è solo materia grezza

per la creazione dell’immagine

che vive autonoma,

esprimendosi tutta in sé stessa,

in estreme sintesi formali.”

Paolo Monti, 1957

 

 

“Ho avuto un attimo di speranza quando, giorni fa, incidevo su una lastra di vetro affumicata – scriveva Paul Klee nel 1905 – Dunque il mezzo non è più la linea nera, bensì quella bianca. (…) Dipingere col bianco corrisponde al modo di dipingere della natura.” E ancora, nel dicembre 1910: “Ricordo l’effetto assolutamente convincente del nero come luce nella negativa fotografica.”(Klee 1990, p.181)

Dal confronto con la scrittura della luce, nella rimeditazione dell’antica pratica del cliché-verre (già di Corot e Fontanesi, tra gli altri) il pittore trovava la forza necessaria per avanzare in quella che lui stesso chiamava (in italiano) la  “Terra incognita” di quel nuovo “genere di forma rigorosamente astratto.”

La scoperta del negativo come modo di percezione delle apparenze del mondo, la scoperta delle fotografie come ombre bianche, luminose, consentiva di riconoscere il segno come pura manifestazione di energia, autonoma, slegata da ogni intenzione descrittiva. Il nero del segno rivelato come luce proprio dal processo fotografico, dal meccanismo intrinseco della sua riproducibilità, della sua natura di matrice. In questo eccesso accecante di tenebra risiedeva la possibilità dell’astrazione, dell’allontanamento dalla figura in favore di quella “sensibilità pura” che poi sarà di Malevič: “Il bianco Suprematismo non conosce più il concetto di materia, ancora in auge presso l’uomo medio. Le sue forme sono fenomeni che si ordinano in base a nuovi rapporti emotivi.” (Malevič 1922, p. 203)

Lo “zero delle forme” proprio del credo suprematista sembra trasmettere la propria eco lontana al  processo di mutamento che allora si avviava  nella cultura fotografica, in particolare in quell’ambito che si è soliti definire della fotografia artistica, a partire dagli anni del primo dopoguerra, quelli che vedono un progressivo (e timido, in Italia) allontanamento dagli stilemi pittorialisti in favore di una corrispondente apertura alle suggestioni, se non proprio alle provocazioni moderniste.

Non potendo operare contro la natura referenziale di traccia della fotografia, non potendo rinnegare la sua necessità documentaria, molti autori sembravano dunque volgersi verso qualcosa che potremmo definire uno “zero del significato”,  riducendo il peso narrativo del contenuto referenziale a favore di una crescita dell’autonomia del significante, della forma.

Come puntualmente rilevava Italo Mario Angeloni, uno dei più autorevoli critici militanti dell’universo fotografico italiano tra le due guerre, nelle immagini che iniziano a comparire sulle pagine degli annuari e delle riviste italiane intorno al 1920 “C’è un studiata cura di sopprimere quanto formava il bagaglio inutile della vecchia fotografia aneddotica. (…) è un nuovo mondo che si traduce in sintesi più intime e complesse; si comincia a sentire che in arte contano gli elementi essenziali, che alla nostra anima moderna bastano pochi ma decisi lineamenti per produrre in essa la gioia etica ed estetica della visione.” (Angeloni 1925, p. 68)

“Sintesi” è la parola chiave, il concetto rivelatore utilizzato pochi anni dopo anche da Marziano Bernardi, autorevole critico d’arte del quotidiano “La Stampa”, che nel suo commento al secondo Salon fotografico tenutosi a Torino nel 1928 riconosceva come nella critica fotografica “Ormai (…) s’usa un linguaggio per nulla diverso da quello pittorico: e si accenna a valori, toni, rapporti, a piani, volumi, cromatismo. (…) Ma v’è di più. Ed è il singolare e significativo uniformarsi della fotografia (specie la fotografia dei giovani) a quella tendenza verso la sintesi, l’unità, la semplificazione, la linearità, la regola, onde – dall’architettura alla pittura, dalla decorazione alla scultura e direi quasi alla poesia – sembra oggi improntarsi l’arte tutta quanta.”[1]  Cosa poi s’intendesse quale perfetta “realizzazione sintetista” ci è svelato da un testo di poco successivo, ancora di Angeloni, in cui l’immagine di un paesaggio invernale veniva restituita come “esigua ed infinita parola di bianco e di ombre che ti conduce verso il raccoglimento del sogno.” (Angeloni 1926, p.  243).

Accanto alla “sintesi”: il sogno.

Che è un altro modo per dire sentimento e – sovente – sentimentalismo, in una contraddizione apparente ma forse solo nostra, allora superata dalla comune possibilità di trasformare “la realtà in visione idealizzata”, scegliendo di comporre immagini fortemente  antiprospettiche, prive d’orizzonte e punti di fuga, in palese contrapposizione coi presupposti stessi della tradizionale visione ottica occidentale; allo scopo di ridurre il peso della referenzialità in favore del   riconoscimento del loro puro valore di immagine.

In questo contesto si può comprendere come la scelta del soggetto giocasse un ruolo importante, determinante, inducendo al confronto con porzioni di mondo che consentissero di misurare le proprie capacità espressive.

Ne sono prova le sollecitazioni che spingevano a considerare “il contributo della microfotografia alle arti decorative”, in cui si lasciava intravvedere la possibilità per “gli artigiani di tutte le specialità [di] trovare nel materiale messo a loro disposizione (…) quantità di nuove ispirazioni.” (Il contributo, 1929) o le analoghe riflessioni ospitate sulla rivista “Natura”, che nel 1929 pubblicava un importante articolo dedicato alla Fotografia moderna, poi pubblicato “se pure con certe riserve” anche sulle pagine del “Corriere Fotografico”. (Boggeri 1929a, 1929b)

È oggi sufficiente uno sguardo d’insieme, sintetico e quantitativo alla produzione di quegli anni per constatare, per comprendere quale fosse il soggetto privilegiato di queste prove, di queste un poco ingenue sperimentazioni che non saprei definire altro che discorsive, se non proprio linguistiche: gli autori dell’allora “giovane fotografia” guardavano al bianco del mondo alpino (anche in virtù di un diffuso intreccio di passioni) per  raccogliere la sfida di un confronto che nasceva dal bisogno, se non dalla volontà di far coincidere materia e colore, di ridurre ogni distanza tra forma e contenuto, sino alla rivelazione fascinosa del segno di puro valore espressivo, sebbene  – qui, sempre – velato da uno sguardo ancora crepuscolare.

Vengono alla mente le ben altrimenti consapevoli riflessioni di Alfred Stieglitz, la sua necessità ad un certo punto del proprio percorso di dare forma al progetto che si sarebbe tradotto in Music: a sequence of ten cloud photographs n.8, del 1922: “Volevo fotografare le nubi per scoprire cosa avevo imparato di fotografia in quarant’anni. Attraverso le nubi mettere per iscritto la mia filosofia della vita – mostrare che le mie fotografie non erano dovute alla qualità del soggetto  – le nubi erano a disposizione di chiunque, liberamente – nessuna tassa da pagare finora. (…) Il mio scopo è di fare fotografie che sembrino tali sempre più, al punto che non saranno viste, a meno che uno abbia occhi e guardi – e pure nessuno che le abbia viste una volta, le dimenticherà mai. Spero che questo sia chiaro.” (Stieglitz 1923)

Sarebbe ingenuo, di più, antistorico attendersi la stessa consapevolezza negli autori italiani dei primi decenni del Novecento, lo stesso livello di riflessione critica in una realtà come la nostra in cui lo spazio della ricerca era limitato e ridotto alle pratiche amatoriali, in cui la fotografia era  “per eccellenza un’arte di diletto. Essa è – nelle parole di Guido Rey – il vaso di fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini.” (Rey 1925, p.  6)

Entro questi limiti ben definiti, anche se non netti, è comunque possibile seguire le tracce di più percorsi, a volte nettamente individuati, individuali, altre talmente sovrapposti da risultare quasi coincidenti, da consentirci di parlare, di provare almeno a dire della figura di un autore che è collettivo, che elabora infinite variazioni sul tema, che si muove incerto e lieve, senza sforzo apparente nel tentativo di scrollarsi di dosso il peso della referenzialità fotografica. Un autore che si dedica alla realizzazione di immagini in cui lo scenario naturale  possa funzionare come un pre-testo, un materiale da elaborare per realizzare fotografie di cui negli esiti migliori la critica coeva coerentemente riconosce l’estraneità al genere del “paesaggio.”

Quello spazio bianco su cui condurre le prove, non era una pagina bianca disponibile a nuove scritture, era di  più: soggetto evanescente e quasi immateriale, individuato con naturalezza nello scenario alpino, luogo di antiche frequentazioni e passioni condivise per quelle generazioni. Un intreccio tra alpinismo e fotografia che legava le due pratiche sin quasi dalle origini, aperto da sempre alle suggestioni fantastiche.

Lo sguardo che scopriva le montagne aveva trovato le proprie origini in quel romantico sentire cresciuto dalle radici intrecciate del sublime settecentesco e  del nuovo riconoscimento tutto positivo della fattualità degli elementi naturali (le rocce, le nuvole, i ghiacci), in una oscillazione feconda e mai risolta tra fascino del pittoresco ed analiticità documentaria, quasi cartografica; quella stessa che incantava John Ruskin e buona parte poi della cultura ottocentesca; quella che spingeva i più grandi autori a misurarsi con l’impervio compito – quasi insormontabile – della fotografia di montagna, non solo delle montagne, ancora sulla soglia dell’età del collodio, subito dopo il 1850. Non per caso il lavoro  che destò maggior sensazione all’Esposizione universale di Parigi del 1855 era stato la veduta panoramica in dodici parti del massiccio del Monte Bianco, lunghezza totale due metri, realizzata  da Friedrich von Martens, con la “riproduzione immensamente esatta dei complicati dettagli offerti dai grandi rilievi della catena alpina, e in particolare dei loro ghiacciai”. Il pubblico dei visitatori era stato attratto anche dalle vedute dell’Oberland bernese  realizzate dai Fratelli Bisson, titolari di uno dei più eleganti studi parigini del Secondo Impero, che alcuni anni dopo, intorno al 1860,  saliranno – anzi sarà solo il “giovane” Auguste-Rosalie a farlo –  sul  Monte Bianco per realizzare quelle che sono forse le più importanti e note riprese di montagna della fotografia europea delle origini, poi raccolte in due album di Souvenir, uno dei quali, realizzato poco dopo la cessione della Savoia alla Francia, fu dedicato « A Sa Majesté Victor Emmanuel II Roi d’Italie ». (Infinitamente, 2004)

Già l’interesse di Bisson comportava esplicite preoccupazioni estetiche, come testimonia il coinvolgimento del pittore Gabriel Loppé  nella nuova spedizione del 1861,  e come mostrano le affascinanti immagini dedicate ai ghiacciai. Esse costituiscono l’adattamento fotografico di  un’ostinata variazione sul tema che si svilupperà mutando ogni volta il punto di vista, scegliendo le distanze più adatte al racconto:  dalla maestà geografica della veduta quasi panoramica, al fascino fantastico delle forme in cui avvolgere le figurine dei membri della spedizione. Marionette in uno scenario di fiaba che ha perso per strada ogni semplice intenzione descrittiva. Il soggetto era certo dei più affascinanti, e dei più redditizi anche, come dimostra il suo ricorrere nei cataloghi di numerosi fotografi ottocenteschi,  confermando – ci pare – la sua aderenza, la sua disponibilità all’immaginario, quella stessa che doveva aver condizionato la ripresa che Giorgio Sommer dedicò a Chamounix, Mer de Glace in una data non meglio precisata (Infinitamente, 2004, pp. 52-53), ma non troppo lontana dalla metà degli anni Sessanta del XIX secolo,   offrendo un’interpretazione nuova, che nella scelta del piano ravvicinato si discostava nettamente dai modelli prevalenti, e  – forse memore dell’interpretazione di Byron –  quasi immergendo l’apparecchio nel corpo del ghiacciaio, attratto magneticamente da quelle onde immense, eternamente bloccate dal gelo ancor prima che dalla fotografia, pietrificate e bianche, da cui sembra emergere il dorso di favolosi cetacei: l’apparizione magica della balena di Giona se non ancora di Pinocchio (1880).

È qui, nel concedersi al fantastico che la fotografia si allontanava, ancora inconsapevolmente, da quella missione documentaria che la cultura ottocentesca le aveva affidato. Non più “ancella piena di umiltà, come la stampa e la stenografia”, non più “il segretario e il taccuino di chiunque abbia bisogno di un’assoluta esattezza materiale”, come pretendeva Baudelaire,  ma la scoperta, e la rivendicazione poi, che la fotografia potesse essere strumento e tramite di un dialogo con la natura che doveva andare oltre la pura descrizione: “Il me semble – scriveva Victor Hugo –  que les choses-là sont plus que du paysage. C’est la nature entrevue à des certaines moments mystérieux où tout semble rêver, j’ai presque dit penser (…).”[2]

In questo mutato scenario prendeva forma una possibilità nuova. Da qui iniziava a definirsi lo spazio per il racconto del fotografo, per la fotografia come strumento generatore di immagini e non di semplici (se mai lo sono) documenti. Da qui si avviava la possibilità stessa dell’espressione della soggettività sub specie fotografica, pur continuando consapevolmente ad affidarsi all’ apparente trasparenza documentaria del mezzo, ogni volta mettendo in scena lo spettacolo della verosimiglianza, in costante, fecondo equilibrio tra invenzione narrativa ed insopprimibile analiticità descrittiva.

Lo scopo ambizioso era di ottenere la “documentazione dell’inesistente”[3], conquistando una  coraggiosa equidistanza tra la sublime fotografia alpina che fu di Vittorio Sella e degli altri grandi fotografi del XIX secolo e le più invasive manipolazioni pittorialiste, da cui comunque alcuni dei nuovi autori furono in certa misura tentati.

In questo percorso di rivendicazione un ruolo determinante ebbero, come si è detto,  la scelta del soggetto e delle condizioni di ripresa, la riduzione degli elementi denotativi, l’azzeramento della scena costituito dal bianco su bianco delle masse nevose su cui disporre i segni neri e sintetici di qualche tronco o ramo, di qualche traccia di sci. Qui riconosciamo il progressivo volgersi dell’attenzione dai dettagli del paesaggio al paesaggio di dettaglio; la capacità di vedere e descrivere un universo conchiuso, autonomo. Non una sineddoche:  paesaggi d’invenzione. Reinventati dallo sguardo che li scopre e li mostra, nuovi, per la prima volta; poiché ciò che veniva mostrato non era la trasposizione fotografica del luogo ma la raffigurazione del rapporto che con esso intratteneva l’autore. Una fotografia di fatto “soggettiva”, sebbene ancora lontana dalla consapevolezza critica che al termine sarà data da Otto Steinert nel secondo dopoguerra (Subjective, 1984).

Il primo passo era stato compiuto dal movimento pittorialista,  in tutte le sue differenti declinazioni. Basti pensare all’allontanamento programmatico dalla realtà fattuale che lo caratterizzava a  livello internazionale e di cui costituivano indizi rivelatori non solo elementi apparentemente secondari come il trattamento finale, la presentazione dell’opera, ma specialmente la manipolazione delle apparenze analogiche di ogni fotografia, la tensione alla perdita di ogni vincolo di meccanica referenzialità.

Mentre si moltiplicavano le scene arcadiche e crepuscolari, però, guerra e fotografia si alleavano per offrire alla vista immagini sconosciute del mondo. Non solo – come ha riconosciuto Diego Leoni elaborando un pensiero di Merleau Ponty – si ampliava e si ridefiniva la “appropriazione del campo di percezione entro il quale l’oggetto del contendere si sarebbe definito visivamente e politicamente” (Leoni 2001, p.  8), ma alla rappresentazione prospettica terrestre di tradizione rinascimentale si affiancava, sostituendosi in parte, una visione zenitale e planimetrica, in cui l’immagine fotografica si approssimava all’astrazione cartografica conservando intero il proprio carico di referenzialità[4].

Per questa sola ragione la ripresa aerea ha contribuito a formare in modo nuovo l’esperienza comune del paesaggio e più in generale dello spazio, già toccata dalle modificazioni indotte dalle grandi invenzioni ed elaborazioni teoriche dei decenni a cavallo tra Otto e Novecento. Come ha riconosciuto Gertrude Stein riflettendo sull’opera di Picasso “il Novecento è un secolo che vede la terra come non l’ha mai veduta nessuno[5], la terra quindi ha uno splendore che non ha mai avuto. Nel Novecento tutto si distrugge e niente continua, il Novecento quindi ha uno splendore tutto suo. (…) Ha la singolare qualità di una terra che nessuno ha mai veduto, di cose distrutte come non sono mai state distrutte.” (Stein 1938, p.  86-87)

Lo statuto di queste fotografie era, ancora una volta, ambiguo e ciò ha determinato conseguenze importanti sul loro impatto estetico[6]: certo esse costituivano – secondo la bella definizione di Giovanni Battista Trener, tra le figure più rilevanti del pionierismo dell’aerofotografia italiana –  la registrazione delle “impronte della guerra”[7], consentendo di raffigurare qualcosa di altrimenti invisibile come il campo di battaglia[8], ma la loro assoluta capacità di restituzione ottico geometrica ne riduceva anche drasticamente il campo di riconoscibilità al di fuori dell’analisi specialistica: l’esito supremo dell’applicazione strategica dell’oggettività fotografica conduceva all’astrazione.

Negando ogni confronto comune e il conforto che nasce dall’esperienza diretta, il terribile Paesaggio di rumori di guerra (per riprendere il bel titolo di un piccolo disegno di Depero, del 1915) di queste immagini si trasformava in figura astratta e imponeva suggestioni nuove, fondamentali per la ridefinizione del linguaggio visivo e fotografico ben oltre gli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale.

è appena il caso di richiamare qui l’interesse o la vera e propria passione per le riprese aree di due architetti fotografi come Giuseppe Pagano e Carlo Mollino, o ricordare che Lazlo Moholy-Nagy ricorse alla “Fotografia aerea di una piazza” per la sceneggiatura tipofotografica di Dinamica della grande città, stesa nel 1921-22 con Carl Koch[9]. Più pertinente alla cultura fotografica italiana  era stata la riflessione che Antonio  Boggeri svolse nel  1929 a proposito del concetto di “fotografia moderna” sulle pagine della rivista milanese “Natura”, lucidamente sviluppata nel Commento all’annuario Luci ed Ombre dello stesso anno. “Circa il modo di fotografare, crediamo dover risalire alla fotografia aerea per spiegare la rivoluzione avvenuta repentinamente nella scelta del così detto punto di vista. Senza dubbio le prime fotografie prese dall’aeroplano rivelarono prospettive meravigliosamente nuove” (Boggeri 1929a) “in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari”. (Boggeri 1929b)

Questa notazione destinata a diffondere  in Italia il verbo del modernismo fotografico, della “fotografia pura o integrale”, segnava anche il punto di svolta di un percorso collettivo di ricerca[10] sorretto da istanze non sempre chiaramente espresse se non – più spesso –   ingenuamente formulate. Solo la rilevanza del fenomeno, solo la verifica della sua incidenza, della “evidente affinità di tendenze e di metodi” che già Boggeri riconosceva anche a livello internazionale, ci consentono oggi di ritrovare in quelle opere un senso e un valore  che vanno oltre le semplicistiche dichiarazioni di poetica, oltre le coeve letture critiche di tono crepuscolare.

Solo Mario Gabinio non ne fu toccato, ma in ragione della sua sostanziale marginalità rispetto alla rete degli amateur photographers torinesi. Lo scarto radicale e stupefacente che impose al proprio guardare all’avvio degli anni Trenta, ribaltando il realismo analitico della sua formazione ottocentesca in una nuova visione perfettamente aggiornata, senza pagare alcun dazio alla maniera pittorialista, ma rielaborando semmai suggestioni del divisionismo[11],  restò sostanzialmente ignorato sebbene molte delle opere pubblicate sulle riviste di quegli anni avessero più di un’analogia con esemplari della sua produzione anche significativamente antecedenti.[12]

I nomi che circolavano erano quelli degli esponenti del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica, vale a dire Carlo Baravalle, Achille Bologna e Stefano Bricarelli, dal 1923 direttori e proprietari del “Corriere Fotografico” e di un altro piccolo gruppo di autori, prevalentemente provenienti dall’Italia settentrionale, dal Piemonte al Trentino, che determinavano con le loro opere il tono medio della produzione italiana tra le due guerre, segnata dallo scarto drammatico tra cultura “salonistica” e scenario politico e civile, distacco che procederà, pur con ragioni successivamente diverse sin quasi agli anni del secondo dopoguerra.

Sebbene incominciassero ad affacciarsi, già intorno alla metà degli anni Venti, accenni ad un “nuovo mondo” seppur non ancora ad una “nuova visione”, lo stesso linguaggio critico si abbandonava ancora all’esaltazione della “poesia delle soffici luminosità”, del “temperamento raccolto e sognante” di Francesco Agosti come del romanticismo di Peretti Griva, celebrando la “religiosa passione espressiva” delle immagini di Carlo Baravalle, in cui i “segni del travaglio meccanico” erano ormai scomparsi. Il piemontese Angeloni notava che “la composizione è dettata non solo dalla natura delle cose e dall’anima del disegnatore, ma sì anche da un evidente signorile insegnamento dell’arte pittorica nazionale e più particolarmente di quella scuola che ha in Piemonte i suoi maestri negli Avondo, nei Bertea, nei Fontanesi, nei Follini.”[13] Questi richiami non dovevano certo dispiacere a quegli autori, specialmente ai torinesi che proprio ad un pittore come Cesare Maggi, autore di paesaggi innevati che vivevano delle stesse suggestioni delle autocromie, avevano affidato la “fraterna cura” della sala in cui erano comprese le loro opere in occasione delle II Mostra del Fotogruppo Alpino del CAI, nel maggio 1927, e addirittura, nel gennaio dell’anno successivo dell’intera  Prima Mostra d’arte fotografica del Gruppo Piemontese per la fotografia artistica.[14]

Fu questa la più ricca stagione delle mostre e dei Salon torinesi e della notorietà internazionale dei membri del gruppo: Photograms of the Year 1929 (Photograms 1928) aveva pubblicato un’immagine di Bricarelli[15] e Audax di Giulio (t. XXV), che Gian Luigi Brezzo aveva già giudicato “superbo” presentandolo sulle pagine dell’annuario di Luci ed Ombre per il 1929 (Brezzo, 1929 p.  778).

Cesare Giulio,  autore di “abbacinati paesaggi di neve”[16] quasi sempre  privi di sviluppo prospettico, modellati per superfici pure, segnate da impronte e scie che si trasformano volentieri in texture, era certo stato tra i primi e più coerenti nell’adottare le formule della nuova fotografia, autore di immagini in cui la tendenza alla costruzione della pura forma, astratta, era confermata anche da certi suoi titoli (Trasparenze, ante 1932) analoghi a quelli di autori a lui prossimi come Carlo Baravalle (Sinfonia della neve, 1927)[17].

L’appartenenza di queste fotografie al genere del paesaggio, inteso come “una rappresentazione pittorica – o fotografica – di carattere eminentemente descrittivo e totalitario, nella quale l’insieme domini sul particolare [e] le figure – se figure vi sono – abbiano funzione complementare (…) l’architettura e in genere l’opera dell’uomo siano assoggettate dall’impero incontrastato della natura.” (Bernardi 1927, p.  10) era – come si è detto –  messa in discussione: “non sono paesaggi né le nevi dell’Oneglio e del Giulio né i particolari luministici del Baravalle” (ivi, p.  11).

Sono fotografie che danno “pittoricamente l’impressione del silenzio e della solitudine”, che offrono  “null’altro che una fulminea sensazione di velocità”, nella definizione di Marziano Bernardi de La scia di Cesare Giulio, giudicata “efficacissima per la trovata dei due solchi che diagonalmente tagliano il ripido nevaio.” (ivi  p.  17). La stessa immagine, forse la più nota ed emblematica di tutta questa stagione[18], venne pubblicata come “study in space and movement (…) a skier whose trail through the snow describes a beautiful curving line”, nell’annuario del 1931[19] della rivista londinese “The Studio” (tav. 81), una vera summa della fotografia modernista con immagini di Herbert Bayer, Francis Bruguiere, Florence Henri, Germane Krull, Man Ray e Tina Modotti  tra gli altri, oltre agli italiani Achille Bologna e Stefano Bricarelli.

Questa economia di mezzi, questa riduzione ai minimi termini dei segni e dei toni, l’assenza di manipolazioni in ripresa e in stampa pur nella ricerca ostinata dell’artisticità dell’immagine rappresentavano, più che il superamento, una soluzione alternativa al pittorialismo ancora  imperante, la scelta di altri modelli di riferimento, di altre suggestioni quali la grafica giapponese, esplicitamente richiamata a commento di un’opera di Riccardo Moncalvo presentata in Luci ed Ombre del 1934[20]. L’eliminazione del volume prospettico in favore dell’esaltazione della superficie, l’adozione del tono alto inducevano a fondare il proprio bagaglio espressivo sulle pure potenzialità delle modulazioni tonali, intrecciando il proprio con altri percorsi coevi sebbene distanti: basti qui ricordare i toni alti delle fotografie di fiori di Imogene Cunningham che proprio il “Corriere Fotografico” aveva pubblicato nel 1931 e, ancora, l’opera di  Moholy-Nagy, che aveva utilizzato sequenze di sciatori e scie tratte dal testo Wunder des Schneeschuhs di Arnold Fanck[21], il regista che nel bellissimo libro fotografico dedicato al suo Der weisse rausch /L’ebbrezza bianca, 1931, aveva riproposto con un montaggio efficacissimo e denso circa 2000 fotogrammi ricavati dalle riprese di Richard Angst, montati in sequenze di grande efficacia dinamica cui vennero assegnati titoli quali “Ski- Impressionismus” o “Ski-Expressionismus”. (Le stelle 2004, p.  127)

A conferma di “quanto potentemente [avessero] influito i modi del cinematografo sulla fotografia moderna”  (Pellice 1932, p.  XIV) basti verificare come le campiture di neve delle piste fossero state trasformate in spazi da comporre coreo-graficamente, da attraversare con silhouette sempre meno riconoscibili,  più veloci,  portate sino all’estremo limite della scomparsa della figura: restavano solo le nuvole bianche sollevate dallo sci “wenn der Schnee stäubt” (quando la neve è polverosa). Le ombre in movimento, le tracce e le forme che modulano il bianco erano quelle che ritroviamo in molta fotografia modernista, al limite della citazione, quasi del plagio.

Gli esempi sono numerosissimi[22], in particolare nella produzione di Giuseppe Ghedina (Cortina d’Ampezzo) e dei Fratelli Pedrotti (Trento e Bolzano), attivi anche nel campo del cinema di montagna sin dal 1932 quando Aldo filmò la Prima ascensione direttissima della Paganella. Già Floriano Menapace (2001 p.  53) aveva indicato come  “la vera fonte estetica dei Pedrotti fossero il cinema  e i ritratti fotografici degli attori”, con riferimenti espliciti a Fanck e Luis Trenker, mentre meno convincente appare  il richiamo alle influenze  futuriste (ma di un futurismo ormai semplice “cultura della modernità”) “dopo aver conosciuto Depero e il suo impegno entusiasta per l’avanguardia” di cui ha parlato Giovanni Lista (2001 p.  193), riconoscendo nei “solchi lasciati dagli sci e dalle slitte sui campi di neve, la volontà di una resa astratta capace di trascendere il riferimento ai dati della realtà esteriore e (…) una connotazione calligrafica che traduce i temi formali tipicamente futuristi dei tracciati d’energia e delle linee in movimento continuo.” (ivi  p.  202) Lettura affascinante, ma non convincente. Si potrebbe forse suggerire un percorso diverso, ricordando ad esempio come Enrico Pedrotti, di formazione tardo pittorialista, avesse pubblicato su “Galleria” nel 1934, in un numero in cui comparivano  anche immagini di Erich Angenend, autore vicino alle poetiche della Nuova Oggettività e per lungo tempo punto di riferimento di molta fotografia italiana.[23]

Quando, allo scadere del regime fascista, nel 1943 venne pubblicata Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia per la cura di Ermanno F. Scopinich in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner, lo scenario appariva ormai in profonda trasformazione e  Peretti Griva, storico autore di “paesaggi trascendentali” caparbiamente pittorialisti, stampati al bromolio trasferto,  era il solo rappresentante del gruppo di torinesi vicini al “Corriere Fotografico”.  Risultava assente anche un autore internazionalmente noto come Cesare Giulio, sebbene la fotografia a tono alto, eredità diretta delle prove dei decenni tra le due guerre, fosse rappresentata da un altro torinese come Enrico Giorello (p.39), e dai trentini Enrico e Aldo Pedrotti (tavv.56, 80), cui Giuseppe Turroni avrebbe riconosciuto di aver fornito “la grammatica d’esordio di Fulvio Roiter”[24] [quando] rielabora i moduli astratti (…) i toni sono cioè sempre candidi  [e]  la sintesi calligrafica è ancora il suo campo sperimentale.” (Turroni 1959, pp. 17, 53)

Il Paesaggio invernale  di Aldo Pedrotti si presentava – nella lettura di Zannier (1981 p.  14) come  “una bianca superficie, interrotta soltanto da due esili segni verticali (due pioppelle), che scandiscono lo spazio dell’immagine, di una estrema purezza grafica, inconsueta allora”, sebbene fosse una prova di tono piuttosto narrativo, lontana dalle tensioni astratte presenti nelle opere dei migliori autori del decennio precedente.  Fotografia uscì a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di Luci ed Ombre (1934), che ne costituiva di fatto il precedente editoriale (ma non ideologico) e rappresentò un ulteriore tentativo, non compiutamente risolto, di far procedere il dibattito che avrebbe dovuto consacrare la svolta modernista, timidamente avviato dopo il 1923 dal “Corriere Fotografico”, poi proseguito e affinato sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, nonché col contributo fondamentale di Gio Ponti,  Edoardo Persico e dell’editore Gianni Mazzocchi.

Federico Vender, presente con quattro immagini, era in quegli anni uno degli autori più rappresentativi e considerati del panorama italiano e internazionale almeno dal 1934. Il suo sguardo orientato alla trasfigurazione in senso idealistico della realtà in immagine, era caratterizzato dal ricorso programmatico al tono alto, derivato da Cesare Giulio e dai fratelli Pedrotti ma qui, come in Giuseppe Cavalli, liberato ormai dalla necessità del soggetto e caricato consapevolmente di senso e intenzione, esito della “necessità di allontanare la fotografia che abbia pretese di arte, dal binario morto della cronaca documentaria”[25]. Era dalla considerazione critica di questa sequenza di opere e autori che sarebbe derivata, ormai alla soglia degli anni Sessanta, la possibilità di riconoscere “la costante più vera della nostra fotografia, pur in mezzo a tante contraddizioni e ripieghi: la verità della forma.” (Turroni 1959, p.  17)

La condizione nuova in cui viveva il paese, uscito da poco più di un decennio dalla guerra civile, il punto di vista collocato in una fase di profondi cambiamenti non potevano però non portare, contestualmente, a formulare un severo  giudizio etico: “Nell’immediato dopoguerra la stabilizzazione conformista non accenna minimamente a frangersi in vista di uno sbocco libero, di una finalità narrativa. (…) Questo voluto narcisismo era necessario ai fini di un ulteriore approfondimento del linguaggio? No. Si trattava in sostanza di indifferenza, di pigrizia morale” (ivi, p.  24) giustificabile solo pensando al lungo “periodo di rassegnazione” trascorso.

Erano anni in cui il confronto ideologico all’interno della più viva scena fotografica italiana, incerta tra eredità fotoamatoriale e nuove spinte all’impegno professionale, si manifestava anche attraverso la costituzione di numerosi circoli fotografici militanti: dopo una gestazione quinquennale (e una guerra di mezzo) nel 1947 venne pubblicato su uno dei primi numeri della rivista “Ferrania” il manifesto di palese derivazione crociana de La Bussola, fondata da Giuseppe Cavalli, Federico Vender e Mario Finazzi, cui si aggiunsero Ferruccio Leiss, Luigi Veronesi ed altri in seguito, mentre sul finire dello stesso anno si costituì La Gondola, per iniziativa di Paolo Monti. Ancora per iniziativa di Cavalli veniva fondata nel 1953 l’Associazione Fotografica MISA,  emanazione ‘giovanile’ de La Bussola, che nella sua prima mostra,  a Roma nel 1954, presentò opere di Piergiorgio Branzi, Mario Giacomelli, Francesco Giovannini, Giuseppe Möder ed altri, affiancati da autori più ‘anziani’ come Cavalli e Vincenzo Balocchi.

Di poco successiva fu l’istituzione del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia, costituito nel 1955 a Spilimbergo da Italo Zannier, Fulvio Roiter, Gianni Borghesan, Toni Del Tin, Carlo Bevilacqua, Aldo Beltrame (poi anche Gianni Berengo Gardin), gruppo che si professava di stretta osservanza neorealista, sebbene nella sua produzione si riconoscessero influenze diverse, che avrebbero portato Franco Russoli a parlare per loro di “realismo lirico”[26], individuando la presenza di elementi che implicavano un richiamo alla fotografia soggettiva, quindi ad ambiti di ricerca prossimi ad un autore apparentemente lontano come Paolo Monti.

Per ben vent’anni, luogo privilegiato di confronto e di scambio, di divulgazione consapevole della nuova cultura fotografica italiana fu la rivista “Ferrania”, fondata in quello stesso 1947 che si rivela essere stato un anno chiave per la nuova fotografia nostrana, quale strumento promozionale della più importante industria italiana di prodotti fotografici. Nelle parole di Italo Zannier, che nel 1956 vi pubblicava il suo primo saggio, dedicato ad una lettura neorealista di Giacomelli in contrapposizione all’idealismo del maestro Cavalli, la rivista era “una cronaca colta, che offriva il più attendibile panorama di una cultura visiva nel  passaggio dal residuo pittorialismo al modernismo (…) sino allo sperimentalismo (…) e inoltre il neorealismo sociologico (…) magari privilegiando quello più dolce e lirico dei veneziani Roiter, Del Tin, Bonzuan.” (Zannier 2004, p. 114).

Le opere pubblicate sulle sue pagine ci consentono di ricostruire le intricate vicende di una stagione conflittuale, segnata dalla contrapposizione “tra fotografia d’«arte» e fotografia «vera»”, tra le diverse declinazioni del realismo e la fedeltà “all’assioma fondamentale che in arte il soggetto non ha nessuna importanza”.[27]

Questa doppia posizione si traduceva visivamente nel radicale contrasto tonale tra l’ high key, proprio dei formalisti dichiarati, sovente ridotto a formula stilistica progressivamente esangue, assunto quale elemento significante dell’idealismo artistico, e le “ricorrenze tonali di un nero profondo” (Camisa 1958, p.  105) che contraddistinguevano la nuova fotografia impegnata nel dialogo col vero, per quanto trasfigurato.

Chi in quegli anni si assumeva il compito di riflettere sulle tendenze della fotografia italiana,  ancora una volta non poteva fare a meno di utilizzare un lessico, di richiamare definizioni critiche derivate dal più vasto mondo della cultura artistica, ora consapevolmente accolte.

“Esistono dei termini, delle ‘definizioni’ della forma espressione, validi indipendentemente dalla loro derivazione pittorica – affermava Alfredo Camisa – Anche se non perfettamente propri, alcuni di essi aderiscono al nostro pensiero: e non sta a noi crearne di nuovi. Espressionismo è uno di questi termini. Espressionismo indica rivolta contro ogni residuo naturalistico, espressione di qualche cosa che è dentro di noi: non la traduzione di un brano di natura (…) ma la visione interna fuori da ogni relazione (…) fondata su uno stato d’animo. La forma può apparire sconvolta, lacerata…” (Camisa 1958, p.  106)

La difficoltà di procedere oltre, di giungere a distinzioni nette tra le diverse tendenze e atteggiamenti emergeva però immediatamente: “la definizione stessa che ne abbiamo tentato – riconosceva Camisa –  indica comunque come il ‘passaggio’ dall’espressionismo ad altre forme espressive sia difficilmente individuabile: non sarebbe ad esempio concepibile una fotografia realista ed ambientale che fosse solamente tale e non espressionista”, tracciando così un percorso  che da Monti e Giacomelli si ampliava sino a toccare Berengo Gardin, Branzi, Möder, Zannier e lo stesso Camisa. Questa prima distinzione non era però ancora sufficiente a descrivere l’intero arco della produzione postbellica, cui andava aggiunta la “fotografia lirica-realista, in pieno splendore nel decennio 1945-1955”.  Nella sua “delicatezza di toni, nella ricercatezza e nella compiutezza formale” era facile riconoscere “la derivazione da quella tendenza lirica pura dei nostri maggiori maestri dell’anteguerra. (…)  Una tendenza di grandi orizzonti, di semplice comprensione e di facile presa, anche se , spesso, al limite del manierismo e di un puro compiacimento formale”, in cui venivano fatte rientrare le opere di Bevilacqua, Giovannini, Roiter “ed alcune immagini di Bonzuan.” (Camisa 1958, p.  107)

Riconosciamo qui quella difficoltà o incertezza interpretativa, quella stessa impossibilità feconda di applicare troppo rigide classificazioni che ritroviamo in un’altra lettura delle opere di Mario Giacomelli, i cui paesaggi erano giudicati  “espressionisti eppure placati in una pura scansione ritmica (…) di un significato lirico ispirato.” (Turroni 1959, p.  65)

Dal luglio 1957 aveva fatto la sua comparsa in edicola l’edizione italiana del mensile “Popular Photography”, con Fedele Toscani tra i consulenti tecnici, cui si affiancò sin dal secondo numero Piero Donzelli, aprendo immediatamente al grande reportage internazionale con ampi articoli dedicati alla Magnum ed un’intervista ad Henri Cartier-Bresson (settembre 1957). La rivista riservava un’acuta attenzione critica anche agli autori della fotografia italiana contemporanea, che un articolo di Cesare Colombo definiva Gli eroi complicati, dotati di “una grande sensibilità umana e [di] parecchie inquietudini intellettuali.” (Colombo 1958)

Il notevole spettro di interessi e l’apertura di un redattore come Donzelli erano testimoniati dalla pubblicazione degli Esperimenti di fotografia astratta di Franco Grignani, presentati da Gillo Dorfles (settembre 1958) come delle formalizzazioni di Edward Weston (1886-1957), cui venne reso omaggio a poca distanza dalla morte, mentre su quelle pagine Zannier proponeva i suoi “aforismi e fotografie” di architettura, dimostrando un’attenzione per la cultura visiva statunitense, da Ezra Stoller a Minor White, che andava ben oltre l’impegno realista del suo Gruppo Friulano.

Quando, nell’ottobre del 1959 alla Biblioteca Civica di Sesto San Giovanni si tenne l’ennesima “Prima Rassegna della Fotografia Italiana”, offrendo un panorama estremamente articolato e ricco di oltre cinquecento fotografie dei  migliori autori, il compito non tanto di recensire l’evento quanto “di trarne un insegnamento” venne affidato ancora a Camisa, ma il bilancio che ne fece non fu certo positivo.

Era ancora ben presente infatti l’anacronistico permanere e prevalere del dilettantismo, quello stesso stigmatizzato da Turroni, qui più precisamente individuato e definito nella “mancanza di consapevolezza critica nell’impiego del mezzo fotografico e [nella] conoscenza delle funzioni del [suo] linguaggio.” (Camisa 1959, p.  76).

“Fra i dilettanti presenti a Sesto (…) mostrano particolari lacune (…) Giacomelli e Gardin [presente con Il trenino della Val Gardena], che pure sono fra i migliori dilettanti nostri; entrambi, e in particolare il secondo, difettano per la disparità delle immagini selezionate e dello stile. Per un difetto, cioè, tipico del dilettantesimo fotografico…” (ivi, p.  77)

Era il punto di snodo. L’avvio di una nuova stagione della fotografia italiana.

Note

 

[1] Bernardi 1928, pp.  641- 642. Lo stesso concetto sarà ripreso ancora alcuni anni più tardi in quello che è unanimemente considerato uno dei testi chiave dell’estetica fotografica modernista italiana: nel primo dei suoi quarantaquattro “Concetti per fotografi moderni” Mario Bellavista invitava infatti a “fare la sintesi e non l’analisi dei soggetti da riprodurre. È più intelligente, più abile, più moderno.” (Bellavista 1934, p.  10)

[2] Lettera a Louis Boulanger-Cauterets, citata in Sorbé 1993 , p.  69.

[3] La splendida formula si deve a Emanuele Sella che, rispondendo nel 1922 al quesito rivolto ai lettori del periodico “Il Fotografo” affermava: “La fotografia? È la documentazione dell’inesistente.”, cfr. “Il Fotografo”, 4 (1922),  n.3, p.10. Non esistono per ora elementi certi che consentano di identificare l’autore della definizione con l’omonimo membro della famiglia Sella, economista e poeta, poi Rettore dell’Università di Genova, su cui cfr.il numero monografico Emanuele Sella (1879-1946),  “Rivista Biellese”, 1 (1947),  n.5, settembre-ottobre cortesemente segnalatomi da Aldo Sola, che ringrazio. Due fotografie di E. Sella, di Torino,  Nouvelle lune, e Sérenité marine, vennero pubblicate nel numero di maggio giugno 1915 de “La Fotografia Artistica”. Anche Gio Ponti, nel suo  Discorso sull’arte fotografica, 1932, riconosceva alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio“.  (Ponti 1932, pp. 285-286).

[4] Confermando una programmatica distanza dalle contingenze storiche, il periodico “La Fotografia Artistica” riprendeva – 12 (1915, n. 2,  febbraio, pp.  25-26; marzo, pp. 37-38) lo studio dedicato alla Topofotografia aerea dal capitano Cesare Tardivo, già pubblicato sulla “Rivista d’Artiglieria e Genio”, 3 (1913), in cui si descrivevano le diverse applicazioni senza però fare alcun cenno alla guerra incombente.

[5] Nello stesso secolo ci sarà un altro punto nodale in cui – nuovamente – la terra sarà veduta “come non l’ha mai veduta nessuno”: vista dalla luna in una notte del 1969 e raccontata da Luigi Ghirri 1978, p.  11-12.

[6] Che questo ordine di preoccupazioni non fosse estraneo alle riflessioni dei Comandi Militari è ben documentato  dalle Norme tecniche e d’impiego del servizio fotografico terrestre ed aereo emanate dal Comando supremo nel 1918, che imponevano per la individuazione del punto di vista da cui realizzare i panorami di non  tenere alcun conto “dell’aspetto più o meno artistico che, in base a tale scelta, può assumere il panorama stesso”,  cit. in Zandonati 2000, p.  16. Ciò dimostra la relazione comunque stretta tra la cultura dei fotografi militari e quella fotoamatoriale: se non si fossero presupposte connessioni, non sarebbe stata necessaria tale raccomandazione.

[7] Leoni, Marchesoni, Rastelli 2001, p.  42.

[8] Sull’impossibilità reale di riconoscere e definire lo spazio del proprio agire al fronte è sufficiente rimandare qui alle bellissime pagine del Giornale di guerra e di prigionia  redatto da C. E. Gadda dall’agosto 1915 al dicembre 1919 e pubblicate per cura di Dante Isella, Milano, Garzanti, 1992.

[9] Moholy-Nagy (1925) 1987, p.  126.

[10] “Sulle riviste di quegli anni l’idillio regna sovrano. Colpisce un amore uguale in tutti, quello di una determinata espressione formale. A occhi non smaliziati, non «iniziati», le foto di allora si confondono paurosamente tra loro.” (Turroni 1959, p.  36)

[11] Tronchi in controluce, del 1936 riprende temi e problemi di rappresentazione affrontati alcuni decenni prima da  Vittore Grubicy de Dragon.

[12] Mi riferisco ad esempio al suo Paesaggio invernale, 1915-1920, che presenta molte analogie con le Fantasie di ghiaccio di Piero Oneglio pubblicata sul “Corriere Fotografico” nel dicembre del 1924. Il motivo delle ombre di tronchi sulla neve ritorna anche in un’immagine di Stefano Bricarelli per  “Motor Italia”, 11 (1932) marzo, p.  45 a corredo dell’articolo L’Eden degli sciatori nelle nostre Alpi, ma anche in Photograms of the Year, 1940 (tav. LI),  in una fotografia dell’americano Gustav Anderson.

[13] Angeloni 1926, p.  242. Anche un altro critico torinese parlerà di lì a poco di immagini  “che ci fanno pensare a Maggi, a Chiariva, a Pollonera ad Avondo e Calderini.” (Bernardi 1927, p.  10)

[14] Oltre a Maggi, soggetto anche di un ritratto di Ottaviano Ecclesia, i curatori della mostra, aperta il 21 gennaio 1928 al Circolo della Stampa di Torino,  erano, i critici dei due maggiori quotidiani locali Marziano Bernardi (“La Stampa”) ed Emilio Zanzi (“La Gazzetta del Popolo”). Oltre alle opere dei ventuno membri del gruppo erano presentate le personali di tre notissimi autori stranieri di scuola pittorialista: Marcus Adams, Leonard Misonne e José Hortiz-Hechagüe. In occasione dell’esposizione del Fotogruppo Alpino nel maggio 1927, nella sala del Gruppo Piemontese erano presenti opere di Agosti, Baravalle, Bologna, Bricarelli, Placido Eydallin, Giulio, Oneglio, Pasteris e Sergio Perdomi, mentre le altre ospitavano, tra gli altri,  i lavori di Hess e Reviglio.

[15] Gondole, t. X. Lo stesso Bricarelli aveva redatto un breve profilo della fotografia italiana per Photograms of the Year del 1923 che conteneva ben cinque opere di autori italiani.

[16] Così li definirà Achille Bologna, 1935; va qui ricordato il suo Spiaggia  che nell’uso della texture rimanda ancora a Giulio.

[17] Il richiamo alle forme musicali, oltre all’esempio di Stieglitz, verosimilmente ignoto in Italia, era esplicitamente avanzato da numerosi autori: “Io sono solito ad associare una visione fotografica a una sensazione musicale, la quale, a guisa di pietra di paragone, può darsi mi dia una norma per stabilire l’intensità dell’emozione avuta.” (Peretti Griva 1934, p.  17)

[18] Come conferma uno degli album conservati presso l’Archivio Fotografico del Museo Nazionale della Montagna di Torino, questa immagine notissima costituiva l’esito del taglio in stampa di una più ampia ripresa (n.3795).

[19]Le due più importanti riviste italiane di architettura dedicarono recensioni a questo annuario, pur con valutazioni profondamente diverse: per il redattore di “Domus” si trattava  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  – 4 (1931),  n.47, p.67 –  mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume costituiva l’occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.”, 4 (1931),  n.47, novembre, p.54. Nel marzo dello  stesso anno si apriva a Torino la Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista, a breve distanza dalla redazione del manifesto La fotografia futurista, di Marinetti e Tato, pubblicato nell’aprile del 1930 in occasione del Primo Concorso Fotografico Nazionale di Roma. All’edizione torinese, ricca di ben 170 opere di 22 autori diversi ma poco più che segnalata da due brevi note di cronaca cittadina comparse sui quotidiani locali, non partecipò nessuno dei fotografi vicini al Gruppo Piemontese, ma fu certamente visitata da alcuni di essi: Carlo Matis, ad esempio, possedeva una copia del catalogo.

[20] “Riccardo Moncalvo disegna con sottile malia giapponese un arazzo di brine e di vette”, scriveva Angeloni a proposito di Inverno presentando l’annuario di quell’anno (Angeloni 1934, p.  591)

[21] Moholy-Nagy (1925) 1987, p.   116. è appena il caso di ricordare che Fanck fu l’inventore del Bergfilm, del cinema di montagna,  la cui vera terra d’elezione fu stata la Germania, efficace narratore di questo “idealismo eroico” che contemplava sempre il confronto simbolico tra l’uomo protagonista e le vette, gran costruttore di trame drammatiche, maestro di Luis Trenker e poi di Leni Riefenstahl. Analoghe soluzioni, pur con campi sufficientemente ampi e quasi panoramici, furono adottate da Emanuel Giger circa negli stessi anni, cfr. Audisio, Cavanna 2003, p. 100 passim.

[22] Penso in particolare a certe immagini del torinese Alberto Rossi, di cui Mollino pubblicò un Ritratto di Marlene Dietrich (1949, p.  295) o alle opere di Ettore Santi, di Clavières, datate 1930, perfettamente assimilabili alle foto di scena di Fank.

[23] I rimandi non dovevano però essere a senso unico: si confronti ad esempio  Levico: lago gelato, 1956 (Menapace 1981, p. 121) dei Pedrotti con Gelo astratto, di Angenend,  “Ferrania”,  13 (1959),  n.1, gennaio, p.4.

[24] Immagini dei Fratelli Pedrotti vennero pubblicate anche da Carlo Mollino (1949, p. 365) insieme a due fotografie di Riccardo Moncalvo (Nella tormenta  e Sotto zero, tavv. 362-363, entrambe del 1937, qui datate 1946).

[25] Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Zannier, Weber, 1997.

[26] Zannier 1997, p. 11. Alla luce di questa interpretazione è interessante leggere un’immagine come Finestra a Claut, 1953, di Zannier che offre suggestioni ben lontane dal realismo, e che fa venire alla mente le parole di Minor White: “L’elastica linea tra realtà e fotografia è stata tirata inesorabilmente, ma non è stata spezzata. Queste astrazioni della natura non hanno lasciato il mondo delle apparenze; perché farlo significherebbe spezzare il punto di forza dell’obiettivo, la sua autenticità. (…) Mentre vengono fotografate rocce, il soggetto della sequenza non sono le rocce; mentre sembrano apparire simboli, essi sono indicatori di senso. Il significato appare nello spazio tra le immagini, nel sentimento che suscitano nell’osservatore. (…) Le fotografie possono essere lette senza riserve. L’accidentale è stato messo da parte. La trasformazione della materia originale in realtà fotografica è stata intenzionale; la stampa è stata manipolata per influenzare l’affermazione; ed era stato previsto che appena l’oggetto si fosse rivelato, il Sé dell’osservatore si sarebbe manifestato. Per i dati tecnici, la macchina è stata usata fedelmente.”, (Minor White 1991, pp. 10-12).

[27]  Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Zannier, Weber, 1997.

 

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Domenico Riccardo Peretti Griva, Come deve essere giudicato il valore artistico di una fotografia?, “Galleria”, 2 (1934), n.8, agosto, pp. 16-18

 

Photograms  1928

Photograms of the Year 1929, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1928

 

Photograms  1939

Photograms of the Year 1940, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1939

 

Ponti 1932

Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n.53, maggio, pp. 285-288

 

Rebaudengo 1971

Dina Rebaudengo, Un uomo una città. Torino: Toso, 1971

 

Redazionale 1929

Redazionale, Il contributo della microfotografia alle arti decorative, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 3, marzo, pp. 177 – 178

 

Redazionale 1931a

Redazionale, Inaugurazione della Mostra di fotografia futurista, “La Stampa”, 16 marzo 1931

 

Redazionale 1931b

Redazionale, La Mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “Gazzetta del Popolo”, 16 marzo 1931

 

Redazionale 1984

Redazionale, Giuseppe Vannucci Zauli, “La Nazione”, 5 marzo 1984

 

Redazionale 1993

Redazionale, L’ultimo eroe [Carlo Betti], “Il Resto del Carlino”, 13 ottobre 1993

 

Rey 1925

Guido Rey, Fotografia inutile, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana,  1925- IV annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. V-X

 

Russo 2004

Antonella Russo, a cura di, “Vera fotografia” italiana 1936 – 1984. Arte, costume e società nelle immagini di una collezione privata. Milano: Skira, 2004

 

Schwarz 2001

Angelo Schwarz, a cura di, Guarda, ascolta. L’originale avventura tra musica e fotografia dei F.lli Pedrotti. Trento: Provincia Autonoma di Trento – Temi Editore, 2001

 

Scopinich 1943

Ermanno F. Scopinich, a cura di, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943

 

Sorbé 1993

Hélene Saule Sorbé, Pyrénées. Voyage par les images. Serres-Castet: Editions du Faucompret, 1993

 

Stein 1938

Gertrude Stein, Picasso [1938]. Milano: Adelphi, 1973

 

Le stelle 2004

Le “stelle” parlano al vostro cuore: la fotografia nel cinema delle montagne, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1 dicembre 2004 – 6 febbraio 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004

 

Stieglitz 1923

Alfred Stieglitz, The Clouds, “The Amateur Photographer & Photography”, 56 (1923), n. 1819,  p. 255, ora in Nathan Lyons, Fotografi sulla fotografia, Torino, Agorà Editrice, 1990, pp.136-138

 

Subjective 1984

Subjective Fotografie, catalogo della mostra (Essen, 1984), a cura di Ute Eskildsen, Robert Knodt, Christel Liesenfeld. Essen: Museum Folkwang, 1984

 

 

Turroni 1959

Giuseppe Turroni, Nuova fotografia italiana. Milano: Schwarz Editore, 1959

 

Zandonati 2000

Antonio Zandonati, Il Servizio fotografico nell’esercito italiano durante la Grande Guerra, in Tiziano Bertè, A. Zandonati, Il fronte immobile. Fotografie militari italiane dal monte Baldo al Cimon d’Arsiero. Rovereto: Museo Storico Italiano della Guerra, 2000, pp. 9-20.

 

Zannier 1958

Italo Zannier, Architettura, “Popular Photography”, 2 (1958), n.6, dicembre, pp. 56-60

 

Zannier 1979

Italo Zannier, a cura di, Ferruccio Leiss fotografo a Venezia. Milano: Electa, 1979

 

Zannier 1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

Zannier 1997

Italo Zannier, Il Gruppo “La Bussola” e la fotografia italiana del dopoguerra, in Forme di Luce 1997, pp. 5-19

 

Zannier 2004

Italo Zannier, “Ferrania” maestra di fotografia, in Colombo 2004, pp.  112-116

 

Zanzi 1925

Emilio Zanzi, La raccolta del 1925, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1925-IV annuale.  Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. XI-XV

 

Zanzi 1927

Emilio Zanzi, Montagne, “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 5, maggio, p.87

 

Lo spettacolo della verosimiglianza (2004)

in Infinitamente al di là di ogni sogno: alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1 ottobre – 14 novembre 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004, pp. 8-23

 

 

There was no tought in any of us for a moment of their beeing clouds.

They were as clear as crystal, sharp on the pure horizon sky ( … ).

Infinitely beyond all that we had ever thought or dreamed ¬–

the seen walls of Eden could not have been more beautiful to us“.

John Ruskin, 1885

 

Quando Ruskin descrive l’emozionante incon­tro richiamato in esergo, sono passati ormai più di cinquant’anni da quella sera del 1833 in cui – quattordicenne – si era trovato per la prima volta al cospetto delle Alpi, viste da Schaffausen[1]. L’incanto restava però, immu­tato, a testimoniare ancora – per noi – di un’intera stagione della cultura e del gusto che definiamo genericamente romantica, di quel Romanticismo che nelle parole di Baude­laire per il Salon del 1846 “non sta né nella scelta dei soggetti, né nell’esattezza del vero, ma nella maniera di sentire ( … ). Il romantici­smo è l’espressione più recente e più attuale del bello”[2]. È quello stesso sentimento di cui Ruskin parla, tracciandone un efficace e sintetico profilo genetico in cui si intrecciano auto­biografia e storia culturale: “In nessun periodo della storia umana sarebbe stato possibile im­maginare un più felice ingresso nella vita per un bambino che avesse un carattere come il mio. È vero però, che il carattere dipende an­che dal periodo storico. Pochi anni prima, meno di cento, non sarebbe potuto esistere alcun bambino che si interessasse tanto alle montagne e ai loro abitanti. Prima di Rous­seau non c’era l’amore ‘sentimentale’ per la natura, e prima di Scott non c’era l’amore an­sioso per ‘ogni aspetto e condizione’ dello spirito e del corpo. San Bernardo di La Fon­taine, guardando verso il Monte Bianco coi suoi occhi da fanciullo, vedeva la Madonna er­gersi al di sopra, e San Bernardo di Talloires non vedeva il lago di Annecy, ma i morti della zona tra Martigny e Aosta. Per me, invece, le Alpi e la loro gente sono belle rispettivamente per la neve e per la loro umanità, e non desi­deravo né per esse né per me, la visione di troni celesti ma solo la vista delle rocce e non sentivo il bisogno di vedere spiriti in cielo, ma solo nuvole”[3]. Romantico sentire sorto dalle radici del sublime settecentesco e nuovo rico­noscimento della fattualità degli elementi na­turali (le rocce, le nuvole) si incontrano senza contraddirsi in questo sguardo rivolto alle montagne, nelle ragioni che lo spingono a di­segnare e poi a far fotografare i ghiacciai e le vette alpine[4]  sin dall’estate del 1849. Sono, quelli, anni in cui l’esperienza della montagna era stata tradotta ormai da tempo in spettacolo per le popolazioni urbane, co­me dimostra la scelta di un tema alpino per l’inaugurazione a Parigi del Diorama di Bou­ton e Daguerre l’11 luglio 1822, quando una delle rappresentazioni proposte fu per l’ap­punto La vallée de Sarnen: “Jamais aucune représentation de la nature n’était arrivée, se­lon nous, à ce point de réalité qui peut faire croire (…) que la vue n’est pas reposée sur des imitations, mais sur les objets imités eux­memes”[5]. Era l’effetto di realtà, l’esito ultimo e allora apparentemente insuperabile della mimesi spettacolare offerta dal diorama che affascinava in questa esperienza, quello stes­so che circonderà di attonito stupore la prima comparsa del dagherrotipo, meno di vent’an­ni più tardi, rafforzato da quella maniera di restituire il sentimento attraverso la scelta del soggetto  di cui diceva Baudelaire, che ritroviamo ribadito e riproposto dalla coeva pittura di tema alpino e ulteriormente raffor­zato poi, letteralmente moltiplicato nella lar­ga diffusione garantita dalle nuove tecniche di riproduzione a basso costo, come la litografia e soprattutto la fotografia. Si vedano le due ri­produzioni di dipinti realizzate a Monaco di Baviera da Josef Albert[6] nei pri­mi anni Sessanta del XIX secolo scegliendo in un repertorio di paesaggismo romanticamen­te eroico, tra Julius Lange e Alexandre Cala­me[7].

Alla soglia degli anni Cinquanta la fotografia si avviava ad assumere le pratiche e le forme che oggi le riconosciamo come proprie, pas­sando compiutamente dall’unicità del proces­so dagherrotipico alla riproducibilità consenti­ta dal ciclo del negativo, avviato da Talbot e successivamente perfezionato dall’uso delle emulsioni al collodio su lastra di vetro, ulte­riormente amplificata con l’avvio delle prime stamperie fotografiche, come quella aperta nel 1851 a Lille (nel sobborgo di Loos-les-Lil­le), la più nota e importante della Francia di metà Ottocento. Qui Louis-Désiré Blanquart Évrard (Lille 1802-1872) avviò una produzione industriale di album fotografici applicando al trattamento dei positivi il processo di svi­luppo dell’immagine latente messo a punto da Talbot per il calotipo.[8] Le immagini pubblica­te, frutto di apposite campagne fotografiche o di raccolte di produzione eterogenea, erano montate su fogli titolati e riuniti in album non rilegati e venduti a dispense o unitariamente. L’attività di questo stabilimento fu brevissima e la stamperia chiuse improvvisamente nel 1855 per scarsa redditività, incapace di soste­nere la concorrenza delle stampe fotolitogra­fiche e delle fotoincisioni su rame o su ac­ciaio, ma ciò nonostante il ruolo svolto da Blanquart-Évrard fu determinante per la diffu­sione e la conservazione di una parte fondamentale della fotografia francese delle origini poiché qui vennero realizzate alcune delle opere più importanti della prima stagione del­l’editoria fotografica, ciascuna destinata a presentare i diversi campi di applicazione del­la fotografia: “études d’architecture, voyages, reproduction de gravures, souvenirs histori­ques”[9]. I soggetti spaziavano dal vicino Orien­te, conteso tra fascino esotico ed erudito inte­resse archeologico, tra l’Egypte, Nubie, Pale­stine et Syrie di Maxime du Camp (1852) e la Jerusalem di Auguste Salzmann (1854) [10], al pittoresco occidentale dei grandi fiumi e – ap­punto – dei paesaggi alpini, tra Les Bords du Rhine di Charles Marville (1853) [11] e i Souve­nir des Pyrenées di John Stewart[12], dello stesso anno, offerti in splendide tavole oggi rarissime[13] caratterizzate dalla dizione, appa­rentemente piuttosto ambigua, “Photo­graphié et édité par Blanquart-Évrard”, che pare contraddire la diversa attribuzione autoriale dei lavori mentre testimonia invece, or­gogliosamente il ruolo propositivo che l’imprenditore si attribuiva.

Già Alexandre Dumas con le sue Excursions sur les bord du Rhin del 1838, aveva dedica­to la propria attenzione alle leggende e alle tradi­zioni di questo fiume, una delle figure centrali della mitologia teutonica, e il tema continuerà a sollecitare interessi diversi, variamente con­nessi al fascino del pittoresco ancora negli an­ni delle ricognizioni di Marville, che qui ripren­de – da fotografo – un genere che aveva già frequentato da incisore, collaborando con Charles Nodier (1780-1844) alla serie dedi­cata a La Seine et ses bords del 1836. L’al­bum dedicato al Reno non rappresenta che uno dei titoli da lui realizzati per Blanquart­-Évrard, di cui fu il più assiduo collaboratore prima di dedicarsi alla documentazione dell’architettura e della città su commessa di archi­tetti e grandi restauratori come Paul Abadie e Eugene Viollet-Le-Duc, così come della stessa Municipalità, per la quale documentò il “Vieux Paris” (1865) prima delle trasformazioni hau­smanniane[14]. Diversamente da quanto accadrà nelle vedute parigine, questa ripresa ravvici­nata de La vallée suisse a St. Goarshausen Marville si distingue per una ecceziona­le e poetica attenzione ai dettagli del paesag­gio, al paesaggio di dettaglio forse, confer­mando uno sguardo riconoscibile anche in quella Barrière ouverte che era stata compre­sa nella prima serie degli Études photo­graphiques, pubblicati sempre a Lille nel 1853[15];  una lettura affettuosa, quasi intima degli elementi costituenti lo scenario alpino, dove ai tronchi affusolati in primo piano corri­sponde la delicatezza delle luci sulle foglie dei cespugli, un insieme di elementi a scala umana reso con dolcezza lontana da ogni furore senti­mentale, nonostante il peso mitico del tema.

Se la distanza di Marville dal paradigma ro­mantico si traduceva in differenti attenzioni di scala, quella posta in atto da John Stewart nel­la sua lettura dei Pirenei adottava strategie di­verse: in Environs d’Elsaut i modelli non sono certo quelli stabiliti e accolti dal gu­sto del pittoresco; semmai emerge un naturali­smo in bilico tra rilevamento geologico e at­tenzione analitica, in cui “scienza e arte con­vergono anziché divergere, e la ricerca esteti­ca della forma dilaga nell’idea goethiana e humboldtiana della morfologia della natura e del paesaggio”[16]. È quanto accade anche per Le pont de Sarrance, con la ripresa eseguita dal greto del torrente, quindi dal bas­so, ciò che porta a ridurre ai minimi termini e quasi a escludere lo scenario alpino, cioè pro­prio l’elemento drammaticamente connotativo delle coeve raffigurazioni pittoriche, nelle qua­li la presenza del ponte assumeva forte valore simbolico, strumento di salvezza che àncora l’uomo al mondo consentendogli di affrontare la terribilità della natura, mentre in questa ri­presa tutto è più domestico: stradale. Il tratta­mento del tema de Le torrent d’Arudy, pur orientato alla descrizione degli aspetti geologici del paesaggio rivela invece altre sug­gestioni: un interesse, un’attrazione quasi per le componenti materiche dello scenario natu­rale, dagli alberi alle rocce appunto, che Stewart condivide con molti autori coevi, non solo i fotografi della scuola di Barbizon o quel­li attivi nella campagna romana, mentre per­mane traccia del fascino di un tema proprio della poetica preromantica del sublime: quello della Gorge, della gola e dell’antro.

Quando Stewart pubblica le diciannove tavole del proprio album questi luoghi, i Pirenei ­- sebbene ormai ampiamente visitati e illustrati in album[17] con titolazioni a volte identiche, in cui il termine di Souvenir costituisce la formu­la più ricorrente – rappresentano la più recen­te novità in fatto di mete alpine, poiché “n’ayant pas comme les Alpes la chance de se trouver sur le chemin de l’Italie”[18] vennero am­piamente preceduti da Chamonix e – ancor prima – dall’Oberland bernese. Qui però, co­me scrisse Victor Hugo, “Il me semble, que les choses-là sont plus que du paysages. C’est la nature entrevue à des certaines moments mystérieux où tout semble rêver, j’ai presque dit penser”.[19] Certo doveva risultare difficile corrispondere visualmente a queste percezio­ni, poiché il restituire fotograficamente questi paesaggi poneva problemi di ordine meno im­mediatamente letterario, ma pur sempre e squisitamente discorsivo: “Les vallées des Pyrénées, à peu d’exception près, s’étendent du nord au midi – ricordava Maxwell Lyte, amico e sodale di Stewart – conséquemment elles reçoivent seulement une lumière oblique le matin et le soir. Cet éclairage oblique est nécessaire pour produire des effets vraiment artistiques de lumière et d’ombres, et pour donner une valeur réelle aux différents plans. (…) La chaleur du soleil parait aussi, durant le jour, soulever habituellement des vapeurs qui, si elles ne peuvent se condenser en nuages, interposent néanmoins un voile bleu de brume, d’une nature antiphotogénique, entre nous et les montagnes. Sachant que ces obstacles existent, je m’arrange toujours pour être sur le terrain et à l’œuvre autant que possible de bonne heure, et par conséquent plus des neuf dixièmes de mes épreuves sont exécutées à la lumière du matin, entre cinq et huit heures; les autres sont prises, presque sans exception, à la lumière du soir.”[20]

Allo stesso ambito di scoperta romantica del paesaggio francese può esser fatto risalire an­che il viaggio che nell’ estate del 1854 Edouard Baldus[21] compie in Alvernia, uno dei luoghi topici di questa fase sin dai Voyages pittoresques et romantiques dans l’ancien­ne France del barone Taylor e di Nodier (1829), in compagnia del suo maturo allievo Fortuné Joseph Petiot-Groffier (1788 ­1855), allo scopo di descrivere i monumenti e i paesaggi di una regione ancora poco toccata dalle profonde trasformazioni dell’industrializ­zazione e della modernizzazione che interes­savano altre aree. La collaborazione dei due fu tanto stretta da produrre alcune stam­pe virtualmente identiche firmate di volta in volta Baldus o Petiot-Groffier e altre firmate da entrambi. Alla serie di riprese realizzate dal solo Baldus appartiene invece quella indicata nel Catalogue del 1863 col numero 73, col titolo di Chaine des Monts-Doré (paysage) Puy-de­-Dome[22]. Essa fu esposta nel 1855 prima all’Esposizione Universale di Parigi[23] e poi ad Amsterdam col titolo attuale Mont d’Or, e testimonia di una fase di passaggio – e di cre­scita – dello sguardo fotografico di Baldus, che qui si misura non solo con le emergenze architettoniche e le vedute magistrali dei pic­coli nuclei urbani della regione, come Saint­ Nectaire, ma anche – per la prima volta – con­sapevolmente con gli elementi naturali, realiz­zando una serie di immagini che fanno consi­derare “the Auvergne photographs as master­pieces of early landscape photography”[24]. Qui Baldus crea “a new kind of landscape – spare, precisely composed, intensely tactile, highly sensitive to the play of texture and tone, volu­me and silhouette, on the two-dimensional page”[25], affidandosi a quell’apparente traspa­renza documentaria di cui si è nutrita la fecon­dità della fotografia soprattutto delle origini, ogni volta tradotta nello spettacolo della vero­simiglianza, qui mantenuto in elegante equili­brio tra fascino del pittoresco e analiticità de­scrittiva. Come aveva immediatamente rilevato il critico Ernest Lacan: “si vous êtes poète, si vous aimez ( … ) le silence des solitudes alpestres ( … ) suivez M. Baldus au milieu des sites grandioses de l’Auvergne. Il est peintre, il sait choisir les points de vue et diriger votre admiration. Chacun de ses épreuves est un poème, tantôt sauvage, imposant, fantastique, comme une page d’Ossian; tantôt calme, mélancolique, harmonieux comme une méditation de Lamartine”[26]. L’ampia ripresa che Baldus dedicata al Mont d’Or sembra infatti compo­sta avendo in mente le parole di Taylor di po­chi decenni prima, quando descriveva il sito come “un angolo della creazione che rappre­senta ancora l’immagine del caos. Le rocce staccate o pronte a cadere in valanghe (…) i terreni messi a nudo dalla caduta di pietre (…) pochi arbusti, qualche abete sparso qua e là (…) vi compongono un quadro severo, terribi­le e misterioso”[27].

All’Esposizione Universale del 1855 il lavoro fotografico che destò maggior sensazione fu però certamente la veduta panoramica in do­dici parti del massiccio del Monte Bianco ri­preso da La Flégère, per una lunghezza totale di due metri, realizzata da Friedrich von Mar­tens[28] utilizzando lastre albuminate che gli per­misero di ottenere quella “riproduzione im­mensamente esatta dei complicati dettagli of­ferti dai grandi rilievi della catena alpina, e in particolare dei loro ghiacciai”, che solo la fotografia poteva offrire e che tanto affascinavano il pubblico, pieno di ammirato stupore anche per le enormi difficoltà di realizzazione che si intuivano dietro lo splendido risultato: “Tutti coloro che hanno compiuto escursioni a quelle altezze – fu il commento di Ernest Lacan – possono apprezzare le difficoltà insite in una simile im­presa e la dedizione ch’essa esige. Oltre alla fatica di ascensioni lunghe e penose, e alle spese che impone il trasporto di apparecchia­ture pesanti, le condizioni variabili dell’atmo­sfera sono – troppo spesso – un ostacolo in­sormontabile. Molte volte si parte con un tem­po magnifico e un cielo limpido, ma dopo quattro, cinque, sei ore di salita si è sorpresi da un temporale, oppure d’improvviso, le nu­vole vengono semplicemente a nascondere il panorama nel momento in cui l’apparecchio è montato e pronto a funzionare. Allora bisogna rifare i bagagli e ridiscendere, rinviando l’ope­razione a un altro giorno”[29].

Anche i Fratelli Bisson, titolari di uno dei più eleganti studi parigini del Secondo Impero[30], furono presenti all’Esposizione, dapprima con sole strabilianti immagini di architettura quindi con alcune vedute dell’Oberland ber­nese, all’epoca ancora in una fase di esplora­zioni pionieristiche, realizzate nel corso di un viaggio promosso da Daniel Dollfus-Ausset, glaciologo originario di Mulhouse e loro socio in affari, per il quale fotografarono i due ghiacciai del Finster-Aar e del Lau­ter-Aar, cui aggiunsero quelle terribili del ter­remoto che colpì il Vallese il 25 e 26 luglio. “Toutes, parfaitement réussies – sottolinea an­cora Lacan – donnent une idée exacte des accidents survenus au moment des convulsions du sol et des traces déplorables qu’ils ont laissées. Ces épreuves n’ont pas seulement un grand intérêt au point de vue de la science, elles ont encore comme œuvres d’art un mérite incontestable, ce sont de charmants tableaux d’un effet pittoresque et d’une grande beauté de détails”[31].  Poi, dopo il pittoresco terremoto, andranno sul Monte Bianco. Anzi vi andrà solo il ‘giova­ne’ Auguste-Rosalie a realizzare quelle che sono forse le più importanti e note riprese di montagna della fotografia europea delle origi­ni, poi raccolte in due album dal titolo quasi identico di (Souvenir de la) Haute-Savoie. Le Mont Blane et ses Glaciers, ma ben distinti nelle intenzioni essendo l’uno il Souvenir du voyage de LL.MM. L’Empereur et L’Impéra­trice (1860) mentre l’altro, realizzato poco dopo la cessione della Savoia alla Francia, fu dedicato “A Sa Majesté Victor Emmanuel II Roi d’Italie”.  L’insieme delle riprese eseguite nelle diverse ascensioni spazia dai passaggi sui seracchi, for­se il primo esempio di fotografia di tecniche di scalata, al panorama del Monte Bianco preso dal Mont Buet, dalla Mer de Gla­ce alle singole terribili vette; co­me sottolineava il pittore di corte August Marc, il giovane Bisson “rischiando la vita, ha percor­so tutte le vie praticabili e non praticabili del Monte Bianco per prendervi i cliché di quelle magnifiche vedute che gli amatori comprano e che egli vende a troppo buon mercato, se si pensa a tutti i pericoli a cui si espone”[32]. La pratica fotografica richiedeva ancora tempi lunghi, di preparazione piuttosto che di ripre­sa, soprattutto quando si operava con lastre di grande formato come Bisson, ma era proprio la qualità di resa delle luci e dei dettagli che queste consentivano ad emozionare i contem­poranei (e noi ancora). L’interesse di Bisson era rivolto alla sfida tec­nica dell’ascensione fotografica, ma senza di­menticare i problemi di ordine estetico, tanto che il 25 luglio 1861 partì da Chamonix con una nuova spedizione guidata ancora da Bal­mat, ma della quale faceva parte anche il pit­tore Gabriel Loppé, incaricato di fornire con­sulenza artistica al fotografo.[33] Considerando l’insieme delle campagne documentarie risul­ta evidente come la scelta dei temi e dei punti di vista più specificamente topografici, pur in tutta la novità non solo tecnologica della ri­presa fotografica, non si discostasse molto dalla tradizione, riassunta già nel 1777 dal re­pertorio di venti miniature incise da C. G. Geisser su di una sola lastra a partire da mo­delli iconografici diversi[34], mentre le riprese più ravvicinate o realizzate a quote più basse rivelano in maniera esplicita l’adesione a quel diffuso sentire romantico che Lacan aveva ri­conosciuto – come si è visto – nelle stesse ri­prese dei luoghi terremotati. Basti il confron­to tra una delle immagini dell’ album donato a Vittorio Emanuele II (L’Aguille du Dru et An­guille Verte) e il dipinto nella maniera di Ca­lame[35] pubblicato da Albert, in cui la corrispondenza iconografica è quasi letterale, con quel primo piano di tronchi e detriti che rappresentano l’esito en­tropico della maestà degli elementi naturali, delle guglie perfette così come degli alberi che ne costituiscono la cornice visiva, in una sim­bolizzazione sin troppo evidente sui temi del destino e del tempo, della morte infine [con le due figure che – nel quadro – si riparano, inermi, dal terribile scatenarsi degli elementi], mentre i nessi con l’altro dipinto sono meno puntuali ma non per questo meno significati­vi: se il tema della Via Mala dipendeva dal fascino sublime dell’ orrido, del cammino sull’orlo dell’abisso tra pareti incombenti, le fotografie di Bisson comprendono in più casi e quasi celebrano la nascente rete infrastruttu­rale, che muta profondamente la naturalità in­contaminata del paesaggio alpino nel preciso momento in cui ne favorisce la percezione e l’appropriazione, la conquista anche, da parte del nuovo viaggiatore, del futuro turista. Ma certo le immagini più affascinanti sono quelle dedicate ai ghiacciai, un apporto continua­mente rinnovato alle variazioni sul tema della Mer de Glace, un richiamo alla tradizione ico­nografica e una sfida portata dalla fotografia alle arti del disegno. Dalla Svizzera alla Savoia Bisson indaga osti­natamente il tema, svolgendolo nei suoi diver­si aspetti, scegliendo di volta in volta i punti di vista, le distanze più adatte al racconto; dalla maestà geografica della veduta ampia, quasi panoramica, al fascino fantastico delle forme in cui avvolgere le figurine dei membri della spedizione: marionette in uno scenario di fiaba. Certo il soggetto è dei più affascinanti, e dei più redditizi anche (crediamo) se in brevissimo arco di tempo i ghiacciai entrano a far parte del catalogo di più autori, rinnovando più anti­che fortune calcografiche.

Lo stesso Baldus presentò nel 1861, alla IV Esposizione della Société Française de Photo­graphie, tra le altre, due vedute della Mer de Glace e di Chamounix[36], interesse conferma­to dal catalogo del 1863 che comprendeva an­che una ripresa della Vallée de Chamounix ed una della Source de l’Aveyron, mentre devo­no essere state realizzate poco prima del 1860 anche le due stampe de­dicate rispettivamente alla Vallée de Chamo­nix vue du Chapeau  ed alla Mer de Glace prise du Montenvers  firmate da Victor Muzet, attivo a Grenoble in società con Bajat, che figura anche nel ruolo di edito­re[37], e comprese in una serie di Vues photo­graphiques de Dauphine (sic) et de la Sa­voié[38] per la quale nel 1860 ricevettero una non meglio precisata “medaille d’or”[39]. In questo caso però il maggior motivo di inte­resse non è dato tanto dalla ricorrenza dei soggetti quanto dalla sostanziale coincidenza delle riprese di Muzet con quelle realizzate da Auguste-Rosalie Bisson negli stessi anni, somiglianza che ha fatto erroneamente ritenere un passaggio di mano delle lastre negative o ­peggio – una appropriazione indebita da par­te del fotografo meno noto.[40] Se la Vallée de Chamonix venne realizzata da Bis­son nel corso della prima ascensione del 1859, come conferma la sua ripresa xilografi­ca ne “L’Illustration” dell’aprile 1860[41], è al­trettanto probabile che nello stesso torno di tempo, e per analoghe ragioni commerciali[42], venisse realizzata anche quella di Muzet, pub­blicata ancora senza alcun riferimento alla medaglia vinta nel 1860, presente invece nel­l’altro esemplare, così come possono essere riferite cronologicamente allo stesso periodo anche le due riprese della Mer de Glace qui pubblicate, che Bisson intitola però Grande Jorasse Mont Tacul, portando l’at­tenzione sulle cime dello sfondo piuttosto che sul primo piano, nelle quali appaiono sor­prendentemente simili anche la distribuzione e la forma delle diverse placche innevate, tan­to da lasciar supporre un lasso di tempo veramente breve, forse solo di qualche giorno, tra la realizzazione delle due riprese. Al di là della verosimile coincidenza cronologica, ciò che risulta per noi più interessante in quanto sin­tomo e traccia di un gusto condiviso, è la qua­si puntuale corrispondenza – in entrambi i ca­si – delle modalità adottate dai due fotografi, che non solo scelgono lo stesso punto di vi­sta, ma utilizzano anche ottiche di analoga lunghezza focale e formati di negativo non dissimili, come rivelano le relazioni prospetti­che tra i diversi elementi raffigurati e le stesse misure delle stampe a contatto[43]. Così se la valle di Chamonix trova il suo punto di osser­vazione privilegiato al Chapeau, giusto al di sopra dell’imbocco della Mer de Giace, la ripresa ravvicinata del ghiacciaio non poteva che essere realizzata dai pressi dell’ hospice del Montenvers, il rifugio costruito nel 1779 da Charles Bloir, già frequentato da numerosi viaggiatori illustri: da Goethe all’imperatrice Maria Luisa, da Byron e Shelley a Hugo e Du­mas, al già citato Ruskin. Se in queste fotografie il ghiacciaio costituisce la base da cui spiccano i volumi dei monti, in una restituzione che potremmo definire topo­grafica, in altri casi i fotografi cedono al fasci­no del sublime, introducendo la figura umana, la sua presenza nell’universo fantastico di for­me dei ghiacciai. Ancor più dei Seracs des Bosson  è significativa in questo sen­so la ripresa che Giorgio Sommer[44] dedica a Chamounix, Mer de Glace  in una data non meglio precisata, ma che non do­vrebbe essere troppo lontana dalla metà degli anni Sessanta. Certo la rinnovata attenzione per questo soggetto doveva molto del suo vi­gore proprio al successo riscosso dalle foto­grafie realizzate da Auguste-Rosalie Bisson, ma Sommer riesce a costruire un’iconografia nuova, che nella scelta del piano ravvicinato si discosta nettamente dai modelli prevalenti, richiamando semmai i modi utilizzati da Jean Antoine Linck (1766 – 1843) in un disegno che aveva dedicato allo stesso soggetto circa mezzo secolo prima[45] o – per restare in ambi­to fotografico – la ripresa del ghiacciaio di Grindelwald, nell’Oberlad bernese, che Von Martens aveva realizzato verso il 1853[46]. Ora Sommer, forse memore dell’interpretazione di Byron, quasi immerge l’apparecchio nel corpo del ghiacciaio, attratto magneticamen­te da queste onde immense, eternamente im­mobili, bloccate dal gelo ancor prima che dal­la fotografia, pietrificate e bianche, da cui emerge il dorso di favolosi cetacei: l’appari­zione magica della balena di Giona se non an­cora di Pinocchio (1880)[47].

Di tutt’altro tenore e senso l’opera che chiu­de questo ciclo di immagini, realizzata da Al­berto Luigi Vialardi[48], già autore nel 1863 di un Album del Monviso[49], quindi di una rara documentazione di quella grande opera infra­strutturale che è il Canale che poi sarà intito­lato a Cavour, destinato a razionalizzare e po­tenziare la rete irrigua della pianura risi cola piemontese, cui il fotografo lavorò fino ai pri­mi giorni del 1864 su commissione della stes­sa Associazione Irrigazione Ovest Sesia, pro­motrice dell’opera, dopo un primo affida­mento allo Studio Bernieri[50]. Ad ulteriore conferma della solidità della sua rete di rela­zioni istituzionali, anche il grande cantiere del traforo del Frejus (1868-1871) venne docu­mentato da Vialardi in un album destinato in maniera affatto nuova a trovare il proprio posto “nel boudoir dell’elegante signora, come nelle biblioteche dell’artista e dell’uomo di scienza e d’affari” e di cui i giornali dell’ epoca diedero ampia­mente conto, segnalando le “nove stupende vedute fotografiche che rappresentano i due panorama [sic] dei cantieri nelle vallate di Bardonéche e Modane, le due entrate del gran tunnel, i due cantieri dei compressori, l’interno degli edifici dei compressori medesi­mi – di questi straordinari motori che per la prima volta entrano nel mondo industriale ­la macchina perforatrice con tutti gli operai in azione entro la galleria e per ultimo un esemplare litografico della topografia e della sezione longitudinale della montagna. Ad ogni veduta sta di fianco una relativa descri­zione particolareggiata”[51]. È il trionfo del­l’ingegneria, l’esito ormai italiano della politi­ca internazionale preunitaria, cavourriana. La fotografia si rivela il medium più aderen­te, più adeguato a celebrare questa importan­te realizzazione, il primo dei grandi trafori al­pini, un segno tangibile del mutato spirito del tempo: al fascino emotivo, potente e terribile della montagna si affianca – se proprio non si sostituisce – quello altrettanto forte, positivi­sta e industriale della straordinaria macchina: costruita dall’uomo.

 

Note

[1] Cfr. John Ruskin e le Alpi, catalogo della mostra (Tori­no, Museo Nazionale della Montagna, 1990), a cura di Ja­mes S. Dearden, Torino, Museo Nazionale della Monta­gna, 1990, in particolare alle pp.17 – 19. Per l’affascinan­te lettura del testo completo si rimanda a John Ruskin, Praeterita.  Orpington: George Allen, 1885 – 1889, I, pp.194-195, § 134, p.113 (ed it., Palermo: Edizioni No­vecento, 1992, traduzione di Maria Croci Giulì e Giusi de Pasquale).

[2] Charles Baudelaire, Salon del 1846, ora in Id., La cri­tica d’arte, a cura di Antonio del Guercio. Roma: Editori Riuniti, 1996, pp. 109 – 128 (110).

[3] Ruskin, 1885 – 1889: § 134, p.113. Per una accurata e sintetica ricostruzione delle variabili storiche del rapporto tra cultura occidentale e montagna si veda Paola Giaco­moni, “Dare del tu alle rocce”, in Montagna. Arte, scien­za, mito da Dürer a Warhol, catalogo della mostra (Rove­reto 2004), a cura di Gabriella Belli, Paola Giacomoni, Anna Ottani Cavina. Milano: Skira, 2004, pp. 19-40.

[4] 4 “The first sun-portraits [e qui Ruskin richiama l’originaria terminologia di William Henry Fox Talbot, che parlava di “sun pictures”] even taken of the Matterhorn (and as far as I know of any Swiss mountain whatever) was taken by me in 1849″, citato in John Ruskin e le Alpi, 1990, p. 18, cor­sivo di chi scrive. Come è noto l’affermazione di Ruskin non de­ve essere presa alla lettera, non essendo lui l’autore mate­riale di queste immagini, di volta in volta realizzate dai suoi camerieri personali John ‘George’ Hobbs (1849) e Frede­rick Crawley (1854 – 1856), ormai alle soglie dell’abban­dono di questa tecnica; cfr. Paolo Costantini, Italo Zan­nier, a cura di, I dagherrotipi della Collezione Ruskin.  Venezia: Arsenale Editrice, 1986. La veridicità letterale dell’affermazione in merito alla pri­mogenitura non pare invece essere contraddetta da quan­to sinora noto sulle prime riprese dagherrotipiche delle Al­pi, cfr. Le daguerréotype français. Un object photo­graphique, catalogo della mostra ( Paris 2003 – New York 2004), a cura di Quentin Bajac, Dominique Planchon De Font-Réaulx. Paris: Réunion des Musées Nationaux, 2003, cat. 136, p.227. In quella mostra sono stati presentati an­che altri dagherrotipi di ambiente alpino in particolare la Vue d’une vallée dans les Alpes, compresa in una serie che Marie Charles lsidore Choiselat (1815 – 1858) e Sta­nislas Ratel (1824 – 1904) realizzarono nell’agosto del  1845 durante una missione il cui itinerario era stato stabi­lito dal consiglio dell’Ecole royale des mines quale eserci­tazione conclusiva del ciclo di studi di Ratel e che costitui­scono, ad ora, le più antiche riprese note effettuate nelle Alpi, come ricordava anche uno dei viaggiatori: “Ces vues sont les seules qui soient encore sorties du fond de ces montagnes que les artistes ne visitent pas assez et où ils pourraient trouver des sujets que leur imagination n’avait pas besoin de grandir pour les rendre majestueux”. (citato in Q. Bajac, M.C.I. Choiselat, S.- Ratel, in Le da­guerréotype français, 2004,  cat. 155, p. 246).

[5] 5 “Le Miroir des Spectacles”, 12 luglio 1822, citato in Claudine Lacoste-Veysseyere, Les Alpes romantiques. Le thème des Alpes dans la littérature française de 1800 à 1850. Genève: Editions Slatkine, 1981, p.195.

[6] Josef William Albert (1825 – 1886), più noto come foto­grafo ritrattista, fu attivo a Monaco, anche come fotografo di corte di Massimiliano II e Luigi II, con studio in Brien­ner Strasse nel 1865-1878. A lui si devono anche rigorose vedute urbane e di architettura (il Glaspalast di Monaco, 1861; l’Esposizione di Vienna del 1873) oltre ad alcuni in­teressanti paesaggi, tra i quali Il fotografo in posizione a Hohenschwangau, 1857, in cui – oltre ad Albert all’appa­recchio – si vede una cabina portatile per il trattamento delle lastre al collodio, analoga a quella utilizzata dal valde­se David Peyrot alcuni anni più tardi e oggi conservata al Museo nazionale del Cinema di Torino, cfr. Michel Frlzot, a cura di, Nouvelle Histoire de la Photographie.  Paris: Bordas, 1994 pp. 115 passim; Helmut Gernsheim, Storia della fotografia. 1850 1880 L‘età del collodio. Mila­no: Electa, 1981, p.232; Maria Adriana Prolo, Luigi Carluccio, Il Museo Nazionale del Cinema Torino. Tori­no: Cassa di Risparmio di Torino, 1978, p.139. Una foto­grafia di Richard Wagner realizzata da Albert nel 1880, servì l’anno successivo per la realizzazione di un noto ri­tratto ad olio dipinto da Franz von Lenbach, cfr. Carola Muysers, Das bürgerliche portrait im Wandel.  Zürich – ­New York – Hildesheim: Georg Olms Verlag, 2001. Nel 1868 il fotografo mise a punto un procedimento commer­ciale di stampa planografica delle matrici fotografiche analogo alla litografia (collotipia), identico a quello proposto da Alphonse Poitevin, che da lui prese il nome di Alberty­pe. Nel 1876 fu tra i primi ad utilizzare la collotipia a colo­ri, ma a lui si deve anche lo studio di un processo di inver­sione (negativo/ positivo) della lastra al collodio mediante utilizzo di acido nitrico. Il tema degli studi (da Adolphe Braun a Dornach a Jean Jaques Heilmann a Pau, solo per citarne due) impegnati nella riproduzione fotografica dei dipinti e delle opere d’arte è troppo vasto perché possa essere in questa sede anche solo accennato, mi limito per­tanto a rimandare, a titolo esemplificativo, ad una recente approfondita analisi della maggiore impresa italiana attiva in questo settore: Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003.

[7] Poiché i cartoni di supporto non ripor­tano sufficienti indicazioni, l’identificazione delle opere presenta alcune difficoltà e incertezze: il primo dipinto ri­prodotto, identificato come Via Mala, soggetto già affron­tato da W. Turner nel 1843, è firmato Julius Lange (Darm­stadt 1817 – München 1878), 1860, mentre per il secon­do, anonimo, non posso far altro che notare una sorpren­dente comunanza di temi e di modi con la produzione di François Diday (Ginevra 1802 – 1877) e soprattutto di Alexandre Calame (Vevey 1810 – Mentone 1864) intorno al 1850, per la quale rimando a Valentina Anker, Alexan­dre Calame. Vie et œuvre. Catalogue raisoné de l’œuvre peint. Friburg: Office du Livre, 1987, ma la prudenza del­la mia incompetenza suggerisce di non spingermi oltre.

[8] Le varianti di preparazione e di trattamento del materiale sensibile messe a punto da Blanquart-Évrard non ci con­sentono di definire le stampe realizzate dal suo stabilimen­to come “calotipi positivi”, ma credo sia altrettanto errata e fuorviante la consuetudine da molti adottata di indicarle tecnicamente come “carte salate”. Come è noto queste appartengono alla famiglia dei materiali sensibili ad anne­rimento diretto, mentre il procedimento utilizzato a Lille si fondava al contrario sullo sviluppo del positivo, quindi sul principio dell’immagine latente, allo scopo di ridurre tem­pi e costi di realizzazione e di vendita degli album. Per questa ragione ritengo più corretto  adottare la dizione “carta a sviluppo (metodo Blanquart-Évrard)”.

[9] “La Lumière”, 1854, citato in Isabelle Jammes, Blan­quart-Évrard et les origines de l’édition photographique en France: catalogue raisonnée des albums photo­graphiques édités 1851-1855,. Genève: Librairie Droz, 1981, p.67 ; si veda anche, Frizot, 1994, pp.  80- 89.

[10] Sulla paternità del corpus delle fotografie attribuite a Salzmann o al suo collaboratore Durheim, e sulla natura problematica del concetto di opera che ne deriva cfr. Abi­gail Solomon-Godeau, A Photographer in Jerusalem, 1855: Auguste Salzmann and His Times, “October”, n.18, autumn 1981, citato in Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, a cura di Elio Gra­zioli. Milano: Bruno Mondatori, 1996, p.43 n.19,  ma an­che – con una più estesa riflessione critica sulla discutibile applicazione alla fotografia di alcune categorie interpreta­tive derivate alla storia dell’arte – Abigail Solomon-Go­deau, Calotypomania. The Gourmet Guide to Nine­teenth-Century Photography,  “Afterimage”, vol. 11, n.1-2, Summer 1983, successivamente riedito in “études photographiques”, n. 12, novembre 2002, consultato in estratto.

[11] Charles Marville (1816 – 1879), realizzerà anche una serie di Vedute di Torino. Turin: Maggi, (editore e libraio presso il quale erano in vendita anche le stampe di Luigi Crette, Vialardi e Guido Gonin) oggi nota attraverso l’e­semplare conservato presso la Biblioteca centrale della Fa­coltà di Architettura del Politecnico di Torino e studiata per la prima volta in  Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp.37-­38, con una datazione proposta al 1865-1870 che Marina Miraglla, Culture fotografiche e società a Torino 1839 1911. Torino: Allemandi, 1990, p.334, aveva già anti­cipato al 1861-62, ma che sarà più corretto attribuire al 1858-59, quando Marville è in Italia e in Grecia con Char­les Cordier per realizzare la campagna fotografica dedica­ta alla Sculpture Ethnographique, commissionatagli dal governo francese nel 1850 (vale a dire prima della ben più nota “Mission Héliographique”) e quindi pubblicata in fasci­coli. Un esemplare dell’opera venne dedicato “A S.M. Vic­tor Emmanuel Roi d’ltalie”. L’occasione per la realizzazio­ne di queste riprese di Marville potrebbe essere individuata nella campagna di documentazione dei disegni della Biblioteca Reale di Torino e della Biblioteca Ambrosiana di Milano, che faceva seguito all’impegno analogo per le col­lezioni del Louvre, pubblicate pochi anni prima. La data­zione delle riprese italiane potrebbe forse essere ulterior­mente anticipata alla metà del decennio considerando che Marville usava la qualifica di “Photographe du Musée Im­perial du Louvre”, che ritroviamo sui cartoni delle stampe torinesi, nel periodo in cui collaborava con Blanquart­Évrard, vale dire sino al 1855.

[12] John Stewart (1800 – 1887), inglese, membro della So­ciété Française de Photographie e genero di Sir John Her­schel (1792 -1871) uno dei padri fondatori della fotogra­fia, fu – come molti fotografi coevi – anche uno sperimen­tatore, apportando interessanti innovazioni nel trattamen­to dei negativi di carta e del loro ingrandimento. Attivo prevalentemente in Francia, si trasferì nel 1847 a Pau, do­ve realizzò molte delle sue vedute utilizzando la tecnica del calotipo (o sue varianti) ed entrò in contatto con autori della generazione successiva come Jean Jacques Heilmann (1822 – 1859), e l’altro inglese Farnham Maxwell Lyte (1828 – 1906), ma anche con Adolphe Godard, Jo­seph Vigier ed Henri-Victor Regnault, che accompagnerà in un viaggio in Inghilterra. Dopo la collaborazione con Blanquart-Evrard le sue immagini vennero pubblicate da Theophile Marx e da Heilmann, che nel 1854 aveva aper­to a Pau un’analoga Imprimerie photographique, da cui uscirono immagini anche di Maxwell Lyte, cioè dell’insie­me di autori poi identificati come “école de Pau”. Sebbene Heilmann e Maxwell Lyte utilizzassero anche il nuovo pro­cedimento al collodio, ciò che li contraddistingue comples­sivamente è appunto il ricorso al negativo di carta nelle sue diverse varianti, poiché – come ricordava Maxwell Ly­te sulle pagine del “Journal of the Photographic Society of Edinburgh” del dicembre 1854, v. II, p.95, “I must still en­tertain my old opinion that paper is the process for views”. Numerosi esemplari di queste opere sono conser­vati alla Biblioteca di Pau e presso gli Archives départe­mentales des Pyrénées Atlantiques, cfr. Paul Mironeau, Christine Jullat, Lucie Abadia, Pyrénées en images. De l’oeil à l’objectif 1820 -1860. Pau: Musée national du Chateau de Pau, 1996; Alexandre Allain, Les collec­tions photographiques des bibliothèques municipales et l’exemple de Lille, Memoire d’étude. Paris: École Natio­nale Supérieure des Sciences de l’lnformation et des Bibliothèques, 2000.

[13] Il solo esemplare completo dell’album di Marville così come quello più ricco di Stewart sono oggi conservati alla Biblioteca di Lille, cfr. Allain, 2000, p.  31. Una delle tavole di Stewart, Le pont d’Orthez, è pubblicata in Frizot, 1994, p. 88 e può essere utilmente confrontata con la ripresa dello stesso soggetto realizzata e pubblicata da Heil­mann col titolo Vieux pont d’Orthez, cfr. Collection M. + M. Auer. Une histoire de la photographie, catalogo della mostra (Nice – Genève, 2004), a cura di Michèle e Michel Auer. Hermanace: Editions M.+ M., 2004, p. 71 n.30. Un album anonimo di Souvenir des Pyrenées, composto però di 24 tavole, è conservato nella collezione Edward Alexander Parsons dello Harry Ransom Humanities Re­search Center dell’Università del Texas, ad Austin.

[14] Queste trasformazioni sono state recentemente studiate da Rosa Tamborrino, Parigi: i! piano di Hausmann, “Storia dell’Urbanistica Piemonte”,  IV”, Roma, 2000.

[15] Frizot, 1994, p.  87.

[16] Giacomoni, 2004, p. 33.

[17] Rimandando ai testi citati alle note successive per una disamina puntuale della produzione iconografica sul tema dei Pirenei, voglio qui ricordare che le illustrazioni per il Voyage aux Pyrénées di Hippolyte Taine, 1855, vennero fornite da Gustave Doré servendosi anche di fotografie, realizzate verosimilmente dagli autori della “scuola di Pau”.

[18] Philippe Comte, in Les Pyrénées Romantiques, catalo­go della mostra (Pau, Musée des Beaux Arts, estate 1979), a cura di Marguerite Gaston. Pau: Musee des Beaux-arts, 1979, p p.n.n.

[19] Lettera a Louis Boulanger-Cauterets, citata in Hélene Saule Sorbé, Pyrénées. Voyage par les images. Serres­Castet: Editions du Faucompret, 1993, p.69.

[20] Farham Maxwell Lyte, lettera pubblicata nel “Moniteur de la Photographie” del 15 novembre 1861, citata in Ber­nard Marbot, Des ciels dans les paysages photographi­ques, dossier della mostra Quand passent les nuages. Paris, Bibliothèque Nationale de France, 1988.

[21] Edouard Baldus (1813 – 1889), nato a Grunebach in Prussia, come pittore espone a Parigi ai Salon del 1847, 1848 e 1851 ma risulta attivo come fotografo almeno dal 1848, segnalandosi immediatamente come uno degli auto­ri più importanti della fotografia francese, membro della Mission héliographique promossa dal governo francese nel 1851; cfr. Malcom Daniel, The Photographs of Édouard Baldus.  New York –Montreal:  The Metropolitan Museum of Art -Ca­nadian Center for Architecture, 1994, p. 231. Ove non diversamente indicato, tutte le informazioni rela­tive all’attività di Baldus sono tratte da questo studio.

[22] Le pagine del catalogo, oggi conservato nella biblioteca del Victoria and Albert Museum di Londra, sono riprodot­te in Daniel, 1994, p.  231 passim.

[23] Ch. P. Magne, Exposition universelle de 1855,  “L’Il­lustration – Journal Universel”, XXXI, n.644, p.331, cita­tato in Michele Falzone del Barbarò, a cura di, Il Monte Bianco dei Fratelli Bisson. Ascensioni fotografiche 1859-1862. Milano: Longanesi, 1982, p. 9.

[24] Daniel, 1994, p.  39.

[25] Ivi, p. 40.

[26] Ernest Lacan, “La Lumière”, 1855, poi ripubblicato in Id., Esquisses photograpiques.  Paris: Gaudin, 1856, pp.26-29, citato in Daniel, 1994. p.  262, nota 91.

[27] Citato in Bruno Foucart, La montagna nella pittura francese dell’Ottocento, in Le seduzioni della monta­gna. Da Delacroix a Depero, catalogo della mostra (Grenoble, Tori­no, 1998), a cura di Marisa Vescovo. Milano: Electa, 1998, pp. 29 -36.

[28] Noto anche come Vincent Frédéric Martens, (Venezia? 1809 – Parigi 1875), di famiglia originaria del Wurten­berg, studia all’Accademia di Belle Arti di Venezia e quindi a Basilea, perfezionandosi come incisore. Naturalizzato francese, dopo aver partecipato ai Salon dal 1834 al 1848 con vedute urbane e marine, si dedicò costantemen­te alla fotografia mettendo a punto anche un nuovo appa­recchio di ripresa panoramico per dagherrotipi. Nel 1851 espose a Londra una serie di immagini realizzate a partire da negativi su vetro albuminato (metodo Niepce de St. Victor), che la stampa inglese definiva “Talbotypes”, cfr. Collection M. + M. Auer, 2004, p. 86.

[29] Ernest Lacan, 1855, citato in P. Cavanna, Le prime ascensioni fotografiche. I Fratelli Bisson, “ALP”, 10 (1994), n.112, pp.116-119. Sulle pagine del parigino “La Lumière”, allora certo la più autorevole pub­blicazione periodica dedicata alla fotografia, il critico ave­va dato ampio conto della produzione fotografica presen­tata all’Esposizione, segnalando in particolare le opere di documentazione architettonica e artistica di Baldus e dei fratelli Bisson, poste in opposizione dialettica.

[30] Louis Auguste (1814-1876) e Auguste Rosalie (1826­1900) già attivi indipendentemente come dagherrotipisti, aprono nel 1852 uno studio in società che due anni dopo avrà sede in Rue Garancière, 8 nel palazzo di Sourdèac, proprietà di Henri Plon, stampatore dell’Imperatore; la lo­ro produzione, caratterizzata dall’utilizzo di lastre di gran­dissimo formato (mediamente 40×50 ca, ma con formati variabili dal 30×40 sino al 50×70 e 60×75), che stampano ed editano in proprio è dedicata in un primo momento al­la sola architettura, in aperta concorrenza con Baldus. Sul­la scia della Mission Heliographique del 1851, cui non sono chiamati a partecipare, avviano in proprio la pubbli­cazione della raccolta di Reproductions photographiques des plus beaux types d’architeture et de sculture d’a­près les monuments les plus remarquables de l’Anti­quité, du Moyen Age, et de la Renaissance (1855-1858)  per passare quindi alle riprese di montagna ed in partico­lare del massiccio del Monte Bianco, che Auguste Rosalie fotograferà più volte tra 1858 e 1862, poi ancora nel 1868, realizzando una serie molto nota di immagini, raccolte in due album pubblicati come Bisson Fréres al nuovo indirizzo di Boulevard des Capucines 35. In quello stesso stabile in cui operava anche Gustave Le Gray dal 1848, “al pianoterra i fratelli Bisson, finanziati dai Dolfus di Mulhouse, aprirono un sontuoso negozio dov’erano alli­neati, davanti a un pubblico sorpreso ( … ) vedute della Svizzera in dimensioni fino allora sconosciute” ricorda Na­dar, Quando ero fotografo. Roma: Editori Riuniti, 1982, p.137, (traduzione di Stefano Santuari). Dopo il fallimento dello studio nel 1863, acquistato da Emile Placet, fotografo e fotoincisore che continuerà a ti­rare stampe dai negativi Bisson, Louis Auguste ne divenne il direttore mentre Auguste Rosalie proseguì la propria at­tività realizzando stereoscopie per conto della Maison Léon et Levy, ma intorno al 1870 entrambi i fratelli ab­bandonarono la pratica fotografica.

[31] Citato in M.-C. S.-G., Bisson frères, http://exposi­tions.bnf.fr/napol/grand/048.htm, senza indicazione del­la fonte (Ernest Lacan) sottolineatura di chi scrive. I due ghiac­ciai in realtà costituiscono i due bracci del ghiacciaio del­l’Aar, ripreso anche in dagherrotipo da Camille Bernabé (Lyon 1808 – 1860 post) già nel 1850, da un “padiglione” fatto co­struire nel 1846 proprio da Daniel Dollfus-Ausset, che fu anche il committente di queste prime immagini, esposte (con le stampe Bisson?) nel 1856 alla Société des amis des arts di Strasburgo e autore, con Henri Hogard, di un volu­me di Materiaux pour servir à l’étude des glaciers. Stra­sbourg: Simon, 1854. Interessante come sempre la testimonianza relativa alla realizzazione del dagherrotipo: “On à dû séjourner pendant huit jours par le froid, la pluie et la neige, avant d’avoir obtenu une heure de temps favorable pour faire les trois vues de ce glacier”, citato in Marie ­Sophie Corcy, Camille Bernabé, Glacier de l’Aar, in Le daguerréotype français, 2003,  sch. 275, p.341.  Nel 1852 Von Martens di ritorno da Losanna gli fece visita e così poi ne scrisse: “J’ai vu chez lui très beaux portratits au collodion, de belles vues sur verre, et une délicieuse vue de montagne sur plaque d’argent.”, citato in Collection M. + M. Auer, 2004, p.  69 n.25. Segnaliamo qui, come traccia di possibili legami e percorsi di ricerca, che anche Alexandre Calame aveva visitato i ghiacciai dell’Aar in compagnia di Dollfus-Ausset, cfr. Anker, 1987, p. 108 che trascrive una lettera di Eduard Desor a Calame del 12 gen­naio 1846.

[32] Citato in Cavanna 1994.

[33] Cfr. Cavanna 1994. Sull’insieme delle riprese alpine di Auguste-Rosalie si veda Falzone del Barbarò, 1982, mentre dell’album donato a Vittorio Emanuele II è stato realizzato un facsimile Souvenir de la Haute-Savoie. Le Mont Blanc et ses Glaciers, MM. Bisson frères Photographes  de l’Empereur. Excursions dirigées par Auguste Balmat, testo introduttivo di Angelo Schwarz. Torino: Gruppo Editoriale Forma, 1982. Gabriel Loppé (1825-1913) era anche fotografo (Musée d’Orsay), cfr. Marie-Noel Borgeaud, Gabriel Loppé: Peintre, Photographe & Alpiniste. Grenoble: Glénat, 2002.

[34] M.T.V. (Marie-Christine Vellozzi), C.G.Geisser,  “Vin­ght [sic] vues sur un méme feuille“, 1777, in Immagini e immaginario della montagna 1740 – 1840, catalogo della mostra,  (Torino, Museo nazionale della montagna, 15 febbraio-2 aprile 1989). Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1989, sch. 138, p. 103.

[35] Già Theophile Gautier aveva posto in relazione le due differenti letture, sebbene con ragioni diverse: “Le monta­gne sembrano finora aver sfidato l’arte. È mai possibile in­quadrarle in un dipinto? Ne dubitiamo, perfino dopo le te­le di Calame. (. .. ) L’artista può solo far intravedere, ultimo e sublime piano, la silhouette ghiacciata d’argento di una montagna nei fumi azzurri dell’orizzonte ed è proprio ciò che rende tanto preziose le belle prove fotografiche dei si­gnori Bisson”, citato in Foucart, 1998, p. 34.

[36] Daniel, 1994, p. 245.

[37] I dati sono desunti dalle iscrizioni e dai differenti timbri a secco delle due stampe: men­tre i negativi sono sempre numerati e firmati dal solo Mu­zet (1828 – 1885 post) i timbri parlano alternativamente di “Muzet et Bajat Photographes / Grenoble” o più semplicemente di “Bajat à Grenoble”, senza ulteriori specificazioni, ciò che parrebbe indicate piuttosto il ruolo di editore di que­st’ultimo, confermato anche dalla pubblicazione dell’al­bum litografico di G. Margain, Grenoble et ses environs. Vingt Vues dessinées d’après nature et lithographiées. Avec texte explicatif, 1865 ca, indicato come in vendita ” Chez Bajat, Place S.te Claire “. Sia le Vues photo­graphiques sia quelle dessinées d’après nature uscivano però da Maisonville & Fils & Jourdan Editeurs. Scarse sono le notizie relative a Muzet, che alcuni indicano attivo a Lione (sotto la firma Muzet et Joguet, autori di ste­reoscopie, 1860 ca, dove risulta attivo anche Bajat nel 1842). In questa occasione non ci è stato possibile verifi­care il legame tra Muzet e la Société Dauphinoise des Amateurs Photographes, di cui la Biblioteca municipale di Grenoble conserva oggi 25.000 lastre prevalentemente dedicate a temi alpini, cfr. Allain, 2000, p. 47.

[38] Un’altra stampa con veduta di una cascata e mulini, ap­partenente alla stessa serie, è conservata all’Harry Ran­som Humanities Research Center all’Università del Texas ad Austin, collezione Gernsheim.

[39] Il dato si ricava dal timbro a secco della veduta della Mer de Glace, presente anche nella stampa conservata ad Au­stin.

[40] Cfr. Giuseppe Garimoldi, Fotografia e alpinismo. Sto­rie parallele. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1995, p.7 che ri­prende un’analoga osservazione di Falzone del Barbarò, 1982, p. 12. La stessa interpretazione è stata ancora recen­temente ribadita senza riconoscere non solo che le due riprese, come si è detto, sono sottilmente diverse ma an­che, come doveva risultare evidente dal confronto diretto, che la stampa di Muzet è firmata ben due volte sulla lastra, una in negativo (in chiaro) per effetto di una scrittura so­vrapposta all’emulsione, l’altra in positivo (in scuro) quale esito di una incisione dell’emulsione stessa, cfr. G. G. [Giu­seppe Garimoldi], Auguste Rosalie Bisson, in Le catte­drali della terra. La rappresentazione delle Alpi in Ita­lia e in Europa 1848-1918, catalogo della mostra (Milano,  Museo della Permanente, 24 gennaio – 19 marzo 2000), a cura di Letizia Scherini. Milano: Electa, 2000, sch. 103, p. 181 e didascalia p. 134.

[41] Per la ripresa di Bisson, molto nota, cfr. N.V, [Nicola Vassallo], Louis-Auguste (nato 1814) e Auguste-Rosa­lie (nato 1826) Bisson, Album del Monte Bianco, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), III, sch.1435, pp.1326-1327, n.14; Souvenir de la Haute­ Savoie, 1982, t.nn.; Falzone del Barbarò, 1982: t. 12 e t.14.

[42] Giova ricordare che anche Edouard Baldus, presentò al­la IV Exposition de la Societé Française de Photographie del 1861 due immagini di analogo soggetto, cfr. Daniel, 1994, p. 230, e che questi temi riscuoteranno larghissimo successo ancora negli anni e decenni successivi, enorme­mente diffusi con la produzione stereoscopica, in partico­lare con la serie realizzata tra 1863 e 1868 da William En­gland (1830 – 1896) per l’Alpine Club di Londra.

[43] Per la Vallée de Chamonix si ha rispettivamente (in mil­limetri, altezza per base) 305x 406 per Bisson e 327×388 per Muzet, mentre i valori della Mer de Glace corrispon­dono a 236×384 e a 243×354.

[44] Giorgio Sommer (Francoforte sul Meno 1834 – Napoli 1914), attivo a Roma nel 1857-1872, con Edmond Beh­les (1841 – 1921) , quindi a Napoli 1873 – 1891. Ipotiz­zando che possa aver visitato la Savoia negli stessi anni in cui lo troviamo a Torino (1863 – 1865 ca, prima che la Mole in costruzione emergesse dalla tessitura urbana a nord di Piazza Vittorio, come mostra un suo panorama della città da Villa della Regina, cfr. Miraglia, 1990, tav. 85), che il rinnovato interesse – ora fotografico – per il soggetto molto dovesse alla recente pubblicazione del pri­mo album Bisson, e considerando che l’indicazione di responsabilità posta in calce all’immagine si riferisce al solo Sommer e non alla coppia Behles – Sommer, scioltasi ­come ha ipotizzato Miraglia, fra il 1865 e il 1867, credo che si possa verosimilmente collocare in que­sto arco di tempo la realizzazione della ripresa e della stampa qui presentata. Per un’attenta e affettuosa presen­tazione critica della figura di questo fotografo rimando a Marina Miraglia, Giorgio Sommer, un tedesco in Italia, in Un viaggio fra mito e realtà. Giorgio Sommer foto­grafo in Italia 1857 – 1891, catalogo della mostra (Ro­ma, Palazzo Braschi, 5 dicembre 1992-10 gennaio 1993), a cura di Marina Miraglia, Ulrich Pohlmann.  Roma: Carte Segrete, 1992, pp. 11 – 32 (in particolare alle pp. 12, 26 n. 11, 31 n.84).

[45] M.T.V. (Marie-Christine Vellozzi), J.A. Linck, “Crevas­se sulla Mer de Glace et Grands Charmoz”, s.d., in Im­magini e immaginario della montagna, 1989,  sch. n. 163, p.133.

[46] Garimoldi, 1995, p.  49. Un ricchissimo repertorio di ico­nografia alpina prefotografica è costituito dalla collezione Paul Payot depositata al Conservatoire d’Art et d’Histoire di Annecy e pubblicata in Mont-Blanc. Conquete de l’Imaginaire.  Montmélian: La Fontaine de Siloé, 2002.

[47] Per i riferimenti letterari al tema cfr. Mario Domenichel­li, Il monte e la balena: il sublime dell’origine nel ro­manticismo, in Alpi gotiche. L’alta montagna sfondo del revival medievale, atti delle giornate di studio (Torino 1997), a cura di Cristina Natta-Soleri, Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1998, pp. 123 – 131, che pensa piuttosto a Poe e Melville.

[48] Alberto Luigi Vialardi (1833 -1912), membro dei CAI, tra i più noti fotografi torinesi della sua generazione, risul­ta essersi dedicato alla professione per un brevissimo arco di tempo, compreso tra il 1863 e il 1869, sebbene di lui siano note alcune immagini di Figurini del personale del­la Real Casa, datati 1871 e conservati presso la Bibliote­ca Reale di Torino. Lo svolgersi della sua attività, e il suo stesso avvio forse, sembrano essere strettamente connessi al ruolo nuovo di capitale nazionale, e poi alla sua perdita, svolto da Torino immediatamente dopo l’Unità, così come gli incarichi da lui assunti, quasi certamente determinati dalla buona conoscenza e dai buoni rapporti con il milieu burocratico statale che gli derivavano dall’essere stato se­gretario presso il Ministero delle Finanze e autore di un Annuario del Debito Pubblico (1862) che allora godette di una certa fama, cfr. Claudia Cassio, ad vocem, in Miraglla,1990,  pp.430-431.

[49] N.V, [Nicola Vassallo], Alberto Luigi Vialardi, Album del Monviso, 1863, in Cultura figurativa e architettoni­ca,  sch.1436, pp.1329-1331. Una stampa della stessa se­rie, annotata e colorata a mano, è conservata anche nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna, cfr. Sche­rini, 2000, p. 135, sch. 104. Gli altri membri della spedizio­ne furono Giuseppe e Luigi di Rovasenda e Luigi e Mel­chiorre Pulciano, quest’ultimo noto ingegnere e restaura­tore che sarà particolarmente attivo in area saluzzese. Da una cronaca coeva citata da Vassallo si apprende come ­nonostante il significato anche politico dell’impresa – l’aspetto più innovativo della spedizione fosse considerato “lo sperimento della fotografia” e in particolare l’uso delle nuove lastre al collodio secco, sebbene l’autore ritenesse che Vialardi avesse “fors’anco abusato del nuovo sistema secco del tanino [sic] proposto dal maggiore Russel, col non sviluppare le prove ottenute che al finire del viaggio”, contrariamente a quanto era invece indispensabile fare uti­lizzando il collodio umido, come nel caso di Auguste-Rosa­lie Bisson. (V.G.,  “L’Opinione”, 21 agosto 1863).

[50] All’album di Vialardi dedicato al cantiere del Canale Ca­vour conservato presso l’Archivio Storico della Associazione Irrigazione Ovest Sesia di Vercelli, si devono aggiunge­re le immagini di Bernieri e di Tarantola conservate presso l’Archivio Storico dei Canali Cavour di Novara ed in alcu­ne collezioni private. Le fotografie di Vialardi divennero di fatto l’immagine ufficiale della grande opera, diffuse sotto forma di piccole vedute a volte assemblate in un unico car­tone, corredate di tavola topografica relativa al percorso del canale. Undici di queste fotografie, montate in cornici dorate, vennero inviate alla Esposizione Internazionale di Dublino del 1865, cfr. ASCC, Novara, Libro Mastro A, f.170, 27 aprile 1865.

[51] “La Gazzetta Piemontese”, 31 maggio 1869, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800.  Aosta: Musumeci, 1980, p.365. Ricordo qui che già le immagini dell’Album del Monviso erano corre­date di ampie didascalie che mostravano un’attenzione particolare per il tema, recente e scottante, della defini­zione dei confini con la Francia. I resoconti relativi all’at­tività di Vialardi che  Cassio ha ricavato da fonti gior­nalistiche coeve sono interessantissimi, sebbene risulti assolutamente incomprensibile il riferimento – contenuto in un articolo della “Gazzetta del Popolo” del 1864 – ad un inesistente “traforo del Moncenisio” che sarebbe stato realizzato nel 1863; lungo quel percorso gli unici lavori che comportarono la costruzione di gallerie (artificiali) fu­rono quelli relativi alla realizzazione della ferrovia a cre­magliera nel 1868.