Vedere barocco (2020)
Vedere barocco
“Una cosa finalmente piacemi ancora si avvertisca, ed è proprietà essere naturale de' raggi, come egli è di tutti i fluidi, il mutar continuamente e successivamente figura nell’allontanarsi che fanno del luogo onde si partono, tendendo sempre ad annullare gli angoli, e le acutezze della loro figura, e così ad accostarsi continuamente vieppiù al tondo, vale a dire al conico, o al cilindrico” Bernardo Antonio Vittone, 1760
“La fotografia – scriveva André Bazin nel 1945 – portando a compimento il barocco, ha liberato le arti visive dalla loro ossessione per la somiglianza”[1], ma oggi potremmo dire che di quella stessa ossessione anche la fotografia si sia liberata, ovvero, per dire meglio, che l’abbia trasformata in una condizione più complessa della semplice relazione di analogia, dove l’accezione convenzionale di copia o riproduzione, l’intenzione documentaria infine ha progressivamente assunto un significato diverso, più interpretativo e narrativo, senza mai rinunciare però alla necessità ontologica del rapporto col referente. Generalizzando ciò che in altro contesto ebbe a scrivere Minor White potremmo dire che “La sottile linea elastica tra realtà e fotografia è stata tesa inesorabilmente, ma non è stata spezzata. Queste astrazioni della natura non hanno abbandonato il mondo delle apparenze perché farlo significherebbe spezzare il punto di forza dell’apparecchio, la sua autenticità. (…) La trasformazione del materiale originario in realtà fotografica è stata applicata in modo mirato; la stampa è stata manipolata per influenzare l’asserzione; (…) Per i dati tecnici, la macchina è stata usata fedelmente”[2].
Questo progressivo mutare di intenzioni nel rapporto tra soggetto fotografante e oggetto fotografato risulta particolarmente evidente se consideriamo l’ambito della fotografia di architettura, qui esemplificato seguendo le alterne vicende della fortuna fotografica di alcuni edifici barocchi piemontesi.
Un viaggiatore attento come Jérôme de la Lande, giunto a Torino nel corso del suo “Voyage en Italie” del 1765-1766, aveva espresso (pur con qualche riserva) una sincera ammirazione per le architetture guariniane come la Cappella della Sindone – considerata “la più bella chiesa di Torino” nonostante quella sua cupola “di costruzione assolutamente singolare, si potrebbe quasi dire stravagante[3] – o Palazzo Carignano, “un grande edificio la cui facciata, sebbene di mattoni, ha un aspetto gradevole e maestoso”[4]. Quando però la fotografia si aprì al racconto delle architetture e degli spazi urbani, l’opinione dei colti (cioè dei primi acquirenti di quelle stesse fotografie) viveva ancora delle feroci considerazioni di matrice neoclassica che avevano bollato il Barocco come “corruzione (…) di ogni ragionevole architettura”[5], prolungando una sfortuna critica che si sarebbe mantenuta ben salda oltre l’inizio del Novecento, specialmente in Italia dove il recupero operato in area germanica, da Gurlitt a Wölfflin, da Schmarsow a Riegel, tardava a dare i propri frutti[6].
Fotografare monumenti
Le più precoci tracce di un’attenzione, per quanto incerta, per le manifestazioni dell’architettura barocca in Piemonte si ritrovano nelle pagine di alcune guide o nella veduta al dagherrotipo (invertita) del lato nordoccidentale della Piazzetta Reale a Torino, realizzata da Enrico Federico Jest l’11 ottobre 1839, a pochi giorni di distanza dalla prima e più nota ripresa della chiesa della Gran Madre di Dio (8 di ottobre), con le cupole di San Lorenzo e della Sindone che inevitabilmente emergono dalla cortina edilizia[7]. Come scriveva Felice Romani, che ebbe l’opportunità di assistere a quelle prime “prove di questo mirabile dramma della fisica moderna (…) Al debole lume di una candela noi spiammo a traverso del vetro (…) e in meno di due minuti la superficie metallica, poc’anzi nuda ai nostri occhi cominciò a improntarsi di visibili forme (…) la cupola di San Lorenzo sorgeva colla sua rotonda, coi suoi compartimenti, colle sue finestre (…) e l’estremità della piazza del Castello, dall’angolo di Doragrossa fino a quello che mette al palazzo reale, appariva con tutte le sue proporzioni, con tutte le sue case (…).”[8] Non dissimile l’inquadratura di una successiva ripresa di Giuseppe Venanzio Sella (fig.1), realizzata su lastra all’albumina nel luglio del 1853, contemporaneamente al lato nordorientale scorciato sulla facciata juvarriana di Palazzo Madama: due riprese che facevano (quasi) panorama e si inserivano in una serie che comprendeva anche Piazza San Carlo, il Castello del Valentino e quello di Racconigi[9].
1 – Giuseppe Venanzio Sella, Torino: Palazzo Reale e Palazzo Madama, luglio 1853, in: Ormezzano 1923, p. 134.
Un significativo insieme di ambienti ed edifici ‘barocchi’, certo, ma qui scelti per il loro valore simbolico e dinastico, non per le loro specifiche (sebbene eterogenee) valenze architettoniche. Ancora più labili testimonianze si ritrovano nel piccolo nucleo di dagherrotipi realizzati da Frederick Crowley con John Ruskin nel corso della loro tappa torinese dell’estate del 1858, che oltre ad alcune vedute di Strada Doragrossa (ora via Garibaldi), estensione barocca del decumano maximo, comprendevano un’ulteriore veduta della Piazzetta Reale con le cupole guariniane di San Lorenzo e della Sindone in secondo piano, mentre di Palazzo Madama venne preferito l’assetto medievale[10]. Analoga fu la scelta adottata per la rappresentazione di questo edificio nelle tavole delle Excursions Daguerriennes[11], distinguendo nettamente lo “Château” medievale (fig. 2) dall’addizione juvarriana di “Palazzo Madama”; una soluzione che ritroviamo in un’altra ripresa del 1853 ancora di Sella e in quella sostanzialmente coeva di Ludovico Tuminello[12], allora esule a Torino, mentre Francesco Maria Chiapella illustrava le residenze sabaude di Venaria Reale e di Stupinigi[13]. A chiudere questo primo catalogo visuale di architetture barocche si sarebbero aggiunte di lì a poco Villa della Regina e Palazzo Carignano, compresi da Henri Le Lieure nel proprio Turin Ancien et Moderne del 1867 (fig. 3).
2 – Vogel (incisore), Château delle Torri à Turin, 1842, incisione da dagherrotipo, in: Lerebours 1842, f. 108
3 – Henri Le Lieure, Palais Madame, 1867, in: Falzone del Barbarò 1987, t. V
A considerare il trattamento che questi autori riservarono a quegli edifici si conferma l’intenzione di restituirne il valore politico e urbanistico di emergenze monumentali, indifferenti alla specifica connotazione ‘stilistica’. Così ancora nel corso della campagna promossa dal ministero della Pubblica Istruzione nel 1878, ma realizzata quattro anni più tardi da Giovanni Battista Berra e da Vittorio Ecclesia per incarico della Regia Commissione conservatrice provinciale dei monumenti, si sarebbero privilegiate le testimonianze romane e specialmente medievali, citando della lunga stagione barocca la sola basilica di Superga, sede delle Tombe Reali di Casa Savoia, con un’ampia veduta generale. Un ulteriore caso di fotografia di monumenti, non di architetture.
Solo un’isolata ripresa dello scalone di Palazzo Madama realizzata dal fiorentino Giacomo Brogi verso il 1875 rivelava una prima specifica attenzione per il tema. Lo stesso Secondo Pia, il più importante amateur piemontese del periodo, meglio noto come autore della prima fotografia della Sindone nel 1898, escluse con sistematico impegno le architetture barocche dalla sua meticolosa, pionieristica indagine fotografica del patrimonio storico piemontese condotta tra Otto e Novecento[14], e ancora il programma di riprese torinesi degli Alinari, effettuate sul finire del secolo (Sansoni [1898] 1987), avrebbe riconfermato l’attenzione per i soli interventi juvarriani: da Palazzo Madama a Stupinigi, mentre la successiva campagna di Brogi, pur restituendo il prospetto occidentale del palazzo lo qualificava come “costruito verso la fine dei XIII secolo”[15], certificandone così l’invisibilità culturale (fig. 4).
4 – Edizioni Brogi, 3713, Torino: Palazzo Madama: costruzione del secolo XIII cadente, 1920 ca.
Anche a scala nazionale, non considerando sporadiche realizzazioni quali La Provincia di Terra d’Otranto di Pietro Barbieri del 1889, che comprendeva i maggiori esempi di barocco leccese, il primo solido indizio di una inversione di tendenza si ebbe solo nel 1912 con la pubblicazione di Architettura barocca in Italia di Corrado Ricci[16], un vero e proprio atlante con più di 300 fotografie realizzate dai maggiori studi italiani (Alinari, Anderson, Gargiolli-GFN, Moscioni). Dagli stessi studi fotografici provenivano anche le immagini a corredo di Roma Barocca, primo titolo della “Collezione Italia” diretta da Antonio Muñoz (1919), con ben 355 illustrazioni in cui comparivano quasi per la prima volta[17] immagini zenitali, utilizzate però non tanto per leggere le articolazioni spaziali (Alinari: San Carlino; Anderson: Cappella Paolina in S. Maria Maggiore) quanto per restituire gli apparati decorativi di volte e soffitti[18], mentre in termini più generali prevaleva, in entrambe le opere, l’attenzione per la figurabilità urbana di quegli edifici, escludendo le più conturbanti sperimentazioni architettoniche condotte sull’articolazione degli spazi interni.
Fotografare architetture
Per quel che riguarda il Piemonte[19] fu la grande Esposizione Internazionale dell’Industria e del Lavoro che si svolse a Torino nel 1911 per celebrare il cinquantenario dell’Unità a consolidare l’attenzione per le architetture barocche nel contesto del più ampio dibattito per la definizione di uno ‘stile nazionale’, assumendo qui più sottili valenze di orgogliosa rivendicazione di un’identità culturale sostitutiva dell’ormai superato modello neogotico di matrice sabauda, quello che aveva portato alla realizzazione del Borgo Medievale al Parco del Valentino nel 1884. In quello stesso 1911 però, nel volume dedicato all’ex capitale del Regno di Sardegna, un importante storico dell’arte come Pietro Toesca, all’epoca primo titolare della cattedra di Storia dell’arte medievale e moderna a Torino, condannava senza appello le opere di Guarini, “ch’ebbe in sorte d’innalzare alcuni dei più importanti edifici della città e di imporre ad essa, nei luoghi più frequentati, le linee uggiose ideate dalla sua stracca fantasia. (…) l’aspetto sgradevole delle sue fabbriche è aumentato dal cattivo modo di muratura (…) [che] è quasi ripugnante alla vista.”[20] Verdetto inappellabile, di marca settecentesca, che non poteva che contribuire a mantener vivo quel pregiudizio che (nonostante le precoci attenzioni di Stendhal[21]) aveva indotto Jacob Burckhardt ([1855] 1952) a lasciare ai margini del suo viaggio italiano Torino e l’intero Piemonte; quello che ancora nel 1931 avrebbe consentito a Brinckmann di affermare che “Il Piemonte, collocato alle porte d’Italia, fa ancora parte delle aree sconosciute del paese più conosciuto nella storia dell’arte.”[22].
Lo studioso tedesco aveva iniziato a frequentare questi luoghi[23] nell’estate del 1914 in preparazione del saggio dedicato all’architettura del Sei e Settecento (Brinckmann 1919); testo che un gesuita antimodernista come Carlo Bricarelli avrebbe recensito sulle pagine del “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, riconoscendo come “dallo studio dei monumenti barocchi di Torino e d’una parte del Piemonte, fatto sul luogo in persona, [l’autore] trae un prezioso accento di novità all’opera sua e argomenti non ispregevoli in conferma del suo modo di concepire lo stile barocco [e] grazie a questa giustezza di criterio il Piemonte viene a prendere nella storia dell’ architettura moderna, e precisamente dei secoli XVII e XVIII, la posizione che gli spetta, di primaria importanza addirittura.”[24]
5 – Giancarlo dall’Armi, 40 Torino – Palazzo Carignano – Guarini, 1915 ca..
Tra le fotografie pubblicate in quel volume comparivano anche due riprese[25] di Gian Carlo dall’Armi (fig. 5), uno dei più importanti e colti professionisti attivi a Torino nei primi decenni del Novecento[26], che aveva da poco edito i primi fascicoli della sua “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”; una serie avviata nell’anno dell’entrata in guerra e per questo quasi immediatamente interrotta. Il piano dell’opera, che prevedeva trenta cartelle monografiche con brevi introduzioni storico critiche affidate ad architetti e studiosi, si ridusse alla pubblicazione dei soli primi fascicoli de Il Barocco Piemontese[27], ciascuno contenente una serie di stampe fotografiche, che costituivano l’esito di una scelta rigorosa, frutto di numerose varianti di ripresa progressivamente ravvicinate[28], caratterizzate da una composizione nitida e ordinata, sorretta da una magistrale sensibilità agli esiti della luce sulle superfici murarie, con rare eccezioni di scorci zenitali, come per la volta dello scalone di Palazzo Barolo (fig. 6); una soluzione di cui si sarebbe ricordato Augusto Pedrini mezzo secolo dopo nel fotografare la Scala delle Forbici di Palazzo Reale[29].
In quello stesso 1915 Giovanni Chevalley dedicava a Benedetto Alfieri una sua conferenza alla Società degli ingegneri ed architetti di Torino[30], mentre di poco successivo fu il primo studio su Bernardo Antonio Vittone (Olivero 1920), illustrato da numerose fotografie di professionisti e amatori torinesi, tra le quali si segnalano per la qualità degli esiti ancora quelle di Dall’Armi – che nella sua prima serie aveva offerto solo esempi di architetture civili – dedicate alle volte della vittoniana chiesa di Santa Maria di Piazza[31], e quelle di Giuseppe Ferazzino, il solo in quegli anni a tentare una veduta zenitale delle volte della Chiesa dei Santi Bernardino e Rocco a Chieri[32]. Nella generalità dei casi le altre riprese non presentavano novità di rilievo, tanto che le fotografie di Pedrini del salone della Palazzina di caccia di Stupinigi[33] poco si discostavano dalle riprese Alinari del primo anteguerra[34], senza arrischiare prospettive più ardite, senza veramente accettare il dialogo con le architetture fotografate.
6 – Giancarlo dall’Armi, 462 bis Torino – Palazzo Barolo –
Baroncelli – Fregi dello scalone, 1915 ante
Di quel rinnovato clima culturale che consentiva di guardare “alla architettura barocca (…) in un senso prettamente storico, senza alcuna allusione dispregiativa” ovvero – come scriveva ancora Carlo Bricarelli (1921) – di “ricuperare i diritti civili” di quello “stile” nonostante gli anatemi di Benedetto Croce[35], fu testimonianza l’importante Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese che si tenne nel 1926 nelle sale del palazzo della Promotrice delle Belle Arti al Valentino. Diretta da Giacomo Salvadori di Wiesenhof e dallo stesso Chevalley[36], presentava nella Sala X alcuni rilievi di edifici barocchi realizzati da Giovanni Vacchetta e corredati di fotografie di Dall’Armi e di Pedrini, impegnato in quegli anni a fornire il corredo fotografico degli studi che Augusto Telluccini dedicava all’opera di Filippo Juvarra (fig. 7).
7 – Augusto Pedrini, Torino – Palazzo Madama: atrio, 1926 ante, in: Telluccini 1926, t.52
Lo studioso tributava “un meritato elogio [a Pedrini] che, con grande disinteresse e con grande amore e studio, mi ha coadiuvato eseguendo con vero senso d’arte le riproduzioni fotografiche usate per illustrare l’opera”[37]. Come già si è notato, a queste date il fotografo si muoveva ancora nella tradizione dell’ortogonalità prospettica ottocentesca: punto di vista rialzato e macchina parallela al piano verticale principale per conservare il parallelismo delle linee; anche negli interni l’apparecchio era posto sull’asse centrale ad un’altezza mediana: le deformazioni non erano consentite, tanto meno ricercate. La fotografia era ancora intesa come schermo trasparente, una finestra in posizione privilegiata da cui osservare senza inquietudini i dinamici volumi barocchi, ridotti al più ragionevole spazio bidimensionale di una forma geometrica piana (cerchio, ellisse, poligoni inscritti e circoscritti): quasi una normalizzazione tranquillizzante che rifiutava ogni deformazione esplicitamente anamorfica, espressionista.
A testimoniare un più generale mutamento del gusto fu una pubblicazione a larghissima diffusione come il primo volume della collana “Attraverso l’Italia” che nel 1930 il Touring Club dedicava al Piemonte. La prima tavola fuori testo (fig. 8) , colorata in stampa, raffigurava l’interno di San Lorenzo e ne celebrava “l’ardita, originalissima cupola, la bizzarria dell’architettura che esclude ogni linea retta, la ricchezza e il buon gusto della decorazione, l’armonia delle luci e dei colori [che] ne fanno un capolavoro di grazia e di eleganza.”[38] Accantonate e forse dimenticate le sprezzanti opinioni di Toesca, anche la nascente cultura di massa era pronta a celebrare queste realizzazioni riconoscendone il ruolo determinante nella definizione culturale del barocco sabaudo e del patrimonio architettonico nazionale.
8 – Autore non identificato, Torino: interno della Real chiesa di San Lorenzo, 1930, in: Touring Club Italiano 1930, All.1.
Vedere il barocco
Sviluppando le prime ricerche avviate nell’immediato anteguerra, nel 1931 Albert Erich Brinckmann pubblicava in soli 300 esemplari il Theatrum novum Pedemonti, unanimemente considerato il caposaldo della scoperta del barocco piemontese, sebbene con una impostazione all’epoca molto discussa[39]. Uno studio che qui importa considerare specialmente per le scelte metodologiche e di poetica che guidarono la realizzazione e la composizione dell’apparato fotografico, sinteticamente ricordate dall’autore nell’introduzione al volume: “La comprensione di una parte della storia dell’arte di quest’area culturale non è possibile senza un preliminare lavoro tecnico-giornalistico. In primis le mie fotografie degli edifici, fotografie che ho raccolto nel corso di cinque viaggi in treno e in auto, da solo e spesso con difficoltà (…). Ciò che si può trovare presso gli studi fotografici commerciali è trascurabile. Non volevo illustrare ma semmai chiarire un edificio. Oltre a una preparazione tecnica specifica, ciò comporta un modo e una capacità di vedere particolari. Mi sono deciso a realizzare numerose riprese scorciate, e ravvicinate, perché corrispondono all’immagine visiva e all’intenzione rappresentativa dell’architetto barocco. Con questo lavoro creativo mi auguro di aver accresciuto la percezione visuale storico-artistica dei concetti spaziali e volumetrici del Barocco. (…) Come ho evitato quel genere di abbellimento tipico dei libri popolari di paesaggio, così mi sono anche guardato dall’adottare quello stile ditirambico che seduce in modo ingannevole. (…) Il fotografo torinese Pedrini ha spesso esaudito richieste ambiziose.”[40]
9 – Albert Erich Brinckmann, Chieri – chiesa dei Santi Bernardino e Rocco: la cupola, 1928-1930,
courtesy Fondazione Torino Musei
La presenza di questo bravo professionista costituiva ormai una costante nell’apparato documentario dei primi studi sulle architetture barocche piemontesi, sebbene in questo caso contenesse oltre a quelle realizzate in proprio dallo studioso tedesco anche fotografie di autori diversi (e non dichiarati) quali Alinari, Dall’Armi[41] e Guido Cometto, risultando quindi più eterogeneo di quanto non ci si potesse attendere leggendo la prefazione. Così fotografie di impostazione più convenzionale e descrittiva[42] si alternano ad altre, dovute allo studioso, nelle quali è ben riconoscibile l’adesione di Brinckmann ai dettami della “nuova visione” modernista, specialmente evidente nelle riprese scorciate del sistema voltato di San Bernardino a Chieri (fig. 9), poi reimpaginato editorialmente con un ardito taglio verticale rispetto all’originaria ripresa in formato quadrato[43]; in quelle di Santa Chiara a Bra o della torinese chiesa del Carmine ma anche in alcune riprese zenitali delle cupole di San Lorenzo a Torino, poi non utilizzate per la pubblicazione[44]. Scelte che influenzeranno non poco le successive riprese di un professionista locale come Paolo Beccaria, che adotterà un’esplicita composizione in diagonale per restituire la Scala delle Forbici di Palazzo Reale a Torino, verso il 1936 (fig. 10); uno scatto che va collocato nel novero della campagna fotografica commissionata da Vittorio Viale in preparazione della prima grande mostra del 1937 dedicata al barocco piemontese[45], purtroppo povera di fotografie del patrimonio architettonico, che pure “rappresentava il cuore concettuale della mostra”[46]. Non si può escludere che tale condizione dipendesse dalla buona documentazione già disponibile nell’archivio fotografico dei Musei Civici, da poco istituito per volontà dello stesso Viale, ma resta il fatto che le rare riprese architettoniche risultarono piuttosto convenzionali, con la sola, notevole eccezione di quella appena citata.
10 – Paolo Beccaria, Torino – Palazzo Reale: Scala delle forbici, 1935 ca.
Suggestioni di visione modernista si ritrovano anche nelle coeve riprese torinesi di Mario Gabinio, quasi un’indagine tipologica che lo faceva ritornare più volte sullo stesso soggetto, chiese e palazzi barocchi, porte e portali[47], alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta. Qui oltre al taglio dell’inquadratura grande attenzione era data ai valori luminosi dello spazio rappresentato, sovente ripreso in condizione di luce particolari, con ombre dense dalle quali emergono gli elementi strutturali, le sculture che a volte li animano e le decorazioni plastiche, come nelle riprese dello scalone di Palazzo Graneri[48]; segni che si aggiungono a segni, sottolineature ed elisioni. Un momento di consapevolezza profonda, di riflessione sui fondamenti del linguaggio fotografico che richiama quelle di Gio Ponti comprese nel suo Discorso sull’arte fotografica, pubblicato su “Domus” nel maggio del 1932, nel quale riconosceva alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio. Enorme importanza della fotografia”[49]. Diverse intenzioni e modalità connotavano invece altre sue riprese, come quella fortemente scorciata dell’invaso della cupola della Sindone (fig. 11), realizzata intorno al 1928[50]: qui riconosciamo l’intenzione di definire un valore autonomo dell’immagine, immediatamente debitrice delle suggestioni della “nuova visione”, tra costruttivismo e Bauhaus – note in Italia specialmente per la mediazione di Antonio Boggeri e delle riviste di architettura – che imponevano “lo spostamento del punto di vista dell’obiettivo: in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari”[51].
11 – Mario Gabinio, Torino – Duomo: cappella della SS. Sindone, 1928 ca.
Nel 1941 l’architetto Mario Passanti, già allievo e collaboratore di Giovanni Chevalley, pubblicava sulla rivista “Torino” un saggio dedicato alla Real cappella della S. Sindone in Torino, corredato da un’interessante serie di fotografie di Riccardo Moncalvo (fig. 12) nella quale si riconoscono sia la cultura modernista del fotografo, che negli anni precedenti aveva già fornito prove interessanti misurandosi con alcune architetture contemporanee, sia l’adesione alle accorte indicazioni di regia dell’architetto, ben riconoscibili nel confronto tra restituzione grafica e fotografica di alcuni elementi quali il tamburo, o nell’insistere sui dettagli dell’articolazione degli archi, alle quali si aggiungevano inedite (e ancora dopo inconsuete) riprese scorciate dall’alto.
12 – Mario Passanti, Riccardo Moncalvo [fotografie], Real cappella della S. Sindone, in: Passanti 1941, pp. 6-7
Negli anni della seconda Guerra Mondiale la sola documentazione disponibile relativa a queste architetture è quella conservata negli archivi fotografici dell’Ufficio Protezione Antiaerea – UPA, dei Vigili del Fuoco e delle testate giornalistiche locali[52]. Una raccolta e un racconto di ingegnose opere provvisionali e distruzioni. Fu per celebrare il restauro del Palazzo dell’Università di Torino, parzialmente distrutto dai bombardamenti del luglio 1943, che Anna Maria Brizio dedicò a L’architettura barocca in Piemonte la propria prolusione per l’inaugurazione dell’anno accademico il 13 dicembre 1952. In quella occasione ricordava come la venuta di Guarini e Juvarra avesse prodotto “Ogni volta (…) correnti nuove di idee e di gusto, e una discendenza di seguaci, che riprendendo spunti del loro stile l’andavano interpretando e modificando secondo il proprio ingegno personale e i gusti e le tendenze della cultura locale. Far la storia di tali riflessi e reazioni è il capitolo più propriamente piemontese della storia dell’architettura rinascimentale e barocca in Piemonte” [53]. A quella storia apparteneva la monografia dedicata da Nino Carboneri (1954) a Francesco Gallo, ancora con fotografie di Augusto Pedrini, il quale riconfermava la sua consueta controllata libertà, quasi coincidente con l’impegno a evitare ogni ingombrante presenza autoriale. Solo quando era indispensabile inclinava un poco l’apparecchio sull’asse verticale per riprendere il sistema voltato, secondo uno schema applicato senza variazioni, che prevedeva di porsi sotto la cupola per inquadrarne la metà posteriore raccordata alle volte del presbiterio e del transetto. Era nel riprendere una cappella laterale dei Santi Pietro e Paolo a Mondovì Breo (fig. 13) che il fotografo osava di più, memore forse degli insegnamenti di Brinckmann, avvicinandosi alla parete destra per puntare l’obiettivo verso l’alto e comprimere così all’interno dell’inquadratura la vela e il catino absidale, mentre nella chiesa dell’Annunziata a Busca (ivi, t.51) forzava lo scorcio per descrivere la relazione plastica tra cupola e volte, come nella chiesa della SS. Trinità a Fossano (ivi, t.66).
13 – Augusto Pedrini, Mondovì Breo, chiesa dei Santi Pietro e Paolo, volta di una cappella laterale, 1953, in: Carboneri 1954, t.30
In quegli anni la vera novità in termini di lettura critica sub specie fotografica fu però rappresentata dalle fotografie realizzate da Paolo Portoghesi per il proprio volume dedicato a Guarino Guarini[54], nel quale leggeva magistralmente le ardite soluzioni strutturali della chiesa di San Lorenzo (t. 14) e contemporaneamente restituiva con evidenza plastica il confronto con l’architettura juvarriana, scegliendo di riprendere l’esterno della cupola con una inquadratura chiusa a destra dalle modanature del basamento di Palazzo Madama (fig. 14), sovvertendo così una consuetudine rappresentativa che almeno da Giancarlo dall’Armi in poi (1920 ca) prevedeva di riprendere l’esterno dell’edificio collocandosi nel fornice dell’arcata occidentale del portico del Palazzo delle Regie Segreterie di Stato.
14 -Paolo Portoghesi, Torino – chiesa di San Lorenzo: esterno, 1955 ca, in: Portoghesi 1956, t. 11
Nella seconda grande mostra che Vittorio Viale[55] dedicò al barocco piemontese[56], nel 1963, fu “il medium espositivo della fotografia a offrire la più seducente chiave di accostamento all’architettura e ad aprire la strada a una visione collettiva dell’esperienza piemontese. A differenza degli altri ambiti della mostra, in più stretta relazione con l’arte di corte, l’architettura si offriva naturalmente anche alla scala della città e del territorio.”[57] Più di mille riprese (trecento delle quali in mostra nella sezione al piano nobile di Palazzo Madama, stampate in grande formato da Vittore De Regibus), vennero realizzate per l’occasione da Pedrini percorrendo con Nino Carboneri, curatore della sezione, “l’intero Piemonte per visitare, studiare e far fotografare il più gran numero possibile di monumenti barocchi”, ma ricorrendo anche al proprio consolidato repertorio antecedente[58]. Anche in quell’occasione si confermava quella misurata impostazione che aveva caratterizzato l’operato ormai quarantennale di questo fotografo, che preferiva assimilare l’immagine al piano della percezione, senza forzature nella scelta dell’ottica, o del punto di vista. Solo nel confronto con le opere di Vittone si trovava costretto ad osare di più, come nella bella invenzione per le volte di San Luigi a Corteranzo ( ivi, t.138a), nelle quali è più evidente l’adesione alle richieste di Viale che gli aveva raccomandato di “effettuare le riprese dalle stesse angolazioni che aveva proposto Brinckmann”[59], mostrando di comprendere bene come dovesse essere l’architettura a indirizzare la ripresa, a suggerirne i modi.
Oltre agli autori[60] impegnati tra il 1958 e il 1964 nella realizzazione delle monografie curate da Marziano Bernardi per la “Biblioteca d’Arte” dell’Istituto bancario San Paolo di Torino, che introducevano la novità dei “fotocolori eseguiti in luogo”, altri furono in quegli anni i fotografi, come Aldo Moisio, che si misurarono con edifici barocchi su commissione dell’allora Soprintendenza ai Monumenti, realizzando riprese tecnicamente ineccepibili ma con impostazioni canoniche, di buon impianto ottocentesco. Più aggiornata appariva la serie di fotografie degli interni della chiesa di San Lorenzo realizzate da Mario Serra per un saggio di Giuseppe Michele Crepaldi (1963), soffermandosi sapientemente sulla lettura degli aspetti strutturali (come già Portoghesi) e sul dialogo tra le due cupole dell’aula e del presbiterio (fig. 15), che la ripresa zenitale centrata sull’arco assimilava in termini di forma e dimensioni, restituendo così un’immagine tanto falsata quanto comunemente accettata di questi volumi architettonici; una soluzione già adottata da Gabinio intorno al 1930 e successivamente riproposta con minime varianti da autori diversi – da Daniele Regis a Pino dell’Aquila[61] – e che per certi versi conferma le riserve espresse da alcuni esponenti della cultura architettonica novecentesca a proposito della capacità di restituzione proprie della fotografia.
15 – Mario Serra, Torino – chiesa di San Lorenzo: cupole del
presbiterio e dell’aula, 1963 ante, in: Crepaldi 1963, t. 9.
“Risolvendo in notevole misura i problemi della rappresentazione di tre dimensioni, ha scritto Bruno Zevi in un passo famoso datato 1948, la fotografia assolve il vasto compito di riprodurre fedelmente tutto ciò che c’è di bidimensionale e di tridimensionale in architettura, cioè l’intero edificio meno il suo sostantivo spaziale. Le vedute fotografiche rendono bene l’effetto della scatola muraria (…) Ma se il carattere precipuo dell’architettura è lo spazio interno e se il suo valore deriva dal vivere successivamente tutti i suoi stadi spaziali, è evidente che né una né cento fotografie potranno esaurire la rappresentazione di un edificio, e ciò per le stesse ragioni per cui né una né cento prospettive disegnate potrebbero farlo”[62]. Pur partendo da presupposti diversi giungeva a conclusioni non dissimili anche Eugenio Battisti, che nella sua fascinosa lettura iconologica della Cappella della Sindone notava quanto la sua costruzione fosse “tanto basata su questi sottili rapporti psicologici che nessuna fotografia riesce mai a suggerirne il clima luminoso. Sprofondando nel buio, il fedele è salito alla massima luce; ma in questa luce l’ombra resta compresente e minacciosa. (…) Il nero dei marmi insistentemente ripresentato in sagome nervose, crea un efficace contrappunto di raggi del sole, che risultano spezzati a raggiera. (…) Questa è la ragione per cui nelle fotografie, dove la muratura diventa grigia e si evitano le zone di luce, l’edificio non solo risulta appiattito ma privo di dinamismo.”[63]
Certo sulla scia del grande successo della mostra di due anni prima, nel 1965 comparve nella collana dell’Automobile Club Italiano, Torino Barocca con fotografie di Aldo Ballo tecnicamente ineccepibili ma prive di elementi innovativi, ma il frutto più rilevante di quella stagione fu il volume di Andreina Griseri intitolato alle Metamorfosi del barocco (1967), che per quanto riguarda le architetture piemontesi si avvaleva di un apparato fotografico che diremmo di produzione eccentrica, nel quale trovavano scarsa rappresentanza i più noti professionisti locali, che certo non diedero in quell’occasione gran prova di sé[64], mentre ampio spazio era riservato a un piccolo gruppo di compagni di strada di generazioni diverse, a loro volta in parte legati da relazioni anche personali come Mario Passanti (ma in realtà alcune fotografie erano di Riccardo Moncalvo[65]), Roberto Gabetti ed Emilio Giay[66], ma soprattutto Giorgio Avigdor, a sua volta allievo di Carlo Mollino e collaboratore di Gabetti, all’epoca semmai noto per le sue fotografie di moda, a cui venne affidata la maggior parte della documentazione architettonica piemontese, riservandogli l’onore dell’immagine di copertina: l’erma dello scalone di Palazzo Madama, forse il più persistente ‘luogo comune’ della storia di questo particolare genere di fotografia (figg. 16-19). Specie nelle foto di Avigdor è evidente la regia di una storica dell’arte come Griseri, che privilegiava l’analisi di dettaglio del particolare decorativo piuttosto che le articolazioni spaziali degli edifici considerati, che erano invece il fulcro dell’attenzione delle fotografie degli architetti, che mostravano però un tono generale di rapidi appunti visivi: pensate più per riflettere che per comunicare.
Torino – Palazzo Madama: atrio e scalone visti da sud.
16 – Giancarlo dall’Armi, 1915 ante
17 – Augusto Pedrini, 1925-1926, in: Brinckmann 1931 t. 271
18 – Paolo Beccaria, 1930 ca, in: Viale 1963, t. 97
19 – Giorgio Avigdor, in: Griseri 1967
Le iniziative espositive ed editoriali degli anni Sessanta favorirono certo la divulgazione del tema, ripreso nel decennio successivo in occasione di alcune campagne fotografiche commissionate dal Touring Club Italiano, tra i cui esiti più singolari ricordiamo la serie di riprese dello scalone di Palazzo Madama realizzate da Gianni Berengo Gardin nel 1973[67] nelle quali l’autore si provava a scardinarne le consuete modalità di lettura adottando un’inquadratura orizzontale ma conservando il consueto punto di vista dal pianerottolo intermedio. Già fatto proprio da Dall’Armi nella sua vista generale da sud dello scalone di Palazzo Madama (n. 488), esso si inseriva in una linea iconografica di lunga durata: la sua determinazione, che risaliva a un primo schizzo di Filippo Juvarra[68], venne successivamente adottata in un disegno a penna e inchiostro acquerellato di Giovanni Migliara, 1834 ca., e confermata ancora da Carlo Bossoli[69] circa vent’anni più tardi, introducendo una strabiliante dilatazione dello spazio, assimilabile solo alle più recenti immagini digitali ottenute con obiettivi grandangolari a correzione prospettica. Un punto di vista che sarebbe divenuto canonico, riproposto con minime varianti da Augusto Pedrini nel 1925-1926[70] e confermato solo pochi anni più tardi da Paolo Beccaria[71], così che le diverse riprese si distinguono tra loro solo per la diversa apertura angolare e per il relativo decentramento rispetto all’asse costituito dalla balaustra con l’erma, restituendo ogni volta in modi sottilmente distinti le relazioni spaziali tra piani orizzontali e rampe (figg. 16-19). Alla committenza del TCI vanno riferite anche le riprese un poco più tarde di Toni Nicolini (1978), che a San Lorenzo interpretava alcuni elementi strutturali come le colonne delle cappelle radiali sino a trasformarle in minacciose presenze espressioniste che quasi cancellano lo spazio architettonico, e le due serie che Roberto Schezen dedicava all’invaso delle cupole della Sindone e di San Lorenzo, forzando le prospettive scorciate dal basso, per la prima, e facendo emergere suggestioni zoomorfe e quasi apotropaiche per l’altra, riproponendo (crediamo inconsapevolmente) la formula adottata per la copertina di Brayda et al., 1963.
Vedere barocco
Fu Carlo Bertelli (1984) a riconoscere esplicitamente, a certificare quasi, la possibilità di intendere La fotografia come critica visiva dell’architettura in un importante scritto pubblicato su “Rassegna” nel numero curato da Gabriele Basilico. Da storico dell’arte da sempre attento alla storia e alle pratiche delle fotografia, Bertelli riconosceva l’autonomia interpretativa (e non descrittiva) di “questa razionalità nuova che scompone l’unità apparente [e] riconduce ogni elemento allo stesso grado di leggibilità [che] costituisce un discorso a sé. Se la fotografia d’insieme è una metafora (associativa e simultanea, astorica) del monumento reale, l’insieme dei dettagli ne costituisce una metonimia (sintagmatica e sequenziale, storica) (…) la nostra consapevolezza del rapporto di tempo fra la presa fotografica e la realtà ci costringe ad ammettere una circolazione all’interno dell’edificio”[72]. Di più: “É impossibile cogliere un’architettura nella sua complessità in un colpo solo. L’architettura è fatta di dettagli, frammenti, invenzioni. E l’idea che ne è all’origine può essere colta in un frammento, in un dettaglio”[73].
Quella consapevolezza, quelle modalità di lettura avevano già da tempo trovato una loro misura, una loro efficacia ermeneutica nelle magistrali interpretazioni fotografiche offerte da Paolo Portoghesi a partire dalla monografia dedicata a Vittone (Portoghesi 1966; fig. 20), proseguendo nella propria personale verifica delle possibilità critiche della fotografia avviata esattamente dieci anni prima con il volume dedicato a Guarini[74], redatto quando era ancora studente. “L’importanza che le immagini fotografiche possono avere per lo studio del linguaggio architettonico – affermava lo studioso nella Nota alle illustrazioni che apre l’Introduzione visiva a Vittone – sia dal punto di vista documentario che dal punto di vista critico, ci ha spinto a creare un archivio di circa cinquemila negativi, riguardanti le opere di Bernardo Vittone, solo parzialmente utilizzati in questa monografia. Nel raccogliere il materiale si è fatto uso di tutti i mezzi tecnici più progrediti, riprendendo gli stessi soggetti con una gamma di obiettivi che fornisce angoli visuali dai 15° ai 180°. Il valore che Vittone dà alle cupole come elemento risolutivo dell’organismo ha reso necessario offrire insieme a immagini parziali riprese con l’asse dell’obiettivo orizzontale, immagini ad asse verticale che coprono il campo visivo dell’osservatore quando rivolge lo sguardo verso l’alto. Le proporzioni degli spazi interni molto sviluppati in altezza hanno consigliato inoltre l’uso di obiettivi grandangolari. In particolare le immagini di forma circolare riprese coll’obiettivo Nikkor fish-eye (180°) riassumendo in un solo fotogramma l’intero organismo, come una planimetria ma con informazioni assai più numerose e pertinenti, hanno permesso di condensare in poche pagine una ampia rassegna delle idee architettoniche di Vittone. Queste immagini non corrispondono alla visione dell’occhio umano ma a questa si approssimano per eccesso di informazione, quanto, per difetto, si approssimano ad esse le immagini rilevate da un obiettivo normale.”[75]
Nello stesso anno comparve un altro volume a sua firma, esplicitamente costruito per “determinare nel lettore un rapporto critico attivo”: Roma barocca si presenta come “una sequenza di immagini che aspira anzitutto alla continuità del racconto (…) una sintesi visiva che volta per volta chiarisse un ‘pensiero architettonico’, un contributo al chiarimento dei problemi e allo sviluppo dei temi del barocco.”[76] Le sguardie della bellissima edizione curata da Carlo Bestetti sono illustrate da due riprese con obiettivo fish eye, dove quella dell’invaso di San Carlino vale come omaggio ‘citazionista’ alla vista zenitale della cupola di Sant’Ivo pubblicata dal Borromini stesso nel suo Opus architectonicum (1725).
20 – Paolo Portoghesi, Santuario del Vallinotto; San Luigi a Corteranzo, in Portoghesi 1966a, tt.11-12.
Nella testimonianza di Giorgio Stockel, allora giovane architetto coinvolto nell’impaginazione del volume, “Portoghesi, pur non escludendo l’uso della Linhof Technica per le fotografie d’insieme, scopriva nella SuperWide [Hasselblad] il nuovo strumento con il quale esprimere un nuovo linguaggio (…), vedeva l’architettura barocca come un corpo di donna da indagare, scoprire, accarezzare impudicamente in tutte le sue parti, per rendere visibili anche quelle invisibili: si comportava quasi come il fotografo di moda del film Blowup di Michelangelo Antonioni.”[77] Il confronto con la complessa composizione barocca produsse un repertorio di immagini di grande qualità e interesse, dovute prevalentemente a Portoghesi e a Eugenio Monti, che ben rispondevano allo scopo di definirne strutturalmente le componenti visive. A ciò si aggiunga un’impaginazione innovativa e molto efficace, concepita per consentire al lettore di “scivolare senza disturbi all’interno delle immagini, libero apparentemente di pensare”[78], che credo debba più di una suggestione ad un libro apparentemente lontano come New York di William Klein, pubblicato nel 1956. Anche per il successivo Francecsco Borromini[79] Portoghesi predispose una efficacissima serie di riprese e una coerente impaginazione delle fotografie allo scopo di analizzare e restituire l’architettura, intesa “come sistema di comunicazione autonomo” cui applicare schemi grafici di “interpretazione spaziale”. La sequenza risultante era costituita da riprese di dettaglio alternate a vedute fortemente scorciate, zenitali o quasi nadirali, con l’intento di comprendere tutta la trabeazione all’interno del fotogramma, di farla essere visualmente e non solo architettonicamente cornice. Immagine e cornice allora, assimilando così la ripresa fotografica alla proiezione planimetrica, ma dichiarando nel contempo l’insopprimibile, esuberante necessità di fagocitare lo spazio, che è uno dei comportamenti compulsivi imposti dalle architetture barocche. Inesauribili, imprendibili, irriducibili alla piramide prospettica, esse inducono a loro volta ad una barocca moltiplicazione delle fughe, degli scorci, delle deformazioni proiettive conseguenti. Col pretesto di identificare e quasi inventariare il sistema di segni con cui si costruisce il linguaggio architettonico, queste immagini riescono a trattenere e trasmettere l’eccitazione indotta nell’occhio dell’osservatore, a testimoniare un’esperienza quindi. Qui il divario dai canoni descrittivi antecedenti è enorme, incommensurabile anzi. Segna tutta la distanza tra l’intenzione documentaria di tradizione ottocentesca, cui prevalentemente si assoggettavano gli operatori professionali, e la feconda interpretazione critica richiesta e qui concessa allo studioso che si fa fotografo, come accadeva anche negli studi di poco successivi di Christian Norberg-Schulz[80], autore di numerose delle fotografie lì pubblicate e già presente con proprie immagini in altri volumi di Portoghesi, come lui impegnato nella doppia traduzione delle architetture in parole e immagini.
Qui si direbbe che fosse l’interpretazione architettonica a provocare la fotografia, a sollecitare e imporre una risposta non convenzionale; una ripresa ‘barocca’ dove i modi della restituzione aderivano all’oggetto fotografato. Immagini come strumenti e veicoli di conoscenza, consapevoli della necessità di “trovare nelle rappresentazioni stesse la misura e il criterio della loro verità (…); le rappresentazioni sono perciò non imitazioni ma organi della realtà, nel senso che soltanto attraverso esse qualcosa diviene un oggetto da noi compreso e per noi reale”[81]. È per questo che “una fotografia Alinari – come sosteneva Rudolf Wittkower – è un mezzo ideale per comprendere l’architettura di Brunelleschi, poiché vi compare un punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschiani” [82]. È per le stesse ragioni che “una costruzione neoclassica non potrà mai essere fotografata come una costruzione barocca – come riconobbe Luigi Ghirri – perché l’una e l’altra prevedono un certo tipo di visione, frontale od obliqua”[83]. Il problema che si pone è allora quello di individuare soluzioni narrative adeguate, adatte alla restituzione di spazi dinamici come quelli barocchi, provandosi a realizzare quella apparente contraddizione in termini che possiamo chiamare ‘fotografia barocca’, nella quale temi e modi della rappresentazione aderiscono tra loro in un continuo dialogo e sfida; dove la regolarità ottico-geometrica del sistema prospettico rivela a sua volta la propria natura di prodotto culturale, passibile di esplorazioni individualmente differenti ma sempre legittime e culturalmente motivate, vive. Solo apparentemente bizzarre, momentaneamente irriconoscibili e incommensurabili rispetto al nostro consolidato modo di vedere, quasi fossero prodotti di un’ottica non geometrica. Però – lo ricordava Ernst Gombrich – “dal punto di vista geometrico, una fotografia in grandangolo non è né più né meno corretta di una ripresa con un obiettivo a fuoco normale. La differenza è una differenza psicologica”[84]. Adattando al nostro dire un’antica notazione di Manfredo Tafuri potremmo allora parlare di “innaturalità” fotografica a proposito di queste riprese che – pur obbedendo alle stesse leggi – non rincorrono il canone della verosimiglianza: “Il problema è sempre quello di negare ogni oggettività alla categoria dello spazio (…) anche lo spazio è (…) ‘relativo’: relativo, più precisamente, a un’esperienza soggettiva di rielaborazione”[85]. Precisazione ricca di conseguenze quando l’intento di restituzione critica muove dalla mimesi fenomenologica dell’effetto percettivo verso il riconoscimento delle potenzialità tecnologiche di trascrizione critica proprie del mezzo (qui tutt’altro che inconsapevoli), in una riflessione ampia sulle possibilità e le implicazioni metodologiche pertinenti allo specifico fotografico che apparteneva in quegli anni anche a Paolo Monti, impegnato in un serrato confronto col patrimonio architettonico e urbanistico italiano, seppure con accenti diversi: “Per quanto mi concerne – dichiarava in un’intervista ad Angelo Schwarz del 1978 – io cerco un approccio alla forma che sia il più semplice possibile, riservandomi poi di ridarne una visione più approfondita, più essenziale, più sintetica magari, attraverso una stampa più contrastata o avvalendomi di tutte quelle tecniche che ogni fotografo conosce molto bene”[86].
A questo ventaglio ampio di pratiche di ermeneutica visuale, ma con una intenzionalità più propriamente fotografica, vanno accostate altre serie di lavori di diversa ampiezza condotte nei decenni successivi, quali le fotografie realizzate da Mimmo Jodice nel 1999 nel corso di una campagna fotografica commissionata dall’Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte, quelle del progetto condotto da Giorgio Jano tra 1983 e 2006[87], che nelle prime fasi vide la collaborazione di Domenico Prola e di Enrico Peyrot e le successive riprese realizzate da Pino dell’Aquila a corredo di una serie di volumi curati da Giuseppe Dardanello.
Le fotografie di Jodice pubblicate in quella occasione, per la gran parte dedicate ad interni museali, avevano il preciso scopo di “mettere le cose di traverso rispetto alla logica del vedere”[88] ovvero – come notava Giovanni Romano – di spiare la realtà circostante “con attenzione allertata”, rivelando “indizi equivoci che cadono a grappoli nel fuoco del mirino, anzi precipitano con un effetto di risucchio”, come già accadeva in precedenti lavori dell’autore napoletano quali Mediterraneo (1995) ed Eden (1998).
Commentando la ricognizione delle Architetture barocche in Piemonte realizzata da Giorgio Jano, Henry Millon (2002) riconobbe invece che quelle “immagini affascinanti (…) hanno aggiunto un nuovo aspetto alla nostra metodologia analitica.” Accanto al desiderio di comprendere e rendere omaggio alle “soluzioni formali, plastiche e spaziali di grande e libera fantasia (…) delle decine di chiese barocche sparse nei piccoli centri della provincia piemontese”[89], si poneva infatti, forte e via via preponderante, l’intenzione di verificare i limiti tecnologici e critici del mezzo e del metodo fotografico, affrontando “un grande sforzo tecnico e culturale [che ha] imposto la sperimentazione prima e l’adozione poi di una grande varietà di materiali, attrezzature e procedure inedite o insolite, attinte (…) dal ricchissimo, diversificato e desueto patrimonio tecnico che la fotografia ha, lungo la sua relativamente breve storia, accumulato”[90]. Ne risultò una prima serie di immagini che “piuttosto che obiettive sarebbe meglio dirle totalizzanti (…) perché hanno una carica esplorativa dirompente. (…) Non restituiscono una percezione, la suscitano. E non rispondono alla scoperta sequenziale degli spazi interni, perché sono fatte per il sincronico. Producono insiemi mai visti, ‘impossibili’”[91]. A considerarle ora si comprende meglio come nello sviluppo di quella ricerca abbia assunto sempre maggiore rilievo l’intenzione di sondare i limiti dell’apparato, con un agire che richiama la figura di quello che Vilém Flusser ha identificato come perfetto fotografo: colui che “se guarda il mondo attraverso la macchina fotografica, non lo fa perché è interessato al mondo, ma perché è alla ricerca di virtualità del programma non ancora scoperte, che lo rendono capace di produrre nuove informazioni”[92]. Per questa sola ma determinante ragione da quell’indagine fotografica è esclusa ogni relazione non solo con l’intorno ma anche con l’attuale, col tempo quindi.
21 – Giorgio Jano, Chieri – chiesa dei Santi Bernardino e Rocco: interno, 2006.
A Jano non interessa il vissuto, non la materia né il suo mutare o resistere al trascorrere tempo. Quasi non interessa neppure quello della ripresa: non quella luce di quel particolare momento del giorno, dell’anno; solo quella necessaria a rivelare le architetture per riportarle sulla superficie sensibile della pellicola. Nonostante le immagini appaiano così inconsuete, l’intenzione esplicita del fotografo non è quella di destare meraviglia né di restituire una qualche esperienza personale, ma di mostrare gli esiti dell’applicazione sistematica di un metodo che prevede l’adozione di un ventaglio ristretto di soluzioni, per quanto arrischiate. Le sue riprese sono l’esito di un posizionamento tutto ottico geometrico; il risultato reiterato e reiterabile di una applicazione che esclude la soggettività della composizione a favore della sistematicità del ‘rilevamento’. Il ricorso ad apparecchi di grande formato ed ottiche con amplissime aperture angolari ha una prima conseguenza fondamentale: nessuna confusione tra visione e immagine, tra sguardo e fotografia. Osservando le riprese di Jano non possiamo mai, neppure per un momento fingere di credere che è ‘come se’ fossimo in presenza delle architetture che ne costituiscono il soggetto. La loro analogia con la cosa risiede nella loro natura di traccia, non con la nostra plausibile esperienza di quell’edificio. Basti pensare a come di fronte a uno spazio tridimensionale, per quanto semplice, il nostro agire non possa che essere una ricognizione, richieda un movimento, implichi una durata. Siamo dentro lo spazio, e invece davanti alla fotografia. Queste restituzioni anamorfiche rappresentano un dato di grande fascinazione visiva che rischia forse di alterare alcuni aspetti identificativi del singolo edificio (fig. 21) ma fa emergere con chiarezza esemplare le relazioni sintattiche tra i diversi elementi strutturali e architettonici, senza rinunciare a quella coerenza di dettaglio nella resa della materia e della sua risposta alla luce che nessun disegno potrà mai restituire con la stessa ambigua ricchezza. Qui l’immagine fotografica si approssima all’astrazione grafica, proiettiva, conservando però intatto il proprio carico di referenzialità. Ancor più complesse le questioni poste dalle riprese panoramiche realizzate con fotocamera rotante motorizzata per il formato 12.5x25cm dotata di obbiettivo Schneider Super-Angulon XL 47 mm: queste fotografie più che mai intrattabili, impossibili a cogliersi in un solo sguardo, mostrano più che sensibili differenze di esito e di efficacia a seconda dell’andamento dei volumi a cui si applicano. Le forme concave vengono restituite con effetto straniante, dovuto allo sviluppo imposto alla forma dell’invaso, mentre mostrano tutte le loro potenzialità quando l’apparecchio è collocato in corrispondenza di snodi significativi dell’organismo architettonico o di spazi solitamente percepibili solo sequenzialmente, poiché eliminano ogni soluzione di continuità, com’è per il bellissimo effetto di flusso generato dallo scalone guariniano di Palazzo Carignano[93]. Fotografia come reinvenzione dell’architettura.
Nella solida consuetudine con la lettura e la restituzione fotografica del patrimonio artistico e architettonico italiano i lavori che Pino dell’Aquila ha dedicato alle architetture barocche piemontesi non si propongono tanto di sondare i limiti della strumentazione fotografica quanto di sfruttarne appieno le potenzialità per la realizzazione di un progetto che è propriamente conoscitivo, che – per questa ragione – conserva un’aderenza forte, diremmo una fedeltà al soggetto fotografato che non viene mai meno neppure nell’uso delle ottiche grandangolari, sempre funzionali all’interpretazione architettonica, non alla verifica dell’apparato come invece accade in Jano. In questa intenzionalità conoscitiva vanno compresi anche il ricorso all’uso del colore e la consuetudine di ritornare più volte, anche a breve distanza di tempo, a confrontarsi con lo stesso soggetto, di precisarne la restituzione fotografica adottando un diverso (e magari di poco) punto di vista, ricorrendo a ottiche di differenti caratteristiche e soprattutto con una consapevolezza critica inevitabilmente accresciuta, mediata ed esplicitata dalle precedenti riprese.
Non possiamo escludere che queste radicali differenze dipendano anche dalla formazione dei due autori: laureato in matematica il primo, e particolarmente attratto dai problemi di geometria proiettiva, in architettura il secondo, orientato alla comprensione e alla restituzione critica del costruito, sebbene poi entrambi pongano in atto strategie e strumenti di ripresa destinati – seppure in modi diversi – a dilatare la restituzione (più percettiva che fotografica) di questi volumi interni. Dell’Aquila si confronta con le architetture piemontesi sei-settecentesche a partire almeno dalla metà degli anni Novanta del Novecento[94], ma in modo più sistematico ed esplicitamente interpretativo a partire dai primi anni 2000, ricorrendo nella restituzione dei sistemi voltati alle riprese zenitali (centrate o eccentriche quando le cupole sono multiple, come in San Lorenzo a Torino) che costituiscono ormai quasi un canone virtuosistico e sempre molto efficace. A volte invece si consente di giocare d’effetto, come nella ripresa del salone di Stupinigi dove la coincidenza dell’asse di ripresa col grande lampadario settecentesco evoca quasi una visione caleidoscopica; nell’accentuazione delle suggestioni zoomorfe dei costoloni della volta di San Lorenzo, o ancora sottolineando gli elementi geometrizzanti, come accade per lo scalone di Palazzo Graneri (2001). Come ha sottolineato Giovanni Romano, “per surrogare le reticenze di Bellotto abbiamo fatto ricorso a un altro sguardo d’eccezione, competente e sensibile, quello del fotografo Pino dell’Aquila, che va considerato, nella sua specialità professionale, un autentico critico della grande architettura torinese. Il confronto con le indagini di Dardanello rivela una leggera sfasatura di visione che rende ancor più stimolante la lettura del volume: lo storico descrive animatamente l’esperienza personale di chi si avventura negli spazi architettonici torinesi seguendo i percorsi di invito proposti dagli architetti, cadendo volutamente in tutte le trappole predisposte; il fotografo forza all’estremo il punto di vista, l’ampiezza del campo visivo, la profondità di penetrazione ed estrae dagli ambienti accortamente spiati quell’ultimo resto di follia, ancora non interamente bruciato, che risale alle origini scenografiche di tante invenzioni architettoniche. I due modi di far critica convergono sulla stessa verità, soprattutto quando si tratta di Juvarra, e non si poteva desiderare conferma migliore sull’esattezza dei giudizi” [95]. Proprio nella restituzione fotografica dello scalone juvarriano di Palazzo Madama la serie di riprese ipergrandangolari si sviluppa adottando punti di vista corrispondenti alle articolazioni spaziali (l’atrio, il pianerottolo intermedio), restituendo così in progressione la percezione dei volumi architettonici ai diversi livelli, dilatandoli in senso sia verticale che orizzontale. Altre interessanti applicazioni di queste ottiche si riscontrano nelle fotografie di Palazzo Carignano (1999-2006) sia per quanto riguarda gli esterni, con una forte accentuazione delle sinuosità della facciata guariniana, sia nella restituzione di una rampa dello scalone in cui l’ampio angolo di campo consente di mostrare le relazioni spaziali con l’atrio senza eccedere in improprie deformazioni prospettiche e solo sacrificando in parte la resa corretta dell’inclinazione e della curvatura.
Con l’avvento del digitale il confronto con gli spazi barocchi muta procedure e strumenti, passando dall’utilizzo analogico di ottiche supergrandangolari e obiettivi decentrabili all’elaborazione digitale di sequenze spaziali di immagini (fig. 22), assemblate in post produzione (stitching) utilizzando algoritmi proiettivi che consentono di restituire in modo percettivamente unitario e ‘corretto’ spazi e volumi non riducibili ai limiti di una singola inquadratura.
22 – Pino dell’Aquila, Torino – Palazzo Madama: atrio e scalone visti da sud, 2010
Com’è evidente, si tratta di fotomontaggi che nulla hanno a che vedere con la tradizione modernista né con alcuna poetica dello straniamento, ma tendono anzi a restituire uno spazio percettivo, escludendo ogni deformazione ottico geometrica come ogni contrasto espressionistico (o di vincolo tecnologico derivante dalla latitudine di posa delle emulsioni) nei rapporti luce/ ombra. Potendo realizzare più riprese, ciascuna perfettamente corrispondente alle condizioni della porzione fotografata, poi assemblate digitalmente, nell’immagine finale tutto è perfettamente equilibrato in termini di restituzione prospettica e di luminosità, applicando un procedimento concettualmente analogo a quello adottato nel 1851 da Édouard Baldus per restituire convenientemente la galleria settentrionale del chiostro di Saint-Trophime ad Arles, quando ricorse al montaggio di una serie di dieci negativi di carta, ciascuno correttamente esposto per una specifica porzione del soggetto[96].
Immagini fatte di immagini; fotografie fatte di fotografie. Una manipolazione produttiva (e lo dimostra bene l’esempio di Baldus) ben presente da sempre anche nelle pratiche fotografiche che siamo soliti collocare nella solida tradizione documentaria della rappresentazione ‘oggettiva’ della realtà. Penso non tanto e non solo agli accostamenti multipli necessari per formare panorami e fotopiani, ma alla consuetudine di integrare i cieli inevitabilmente spogli delle prime riprese ottocentesche facendo ricorso a una specifica collezione di negativi di nuvole o alle silhouette sapientemente poste in secondo piano da un autore di riconosciuta maestria descrittiva come Vittorio Sella. Nessuna volontà di praticare l’artificio come illusione, né di perpetrare un falso però. La loro invenzione era realistica, non fantastica: destinata a rafforzare l’effetto di realtà. È quanto ritroviamo anche in questi assemblaggi digitali, in queste fotografie ‘frattali’, ciascuna formata da un numero teoricamente infinito di riprese[97], dove il quadro generale risultante potrebbe continuare ad essere nutrito di immagini a scala sempre più grande, ciascuna a sua volta pensata e realizzata per fornire un massimo di informazione; perfettamente congiunte in un insieme ‘realistico’ e massimamente virtuale che pretende modalità di osservazione e lettura diverse dal consueto; che consente e quasi impone un’esplorazione in profondità, oltre l’apparenza della superficie, mostrando tutta l’inattualità, l’inadeguatezza della loro restituzione statica su supporto cartaceo: pagina di libro o foglio stampato che sia. Sono immagini fatte per l’interattività dello schermo: un cannocchiale non più metaforico che può offrirci una “inaspettata immagine dell’obietto rappresentato” [98].
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Note
[1] «La photographie, en achevant le baroque a libéré les arts plastiques de leur obsession de la ressemblance », Bazin [1945] 1973, p. 6. L’adozione sin dal titolo del mio breve saggio del termine “barocco” non va ovviamente intesa quale scelta critica di campo in un dibattito che ha visto fronti fieramente contrapposti, e specie in Italia; semmai una connotazione convenzionale ed empirica, che consenta di riferirsi a una serie di architetture piemontesi realizzate tra XVII e XVIII secolo senza richiedere troppi distinguo.
[2] “The spring-tight line between reality and photograph has been stretched relentlessly, but it has not been broken. These abstractions of nature have not left the world of appearances; for to do so is to break the camera’s strongest point : its authenticity. (…) The transformation of the original material to camera reality was used purposefully; the printing was adjusted to influence the statement (…). For technical data, the camera was faithfully used.”, White [1950] 2000, p. 17, traduzione di chi scrive.
[3] «la plus belle Eglise de Turin»,«d’une construction absolument singulière, on peut même dire extravagante», La Lande 1769, pp. 78-79, traduzione di chi scrive.
[4]«un grand edifice dont la façade, quoique de briques, à un aspect agréable et majestueux», Ivi, p. 141, traduzione e corsivo di chi scrive.
[5] «corruption (…) de toute l’architecture raisonnable», Quatremère de Quincy 1832, ad vocem “Guarini”, pp.687-698 ; diversa la considerazione per “Ivara (Philippe)” [Juvarra] (ivi, pp. 30-32) che considerava “lontanissimo dalla bizzarria della scuola che l’avea preceduto” , traduzione di chi scrive.
[6] Gurlitt 1887 e Schmarsow 1897 non sono mai stati pubblicati in Italia e analoga sorte hanno avuto le trascrizioni delle lezioni tenute da Riegel tra il 1898 e il 1902 (Burda, Dvořák 1908), mentre la traduzione italiana della tesi di abilitazione di Wölfflin (1888) comparve solo nel 1928, pubblicata a Firenze da Vallecchi. Su questi temi si vedano i diversi contributi raccolti in Bacchi, Barroero 2017. A testimonianza delle alterne vicende della comprensione di queste architetture ricordiamo che ancora per Martin Shaw Briggs “Palazzo Carignano (…) sfortunatamente mostra la maggior parte dei capricci e dei punti deboli del periodo [e] l’interesse principale [della cappella della S. Sindone e della chiesa di San Lorenzo] risiede nello straordinario, complicato e assurdo modo in cui sono coperte a cupola.”, Briggs 1913, pp. 98-99, traduzione di chi scrive.
[7] La preziosissima lastra dagherrotipica, oggi purtroppo in condizioni di scarsissima leggibilità, è conservata nell’Archivio fotografico della Fondazione Sella di Biella.
[8] Romani 1839.
[9] Le lastre originali e le relative stampe sono conservate a Biella presso l’Archivio fotografico della Fondazione Sella, Fondo Giuseppe Venanzio Sella, cfr. Cavanna 2019.
[10] Jacobson 2015.
[11] De la Garenne 1842.
[12] La diffusa mancanza di interesse per le architetture barocche è ben testimoniata anche da una stereoscopia di Giorgio Sommer del 1863-1867 che mostra scorciata e quasi illeggibile la facciata di Palazzo Madama (Cavanna, Lisino 2011, p. 22).
[13] Cfr. Miraglia 1990, rispettivamente alle tt.3, 59, 53, 60,61.
[14] Falzone del Barbarò, Borio 1989. Per ragioni sinora non note il biellese Vittorio Besso realizzò prima del 1881 una serie di fotografie del santuario di Vicoforte, presso Mondovì (cfr. Besso 1881, pp. 27-28), proprio negli stessi anni in cui il soggetto venne fotografato anche dal monregalese Giuseppe Viglietti, Album fotografico della città di Mondovì e del santuario di Vico, 1878, cfr. Avigdor, Cassio, Maggio Serra 1977, p. 44.
[15] Catalogo (…) Brogi 1926, p. 74.
[16] Ricci 1912; libro di grande successo, pubblicato nello stesso anno a Londra da Heinemann, quindi riedito nel 1922 a Torino dalla Itala Ars, e ancora nel 1928 a Stoccarda da Julius Hoffmann.
[17] Un precoce esempio di lettura architettonica di un sistema voltato condotto mediante riprese zenitali si ritrova nella campagna documentaria condotta da Pietro Masoero sulla basilica di Sant’Andrea a Vercelli a partire dal 1890 circa, cfr. Cavanna 1986.
[18] La fototeca di Muñoz è confluita negli anni Cinquanta del Novecento in quella di Federico Zeri ed è ora conservata nella Fondazione omonima. http://www.fondazionezeri.unibo.it/it/pubblicazioni/call-for-papers/articoli-2012/il-fondo-fotografico-di-antonio-munoz [22-11-2019]. Si veda ora Calanna 2018.
[19] Costituisce un riferimento bibliografico imprescindibile per la ricostruzione dell’intrecciarsi di studi e occasioni espositive Di Macco, Dardanello 2019, che raccoglie gli atti della giornata di studi promossa nel 2016 dalla Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo di Torino.
[20] Toesca 1911, pp. 64 passim . La presentazione critica proseguiva analizzando “L’incubo deforme delle linee degli archi coi quali Guarini volle sostituire la cupola, e della luce violenta” della chiesa di San Lorenzo, mentre la concezione della Cappella della Sindone, è considerata “povera e puerile nei concetti.” Radicalmente diversa la valutazione delle architetture juvarriane perché “ad osservare quelle linee ragionevoli [di Superga] ferme, sicure, si sente di essere in presenza di un poderoso intelletto d’artista, quanto diverso dalla mente sfibrata e convulsa del Guarini!”. La scelta di Vittorio Viale di destinare Palazzo Carignano a sede principale della Mostra del Barocco piemontese del 1937, avrebbe plasticamente segnato il superamento e si direbbe la presa di distanza dalle posizioni espresse da Toesca.
[21] “A Torino ci sono cinque o sei chiese che non bisogna perdere, soprattutto quella con la cupola insolita.”, Stendhal [1817] 1987, p. 56.
[22] „Piemont, an der Schwelle Italiens liegend, auch jetzt zu den unbekannten Gegenden des kunstgeschichtlich bekanntesten Landes.“, Brinckmann 1931, p. 7, traduzione di chi scrive.La situazione rimase sostanzialmente immutata nei decenni successivi, anche in conseguenza del contesto bellico, tanto che riferendosi ai viaggi condotti col marito nel secondo dopoguerra, Margot Wittkower ricordava che “Piedmont (…) was an almost undiscovered territory. Nobody stopped in Turin, nobody went into the country around there, and it has the most marvellous houses, churches, cathedrals, whatnot”, rievocando poi un gustoso aneddoto a proposito della loro scoperta di una “delightful small church (…) by an architect nobody had ever heard of, by the name of Vittone” (Barnett 1994, p. 319), scordando per l’occasione l’antecedente degli studi di Olivero e Brinkmann. Si veda anche quanto ricordato da Joseph Connors 2003, p. XVI.
[23] “Tutti quanti da me fotografati, imperterrito sotto il sole rovente delle vostre estati”, citato in L. P. 1937.
[24] Bricarelli 1921, che richiamandosi ancora a Brinckmann ricordava come “A tale aristocrazia dell’ arte vengono annoverate la cappella della S. Sindone e la chiesa di S. Lorenzo in Torino, minutamente descritte entrambe e studiate dal Brinckmann; due pietre miliarie nel cammino percorso dall’architettura moderna, anzi quasi colonne d’Ercole, estremi confini oltre i quali vien meno il terreno dell’arte, incomincia quello della pura scienza costruttiva, della matematica.” I fascicoli postbellici del “Bollettino” costituiscono una fonte determinante per descrivere e comprendere il mutato atteggiamento critico nei confronti della produzione barocca.
[25] Due vedute generali di Palazzo Carignano e Palazzo Madama (Brinckmann 1919, p. 126); altri soggetti torinesi come l’interno di San Lorenzo o l’atrio del Palazzo Asinari di San Marzano erano invece firmati dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche di Bergamo. Queste riprese non sembrano far parte della serie oggi conservata nel fondo omonimo della Fototeca dei Musei Civici di Torino, commissionata all’Istituto in preparazione del padiglione piemontese per l’Esposizione celebrativa del 1911 a Roma e in parte utilizzate in Toesca 1911; serie che non comprendeva alcun edificio barocco.
[26] Cfr. Reteuna 1998; Manzo 2000; Bergaglio 2011.
[27] Dall’Armi 1915, sei cartelle fotografiche, vendute in abbonamento a L. 10 cadauna, contenenti ciascuna 12 stampe fotografiche alla gelatina bromuro d’argento nel formato 21×27 cm, dedicate rispettivamente al Palazzo Morozzo della Rocca (poi della Borsa, demolito in seguito ai danni subiti nel corso delle incursioni aeree del 1942 – 1943), Palazzo Madama, Palazzo Barolo (I, II), Palazzo Saluzzo Paesana e Palazzo Graneri.
[28] Si confronti la n. 484, relativa alle volte dell’atrio di Palazzo Madama con la sua omologa conservata nel Fondo Dall’Armi dell’Archivio Storico della città di Torino (ASCTO – DAL R0310138).
[29] Cfr. Viale 1963, t. 103.
[30] Di poco antecedente era stato il suo studio dedicato alle ville piemontesi del Settecento (Chevalley 1912); considerando anche gli studi antecedenti di Camillo Boggio (1896) pare di poter dire che – almeno a Torino, già sede di alcuni interventi neobarocchi (Gianasso 2018) – la rivalutazione critica del barocco avvenne in ambito storico architettonico ben prima che storico artistico.
[31] ASCTO R0310210-R0310521; quella serie di riprese ebbe un discreto successo e venne in parte utilizzata ancora in Brinckmann 1931.
[32] La stampa, conservata presso l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione – ICCD, Fondo Ministero della Pubblica Istruzione – MPI, n. 310378, proveniente dall’Archivio fotografico dell’allora Regia Soprintendenza di Torino, venne pubblicata in Olivero 1920, p. 10. Sui Ferazzino si veda Morgantini 2011.
[33] Pubblicate in Telluccini 1926 e in Brinckmann 1931 ma riutilizzate ancora nel 1963 anche per realizzare il cartoncino d’invito alla mostra.
[34] Cfr. Alinari 1913, n. 15733, Stupinigi – Salone centrale: l’interno.
[35] Si veda il testo della conferenza tenuta al Politecnico di Zurigo il 2 febbraio 1925, poi ampiamente ripresa in Croce 1929.
[36] Società Promotrice delle Belle Arti 1926. Nel 1922 si era tenuta a Firenze la prima grande Mostra della pittura italiana del Sei e Settecento (Ojetti 1922).
[37] Telluccini 1926, p.3. Pochi anni più tardi lo studioso, insieme ad Arturo Midana e Lorenzo Rovere avrebbe curato la sezione piemontese della mostra veneziana Il Settecento italiano (Barbantini 1929).
[38] Touring Club Italiano 1930, t.1, corsivo di chi scrive.
[39] “Si cercherebbe invano nel libro del prof. Brinckmann una traccia storica che inquadri ed illumini il ricco materiale documentario”, scriveva Giulio Carlo Argan [1932], 1970, p. 315; come si è detto Brinckmann aveva già precedentemente visitato il Piemonte studiandone le architetture del XVII e XVIII secolo (Brinckmann 1919).
[40] „Der Aufschluss eines Teiles dieses Kulturgebietes für die Kunstgeschichte ist ohne technisch-publizistische Arbeit nicht möglich. So stehen voran die eigenen Fotoaufnahmen der Bauwerke, die ich auf fünf reisen mit Bahn und Auto allein und oft mühsam zusammenbrachte (…) Was dem Fotohandel entnommen werden konnte, ist verschwindend gering. Denn ich wollte nicht abbilden, sondern ein Bauwerk klar machen. Außer eingehenden technischen Vorbereitungen gehört dazu eine besondere Sehart und Sehkraft. Ich habe den Mut gehabt, wohlüberlegte Schrag – und Verkürzung aufnahmen in größerer Zahl zu machen, denn sie entsprechen dem optischen Sehbild wie dem Darstellungswillen des Barockarchitekten. Mit dieser nach schöpferischen Arbeit hoffe ich, allgemein das kunsthistorische Sehen barocker Raum – und Körpervorstellungen entwickelt zu haben. (…) Wie ich bei den Aufnahmen jegliche Art von Schönfärberei in der Art beliebter Landschaftsbücher vermied, so habe ich mich auch vor einem dithyrambischen Stil gehütet, der betrügerisch besticht. (…) Der Turiner Fotograf Pedrini hat oft anspruchsvolle Wünsche erfüllt.” Brinckmann 1931, pp. 7-8, traduzione di chi scrive.
[41] Si devono a Dall’Armi la ripresa della facciata di Palazzo Carignano, 1915 ca, t. 253, qui tagliata di tutta la porzione destra e in parte ritoccata (cfr. FFTM, Fondo Brinckmann 253.4), e la veduta scorciata della volta della chiesa di Santa Maria di Piazza, già pubblicata in Olivero 1920, p. 25 e qui reimpaginata in verticale escludendo le fasce laterali della lastra originaria, cfr. ASCTO, Fondo Dall’Armi DAL R0310521. L’apparato iconografico del volume richiederebbe un’analisi puntuale che non è possibile svolgere in questa occasione, ma va almeno segnalata l’assenza – apparentemente immotivata – di riprese dell’invaso della cupola della Sindone, forse non accessibile in quei mesi per le cerimonie connesse all’ostensione del “Sacro Lino” (3-24 maggio 1931), ma certamente presenti nei repertori di diversi fotografi quali Gabinio o Pedrini, per non dire di Alinari.
[42] L’assenza di indicazioni di responsabilità in calce alle immagini ne rende difficoltosa l’attribuzione in tutti quei casi in cui essa non sia precisamente assegnata al recto o al verso delle stampe originali conservate nel Fondo Brinckmann della FFTM. Anche il timbro a inchiostro “Professor/ A.E. Brinckmann” al verso della stampa n. 171 è qualificabile solo come timbro di collezione, essendo la ripresa riferibile a Pedrini, datata 1924, analogamente a quanto accade per la n. 171.2, che porta al verso il timbro a inchiostro “Foto: Bildarchiv Rh. Museum, Köln” e la scritta a matita “phot. Brinckmann/ Stupinigi/ 93252”.
[43] Cfr. FFTM – Fondo Brinckmann, 67.2. La qualità linguistica e l’efficacia descrittiva delle fotografie dello studioso tedesco venne confermata anche da Laszlo Moholy-Nagy 1947, p. 117, che pubblicando una sua fotografia del transetto della basilica dei Santi Alessandro e Teodoro a Ottobeuren, così commentava: “This is a composite view produced by assembled perspectives in depth and height. The photograph recreates the movement of the eyes as they wander from the benches upward to the ceiling.”
[44] Si vedano in Brinckmann 1931 rispettivamente le tavv. 67, 34 e 195.
[45] Ricordo che in quegli stessi mesi Beccaria era impegnato a riprodurre il corpus di disegni juvarriani (Rovere, Viale, Brinckmann 1937). Purtroppo, come è noto, di quella mostra non si pubblicò il catalogo “che pur avevo già redatto” (Viale 1963, I, p.1). Sulla genesi e sul significato di quel progetto si veda ora Abram 2019, da cui si ricava che nel corso della campagna fotografica commissionata da Viale tra 1936 e 1937 vennero realizzate circa 1345 riprese. Gli esiti del programma di ricerca, catalogazione e digitalizzazione del fondo di lastre Beccaria sono stati presentati nel corso dell’incontro del 16 dicembre 2019 promosso dall’Accademia delle Scienze di Torino intitolato a Il progetto lastre fotografiche. Torino 1937. Mostra del Barocco piemontese. Una storia che riemerge, curato dal Centro Conservazione Restauro La Venaria Reale e dalla Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo, con interventi di Sara Abram, Francesca Bocasso, Ambra d’Aleo e Federica Panero (La campagna fotografica della Mostra del Barocco 1937. Dietro le quinte di una “magnifica attrezzatura culturale”), che ha individuato in Paolo Beccaria l’autore delle riprese.
[46] Abram 2019, p. 25.
[47] Non si può escludere che la scelta del tema derivasse dai suoi giovanili contatti con Riccardo Brayda, che nel 1888 aveva pubblicato Porte piemontesi dal XV al XIX secolo, con immagini di Alberto Charvet. La collaborazione tra i due risaliva al precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.
L’argomento venne poi ripreso da Pedrini 1955.
[48] FFTM, Fondo Gabinio, nn. B43/45, B43/48.
[49] Ponti 1932, pp. 285-286, corsivi dell’autore.
[50] Cavanna, Costantini 1996, t.94.
[51] Boggeri 1929.
[52] Roccia, Vaccarino 1995.
[53] Brizio 1953, p. 25.
[54] Portoghesi 1956, con 64 fotografie realizzate dall’autore, una di Riccardo Moncalvo (t. 19) e una di Alinari (t. 21).
[55] Viale 1963. In quello stesso anno, che segna l’avvio definitivo degli studi locali sul barocco piemontese, venne pubblicato anche il volume di Mario Passanti, con fotografie di Riccardo Moncalvo, generalmente modeste, tranne alcune sorprendentemente arrischiate della scala ellittica di Palazzo Carignano e del particolare della volta della Sindone, molto scorciata e quasi espressionista: inservibile come documentazione, realizzate circa un ventennio prima per Passanti 1941. A queste si richiamerà Roberto Gabetti circa vent’anni più tardi, nelle vesti di fotografo, ancora tutte da studiare, lasciandosi attrarre dall’elemento fantastico e quasi immateriale della cupola, accogliendo tutte le suggestioni di una forte illuminazione filtrata dalle vetrate (cfr. Griseri 1967, t. 119); si veda anche infra p. 30.
[56] La mostra si collocava in un periodo di rinnovata fortuna critica del barocco in genere (Argan, Battisti, Mellon, Portoghesi, Zevi) e di quello piemontese in particolare, anche grazie ai volumi strenna pubblicati dall’Istituto Bancario San Paolo di Torino, curati da Marziano Bernardi, mentre di poco successiva sarebbe stata la pubblicazione di Griseri 1967.
[57] Dardanello 2019, p. 63. Divergenti furono invece le opinioni dei critici contemporanei sulla qualità e l’efficacia di questa sezione. Così se per Giovanni Testori (1963) essa era “infinitamente bella”, per Bruno Zevi (1963) “il pubblico posto di fronte a una monotona e interminabile serie di pannelli fotografici impara poco e si stanca presto poiché non si è fatto alcun tentativo per rendergli accessibile la comprensione degli impianti spaziali e degli organismi struttivi (…). Le considerazioni del Carboneri non trovano alcuna visualizzazione”, confermando così la sua sostanziale diffidenza nei confronti delle possibilità della fotografia; cfr. infra.
[58] Il confronto col catalogo della mostra (Viale 1963), consente di riconoscere alcune riprese antecedenti, quali ad esempio quella relativa allo scalone meridionale di Palazzo Madama (t. 97), certamente anteriore al 1934 o quella dell’atrio del Palazzo Asinari di San Marzano (t.45, n.50), di cui si conosce copia conservata presso l’Archivio del TCI datata 1957. Altrettanto interessante il confronto tra alcune riprese originali e le versioni pubblicate in catalogo (e forse presenti in mostra) dopo essere state sottoposte a un esteso e raffinato ritocco, come nel caso del Salotto cinese di Stupinigi (t.14), da cui scompare la passatoia, e soprattutto della veduta di scorcio della facciata di Palazzo Carignano (t. 36b), da cui sono fatti scomparire i passanti e le rare auto parcheggiate.
[59] Dardanello 2019, p. 63.
[60] I crediti non riportano mai l’indicazione degli autori delle singole riprese, che dovranno però essere identificati tra quelli citati in un successivo volume della serie (Cavallari Murat 1969): Mario Carrieri, Arthur Frehmer, Schmölz-Huth (Karl Hugo Schmölz e Walde Huth), Arcade, Eugenio Salvi ovvero – per il bianco e nero – Paolo Beccaria, ancora Carrieri, Piero Chomon e Odette Perino, Pedrini, Ferruccio e Giustino Rampazzi, Mario Serra.
[61] Si vedano rispettivamente l’atlante fotografico compreso in Passanti 1990, pp. 195-228 e il corredo fotografico in Dardanello et al., 2006.
[62] Zevi [1948] 1970, pp.46-47. Analoghe perplessità vennero espresse in quello stesso periodo da Ernesto Nathan Rogers: “Fotografare l’architettura è quasi impossibile. Si possono trovare le ragioni profonde di questa difficoltà nell’essenza stessa del fenomeno architettonico che, pur realizzandosi nella precisa determinazione spaziale, non può essere inteso se non percorrendone gli eventi nella viva successione dei momenti temporali che continuamente ne mutano le relazioni con noi.” (Rogers 1955) Anche per Frank Lloyd Wright: “Se si vuole cogliere il carattere essenziale di un edificio organico non si deve ricorrere alla macchina fotografica, perché esso è integralmente fatto di esperienza. (…) La profondità sfida il piatto occhio fotografico.”, Wright 1963, p.144. A ben considerare queste osservazioni critiche appaiono piuttosto ingenue, quasi ancora fondate sulla pretesa originaria e ingenua dell’oggettività della rappresentazione fotografica, come se questa (oltre che essere convenzionale) potesse veramente coincidere con/ sovrapporsi a l’esperienza del soggetto. Analogo atteggiamento sembra di cogliere in uno studioso molto raffinato come Geoffrey Batchen quando scrive che “the photograph does not really prompt you to remember people the way you might otherwise remember them – the way they moved, the manner of their speech, the sound of their voice, that lift of the eyebrow when they made a joke, their smell, the rasp of their skin on yours, the emotions they stirred. (Can you ever really know someone from a photograph?)”, Batchen 2004 che riprendeva e sviluppava temi già affrontati in Id., 1997) e ancora in Id. 2002, pp.56-80.
[63] Battisti 1960, pp.274-275, 279, n.2. Sembrano rispondere positivamente a queste preoccupazioni le riprese in controluce realizzate da Giorgio Jano nel 1993 (Jano 2007, p. 173), che restituiscono visivamente l’impressione che “la struttura muraria [possa] dissolversi nell’effetto scenografico di un’aureola.”, Battisti 1960, p. 274.
[64] Si veda l’imbarazzante ripresa a luce artificiale dello scalone del Collegio dei Nobili realizzata dallo Studio Rampazzi (Griseri 1967, t. 118) con un confuso sovrapporsi di ombre, quasi da incubo. Ancora sotto la firma Rampazzi venne pubblicata (ivi, t. 213) la ripresa del salone della Palazzina di caccia di Stupinigi realizzata però da Augusto Pedrini nel 1924.
[65] Si deve certamente a Moncalvo la ripresa a tav. 122, realizzata per Passanti 1941, mentre sono verosimilmente opera dell’architetto le fotografie di altre opere guariniane utilizzate per Passanti 1963.
[66] Credo che l’autore della ripresa della facciata della chiesa del Corpus Domini sia da identificare con l’architetto Emilio Giay, all’epoca assistente presso l’Istituto di Caratteri distributivi degli edifici della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, con Mario Federico Roggero Direttore e Gabetti professore incaricato.
[67] Touring Club Italiano, Milano, Archivio fotografico – TCIAF, A12334, A12337, A12338.
[68] Pubblicato in Telluccini 1928, p. 86.
[69] Carlo Bossoli, Re Vittorio Emanuele II, Cavour, i ministri e la corte scendono lo scalone di Palazzo Madama dopo l’inaugurazione della V legislatura subalpina, 1853, tempera su carta, Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea; alle stesse collezioni appartiene anche il disegno di Migliara.
[70] Cfr. Telluccini 1928, t. 51; Brinckmann 1931, t.271.
[71] Si veda la lastra conservata nella FFTM, Storiche GAM 0008, ancora riutilizzata in Viale 1963, t.97.
[72] Bertelli 1984, p. 7.
[73] “It is impossible to see architecture in its full complexity at once. Architecture is made up of detail, fragments, fabrications. And the very idea behind it can be captured in a fragment, in a detail”, Hejduck 1980, traduzione di chi scrive, corsivo dell’autore.
[74] Portoghesi 1956, con interessanti fotografie dell’autore. A ulteriore conferma della sfortuna critica di certi temi, segnaliamo quanto l’autore ebbe a ricordare anni dopo: “quando, nel 1955, raccoglievo il materiale per il mio studio, avevo constatato la assoluta assenza di fotografie della cupola della S.S. Sindone da tutti i trattati dedicati alla Storia dell’Arte e dell’Architettura.”, Portoghesi 1970, p.9.
[75] Portoghesi 1966a, p. 32. Quel confronto tra visione oculare e ottica richiama il concetto di “inconscio ottico” formulato da Walter Benjamin nel 1931 e reso noto in Italia dall’edizione Einaudi del 1966.
[76] Portoghesi 1966 b, p.n.n.
[77] Da una lettera di Giorgio Stockel a chi scrive, datata 25 settembre 2006. Anche Michel Tournier 1990, p. 9 riconosceva che “con l’architettura barocca, ecco che la curva invade l’edificio. (…) Ora, notiamolo bene: la linea curva è quella del corpo vivente, e in particolare del corpo umano.”
[78] “Le immagini fotografiche così impaginate restituiscono quasi una architettura in movimento, quasi fossero la sequenza di una serie di quei colpi d’occhio che tanta parte hanno nel nostro modo di vedere gli insiemi. A ciò si accompagnava una consapevole scelta del sistema di “stampa in rotocalco quale l’unica tecnologia che a quel tempo fosse in grado di fornire dei neri pieni capaci di restituire la ‘carnosità’ e la ‘sensualità’ delle soluzioni architettoniche.”, Portoghesi 1966 b, p.n.n.
[79] Portoghesi 1967, con immagini dell’autore e di Eugenio Monti, Paolo Monti, Oscar Savio e Giorgio Stockel che mi ha ricordato come l’altro progettato volume dedicato all’architetto ticinese, con Bruno Zevi, “mai vide la luce per i tipi di Einaudi per lo scontro insanabile e mai sanato tra Zevi e Portoghesi consumato in un convegno avvenuto all’Accademia San Luca di Roma.”, vale a dire quello del 1967 dedicato proprio a Borromini.
[80] Norberg-Schulz 1971. Tra gli autori del corredo fotografico non era citato l’amico Portoghesi, cui pure si doveva la bella ripresa dell’invaso di Sant’Ivo alla Sapienza, fotografato dall’alto con i tre lobi anteriori della pianta visivamente inscritti nell’oculo della lanterna (t.152), già pubblicata in Portoghesi 1967, p.89.
[81] Goodman 1988, pp. 71-72.
[82] Citato in Bertelli 1984, p.7.
[83] Citato in Celati 1989, p.n.n.
[84] Gombrich 1985, p.246.
[85] Tafuri 1978, pp.83- 85.
[86] Citato in Cavanna 2016, p. 56. Sfumato per ragioni economiche il progetto dedicato a Gian Lorenzo Bernini, l’interesse per le opere della stagione barocca si era sostanziato in Monti prevalentemente nell’attenzione per alcune realizzazioni romane come la Fontana di Trevi e gli angeli di Ponte Sant’Angelo, nelle quali – secondo Antonio Arcari – si potevano riconoscere “le stesse motivazioni che si arricchiscono e si sostanziano con la sua attenzione per la vitalità della materia (…) e con le sue tendenze all’informale e all’astratto”, Arcari 1983.
[87] Prola, Jano, Peyrot 1988; Jano 2007.
[88] Mimmo Jodice, citato in G. Romano, Sguardi sul Piemonte: Lo sguardo dell’uomo ombra (Mimmo Jodice) in Romano 1999, pp. 17-18; dallo stesso testo sono tratte le due successive citazioni.
[89] Domenico Prola, 120 chiese del periodo barocco in Piemonte, in Prola et al. 1988, pp. 17-25 (17).
[90] Giorgio Jano, Nota sulla Fotografia, Ivi, pp. 37-38.
[91] André Corboz, Architetture zenitali, Ivi, pp. pp. 12-13, corsivo di chi scrive.
[92] Flusser 1987, p. 35.
[93] Jano 2007 p. 201.
[94] Griseri et al. 1995. Ancora in Comoli, Palmucci 2000 realizzava un Percorso per immagini (pp. 146-167), molto ordinate e “classiche” (come ebbe a dire Griseri a proposito di Augusto Pedrini), con molti dettagli e qualche zenitale per le cupole (Santa Chiara a Mondovì Piazza, p. 160; Santuario di Vicoforte, p. 163; Santa Croce e San Bernardino a Cavallermaggiore, p. 165), ma senza forzature ‘espressioniste’.
[95] Giovanni Romano, Presentazione, in Dardanello 2001, pp. 11-12 (12).
[96] Daniel 1994, pp.21-22, t. 1.
[97] Per una applicazione estensiva, rigorosa e altrettanto problematica di questa metodica di restituzione delle architetture si veda il pluridecennale lavoro di Markus Brunetti (2016), http://www.markus-brunetti.de/ (23 07 2020).
[98] Tesauro 1670, p. 166.