Vita breve di un pittore a macchina (2010)

in P. Cavanna, a cura di, Ferdinando Fino fotografo: le valli di Lanzo a colori all’inizio del Novecento. Lanzo Torinese: Società storica delle valli di Lanzo, 2010, pp. 45-62

 

“L’Esposizione fotografica indetta dalla Società Unione Escursionisti[1] ha avuto un ottimo successo”,  scriveva nel 1906 un redattore de “La Fotografia Artistica”; “Fino e Mattei riproducono scene e soggetti alpini, ricavandone dei veri quadretti.”[2] Questa citazione rappresenta l’avvio documentato delle vicende più significative della breve vita fotografica[3] di Ferdinando Fino, ma a ben guardare, e come non di rado accade, pone più questioni di quante non ne risolva. Mi riferisco qui non solo alla sua vicenda personale  quanto alla mutazione del ruolo del dilettante fotografo, categoria di cui Fino costituiva certo un esponente paradigmatico e che in quegli anni di consolidamento definitivo nell’uso delle lastre rapide alla gelatina e delle prime pellicole si stava trasformando quasi per gemmazione in due distinte figure: il raffinato amateur, erede della sofisticata tradizione ottocentesca, e il dilettante vero e proprio, il neofita che si avvicinava alla fotografia considerandola non più che un nuovo, grazioso giocattolo dagli impensati usi sociali. È certo in questa seconda accezione che va intesa la partecipazione al suo primo concorso, in anni in cui il suo interesse prevalente era rivolto al dipingere. L’iniziativa del concorso e della relativa esposizione era stata assunta dall’assemblea dell’Unione Escursionisti del 15 dicembre 1905 con un’immediata finalità pratica, quella di accrescere la collezione di fotografie dell’Unione stessa, la cui consistenza risultava inversamente proporzionale alla pratica fotografica dei soci. Per favorire la partecipazione dei “dilettanti propriamente detti” vennero esclusi i professionisti e i soci “specialisti in materia”, mentre i soggetti proposti riguardavano esplicitamente le gite sociali e in particolare i “Gruppi di Signore in gita sociale”; uno solo, il terzo, era dedicata al tema ‘artistico’  de “Il lago alpino”. I “veri quadretti” di Fino gli valsero una medaglia, ancora amorevolmente conservata dai nipoti, ma non pare che questo primo, inedito successo abbia influito su di una pratica fotografica allora certo episodica e quasi ovvia per un giovane della borghesia torinese, impiegato nell’azienda familiare di concimi e gelatine[4], con una solida formazione tecnica e un interesse non episodico per la pittura. Un vero dilettante insomma, anche prestando fede alla tassonomia semiseria proposta da G. Ferrari circa gli stessi anni: la “grande famiglia” dei fotografi  “come ogni altra dei tre regni della natura, si divide e suddivide in classi, generi, specie, gruppi ed individui (…). Le due classi principali sono: i dilettanti ed i professionisti. La prima si divide e suddivide all’infinito. Vi sono i semplici, i quali non domandano altro che di premere il bottone (…). Poi vi sono quelli che portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi (…) da collezionare. Più in su troviamo i dilettanti più diligenti, i quali sono molto stimati dai negozianti di generi fotografici. Più in su ancora troviamo gli appassionati, gl’ingegni matematici, per quali la fotografia è una risultante di varie piccole trovate (…). Da questa schiera di dilettanti escono poi i tecnici, gli industriali, i fabbricanti brevettati, gli applicatori.  Ma vi ha un altro genere di dilettanti, coloro che sentono e vedono il bello, e solo perché è tale lo riproducono sulla gelatina; essi non sono veramente artisti, ma temperamenti sensibili, intelletti accessibili all’arte. Vi sono poi i dilettanti, i quali non scelgono che quei determinati soggetti estetici che rispondono al loro temperamento (…) Costoro sono sensibili, raffinati, e si approssimano assai più all’arte. Finalmente ci sono i dilettanti artisti, i quali, seguendo un’ispirazione, compongono scene e oggetti, li dispongono in modo che la fotografia li faccia valere, e non si servono dell’obiettivo che per copiare il quadro che hanno immaginato e compiuto. Questi sono i veri artisti. Vengono quindi gli applicatori della fotografia alla scienza e all’industria (…). Infine abbiamo i professionisti, per i quali la fotografia, più che riflettere il loro temperamento, riflette il gusto del pubblico che servono (…)”[5]. Difficile dire se la sua pratica iniziale lo ponesse tra coloro che “portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi” ovvero tra “coloro che sentono e vedono il bello”. Troppo scarna per consentire un giudizio meditato la sua produzione superstite di stereoscopie monocrome, che pure già rivela in non pochi esemplari – forse più tardi – un uso virtuosistico della luce e un’attenta composizione. Nessuna stampa si è conservata per poter esprimere un parere, anche solo ipoteticamente fondato sulla qualità delle sue prime prove, ma le immagini presentate alla mostra del 1906 non dovettero essere considerate particolarmente significative se nessuna di queste entrò a far parte della ricca collezione di Agostino Ferrari, anch’egli membro dell’Unione Escursionisti, che comprendeva molte fotografie di dilettanti che frequentavano le Valli di Lanzo nei primi anni del Novecento.[6] Quando Fino partecipa e si segnala alla mostra del 1906 è quindi uno sconosciuto, che ancora non aveva trovato posto in quella mappa della pratica fotografica amatoriale costituita dall’apparato illustrativo del volume che il CAI aveva dedicato nel 1904 a questi luoghi e che conteneva tra gli altri un contributo dello zio Vincenzo.[7] Qui, accanto a nomi di noti professionisti come Edoardo Balbo Bertone di Sambuy o grandi amateur  come Mario Gabinio, Secondo Pia e Guido Rey comparivano dilettanti di rango quali Guido e Luigi Cibrario, Edoardo Garrone, Andrea Luino e altri di cui oggi risulta difficile ricostruire le tracce dell’attività fotografica, ma la cui presenza conferma il precoce commento di Carlo Ratti: “Pittori e fotografi molte di queste bellezze han già riprodotto  [mentre] brigate di alpinisti e di escursionisti percorrono in ogni stagione dell’anno quei pittoreschi monti che in breve spazio racchiudono tanta varietà di bellezze da compendiare tutto il sublime delle Alpi.”[8]  Difficile dire a quali nomi di fotografi potesse pensare Ratti, poiché il repertorio sinora più completo relativo all’iconografia fotografica delle Valli di Lanzo[9] segnala per gli anni Ottanta del XIX secolo solo pochi operatori locali (O. Bignami, Gayda e Bersanino) mentre prevalgono quelli attivi a Torino (Fotografia Roma, Ippolito Leonardi, Giuseppe Marinoni, Gaetano Songi) e si segnala la presenza del biellese Giuseppe Varale. A questi pochi altri possono aggiungersi, quali Cesare della Matta, forse un amateur, attivo a Ceres intorno al 1860, e  Pietro Bruneri, o Brunero, professionista con sede a Torino che aprì una succursale a Mezzenile dopo il 1870. Alcune sue immagini relative alle Valli di Lanzo erano comprese nell’album che il Club Alpino Italiano presentò alla Mostra Nazionale Alpina del 1884, a cui presero parte con immagini di analogo tema anche il dilettante Paolo Palestrino e Francesco Casanova, libraio, editore e valente fotografo, mentre nel giugno del 1887 il musicista Leone Sinigaglia riportava “a Torino più di 50 fotografie prese in questi bei giorni nei dintorni di Balme” e altre ne realizzò l’anno successivo per presentarle sotto il titolo di Villaggi e montagne della Val d’Ala alla Esposizione Fotografica Alpina che il CAI organizzò nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti nel 1893.[10]

Il nome di Ferdinando Fino va ora ad aggiungersi alla schiera ben più ampia dei fotografi che frequentarono le Valli nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo, quando la realizzazione del nuovo tronco ferroviario sino a Lanzo[11] diede nuovo impulso alla già consolidata frequentazione turistica dei luoghi da parte della borghesia e della nobiltà  torinesi, aprendosi più comodamente anche ai viaggiatori stranieri, come Samuel Butler, che descrisse in un breve efficacissimo passo la sua esperienza: “da Torino andai a Lanzo da solo, con un viaggio in ferrovia (…) di un’ora e mezza circa. (…) [A Lanzo] Vicino alla scuola c’è un campo, sul pendio del colle, da cui si domina la pianura. C’era una donna che falciava e per dire qualcosa di cordiale osservai che il panorama era bellissimo. «Sì – rispose – si possono vedere tutti i treni».”[12]  Era la modernità della macchina, a vapore non meno che fotografica, che apriva le Valli allo sguardo degli altri; che portava l’immagine dei luoghi oltre i confini della Stura, specialmente grazie alla fotografia amatoriale dei villeggianti e dei più occasionali escursionisti, che per compilare i loro appunti di viaggio non di rado ricorrevano alla stereoscopia,[13] la più diffusa forma spettacolare per immagini antecedente alla nascita ed al primo sviluppo del cinema. Era l’avvento dell’istantanea, favorita dall’accoppiamento tra le nuove emulsioni rapide alla gelatina e il piccolo formato delle lastre, che consentiva ridottissimi tempi di posa offrendo la possibilità di rivivere poi, nella quiete ovattata del salotto di casa, le piccole emozioni e gli incontri con realtà vicine e tanto distanti dal quotidiano scenario urbano, a cui la visione tridimensionale restituiva un affascinante rilievo, emotivo non meno che spaziale. Osservando le  superstiti stereoscopie di Fino emerge chiaro anche in lui il piacere della notazione aneddotica, tra costume e memorie familiari; la loro funzione principale era diaristica, per nulla espressiva, come se a questa fotografia (senza e prima del colore) non fosse concesso altro statuto che quello della testimonianza, cui corrispondevano però una maggiore libertà di ripresa e meno preoccupazioni compositive. Non considerando le consuete, inevitabili riprese di soggetto familiare, analoghe a quelle che negli stessi anni andavano a riempire centinaia di album, tra loro simili e quasi indistinguibili se non per i diretti interessati, e solo per l’arco breve di poche generazioni a venire, le sue immagini di genere sono assimilabili alle Scene di vita e di lavoro che tanto successo avevano nei periodici amatoriali dei primi anni del secolo. Ne “Il Progresso Fotografico”, in particolare, dove vennero pubblicate sotto questo comune  titolo fotografie di autori tra loro diversissimi quali Wilhelm Von Gloeden e Andrea Tarchetti[14], lontane nella loro impostazione bozzettistica dall’attenzione propriamente etnografica che autori come Vittorio Sella e Domenico Vallino dedicavano alle valli biellesi e valdostane[15].  L’attenzione di Fino non era sistematica, non lascia intuire un progetto documentario, ma non si applicava neppure alla descrizione di eventi eccezionali, destinati a nutrire l’immaginario piuttosto che a coltivare il ricordo. Le sue sono sì cronache, ma familiari, dove l’attenzione si esercita sui piccoli fatti non memorabili, su occasioni quasi quotidiane, destinate a trasformare ogni più minuto evento in piccolo spettacolo salottiero piuttosto che a offrire alle generazioni prossime le memorie visive della propria famiglia. Erano, queste fotografie, un’altra forma di affabulazione, dove lo spiccato effetto di realtà della visione stereoscopica, il realismo sorprendente della loro tridimensionalità virtuale offriva una vividezza più prossima alla trasmissione orale del racconto che all’ufficialità dei ritratti di studio. Obbedivano a una logica inversa alla sintesi propria dell’immagine simbolica, dell’icona in grado di racchiudere in sé l’essenza della persona. O dell’evento. Questa intenzione, occasionale e privata, ben corrispondeva allo spirito del concorso del 1906 in cui per la prima volta si era segnalato. E al silenzio successivo.

Il nome di Fino non compare infatti fra gli iscritti al Club d’Arte, fondato a Torino nello stesso anno,  che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi, ma neppure nelle diverse esposizioni promosse negli anni successivi da “La Fotografia Artistica” (1907[16]) o dalla Società Fotografica Subalpina (1907, 1908), dal Photo-Club (1909, con una piccola sezione dedicata alle autocromie), dal Circolo Principe Eugenio e simili. In assenza di qualsivoglia documentazione, nulla ci è dato sapere delle ragioni che lo tennero lontano dalla vita fotografica dopo una prima occasione certo non insoddisfacente. Possiamo solo prenderne atto; segnalare il momento della ripresa, subito di notevole rilievo: per le sue autocromie stereoscopiche Ferdinando Fino venne premiato con Medaglia d’argento della Società Artistica e Patriottica[17] nell’ambito del Concorso nazionale di Fotografia collegato all’Esposizione Nazionale d’Arte e d’Industria Fotografica di Milano.  “Nelle prove a colori  (autocromie) chi si è fatto grande onore è Ferdinando Fino di Torino con venti stereoscopie autocromiche 6×13 che potevano dirsi d’effetto meraviglioso”[18],  commentava in quell’occasione il redattore de “Il Progresso Fotografico”, in una recensione insolitamente molto critica nei confronti del livello medio delle opere in mostra, nella quale ad esempio  non era riservata più che una citazione per Luigi Pellerano, certo allora il nome più noto tra gli autocromisti italiani e di lì a poco autore di un fondamentale testo in materia[19], il quale a proposito della stessa mostra affermava che “Coloro che hanno osservato allo stereoscopio delle autocromie come quelle del Signor Fino all’Esposizione di Milano di quest’anno non hanno potuto impedirsi di gridare «Ma è la verità assoluta!».”[20] Nella sua nuova stagione fotografica Fino confermava l’uso della stereoscopia, ma si misurava con la novità dirompente, assoluta, oggi incommensurabile del colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel (Gabriel Lippman, 1908). La nuova tecnica dell’autocromia[21], che forniva la prima soluzione praticabile su larga scala al problema della fotografia a colori, doveva rappresentare per Fino non tanto una curiosa novità tecnologica quanto il riconoscimento della possibilità di esprimersi al meglio proprio attraverso l’uso della gamma cromatica,  trait d’union con la sua passione di pittore dilettante e con gli amici pittori [22].  Con l’utilizzo del colore il riferimento non poteva che essere costituito dall’universo culturale e dal patrimonio iconografico della Pittura, non solo pieno di suggestioni per definizione nobili, ma che gli era già prossimo per le sue passioni personali e, forse, per le sue frequentazioni. È qui, in questo ambito e in questa pratica che Fino riconobbe e si concesse quelle possibilità di espressione che sembravano assenti e certo meno urgenti nella produzione in bianco e nero. Come per molti amateur suoi contemporanei l’intenzione fotografica era non solo molteplice, ma distinta e quasi separata:  una vera e propria ‘distanza’ tra ambiti solo apparentemente contigui.

La prima presentazione del procedimento autocromico era stata fatta nel 1904 dai Fratelli Lumière nel corso della XII sessione dell’Unione Internazionale di Fotografia[23], cui fece seguito una ben orchestrata campagna pubblicitaria internazionale, che coinvolse le più influenti testate, i maggiori notisti di fotografia e gli stessi inventori in prima persona[24]. Se ancora nel giugno 1905 un critico come Léon Vidal parlava in modo misterioso dei primi risultati, annunciando di essere “alla vigilia del più notevole dei progressi compiuti dalla fotografia”[25], già in luglio sulle pagine dello stesso periodico[26] Armando Gandolfi avrebbe citato il nome degli inventori e spiegato il procedimento nei suoi dettagli, mentre nel 1907, anno della sua commercializzazione, la presentazione italiana del nuovo processo, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica promossa da “La Fotografia Artistica”, venne affidata all’ingegner Ernesto Mancini, Segretario dell’Accademia dei Lincei, con una conferenza dedicata a La photographie aux plaques autochromes des Frerés Lumière, poi pubblicata integralmente.[27] La nuova tecnologia, e il nuovo prodotto, suscitarono immediatamente grandissimo interesse e attenzione da parte della stampa più qualificata: oltre al già citato “La Fotografia Artistica”, anche il prestigioso periodico inglese “The Studio”, ad esempio, dedicò nell’estate del 1908 un numero speciale alla fotografia a colori, di fatto incentrato tutto sulla novità delle autocromie, con immagini tra gli altri, di J. Craig Annan, Alvin Langdon Coburn, Baron A. De Meyer, Franck Eugene, Heinrich Kühn e George Bernard Shaw.[28]  L’elemento di attrazione era costituito non solo dal fascino divisionista (e quindi eminentemente moderno, in quegli anni) della grana colorata di queste immagini, ma anche e soprattutto dalle possibilità offerte di affrontare con strumenti linguistici nuovi il tema del  paesaggio con cui la fotografia artistica si era a lungo misurata e che continuava ad essere considerato centrale anche nei primi decenni del Novecento. Per queste ragioni si sviluppava e si definiva progressivamente,  attraverso numerosi contributi, una precisa estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico col pittorialismo, ora  si misurava e provava a  fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche, espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico. Così nella prefazione al già citato Colour Photography, 1908, contro la tendenza quasi ovvia di instaurare un confronto con la pittura, il curatore riteneva che fosse “del massimo interesse per la fotografia di essere considerata di per sé, e che qualsiasi successo artistico potesse essere raggiunto sarebbe stato giudicato più opportunamente per i propri meriti piuttosto che secondo gli standard stabiliti dal pittore o dall’incisore. I tentativi di riprodurre gli effetti ottenuti da questi artisti sono in sé stessi opposti allo spirito della vera fotografia, e mostrano una mancanza di apprezzamento delle possibilità dell’apparecchio fotografico, e delle possibilità che offre per il raggiungimento di effetti originali”. [29] Gli faceva eco nello stesso anno Edoardo Bertone di Sambuy sollecitando i fotografi autocromisti a “arrivare a formare un solo essere col proprio apparecchio. Bisogna che il nostro occhio, nell’osservare il soggetto, lo possa vedere così come sarà riprodotto sulla lastra autocroma”[30], aprendo così la strada a una concezione puramente fotografica, al pensare fotograficamente non il soggetto ma il soggetto fotografato. Più in particolare ciò che veniva immediatamente riconosciuto e apprezzato, ma anche sentito come vincolo, era l’assoluta esattezza di queste immagini, “fedeli alla natura più di quanto la Natura sia fedele a sé stessa, così implacabilmente precise da costituire in effetti un’alterazione”, imponendo al critico di “scoprire quale modalità di struttura estetica fosse possibile erigere su questa base.”[31] Ciò era particolarmente urgente proprio per la fotografia di paesaggio, nella quale la distanza tra l’osservazione dal vero (dove la purezza dei singoli colori è mediata dalla percezione) e la visione dell’autocromia (dove i colori sono registrati distintamente, sulla base delle loro specifiche caratteristiche fisiche) era maggiore e quasi incolmabile, tanto da “provocare un acuto senso di shock (…) poiché non vi è nulla di più fragile della bellezza di un colore.”  In anni in cui la battaglia pittorialista aveva fatto coincidere le possibilità artistiche della fotografia con le manipolazioni operate dall’autore, questa impossibilità d’intervento era vista come un limite insormontabile, arrivando a dire che “la strada della tecnica resta preclusa al fotografo autocromista per raggiungere l’Arte, poiché, per le caratteristiche stesse del processo, viene automaticamente escluso da ogni possibile intervento, da ogni eventuale manipolazione, perdendo di fatto la propria libertà, il proprio arbitrio, così che anche l’intervento  una delle altre due strade con cui il fotografo può sperare di raggiungere la vetta della Collina Sacra risulta rigidamente sbarrata”.[32]  Restava – secondo Dixon Scott – solo quella forma di artisticità fotografica, di espressione del temperamento che definiva “creazione per isolamento”, corrispondente cioè alla scelta del soggetto e soprattutto al taglio operato dall’inquadratura. In questa poetica del frammento risiedevano le possibilità estetiche dell’autocromia, così come la fotografia di genere, il ritratto e la natura morta erano ritenuti i soli ambiti espressivi in cui il fotografo, nel chiuso del proprio studio, poteva ritornare a essere il deus ex machina, lasciando all’apparecchio il solo compito di registrare la scena accuratamente composta e cromaticamente accordata. Analoghi limiti nella resa del colore e, in apparente contraddizione, di immodificabile precisione erano individuati anche dal critico Robert de la Sizeranne[33], ma puntualmente contestati da un noto autocromista come Antonin Personnaz, che rifiutando le distinzioni tra soggetti e generi diversi individuava le possibilità espressive del fotografo nel momento della scelta del motivo e della sua restituzione sulla lastra, prestando particolare attenzione alla scelta degli obiettivi e all’illuminazione del soggetto, imparando dai grandi maestri ad utilizzare i più opportuni accostamenti cromatici: “Corot gli mostrerà che la sola cuffia rossa di una contadina basta a esaltare il verde di un paesaggio.” [34] Il colto richiamo pittorico di questo compagno di strada degli impressionisti forse non sfuggì a Fino, che popolava le sue autocromie di analoghe soluzioni, ma questa pratica di armonizzazione preventiva del soggetto doveva costituire la regola per chi si misurava con quelle prime immagini a colori: “L’autocromista paesista – consigliava Pellerano nel suo manuale – nella macchina, con le lastre, ha dei fazzoletti di seta e di cotone, berretti da contadini, sciarpe, veli rossi, verdi, violetti, d’ogni tono e d’ogni colore. (…) Questo bazar ambulante, come si può pensare, serve a compensare quel che talvolta la natura non dà, a dipingere la stessa natura con cose colorate e magari con lo stesso pennello, imbellettato all’occorrenza, ma sempre con perfetta maestria d’arte. (…) Egli metterà un rosso (un fazzoletto al collo, in testa a una contadina, un velo) dove gli piace; là un giallo pallido (distendendo magari delle stoffe) oppure un tendaggio damascato.”[35]

Quasi una sintesi descrittiva della produzione di Fino, per come è testimoniata dalle autocromie che qui presentiamo e suggerita dai titoli di quelle offerte ai suoi corrispondenti. Dopo il buon risultato ottenuto all’esposizione milanese del 1909 non pare abbia preso parte ad altre occasioni espositive sino al 1911, quando nell’ambito delle celebrazioni per il cinquantenario della proclamazione del Regno d’Italia si tenne a Torino l’Esposizione internazionale delle industrie e del lavoro, che comprendeva anche un Concorso Internazionale di Fotografia.[36]  Tra le “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti” [37] nel Palazzo delle Feste, si segnalavano ancora una volta le autocromie stereoscopiche di Fino, “ottime sia come scelta di soggetti che come freschezza di colore (…), fra cui ricordiamo specialmente. La ‘Rosa delle Alpi’, la ‘Pineta’, ‘Sulle Alpi Graie’, ‘Prato alpino’, ‘Alba grigia’.”[38] La partecipazione e il successo ottenuto consentirono a Fino anche di avviare una proficua serie di rapporti professionali, documentata dall’unico suo copialettere fortunosamente superstite[39], che puntualmente li registra almeno per gli anni dal 1912 al 1916, lasciando però intuire rapporti antecedenti.[40] Questa fonte risulta particolarmente interessante per quanto ci consente di comprendere, se non delle sue intenzioni artistiche, almeno del suo modo di operare; di questa passione cui riusciva a dedicare solo “le domeniche libere” per “aggiornare il mio lavoro per poterle mandare delle fotografie di montagna, con grande dovizia di neve.”[41] E ancora: “In febbraio marzo aprile andai otto volte in montagna e su otto, sette domeniche presi neve, tramontana, senza poter far nulla (…) mentre una volta sola fui fortunato e potei prendere qualche veduta. Da domenica a ieri (giovedì) andai nei dintorni di Rapallo per prendere vedute di mare. Devo ancora svilupparle, però il mare mosso e il vento sugli alberi mi furono contrari[42] e non so a cosa avrò approdato nei miei tentativi. Appena avrò una piccola collezione (spero fra una ventina di giorni) glie la spedirò, e lei sceglierà. Intanto viene giugno e allora sono certo di poter preparare e ripetere quelle che avevo all’Esposizione per mandargliele.  Creda però che non potendo trar copie dalle fotografie a colori[43], per quanto il prezzo di £. 20 possa parer caro, alla fine di tutti i conti, le spese e le fatiche, non sono compensate dal guadagno materiale. Utile certo per me è quello di soddisfare con minor spesa alle mie aspirazioni di far passeggiate, di gustare le meraviglie della natura, ammirandole e procurandomene qualche ricordo fotografico quando la fortuna mi permette di prendere due volte la stessa veduta. (…) Noti poi che, quando le lastre sono nei telai, e che per due tre settimane non sono usate (come successe a me nel cattivo tempo) devono essere buttate via perché diventano inservibili.”[44] Il procurarsi “qualche ricordo fotografico” delle “meraviglie della natura” risulta quindi il solo scopo dichiarato della sua pratica fotografica, nulla più che “un’arte di diletto (…) il vaso di umili fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini”[45], sebbene non trascurasse l’occasione di ottenere un qualche piccolo introito, sempre meno occasionale e benvenuto “tanto più che, colle prospettive poco rosee che la nostra industria mi riserva, qualche po’ di guadagno extra non mi riesce certo inopportuno.”[46] Non fosse che per questo Fino si impegnava con Italo Carboni, certo il suo committente più importante, proponendo vere e proprie campagne documentarie per soddisfare richieste che andavano ben oltre la produzione ‘artistica’ presentata all’Esposizione del 1911. “Qui in Piemonte abbiamo qualche bella chiesa di puro stile del 1000 – e del 1500, come l’Abbazia di Vezzolano presso Albugnano d’Asti – o la chiesa di Sant’Antonio di Ranverso in Val di Susa presso Avigliana; degni di fotografia sono pure tutti i castelli della Valle d’Aosta, pei quali gli sfondi di Alpi con neve non mancano di rendere attrattivissime le vedute. Ma la Val d’Aosta è così mal servita da treni ferroviari, che dovrei aspettare che le strade diventassero buone” gli scriveva nel febbraio del 1912[47], e certo la proposta dovette essere accolta, avviando una serie di commesse di cui allo stato attuale delle nostre conoscenze non siamo in grado di comprendere le ragioni, restando indefinita la figura e l’attività del committente.[48] La richiesta più impegnativa riguardava gli ambienti del Palazzo Reale di Torino, per i quali era necessario superare difficoltà di ordine burocratico quanto tecnologico: occorsero infatti ben nove mesi per ottenere l’autorizzazione dell’ Amministrazione della Real Casa,  ma “finalmente – nel giugno 1913 –  dopo mille rigiri per avere il permesso di fotografare la camera di Re Umberto questo mi fu negato, come a tutti è negato, potrei però eseguire quelle dello scalone, salone degli svizzeri, sala da ballo, pranzo ecc. per le quali ebbi il permesso.”[49] La realizzazione si presentò poi tanto difficoltosa quanto scarsamente remunerativa: “in omaggio alla deferenza che Ella ebbe sempre per me, scriveva a Carboni nell’agosto del 1913[50] – ho mantenuto il prezzo di £ 20 caduna, quantunque, specialmente per gli interni del Palazzo Reale, io finisca per rimetterci, essendoché per ogni veduta, come già le accennai, dovetti farne tre per la RR. Casa, e per avere una veduta buona, senza macchie, graffiature ecc, dovetti farne diecine per ogni soggetto! In compenso, tanto più che i risultati per la maggior parte d’esse sono eccellenti, mi fido perfettamente della di Lei correttezza, ed oso sperare non me ne rifiuterà alcuna del Palazzo Reale onde compensarmi in parte di un mese di lavoro! Noti che in quegli interni ho dovuto dare pose di 1-2 e più ore[51], ed il pubblico che visitava, passando, non di rado mi rovinò l’opera mia! (…) Dimenticavo di dirle che per la disposizione infelice della luce e per l’ampiezza dell’angolo visuale che le attuali macchine fotogr[afiche] stereoscopiche non possono abbracciare, o [sic] dovuto scartare lo scalone d’onore ed il Salone degli Svizzeri, viceversa mi sono barcamenato in modo da darle una collezione dei punti migliori e decentemente fotografabili a colori del ns. Palazzo Reale.” Il committente, che pare conoscesse piuttosto bene le stesse Valli di Lanzo,  non dovette però ritenersi soddisfatto: “Quanto al Salone degli Svizzeri ed allo Scalone d’onore, ritenterò la prova – gli comunicava Fino una settimana più tardi – tanto per dimostrarle che cerco di contentarla, ma siccome mi sarebbe passiva la fattura di 4 lastre per qualità, come mi fu passiva per le 10 mandatele, userò l’astuzia di dire all’Amministraz.  della R.C. che non mi sono riuscite, e così farò a meno di ripetere pose di 3-4 ore! (…) La veduta N.15 (se non erro dove sul sentiero è ferma una donna colla gerla) è realmente la perinera, ed il campanile non ha nulla a che vedere con quello della Cappella di Benot, al quale assomiglia però, data la comunanza del tipo architettonico contemporaneo delle chiese delle vallate di Lanzo. Per l’interno della cappella, credo che non ci sia interesse, ad ogni modo se sarà fotografabile e degna di nota, ad una mia eventuale gita colà lo tenterò per lei.”[52] Negli anni immediatamente successivi all’ Esposizione del 1911 le occasioni di lavoro fotografico sembrano moltiplicarsi, nei più diversi settori: dalla documentazione d’arte, con la riproduzione di dipinti di Vittorio Avondo su richiesta di Emanuele Celanza[53], alla realizzazione di alcuni interessanti studi di nudo, forse realizzati su richiesta di Alfredo Canova, residente a Lima ma conosciuto a Torino proprio nel 1911[54]. Il tema non era certo inconsueto neppure per la fotografia, che sin dai primi dagherrotipi aveva offerto un’ampia produzione di nudi, specialmente femminili, in una gamma estesa di trattamenti che andava dallo ‘studio artistico’ all’immagine licenziosa o esplicitamente pornografica, affidandosi non di rado all’iperrealismo della resa stereoscopica per ottenere un di più di sollecitazione sensoriale, certo accentuato dal vincolo di una visione che non poteva che essere individuale ed esclusiva: privata. Questo sembra essere stato l’ambito di maggior diffusione, la destinazione privilegiata, tanto che il tema scorre quasi sotterraneo e certo non risulta essere stato tra quelli qualificanti delle prime ricerche, esplicitamente artistiche, come quelle poste in essere dai fotografi pittorialisti, nel cui ambito sono rari gli autori che lo hanno affrontato sistematicamente. Nessun nudo venne presentato alla grande Esposizione internazionale di Fotografia Artistica che si svolse a Torino nel 1902; nessun nudo integrale comparve mai sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, a riconferma di uno scarso interesse degli autori italiani per il tema, ma anche la più autorevole “Camera Work” ospitò quasi solo i corpi simbolisti, immersi nella natura di Anne W. Brigman. Non era quindi alla cultura fotografica che Fino poteva guardare per concepire le proprie immagini, ma all’iconografia pittorica, specialmente accademica, sebbene alla predilezione di molti per Ingres quale modello[55] egli doveva preferire Delacroix (Linda, I), o per meglio dire le fotografie che Eugène Durieux aveva realizzato sotto l’attenta regia del pittore circa mezzo secolo prima[56]. Riferimento fotografico difficile da ipotizzare con verosimiglianza, quasi impossibile. Più criticamente plausibile una mediazione iconica, per la relativa buona circolazione dei modelli sotto forma di riproduzioni con diverse tecniche, non ultima proprio quella fotografica, e per le relazioni forti con l’ambiente artistico torinese di cui costituiscono più che un indizio alcune immagini e alcuni documenti. Michelina (modella nello studio del comm. Grosso), dichiara sin dal titolo il luogo della sua realizzazione e si presenta come un’interpretazione fotografica del notissimo dipinto del 1896, mentre (Linda, II), si ispira a sua volta a una delle tante varianti realizzate dal pittore dopo lo scalpore e il successo de La nuda[57]. Ribaltando una consuetudine propria di tutto il XIX secolo e oltre, Fino non realizzava fotografie per i pittori, ma ne utilizzava le risorse (studi, modelle, opere) per scopi personali. Qui l’atelier  non è neppure più pretesto per mostrare il corpo nudo, è semplice scenografia, ambientazione tra le tante possibili, facilmente sostituibile da quei “tendaggi damascati” che suggeriva il manuale di Pellerano o addirittura da un contesto ambientale quasi domestico, sebbene ingombro di piccoli quadri, tenuto in ombra e un poco fuori fuoco come nel bel Busto di giovinetta, certo il meno convenzionale, il più moderno dei suoi nudi, dei quali merita però sottolineare come fossero, tutti, esercizi di grande virtuosismo tecnico, per le lunghissime pose necessarie per le riprese in interni, rispetto alle quali certo risultava fondamentale la capacità professionale delle modelle coinvolte, sebbene non dovesse essere questa qualità ad attrarre i suoi possibili acquirenti.

Il rapporto diretto con alcuni esponenti del mondo artistico piemontese, tra Accademia Albertina e soggiorni a Viù, favorito forse anche da alcuni legami parentali, dalla sua primaria passione per la pratica pittorica, testimoniato da queste immagini e da alcune lettere[58], è confermato proprio dalle fotografie a colori di Ferdinando Fino, che nella scelte compositive e di trattamento dei soggetti mostrano una consuetudine con il paesismo piemontese e con certa pittura coeva che si traduce immediatamente in adesione stilistica, tradotta nelle nuove forme espressive consentite e – di più – suggerite dalle particolarità tecniche dell’autocromia. “Non si può immaginare, se non si osserva, l’effetto eminentemente suggestivo che danno le autocromie stereoscopiche – scriveva Rodolfo Namias[59] – Congiungere colori naturali e brillanti coll’effetto di rilievo e di forma costituisce per l’occhio un godimento che niente può superare.” La pubblicazione di queste immagini, così come la loro esposizione sotto forma di stampa a immagine singola, certo priva l’osservatore odierno di questa affascinante esperienza, rendendo meno evidenti le intenzioni del fotografo, poiché la visione monoculare conserva certo gli elementi cromatici e la struttura compositiva, ma annulla  quell’effetto di profondità spaziale che ne costituiva il tratto distintivo, e a cui Fino prestava particolare attenzione specialmente nelle riprese di paesaggio, in cui questa era risolta non solo mediante la scelta di un opportuno punto di vista, che consentisse una graduale distribuzione dei volumi o sottolineando opportunamente il punto di fuga (si noti l’alberello posto al centro di Paesaggio), ma anche giocando sulle diverse luminosità della scena, collocando le ombre più profonde in primo piano (Alba sul Monte Civrari). Luce e colore, un colore iperrealistico e vivo nella mutevole osservazione per trasparenza[60], erano il vero tema di molte riprese, giocate sulla variazione quasi monocromatica: dalla penombra fredda, quasi vespertina del sottobosco (Lo stagno), argomento di diverse riprese, una delle quali (Poesia autunnale) facilmente accostabile a Nel bosco, di Petiti[61], datato 1914,  alla saturazione piena dei rossi aranciati (Nel regno dei larici) e dei verdi (Mulattiera presso Usseglio?), alle infinite combinazioni intermedie (Bosco in collina, Alberi in autunno). L’ambiente è alpino, quasi sempre, o campestre: non gli interessava la città né la vita che vi si svolgeva. Anche le sue figure sono ambientate tra prati e boschi. Alcune non sono nulla più che versioni a colori delle consuete immagini escursionistiche (Borgata Porcili presso LemieViù: Versino), ma la maggior parte di quelle rimaste mostra con quanta sensibile attenzione Fino guardasse alla produzione piemontese di derivazione fontanesiana, senza per questo escludere suggestioni diverse e di differente ispirazione, sino a produrre quasi un repertorio fotografico di soluzioni pittoriche nelle quali la figura gioca un ruolo importante, pur senza essere fondamentale. Sono scene di genere, con pastorelle e valligiane che paiono attendere ai loro lavori, ma non si tratta di istantanee. Nulla di più estraneo all’operare di Fino di ogni intenzione etnografica. Non gli apparteneva la volontà di superare “i prodotti del pennello in fedeltà e verità nel ricordarci la vita vissuta, palpitante di movimento, producendo una freschezza di impressioni che difficilmente sono a portata della paletta” [62]. Le sue scelte erano frutto del convergere di due intenzioni: la volontà di produrre immagini di valore artistico e la necessità di  “trovare i tipi che realmente posino con arte e naturalezza: ma in campagna si troveranno sempre, e sono i contadini, mentre non è facile trovare negli abitanti della città espressioni tanto naturali.”[63]  Quando neppure i villici soccorrevano alla bisogna, poteva essere la moglie a prestarsi come modella per arricchire una scena agreste (Sull’altipiano di Benot, la figura a sinistra) o realizzare efficaci composizioni sul tema della figura nel paesaggio (Meditando; Alla sorgente), accordate cromaticamente nello scrupoloso rispetto dei canoni espressi dalla pubblicistica coeva, senza mai far mancare quella cuffia rossa che sembra essere stata il marchio distintivo di quel sereno mondo color pastello raccontato dalle autocromie amatoriali. Quello che la Grande guerra si sarebbe premurata, di lì a poco, di cancellare.

 

 

Note

 

[1] L’Unione Escursionisti Torinesi (U.E.T.) venne fondata nel settembre del 1892 per iniziativa di Silvestro Fiori e Luigi Ardizzoia, allo scopo di “curare lo sviluppo dell’amore per l’escursionismo; promuovere, organizzare e dirigere comitive per gite in montagna ed in pianura alla visita dei luoghi che presentano maggiore interesse per attraenza di bellezze naturali e per ricordi storici od artistici; incoraggiare ed aiutare gli studiosi alle ricerche istruttive.”, cfr.  “L’Escursionista”, 4 (1902), n.8, 7 agosto, p.4. Erano soci negli anni immediatamente successivi alla fondazione architetti come Mario Ceradini, Gottardo Gussoni e Cesare Bertea, studiosi come Ercole Bonardi ed Edoardo Barraja, l’avvocato Carlo Reynaudi, autore ed editore di una fortunata serie di Guide turistiche, fotografi come Emanuele Elia Treves (collaboratore della “Gazzetta del Popolo”, tra i fondatori della Società Fotografica Subalpina), Mario Gabinio, Giancarlo Dall’Armi, lo scultore Tancredi Pozzi, gli  editori  Francesco Casanova e Simone Lattes. L’attività dell’associazione era sostenuta da altre collaborazioni prestigiose come quella di Riccardo Brayda, dal 1898 fino alla morte, di Giovanni Vacchetta e di Federico Sacco, ma la rete di relazioni intessuta tra i diversi gruppi a livello regionale è tale che scorrendo le pagine del  “L’Escursionista” si  incontrano altri nomi di esponenti di spicco della cultura e della fotografia piemontesi come Francesco Negri e Pietro Masoero.

[2] A.T., Notizie fotografiche, in “La Fotografia Artistica”, 3 (1906), n. 12, dicembre, p. 204. Ricordo che l’Unione Escursionisti aveva partecipato anche all’Esposizione di Fotografia di Torino del marzo 1900. In quell’occasione  “La Valle di Viù fu illustrata assai bene da Federico Filippi, il quale lascia molto bene sperare di sé per le sue vedute in formato 9×12.”, Ugolino Fadilla, L’Esposizione fotografica a Torino,  “Gazzetta di Torino”, 5 marzo 1900, p.4. La mostra del 1906 ebbe tra i propri organizzatori Mario Gabinio, di cui era già relativamente noto il lavoro dedicato alle Valli di Lanzo, ma non paiono esservi state relazioni dirette o di amicizia tra i due: tra le 475 stampe originali  e le decine di lastre di sessanta autori diversi comprese nel Fondo Gabinio della Fondazione Torino Musei non compaiono immagini  di Fino, cfr. Mario Gabinio. Valli Piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, 2000), a cura di P. Cavanna. Torino: Edizioni GAM Galleria Civica d’Arte Moderna, 2000.

[3] Non solo per i limiti geografici stabiliti da questo progetto dedicato alle Valli di Lanzo, è bene avvertire che lo studio della sua figura di fotografo, e della sua produzione, è inevitabilmente condotto su quanto di lui si conosce allo stato attuale, cioè sulle immagini superstiti: non più di un migliaio di fototipi tra lastre monocrome e autocromie, tutte stereoscopiche, ma nessuna stampa. Questo patrimonio consente certo di valutare opportunamente la sua produzione in bianco e nero, meno le più interessanti autocromie che – come dimostra il copialettere – venivano regolarmente vendute almeno a partire dai mesi successivi all’Esposizione del 1911 e sono quindi disperse (semmai superstiti) in archivi di famiglia italiani e stranieri, in fondi non ancora indagati di pittori torinesi, e delle quali ci restano soltanto – in non pochi casi – i titoli originali.

[4] Non è questa la sede per ripercorrere le vicende della storia della fotografia in Piemonte nel XIX secolo, ma credo sia utile richiamarne alcuni caratteri salienti, in particolare la pratica amatoriale svolta ad altissimo livello e sovente con esiti pionieristici.  Si pensi ad esempio ai numerosi rappresentanti della borghesia imprenditoriale come Giuseppe Venanzio Sella, Emilio Gallo o Cesare Schiaparelli, nei quali si associavano competenze tecnologiche e imprenditoriali, tanto da poter quasi dire di una fotografia dell’età industriale, dove industriale è per la prima volta la produzione e quasi solo industriali (sebbene per poco) furono molti dei suoi cultori. A questi si aggiunsero i rappresentanti delle professioni: i medici, i farmacisti (ritorna, ancora, inevitabilmente la dimestichezza con la chimica), gli ingegneri ma soprattutto gli avvocati, come Secondo Pia. Tra questi va ricordato, di poco più giovane di Fino, almeno Domenico Riccardo Peretti Griva (Coassolo 1882 – Torino 1962) che fu uno dei dilettanti appartenenti alla storica Scuola Piemontese di Fotografia Artistica (così denominata da Schiaparelli), che insieme ad Achille Bologna, Stefano Bricarelli, Carlo Baravalle, Mario Gabinio  Cesare Giulio, Italo Bertoglio e pochi altri segnarono la modernità della fotografia italiana tra le due guerre mondiali.

[5] G[uglielmo] Ferrari, Esposizione fotografica. La fotografia artistica, in “La Stampa”, 34 (1900), n. 67, 8 marzo, p. 3.

[6] Agostino Ferrari, Catalogue de Photographies de la Châine des Alpes, des Appennins, des Pyrenées, du Caucase, de l’Himalaya, etc., 1902 e 1902-1907, dattiloscritto, Torino, Museo nazionale della Montagna, Centro di Documentazione. A conferma di questo dato ricordiamo che nessuna immagine di Fino venne utilizzata dallo stesso Ferrari per il volume La Valle di Viù. Torino: Lattes, 1912.

[7] Vincenzo Fino, Notizie mineralogiche sulle Valli di Lanzo, in Club Alpino Italiano, sezione di Torino, Le valli di Lanzo: Alpi Graie. Torino: G. B. Paravia e C., 1904, pp. 491-507. Per la preparazione della monografia il CAI aveva indetto un concorso fotografico e una successiva mostra alla quale avevano preso parte tredici autori con ben seicento fotografie.

[8]Carlo Ratti, Da Torino a Lanzo e per le Valli della Stura. Torino: F. Casanova, 1883, pp. 6-7. Nonostante il richiamo all’attività dei fotografi, il volume è però illustrato da sole riproduzioni di disegni.

[9] Aldo Audisio, Bruno Guglielmotto Ravet,  Valli di Lanzo ritrovate fra Ottocento e Novecento: 1860-1930.  Ivrea: Priuli & Verlucca, 1981.

[10] Cfr. Giuseppe Garimoldi, Alle origini dell’alpinismo torinese. Montanari e villeggianti nelle valli di Lanzo. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1988. p.55; Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990; Pierluigi Manzone, a cura di, Un repertorio dei fotografi piemontesi 1839-1915, in Id., a cura di, Fotografi e fotografia di provincia: Studi e ricerche sulla fotografia nel Cuneese. Cuneo: Biblioteca Civica di Cuneo, 2008, pp.11-119.  Segnalo qui che ancora nel 1911, all’Esposizione di fotografia, Zeno Flamia di Vinovo, presentava un Album di vedute della Valle di Lanzo e della Valle di Viù, cfr. Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia,  Torino, aprile-ottobre 1911. Torino: G. Momo, 1911, p.10, n.22.

[11] Per le vicende costruttive della ferrovia rimando a Cristina Boido, Chiara Ronchetta, Luca Vivanti, a cura di, Torino – Ceres e la Canavesana. Itinerari ferroviari piemontesi. Torino: Celid, 1995.

[12]Citato in Rinaldo Rinaldi, a cura di, Un inglese nelle Valli di Lanzo. Dalle note di viaggio di Samuel Butler. Lanzo: Società Storica delle Valli di Lanzo, xlviii, 1995, p.8 passim.  Butler era allora in Italia su incarico del proprio editore che gli aveva offerto 100 sterline per la realizzazione di un libro illustrato sul nostro paese, poi rifiutato e pubblicato a spese dell’autore: Alps and Sanctuaries. London: David Bogue, 1882. Sull’uso della fotografia da parte dello scrittore inglese si vedano: Elinor S. Shaffer, Erewhons of the eye : Samuel Butler as painter, photographer, and art critic. London: Reaktion Books, 1988; Samuel Butler, the way of all flesh : photographs, paintings watercolours and drawings by Samuel Butler (1835-1902),  catalogo della mostra (Bolton, 1989). Bolton:  Bolton Museum and Art Gallery, 1989.

[13] Inventata nel 1832 da sir Charles Wheatstone, ma  messa a punto fotograficamente solo nel 1849 da sir David Brewster (già inventore del caleidoscopio) ed enormemente diffusa dopo l’Esposizione Universale di Londra del 1851, la visione stereoscopica aveva molto precocemente attratto l’attenzione dei pittori; si veda a titolo esemplificativo Alessandro Guardasoni, Della pittura, della stereoscopia e di alcuni precetti di Leonardo  da Vinci: pensieri. Bologna:  Soc. tip. Azzoguidi, 1880. L’attenzione per la pratica fotografica – sebbene quasi clandestina –  non era estranea all’ambiente dell’Accademia torinese, come dimostra la presenza nella Biblioteca dell’Albertina del volume di H.P. Robinson, De l’effet artistique en photographie: conseils aux photographes sur l’art de la composition et du clair-obscur, traduction française de la 2.e éd. anglaise par Hector Colard. Paris: Gauthier-Villars, 1885; più consueto invece il ricorso alle stampe fotografiche quali modelli di studio, non estraneo neppure a Fontanesi, ma praticato in particolare da Luigi Belli, cui si devono gli esemplari più importanti, specialmente di autori francesi, ancora attualmente conservati nel Fondo fotografico storico di questa istituzione.

[14]  Cfr. Andrea Tarchetti, notaio: Fotografie 1904 – 1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna, Mimmo Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli 1990; Miraglia 1990, p.75. Un analogo approccio bozzettistico è rintracciabile anche nelle fotografie coeve di Mario Gabinio, e nelle immagini di altri frequentatori delle Valli di Lanzo, cfr. Audisio, Guglielmotto Ravet 1981, nn. 42,43,65,94. Tra queste si segnala una ripresa realizzata a Benot da Guido Cibrario verso il 1913 (n. 137) che è analoga, quasi sovrapponibile alla veduta realizzata da Fino circa gli stessi anni (26881). Un’attenzione diversa, non bozzettistica ma empatica, per il mondo contadino delle valli piemontesi è invece quella testimoniata con grande anticipo,  per la generazione precedente, dai numerosi album di Vedute delle Valli Valdesi realizzati dal pastore David Jean Jaques Peyrot (Luserna San Giovanni, Torino, 1854 – 1915), tra i più rilevanti esempi di produzione fotografica di tutto l’Ottocento piemontese, in parte conservati presso l’Archivio Fotografico Storico del Centro Culturale Valdese di Torre Pellice.

[15] Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, s.d. [1890], (reprint Ivrea: Priuli & Verlucca Editori, 1983). Per una presentazione critica dell’Album realizzato da Sella e Vallino rimando a P. Cavanna, Album di un alpinista fotografo,  “Alp”, 11 (1995) n.122, giugno, pp.124-127; Id.,  La montagna abitata di Domenico Vallino, “Rivista Biellese”, 3 (1999), n.1, gennaio, pp.51-58.

[16] Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica. Catalogo. Torino: Grafica Editoriale Politecnica [La Fotografia Artistica], 1907.

[17] Red., Il Concorso fotografico di Milano, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 8, agosto, pp. III-IV.

[18] Red., Una Rassegna della Mostra Fotografica Nazionale di Milano,  “Il Progresso Fotografico”, 16 (1909), pp.217-221 (219). Tra i pochissimi autori a praticare il colore, Fino era il solo a lavorare in stereoscopia mentre Luigi Pellerano era il solo che risulti ancora attualmente noto.

[19] Luigi Pellerano, L’autocromista e la pratica elementare della fotografia a colori. Milano: U. Hoepli, 1914.

[20]Luigi Pellerano, L’Autochromie et ses applications artistiques, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 8, agosto,  p.128, nota 1.

[21] Autocromia (sintesi tricromica diretta – sintesi additiva): sistema messo a punto dai Fratelli Lumière nel 1904 (commercializzato dal 1907) sulla scia delle intuizioni di Ducos du Hauron (1869) e delle sperimentazioni di Joly (1894), è reso possibile dalla scoperta del procedimento di sbianca di Rodolfo Namias. La luce impressiona una lastra b/n pancromatica rivestita da un filtro a mosaico a struttura casuale costituito da granelli di fecola, colorato nei colori primari blu, verde, rosso. La lastra, dopo sviluppo e inversione, viene osservata per trasparenza o per proiezione. Lo schermo tricromo in fecola di patata attirò da subito numerosi fotografi piemontesi, di diverse generazioni, tra i quali merita almeno ricordare  Italo Mario Angeloni, Giuseppe Gallino, Franco Manassero, Felice Masino, Pietro Masoero, Francesco Negri, il già citato Pellerano, anch’egli  membro dell’Unione Escursionisti, Secondo Pia, autore di poco meno di trecento autocromie,  Adriano Tournon, Giovanni Battista Vercellone e C. Schiaparelli, oltre a Anny Wild, unica donna a godere di una certa notorietà,  le cui fotografie vennero pubblicate ne “La Fotografia Artistica”  a partire dal luglio 1910. A conferma di un fenomeno ancora tutto da studiare nelle sue dimensioni effettive e nei suoi esiti, per la gran parte sconosciuti o dimenticati, mi limito a segnalare tra gli altri autori di cui resta memoria nei cataloghi delle esposizioni o negli archivi degli eredi quello di Francesco Ernesto Penna, a sua volta in relazione con Pia; cfr. Marco Albera, Francesco Ernesto Penna: un fotografo torinese alla Sacra di San Michele (1913), estratto da Italo Ruffino, Maria Luisa Reviglio della Veneria, a cura di, Il Millenio Composito di San Michele della Chiusa: Documenti e studi interdisciplinari per la conoscenza della vita monastica clusina, V. Borgone Susa: Melli, 2003. Sulla produzione di Pia si rimanda a Giuseppe Pia, Nota storica sull’Archivio di Secondo Pia, in Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, pp.73-77, mentre l’attività di autocromista di Schiaparelli pare non aver lasciato traccia materiale, almeno per quanto risulta dalla monografia curata da Gian Paolo Chiorino, Cesare Schiaparelli fotografo paesaggista. Occhieppo Superiore: Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2003. La stessa Società Fotografica Subalpina organizzò conferenze e proiezioni per presentare questo nuovo metodo e i fratelli Lumière vennero nominati soci onorari dall’Assemblea del 30 aprile 1908.

[22] La possibilità di riprodurre le proprie opere a colori, dapprima col metodo della tricromia, aveva affascinato ad esempio già Segantini, che in un lettera a  Grubicy de Dragon del 1893 (n. 383) scriveva: “Caro Alberto, come ti ho già detto, a me pare che il sistema trovato dal Mora [cioè la tricromia] di riprodurre fach simile i quadri ad oglio [sic] è scoperta meravigliosa. ed io sono pronto a sostenerla, non solo moralmente, ma intendo di fare dei quadretti appositamente, di effetto afferrabile a tutti, e di sentimento intimo, onde abbiano con la delicatezza e serietà dell’arte (…) che seduce e affascina le anime buone, onde divolgare il gusto dell’arte (…) vera.” E ancora, a fine settembre 1897 (n.622): “Pei quadretti da riprodursi in Eleografia sistema Mora, bisognerà intendersi meglio per non fare un inutile lavoro.” Infine nel luglio 1899 (n.762): “Caro Alberto (…) Nell’ultima tua lettera ho trovato dentro dei campioni di riproduzioni a colori, per far questo bisognerebbe che avessi il tempo di starci dietro di persona.” Cfr. Annie-Paule Quinsac, a cura di, Segantini. Trent’anni di vita artistica europea nei carteggi inediti dell’artista e dei suoi mecenati. Oggiono – Lecco: Cattaneo Editore, 1985. Altrettanto, e forse più noto è il caso di Michetti che rivolgendosi a Carlo Tridenti, ch’era andato a fargli visita a Francavilla [1920ca], e stava guardando un gruppo di schizzi dal vero gli diceva: “«Lascia stare quelle porcherie e vieni qua se vuoi vedere la natura e il vero colore». E gli mostrava decine di angoli di prati in fiore, e di campi di zucche mature, fotografati da lui con lastre a colori, e proclamava che valevano molto più dei suoi quadri.”, citato in Silvio Negro, Album Romano. Roma: Casini, 1956, p. 16. L’episodio fa il paio con quello ricordato nei Taccuini di Ugo Ujetti: “Lino Pesaro [il gallerista] mi parla di Michetti. L’ha veduto giorni fa al convento di Francavilla. Che cosa ha di pronto Senatore? Quanti quadri vuole! Me li mostri, e Michetti lo conduce davanti ad uno schedario con diecimila schede grandi di cartone (…) in un angolo  un numero” che rimanda allo schedario delle fotografie “Come vede, qui lei ha 10.000 quadri. Perché non li fa? Ma per me sono fatti. E per il pubblico? Non me ne importa niente. Dovrei eseguirli. Facile ma noioso. Io, li vedo perfetti.”, citato in Marina Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, in Francesco Paolo Michetti. Il cenacolo delle arti tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma – Francavilla al Mare, 1999). Napoli: Fondazione Michetti – Electa Napoli, 1999, p. 15. Anche Rodolfo Namias, La Fotografia in Colori. L’Autocromia. I Processi Fotomeccanici in Colori. La Cinematografia in Colori. Milano: Edizioni “Il Progresso Fotografico”, 1930 (V ediz.), p. 201 ricordava di “aver inteso lui stesso dalla bocca di uno dei più eminenti artisti italiani, il compianto pittore F.P. Michetti [1851 – 1929], esaltare l’utilità delle lastre autocrome. Egli, dopo aver applicato largamente l’ordinaria fotografia come ausiliario utilissimo, trovò nelle lastre autocrome un ausiliario ben più prezioso.”   E così proseguiva: “oggi colle lastre autocrome l’artista può ottenere una riproduzione fedele del soggetto in pochi secondi, e può poi studiare l’immagine a colori con maggiore comodità e in modo più preciso che nella natura stessa. Si può dire che la prova autocroma insegna a vedere i colori e dovrebbe essere considerata come mezzo efficacissimo di preparazione artistica.” (Ivi, p. 20, che in realtà si appropriava  – senza citarlo – di intere frasi di Luigi Pellerano, L’autochrome, cit., pp.127-129). Di diversa opinione fu certamente Giuseppe Pellizza, nel cui Fondo fotografico non sono state ritrovate autocromie, cfr. Aurora Scotti, a cura di, Pellizza e la Fotografia: il fondo fotografico. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2007.

[23] Svoltasi in concomitanza col XIII Congresso delle Società fotografiche francesi a Nancy, dal 18 al 25 luglio, cfr. Pietro Masoero, Pro Annuario, in “Annuario della Fotografia Italiana”, 1905, VII, p. 191. Il processo di fabbricazione delle lastre era ovviamente coperto da segreto, tanto che anche un tecnico esperto come Namias ancora nell’edizione del 1930 del suo manuale si trovava costretto a fare abbondante uso di termini condizionali (“presumibilmente (…) sarebbe (…) Tale scelta è fatta con processo meccanico non noto, ma forse…”, Namias 1930, passim.

[24] Il nuovo procedimento era stato presentato in Italia dagli stessi Auguste e Louis Lumière, Sopra un nuovo metodo d’ottenere la fotografia dei colori,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 1904, pp. 287-289.

[25] Leon Vidal, L’Art de peindre avec la photographie, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 6, giugno, pp.1-2.

[26] Armando Gandolfi, La fotografia dei colori, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 7, luglio, pp.13-15. Un atteggiamento diverso fu quello della rivista milanese “Il Progresso Fotografico”, che ancora nel 1908 e oltre pubblicava molte tricromie e insomma non parteggiava per i Lumière come i torinesi, forse influenzati (oltre che da legami di lunga data con la Francia) dalla presenza in città del concessionario per l’Italia del nuovo processo: la ditta Momigliano e Calcina, con sede in Via Bogino, 19 bis.

[27] “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n. 8, agosto, pp.122-128. L’attenzione di Mancini per la fotografia è testimoniata anche dalla sua relazione dedicata alla Fotografia stereoscopica, metodo Estenave, presentata al III Congresso fotografico italiano di Roma del 1911.

[28] Charles Holme, a cura di, Colour Photography and other recent developments of the Art of the Camera. London –  Paris – New York: “The Studio”, 1908.

[29] Charles Holme, Prefatory Note, Ivi,  p. A2. Anche in Italia c’era chi, da tempo, era convinto che “l’arte fotografica  deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro”,  Pietro Masoero, Studi e critiche: Arte fotografica, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 10 (1898), pp. 161-171 (p. 170).  Queste posizioni lo indussero a  prendere le distanze dalla “esagerazione della ricerca” degli esponenti del gruppo americano selezionato da Alfred Stieglitz per l’Esposizione torinese del 1902, mentre nella stessa occasione espresse apprezzamento per le opere di Giacomo Grosso, Guido Rey e Cesare Schiaparelli.

[30] Edoardo Bertone di Sambuy, Notes sur l’usage des plaques autochromes, “La Fotografia Artistica”, 5 (1908),, n. 1, gennaio, pp.7-9.

[31] Dixon Scott, Colour Photography, in Holme 1908, pp. 1-10; salvo diversa indicazione, sono tratte da questo testo tutte le citazioni seguenti.

[32] Ibidem, sottolineatura dell’autore. Lo stesso Pellerano, nel descrivere il tipo di fotografo cui era destinato il suo testo così si esprimeva: “In questo manuale noi battezziamo l’autocromista col titolo di pittore a macchina, ed a lui affidiamo l’ufficio di ritrarre dal vero, con le sue linee, colori e tonalità infinite, con senso d’arte per quanto permette la tecnica autocromatica, infondendo un po’ di sentimento suo individuale nel soggetto scelto, oppur composto. Che l’opera sua serva di documento sempre, cercando di emulare, ma superare mai la vera arte, ché almeno per ora l’affermare il contrario, ripetiamolo sempre, equivarrebbe a bestemmiare nel tempo dell’arte stessa.”, Pellerano1914, p. 399, sottolineatura mia.  Le parole non ingannino: nulla di più errato che attribuire a un’eco futurista questa definizione, che invece riproponeva in modo apodittico, con sintesi efficace e felice, il giudizio limitativo proprio di tutta la cultura ottocentesca e dal quale aveva tentato (e ancora stava tentando) di liberarsi il pittorialismo fotografico. Ben altro significato avrebbe avuto l’affermazione di Tristan Tzara nel 1922: “Io conosco un tale che fa dei bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica.”, La photographie à l’envers,  in Man Ray, Les champs délicieux, Paris, Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T. Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie. Torino: Einaudi, 1975, pp.73-75.

[33] Citato da Ernest Coustet, L’exactitude du coloris en autochromie, “La Fotografia Artistica” 9 (1912), n. 7, luglio, pp. 105-107, che imputa questa insufficienza all’imperfetto ortocromatismo dell’emulsione utilizzata.

[34] Antonin Personnaz, L’Esthetique de la plaque autochrome, relazione presentata al Congresso internazionale di fotografia di Bruxelles del 1910, pubblicata in “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n. 10, ottobre, pp. 161-162. Personnaz (Bayonne, 1854-1936) fu amico di numerosi impressionisti e loro precoce collezionista. Alla sua morte la collezione passò per legato al Museo del Louvre ed è ora conservata al Museo d’Orsay di Parigi, cfr. Anne Clark James, Antonin Personnaz: Art Collector and Autochrome Pioneer, “History of Photography”, 18 (1994), n.2, Summer, pp.147-150.  Alcune delle sue autocromie, donate dalla vedova alla Societé Française de Photographie, sono state presentate nella mostra Georges Seurat, Paul Signac e i neoimpressionisti, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 10 ottobre 2008 – 25 gennaio 2009), a cura di Marina Ferretti Bocquillon. Milano: Skira, 2008.

[35] Pellerano 1914, p. 432. Il ricorso al fazzoletto rosso quale richiamo cromatico si ritrova anche in Secondo Pia, come mostra l’autocromia Donna tra le ortensie, recentemente presentata alla mostra Secondo Pia fotografo della Sindone e del Piemonte, Torino, Palazzo Barolo, aprile 2009, a cura di Erica Bassignana. In altra parte del testo di Pellerano si fa esplicito il richiamo alla tradizione impressionista, i cui “criteri stabiliti non solo per felice intuito del vero, ma per profonda analisi di questo, hanno aperto una nuova via alla pittura contemporanea. La fotografia dei colori è venuta a formare la prova sperimentale (se pure occorreva) della giustezza di quei criteri [mostrando] tutto ciò che è sanzionato dai dogmi dell’impressionismo.” (Ivi, p. 390, sottolineatura dell’autore). L’apprezzamento per la pittura “contemporanea” espresso in questa occasione dalla cultura fotografica era ben lontano dalle condanne senza appello di un critico autorevole come Enrico Thovez, attivo anche in ambito fotografico come collaboratore del londinese “The Studio”, che proprio a proposito di pittura impressionista dichiarava che “l’arte di queste tele non solo è scesa mille miglia al disotto della fotografia, ma ha toccato i gradi più bassi dell’abbiezione del gusto e della degenerazione estetica.”, E. Thovez, L’arte di dipinger male, “La Stampa”, 7 gennaio 1909, parzialmente riprodotto in Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895-1920.  Milano: Unicredit, 2003, p.232.

[36] Premiato con diploma di medaglia d’oro per il Gruppo III – Classe 17 “La Fotografia nelle sue applicazioni – Fotografie stereoscopiche”, che comprendeva al suo interno anche il tema della “Riproduzione dei colori mediante la fotografia”, significativamente escluso dalla Classe 16 “Fotografia artistica”. Vinse anche il Gran Premio più L. 400 nell’ambito del Concorso Internazionale di Fotografia,  cfr. Esposizione internazionale di Torino 1911, Elenco generale ufficiale delle premiazioni conferite dalle Giurie internazionali. Torino, 1912. A conferma di una per noi incomprensibile scarsa propensione a cimentarsi pubblicamente nonostante i lusinghieri risultati ottenuti, segnaliamo che Fino non prese parte all’Esposizione internazionale di Fotografia artistica di Roma dello stesso anno.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili.”, Brand., Inaugurazione della Mostra fotografica,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99.

[38] Brand., La fotografia all’Esposizione di Torino,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 12, dicembre, pp.167-171 (167). Fino non venne segnalato da Gino Bellotti, La Fotografa artistica all’Esposizione di Torino, “Il Progresso Fotografico”, 18 (1911), pp. 307-311, testo già pubblicato dal “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, n. 9. Da altra fonte si ricava un elenco più dettagliato delle sue opere esposte nella sala III, (n°202): “Meditando, Nel parco, La rosa delle Alpi, Sull’altipiano, Ritratto di Signora, La pineta, Bosco in collina, Nell’Ungheria, Sotto i faggi, Dopo la tormenta, Sulle Alpi Graie, Ritratto di Signora, Nel regno dei larici, Tramonto, Lo stagno, Prato alpino, Ritratto del pittore Giacomo Grosso, L’alpe, Roccie muschiose, Alba grigia, Poesia autunnale, Felici alpigiani, Ritratto di Signorina, ecc.”,  Esposizione internazionale Torino 1911  p.15. Tra gli autocromisti, tra cui Pellerano, Vittorio Marchis e Michele Polito di Torino, Fino era il solo a presentare stereocromie, mentre qualcuno (come Giuseppe Battistini,  sempre di Torino) presentava già “fotografie a colori su carta ottenute con lastra autocroma.” Come si ricava dalla lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26, buona parte delle immagini esposte in quell’occasione potrebbero non far più parte del Fondo Fino conservato dagli eredi, sebbene la mancanza di titolazione autografa sulle lastre superstiti impedisca un riscontro puntuale. Scriveva Fino:  “le ho spedito N° 40 autocrome stereoscopiche (così precisamente si chiamano le fotografie di cui Ella vide qualche saggio a Torino) (…) La avverto che fra le 40 vedute, i N: 1-2-5-6-7-9-13-19-23-30-37-38 facevano parte della collezione che vinse alla ns esposizione di Torino il concorso internazionale di fotografia a colori e il Grand Prix.” Dall’elenco allegato si ricavano i titolo seguenti: 01, Stagno nel parco Nigra Torino;  02, Lago di Viano (particolare) Val di Viù;  05, Sull’altipiano di Benot (Val d’Usseglio) (la contadina è mia moglie) ; 06, Pantano al Pian della Mussa; 07,Lago Campagna presso Ivrea; 09, Rosa delle Alpi (presso Piazzetta di Usseglio); 13, Tonio al Benot Val di Viù; 19, Campo di cavoli (Ivrea); 23, Piano della Mussa (panorama) ; 30, Pilone presso Margone (val di Lanzo); 37, Prato alpino (Praly) Val Germanasca  Pinerolo; 38,Tonio e Giacomin al Benot.

[39] Ferdinando Fino, Copialettere con rubrica.  500 fogli, di cui 69 compilati dal 2 settembre 1912 al 14 giugno 1916. Manoscritto sino al 30 novembre 1915, quindi dattiloscritto. Rubrica muta; Torino, Archivio Fino.

[40] Il 10 maggio 1912, ad esempio, scriveva, in francese, ad Alfred Krolopp, di Budapest (forse identificabile col botanico docente alla Scuola reale di agricoltura di Magyar-Ovar), scusandosi per non avergli  ancora spedite le copie monocrome di alcune autocromie, e per farsi perdonare gli inviava nove diapositive “che può darsi non corrisponderanno ai vostri desideri poiché ho perso la nota che mi avete fatta di quelle che vi interessavano.”, Copialettere, p.4.

[41] Lettera a Italo Carboni del 9 febbraio 1912, Copialettere, pp. 1-2.

[42] Le difficoltà derivanti dai lunghissimi tempi di posa, analoghi e forse superiori a quelli della fotografia delle origini, erano ribaditi anche in una successiva occasione: “Una collezione quale io avevo all’Esposizione [del 1911], frutto di una scelta fra centinaia di prove, infatti essendo esse tutte a lunga posa, il minimo soffio di vento impedisce la riuscita, nei ritratti il movimento minimo della persona, l’atteggiamento duro o non naturale dato dall’obbligo dell’immobilità, o se si è all’aria aperta il cambiamento d’un ombra per lo spostamento d’una nube (…) congiurano contro il povero fotografo che talvolta fa una dozzina e più di vedute senza avere neppure una che lo soddisfi! E senza la possibilità di trarre una copia d’una prova riuscita!” Lettera a Italo Carboni del 30 maggio 1912, Copialettere, p.  8. Secondo le indicazioni fornite da Pellerano1914, la realizzazione di un ritratto in esterni (ma con lastra 18×24) richiedeva ben 6 minuti.

[43] Evidentemente Fino non era a conoscenza del metodo messo a punto dagli stessi Lumière, e ampiamente utilizzato dagli studi professionali, di riprodurre le autocromie utilizzando altre lastre autocrome.

[44] Lettera a Italo Carboni del 17 maggio 1912, Copialettere, pp. 5-6.

[45] Guido Rey, Fotografia inutile, 1908, ora in Paolo Costantini, Italo Zannier, a cura di Luci ed Ombre.  Gli annuari della fotografia artistica italiana  1923-1934. Firenze: Alinari, 1987, pp.64-65.

[46] Lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26.

[47] Lettera a Carboni del 9 febbraio 1912, Copialettere, pp. 1-2. La lettera contiene anche interessanti istruzioni relative alle modalità di osservazione delle autocromie: “le lastre devono essere viste colla parte grigia verso il suo occhio e colla parte nera dall’altra parte, al fine di vedere la veduta dalla sua giusta parte. Però a parer mio, quando si tratta di paesaggi non tipici, pei quali non muta vederli a rovescio, come piacevoli particolari di boschi, fiori ecc., i colori sono più brillanti guardandoli dall’opposto lato.”

[48] “Ho speranza di presto mandarle qualche cosa di bello (…) Potrebbe darsi che certe vedute di montagna che le manderò, abbiano ad interessarla, intanto farò il possibile di prepararle delle vedute di chiese.” Lettera a Carboni del 14  giugno 1912, Copialettere, p. 10.

[49] Lettera a Carboni del 26 giugno 1913, Copialettere, p. 28. Le prime pratiche erano state avviate nel settembre dell’anno precedente. Il 16 luglio dello stesso anno gli era stato concesso il permesso di fotografare anche l’Armeria Reale, cfr. Visite e permessiPermessi,  fascicolo n. 865, n. prot. 4197; n. d’ordine 2339, 16/07/1913, Permesso a Ferdinando Fino di fotografare l’Armeria, consultabile all’indirizzo http:// www.artito.arti.beniculturali.it /Armeria%20Reale/ 6SALA/ ArchivioStorico.asp? PageNo=1369&Mv=Avanti (06-04-10).

[50] Lettera a Carboni del 14 agosto 1913, Copialettere, pp. 31-33. Le riprese effettuate da Fino sono tra le rare testimonianze fotografiche degli interni dei Palazzo Reale all’inizio del XX secolo e certo, almeno per quanto sinora noto, le prime realizzate a colori, cfr. Cesare Enrico Bertana, Palazzo Reale com’era … 1900-1920. Torino: Associazione Amici di Palazzo Reale, 2002.

[51] Secondo gli studi tecnici riportati in Namias 1930 p.165, “La lastra [autocroma] lascia passare circa 1/10 della luce che la colpisce.” Quindi aumenta in misura esponenziale il tempo di posa necessario per la sua corretta esposizione, calcolato in circa 80 -100 volte quello di una lastra monocroma rapida, valore che si approssima a 200 lavorando in ambienti chiusi. A dimostrazione di quanto una ripresa di questi soggetti costituisse un risultato virtuosistico altamente apprezzabile, lo stesso Pellerano pubblicava tra le tavole f.t. del suo manuale un’analoga ripresa della Galleria Beaumont dell’Armeria Reale, dichiarando un tempo di posa di 90 minuti, cfr. Pellerano1914, p. 462 f.t. Di quali fossero le effettive difficoltà di esecuzione delle riprese in Armeria anche con le ben più rapide lastre alla gelatina ci rimane testimonianza nelle parole di Giovanni Assale, direttore dello stabilimento Berra “Fotografia Subalpina” cui era stato affidato il compito di realizzare le fotografie per l’edizione dei tre volumi Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino, Milano, Eliotipia Calzolari e Ferrario [1898], con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna. Nel gennaio del 1897 Assale comunicava ad esempio che “Sarà cura del sottoscritto di non lasciar trascorrere inutilmente la futura propizia occasione di una nevicata per la esecuzione delle negative degli interni della Galleria e della Rotonda”. A queste si aggiunsero le prescrizioni dello stesso Avogadro di Quaregna che – su indicazione del fotografo –  annoverava tra le difficoltà da superare per la realizzazione del progetto “anche quella della difettosa illuminazione interna (…) che per scarsità di luce e per i molti riflessi non si addice alle riproduzioni fotografiche. Onde eliminare sì fatto inconveniente si dovette addivenire alla costruzione di una forte impalcatura provvisoria nell’interno dello scalone ove la luce è più abbondante e propizia”,  oltre a disporre una tenda di percalle bianco al “gran finestrone nello scalone” e una “tenda oscura per la finestra attigua alla galleria della Prefettura per impedirne la luce”, mettendo a disposizione del fotografo il “personale di fatica occorrente al trasporto dei monumenti equestri sopra l’impalcata dello scalone e rimettere nella galleria dopo la loro riproduzione fotografica.”  Per la ricostruzione analitica delle diverse campagne di documentazione fotografica dell’Armeria Reale di Torino rimando a P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Paolo Venturoli, a cura di, Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898. Torino: U. Allemandi & C., 2003, pp. 79-98.

[52] Lettera a Carboni del 21 agosto 1913, Copialettere, p. 34.

[53] La lettera indirizzata a Emanuele Celanza del 16 marzo 1912 contiene una nota spese per “n° 12 autocromie 13×18 riproduzioni quadri Avondo £ 4 cadauna”, Copialettere, p. 11. Le autocromie, sinora non reperite, devono certamente essere messe in relazione con la pubblicazione presso lo stesso editore del saggio di Enrico Thovez, L’opera pittorica di Vittorio Avondo. Torino: Celanza, 1912, illustrato però da riproduzioni monocrome. Secondo i dati forniti da Pellerano 1914, p. 226, 4 lastre 13×18 costavano L.7.

[54] “sempre in attesa di ric[evere] vs. commissioni, mi sono messo all’opera [per] studi artistici di nudi. La stagione piovosa mi ha impedito di dedicarmi a paesaggi (…).”, Lettera a Canova del 4 marzo 1912, Copialettere, p. 3.

[55] Si veda ad esempio il Nudo nel bagno di Leon Gimpel, in Il colore della Belle Époque: i primi processi fotografici diapositivi, catalogo della mostra (Venezia, 1982), a cura di Silvio Fuso, Sandro Mescola. Venezia: Comune di Venezia, s.d., [1982], t. 6.

[56] Si veda L’Art du nu au XIX siècle: le photographe et son modèle, catalogo della mostra (Parigi, Bibliothèque nationale de France 1997-1998). Paris: Hazan, 1997. Resta un’affascinante eccezione nella fotografia di nudo tra XIX e XX secolo, la naturalezza con cui Pierre Bonnard fotografava la sua compagna e modella, cfr. Françoise Heilbrun, Philippe Néagu, Pierre Bonnard Photographe. Firenze: Alinari, 1988.

[57] Si veda Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 1990- 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Milano: Fabbri, 1990. Non solo le date dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio che le autocromie non possono che derivare dai dipinti di Grosso, più che buon fotografo egli stesso che quindi mai avrebbe avuto bisogno di ausili esterni. Le prime notizie relative alla sua attività fotografica risalgono al 1894, quando presentò all’Esposizione Internazionale di Fotografia promossa dal Circolo Fotografico Lombardo di Milano, riproduzioni di “quadri e statue” oltre a “ritratti ai sali di platino di buona fattura”, quindi all’ Esposizione torinese del 1902, che lo vide tra gli autori più considerati, specialmente quale ritrattista. (Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso 1990, pp. 21-24. Le sue fotografie di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi, furono tanto apprezzate da Schiapparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea.”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909, I parte,  “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nel suo studio, sottolineando come il pittore “nei suoi ritratti fotografici segue la via tracciata dall’artista che lui ama così profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno.”, Enrico  Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, a cura di, Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London, 1905, pp. I.3-I.8, come confermano sia il ritratto di Cesare Reduzzi pubblicato nelle stesse pagine sia quello di Celestino Gilardi pubblicato ne “La Fotografia Artistica” a corredo del suo necrologio. Risulta perciò difficile accostare a queste prove gli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino e a suo tempo pubblicati da Miraglia 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute. Anche Pietro Masoero, come si è accennato, recensì entusiasticamente le opere di Grosso presentate all’Esposizione del 1902, cfr. Paolo Costantini, Giacomo Grosso, in Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994, scheda n. 61.

[58] “Riguardo al quadro che Ella desidera (Veduta n°11) – gli scrisse Petiti da Roma – credo che le ho domandato un prezzo da amico per una esposizione anche in quella misura 76 ½ x 55 non sarebbe meno di 600 lire perché il soggetto è difficilino e molto complicato e richiederebbe un certo tempo per farlo, impossibile essendo di dipingerlo alla prima. Le modificazioni da lei desiderate per trasportare il soggetto da destra a sinistra si possono fare per primo perché all’artista non mancano mai le risorse e qualche volta anche le licenze poetiche. Insomma io spererei che il quadretto riescisse tutto di suo gradimento … ma … Però siccome intendo ancora una volta dimostrarle la mia gratitudine glie lo farò per 200 lire (…) Potrò ancora tenere presso di me tutte le sue lastre? (…) Questa sgrammaticata lettera è talmente scritta male che dovrei rifarla ma non ne ho il tempo né la voglia. Mi perdoni.”, Lettera di Filiberto Petiti del 9 aprile 1916, Archivio Fino, Torino. Impossibile identificare il dipinto in questione, ma tra le opere di Petiti possedute da Fino ritroviamo un Monte Lera (Usseglio) che risulta essere la trasposizione dell’autocromia Sui pendii di Usseglio [26886]. Un altro cenno, purtroppo ancora generico, era già contenuto in una lettera di Fino del 1913:“Se Ella dovesse recarsi a Torino mi faccia il favore d’una sua visita e le farò vedere qualche lastra che certo però non venderei avendo servito a pittori celebri come documento per quadri che stan facendo.”, (Lettera a Carboni del 21 agosto 1913, Copialettere, p. 34). I legami e le suggestioni reciproche tra cultura pittorica e fotografica in ambito torinese nei primi decenni del Novecento, per larga parte ancora da studiare analiticamente, sono ben testimoniati dalle pagine di un periodico autorevole quale “La Fotografia Artistica”, che mantenendo fede al proprio impegno programmatico non di rado pubblicava riproduzioni a colori di dipinti sotto forma di tavole fuori testo (nel luglio 1906, ad esempio, Un torrente, proprio di Petiti; a settembre dello stesso anno una Pastorella di Michetti). Lo stesso periodico dedicò ben cinque numeri, di fatto monografici, alle opere esposte alla II Esposizione Quadriennale di Belle Arti – Torino 1908, con testo critico di Ernesto Ferrettini, critico d’arte de “La Gazzetta del Popolo”, poi de “La Stampa”, già autore del saggio Artisti nelle Valli di Lanzo, compreso nel volume edito dal Club Alpino Italiano  nel 1904.

[59] Namias 1930, p. 202.

[60] “Noti che bisognerà guardare le vedute in uno stereoscopio di centimetri 6×13, che tale è il formato delle fotografie e i veri colori naturali appariranno colla più grande verità quando si guardi la veduta avendo di rimpetto a noi o delle nuvole bianche o un muro o un lenzuolo bianco su cui batta il sole. Contro il cielo sereno avremo una diffusione di azzurro , e contro pareti in ombra un eccesso di grigio e deficienza di illuminazione.”, Lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26.

[61] Filiberto Petiti, Nel bosco, 1914 ca, olio su tela, Roma, Accademia Nazionale di San Luca.

[62] Ernesto Baum, Il «genere» in fotografia, “La Fotografia Artistica”, 10 (1913), n.1, gennaio,pp. 12-14.  Questo testo dovette costituire un riferimento importante per Stefano Bricarelli, che avviava le sue considerazioni critiche a partire dalla constatazione che in Italia la maggior parte dei dilettanti “che meritano veramente questo nome” non si dedicano alle “scene animate” sebbene “in nessun altro paese il pittoresco è stato sparso così a piene mani [e] non si conosce in niun altro luogo una vita così varia e pittoricamente interessante (…). Ma – proseguiva – una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…) Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata.” Per “fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  di un quadro (…) Scelto rapidamente il motivo (…) occorrerà procedere ad una coraggiosa opera di selezione e di eliminazione. (…) In un istante, con gli elementi che avrà riconosciuto necessari ed opportuni, la mente costituirà, organizzerà per così dire, idealmente il quadro, determinandone il taglio, fissando l’importanza relativa delle masse, equilibrando il gioco delle luci e delle ombre; sarà allora di grande aiuto per fare immediatamente avvertire ogni squilibrio e ogni deficienza dell’insieme e porvi rimedio quel senso quasi istintivo della composizione, che molto si acquista osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative.”, Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 8, agosto, pp. 225-2260, sottolineature dell’autore.

[63] Pellerano 1914, p. 432.

Attraversare la fotografia (2005)

in Stefano Bricarelli Fotografie, catalogo della mostra (Torino, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, 15 luglio- 18 settembre 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Fondazione Torino Musei GAM. 2005, pp. 11-33

 

“L’avevo conosciuta nel 1904” – dirà Stefano Bricarelli ormai novantenne[1] parlandone come di un amore giovanile,  a proposito del suo primo incontro con la fotografia – “quando ero nella quinta classe del ginnasio all’Istituto Sociale di Torino.”  Una felice sintesi del contesto e dell’avvio di quella che sarebbe stata la sua passione più consapevole e forte. Mai una professione però, per scelta.

Il momento non avrebbe potuto essere più opportuno, e propizio.  Da appena due anni si era chiusa a Torino la fondamentale Esposizione internazionale di fotografia artistica, promossa e curata da Edoardo di Sambuy nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa e Moderna, occasione cruciale di crescita e confronto della cultura fotografica italiana e quindi torinese, portata a misurarsi con più di 1300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, dai pittorialisti francesi alla Photo-Secession americana promossa da Alfred Stieglitz, le cui opere suscitarono com’è noto reazioni contrastanti per l’ “esagerazione della ricerca.”[2]

Sulla scia delle riflessioni prodotte da quell’evento espositivo Annibale Cominetti, abbandonato il ruolo di Segretario della Società Fotografica Subalpina assunto sin dalla sua fondazione nel 1899, avviava nel dicembre di quello stesso 1904 la pubblicazione del periodico “La Fotografia Artistica”, dando concretezza all’augurio espresso dal Di Sambuy che la fotografia potesse avere un pubblico di “gente più evoluta, quali potrebbero essere i cultori più distinti dell’arte pura”.

Questa nuova “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33×24),  redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni e tavole f.t. realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa al bromuro alle fotoincisioni, alla similgravure), costituiva l’espressione più rilevante della cultura fotografica italiana di inizio ‘900, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la produzione artistica internazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” richiamato sin dal titolo, cui tendeva tutto il movimento pittorialista, e che qui prendeva forma nella composizione e nelle selezioni operate da una Commissione Artistica tutta formata di membri legati all’Accademia torinese: lo scultore Luigi Belli ed i pittori Pier Celestino Gilardi (sostituito poi da Andrea Tavernier), Paolo Gaidano e Luigi Onetti, autore anche della prima serie di copertine.

L’orientamento era evidente: mentre negli USA il ben più consapevole ma analogo progetto di “Camera Work” si apriva alle opere delle avanguardie europee, in Italia il confronto era cercato con la consolidata e tranquillizzante produzione accademica e il compito di esprimere il programma della rivista era affidato ad un critico come Ercole Bonardi, che aprì con L’arte nella fotografia il primo numero, in cui era ospitato anche l’intervento del francese Léon Vidal, tra i personaggi più noti del panorama internazionale, il quale sosteneva però che “évidemment il n’ya qu’un art, et peut-être est-ce a tort qu’on a fait l’usage des mots photographie artistique”.

Il più cauto Bonardi preferiva invece attenersi al motto che “Ogni arte ha un campo a sé ed anche la fotografia ha naturalmente il suo. Ma (…) essa non deve solo preoccuparsi della esattezza della riproduzione, della sua finitezza in tutte le parti (…) anzi a questo qualche volta dovrà non badare, anzi ancora talora dovrà anche evitare la perfezione materiale e la esattissima riproduzione del soggetto, visto nelle condizioni più normali.” (citato in Costantini, 1990, pp. 150 – 151). Non si trattava d’altro che di una tarda ripresa della cosiddetta teoria del sacrificio[3], qui usata per liberare la fotografia dal soffocante abbraccio del vincolo documentario, evitando nel contempo quell’impraticabile confronto diretto con la pittura che l’adozione letterale delle posizioni di Vidal avrebbe comportato.

L’adolescente Bricarelli (era nato nel 1889)  non poteva non essere attratto e convinto da queste manifestazioni nel momento in cui si avvicina alla fotografia, lui che già allora vedeva in Guido Rey qualcosa di più di un maestro, un modello quasi.

Stupisce semmai la consapevolezza delle sue prime realizzazioni: il semplice apparecchio a lastre che gli venne donato quale premio per gli studi non fu utilizzato – come sarebbe stato lecito attendersi – solo per avviare una spensierata pratica di piccola fotografia familiare, quella che lo avrebbe portato, nella bella definizione di Nico Orengo, a divenire “un collezionista di momenti festosi”[4], ma a ricorrere alle figure ed alle occasioni che l’ambiente familiare alto borghese gli offriva quali spunti per misurarsi con le possibilità espressive del mezzo.

Nella migliore tradizione degli amateur torinesi, anche le sue prime stampe significative si riferiscono a soggetti montani, se non proprio alpini. Sono due riprese dell’inverno del 1908 già ben connotate per qualità compositiva e capacità di sfuggire ai pericoli del bozzettismo insiti nella scelta del soggetto (A32/26). Una di queste ci è giunta nell’originaria versione alla gomma bicromatata (SB0035), forse stampata dal giovane fotografo con la collaborazione di Carlo Moncalvo[5], in anni in cui i diversi processi ai pigmenti costituivano palestra di prova per l’intera comunità internazionale degli “artisti fotografi”, già allora pericolosamente disposti a confondere risorse tecniche e qualità espressive delle proprie immagini.[6]

In questo contesto vanno intese le “otto impressioni di paesaggi piemontesi” con cui Bricarelli partecipò all’Esposizione internazionale di fotografia artistica tenutasi a Torino in occasione delle celebrazioni per il Cinquantenario dell’Unità, una delle quali ebbe l’onore della pubblicazione ne “La Fotografia Artistica”, sola collaborazione[7] col prestigioso periodico torinese cui sempre preferì (forse su suggerimento di Rey, anche lui assente da quelle pagine) il più modesto “Corriere Fotografico” milanese[8] o il prestigioso “The Amateur Photographer” di Londra[9].

A giudicare dalle immagini pubblicate in quegli anni, e dalle stampe rimaste, risulta difficile collocare nello stesso arco di tempo, nello stesso momento di gusto il bellissimo Profilo nella folla (A14/02) ripreso a Torino nel novembre del 1910 (Bricarelli, 1976, p.16), quasi troppo modernista per quella data, ma tutti i primi due decenni della sua produzione sono segnati – come vedremo – da improvvise accelerazioni e ritorni, qui documentati da una bella serie di piccole stampe dedicate agli alberi (tema anche di un concorso de “Il Corriere Fotografico” nel gennaio del 1913) in cui l’adozione di differenti processi di stampa costituisce lo strumento e l’esito di un’attenta verifica di coerenza tra soluzioni tecniche e possibilità linguistiche, in un confronto coi modelli stilistici e compositivi dei maggiori autori della generazione precedente, come Guglielmo Oliaro e specialmente Cesare Schiaparelli.[10]

L’Esposizione del 1911 fu anche la prima occasione per Bricarelli di misurarsi con il ruolo di critico, avviando una pratica sistematica di riflessione che lo renderà una delle figure centrali della cultura fotografica italiana nella prima metà del ‘900. è  un testo tutto centrato – come la coeva serie sugli alberi – intorno al rapporto per lui decisivo in quegli anni delle valenze espressive dei diversi processi interpretativi di stampa.

Così se considerava i paesaggi  di Thèophile Mahèo “troppo poco fotografici, più acquarelli che fotografie”, non mancava di manifestare il proprio apprezzamento per le “gomme Höcheimer” di Oliaro [tecnicamente identiche alle proprie] e per quelle di Ludovico Pachò, ma soprattutto per le  “prove ottenute col processo agli inchiostri grassi, all’olio [di Biagio Barberis, che] possono ben convincere della assoluta superiorità di questo sopra tutti i sistemi artistici di stampa.” (Bricarelli, 1912, p. 1792 passim).

La collaborazione del neolaureato avvocato con “Il Corriere Fotografico”, avviata in quell’anno con la pubblicazione delle prime immagini e di questo testo proseguì costante negli anni successivi, e nel 1913 comparve  Istantanee artistiche di scene animate, corredato di tre sue fotografie: Nella via maestraScene d’accampamento e Processione in montagna (SB0056) già pubblicata come Procession au Village, in “The Amateur Photographer” del 1912.

L’articolo prendeva avvio dalla constatazione che in Italia la maggior parte dei dilettanti “che meritano veramente questo nome” non si dedicano alle “scene animate” sebbene “in nessun altro paese il pittoresco è stato sparso così a piene mani [e] non si conosce in niun altro luogo una vita così varia e pittoricamente interessante (…). Ma –  proseguiva Bricarelli – una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…) Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata.” Per “fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  [sottolineature dell’autore] di un quadro (…) Scelto rapidamente il motivo (…) occorrerà procedere ad una coraggiosa opera di selezione e di eliminazione. (…) In un istante, con gli elementi che avrà riconosciuto necessari ed opportuni, la mente costituirà, organizzerà per così dire, idealmente il quadro, determinandone il taglio, fissando l’importanza relativa delle masse, equilibrando il gioco delle luci e delle ombre; sarà allora di grande aiuto per fare immediatamente avvertire ogni squilibrio e ogni deficienza dell’insieme e porvi rimedio quel senso quasi istintivo della composizione, che molto si acquista osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative.”[11]

Questo scritto si presta a diverse considerazioni, a partire proprio dal fatto che qui si tratta per la prima volta dell’esplicita disamina critica di un “genere” astrattamente trattato e non (come per il 1911) del commento ad una serie di opere esposte, sino all’esplicitazione di alcune indicazioni di metodo; si pensi a quella necessità irrinunciabile “che il soggetto sia inconscio” che richiama in un contesto diverso ma non estraneo le indicazioni formulate nel 1883 dal neuropsichiatria e antropologo Enrico Morselli (188, p. 7), secondo cui “alle fotografie scientifiche [era necessario] aggiungere ancora quelle artistiche, prese cioè coll’atteggiamento naturale e libero degli individui ritratti”, ma anche a quella definizione di composizione “in un istante” che non può non essere letta come una prima formulazione, di metodo e di poetica, delle dichiarazioni bressoniane di quasi mezzo secolo più tarde. Non ultimo poi quel richiamo alla cultura visiva da costruirsi  “osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative” che andava ben oltre i tentativi nobilitanti del più provinciale pittorialismo per sostenere la necessità – vitale per i fotografi – di non confondere dilettantismo e approssimazione; quasi un’anticipazione programmatica di tutta l’attività di editore e promotore che vide impegnato Bricarelli nei decenni successivi.

Il 1911 segnò anche l’avvio della partecipazione ai concorsi settimanali di “The Amateur Photographer”, che quell’anno vinse con The House in the Snow, cioè La Reale Casa di Ricovero del 1908 (SB0035),  e Chevaux à l’aubrevage, entrambe pubblicate, mentre al London Salon of Photography del 1915 furono esposte  Church by Moonlight (307) e Pour nos soldats / Chiesa a Cesana[12], del 1914 (A14/20), che F.C. Tilney, 1915, p. 15, definì “very reminiscent of certain painted pictures but full of feeling and quality of its own (…). Its great merit is the perfect and natural gradation due to the concentrated illumination, and the culmination of this upon the cap of the chief figure, whose face and figure present also the strongest accent of dark. The group behind are also most happily treated. Doubtless there is much control in Pour nos soldats, but there is no aggressive sign of it, for naturalism has never been sacrificed in any particular.” E questo “naturalism” doveva necessariamente corrispondere a quella “verità d’atteggiamenti” còlti su cui convergevano Morselli e Bricarelli a tre decenni di distanza, quella stessa che lo avrebbe portato a non seguire le mise en scéne di Rey, di cui invece fornivano leziose versioni popolaresche autori a lui vicini come Achille Bologna o Raffaele Menocchio[13], privilegiando semmai le riprese d’ambiente, con paesaggi e architetture solo raramente animati, ancora resi con una varietà di tecniche e intonazioni che ben restituisce il gusto dell’epoca e le più ovvie influenze del coevo paesismo pittorico piemontese, penso in particolare a Cesare Maggi, che sarà negli anni successivi particolarmente vicino a Bricarelli e compagni, con le trame delle gomme bicromatate a rievocare in monocromo il segno divisionista, più precisamente assimilabile invece alla trama delle autocromie Lumière, che Bricarelli però non utilizzò mai.

Nel 1917 venne inviato sul fronte del Piave come sottotenente della 18a Compagnia IV Reggimento Pontieri. 400 delle 500 lire che costituivano l’indennità di mobilitazione le impiegò – come lui stesso ebbe modo più volte di raccontare –  per acquistare una Kodak 6×9 pieghevole con pellicola in rullo, apparecchio che utilizzò durante la guerra e “per più anni dopo il ritorno della pace.” È questo un passaggio che si rivelerà decisivo, un primo punto di non ritorno che porterà a concepire e realizzare fotografie con una maggiore libertà compositiva, staccandosi progressivamente dalle più rigide regole di derivazione ottocentesca[14].

Come faranno molti per la prima volta in quegli anni, in quei tragici giorni, anche Bricarelli costruì visivamente un proprio personale racconto della guerra, della propria esperienza, da affiancare (e contrapporre a volte) alla già massiccia documentazione propagandistica ufficiale, destinata a contrastare “le decine di migliaia di immagini che circolavano dal fronte verso il paese” (Della Volpe, 1980, p. 26), che veniva promossa dai Comandi supremi, ma anche dai più diversi Comitati, come quello proposto già nel giugno del 1915 dal fondatore e direttore del “Progresso fotografico” Rodolfo Namias, che intendeva raccogliere e organizzare scientificamente “il lavoro fotografico dei militari e specialmente ufficiali”, per dare fattivo esito all’invito pubblicitario comparso anche su numerosi periodici illustrati italiani allo scoppio del conflitto: “Ogni ufficiale e soldato/ dovrebbe provvedersi dell’apparecchio fotografico/ Vest Pocket Kodak/ dato il suo piccolo formato e minimo peso può essere comodamente portato in una tasca della divisa senz’alcun disturbo.”

Anche nel nostro caso le foto erano destinate quasi naturalmente a confluire in un album, uno dei modi possibili per affrontare il dramma di questa esperienza incommensurabile e altrimenti indicibile[15], se non con le forme stranianti della retorica. Anche per Bricarelli si sarà trattato di nutrire – come fece in più occasioni e quasi sino alla soglia ultima della vita sua – il culto della memoria e di organizzare il ricordo, ma quando ciò accadde assunse una forma inattesa, in cui l’intento diaristico si alternava e confondeva col racconto di storia.

L’album delle Foto dal fronte, composto in una data non precisata ma certo ben oltre la conclusione del conflitto, si presenta infatti di contenuto eterogeneo, con esercitazioni pittorialiste di greggi, ruderi di castelli e specchi d’acqua, quasi a dar forma all’opinione dell’amico Emilio Zanzi (1924, p. 10) che la guerra avesse trovato “nei fotografi più che i suoi cronisti, i suoi storici precisi e i suoi commentatori lirici.” In queste pagine però le più tarde riprese di taglio quasi fototuristico, pronte per i volumi regionali del Touring,  si alternano  drammaticamente  alle immagini di morte: due cadaveri rappresi sul campo che rievocano l’iconografia più nota della guerra civile americana (A4(19a – b); le notazioni di costume  si susseguono ai ricordi della vita militare nelle retrovie. Nulla di troppo diverso (se non per la qualità delle immagini) dal contenuto di altre centinaia di album privati se non fosse per le due pagine poste quasi a chiusura, dedicate all’esecuzione di Cesare Battisti e Fabio Filzi al castello del Buonconsiglio di Trento, il 12 luglio 1916. Non si tratta solo di testimonianze in sé preziosissime, essendo fotografie “tolte ad un prigioniero austriaco al suo passaggio sul nostro ponte di Salettuol [Maserada] appena aperto al transito”, ma – per noi, qui – dell’impaginazione di un vero e proprio servizio giornalistico in forma pressoché definitiva, con esaustive didascalie tratte dall’Enciclopedia Treccani e diligentemente battute a macchina: un bell’esempio di quello stretto rapporto documentario e narrativo tra immagine e testo che Bricarelli utilizzerà ampiamente lungo tutta la sua lunga carriera giornalistica ed editoriale.

“Col ritorno della pace avevo ripreso i rapporti con gli ambienti fotografici esteri, che tenevo da prima della guerra –  ricorderà alcuni decenni dopo (Bricarelli, 1979, p. 12) – specie con quelli inglesi, partecipando regolarmente al molto esclusivo «London Salon of Photography» e contribuendo a «Photograms of the Year»”, ma in queste prestigiose sedi, né altrove del resto, presenterà mai quella che è una delle sue più affascinanti serie di immagini, i bellissimi ritratti di Giovani fanciulle in fiore che compose lungo tutto l’arco degli anni 1913 –1922, scegliendo come modelle alcune delle più affascinanti giovani donne dell’alta società torinese. Sono ritratti a figura intera, pose attentamente studiate e quasi sempre realizzate in esterni, rese con stampe al bromuro variamente intonate ed a volte preziosamente impaginate in ovale, in cui Bricarelli rivela progressivamente e contemporaneamente le proprie capacità di restituzione psicologica e la propria idea di femminilità, di donna. Per questo la serie può essere letta anche nella forma del tema con variazioni,  ispirate alternativamente alle suggestive morbidezze tonali di Rey, come nel ritratto di Maria Fiorenza Margotti, (SB0010) o – precocemente –  al gioco quasi modernista delle ombre come elementi generatori della composizione fotografica come nel caso di Francesca San Pietro (SB0012), che diverrà il motivo caratterizzante del più tardo ritratto di Gabriella Fracassi, del 1940 (A14/12),  passando per citazioni più o meno letterali di autori tanto diversi quanto Constant Puyo (SB0011) e il torinese Oreste Bertieri, i cui ritratti di attrici erano sovente ospitati sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, per approdare – ormai nei primi anni Venti – con quello di Léonie Pallavicino di Priola  ad un’opera in cui la frontalità, appena contraddetta da un’attesa, dello sguardo della giovane donna così come l’insieme degli elementi che costituiscono il décor  rimanda un’eco di modelli casoratiani, tra la Silvana Cenni ed il coevo ritratto di Cesarina Gualino, per non dire della fotografia che lo stesso Casorati fece nel proprio studio a Mariuccia Gandini (Lamberti, 2000, p. 32). Ne esce complessivamente, oltre ad  un insieme di opere tra le più risolte di quella stagione della fotografia italiana, un ritratto di società cui ben si adatta il titolo proustiano scelto dall’autore, forse (ci piace pensare) guidato dalle suggestioni del breve saggio che nel 1925 Giacomo Debenedetti aveva dedicato allo scrittore francese a tre anni dalla morte, sulle pagine del gobettiano “Il Baretti”.[16]

Col 1920 la collaborazione con “Photograms of the Year” assunse maggior impegno e Bricarelli firmò per alcuni anni la breve panoramica dedicata alla Pictorial Photography in Italy . In questo primo contributo, fortemente programmatico, il giudizio negativo espresso sulla situazione italiana d’anteguerra, formulato senza neppure  degnare d’una citazione “La Fotografia Artistica”, appare finalizzato a valorizzare l’iniziativa di Angelo Guido Dell’Acqua, l’editore milanese de “Il Corriere Fotografico”  che all’inizio di quell’anno aveva avviato la pubblicazione del primo Annuario della Fotografia Artistica (con 36 foto di 27 autori): una rassegna organica che consentiva di definire e identificare il meglio della produzione nazionale e che costituirà l’antecedente diretto dei successivi annuari torinesi “Luci ed ombre”.

Per quello stesso numero di “Photograms” il curatore aveva selezionato una singolare immagine di Bricarelli, Reti e barche (A33/6), riconoscibile oggi come uno dei primi esiti compiuti della ricerca di nuove formule narrative, con le reti in primo piano a velare la percezione dello sfondo ma – anche – a consentire la costruzione di una forma grafica autonoma, di ridotto peso referenziale, sebbene allora fossero stati altri gli elementi che maggiormente avevano colpito pubblico e critica: “S. Bricarelli has an eye for the fantastic. – affermava Tilney (1920, p. 33) presentandola –  The curious veil made by the hanging nets amused everyone who, at the Salon, remarked Nets and Boats”.

Sono anni di costanti oscillazioni del gusto: abbandonate definitivamente le stampe alla gomma bicromatata ed ai pigmenti, il trattamento pittorialista si traduce nell’uso del flou, in quella messa fuori fuoco del soggetto che costituiva la più classica delle tecniche di distanziamento dall’incombente referenzialità documentaria della fotografia, sovente accompagnata da intenti esplicitamente simbolisti, come ne Il gorgo (A3/42), esposto a Torino nel 1925 al Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale[17], a proposito del quale due autorevoli commentatori noteranno poco più tardi che “qui il protagonista è il vuoto, anzi l’incubo, l’attrazione del vuoto, sul quale Bricarelli si è attentamente fissato”  (Bernardi, 1927, p. 14), un’immagine che genera  “uno stato inquieto di ansia quasi penosa” (Brezzo 1927, p. 203), mentre per In alto (SB0055)[18] lo stesso critico aveva parlato di “senso dell’abisso nel cielo, entro cui, dall’estrema spiaggia del mondo, lo spirito si lancia pauroso come in un mare senza confini.” (Brezzo 1926, p. 14)

Nel Comitato di quel Primo Salon, aperto nella città lacerata dalle lotte sociali ed ancora sotto l’incubo della strage fascista del dicembre ‘22, si ritrovavano, oltre a Bricarelli anche Carlo Baravalle e Achille Bologna, vale a dire il nucleo promotore di quel Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica[19] che era nato in seno alla Società Fotografica Subalpina nell’inverno del 1921 con l’esplicita intenzione di essere “a new factor in pictorial photography in  Italy, and one likely to exercise a happy influence upon its development.” (Bricarelli, 1922, p. 31). Come è noto ( Luci ed Ombre, 1987)  tra i primi atti del Gruppo vi fu l’acquisto e il trasferimento a Torino del “Il Corriere Fotografico”, cui Bricarelli collaborava ormai da più di un decennio, e la messa a punto del relativo annuario, per poter dimostrare “coll’evidenza degli occhi addirittura, che l’obiettivo, la lastra e le carte fotografiche, nell’offrire all’uomo i loro servigi regolati dalle leggi infallibili della natura, lasciano però ampio campo all’opera di lui, alla sua industria, allo studio del vero, all’apprezzamento del bello, in una parola alle sue facoltà di artista” (Bricarelli, Brezzo 1923), posizione che costituiva un implicito richiamo di condivisione delle teorie espresse da Enrico Thovez in un breve testo del 1898, non a caso parzialmente riedito sullo stesso annuario nel 1926[20], a partire dalla consapevolezza che “in realtà la fotografia è tutt’altro che una fedele immagine del vero.”

Quando, nella presentare il secondo annuario Emilio Zanzi (1924, p. 17) si assunse il compito di commentare le immagini di Bricarelli ne riconobbe il ruolo innovatore di  “squisito interprete della realtà luminosa, liberata d’ogni elemento superfluo. Semplificatore e sintetista (…) cerca sempre di non tradire, coll’artificio di corrusche bengalerie da laboratorio, la luce solare che dà vita al creato.”  Anche un altro critico torinese nel recensire le sue opere presentate al Primo Salon aveva notato: “Altra tempra [rispetto a Schiaparelli], altra qualità di temi, altro metodo d’inquadratura e di diversa ricerca di effetti luminosi in Stefano Bricarelli; sul vetro smerigliato della sua reflex non si arrestano che motivi in cui vinca l’austerità di poche linee e la forza contrastante di larghe ali di luce, contro masse profonde di ombre; pochi sentono la sintesi di un tema come lui: c’è un suo bromuro in cui  non senti che l’ansa larga d’una strada valdostana, un fresco biondeggiar di grano, due ombrati fusti di pioppi; tutto qui, soffuso d’una larga ala di luce, fresco di vento che scende colla Dora dalle rocce di Prè-Saint Didier.” (Angeloni, 1925a, p.  68).

Al di là di un’ancora superficiale revisione della terminologia adottata, con quel ricorso comune al concetto di  “sintesi” come valore discriminante della  nuova cultura visiva modernista, l’insistere dei due interventi sul trattamento degli effetti luminosi lasciava emergere una sostanziale incomprensione dei più specifici problemi posti da quella nuova visione che andava prendendo forma nelle coeve ricerche europee, riflettendo di fatto le stesse incertezze di orientamento della migliore cultura fotografica italiana di quegli anni, Bricarelli compreso.

Erano tensioni ancora non risolte, messe a punto non ancora definite che si mescolavano, che si affiancavano alle ultime prove di esausto pittorialismo. Poiché Bricarelli, come altri della sua generazione non aveva mai del tutto rinunciato alla pratica della fotografia che altrove si sarebbe detta diretta e che qui era – più semplicemente – la prosecuzione della consolidata e autorevole tradizione piemontese della fotografia alpina: da Vittorio Sella ancora a Rey. Risulta così meglio comprensibile la data di realizzazione di un’immagine come Tramonto sulla Valle dell’Arc (A3/133) che è del 1908 – 1909, con l’inserimento elegantissimo e nuovo, al primo piano, dell’artificialità del palo telegrafico a tagliare la maestosa e altrimenti convenzionale veduta, mentre altre immagini di neve e sciatori – ormai negli anni Trenta – risultano così puntualmente assimilabili  a quelle di altri fotografi di quegli anni – penso ad Ettore Santi, ai fratelli Pedrotti ma soprattutto a Cesare Giulio – da risultare quasi coincidenti, da consentirci di parlare, di provare almeno a dire della figura di un autore che era collettivo, che elaborava infinite variazioni sul tema, muovendosi incerto e lieve, senza sforzo apparente nel tentativo di scrollarsi di dosso il peso della referenzialità fotografica.[21] Un autore che si dedicava alla realizzazione di immagini in cui lo scenario naturale  potesse funzionare come un pre-testo, un materiale da elaborare per realizzare fotografie di cui negli esiti migliori la critica coeva coerentemente riconosceva l’estraneità al genere del “paesaggio” se questo doveva essere inteso come  “una rappresentazione pittorica – o fotografica – di carattere eminentemente descrittivo e totalitario, nella quale l’insieme domini sul particolare [e] le figure – se figure vi sono – abbiano funzione complementare (…) l’architettura e in genere l’opera dell’uomo siano assoggettate dall’impero incontrastato della natura (…). Non sono paesaggi né le nevi dell’Oneglio e del Giulio né i particolari luministici del Baravalle” (Bernardi, 1927, pp.  10-11), così come per Bricarelli non lo sarebbero state le lievi, bellissime Tracce[22] sulla neve presentate nel 1932 al London Salon of Photography e pubblicate in “Luci ed Ombre” dello stesso anno, insieme a Parigi Grand Palais 1931 (A33/15).

Quando i temi sono diversi il percorso di allontanamento dalle convenzioni pittorialiste è ancora incerto sebbene irreversibile, come sembra significare anche la caduta – dal 1924 – dell’aggettivo “pictorial” nel titolo della consueta sintesi sullo stato della fotografia in Italia che Bricarelli redigeva per “Photograms of the Year”. Così se le cataste di legna[23] (SB0061) fotografate nel 1923 non portano ancora traccia alcuna del trattamento formale che ad un tema analogo sarebbe stato riservato in ambito Bauhaus, il lavoro insistito sul tema delle Vele (A33/5, SB0053) solo di poco più tardo, indica l’esigenza e il progressivo emergere di soluzioni nuove. La novità nella resa del soggetto, dove la fascinazione per la plastica maestosità delle forme rigidamente ingabbiata dai bordi dell’inquadratura convive con precise possibilità descrittive, venne immediatamente riconosciuta  da un critico vicino a  Bricarelli come Guido Lorenzo Brezzo (1931 p.  13) che ne parlava come di “un quadro in cui l’elemento scenografico novissimo incarna con tanta perfezione ed aderenza l’elemento immutato che l’opera potrebbe figurare in qualsiasi ardita mostra d’avanguardia, ed essere insieme usata a dimostrare le leggi della composizione nel più conservatore dei trattati”. A questi faceva eco il critico de “Il Corriere Fotografico”, che – a proposito della stessa fotografia – modernamente individuava la sequenza complessiva dell’atto fotografico quale elemento generatore della qualità dell’immagine:  “Anche nei soggetti più umili e comuni il fotografo torinese sa trovare motivo di grandezza. Il senso delle dimensioni è da lui magnificato con un’accorta disposizione dell’obiettivo nell’atto di presa e col taglio sapiente della prova fotografica. E tutto ciò è eminentemente moderno e suggestivo.” (De Albroit, 1931)

Fu proprio l’accorta e consapevole scelta dell’inquadratura che consentì la realizzazione, per molti versi inattesa, di quella che rimane una delle più note fotografie di Bricarelli, quella Rampa elicoidale alla Fiat (A13/72) che fu pubblicata sulle pagine di “Motor Italia” nel dicembre del 1927, lo stesso anno in cui – tra maggio e ottobre – aveva presentato alla Terza Mostra internazionale delle arti decorative di Monza Nei prati di Coumayeur (A32/29), esempio estremo di paesaggio pittorialista, in cui l’estenuazione del flou e della gamma tonale portavano quasi alla smaterializzazione del soggetto, svaporato come in una fata morgana. Nel servizio per “Motor Italia”, da lui fondata con un piccolo gruppo di soci nel novembre dell’anno precedente, gli esiti non avrebbero potuto essere più diversi, ma soprattutto le intenzioni. Qui, come sempre più di frequente accadrà nei decenni successivi, Bricarelli abbandonava ogni intenzione semplicemente “artistica”, rinunciava all’autonomia salonistica  delle singole immagini preferendo operare per serie, così come richiedeva la destinazione della carta stampata.  Era un’idea di fotogiornalismo in cui l’accuratezza descrittiva era destinata a tradursi in immagini formalmente risolte, comunicativamente efficaci.

Il servizio fotografico dedicato alla FIAT Automobili – Via Nizza, 250 – Torino (così recita il titolo dell’articolo) venne pubblicato a corredo del testo poi notissimo di Edoardo Persico, e non si può escludere che le suggestioni del giovane critico napoletano avessero contribuito al radicale mutamento di registro espressivo evidente in queste immagini, nonostante le note difficoltà di rapporti tra i due e la profonda disistima di Bricarelli[24].

Il testo di Persico offriva del Lingotto una lettura fortemente simbolica, ai limiti del misticismo; interpretava questa architettura come un percorso iniziatico: “le officine della Fiat innalzano la logica della loro architettura (…) da cui nasce un’impressione di bellezza per l’identità della cosa con la sua funzione (…) dove le combinazioni delle rette con le curve hanno sistemato un attimo dell’eternità. (…) Due strade ascendono a questo luogo di concentrazioni interiori, e lo reggono, invisibili, come un fatto spirituale. (…) Queste due eliche hanno un significato di obbedienza. (…) Queste due eliche sono veramente un modo della libertà umana. (…) L’obbedienza trova in alto, verso il cielo, la sua strada inevitabile, e ne ritorna santificata.” Come ha rilevato Angelo d’Orsi[25] il testo di Persico “coglie in qualche modo il significato ideologico dell’architettura [e] la disvela. Il Lingotto non era che il volto stesso del potere dell’uomo sull’uomo; la logica severa della sua linea architettonica esprimeva la logica stessa del potere”, mentre le immagini di Bricarelli sembrano coglierne più specificamente il derivato fascino razionalista, quella “bellezza per l’identità della cosa con la sua funzione (…) dove le combinazioni delle rette con le curve hanno sistemato un attimo dell’eternità.”

Le fotografie che ne risultarono, specialmente la Rampa elicoidale poi ripubblicata ne “Il Corriere Fotografico” ed in “Luci ed Ombre” del 1929 (t. VIII) costituivano una novità assoluta e disagevole per l’abituale lessico dei lettori della rivista, tanto da indurre Guido Lorenzo Brezzo (1929, pp. 778-779) a fornirne esplicite istruzioni per l’uso: “Una prima occhiata (…) può far credere che Stefano Bricarelli si sia dato al futurismo: ed abbia voluto semplicemente presentare un pattern strambo ed insolito. Ora questo nel quadro c’è certamente, ma c’è anche qualcosa di più, che lo giustifica e lo toglie dalla categoria delle cose che «piacciono per cinque minuti». Il lettore sostenga il libro in posizione orizzontale con le braccia tese in alto e  un po’ in avanti, e guardi la tavola rovesciando la testa indietro. Vedrà allora quale magnifico problema di prospettiva verticale l’autore si sia imposto e come magistralmente l’abbia risolto.” [26]

Credo sia sufficiente richiamare questa ricetta spicciola di ginnastica percettiva e intellettiva per intuire quale ne fosse la difficoltà di comprensione; meglio: quale diffidenza e disturbo ingenerasse una simile opera nelle tranquille e provinciali acque della cultura fotografica italiana e torinese di quegli anni, ormai alle soglie della consacrazione e divulgazione delle profonde revisioni imposte dalla nuova visione centroeuropea che si sarebbe attuata con l’esposizione Film und Foto di Stoccarda, nello stesso 1929.

Fu necessaria la più aggiornata e lucida consapevolezza di Antonio Boggeri per ribaltarne radicalmente l’interpretazione all’interno di una più complessiva riflessione sulla “Fotografia moderna”: nel Commento che apriva l’annuario di quell’anno identificava proprio in Una rampa elicoidale alla Fiat e nei Vasi di Achille Bologna “le due opere che si possono considerare i capisaldi di questa raccolta” e concludeva: “Se i nostri concetti enunciati sul principio hanno bisogno di esempi, vorremmo che soprattutto su di questi il lettore soffermasse l’attenzione. Nel primo, quel nuovo spirito di ricerca, quel rispetto delle leggi fondamentali della fotografia, quell’equilibrio fra concetto e estetica, tra l’eleganza del particolare e la serietà della composizione, creano un vero modello di questa scuola.” (Boggeri, 1929b, p. 16)

La battaglia del modernismo non poteva però ancora dirsi vinta se a proposito di Riva di San Fruttuoso (variante di stampa di SB0040)  si parlava ancora, sulle pagine de “Il Corriere Fotografico”, di  “fotografia documentaria [che] assurge a valore di quadro per una meravigliosa resa di piani” (De Albroit, 1930), mentre un critico come Italo Mario Angeloni notava più in generale che “la composizione è dettata non solo dalla natura delle cose e dall’anima del disegnatore, ma sì anche da un evidente signorile insegnamento dell’arte pittorica nazionale e più particolarmente di quella scuola che ha in Piemonte i suoi maestri negli Avondo, nei Bertea, nei Fontanesi, nei Follini.”[27]

Questi richiami non dovevano certo dispiacere ai membri del rinnovato Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica che proprio ad un pittore come Cesare Maggi, autore di paesaggi innevati che vivevano delle stesse suggestioni delle autocromie, avevano affidato la “fraterna cura” della sala in cui erano comprese le loro opere in occasione delle II Mostra del Fotogruppo Alpino[28] del CAI nel maggio 1927, ed a cui affideranno nel gennaio dell’anno successivo quella della loro Prima Mostra d’arte fotografica, condivisa con  i critici dei due maggiori quotidiani locali Marziano Bernardi (“La Stampa”) ed Emilio Zanzi (“La Gazzetta del Popolo”); mostra in cui oltre alle opere dei ventuno membri del gruppo erano presentate le personali di tre notissimi autori stranieri di scuola pittorialista: Marcus Adams, Leonard Misonne e José Hortiz-Hechagüe.

Dopo l’attivismo dei primi anni, segnato dalla redazione della rivista e del suo annuario come dalla partecipazione a tutte le più importanti manifestazioni espositive torinesi,  il Gruppo doveva aver perso di compattezza se col gennaio del 1927 aveva sentito la necessità di riconsiderare il proprio ruolo e la propria identità con una “più definita ed intensa attività [ricostituendosi], all’occorrenza, su nuove basi (…) seguendo l’azione dei gruppi di «pictorialists» inglesi ed americani, secondo concetti tecnici ed estetici ben chiari e definiti.” [29]

Proprio quest’ultimo richiamo programmatico sembra indicare uno stato di crisi, l’emergere di contraddizioni espressive che cercavano una verifica proprio nella Prima mostra del 1928, ma anche la necessità di dotarsi di strutture più adeguate al confronto con una scena fotografica in profonda mutazione, anche organizzativa, segnata dalla nascita di nuove strutture associative[30] sorte tra i lavoratori della grande industria, come il DAS (Dopolavoro Aziendale Sip) nel 1928 e il gruppo del Dopolavoro FIAT (1929), e  – non ultima – dalla forte attrazione ideologica esercitata dall’Istituto fascista di cultura.

Nel maggio del 1929 Carlo Baravalle, prossimo ad assumere la Direzione generale della Tensi, casa milanese di prodotti fotografici, lasciava opportunamente la direzione della rivista “desideroso di mantenere al  «Corriere Fotografico» il suo carattere di indipendenza da qualunque interesse diretto o indiretto”, ma questa dichiarazione di autonomia non contemplava un’analoga distanza dall’ideologia e dalla politica culturale del regime. Nel 1926 e 1927 gli annuari si erano aperti con due omaggi sabaudi, rispettivamente i ritratti di Ajmone di Savoia Aosta e di Umberto Principe di Piemonte, ma la prima tavola del 1927 riproduceva il ritratto di Benito Mussolini fatto da Eva Barret. Non solo:  i più autorevoli interventi critici, specialmente sulla rivista, erano affidati a figure come Emilio Zanzi, che fu tra i partecipanti al IV Congresso degli intellettuali fascisti del 1926, redattore di testate apertamente schierate come la  “Gazzetta del Popolo”,  diretta da Maffio Maffi che sarà capo Ufficio Stampa del Governo quindi da  Ermanno Amicucci, segretario del sindacato nazionale fascista dei giornalisti, ed il “Il Momento”, giornale cattolico filogovernativo dalle cui fila proveniva anche  Angeloni,  autore nell’ottobre del 1934 di un editoriale de “Il Corriere Fotografico” dall’esplicito titolo Sotto il segno del Littorio, in cui esaltava la funzione politico propagandistica della fotografia, che “ci comunica la Storia in azione nel giro di pochi secondi.” (in Reteuna, 2002, p. 22) Certo si trattava di ribadire la propria adesione, di più, la propria condivisione della politica culturale del regime forse anche allo scopo di arginare la presenza ingombrante del nuovo periodico fotografico che si pubblicava a Torino dal luglio del 1933. L’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, aveva infatti aperto con un editoriale in cui si definiva la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire”, quella stessa che  Luigi Andreis poco oltre  definiva “serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale. (…) Creare il clima, ritornare alla nobile e meravigliosa tradizione artistica italiana, interrotta sulla fine del secolo scorso dal trionfo del cattivo gusto borghese, anche attraverso a sconvolgimenti ed a travagli interni nell’animo dell’artista, intensi e talvolta dolorosi: fu il compito iniziale del fuoco vivificatore del fascismo. Così attraverso il ‘900, il futurismo, ecc. vennero fuori la poesia del motore, nuovo e meraviglioso per la sua sagoma audace e per  il suo ritmo sonoro, forte ed ardimentoso; il severo e rapido passo della vita nuova; la sinfonia della sanità morale; il canto della Roma dei Cesari.” (Andreis, 1933, p.  10)

La fotografia d’autore usciva dall’ambiente chiuso e ormai stantio dei Salon e si riconosceva un ruolo e un compito sociale e quindi politico, in linea con le direttive del regime e con l’uso efficace e spregiudicato che questo faceva di ogni forma di comunicazione di massa. “Documentare con la fotografia le realizzazioni della civiltà fascista che è la nostra civiltà” doveva essere l’imperativo di ogni fotografo moderno, “esaltarne l’infinita bellezza mediante la scelta felice delle immagini aderenti al nostro spirito (…) ecco la missione di cui è investito ogni fotografo italiano che della fotografia voglia fare, oltreché un diletto artistico per il proprio spirito, anche uno  strumento di educazione nazionale attraverso la glorificazione estetica dell’eccezionale periodo storico in cui abbiamo la fortuna di operare.” (Bellavista, 1934, p. 15)

Da qui anche  l’ampia attenzione per la vita fotografica nella Germania hitleriana dedicata da “Il Corriere Fotografico”  sottolineando ad esempio come “il Governo di Hitler sino dal suo avvento al potere si è valso della fotografia come mezzo di propaganda. Il volumetto [Willy Stiewe, Foto und Volk, 1933]  rispecchia assai bene questo nuovo spirito «nazionale» della fotografia tedesca. (…) Ecco un’opera che deve far meditare noi italiani: perché non seguiamo – almeno nel campo della fotografia – l’esempio che ci viene dalla risorta Germania, e magari cercare di far meglio?”[31]

Ancora Angeloni, nel già citato editoriale del 1934 ribadiva che “la stampa periodica politica e tecnica – della quale ultima il Corriere Fotografico si onora di far parte – i libri, la radio, la fotografia, la cinematografia sono tutti dei magnifici mezzi di propaganda, di lotta, di difesa e diffusione delle nuove idee e di conoscenza dei fatti realizzati. Tutti questi mezzi acquistano poi maggiore efficacia quando essi vengono raggruppati in un sol fascio di energie volte ad un unico fine e dirette da una chiara mente che sia sicura e fedele interprete della volontà e dei pensieri del Capo, del Duce.” (in Miraglia, 2001, p. 19)

In questo contesto va compresa l’ulteriore trasformazione del linguaggio fotografico e dell’attività di Bricarelli, che procedeva nel proprio personale percorso di revisione espressiva tanto da essere accolto sulle pagine di “Modern Photography”, il prestigioso annuario pubblicato dalla rivista londinese “The Studio” nel 1931, insieme ad autori come Herbert Bayer,  André Kertesz, Germaine Krull, Man Ray, Lazlo Moholy-Nagy ed altri.[32] Sono di questi anni alcune importanti immagini precisamente riferibili alla svolta modernista, come Nella cupola del parigino Gran Palais, 1931 (A33/15)  e Dal “Rex” nel porto di Genova, 1933 (A32/1), ma anche l’estensione della propria attività, seppure in modo apparentemente discontinuo, alla cinematografia documentaria[33]. Soprattutto però caratterizza questo periodo l’ulteriore e definitivo cambio di attrezzatura fotografica, col passaggio al piccolo formato e l’acquisto del primo apparecchio Leica, modello “C” a telemetro con obiettivi intercambiabili, di cui fu uno dei primi utilizzatori italiani.

L’adozione di questo nuovo strumento, con tutto quanto ciò doveva implicare i termini di modi operativi ed espressivi portò al definitivo abbandono dei residui stilemi pittorialisti spingendolo verso quella progressiva opera di “semplificazione” dell’immagine che era il concetto chiave intorno a cui ruotavano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni.

Se ne rese immediatamente conto Alberto Rossi che nel commento alle tavole di “Luci ed Ombre” del 1933 riconosceva che “fotografie come quelle di Bricarelli, di Pokorny, di Bologna, di Cesare Giulio, di Carlo Baravalle, di Guglielmo Alberti, mostravano come anche presso di noi un gusto europeo, vigile e avvertito, si stesse diffondendo anche nel mondo fotografico. Ora, in questa raccolta, lo stacco è ancor più deciso, la volontà di fare con la fotografia un’arte di pura rappresentazione impersonale, un’arte oggettiva, appare ancor più evidente [e] questa volta Bricarelli, che di solito si compiace di composizioni audaci e di angolazioni modernissime, ha avuto la civetteria di presentarsi con una fotografia estremamente tranquilla, di soggetto e di taglio, [Neve sui tetti /Hiver à Planpincieux, A32/19] come per far risaltare le sue qualità di puro fotografo.” (Rossi, 1933, p. XIV passim)

L’impegno di Bricarelli con il nuovo strumento divenne immediatamente esclusivo e verificato in importanti confronti quali il Concorso nazionale Leica indetto dall’Associazione fotografica Ligure nel 1935 (con Namias, Bologna e Andreis nella giuria) di cui vinse il primo premio nella categoria “A (opere e manifestazioni di regime)”, mentre la sua attività fotogiornalistica si estendeva alla moda, con collaborazioni diverse che andavano dal torinese “Bellezza” diretto da Lucio Ridenti, a “Donna” e  al “Secolo XX”, mostrando significative ricadute stilistiche anche sulla più riservata ritrattistica familiare, come mostra bene il doppio ritratto della moglie Gina con un’amica, riprese al Sestrière nel 1936 (SB0023).

Di ben maggiore fortuna e rilievo fu però il Concours de la meilleure Bobine Touristique Leica 1935 indetto dalla parigina Tiranty[34], che Bricarelli vinse guadagnandosi l’opportunità di un viaggio negli Stati Uniti a bordo del Normandie.

L’avventura americana è stata da lui stesso ampiamente ricostruita molti anni più tardi  in due gustosi ed esaustivi articoli (Bricarelli, 1975a,b) basati sulle annotazioni di un suo piccolo carnet di viaggio e costantemente richiamata da tutta la letteratura critica più recente. Durante quel viaggio, il 17 settembre 1936 incontrò a New York il grafico Paolo Garretto (Napoli 1903 – Montecarlo 1989) che lo presentò all’Agenzia fotografica Daniel, tramite delle collaborazioni con prestigiose testate americane quali “Harper’s Bazar” e “Ladies Home Journal”, per le quali realizzò intensi ritratti di giovani nobildonne italiane (A3/19, A4/12), ideale prosecuzione della serie delle Giovani fanciulle in fiore.   “Per varie ragioni” non poté accettare l’incarico di un reportage in Cecoslovacchia da parte del “National Geographic Magazine”, ma il contatto più prestigioso fu quello con la neonata  “Life”, che dopo avergli pubblicato a piena pagina in uno dei suoi primissimi numeri la notissima immagine delle Niagara Falls (A32/22), gli commissionò un reportage su Mussolini a Palazzo Venezia[35], poi realizzato il 16 gennaio del 1938 ed efficacemente risolto da Bricarelli  con una “concezione libera e moderna” (Miraglia, 2001, p. 21) che richiamava il primo notissimo modello dell’analogo servizio realizzato da Felix H. Man nel 1931 per la “Münchner Illustrierte Presse”.

L’esito non fu però apprezzato dal Duce, che di tutte approvò una sola immagine (SB0049), ma quell’incontro fruttò comunque a Bricarelli un periodo di assidua collaborazione con la “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, che utilizzò sue fotografie sia per il numero speciale della rivista dedicato alla visita italiana di Hitler, che Bricarelli fotograferà ancora al salone di Berlino dell’anno successivo[36],  sia nel giugno 1939 per celebrare la visita del  “Duce a Torino sabauda e fascistissima”, con bellissime immagini notturne di architetture torinesi, che si aggiungevano ad un repertorio tanto interessante quanto poco noto che in quel ristretto numero di anni avrebbe compreso anche le fotografie realizzate per documentare la Mostra dell’Autarchia di Torino e la Mostra Autarchica del Minerale Italiano di Roma.[37]

Il processo di aggiornamento avviato dieci anni prima con le riprese del Lingotto e definitivamente sottoposto a verifica nel corso del viaggio negli Stati Uniti era così compiuto: in queste immagini l’uso sapiente dell’illuminazione artificiale delle riprese notturne o in interni si coniugava con i più aggiornati e dinamici schemi compositivi, ormai ampiamente acquisiti e diffusi in una fase della vita nazionale in cui la pratica del consenso si sviluppava oltre che  con metodi coercitivi e violenti anche con un uso accorto e spregiudicato dei mezzi di comunicazione, non ultimo il massiccio ricorso ad enormi fotomosaici e fotomurali nell’allestimento delle grandi esposizioni, a partire da quella celebrativa del decennale della marcia su Roma, nel 1932. A testimonianza di un interesse non ancora condizionato dalla prospettiva bellica, anche la mussoliniana  “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” aveva pubblicato alcune delle sue bellissime fotografie del viaggio americano nel numero dell’ottobre 1938, a corredo di un articolo intitolato  Dollari, grattacieli, capogiri , ed altre erano state utilizzate nel 1940 sul mondadoriano “Tempo” a corredo dell’articolo Sbarcando a Nuova York (Zupàn, 1940), ma alcune di queste avevano già avuto la loro anteprima italiana al V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti che si era tenuto a Torino dal 29 maggio al 20 giugno 1937, aperto al Circolo  degli Artisti sotto la presidenza di Cesare De Vecchi di Val Cismon, già ministro dell’Educazione Nazionale. Qui Bricarelli aveva esposto, oltre ad un’immagine del Palazzo delle Poste di Napoli, le Niagara Falls, passate quasi inosservate e una ripresa dell’R.C.A. Building che Luigi  Andreis (1937, p. 10) aveva giudicato “modernissimo taglio di un grattacielo.”[38]

Con lo scoppio della guerra l’attività de “Il Corriere Fotografico” si fece difficile nonostante il sostegno economico – sotto forma di introiti pubblicitari – della Ferrania, che aveva nel frattempo acquisito anche il marchio Tensi e  dal 1935  era passata sotto il controllo dell’IFI, la finanziaria della famiglia Agnelli.

Nelle ristrettezze della guerra incombente e poi avviata e con un numero di pagine sempre più ridotto la testata dedicava i propri articoli quasi esclusivamente ad argomenti di carattere tecnico, e in particolare prestava la più costante attenzione all’ Avvenire e problemi della fotografia a colori, riflettendo così – quasi senza parere – uno dei maggiori sforzi prebellici nel settore fotografico, quello che aveva portato al confronto duro tra la statunitense Kodak (Kodachrome, 1935) e la tedesca Agfa, che commercializzò la pellicola per diapositive Agfacolor nel 1936, la sola disponibile in Italia sino al 1942- 43, quando dagli stabilimenti liguri uscirono le prime pellicole Ferraniacolor.

Le limitazioni imposte in regime di guerra portarono alla chiusura temporanea della testata, di cui all’inizio del 1944 era mutato anche l’assetto proprietario: la quota spettante ad Achille Bologna era stata infatti ceduta il 20 gennaio del 1944 ai coniugi Bricarelli, per passare venti giorni più tardi a Mario Carafòli “compresa la rivista al presente sospesa per disposizione del Ministero della Cultura Popolare”, i libri editi e gli arredi per un totale di Lire 40.000.[39]

Restava “Motor Italia” di cui Bricarelli conservava la direzione e la responsabilità quasi esclusiva della redazione e per la quale continuava a realizzare servizi fotografici sia di specifico carattere tecnico sia di informazione turistica e di varia cultura. Tra questi, a guerra ormai conclusa, anche il reportage dedicato a Bernard Berenson, fotografato nel 1947 ai Tatti, in compagnia di Clotilde Marghieri e di Guglielmo Alberti, amico di lunga data di Bricarelli, scrittore e assistente alla regia di Mario Soldati per Malombra, 1940, ma anche autore di interessanti fotografie pubblicate in “Luci ed Ombre” dal 1932 al 1934.[40]

Le immagini mostrano chiaramente quale fosse il suo modo di operare, descrivendo il personaggio attraverso una serie di riprese che lo colgono in momenti e luoghi diversi della sua giornata: dal giardino alle belle sale impreziosite di capolavori, in conversazione coi propri ospiti o solo a riposare sulla grande poltrona; la sequenza si chiudeva con il bel ritratto in primo piano (SB0091), col massimo punto di avvicinamento al soggetto, il centro del movimento di una spirale centripeta: un’immagine che ricorda per certi versi il ritratto che Henri Cartier-Bresson fece a Matisse, a Vence, nel 1944.

“Dopo quasi dieci anni di silenzio, sospesa prima dalle restrizioni della guerra e poi ostacolato dalle difficoltà post belliche” “Il Corriere Fotografico” riprese le pubblicazioni all’inizio del 1952, mentre Bricarelli estendeva la propria rete di collaborazioni ad altre testate come “Bellezze d’Italia” [41], con una ricca produzione di immagini di buon  livello prevalentemente dedicate a temi turistici,  a volte pubblicate con varianti anche su “Motor Italia”. Suggestioni della più diversa provenienza, dai grafismi di gusto Bauhaus alle forme più mature di composizione derivate dal pittoricismo, erano di volta in volta poste al servizio della risoluzione più efficace e formalmente soddisfacente del soggetto, analogamente a quanto accadeva negli stessi anni per un altro prolifico autore di poco più giovane come Bruno Stefani (1901 – 1978), collaboratore di lunga data del TCI per quella collana “Attraverso l’Italia” (cui contribuì anche Bricarelli) che tra il 1931 ed il 1955 aveva ridefinito  l’immagine del Belpaese pubblicando un repertorio di circa 10.500 immagini, distribuite in ventuno volumi.

Sebbene col 1954 Bricarelli fosse divenuto proprietario unico de “Il Corriere Fotografico”[42] la sua presenza sulle pagine della rivista era diminuita mentre lo stesso ruolo della rivista risultava progressivamente marginale in un contesto in cui, nonostante la presenza di Carlo Mollino, il “laboratorio” torinese aveva ormai perduto il proprio primato fotografico a favore del polo milanese, segnato anche dalla presenza di “Ferrania”, rivista che sin dai primi numeri era divenuta la sede privilegiata di confronto e dibattito dell’ultima generazione di fotografi che si stava affacciando sulla scena.

I primi evidenti segnali di questa mutata situazione si erano avuti già nel 1943. In quella che si definiva Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, curata da Ermanno F. Scopinich per l’Editoriale Domus in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner, Domenico Riccardo Peretti Griva era stato il solo rappresentante noto dei torinesi, cui anzi sembravano indirizzarsi gli strali più polemici di Scopinich e – ancor prima, nel 1941 –  di Alberto Lattuada[43]. Il volume, uscito a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di “Luci ed Ombre” (1934) – che ne costituiva di fatto il più autorevole precedente editoriale (ma non estetico) – rappresentava pur tra palesi contraddizioni la sintesi del dibattito italiano e della più generale svolta modernista, timidamente avviati proprio dal “Corriere Fotografico” ma poi proseguiti e affinati sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, e specialmente col contributo fondamentale delle riviste milanesi  dell’editore Gianni Mazzocchi. Neppure Carlo Mollino, che pure era stato gratificato di una copertina in uno degli ultimi numeri de “Il Corriere Fotografico”[44] d’anteguerra e doveva seguire con particolare passione un periodico tecnico come “Motor Italia”, si ricordò di Bricarelli nel suo Messaggio dalla camera oscura (1949), che pure ospitava Peretti Griva. La sospensione delle pubblicazioni della rivista per circa un decennio non pare sufficiente a giustificare un tale silenzio, quasi un ostracismo, ma è innegabile che la linea espressa dalla nuova serie del periodico si collocava ormai su posizioni esplicitamente conservatrici, sebbene arricchita da un’innovativa serie di articoli pionieristicamente dedicati a temi di storia della fotografia[45].

A restituire il clima basti qui citare a titolo esemplificativo il sarcasmo con cui  Maurizio Nèvola recensiva su quelle pagine la “Mostra della fotografia italiana 1953”, organizzata alla Galleria Vigna Nuova di Firenze da Giuseppe Cavalli,  giudicato uno che “per fare una foto, [“di una povertà desolante”] prima consulta il fotometro e poi Benedetto Croce”, per procedere poi a distribuire equamente i propri strali anche verso l’altro grande protagonista della nuova fotografia italiana, Paolo Monti, duramente attaccato per aver  “combinato – l’avreste mai creduto? – un «Fotogramma», cioè uno di quei vecchi giochetti talvolta gustosi, che però bisogna lasciar fare a Luigi Veronesi. Ha presentato il solito foglio nero, con le solite due o tre foglie d’albero macerate, e attorno dei pezzettini di materiale indefinibile disposti alla rinfusa. «Monti, sia buono, non ci dia più di questi dispiaceri».” (Nèvola, 1953)  Di tono non diverso appariva poi un successivo intervento di Guido Pellegrini, presidente del Circolo Fotografico Milanese,  in cui si individuava nel motto “Natura meno bellezza eguale astrattismo!” la formula magica della nuova fotografia soggettiva. (Pellegrini, 1954)

In questo clima conflittuale si collocava anche la poco entusiasta segnalazione del numero monografico di “Camera” dell’aprile 1956 dedicato all’Italia, dove erano riprodotte fuori testo “16 opere, alcune piuttosto discutibili, ma nella maggioranza assai belle” dovute ad un selezionato gruppo di autori della nuova generazione (con l’eccezione di Balocchi), tra i quali spiccava Fulvio Roiter, cui il prestigioso periodico svizzero dedicava anche la copertina, ed autore anche di uno dei due articoli di commento, essendo l’altro di Italo Zannier.

È proprio verso le opinioni espresse in quegli scritti che Bricarelli esprimeva tutto il suo disaccordo, specialmente quando sostenevano le qualità e i meriti del professionismo contro l’atteggiamento dilettantistico[46] degli amateur nostrani, “che concepiscono la fotografia come un «hobby», un passatempo che occupa le ore libere della settimana” (Roiter in Bricarelli, 1956a), attaccando conseguentemente, ma anche strumentalmente, il ruolo dei circoli fotografici  italiani per concludere che “la causa remota è da ricercarsi nell’assoluta mancanza di riviste specializzate e di editori che abbiano il coraggio di intraprendere un intelligente e razionale lavoro editoriale che abbia come base di sviluppo la fotografia.” (ibidem)

Il disappunto, e il dispiacere credo, non avrebbero potuto essere maggiori per chi, come Bricarelli, si era impegnato da sempre per la cultura e nell’editoria fotografica, difendendo come un punto d’onore[47] la propria qualifica di “dilettante”, più una categoria dello spirito che una condizione produttiva per lui, che aveva pubblicato e diretto riviste che si caratterizzavano proprio per l’innovativo ed ampio uso della fotografia.

Erano i termini duri di uno scontro generazionale che non consentiva mediazioni né comprensioni reciproche tra i giovani autori ed il più autorevole e ormai appartato esponente di una generazione che Zannier definiva dei “primitivi” che avevano praticato il “pittoricismo fotografico”.

Non che sulle pagine de “Il Corriere Fotografico” non ci fossero timide aperture ai nuovi autori internazionali:  lo dimostrano i brevi profili della rubrica Fotografi d’oggi  dedicati tra gli altri a Werner Bischof (1/1955), édouard Boubat (9/1956), Jean-Pierre Sudre (12/1956),  Renè Burri (5/1957) e Chargesheimer (5/56), di cui però si presentano solo i ritratti e non le ben più problematiche fotografie concrete,  mentre il numero di agosto del 1955 dedicava amplissimo spazio a Paul Strand , definito “fotografo illustratore americano di grande e non recente fama”, per presentare il volume einaudiano Un Paese, realizzato con Cesare Zavattini. Niente però che avesse a che vedere per qualità dell’approfondimento critico e rilevanza editoriale col puntuale ed  affettuoso ritratto dedicato a Guido Rey nel ventennale della scomparsa[48], corredato della riedizione del suo scritto del 1908 Fotografia inutile?, già comparso a suo tempo (1925) sulle pagine di “Luci ed Ombre”.

La vera novità di quegli anni nella produzione di Bricarelli era costituita dal ricorso sempre più frequente e sistematico all’uso del colore, sotto forma di diapositive nel formato 6×6, realizzate con la biottica Rolleiflex a partire dalla metà degli anni Cinquanta ed utilizzate sia in “Motor Italia” che per le copertine del “Il Corriere Fotografico” sin dalla ripresa delle pubblicazioni, sovente accompagnate dall’indicazione pubblicitaria “da Ferraniacolor”.[49] Nella novità del materiale fotografico a colori Bricarelli ritrovava l’opportunità di verificare e vivificare temi più volte affrontati quali le reti e le vele o l’infinita varietà dei paesaggi italiani, dimostrando una grande sensibilità per questa materia nuova, per le sue specifiche possibilità. Non era infatti un semplice adeguamento, una pura aggiunta cromatica a schemi compositivi predefiniti: il colore diventava l’elemento condizionante ed il vero soggetto dell’immagine, in tutte le sue sfumature, sino a sfiorare volutamente la soglia del monocromo. Negli anni in cui la nuova fotografia italiana e internazionale prediligeva l’uso drammatico del bianco/nero, l’anziano fotografo accoglieva le suggestioni non solo cromatiche delle coeve esperienze artistiche, dal Nouveau Réalisme alla Pop Art, ricercandone fotograficamente le involontarie tracce nella realtà delle cose del mondo. (A21/5_1, 2)

“Il Corriere Fotografico” chiuse definitivamente nel 1963, mentre Bricarelli mantenne la direzione di “Motor Italia” sino al 1976, assicurando ad essa “una costante unità di stile” dovuta al fatto che “durante il primo mezzo secolo di vita della Rivista gran parte delle foto in essa riprodotte erano state [da lui] riprese.” (Bricarelli, 1979, p. 14). Dopo quella data la conclusione della principale attività professionale gli offrì il tempo e l’opportunità di rimeditare la propria ingente produzione fotografica[50], distribuita lungo l’arco di almeno sessant’anni e di avviare una piccola serie di titoli che quasi senza parere la riassumevano.

Già nel 1968 aveva pubblicato L’auto è femmina, antologia di venti anni di fotografie dedicate alle carrozzerie torinesi, di fatto il suo primo libro fotografico, cui fece seguire nel 1976 – ormai quasi novantenne – la sua prima monografia antologica, segnata però da un significativo spostamento di accento:  in quel volume tutta la sua produzione veniva riproposta in termini documentari, con la descrittività a prevalere sull’interesse per il possibile valore e significato artistico. Queste fotografie entravano così a far parte di un differente discorso, ribaltando la consueta freccia direzionale di queste trasformazioni: non dall’archivio al museo, dal documento all’opera, ma viceversa. In questo mutamento di prospettiva anche il  pittoricismo delle prime prove era recuperato come documento etnografico semplicemente evidenziandone il contenuto referenziale, denotativo: Piemonte di ieri & Romantica valle d’Aosta  voleva essere nelle parole del suo autore “un album per rievocare la nostra regione qual’era quando la mia generazione aveva aperto gli occhi e quelle immediatamente antecedenti vi erano vissute” , e come tale venne letto dalla maggior parte dei commentatori.

Tra questi merita di essere ricordato Mario Soldati, che su “La Stampa” del 24 aprile 1976 chiedeva di prestare particolare attenzione ai testi a corredo delle immagini: “certo le fotografie sono fatte perché le vediamo: ma, e se, per capire queste sino in fondo, si dovesse cercare la chiave nelle didascalie?”

Indicazione niente affatto retorica o d’occasione, cui  sembrava corrispondere lo stesso Bricarelli quando nel 1979 poneva in apertura della sua seconda monografia, esplicitamente intitolata alla memoria, una puntuale citazione da Walter Benjamin: “La macchina fotografica diventa sempre più piccola e sempre più capace di afferrare immagini fuggevoli e segrete (…) A questo punto deve intervenire la didascalia, che include la fotografia nell’ambito della letterarizzazione di tutti i rapporti di vita, e senza la quale ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa. (…) La didascalia non diventerà per caso uno degli elementi essenziali dell’immagine fotografica?”[51]

Quasi un epitaffio scelto in vita per chi – come lui – aveva accompagnato fotografia e parola, da sempre.

Note

 

[1] Bricarelli, 1979, p.  9. La sua vicenda artistica e professionale è stata in più occasioni delineata dallo stesso Bricarelli, ma questo mio saggio e la mostra da cui origina non avrebbero mai potuto assumere la loro forma attuale senza il costante e competente sostegno della figlia Carla, cui vanno i miei più sentiti ringraziamenti non solo per la grande disponibilità dimostrata, ma anche (e specialmente) per la determinazione e l’affetto con cui ha sempre operato per la tutela e la migliore valorizzazione del patrimonio fotografico paterno.

[2] L’Esposizione del 1902 e le vicende strettamente connesse de “La Fotografia Artistica” sono state studiate da Costantini, 1990 e 1994 e recentemente riprese in Cavanna, 2000, cui si rimanda per eventuali approfondimenti. Dopo la chiusura della rivista (gennaio-febbraio 1917) Cominetti partecipò ancora alla vita fotografica torinese e italiana come membro di commissioni e di giurie della grande esposizione del 1923 dedicata a L’arte nella fotografia. Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia, aperta al Palazzo del Giornale al Valentino  su iniziativa della Camera di Commercio Torinese. Due anni più tardi gli venne affidata la direzione de “Il Fotografo”, rivista già diretta da Felice Baratelli, redattore Celeste Ferdinando Scavini, che aveva sede a Torino, in via Cernaia 18 (poi in via Accademia Albertina, 1) ed era verosimilmente finanziata dalla Bayer, come sembrano dimostrare i diversi e insistiti richiami ai prodotti dell’industria tedesca. Cominetti riassunse allora il ruolo di direttore di un periodico fotografico, ma senza ripetere il successo dell’impresa precedente. Così nel 1932 la sua morte non venne ricordata neppure sulle pagine del “Corriere Fotografico”, per molti versi solo erede di quel generoso e imperfetto tentativo di avviare una prima riflessione italiana sulla natura della fotografia.

[3] Il riferimento è alla teoria in onore tra pittori e fotografi francesi intorno alla metà del XIX secolo e che Delacroix, tra i più attenti ad un uso positivo della fotografia, aveva applicato al calotipo: “Les photographies qui saisissent davantage sont celles où l’imperfection même du procédé pour rendre de manière absolue, lasse certaines imperfections, certain repos pour l’œil qui lui permettent de ne se pas fixer que sur un petit nombre d’objets.” (dal “Journal”, 1859, citato in Challe, 1996, p. 24)

[4] Orengo, 1979, p.  6. Forse il termine più adatto sarebbe “spensierati”, con un riferimento non troppo implicito al quasi coetaneo Lartigue (1894 – 1986), richiamato anche in Racanicchi, 1994.

[5] La questione della paternità del trattamento dei materiali fotografici di Bricarelli è incerta e le stesse sue testimonianze contraddittorie: così se nel 1979, p.  12 dichiarava che “fin quando impiegai come materiale negativo le lastre le sviluppai sempre di persona”, nell’intervista rilasciata alla figlia Carla circa dieci anni più tardi ricordava che “le fotografie che scattavo nel corso di queste gite le portavo poi a sviluppare in un piccolo laboratorio.” (Bricarelli, 1988, p.  34) Per sapere quale potesse essere il laboratorio in questione è utile risalire ad un testo ampiamente antecedente dedicato alla Ditta Bietenholz & Bosio che aveva sede in Via Arcivescovado all’angolo con piazza Solferino “proprio sul percorso che facevo quattro volte al giorno per andare e tornare dal Ginnasio-Liceo dell’Istituto Sociale”, ditta trasferitasi poi in Corso Oporto presso Corso Re Umberto dove possedeva anche un proprio laboratorio fotografico diretto da Carlo Moncalvo, trasferitosi a Torino da Francavilla Bisio (AL) per fare l’operatore fotografico e cinematografico. Fu lui ad iniziare il giovane fotografo “al trattamento della carta al carbone Illingworth e di quella alla gomma bicromatata Höccheimer (entrambe introdotte in Italia dalla Bietenholz & Bosio), le quali davano modo di ottenere – soprattutto la seconda – quelle stampe cosiddette ‘interpretative’ allora tanto in favore ed ormai ben a ragione abbandonate.” (Bricarelli, 1956b, p.  37) Nacque così un rapporto di amicizia e collaborazione che, dopo la precoce scomparsa di Carlo nel 1935, proseguirà per tutta la vita col figlio Riccardo, a sua volta una delle più importanti figure della fotografia modernista torinese.

[6] Reduce dall’Esposizione di Dresda, Cesare Schiaparelli (1909, p. 46) esortava a ricordare che “nessun processo è migliore dell’altro, perché tanto sono perfette le gomme degli austriaci quanto i carboni degli inglesi, i platini di certi americani od i bromuri e gli höcheimer dei tedeschi, secondo i soggetti per i quali ogni sistema di stampa è specialmente indicato.”

[7] Luglio a Sauze d’Oulx, pubblicato ne “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 8-9, agosto – settembre, col titolo Julliet à Lanze d’Osilia (sic).

[8] Alla porta di casa (Costume di Val di Susa),  “Il Corriere Fotografico”, 8 (1911), n. 4 aprile, p. 1585.

Sul Monginevro e Cappella Alpina, “Il Corriere Fotografico”, 8 (1911), n. 12 dicembre, pp. 1767, 1776.

Due Studi di paese, “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 3 marzo, pp.  1857-1858.

Studio alpino,  “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 5 maggio, p. 1914.

Due paesaggi a corredo dell’articolo anonimo La Fotografia degli Alberi,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 1 gennaio, pp. 2086-2088.

Tre paesaggi, tra cui Giorno di febbraio sulle Alpi, a corredo dell’articolo anonimo Fotografie invernali,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 3 marzo, pp. 2134-2138.

Particolare della facciata di una chiesa in Val di Susa a corredo dell’articolo anonimo Fotografie d’Architettura,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 7 luglio, pp. 2230-2236.

Nella via maestra, Processione in montagna e Scene d’accampamento a corredo dell’articolo Istantanee artistiche, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 8 agosto, pp. 2255 – 2260.

Il Gran Paradiso da ovest nelle pagine dedicate al concorso per Fotografie Alpine,  “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 1 gennaio, p.  2382.

Il ritratto della Signorina M.M.C.B. nelle pagine dedicate al concorso per Ritratti femminili,  “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 3 marzo, p. 2439.

Cavalli al fiume. nelle pagine dedicate al concorso per Fotografie di animali, “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 7 luglio, p. 2570.

[9] Chevaux à l’aubrevage (1911), The House in the Snow (1911), Encampment Life (1912), Procession au village (1912), A Summer Impression (1912), Pour nos soldats (1914), The Far-off Village (1916), A l’ombre de l’église, s.d.,  The Harvester, s.d.  La consultazione in estratto delle sole tavole, con indicazioni cronologiche autografe, non ha consentito una più puntuale individuazione dei fascicoli.

Per un eventuale ulteriore approfondimento potrà essere utile il regesto delle opere presentate alle edizioni annuali del London Salon of Photography: 1915: Pour nos soldats, Church by Moonlight; 1916: Procession au Village; 1917: The Scout (A View of the War in the Alps); 1919: The far-off Village; 1925: Two Ages, Bard Vallée d’Aoste; 1926: The Edge of the Cliff, Ripples, The Abyss , The Mountain Past ; 1931: Sails Drying, Lumber; 1932: Domatori, Tracce.

[10] Sulla figura di Schiaparelli oltre agli studi generali dedicati alla cultura fotografica torinese di inizio Novecento (Costantini, 1990 e 1994; Miraglia, 1990) si vedano Sentieri di luce, 2002;  Schiaparelli, 2003.

[11] Bricarelli, 1913.  Il suo intervento e alcune sue immagini di quegli anni come Processione a Oulx, possono essere utilmente confrontati con quanto scrisse anni dopo lo zio Carlo (Bricarelli, 1924, pp.  6-7), gesuita con studi in architettura e poi in matematica, sulle pagine di “Luci e Ombre”: “Bisogna imparare a vedere: a vedere i crocchi de’ contadini sulla fiera, e ne’ profili, negli scorci, nelle stature, nelle complessioni, ne’ gesti, scorgere linee, intrecci, elementi di composizioni pittoriche: vedere nello sfilare d’una processione la varietà e l’armonia insieme di cappe, di cotte, di gonfaloni e di croci, linee frastagliate e gruppi e bozzetti, e atteggiamenti, e colori. Molto di nuovo e di bello si scoprirà scegliendo bene il punto di vista, e l’angolo giusto da rinchiudere in un quadro o una prospettiva.”

[12] Quest’immagine – forse la più nota del periodo pittorialista di Bricarelli venne ripubblicata in antiporta della terza  edizione del volume di Castruccio, Come riuscire in fotografia (1922) quindi ancora nel 1930, col titolo Light from Heaven, dallo stesso Tilney nel suo manuale The Principles of Photographic Pictorialism, testo ormai fuori tempo massimo in quell’anno, che si apriva con la solenne dichiarazione  “This book is not for the beginner in photography but for the beginner in art.” (p. I)

La tesi principale dell’autore che “The beginning of photography were pictorial” (5) corrispondeva alla prospettiva con cui Heinrich Schwarz leggeva negli stessi anni l’opera di Hill e Adamson (Costantini, 1992) e riconfermava i riferimenti fatti propri da una parte degli autori presenti alla grande esposizione di Stoccarda del 1929 Film und Foto, mentre l’affermazione contenuta poco oltre  “There is olny one « Art »: it is «universal»; it was, and still is and must always be” (p. 22) è quasi una traduzione letterale della già citata frase di Léon Vidal pubblicata nel 1904 nel primo numero de “La Fotografia Artistica”.

Va segnalato in ultimo che la foto di Bricarelli, conosciuta forse proprio per il tramite del volume di Tilney, ha costituito un riferimento preciso per un’immagine del ciclo The Church, 1991, di Andres Serrano (New York, 1950).

[13] Un’immagine di quest’ultimo, cui lo legavano stretti legami di parentela, pubblicata in “Luci ed Ombre” del 1924 (tav. XXIII) col titolo Botta e risposta, venne utilizzata da Bricarelli nel 1976, p. 67 senza segnalarne la diversa paternità, quindi esposta a suo nome nella bella mostra antologica al salone torinese de “la Stampa” del 1983, ristampata da Riccardo Moncalvo.

[14] Già nel 1915 Bricarelli aveva pubblicato Artiglieria da montagna  e Riposo  nelle pagine de “Il Corriere Fotografico” dedicate al concorso per Fotografie militari,  12 (1915), n. 1 gennaio, pp.  2683-2684, bandito prima dello scoppio della guerra “quando in Europa gli eserciti servivano a pacifiche parate, ed a far  schioppettare delle cartucce a salve”, mentre nel 1917 era stata esposta con il n. 327 al London Salon of Photography The Scout (A View of the War in the Alps), un’immagine molto efficace e forte poi pubblicata in Photograms of the Year, 1917-1918, p.  XLIII accompagnata da questo commento di W.R. Bland: “The paramount call of duty is poignantly sounded in The Scout, in which decoration is called in as if to alleviate, if only by a hair, this everyday aspect of the hardships of a soldier’s lot. The picture has a remarkable dramatic force and truth.” (Bland, 1918, p. 17)

[15] Avevo vent’anni quando sono andato al fronte – dirà André Kertész a proposito della sua esperienza durante il primo conflitto mondiale – Credo che la mia macchina fotografica mi abbia aiutato a sopravvivere.” (Citato in Borhan, 1998, p. 8).

[16] Poi ripubblicato come Proust 1925  in Giacomo Debenedetti, Rileggere Proust, Milano, Mondadori, 1982, pp. 90-91.

[17] L’esposizione si tenne dal 19 dicembre 1925 al  10 gennaio 1926 presso la Galleria centrale d’Arte, via Po 4 Torino, sotto gli auspici del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e della Società Fotografica Subalpina, gestita da un Comitato permanente presieduto da Teofilo Rossi di Montelera con Giuseppe Ratti vicepresidente, di cui  facevano parte anche Italo M. Angeloni, Alfredo Laezza, Guido  Rey e Cesare Schiaparelli, con Sem Benelli, Gino Pestelli, Edoardo Rubino ed Emilio Zanzi,.

Parteciparono 227 espositori di 22 nazioni diverse; tra gli italiani, oltre al gruppo compatto dei torinesi, si segnalarono Bragaglia, Sella e Wulz, mentre il panorama straniero spaziava da Drtikol a Mortensen, da Dubreuil, a Sudek, da Funke a Ortiz-Echagüe e Polak in un mescolarsi di tradizionalismo pittorialista e influenze del nuovo.  Risultava assente Guido Rey, che aveva scritto a Bricarelli per declinare l’invito ad esporre non avendo lavori nuovi da inviare e un poco intristito dalla giornata e dalla vecchiaia che avanza: “il fotografo pur sente più del consueto la neve che gli è caduta sul capo negli anni.”, lettera del 3 luglio 1925, in Archivio Bricarelli, Torino.

[18] A questa immagine, tra le più note realizzate da Bricarelli in quegli anni e immediatamente pubblicata anche in “Photograms of the Year”, 1926, tav. XLIV e “Luci ed Ombre”, 1926, tav. VIII, si richiamerà esplicitamente Carlo Matis con Mistica, presentata al V Salone del 1937 (377).

[19] Dal 15 gennaio 1924 il Gruppo ebbe la propria sede presso gli uffici torinesi del “Corriere Fotografico”, in via Stampatori 6, dove  erano “a disposizione dei Membri residenti in Torino e di quelli di passaggio una estesa biblioteca artistico-fotografica e tutte le Riviste di fotografia che si pubblicano nel mondo.”

[20] “Luci ed Ombre” 1926, pp. 7-9  in cui l’annosa disputa sul carattere stilistico della fotografia veniva “risolta in una nuova riflessione circa la sua presunta verità” (Costantini, 1990, p. 11).  Anche Rey era stato chiamato a far parte del Comitato promotore della rivista (“Caro Bricarelli, il compito che la sua amicizia m’impone non è facile, ma, se Ella mi aiuta, cercherò di adempiervi come meglio io sappia. (…) Sono lieto che la sua iniziativa sia per avere buon esito e Le do tutta la mia simpatia. Dev. Guido Rey”, lettera del 15 luglio 1922, Archivio Bricarelli, Torino) e la prima tavola del primo numero (1923) sarà proprio la sua L’attesa, mentre nel volume del 1925 venne riproposto il suo scritto Fotografia inutile? del 1908.  Se consideriamo ancora la parziale riedizione nel 1926 di un testo di Thovez del 1898 si può credere che il Gruppo volesse ancora poggiarsi all’autorevolezza dei maestri della generazione precedente, o – come sosteneva Costantini, 1987, p. 29 – che intendesse “ribadire la continuità della tradizione” torinese.

[21] Si vedano a questo proposito le immagini pubblicate in Bianco su bianco, 2005.

[22] “l’astrattismo di Bricarelli, alla tav. 17 [Tracce], è documentario pur non parendo. Era tuttavia meglio che paresse…Qui se il pericolo [dell’astrattismo] non c’è, lo rasentiamo.” (Pellice, 1932, p. XVI).

[23] “Umile soggetto, concepito ed eseguito in quella forma e tecnica singolarissima, che fa d’ogni bromuro dell’Artista torinese un’opera densa di pensiero e suggestiva all’anima. Altre volte abbiamo detto come il Bricarelli si compiaccia dei forti contrasti di linee e di piani, di ombre e di luci, dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande: contrasti che egli sa rendere sulla lastra e far accettare temperati ed addolciti da un’armonica connessione di parti. Minuscoli esseri umani in una vasta solitudine di nevi o di ghiacciai; il formidabile scafo d’una nave in un piccolo specchio d’acqua, l’immensa mole di cataste di legna sovrastante ad un breve primo piano suscitano potentemente nell’animo di chi osserva il senso della realtà.” (De Albroit, 1932)

[24] Angelo d’Orsi (1987) ha ricostruito nel dettaglio le brevi e difficili relazioni tra Bricarelli e Persico, che aveva “trovato un posticino” a “Motor Italia” forse per intercessione “dei pittori di Torino” –  come ricordava Bricarelli – o più verosimilmente di Emilio Zanzi, il critico della “Gazzetta del Popolo” da lunga data collaboratore anche del “Corriere Fotografico”.

“Per me è stato un fallimento completo – ricorderà Bricarelli, intervistato da D’Orsi nel novembre 1985 – Che fosse una persona geniale lo capivo: ma era uno sfaticato di prim’ordine. (…) Io gli davo uno stipendio modesto, ma, per quei tempi, non era disprezzabile: mille lire al mese. (…) Io ero ai primi anni della rivista e avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse [ma] il lavoro redazionale di Persico si è concentrato tutto in un articolo [in realtà furono tre]” (citato in D’Orsi, 1987, pp. 39-40). Tale situazione conflittuale è confermata anche da un’informativa della Prefettura di Torino dell’ottobre 1929: “Persico Edoardo (…) segnalato, in via confidenziale, a codesto on. Ministero, come elemento antinazionale (…) fu pure alle dipendenze della Rivista «Motor Italia» che lo esonerò dall’impiego per scarso rendimento.” (Ivi, p. 43)

[25] D’Orsi, 1987, p. 38. Una rassegna critica delle diverse letture del Lingotto è stata ordinata da Buffa, Ortoleva, 1994.

[26] Brezzo, 1929, pp.  778-779. Il senso dispregiativo assegnato all’aggettivo “futurista”, già utilizzato per denigrare la sala casoratiana “degli analfabeti” alla Quadriennale torinese del 1919, corrispondeva a quella “radicata avversione con cui (…) i più vasti strati del pubblico continuarono a guardare a tutto ciò che si fosse discostato dalla più tradizionale visualizzazione dell’oggetto” di cui ha parlato a suo tempo Angelo Dragone (1978, p. 192), ricordando il retroterra di “disinformazione e pregiudizio” di un ambiente artistico e culturale che aveva tra i propri punti di riferimento Enrico Thovez  (direttore della Galleria civica d’Arte Moderna dal 1913 al 1921), il critico che aveva accusato di “degenerazione artistica” le opere di Degas, Renoir e Manet ed aveva definito “terroristi della pittura” autori come Cézanne, Gauguin e Van Gogh. Lo stesso termine venne utilizzato dal critico de “La Stampa” Ugo Pavia per commentare alcune delle opere presentate nel dicembre 1925 al «Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale»:  rilevando la novità costituita dagli artisti russi e cechi, il “cubista Drtikol”, il suo discepolo Funke ed il polacco Dederko,  parlava infatti di “questi artisti-fotografi futuristi [che] anche se non persuadono, destano però molta curiosità nei visitatori.”  E ancora:  “Si rallegrino i futuristi: la teoria del “volume” e quella della “sintesi” è accettata anche dagli artefici dell’obiettivo” (Pavia, 1925)

Ancora nel 1931, quando a Torino si aprì la Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista l’uso del termine avrebbe presentato, su entrambi i fronti, alcune indecisioni: “Ecco oggi la “Fotografia Futurista”! – scriveva in catalogo Giuseppe Enrie (1931, p. 3) – Ultima, in ordine di tempo, essa non si accoda ma si lancia nel movimento totalitario che ha ormai investito tutta l’Arte e decisamente tenta le vie di una espressione nuova e generosa. (…) Ma non occorre diventare eccessivamente spregiudicati ed aconvenzionali, basterà rimanere liberi e sinceri per subire la suggestione di opere come quelle che figurano in questa prima Esposizione Sperimentale”.

Contro la Mostra si scagliò Guido Lorenzo Brezzo (1931, pp. 10-11) nel testo di apertura di “Luci ed Ombre” del 1931, facendosi evidentemente portavoce delle opinioni del gruppo redazionale. Il testo si basava sull’assunto che “l’artista vero è sempre naturalmente moderno (…) il pseudo-artista vuole essere moderno, vuole essere futurista, perché non può essere artista. (…) E d’altra parte che cos’è cotesta novissima modernità che si decanta come la sola, la definitiva perfezione dell’arte in genere e della fotografia in ispecie? [Essa ha] per soggetto fondamentale la macchina, realtà monofronte a solo aspetto pratico, essenzialmente limitato e temporaneo, sterile perciò di trascendenza e incapace, salvo rari casi e speciali, di servire d’oggetto all’atto d’intuizione estetica. Inoltre la frequenza del soggetto macchina ingenera negli operatori un’abitudine di visione meccanica, che viene trasferita a qualsivoglia soggetto sia di tipo naturale (figura o paesaggio) che artificiale (architettura).”

[27] Angeloni, 1926, p. 242. Anche un altro critico torinese parlerà di lì a poco di immagini  “che ci fanno pensare a Maggi, a Chiariva, a Pollonera ad Avondo e Calderini”, (Bernardi, 1927, p. 10).

[28] Nella sala del Gruppo Piemontese erano esposte opere di Francesco Agosti, Carlo Baravalle, Achille Bologna, Stefano Bricarelli, Placido Eydallin, Cesare Giulio, Piero Oneglio, Ugo Pasteris e Sergio Perdomi, mentre le altre ospitavano, tra gli altri,  i lavori di Adolfo Hess e Maurizio Reviglio.

[29] Il nuovo statuto fu redatto dal Presidente Baravalle avendo quali membri del Consiglio direttivo Agosti, Bologna, Bricarelli, Giulio, Corinaldi e Vittorio Ambrosio (“Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 3, marzo, p. 49).

[30] Su questi temi si veda Miraglia, 2001, pp. 13, 25 passim.

[31] Recensione al volume di Willy Stiewe, Foto und Volk. Halle-Saale: Wilhelm Knapp, 1933, “Il Corriere Fotografico” , 31 (1934), gennaio, p.  32. L’esaltazione del modello culturale nazista raggiungerà il proprio imbarazzante e inqualificabile apice nel 1938 quando, in un breve ritratto del fotografo personale di Hitler,  Federico Ferrero, che sarà redattore ancora nel dopoguerra, dichiarava che “Heinrich Hoffmann è qualcosa di più di un semplice fotografo o fotogiornalista: egli è l’amico intimo, il confidente di Adolfo Hitler, il quale per mezzo di Hoffmann sa valersi abilmente di quel potentissimo mezzo di propaganda che è l’obiettivo fotografico per diffondere non dico la propria immagine – ché Hitler è timido e rifugge dalla facile popolarità – ma soprattutto le gesta e le opere del regime Nazista, dalle più importanti alle meno salienti.” (Ferrero, 1938).

[32] Di Bricarelli venne pubblicata Aurora Umbrarum Victrix ( Modern Photography, 1931, p. 22), già molto apprezzata in Italia. Nel commento di  Guido Lorenzo Brezzo (1930, pp. 774-777) “Aurora umbrarum victrix di Stefano Bricarelli, fissata a lungo ad occhi semichiusi, porta la fantasia dell’osservatore in mezzo all’oceano dello spazio e lo fa assistere da un punto fuori del tempo all’erompere del primo giorno in mezzo alle tenebre del caos”, mentre per Cesare Meano (1930, p. 14) si trattava di “una composizione piena di audace ingegnosità e di strani effetti”. Le sole altre immagini di autori italiani pubblicate in questo annuario furono La scia di Cesare Giulio (81) e La spiaggia di Achille Bologna (876).

[33] Nel novembre del 1931 realizzò per la Cines-Pittaluga Bacini di carenaggio a Genova, un documentario di 9’ su testi di Emilio Cecchi, di cui fu regista e direttore della fotografia, mentre al 1936 risale la sua sola altra prova nota: Sulle orme di Dante esule per la regia di Teonesto Deabate e con la collaborazione di Onorato Castellino, già fondatore e direttore, con la moglie Francesca, di “Cuor d’oro” un periodico per ragazzi (1922-1927) con belle copertine disegnate dallo stesso Deabate, ma anche da Massimo Quaglino, Giulio Da Milano e da un giovanissimo Giulio Carlo Argan “ancora incerto sul proprio avvenire”, D’Orsi, 2000, p. 93.

Troppo scarse sono ancora le nostre conoscenze su Bricarelli regista e cineoperatore, ma non possiamo escludere che questo ampliamento di mezzi espressivi fosse in relazione con quella politica di  “lotta, di difesa e diffusione delle nuove idee” che – come abbiamo visto – “Il Corriere Fotografico” condivideva.

[34] La “Revue Leica”, 3 (1936), n. 15, mai, nel comunicare l’esito del concorso pubblicava l’intero rullo di immagini realizzate da Bricarelli (che per ragioni di opportunità era indicato come residente a Nizza) per adempiere alle condizioni del concorso, considerate dalla giuria “d’une qualité tout à fait exceptionelle. M. Bricarelli peut être fier, puisque sa bobine est assurément une des meilleures bobines Leica, que nous ayons vues jusqu’à ce jour.” Altre sue fotografie del sacrario dedicato a Cesare Battisti a Trento furono pubblicate in copertina e all’interno del n. 26, mars – avril 1938, della medesima rivista.

[35] In quell’occasione nacque – su proposta di Garretto accolta da Mussolini – l’idea di realizzare un servizio propagandistico sui confinati a Ponza, da proporre a “Life” per “sfatare il confronto del confino con la deportazione in Siberia” (Bricarelli, 1979, p. 34), ma la testata non pubblicò mai le immagini. In una lettera a Garretto del 7 settembre 1938 Wilson Hicks, il primo editor fotografico di “Life”, proveniente dall’Associated Press, accennava ad una plausibile spiegazione, forse diplomatica, delle ragioni per cui il giornale non avesse usato “the fine pictures you sold to it last winter. The editors saw and were greatly impressed with Mr. Bricarelli’s and yours sets of fine photographs showing Mussolini, various ministers and their ministries, the documentation of a labor appeal case, Il Confino (sic) and other valuable pictures which now are in our files. LIFE’s ways sometimes are hard for persons who are not familiar with our peculiar handling of pictures to understand.” (Archivio Bricarelli, Torino).

[36] Si veda “La Rivista illustrata”, 16 (1938), n.4, con altre fotografie dell’Istituto LUCE, della Regia Aeronautica, del tedesco F.F. Bauer (che aveva fotografato il Congresso nazista di Norimberga dello stesso anno), di Giulio Parisio, di B. Morgagni (forse in relazione col Direttore Manlio Morgagni), di Raimondo Niccolini e di Bruno Stefani. Il servizio sul salone di Berlino comparve invece in “La Rivista illustrata”, 1939, n.4, pp. 70-71. Alcune di queste fotografie vennero poi riedite in Italia Imperiale, edizione speciale della “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” pubblicata nel  1937 per la cura del suo condirettore Manlio Morgagni.

[37] Si vedano rispettivamente “La Rivista Illustrata”, 16 (1938), n. 11, pp. 97-104 e “La Rivista Illustrata”, 17 (1939), n.1, p. 90 passim.

Nella mostra fotografica Il volto e l’anima di Torino fascista che si era tenuta a Palazzo Lascaris nel febbraio del 1937 con un centinaio di fotografie di Bertoglio, Bellavista, Schiaparelli, Andreis, Zumaglino, Moncalvo, Fecia di Cossato e altri, Bricarelli non risultava presente, cfr. “Il Corriere Fotografico”, 34 (1937), n.3, marzo, p. 77.

[38] Andreis 1937, p. 10. Nella stessa occasione Angeloni aveva sottolineato che “il numero maggiore delle fotografie italiane qui esposte fu operato negli anni più tragici ed eroici del nostro dopoguerra; l’assedio economico, le barriere, le jugulazioni dirette dal capitalismo straniero contro il giovane Fascismo avrebbero dovuto deprimere ogni azione specialmente in campo artistico. Il V Salone dimostra invece il contrario. (…) gli Italiani hanno ben imparato il mussoliniano «saper fare da sè»” (Angeloni, 1937, p. 134).  Procedendo nella  rassegna delle più significative presenze straniere segnalava (ivi p. 161) “l’amore della cosa nuova, del taglio originale [che] occupa in tutte le sue espressioni l’arte di Renger Patzsch”: una presenza sorprendente e quasi inosservata.

[39] Copia dell’atto in Archivio Bricarelli, Torino. Carafòli, fotoamatore e redattore de “La Stampa”, sarà tra i collaboratori del “Corriere” ancora negli anni ’50, con articoli di forte opposizione ideologica alla fotografia neorealista:  “Ma ascolti solo sé stesso – scriverà rivolgendosi a Luciano Ferri – e diffidi della rivista e delle biblioteche comunali che – con i fondi della borghesia e le tasse di tutti i contribuenti – fanno della propaganda marxista.” (Carafòli, 1957).

[40] Si vedano Alberti, 1959; Bricarelli, 1979, pp. 68-69, 87. Dell’incontro non rimane purtroppo traccia nei diari pubblicati di Berenson, 1966.

[41] Nel 1951 questa collaborazione gli aveva fruttato “un segno di distinzione” al “Premio Torino di Giornalismo”, anche in riconoscimento “della sua nota attività di fotografo.” (Archivio Bricarelli, Torino).

[42] Nell’aprile del 1954 aveva rilevato per 500.000 lire la quota proprietaria di Carafòli, divenendo unico proprietario della testata. (Archivio Bricarelli, Torino).

[43] Scopinich, 1943. Anche Alberto Lattuada, aveva vivacemente polemizzato con gli epigoni torinesi del pittorialismo: “Credo inutile fare osservazioni sulla tecnica fotografica. Mi pare giusto dire soltanto questo: recentemente ho visto pubblicato su un quotidiano di Torino una fotografia dalla quale, con l’aiuto di filtri, velature, bagni chimici e altri accorgimenti, l’autore era riuscito a ricavare un quadro; si trattava di una scena fluviale in controluce, sfumatissima e la dicitura diceva che tale opera aveva vinto il concorso della più grande esposizione internazionale di fotografia.”,  citato in Berengo Gardin, 1982, p. 15.

[44] Scalpo d’oro, per il numero del settembre 1941.

[45] Già nel 1923 era stato pubblicato un articolo di Enrico Unterveger dedicato a L’opera di Niceforo Niepce, ed ancora nel 1938 si era celebrato il primo centenario dell’invenzione, mentre Lamberto Vitali su “Emporium” si occupava di Ritorno all’antica fotografia (1936), ma fu a partire dal 1954 che gli articoli si fecero più assidui e poi sistematici, con la rubrica dedicata Alle sorgenti della fotografia  affiancata da importanti recensioni, come quella dedicata nel numero 49  del 1957 all’Album romano pubblicato da Silvio Negro, corredata di numerose illustrazioni: ben nove pagine che citano ampiamente il testo di presentazione pubblicato su “La Stampa” da Paolo Monelli, nello stesso anno in cui si apriva alla  Triennale di Milano la fondamentale mostra sulla storia della fotografia realizzata da Lamberto Vitali, affiancando alle opere della collezione Gernsheim le prime eccezionali testimonianze raccolte nella sezione italiana, esposte tutte nella  speranza di poter creare a Milano un Museo di fotografia.

[46] Alcune fonti per la ricostruzione del vivace dibattito di quegli anni sono ora disponibili in Colombo, 2003.

[47] Tale caparbia definizione era continuamente ribadita anche dalla partecipazione a concorsi esplicitamente banditi per i dilettanti, come quello del periodico “Le Vie d’Italia”, da lui vinto nel dicembre del 1955. (Lettera di Cesare Chiodi, presidente TCI del 26-10-1955, Archivio Bricarelli, Torino).

[48] Bricarelli, 1955. Questo saggio, pubblicato nello stesso anno in cui furono edite da Viglongo le sue Opere complete, non è noto alla scarsa letteratura dedicata all’autore, ma costituisce di fatto il primo tentativo di comprensione critica dell’insieme dell’opera di Rey, in cui si pone come primo problema quello della discrepanza tra i due diversi e lontanissimi mondi fotografici da lui praticati della fotografia artistica e di quella alpinistica, analizzata questa chiarendo precisamente le differenze con Vittorio Sella. Per quanto riguarda la sua più nota produzione pittorialista, Bricarelli ne ricordava le doti di disegnatore e “intenditore di pittura antica e contemporanea” da cui derivavano le sue composizioni, eclettiche quanto ad ispirazione ma “tutte legate da uno stile comune, fatto di sobrio equilibrio, di sottile armonia, di antiretorica spontaneità [sic], che era quello innato dell’autore”, segnalandone infine il singolare carattere di “ricca e molto pittoresca iconografia familiare.”

[49] Già i numeri di dicembre delle due annate 1940 e 1941 presentavano fotografie a colori di Bricarelli, ma allora da Agfacolor.

[50] Il Fondo Bricarelli, donato dalla figlia Carla nel 1997, ha una consistenza di circa 40.000 fototipi, 35.000 dei quali negativi.

[51] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 55-78 (77), citato in Bricarelli, 1979, p.  18.

 

 

 

Bibliografia di riferimento

 

Alberti 1959

Guglielmo Alberti, Bernardo Berenson, “Motor Italia”, 34 (1959), n. 49, pp. 92 – 98

 

Andreis 1933

Luigi Andreis, L’arte sincera, “Galleria”, 1 (1933), n. 1, luglio, pp. 7 – 8

 

Andreis 1937

Luigi Andreis, Gli artisti italiani al V° Salone Internazionale di Torino, “Galleria”, 5 (1937), n. 5, maggio, pp. 10-11

 

Angeloni 1925a

Italo Mario Angeloni, Recenti manifestazioni dell’attività fotografica in Italia, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n. 5, maggio, pp.67-68

 

Angeloni 1925b

Italo Mario Angeloni, Luminosa vittoria (Per “Luci ed Ombre” del 1925), “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n. 11, novembre, pp. 169-171

 

Angeloni 1926

Italo Mario Angeloni, Arte consolatrice, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926), n. 11, novembre, pp. 241-243

 

Angeloni 1934a

Italo Mario Angeloni, “Luci ed Ombre” 1934, “Il Corriere Fotografico”, 31 (1934), n. 11, novembre, pp. 591-592

 

Angeloni 1934b

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 31 (1934), n. 11, novembre, p. 592

 

 

Angeloni 1935

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 32 (1935), n. 1, gennaio 1935, p. 14

 

Angeloni 1937

Italo Mario Angeloni, Il V Salone Internazionale di Fotografia Artistica, “Il Corriere Fotografico”, 34 (1937), n. 6, giugno, pp. 134-136; n. 7, luglio, pp. 159-161

 

Angeloni 1938

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 35 (1938), n. 1, gennaio, p. 14

 

Angeloni 1939

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 36 (1939), n. 12, dicembre, p. 270

 

Angeloni 1940

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 37 (1940), n. 1, gennaio, p. 10

 

Annuario 1921

Annuario della fotografia artistica 1921: Rivista annuale d’arte fotografica. Milano: Il Corriere Fotografico, 1920

 

Annuario 1922-23

Annuario della fotografia artistica 1922 – 23: Rivista annuale d’arte fotografica. Milano: Il Corriere Fotografico, 1921

 

Anonimo 1923

Anonimo, Un precursore italiano della stereoscopia,  “Il Corriere Fotografico”, 19 (1923), n. 12, dicembre

Arte della fotografia 1927

L’Arte della fotografia alla terza Mostra internazionale delle arti decorative, catalogo della mostra (Monza,  Villa Reale), maggio – ottobre 1927. Milano: A. Rizzoli & C., 1927

 

Arte nella fotografia 1923

L’arte nella fotografia : prima Esposizione internazionale di fotografia ottica e cinematografia, catalogo della mostra (Torino, Palazzo del Giornale al Valentino, primavera 1923). Milano – Roma : Bestetti & Tumminelli, 1923

 

Bellavista 1934-1936

Mario Bellavista, Tre concetti per fotografi moderni, “Galleria”, 2-4 (1934 – 1936)

 

Berengo Gardin 1982

Piero Berengo Gardin, a cura di, Alberto Lattuada fotografo. Dieci anni di “Occhio quadrato” 1938/1948. Firenze: Alinari, 1982

 

Berenson 1966

Bernard Berenson, Tramonto e crepuscolo. Ultimi diari 1947 – 1958, a cura di Emilio Cecch. Milano: Feltrinelli, 1966

 

Bernardi 1927

Marziano Bernardi, Commento, in Luci ed Ombre: Annuario della fotografia artistica italiana, VI annuale 1927. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1927, pp. IX-IXX

 

Bernardi 1928a

Marziano Bernardi, L’arte della fotografia al “Salon”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 10, ottobre, pp. 641 – 643

Bernardi 1928b

Marziano Bernardi, Commento, in Luci ed Ombre: Annuario della fotografia artistica italiana, 1928-VII annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1928, pp. XI-XVI

 

Bernardi 1954

Marziano Bernardi, Un po’ di Piemonte, Torino, S.E.I., 1954

Boggeri 1929a

Antonio Boggeri, Fotografia moderna, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n.8, agosto, pp.557- 564

Boggeri 1929b

Antonio Boggeri, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1929-VIII annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1929, pp. XIV-XVI

Bologna 1935

Achille Bologna, Come si fotografa oggi.  Milano: Hoepli, 1935

 

Borhan 1998

Pierre Borhan, André Kertész. Lo specchio di una vita. Milano: Federico Motta, 1998 (ed originale, André Kertész. La biographie d’une œuvre. Paris: Editions du Seuil, 1994)

 

Brezzo 1924

Guido Lorenzo Brezzo, Sfogliando “Luci ed Ombre” 1924. Impressioni di un profano, “Il Corriere Fotografico”, a21 (1924), n. 10, ottobre, p. 151

 

Brezzo 1926

Guido Lorenzo Brezzo, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1926-V annuale. Torino:  Edizioni del Corriere Fotografico, 1926, pp. XI-IXX

 

Brezzo 1927

Guido Lorenzo Brezzo, “Luci ed Ombre” 1927, “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 11, novembre, pp. 201-204

Brezzo 1929

Guido Lorenzo Brezzo, Luci ed Ombre 1929, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n.11, novembre, pp. 777- 780

 

Brezzo 1930

Guido Lorenzo Brezzo,, Luci ed Ombre 1930, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n.11, novembre, pp.774- 778

 

Brezzo 1931

Guido Lorenzo Brezzo, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1931-X annuale.  Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1931, pp. IX-XV

 

Brezzo 1934

Guido Lorenzo Brezzo, La Messe del 1934, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1934-XIII  annuale. Torino:Edizioni del Corriere Fotografico, 1934, pp. IX-XVI

 

Bricarelli 1988

Carla Bricarelli, Stefano Bricarelli, un’intervista, “Fotologia”, 5 (1988), vol.9, maggio, pp. 29-35

 

Bricarelli 1914

Carlo Bricarelli S.J., Ottica fisica e ottica artistica. Roma: Civiltà Cattolica, 1914

 

Bricarelli 1924

Carlo Bricarelli S.J., La fotografia è capace di estetica?, “Luci ed Ombre”, 1924, pp. 5-8

 

Bricarelli 1912

Stefano Bricarelli, La fotografia artistica all’Esposizione di Torino 1911, “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 1 gennaio, pp. 1791-1797

 

Bricarelli 1913

Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, a. X, n. 8 agosto 1913, pp. 172255 – 2260

 

Bricarelli 1920

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1920, pp. 26-27

 

Bricarelli 1921

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1921, pp. 30-31

 

Bricarelli 1922

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1922, pp. 31-32

 

Bricarelli 1923

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1923, pp. 22-23

 

Bricarelli 1924

Stefano Bricarelli, Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1924, pp. 19-20

 

Bricarelli 1925

Stefano Bricarelli, Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1925, pp. 20

 

Bricarelli 1954

Stefano Bricarelli, Foto Annuario Italiano 1954, “Il Corriere Fotografico”, 51 (1954). n. 18, marzo, pp. 25-28

 

Bricarelli 1955

Stefano Bricarelli, Guido Rey, “Il Corriere Fotografico”, 52 (1955), n. 29, aprile, pp. 22-29

 

Bricarelli 1956a

Stefano Bricarelli, Dilettantismo e professionismo fotografico in Italia, “Il Corriere Fotografico”, 53 (1956), n. 39, aprile, pp. 21-23

 

Bricarelli 1956b

Stefano Bricarelli, Storia di un Laboratorio, “Il Corriere Fotografico”, 53 (1956), n. 44, ottobre, pp. 37-41

 

Bricarelli 1958

Stefano Bricarelli, Visioni di Torino. Novara: Istituto Geografico De Agostini, 1958

 

Bricarelli 1968

Stefano Bricarelli, L’auto è femmina. Vent’anni di stile carrozziero a Torino nelle fotografie di Stefano Bricarelli. Torino: Motor Italia, 1968

 

Bricarelli 1975a

Stefano Bricarelli, Quando sugli oceani si andava navigando, “Motor Italia”, 75 (1975), n. 100,  pp. 82-90

 

Bricarelli 1975b

Stefano Bricarelli, Ritorno al 1936, qualche flash-back in U.S.A., “Motor Italia”, 75 (1975), n. 101, pp. 56-65

 

 

Bricarelli 1976

Stefano Bricarelli, Piemonte di ieri & Romantica valle d’Aosta. Ivrea: Priuli & Verlucca Editori, 1976

 

Bricarelli 1979

Stefano Bricarelli, Gli occhi della memoria. Milano: Automobilia, 1979

 

Bricarelli, Brezzo 1923

Stefano Bricarelli, Guido Lorenzo Brezzo, La nostra parte, in  Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1923- II annuale. Torino:  Edizioni del Corriere Fotografico 1923, pp. V-VII

 

Buffa, Ortoleva 1994

Cristiano Buffa, Peppino Ortoleva, Lingotto. Luogo. Simbolo, in Olmo 1994, pp. 151-192

 

Callari Nestri 1955

Febo Callari Nestri, La nuova fotografia industriale; fotografie di Stefano Bricarelli,  “Il Corriere Fotografico”, 52 (1955), n. 30, maggio, pp. 20-28

 

Campari 1976

Roberto Campari, a cura di, Bruno Stefani. Parma: Università di Parma, 1976

 

Caorsi 1982

Gigi Caorsi, Stefano Bricarelli fotografo e giornalista [intervista], “Piemonte vivo”, 16 (1982), n. 2, aprile, pp. 44-49

Carafòli 1957

Mario Carafòli, «Ciociaria 1956», Lettera aperta a un giovane, “Il Corriere Fotografico”,  54 (1957), n. 52, luglio, pp. 19 -21

 

Cartier-Bresson 1952

Henri Cartier-Bresson, Images à la Sauvette. Paris: Éditions Verve, 1952

 

Cartier-Bresson 1955

Henri Cartier-Bresson, Les Européens. Paris: Éditions Verve, 1955

 

Castruccio 1922

Giuseppe Castruccio, Come riuscire in fotografia. Milano: Il Corriere Fotografico, 1922

 

Cavanna 2003a

Pierangelo Cavanna, “La Fotografia Artistica”, in Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895 – 1920.  Milano: Unicredit, 2003, pp. 166-167

Cavanna 2003b

Pierangelo Cavanna, Mostrare paesaggi, in Modena per la fotografia. L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, 2003-2004), a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Milano: Silvana Editoriale, 2003, pp.40-116

 

Circolo Sciatori 1941

Circolo Sciatori Torino, Annuario 1941. Torino: Impronta, 1941

Colombo 2003

Cesare Colombo, a cura di, Lo sguardo critico. Cultura e fotografia in Italia 1943 – 1968. Torino: Agorà Editrice, 2003

Colombo 2004

Cesare Colombo, a cura di, Ferrania. Storie e figure di cinema & fotografia.  Novara: De Agostini, 2004

 

Costantini 1987

Paolo Costantini, Una “sana ed eclettica modernità”. L’esperienza di Luci ed Ombre tra conservazione e innovazione, in Luci ed Ombre, 1987, pp. 25-35

 

Costantini 1990

Paolo Costantini, «La Fotografia Artistica» 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990

 

Costantini 1992

Paolo Costantini, Introduzione, in Heirich Schwarz, Arte e fotografia. Precursori e influenze. Torino: Bollati Boringhieri, 1992

 

Costantini 1994

Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, catalogo della mostra (Torino  1994), a cura di Rossana Boscaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci, Milano, Fabbri Editori, 1994, pp. 94-179

D’Orsi 1987

Angelo d’Orsi, «Il doloroso inverno»,  l’esperienza torinese, in De Seta 1987, pp. 21-56

 

D’Orsi 2000

Angelo d’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre. Torino: Einaudi, 2000

 

De Albroit 1926

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926), n. 3, marzo, p. 60

 

De Albroit 1930

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 1, gennaio, p. 9

De Albroit 1930

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 3, marzo, p.213

 

De Albroit 1932

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 7, luglio, pp. 369

 

De Albroit 1931

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 28 (1931), n. 11, novembre, pp. 812

 

De La Sizeranne 1899

Robert De La Sizeranne, La Photographie est-elle un art?.  Paris: Hachette & C.ie, 1899

De Seta 1979

Cesare De Seta, a cura di, Giuseppe Pagano fotografo.  Milano: Electa, 1979

De Seta 1987

Cesare De Seta, a cura di, Edoardo Persico. Napoli: Electa Napoli, 1987

 

Deabate 1984

Teonesto Deabate tra pittura e architettura, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 3-29 aprile 1984). Torino:  Provincia di Torino, 1984

 

Della Volpe 1980

Nicola della Volpe, Fotografie militari. Roma: Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, 1980

 

Dragone 1978

Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino tra le due guerre, catalogo della mostra (Torino, marzo – giugno 1978). Torino, Musei Civici, 1979, pp. 188- 227

 

Enrie 1931

Giuseppe Enrie, La Fotografia contro il suo assoluto, in Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista, catalogo della mostra (Torino, 15 marzo – 6 aprile 1931).  Torino: Tip. Fedetto, 1931, pp. 3-6

Ferrero 1938

Federico Ferrero, Heinrich Hoffmahn, fotografo ufficiale del Reich, “Il Corriere Fotografico”, 35 (1938), n. 5, maggio, p. 110

 

Fotografia luce della modernità 1991

Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier, a cura di, Fotografia luce della modernità. Torino 1920/1950,

dal pittorialismo al modernismo. Firenze: Alinari, 1991

 

Gabinio 1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

Inaugurazione 1931

Anonimo, Inaugurazione della Mostra di fotografia futurista, “La Stampa”, 16 marzo 1931

 

Lamberti 2000

Maria Mimita Lamberti, a cura di, Lionello Venturi e la pittura a Torino 1919 – 1931. Torino: Fondazione CRT, 2000

 

Lista 2001

Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001

 

London salon 1915- 1932

Catalogue of the London Salon of Photography.  London: Women’s Printig Society Ltd., 1915-1918; 1919; 1925-1926; 1931- 1932

Luci ed Ombre 1987

Luci ed Ombre. Gli annuari della fotografia artistica italiana 1923 – 1934, catalogo della mostra (Firenze, 1987-1988), a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1987

 

Marescalchi 1936

Arturo Marescalchi, Il volto agricolo dell’Italia. Milano: TCI, 1936

 

Meano 1930

Cesare Meano, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, IX annuale 1930. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1930, pp. XIII-XV

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia 2001

Marina Miraglia, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione De Fornaris – Hopefulmonster, 2001

Modern Photography 1931

Modern Photography. London: The Studio, 1931

Mollino 1949

Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [1950]

 

Moncalvo 2001

Riccardo Moncalvo. Figure senza volto, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea,  2001), a cura di Italo Zannier. Torino: Edizioni GAM, 2001

 

Morgagni 1937

Manlio Morgagni, a cura di, Italia Imperiale. Milano: Rivista Illustrata del Popolo d’Italia, 1937

Morgan 1939

Claude Morgan, Neiges, “L’Illustration”, 4 fevrier 1939, n. 5005, pp. 133-143

 

Morselli 1883

Enrico  Morselli, Programma speciale della sezione di Antropologia. Torino: Stamperia Reale – Paravia, 1883

Mostra di fotografia futurista

Anonimo, La Mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “Gazzetta del Popolo”, 16 marzo 1931

Nèvola 1953

Maurizio Nèvola, Mostra della fotografia italiana 1953. La montagna e il topolino, “Il Corriere Fotografico”, 50 (1953), n. 12, settembre, pp. 27 -30

 

Olmo 1994

Carlo Olmo, a cura di, Il Lingotto 1915 – 1939, l’architettura, l’immagine, il lavoro. Torino: Umberto Allemandi & C., 1994

 

Orengo 1979

Nico Orengo, Come il cavalluccio di legno…, in Bricarelli 1979, pp. 5-7

Paoli 1998

Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  I,  Fotografia e raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, VIII, 1998,  pp. 99-128

Pellegrini 1954

Guido Pellegrini, L’astrattismo cos’è – Ritorna primavera, “Il Corriere Fotografico”, 51 (1954), n. 19, aprile, pp. 36-37

Pellice 1932

Donato Pellice, La fotografia artistica in Italia nel 1932, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana , 1932– XI annuale. Torino: Il Corriere Fotografico, 1932, pp. VII – XVIII

 

Persico 1927

Edoardo Persico, FIAT Automobili – Via Nizza, 250 – Torino, “Motor Italia”, 2 (1927),  dicembre, pp. 27-30; 64

 

Photograms 1915

Photograms of the Year 1915, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1915

Photograms  1928

Photograms of the Year 1929, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1928

Photograms  1939

Photograms of the Year 1940, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1939

Ponti 1932

Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n.53, maggio, pp.285-288

Primo Salon 1925

Primo «Salon» Italiano d’Arte fotografica Internazionale – Catalogo. Torino: Tipografia P. Celanza & C., 1925

 

V Esposizione 1932

V Esposizione Fotografica di Montagna – Catalogo. Torino: CAI, 1932

V Salone 1937

V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 29 maggio – 20 giugno). Torino: Stabilimento Tipografico Ajani & Canale, 1937

 

Racanicchi 1994

Piero Racanicchi, Cultura fotografica in Piemonte tra Ottocento e Novecento, in Accademie, salotti, Circoli nell’Arco Alpino Occidentale, atti del XVIII Colloqui franco-italien (Torre Pellice, 6-8 ottobre 1994). Torino: Centro Studi Piemontesi, 1994, estratto

 

Ratti 1961

Giuseppe Ratti, a cura di, Flor ’61. Esposizione internazionale Fiori del Mondo a Torino.Torino: Tipografia Editrice Torinese, 1961

 

Rebaudengo 1971

Dina Rebaudengo, Un uomo una città. Torino: Toso, 1971

 

Redazionale 1927

Red., Montagne: La II mostra del Fotogruppo Alpino della sezione di Torino del C.A.I., “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 5, maggio, pp. 87

 

Redazionale 1928

Red, Il trionfale successo della “Prima Mostra d’arte fotografica” organizzata dal “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 1, gennaio, pp. 1-3

Redazionale 1929

Red., Il contributo della microfotografia alle arti decorative, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 3, marzo, pp. 177 – 178

 

Redazionale 1931a

Red. Inaugurazione della mostra di fotografia futurista, “La Stampa”,  65 (1931), n. 64, 16 marzo, p. 2

 

Redazionale 1931b

Redazionale, La mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “La Gazzetta del Popolo”, anno 84 (1931), n. 64, 16 marzo, p. 2

 

Reteuna 2000

Dario Reteuna, Cinema di carta. Storia fotografica del cinema italiano. Alessandria: Edizioni Falsopiano, 2000

Rey 1925

Guido Rey, Fotografia inutile, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana,  1925- IV annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. V-X

 

Rossi 1933

Alberto Rossi, Fotografia come arte, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1933- XII annuale, Torino, Edizioni del Corriere Fotografico, 1933, pp. IX-XVIII

 

Royal Photographic Society 1919

Royal Photographic Society of Great Britain, Exhibition of Pictorial Photographs which have received awards in the Competition organised by “The Amateur Photographer and Photography”.  London:  Women’s Printig Society Ltd., 1919

Russo 1999

Antonella Russo, Il fascismo in mostra. Roma: Editori Riuniti, 1999

 

Schiaparelli 1909

Cesare Schiaparelli, L’Arte fotografica mondiale all’Esposizione di Dresda. Torino: Stabilimento Tipografico Guido Momo, 1909 [1910]

Scopinich 1943

Ermanno F. Scopinich, a cura di, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943

Sentieri di luce 2002

Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1930 al 1946, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 2002), a cura di Dario Reteuna. Torino – Firenze, Circolo degli Artisti – Alinari, 2002

Sentieri di luce 2004

Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1946 al 1970, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 2004), a cura di Dario Reteuna. Torino – Firenze, Circolo degli Artisti – Alinari, 2004

 

VI Esposizione 1934

VI Esposizione fotografica di montagna – Catalogo. Torino: CAI, 1934

 

VII Esposizione 1940

VII Esposizione fotografica alpina – Catalogo.  Torino: CAI, 1940

 

Tilney  1920

Frederick Colin Tilney, Some Pictures of the Year, “Photograms of the Year 1920”. London: Iliffe & Sons, 1920

 

Tilney 1930

Frederick Colin Tilney, The Principles of Photographic Pictorialism. Boston: American Photographing Publishing Co., 1930

 

TCI 1956

Touring Club Italiano, L’Italia in 300 immagini. Milano: TCI, 1956

 

Weaver 1925

John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n.3, marzo, p. 36

 

Wolff 1936a

Paul Wolff, Olimpiadi 1936. Milano: Bompiani, 1936

 

Wolff 1936b

Paul Wolff, Skikamerad Toni. Frankfurt am main: H. Bechhold Verlagsbuchandlung, 1936

Zannier 2004

Italo Zannier, “Ferrania” maestra di fotografia, in Colombo 2004, pp. 112 – 116.

 

Zanzi 1924

Emilio Zanzi, Arte, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1924-III annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1924, pp. IX-XX

 

Zanzi 1925

Emilio Zanzi, La raccolta del 1925, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1925-IV annuale.  Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. XI-XV