Esposizioni della fotografia (2011)

in Torino, la città che cambia : fotografie 1880-1930, catalogo della mostra (Torino,  Borgo Medioevale, 9 aprile – 9 ottobre 2011), catalogo a cura di Riccardo Passoni. Cinisello Balsamo : Silvana Editoriale, 2011, pp. 16-21

 

Fu nel 1861, alle soglie di quella che si sarebbe detta l’età del collodio e dell’avvio della grande commercializzazione con l’apertura dei grandi studi, che la fotografia in Italia fece la sua apparizione alla Prima Esposizione Italiana Agraria, Industriale e Artistica di Firenze[1], inaugurata da Vittorio Emanuele II, che fu anche la prima a essere oggetto di documentazione fotografica, realizzata dal fotografo fiorentino Pietro Semplicini, “Fotografista dell’Esposizione Italiana”, per incarico della Commissione Reale presieduta dal principe Eugenio di Savoia Carignano[2]. La committenza è indicativa di quale ormai fosse la consapevolezza dell’efficacia di quello che era a tutti gli effetti uno strumento di comunicazione, sebbene non ancora di massa. Mutavano cosi anche i luoghi di esposizione di queste fotografie di interesse pubblico: non più o non solo le vetrine degli studi o degli editori come Alberto Charvet o Giovanni Battista Maggi, il “boudoir dell’elegante signora, come [le] biblioteche dell’artista e dell’uomo di scienza e d’affari”[3], ma anche e sempre più frequentemente i padiglioni delle Esposizioni, come quella di Dublino del 1865 in cui le fotografie di Alberto Luigi Vialardi dedicate al Canale Cavour vennero presentate montate in cornici dorate[4]. La fotografia si rivelava, qui come nella poco più tarda documentazione del Traforo del Frejus, fotografato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure, come il medium più aderente, più adeguato a celebrare i cantieri pieni di macchine di quelle grandi infrastrutture. Erano ancora anni, di più, decenni, in cui la fotografia alle Esposizioni raccontava altro da sé, utilizzata per la sua novità di immagine a cui non ancora era riconosciuta una possibile dignità di opera. Si pensi alla cartella di cento splendide tavole in fototipia L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880, pubblicata dai Fratelli Doyen nel 1882, in cui le fotografie, di autore non identificato, riproponevano quella disposizione degli oggetti fatta come nella casa di un uomo di gusto, che tanto aveva affascinato Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux-Arts”: “Quand on entre, on est touché par une sorte d’harmonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les ceuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite”[5], essendo esposte (e poi fotografate: difficile immaginare un allestimento apposito per le riprese) in modo sistematico per prodotti (maioliche e porcellane, mobilio, oreficerie, stoffe) e per tipologie, secondo modalità che non paiono estranee alla presenza di Vittorio Avondo trai membri del comitato predisposto alla pubblicazione. Anche la Fotografia Subalpina di Giovanni Battista Berra realizzò per l’occasione un’ampia documentazione dei dipinti e delle sculture esposte, poi raccolta in album e donata “A S.M. Umberto I / che più di tutti / ama la grandezza / della Patria”, e al Municipio di Torino[6]. Altre fotografie di Berra, accanto a quelle realizzate da Giuseppe Vanetti, tutte relative allo stato di fatto prima e dopo gli interventi di restauro del castello di Rivara, furono presentate da Alfredo d’Andrade nella sezione di Architettura della stessa esposizione, con un intento documentaristico che non può non richiamare alla memoria le indicazioni metodologiche di Viollet-le-Duc.
Avondo e D’Andrade, cioè l’invenzione del Borgo Medievale per l’Esposizione Generale Italiana del 1884. Questo monumento nuovo, esito di un progetto conoscitivo lungo un biennio, che vide tra le altre la collaborazione di Carlo Nigra per la documentazione fotografica preliminare, costituì il punto nodale della formazione della consapevolezza culturale del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano. Nell’idea che lo sosteneva, in una pratica che si voleva filologica nonostante il procedimento di assemblaggio necessario alla realizzazione di una “copia” che si pretendeva oggettiva, riconosciamo il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, favorita e quasi indotta dall’enorme diffusione della fotografia. Il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, una stereoscopia improvvisamente vivibile che riesce a dare concretezza di materia alla raffigurazione di un soggetto inesistente in quella forma. Un’idea felicissima, una novità assoluta che con un buon secolo di anticipo proiettava lo spettatore nella condizione postmoderna della società del simulacro, poiché “la compiuta finzione aiuta la fantasia […]. Ora l’uomo è cosi fatto, che si sente suscitare dentro più spiriti estetici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effettivo”[7]. In perfetta sintonia con questo principio di spettacolarizzazione anche il Club Alpino Italiano aveva realizzato un Villaggio alpino, posto accanto alla Tenda di caccia di S.M. Vittorio Emanuele II, in cui erano ospitati i materiali della Stazione Alpina, primo nucleo del futuro Museo della Montagna[8]. A Vittorio Ecclesia, che aveva incontrato Avondo a Issogne[9] nel 1882, venne affidato il ruolo di fotografo di scena dello spettacolo del Borgo, ma risultava presente anche nella Sezione Belle Arti / Fotografie Architettoniche con altri tredici fotografi, tra i quali lo stesso Berra, con cui aveva condiviso la campagna documentaria prodotta dalla Commissione conservatrice dei monumenti nel 1882, e Federico Castellani che aveva condotto analoghe ricognizioni nell’Alessandrino. Oltre ad alcune belle vedute del Santuario di Crea, Ecclesia presentava proprio le immagini animate del Borgo in un piacevole giuoco di rimandi e rispecchiamenti che corrispondeva però anche a precisi accordi commerciali: nel bell’album realizzato e prodotto da Giovanni Battista Maggi[10], il Borgo Medievale, che pure apre la sequenza di immagini, è sempre visto da lontano e dall’esterno, sebbene la sua presenza fosse inevitabile e segnasse l’orizzonte di molte riprese. Ma di più non era concesso fare poiché era Ecclesia a detenere la privativa sulle immagini di quegli edifici, di quelle strade animate da personaggi in costume ‘d’epoca’, secondo un gusto per la giocosa messa in scena che costituiva la cifra riconoscibile del gruppo di amici che si riuniva intorno ad Avondo a Issogne. Dalla sezione dedicata alle fotografie di architettura prese avvio il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[11],  realizzata dal Collegio torinese, che in occasione del successivo VI Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani di Venezia, nel 1887, presentò il catalogo del Museo Regionale di Architettura, ospitato in una sala del Borgo Medievale, costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano disposte “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia”[12].

Questa realizzazione rappresentò il precedente necessario della Prima Esposizione Italiana di Architettura, promossa dalla relativa Sezione del Circolo degli Artisti e inaugurata nel febbraio del 1890, in cui vennero esposti oltre diecimila disegni, ma anche numerose fotografie: “Ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!”[13]. Accanto alla documentazione di nuovi edifici compariva in modo sempre più sistematico quella dei cantieri di restauro (dall’arco di Augusto a Susa, ripreso da Secondo Pia, a San Marco a Venezia), cui si affiancavano i repertori di storia dell’architettura frutto delle campagne documentarie di Pia, Ecclesia, Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet, assenti gli Alinari, mentre Annibale Cominetti, giornalista e fotografo dilettante, futuro direttore de “La Fotografia Artistica”, presentava immagini di edifici spagnoli.

Con il diffondersi dei nuovi materiali sensibili alla gelatina bromuro d’argento, carte per la stampa ma specialmente lastre e pellicole di produzione industriale, la pratica fotografica si apriva al variegato universo dei dilettanti di rango, determinando un atteggiamento diverso e inedito, caratterizzato dall’emergere di una volontà di ricerca che coniugava tecnica e intenzione espressiva, in cui era possibile pensare e mostrare la fotografia in quanto immagine e – attraverso di questa – l’autore. Fu questo cambio di paradigma che consenti di pensare alle esposizioni di fotografia, magari limitandosi dapprima prudentemente a un ambito circoscritto, quale ad esempio, in area piemontese e torinese in particolare, quello della montagna, anche per la determinante influenza del CAI e di molti dei suoi membri più autorevoli, non a caso magistrali fotografi di fama internazionale come Vittorio Sella e Guido Rey. Cosi nel 1893 questo sodalizio organizzò la sua prima Esposizione Fotografica Alpina nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti, con la partecipazione tra gli altri del musicista Leone Sinigaglia, con una serie dedicata a Villaggi e montagne della Val d’Ala, mentre alla successiva Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dall’Associazione Universitaria Torinese nel 1895, parteciparono L[uigi?] Belli, Luigi Primoli, Rey, Giulio Roussette, Sella, Emanuele Elia Treves. Oltre a questi si segnalarono Giovanni Varale di Biella “con gli impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, Alberto Durio con un “album contenente le magnifiche riproduzioni degli affreschi di Gaudenzio Ferrari, che resero famosa la chiesa delle Grazie a Varallo Sesia” e Federico Peliti, con una serie di 150 fotografie di grande formato intitolata 28 anni nell’India Inglese[14].

1898. Cinquantenario dello Statuto albertino: Torino rivendicava il ruolo svolto nel difficile processo di unificazione celebrando le proprie glorie recenti, ormai passate, e lo fece utilizzando ancora una volta la forma moderna per eccellenza delle Esposizioni, ma scegliendo con grande accortezza di affiancare Arte Industriale e Arte Sacra. Fu in questo contesto che la fotografia assunse inaspettatamente le caratteristiche di un evento di rilevanza internazionale, con la ripresa della Sindone effettuata in Duomo da Secondo Pia, che rivelò la natura di “negativo” del Sacro Lino e diede origine a una serie infinita di polemiche e contestazioni, che coinvolsero a diverso titolo tanto la comunità religiosa quanto quella scientifica. L’enorme flusso di visitatori atteso per le due Esposizioni portava nuovamente Torino al centro della scena nazionale e costituiva per molti, fotografi compresi, un’importante occasione commerciale. Cosi Brogi pubblicò una nuova edizione del proprio album di vedute di Torino e gli Alinari inviarono in città il loro miglior operatore, Mario Sansoni, che ebbe tra le proprie inevitabili mete anche i padiglioni espositivi. Sul versante più squisitamente tecnologico i fratelli Lumière colsero l’occasione per presentare i risultati delle loro prove di *fotocromosgrafia indiretta […] ed è ad un mazzo di leggiadrissimi lillà. stavo per dire fragranti, che affida[rono] sicuri la divulgazione della loro scoperta[15]. Anche per le istituzioni l’Esposizione costituiva un’occasione preziosa per rendere note le proprie attività e collezioni attraverso fotografia: cosi fu per i tre volumi de l’Armeria Antica e Moderna di SM. il Re d’Italia /in Torino, con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, pubblicati a Milano dall’Eliotipia Calzolari e Ferrario, che dovevano essere pronti per “l’epoca dell’apertura della Esposizione Nazionale indetta pel 1898 in Torino”[16], mentre l’analogo progetto voluto da Avondo per la Sezione di Arte antica del Museo Civico avrebbe visto la luce solo la vigilia di Natale del 1904. Anche il Comitato per la Mostra Medievale Pugliese, che aveva presentato dei calchi tratti da “monumenti di arte classica antica dei periodi Angioino, Svevo e Normanno”, aveva celebrato quel l’iniziativa con l’album Nella Terra di Bari. Ricordi di arte medioevale, con 127 illustrazioni in zincotipia ricavare da fotografie di Romualdo Moscioni e di Nicola de Mattia, mentre i fratelli Antonelli, di Bari, furono premiati con medaglia di bronzo “per ritratti e fotografie di monumenti con luce artificiale”[17].  La zincotipia costituiva allora la grande novità dell’editoria, consentendo la stampa tipografica congiunta di immagini e testo, tecnica immediatamente adottata da Roux Frassati e C., editori del giornale del l’Esposizione, illustrato dalle fotografie del “cav. Remo Lovazzano, uno dei migliori fotografi torinesi […] Orbene, di queste fotografie il cav. Lovazzano pensò di fare una raccolta completa e di offrirle in omaggio al Re quale ricordo fedele della grande Mostra […]. Le fotografie sono state riunite in un magnifico album in cuoio giallo con fregi in argento cesellato e sguardie in raso bianco marezzato, opera veramente ricca ed artistica dello stabilimento Vezzosi. Un’epigrafe dettata dall’avvocato Bona dichiara il pensiero di omaggio e di ricordo con cui il cav. Lovazzano offre al Re questa raccolta, che forma una vera opera d’arte, poiché arte è ormai altresì la fotografia. L’album sarà tra breve presentato al Re. Una consimile raccolta il cav. Lovazzano ha altresì offerto all’on. Villa, presidente dell’Esposizione”[18], Anche Mario Gabinio[19] si era cimentato con le architetture effimere dei padiglioni, con un ampio lavoro (89 stampe raccolte in album), realizzato forse su sollecitazione dell’amico Mario Ceradini, progettista del chiosco della ditta  Sangemini, che mostra quale fosse ormai il livello raggiunto da questo oscuro grande fotografo, assente anche al Primo Congresso Fotografico che si tenne in città in quell’occasione[20]. Nonostante la rilevanza dell’evento, il trattamento riservato alla sezione fotografica dell’Esposizione risultò pessimo[21] e venne aspramente stigmatizzato da Carlo Brogi: “La fotografia figura meschinamente, e non da di sé, del suo sviluppo raggiunto nel nostro paese, che un’idea molto lontana dalla realtà […] non è considerata né classificata con criteri razionali. E ciò avviene per quell’erroneo concetto in forza del quale si vuole disconoscere in essa qualunque carattere d’arte, per ritenerla semplicemente un processo meccanico di riproduzione del vero […). Ricordo che a Bologna nell’Esposizione del 1888, si aveva fatto ancora peggio, confinando la fotografia con le carni insaccate […). Ma che dire di più, quando si vede che neppure i fotografi di Torino hanno preso parte alla festa che si faceva in casa propria”[22].

Anche Enrico Thovez, analogamente a quanto aveva fatto Biscarra nel 1870[23], colse l’occasione per celebrare le glorie della riproducibilità fotomeccanica delle immagini: “Grazie alla fotoincisione una rivoluzione si è operata nell’aspetto di molte pubblicazioni. Giornali e riviste di ingegneria e di meccanica (sopratutto americane ed inglesi) diventano piacevoli a sfogliare come albums pittoreschi, grazie alla bellezza delle vedute di officine, di cantieri, di docks, di ferrovie, non più schematizzate secondo un’intenzione dimostrativa, ma colte nella realtà viva, colla poesia delle luci e delle ombre, delle nuvole di fumo e di vapore, della folla che le popola”[24]. La nuova tecnologia gli consentiva anche di formulare il progetto di “pubblicare questa ricchezza {del nostro patrimonio artistico), e pubblicarla a buon prezzo, senza scrupoli di perfezione, popolarmente, a dispense, con riproduzioni fotoincise rigorosamente fedeli, magari senza testo, come fanno spesso i Tedeschi, perché la coltura più necessaria e fondamentale, per ora, è quella visiva, empirica, formale […]. La Pinacoteca è stata recentemente fotografata dal Brogi e dall’Anderson; non basta; bisogna pubblicarne un catalogo con buone riproduzioni fotografiche, in modo che tutti, conterranei e forestieri, ne conservino un ricordo completo e un invito a tornarvi, non bisogna lasciare questo godimento estetico soltanto alle serve e ai soldati. E un uguale programma attende il Museo Civico d’arte moderna”[25].

La fotografia e le fotografie erano ormai parte dello scenario quotidiano. Le brevi di cronaca ne segnalavano con sempre maggiore frequenza la presenza: a corredo delle prime patenti automobilistiche, sciolte, nei portafogli, nei ciondoli, per non dire di quelle utilizzate in ambito scientifico, giudiziario o per foschi ricatti a sfondo sessuale, mentre in altre pagine degli stessi quotidiani, non ancora illustrate con fotografie”[26], grande successo riscuoteva il tema della fotografia spiritica, e la divulgazione di argomenti quali la telefotografia e la cronofotografia, descritte da Oreste Pasquarelli sulle pagine de “La Stampa” nella rubrica “Scienza popolare”. “La fotografia non è più, come era nel suo inizio, un soprappiù, una curiosità scientifica, un capriccio della moda; essa è oggidì una necessità della vita pel largo contributo e per la validissima cooperazione sua alla scienza, alla storia, all’arte. I suoi stessi progressi, gli studi cui è fatta scopo da illustri ingegni, le sue infinite e variatissime applicazioni bastano a mettere in evidenza la grandissima importanza che ha la fotografia ai giorni nostri, importanza che, lungi dal diminuire, aumenterà sempre. È adunque logico, giusto, naturalissimo che le Mostre fotografiche si facciano più frequenti e crescano ogni volta più di valore e di importanza”[27]. In questo clima di rinnovata attenzione si aprì nel febbraio del 1900 la I Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dalla neonata (1899) Società Fotografica Subalpina, per la cura di Edoardo di Sambuy, ospitata nella sede di via della Zecca 25 in “cinque grandi sale, le cui pareti sono addirittura coperte di fotografie, il cui numero è tale che si dovette ricorrere anche a speciali vetrine, discoste dalle pareti […]. Fra i numerosi concorrenti professionisti e dilettanti sono notevoli le mostre del Foto-Club di Parigi, e di altri stranieri; quella collettiva degli Escursionisti, quella dell’Istituto geografico militare di Firenze e quella del Genio Militare. Una delle sale, elegantemente addobbata, è destinata alle signore promotrici”[28]. Particolare attenzione suscitarono le opere di Constant Puyo e Robert Demachy, di cui si apprezzava l’estremo pittorialismo, pur preferendo ancora, in fondo, il neoclassicismo dei tableau vivant di Guido Rey, “innamorato della grazia greco-pompejana e della grazia ché presiedeva al gusto del secolo scorso”. Tra i membri dell’Unione Escursionisti si segnalava perla prima volta Mario Gabinio, che con la serie dedicata a Torino che scompare si aggiudicava il premio bandito dal Comune di Torino per la “collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”[29]; lavoro molto apprezzato da Riccardo Brayda e dallo stesso di Sambuy che elogiandone gli esiti in occasione del banchetto conclusivo del’ l’Esposizione, formulava l’idea della costituzione di un archivio fotografico. Fu ancora di Sambuy a promuovere e poi a coordinare l’Esposizione internazionale di fotografia artistica che ebbe luogo nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa Moderna del 1902, allo scopo di far conoscere i migliori esiti delle nuove tendenze, mostrando “accanto alle opere già ben note in Torino dei membri del Photo-Club di Parigi […] quelle di Tedeschi, Fiamminghi, Svedesi, Inglesi, Americani, fors’anche dei lontani Giapponesi ed Australiani […] Benvenuta adunque l’Esponzione di fotografie inspirate unicamente ad intenti artistici, poiché contribuirà, con quella d’Arte Decorativa Moderna, a scuotere l’indifferenza del pubblico ed a persuaderlo che una coltura artistica largamente diffusa è indispensabile ai giorni nostri come fatto di moderno democratico incivilimento, e quale apportatrice di maggior benessere sociale”[30]. Le diverse nazioni presentarono i loro autori (qui ormai la parola assumeva il suo senso più proprio, e pieno) più significativi”[31]. Per l’Italia, solo per fare qualche nome, Francesco Negri con una serie di belle tricromie; le scene di Rey, i paesaggi di Cesare Schiaparelli, Vittorio Sella con stampe virate in doppio tono relative al Caucaso georgiano, gli intensi ritratti degli amici artisti di Giacomo Grosso”[32]. Un’occasione cruciale per la cultura fotografica italiana e torinese in particolare, portata a misurarsi con più di 1.300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, ma l’opinione comune doveva essere diversa se la segnalazione contenuta nella rubrica “Gli Spettacoli d’Oggi” de “La Stampa” indicava semplicemente: “Esposizione d’Arte Decorativa Moderna al Valentino con annessa Mostra di fotografia artistica, vini e olii”.

La pubblicazione nel dicembre del 1904, per iniziativa di Annibale Cominetti, de “La Fotografia Artistica”[33] fu certo tra gli esiti più significativi di quell’evento. Una “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33 x 24), redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni nel testo e tavole fuori testo realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa fotografica al bromuro, alle fotoincisioni, alla similgravure), che ha rappresentato nei primi due decenni del secolo, sino alla chiusura nel 1917, l’espressione più rilevante della fotografia italiana, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la scena internazionale (artistica e tecnica: si pensi alla costante attenzione per gli sviluppi della fotografia a colori), ma anche più in generale con la cultura artistica e pittorica nazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” cui tendeva tutto il movimento pittorialista, qui richiamato sin dal titolo e che costituiva il punto di riferimento, magari incerto, dei membri dei numerosi sodalizi fotografici aperti in quegli anni a Torino, come il Club d’Arte, fondato nel 1906, che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi. Non meno rilevante fu il ruolo svolto dal periodico nell’organizzazione di alcune importanti iniziative quali, nel 1907, l’Esposizione internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, organizzata in poco più di un mese, ma avvalendosi del sostegno di tutte le principali personalità della scena fotografica torinese e italiana oltre a un comitato d’onore con importanti presenze internazionali quali il fotografo Alfred Horsley Hinton, tra i fondatori di The Linked Ring Brotherhood; lo storico della fotografia Josef Maria Eder e il fisico Gabriel Lippmann, che l’anno precedente aveva ricevuto il premio Nobel per le sue ricerche sul metodo interferenziale di fotografia a colori. Questa IV Esposizione nazionale generale di fotografia e internazionale per materiale fotografico non ebbe pero il successo sperato. Poco soddisfacente la sezione artistica, nella quale “la ‘maniera nera”, l’abusare cioè di toni bassi e di sfumature confuse ingenera monotonia: rari sono i motivi di paese e di figure che riescano a vera bellezza d’arte, e si lamenta sopratutto il costume dei ritocchi di cieli e delle illogiche aggiunte di pennellate di colore che nonché giovare, rovinano in bontà delle fotografie […] Uno dei rami che appaiono in decadenza è quello delle scene composte: siamo lontani dai saggi di anni addietro del Rey, del Puyo, del Demacky […] L’evocazione storica per mezzo della fotografia è cosa di una delicatezza spaventosa: se non è fatta con tutta severità, può facilmente cadere nel puerile “[34]. Poche furono anche le Case produttrici di apparecchi fotografici e di carte sensibili, e l’interesse maggiore venne suscitato non tanto dai saggi di tricromia offerti dalle due ditte milanesi Alfieri e Lacroix e Unione Zincografi, quanto dalla presentazione ufficiale per l’Italia del nuovo processo a colori dell’autocromia, messo a punto dai Fratelli Lumiere nel 1904,  affidata al Segretario dell’Accademia dei Lincei Ernesto Mancini[35]. Il dibattito che ne seguì sulle pagine dei più importanti periodici internazionali, condusse alla progressiva definizione di una vera e propria estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico con il pittorialismo, si misurava e provava a fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche ed espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico.

Nonostante le perplessità derivanti dal confronto con altre grandi, recenti iniziative italiane e straniere, così come contro la convinzione sempre più diffusa “che le grandi esposizioni generali abbiano fatto il loro tempo”, la volontà “di consacrare il cinquantenario dell’affermazione unitaria con un quadro completo del progresso economico della patria risorta attirò il concorso entusiastico di tutte le forze vive della nazione”[36]  e rese possibile la realizzazione nel 1911 della grande Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro. Il Concorso Internazionale e la Mostra Fotografica realizzati per l’occasione videro circa “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti”[37], a cui si aggiunse l’esposizione di fotografia alpina prodotta nella stessa occasione dal Club Alpino ltaliano, curata da Guido Rey”[38] e ospitata ancora una volta in un “villaggio alpino” dislocato lungo le mulattiere che solcavano le lievi balze del Parco del Valentino, in un pastiche folklorico con qualche pretesa etnografica. Nell’edificio che fungeva da alberghetto “una scaletta di legno ci invita. Si entra e ci si trova in una sala che per verità è raro trovare in un villaggio alpino [dove] l’attrattiva maggiore sono le stupende diapositive del Sella che fanno ufficio di vetri alle finestrelle e i panorami del Karakorum o le altre fotografie di questo principe dei fotografi illustranti i campi d’azione del Duca [degli Abruzzi]”[39].

I resoconti descrivevano un panorama certo più soddisfacente di quello offerto dall’occasione del 1907, confermando come la fotografia fosse ormai considerata “non più una pratica di puro sperimentalismo, sibbene un’arte, alla cui esplicazione concorrono molti elementi di gusto personale, di perspicacia e di abilità schiettamente individuali”; in particolare “la fotografia a colori è ampiamente rappresentata in questa mostra; ed è doveroso notare che il suo progresso è stato grandissimo da quando fece, pochissimi anni fa, la sua prima apparizione […] però è ancora molto spesso lecito osservare che si tratta, sì, di fotografia a colori, ma non sempre precisamente di fotografia del colore: distinzione che non è punto sottile, e che giova fare per intenderci su come vadano meglio considerate queste prove”. Tra i partecipanti il recensore segnalava “certe interessanti fotografie esotiche del conte Luigi Primoli” e “alcune prove di Bricarelli, tra cui una bellissima, che pare un quadretto fontanesiano: una squallida campagna autunnale su cui, contro un cielo nubiloso, si levano due file oscure di pioppi: indovinatissimo è il color giallo che il Bricarelli ha scelto per questa fotografia”[40]. Era questa la prima segnalazione di chi negli anni successivi avrebbe segnato con la propria attività di fotografo, critico, editore e animatore del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica tutto il periodo compreso tra le due guerre mondiali, aprendo la cultura fotografica torinese e italiana alle suggestioni della nuova visione.

 

Note

[1] Per dare un’idea della scarsa rilevanza del settore ricordiamo che su circa 4.000 espositori solo 48 appartenevano alla sezione fotografica (Classe X – Sezione V), cioè poco più dell’1%. Per il Piemonte erano presenti Giuseppe Venanzio Sella e Francesco Maria Chiapella.

[2] Un esemplare dell’album di Pietro Semplicini, Esposizione italiana 1861, è conservato presso la Biblioteca Reale di Torino.

[3] “Gazzetta Piemontese”, 31 maggio 1869, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta:  Musumeci, 1980, p. 365.

[4] Archivio Storico dei Canali Cavour, Novara, Regi Canali, Libro Mastro A, f. 170, 27 aprile 1865.

[5] Citato in Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Vittorio Avondo (1836-1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro, atti del convegno (Torino, Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 27 ottobre 1995), a cura di Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli.  “Atti SPABA”, Nuova Serie, vol. IV. Torino 1997, pp. 49-60 (53).

[6] Le due copie dell’album Ricordo della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, ciascuna costituita da cinquanta albumine, sono conservate presso la Biblioteca Reale di Torino e la Biblioteca della Fondazione Torino Musei.

[7] Camillo Boito, Il Castello medioevale all’Esposizione di  Torino, citato in P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architetturain Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale e Palazzo Madama, 27 giugno – 27 settembre 1981), a cura di  Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi,  pp. 107-125.

[8] “Cfr. I villaggi alpini. Le identità nazionali alle grandi esposizioni, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 25 febbraio – 20 novembre 2011), a cura di Alessandro Pastore.  Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 2011. Tra i materiali esposti in quell’occasione anche un album fotografico con immagini, tra gli altri, di Pietro Bruneri, Francesco Casanova e Paolo Palestrino.

[9] P. Cavanna (a cura di), Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005.

[10] I padiglioni fotografati da Maggi costituiscono l’indispensabile termine di confronto per l’album di 121 tavole di progetto di tutti gli edifici realizzati sotto la sua direzione che Camillo Riccio offri al Collegio degli architetti, oggi conservato al Circolo degli Artisti, cfr. Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura.  Torino: Celid,  1999, P. 56.

[11] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[12] Ibidem. Tra i donatori di documenti e opere vi furono Brayda, Casana, Ceppi, Ferrante, Gelati, Tonta ma anche Berra ed Ecclesia (Volpiano 1999, p.120). Mario Ceradini ricorderà nel 1890 che “il collegio [degli architetti] trasse vita oscura […] continuando ad arricchire il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, in Id., L’architettura italiana alla prima esposizione d’architettura in Torino. Torino: Carlo Clausen, 1890, p. 3.

[13] Giovanni Sacheri, citato in Volpiano 1999., p. 99; già alcuni anni prima (1883) Sacheri si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32), concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[14] “Gazzetta del Popolo della Domenica”, n. 50, 15 dicembre 1895, p. 399.

[15] Michelangelo Scavia, La fotografia dei colori,  “La Stampa”, venerdì 26 agosto 1898, n. 236, pp. 1-2. La ricostruzione del contesto in cui si è sviluppata la pratica e il dibattito intorno alla fotografia nel periodo di tempo qui considerato si è avvalsa quale fonte importante delle annate storiche del quotidiano “La Stampa”, ora consultabili in rete all’indirizzo http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_frontpage/Itemid,1/  (09 01 2023).

[16] P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 18371898, catalogo della mostra (Torino, Armeria Reale, 15 ottobre 2003 – 11 gennaio 2004), a cura di Paolo Venturoli.  Torino: Allemandi,  2003, pp. 79-98.

[17] Clara Gelao, Tra calchi e monumenti. A cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, in Castelli e cattedrali di Puglia a cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, catalogo della mostra (Bari, 13 luglio – 31 ottobre 1999), a cura di C. Gelao, Gian Marco Jacobitti.  Bari:  Consorzio Idria – M. Adda, 1999, pp. 33-47.

[18] Cronaca, “La Stampa”, 29 gennaio 1899, n.29, p. 3.

[19] L’Album di Gabinio intitolato Esposizione 1898 contiene anche riprese realizzate dal pallone frenato di Godard, collocato nel recinto dell’Esposizione. Una serie analoga venne realizzata nella stessa occasione da Edoardo di Sambuy dopo che lo stesso Godard gli ebbe negato l’autorizzazione a fotografare la città durante il volo su Torino compiuto il 6 giugno, cfr. “L’Esposizione Nazionale del 1898”, n. 14, p, 105.

[20] Atti del primo Congresso fotografico Nazionale in Torino, ottobre 1898. Torino: Tip, Roux, Frassati e C.,1899.

[21] “Poco favore aveva incontrato a Torino nello scorso anno la sezione fotografica dell’Esposizione Generale. Pessimo era il locale e disadatto, e dai rari visitatori non era avvertito quanto di buono vi era esposto. Alla fotografia italiana toccava una rivincita, e se l’ebbe, adesso in Firenze”, Edoardo di Sambuy, L’Esposizione fotografica a Firenze, “La Stampa”, 14 giugno 1899, n. 163, p. 2.

[22] Carlo Brogi, La fotografia all’Esposizione, in “L’Arte all’Esposizione del 1898”, nn. 31-32, pp. 252-254, mentre altri osservavano “con grande sorpresa e vivo rincrescimento che nella presente Esposizione Generale la fotografia alpina figura con ben poca cosa: troppo poca; e neppure si può dirne tutto il bene che si vorrebbe”, L. Stanghelloni, Per la fotografia alpina, “La Stampa – Gazzetta Piemontese”, 27 ottobre 1898, n. 298, pp. 1-2.

[23] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica. Stabilimento Le Lieure in Torino,  “L’Arte in Italia”, IV, 1870, p. 58.

[24] Enrico Thovez, Poesia fotografica, “La Stampa”, 3 giugno 1898, n. 152, ripreso dal n. 9 de “L’Arte all’Esposizione del 1898”.

[25] Enrico Thovez, L’ideale di Torino,  “La Stampa”, 2 gennaio 1899, n.2, p.1.

[26] L’illustrazione fotografica fece la sua prima apparizione nelle pagine de “La Stampa” solo nel 1907, e non a caso in una pubblicità. Il ritratto della signorina Panni Dianira, sarta, di San Costanzo Cerasa, provincia di Pesaro, era corredato dalla seguente, orgogliosa e privatissima dichiarazione: “Ero anemica. Le Pillole Pink mi hanno resa la salute”, “La Stampa”, 4 giugno 1907, n. 153, p.4.

[27] Redazionale,  “La Stampa”, 26 dicembre 1899, n. 357, p.3.

[28] Arti e Scienze, “La Stampa”, 10 febbraio 1900, n. 41, p. 3.

[29] Citato in P. Cavanna, Mario Gabinio, vita attraverso le immagini, in Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, GAM, 28 novembre 1996 – 16 febbraio 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo  Costantini.  Torino: Allemandi,  1996, pp.7-35 (p.10).

[30] Edoardo di Sambuy, La fotografia artistica, “La Stampa”, 28 novembre 1901, n. 330, p. 1.

[31] Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, , catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci.  Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179.

[32] Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 22 novembre 1990-17 febbraio 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini.  Milano: Fabbri,  1990, pp. 21-24. I suoi ritratti di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi furono tanto apprezzati da Schiaparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909,I parte, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nello studio di Grosso, sottolineando quanto il pittore seguisse “la via tracciata dall’artista che lui ama cosi profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno”, Enrico Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, ed., Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London 1905, pp. 1.3-1.8. Risulta difficile accostare queste prove di grande qualità agli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino a suo tempo pubblicati da Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911.  Torino: Allemandi, 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute.

[33] Cfr. Paolo Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri,  1990.

[34] Cronaca, “La Stampa”, 17 gennaio 1907, n. 17, p. 3. L’Esposizione vide la partecipazione di 391 autori provenienti da sedici paesi diversi, in particolare Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania.

[35] Il testo della conferenza, La photographie aux plaques autochromes des Frères Lumière, venne pubblicato integralmente ne “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n.8, agosto, pp. 122-128.

[36] La chiusura dell’Esposizione. Quasi duecentocinquanta mila visitatori, “La Stampa”, 20 novembre 1911, n. 322, p. 5.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili”, Brand, Inaugurazione della Mostra fotografica, “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99. Si veda anche Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia (Torino, aprile-ottobre 1911). Torino: G. Momo, 1911.

[38] Per i dati relativi a queste manifestazioni cfr. Esposizione internazionale di fotografia artistica e scientifica, Torino, giugno-luglio 1907, Concorso indetto dalla rivista internazionale “La Fotografia Artistica”. Torino, Grafica: 1907; Brand 1911.

[39] Dal villaggio Alpino alla Mostra dell’Inghilterra, “La Stampa”, 22 aprile 1911, n. 111, p. 3.

[40] La Mostra fotografica, “La Stampa”, 21 giugno 1911, n. 170, p. 6.

Vita breve di un pittore a macchina (2010)

in P. Cavanna, a cura di, Ferdinando Fino fotografo: le valli di Lanzo a colori all’inizio del Novecento. Lanzo Torinese: Società storica delle valli di Lanzo, 2010, pp. 45-62

 

“L’Esposizione fotografica indetta dalla Società Unione Escursionisti[1] ha avuto un ottimo successo”,  scriveva nel 1906 un redattore de “La Fotografia Artistica”; “Fino e Mattei riproducono scene e soggetti alpini, ricavandone dei veri quadretti.”[2] Questa citazione rappresenta l’avvio documentato delle vicende più significative della breve vita fotografica[3] di Ferdinando Fino, ma a ben guardare, e come non di rado accade, pone più questioni di quante non ne risolva. Mi riferisco qui non solo alla sua vicenda personale  quanto alla mutazione del ruolo del dilettante fotografo, categoria di cui Fino costituiva certo un esponente paradigmatico e che in quegli anni di consolidamento definitivo nell’uso delle lastre rapide alla gelatina e delle prime pellicole si stava trasformando quasi per gemmazione in due distinte figure: il raffinato amateur, erede della sofisticata tradizione ottocentesca, e il dilettante vero e proprio, il neofita che si avvicinava alla fotografia considerandola non più che un nuovo, grazioso giocattolo dagli impensati usi sociali. È certo in questa seconda accezione che va intesa la partecipazione al suo primo concorso, in anni in cui il suo interesse prevalente era rivolto al dipingere. L’iniziativa del concorso e della relativa esposizione era stata assunta dall’assemblea dell’Unione Escursionisti del 15 dicembre 1905 con un’immediata finalità pratica, quella di accrescere la collezione di fotografie dell’Unione stessa, la cui consistenza risultava inversamente proporzionale alla pratica fotografica dei soci. Per favorire la partecipazione dei “dilettanti propriamente detti” vennero esclusi i professionisti e i soci “specialisti in materia”, mentre i soggetti proposti riguardavano esplicitamente le gite sociali e in particolare i “Gruppi di Signore in gita sociale”; uno solo, il terzo, era dedicata al tema ‘artistico’  de “Il lago alpino”. I “veri quadretti” di Fino gli valsero una medaglia, ancora amorevolmente conservata dai nipoti, ma non pare che questo primo, inedito successo abbia influito su di una pratica fotografica allora certo episodica e quasi ovvia per un giovane della borghesia torinese, impiegato nell’azienda familiare di concimi e gelatine[4], con una solida formazione tecnica e un interesse non episodico per la pittura. Un vero dilettante insomma, anche prestando fede alla tassonomia semiseria proposta da G. Ferrari circa gli stessi anni: la “grande famiglia” dei fotografi  “come ogni altra dei tre regni della natura, si divide e suddivide in classi, generi, specie, gruppi ed individui (…). Le due classi principali sono: i dilettanti ed i professionisti. La prima si divide e suddivide all’infinito. Vi sono i semplici, i quali non domandano altro che di premere il bottone (…). Poi vi sono quelli che portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi (…) da collezionare. Più in su troviamo i dilettanti più diligenti, i quali sono molto stimati dai negozianti di generi fotografici. Più in su ancora troviamo gli appassionati, gl’ingegni matematici, per quali la fotografia è una risultante di varie piccole trovate (…). Da questa schiera di dilettanti escono poi i tecnici, gli industriali, i fabbricanti brevettati, gli applicatori.  Ma vi ha un altro genere di dilettanti, coloro che sentono e vedono il bello, e solo perché è tale lo riproducono sulla gelatina; essi non sono veramente artisti, ma temperamenti sensibili, intelletti accessibili all’arte. Vi sono poi i dilettanti, i quali non scelgono che quei determinati soggetti estetici che rispondono al loro temperamento (…) Costoro sono sensibili, raffinati, e si approssimano assai più all’arte. Finalmente ci sono i dilettanti artisti, i quali, seguendo un’ispirazione, compongono scene e oggetti, li dispongono in modo che la fotografia li faccia valere, e non si servono dell’obiettivo che per copiare il quadro che hanno immaginato e compiuto. Questi sono i veri artisti. Vengono quindi gli applicatori della fotografia alla scienza e all’industria (…). Infine abbiamo i professionisti, per i quali la fotografia, più che riflettere il loro temperamento, riflette il gusto del pubblico che servono (…)”[5]. Difficile dire se la sua pratica iniziale lo ponesse tra coloro che “portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi” ovvero tra “coloro che sentono e vedono il bello”. Troppo scarna per consentire un giudizio meditato la sua produzione superstite di stereoscopie monocrome, che pure già rivela in non pochi esemplari – forse più tardi – un uso virtuosistico della luce e un’attenta composizione. Nessuna stampa si è conservata per poter esprimere un parere, anche solo ipoteticamente fondato sulla qualità delle sue prime prove, ma le immagini presentate alla mostra del 1906 non dovettero essere considerate particolarmente significative se nessuna di queste entrò a far parte della ricca collezione di Agostino Ferrari, anch’egli membro dell’Unione Escursionisti, che comprendeva molte fotografie di dilettanti che frequentavano le Valli di Lanzo nei primi anni del Novecento.[6] Quando Fino partecipa e si segnala alla mostra del 1906 è quindi uno sconosciuto, che ancora non aveva trovato posto in quella mappa della pratica fotografica amatoriale costituita dall’apparato illustrativo del volume che il CAI aveva dedicato nel 1904 a questi luoghi e che conteneva tra gli altri un contributo dello zio Vincenzo.[7] Qui, accanto a nomi di noti professionisti come Edoardo Balbo Bertone di Sambuy o grandi amateur  come Mario Gabinio, Secondo Pia e Guido Rey comparivano dilettanti di rango quali Guido e Luigi Cibrario, Edoardo Garrone, Andrea Luino e altri di cui oggi risulta difficile ricostruire le tracce dell’attività fotografica, ma la cui presenza conferma il precoce commento di Carlo Ratti: “Pittori e fotografi molte di queste bellezze han già riprodotto  [mentre] brigate di alpinisti e di escursionisti percorrono in ogni stagione dell’anno quei pittoreschi monti che in breve spazio racchiudono tanta varietà di bellezze da compendiare tutto il sublime delle Alpi.”[8]  Difficile dire a quali nomi di fotografi potesse pensare Ratti, poiché il repertorio sinora più completo relativo all’iconografia fotografica delle Valli di Lanzo[9] segnala per gli anni Ottanta del XIX secolo solo pochi operatori locali (O. Bignami, Gayda e Bersanino) mentre prevalgono quelli attivi a Torino (Fotografia Roma, Ippolito Leonardi, Giuseppe Marinoni, Gaetano Songi) e si segnala la presenza del biellese Giuseppe Varale. A questi pochi altri possono aggiungersi, quali Cesare della Matta, forse un amateur, attivo a Ceres intorno al 1860, e  Pietro Bruneri, o Brunero, professionista con sede a Torino che aprì una succursale a Mezzenile dopo il 1870. Alcune sue immagini relative alle Valli di Lanzo erano comprese nell’album che il Club Alpino Italiano presentò alla Mostra Nazionale Alpina del 1884, a cui presero parte con immagini di analogo tema anche il dilettante Paolo Palestrino e Francesco Casanova, libraio, editore e valente fotografo, mentre nel giugno del 1887 il musicista Leone Sinigaglia riportava “a Torino più di 50 fotografie prese in questi bei giorni nei dintorni di Balme” e altre ne realizzò l’anno successivo per presentarle sotto il titolo di Villaggi e montagne della Val d’Ala alla Esposizione Fotografica Alpina che il CAI organizzò nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti nel 1893.[10]

Il nome di Ferdinando Fino va ora ad aggiungersi alla schiera ben più ampia dei fotografi che frequentarono le Valli nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo, quando la realizzazione del nuovo tronco ferroviario sino a Lanzo[11] diede nuovo impulso alla già consolidata frequentazione turistica dei luoghi da parte della borghesia e della nobiltà  torinesi, aprendosi più comodamente anche ai viaggiatori stranieri, come Samuel Butler, che descrisse in un breve efficacissimo passo la sua esperienza: “da Torino andai a Lanzo da solo, con un viaggio in ferrovia (…) di un’ora e mezza circa. (…) [A Lanzo] Vicino alla scuola c’è un campo, sul pendio del colle, da cui si domina la pianura. C’era una donna che falciava e per dire qualcosa di cordiale osservai che il panorama era bellissimo. «Sì – rispose – si possono vedere tutti i treni».”[12]  Era la modernità della macchina, a vapore non meno che fotografica, che apriva le Valli allo sguardo degli altri; che portava l’immagine dei luoghi oltre i confini della Stura, specialmente grazie alla fotografia amatoriale dei villeggianti e dei più occasionali escursionisti, che per compilare i loro appunti di viaggio non di rado ricorrevano alla stereoscopia,[13] la più diffusa forma spettacolare per immagini antecedente alla nascita ed al primo sviluppo del cinema. Era l’avvento dell’istantanea, favorita dall’accoppiamento tra le nuove emulsioni rapide alla gelatina e il piccolo formato delle lastre, che consentiva ridottissimi tempi di posa offrendo la possibilità di rivivere poi, nella quiete ovattata del salotto di casa, le piccole emozioni e gli incontri con realtà vicine e tanto distanti dal quotidiano scenario urbano, a cui la visione tridimensionale restituiva un affascinante rilievo, emotivo non meno che spaziale. Osservando le  superstiti stereoscopie di Fino emerge chiaro anche in lui il piacere della notazione aneddotica, tra costume e memorie familiari; la loro funzione principale era diaristica, per nulla espressiva, come se a questa fotografia (senza e prima del colore) non fosse concesso altro statuto che quello della testimonianza, cui corrispondevano però una maggiore libertà di ripresa e meno preoccupazioni compositive. Non considerando le consuete, inevitabili riprese di soggetto familiare, analoghe a quelle che negli stessi anni andavano a riempire centinaia di album, tra loro simili e quasi indistinguibili se non per i diretti interessati, e solo per l’arco breve di poche generazioni a venire, le sue immagini di genere sono assimilabili alle Scene di vita e di lavoro che tanto successo avevano nei periodici amatoriali dei primi anni del secolo. Ne “Il Progresso Fotografico”, in particolare, dove vennero pubblicate sotto questo comune  titolo fotografie di autori tra loro diversissimi quali Wilhelm Von Gloeden e Andrea Tarchetti[14], lontane nella loro impostazione bozzettistica dall’attenzione propriamente etnografica che autori come Vittorio Sella e Domenico Vallino dedicavano alle valli biellesi e valdostane[15].  L’attenzione di Fino non era sistematica, non lascia intuire un progetto documentario, ma non si applicava neppure alla descrizione di eventi eccezionali, destinati a nutrire l’immaginario piuttosto che a coltivare il ricordo. Le sue sono sì cronache, ma familiari, dove l’attenzione si esercita sui piccoli fatti non memorabili, su occasioni quasi quotidiane, destinate a trasformare ogni più minuto evento in piccolo spettacolo salottiero piuttosto che a offrire alle generazioni prossime le memorie visive della propria famiglia. Erano, queste fotografie, un’altra forma di affabulazione, dove lo spiccato effetto di realtà della visione stereoscopica, il realismo sorprendente della loro tridimensionalità virtuale offriva una vividezza più prossima alla trasmissione orale del racconto che all’ufficialità dei ritratti di studio. Obbedivano a una logica inversa alla sintesi propria dell’immagine simbolica, dell’icona in grado di racchiudere in sé l’essenza della persona. O dell’evento. Questa intenzione, occasionale e privata, ben corrispondeva allo spirito del concorso del 1906 in cui per la prima volta si era segnalato. E al silenzio successivo.

Il nome di Fino non compare infatti fra gli iscritti al Club d’Arte, fondato a Torino nello stesso anno,  che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi, ma neppure nelle diverse esposizioni promosse negli anni successivi da “La Fotografia Artistica” (1907[16]) o dalla Società Fotografica Subalpina (1907, 1908), dal Photo-Club (1909, con una piccola sezione dedicata alle autocromie), dal Circolo Principe Eugenio e simili. In assenza di qualsivoglia documentazione, nulla ci è dato sapere delle ragioni che lo tennero lontano dalla vita fotografica dopo una prima occasione certo non insoddisfacente. Possiamo solo prenderne atto; segnalare il momento della ripresa, subito di notevole rilievo: per le sue autocromie stereoscopiche Ferdinando Fino venne premiato con Medaglia d’argento della Società Artistica e Patriottica[17] nell’ambito del Concorso nazionale di Fotografia collegato all’Esposizione Nazionale d’Arte e d’Industria Fotografica di Milano.  “Nelle prove a colori  (autocromie) chi si è fatto grande onore è Ferdinando Fino di Torino con venti stereoscopie autocromiche 6×13 che potevano dirsi d’effetto meraviglioso”[18],  commentava in quell’occasione il redattore de “Il Progresso Fotografico”, in una recensione insolitamente molto critica nei confronti del livello medio delle opere in mostra, nella quale ad esempio  non era riservata più che una citazione per Luigi Pellerano, certo allora il nome più noto tra gli autocromisti italiani e di lì a poco autore di un fondamentale testo in materia[19], il quale a proposito della stessa mostra affermava che “Coloro che hanno osservato allo stereoscopio delle autocromie come quelle del Signor Fino all’Esposizione di Milano di quest’anno non hanno potuto impedirsi di gridare «Ma è la verità assoluta!».”[20] Nella sua nuova stagione fotografica Fino confermava l’uso della stereoscopia, ma si misurava con la novità dirompente, assoluta, oggi incommensurabile del colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel (Gabriel Lippman, 1908). La nuova tecnica dell’autocromia[21], che forniva la prima soluzione praticabile su larga scala al problema della fotografia a colori, doveva rappresentare per Fino non tanto una curiosa novità tecnologica quanto il riconoscimento della possibilità di esprimersi al meglio proprio attraverso l’uso della gamma cromatica,  trait d’union con la sua passione di pittore dilettante e con gli amici pittori [22].  Con l’utilizzo del colore il riferimento non poteva che essere costituito dall’universo culturale e dal patrimonio iconografico della Pittura, non solo pieno di suggestioni per definizione nobili, ma che gli era già prossimo per le sue passioni personali e, forse, per le sue frequentazioni. È qui, in questo ambito e in questa pratica che Fino riconobbe e si concesse quelle possibilità di espressione che sembravano assenti e certo meno urgenti nella produzione in bianco e nero. Come per molti amateur suoi contemporanei l’intenzione fotografica era non solo molteplice, ma distinta e quasi separata:  una vera e propria ‘distanza’ tra ambiti solo apparentemente contigui.

La prima presentazione del procedimento autocromico era stata fatta nel 1904 dai Fratelli Lumière nel corso della XII sessione dell’Unione Internazionale di Fotografia[23], cui fece seguito una ben orchestrata campagna pubblicitaria internazionale, che coinvolse le più influenti testate, i maggiori notisti di fotografia e gli stessi inventori in prima persona[24]. Se ancora nel giugno 1905 un critico come Léon Vidal parlava in modo misterioso dei primi risultati, annunciando di essere “alla vigilia del più notevole dei progressi compiuti dalla fotografia”[25], già in luglio sulle pagine dello stesso periodico[26] Armando Gandolfi avrebbe citato il nome degli inventori e spiegato il procedimento nei suoi dettagli, mentre nel 1907, anno della sua commercializzazione, la presentazione italiana del nuovo processo, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica promossa da “La Fotografia Artistica”, venne affidata all’ingegner Ernesto Mancini, Segretario dell’Accademia dei Lincei, con una conferenza dedicata a La photographie aux plaques autochromes des Frerés Lumière, poi pubblicata integralmente.[27] La nuova tecnologia, e il nuovo prodotto, suscitarono immediatamente grandissimo interesse e attenzione da parte della stampa più qualificata: oltre al già citato “La Fotografia Artistica”, anche il prestigioso periodico inglese “The Studio”, ad esempio, dedicò nell’estate del 1908 un numero speciale alla fotografia a colori, di fatto incentrato tutto sulla novità delle autocromie, con immagini tra gli altri, di J. Craig Annan, Alvin Langdon Coburn, Baron A. De Meyer, Franck Eugene, Heinrich Kühn e George Bernard Shaw.[28]  L’elemento di attrazione era costituito non solo dal fascino divisionista (e quindi eminentemente moderno, in quegli anni) della grana colorata di queste immagini, ma anche e soprattutto dalle possibilità offerte di affrontare con strumenti linguistici nuovi il tema del  paesaggio con cui la fotografia artistica si era a lungo misurata e che continuava ad essere considerato centrale anche nei primi decenni del Novecento. Per queste ragioni si sviluppava e si definiva progressivamente,  attraverso numerosi contributi, una precisa estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico col pittorialismo, ora  si misurava e provava a  fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche, espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico. Così nella prefazione al già citato Colour Photography, 1908, contro la tendenza quasi ovvia di instaurare un confronto con la pittura, il curatore riteneva che fosse “del massimo interesse per la fotografia di essere considerata di per sé, e che qualsiasi successo artistico potesse essere raggiunto sarebbe stato giudicato più opportunamente per i propri meriti piuttosto che secondo gli standard stabiliti dal pittore o dall’incisore. I tentativi di riprodurre gli effetti ottenuti da questi artisti sono in sé stessi opposti allo spirito della vera fotografia, e mostrano una mancanza di apprezzamento delle possibilità dell’apparecchio fotografico, e delle possibilità che offre per il raggiungimento di effetti originali”. [29] Gli faceva eco nello stesso anno Edoardo Bertone di Sambuy sollecitando i fotografi autocromisti a “arrivare a formare un solo essere col proprio apparecchio. Bisogna che il nostro occhio, nell’osservare il soggetto, lo possa vedere così come sarà riprodotto sulla lastra autocroma”[30], aprendo così la strada a una concezione puramente fotografica, al pensare fotograficamente non il soggetto ma il soggetto fotografato. Più in particolare ciò che veniva immediatamente riconosciuto e apprezzato, ma anche sentito come vincolo, era l’assoluta esattezza di queste immagini, “fedeli alla natura più di quanto la Natura sia fedele a sé stessa, così implacabilmente precise da costituire in effetti un’alterazione”, imponendo al critico di “scoprire quale modalità di struttura estetica fosse possibile erigere su questa base.”[31] Ciò era particolarmente urgente proprio per la fotografia di paesaggio, nella quale la distanza tra l’osservazione dal vero (dove la purezza dei singoli colori è mediata dalla percezione) e la visione dell’autocromia (dove i colori sono registrati distintamente, sulla base delle loro specifiche caratteristiche fisiche) era maggiore e quasi incolmabile, tanto da “provocare un acuto senso di shock (…) poiché non vi è nulla di più fragile della bellezza di un colore.”  In anni in cui la battaglia pittorialista aveva fatto coincidere le possibilità artistiche della fotografia con le manipolazioni operate dall’autore, questa impossibilità d’intervento era vista come un limite insormontabile, arrivando a dire che “la strada della tecnica resta preclusa al fotografo autocromista per raggiungere l’Arte, poiché, per le caratteristiche stesse del processo, viene automaticamente escluso da ogni possibile intervento, da ogni eventuale manipolazione, perdendo di fatto la propria libertà, il proprio arbitrio, così che anche l’intervento  una delle altre due strade con cui il fotografo può sperare di raggiungere la vetta della Collina Sacra risulta rigidamente sbarrata”.[32]  Restava – secondo Dixon Scott – solo quella forma di artisticità fotografica, di espressione del temperamento che definiva “creazione per isolamento”, corrispondente cioè alla scelta del soggetto e soprattutto al taglio operato dall’inquadratura. In questa poetica del frammento risiedevano le possibilità estetiche dell’autocromia, così come la fotografia di genere, il ritratto e la natura morta erano ritenuti i soli ambiti espressivi in cui il fotografo, nel chiuso del proprio studio, poteva ritornare a essere il deus ex machina, lasciando all’apparecchio il solo compito di registrare la scena accuratamente composta e cromaticamente accordata. Analoghi limiti nella resa del colore e, in apparente contraddizione, di immodificabile precisione erano individuati anche dal critico Robert de la Sizeranne[33], ma puntualmente contestati da un noto autocromista come Antonin Personnaz, che rifiutando le distinzioni tra soggetti e generi diversi individuava le possibilità espressive del fotografo nel momento della scelta del motivo e della sua restituzione sulla lastra, prestando particolare attenzione alla scelta degli obiettivi e all’illuminazione del soggetto, imparando dai grandi maestri ad utilizzare i più opportuni accostamenti cromatici: “Corot gli mostrerà che la sola cuffia rossa di una contadina basta a esaltare il verde di un paesaggio.” [34] Il colto richiamo pittorico di questo compagno di strada degli impressionisti forse non sfuggì a Fino, che popolava le sue autocromie di analoghe soluzioni, ma questa pratica di armonizzazione preventiva del soggetto doveva costituire la regola per chi si misurava con quelle prime immagini a colori: “L’autocromista paesista – consigliava Pellerano nel suo manuale – nella macchina, con le lastre, ha dei fazzoletti di seta e di cotone, berretti da contadini, sciarpe, veli rossi, verdi, violetti, d’ogni tono e d’ogni colore. (…) Questo bazar ambulante, come si può pensare, serve a compensare quel che talvolta la natura non dà, a dipingere la stessa natura con cose colorate e magari con lo stesso pennello, imbellettato all’occorrenza, ma sempre con perfetta maestria d’arte. (…) Egli metterà un rosso (un fazzoletto al collo, in testa a una contadina, un velo) dove gli piace; là un giallo pallido (distendendo magari delle stoffe) oppure un tendaggio damascato.”[35]

Quasi una sintesi descrittiva della produzione di Fino, per come è testimoniata dalle autocromie che qui presentiamo e suggerita dai titoli di quelle offerte ai suoi corrispondenti. Dopo il buon risultato ottenuto all’esposizione milanese del 1909 non pare abbia preso parte ad altre occasioni espositive sino al 1911, quando nell’ambito delle celebrazioni per il cinquantenario della proclamazione del Regno d’Italia si tenne a Torino l’Esposizione internazionale delle industrie e del lavoro, che comprendeva anche un Concorso Internazionale di Fotografia.[36]  Tra le “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti” [37] nel Palazzo delle Feste, si segnalavano ancora una volta le autocromie stereoscopiche di Fino, “ottime sia come scelta di soggetti che come freschezza di colore (…), fra cui ricordiamo specialmente. La ‘Rosa delle Alpi’, la ‘Pineta’, ‘Sulle Alpi Graie’, ‘Prato alpino’, ‘Alba grigia’.”[38] La partecipazione e il successo ottenuto consentirono a Fino anche di avviare una proficua serie di rapporti professionali, documentata dall’unico suo copialettere fortunosamente superstite[39], che puntualmente li registra almeno per gli anni dal 1912 al 1916, lasciando però intuire rapporti antecedenti.[40] Questa fonte risulta particolarmente interessante per quanto ci consente di comprendere, se non delle sue intenzioni artistiche, almeno del suo modo di operare; di questa passione cui riusciva a dedicare solo “le domeniche libere” per “aggiornare il mio lavoro per poterle mandare delle fotografie di montagna, con grande dovizia di neve.”[41] E ancora: “In febbraio marzo aprile andai otto volte in montagna e su otto, sette domeniche presi neve, tramontana, senza poter far nulla (…) mentre una volta sola fui fortunato e potei prendere qualche veduta. Da domenica a ieri (giovedì) andai nei dintorni di Rapallo per prendere vedute di mare. Devo ancora svilupparle, però il mare mosso e il vento sugli alberi mi furono contrari[42] e non so a cosa avrò approdato nei miei tentativi. Appena avrò una piccola collezione (spero fra una ventina di giorni) glie la spedirò, e lei sceglierà. Intanto viene giugno e allora sono certo di poter preparare e ripetere quelle che avevo all’Esposizione per mandargliele.  Creda però che non potendo trar copie dalle fotografie a colori[43], per quanto il prezzo di £. 20 possa parer caro, alla fine di tutti i conti, le spese e le fatiche, non sono compensate dal guadagno materiale. Utile certo per me è quello di soddisfare con minor spesa alle mie aspirazioni di far passeggiate, di gustare le meraviglie della natura, ammirandole e procurandomene qualche ricordo fotografico quando la fortuna mi permette di prendere due volte la stessa veduta. (…) Noti poi che, quando le lastre sono nei telai, e che per due tre settimane non sono usate (come successe a me nel cattivo tempo) devono essere buttate via perché diventano inservibili.”[44] Il procurarsi “qualche ricordo fotografico” delle “meraviglie della natura” risulta quindi il solo scopo dichiarato della sua pratica fotografica, nulla più che “un’arte di diletto (…) il vaso di umili fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini”[45], sebbene non trascurasse l’occasione di ottenere un qualche piccolo introito, sempre meno occasionale e benvenuto “tanto più che, colle prospettive poco rosee che la nostra industria mi riserva, qualche po’ di guadagno extra non mi riesce certo inopportuno.”[46] Non fosse che per questo Fino si impegnava con Italo Carboni, certo il suo committente più importante, proponendo vere e proprie campagne documentarie per soddisfare richieste che andavano ben oltre la produzione ‘artistica’ presentata all’Esposizione del 1911. “Qui in Piemonte abbiamo qualche bella chiesa di puro stile del 1000 – e del 1500, come l’Abbazia di Vezzolano presso Albugnano d’Asti – o la chiesa di Sant’Antonio di Ranverso in Val di Susa presso Avigliana; degni di fotografia sono pure tutti i castelli della Valle d’Aosta, pei quali gli sfondi di Alpi con neve non mancano di rendere attrattivissime le vedute. Ma la Val d’Aosta è così mal servita da treni ferroviari, che dovrei aspettare che le strade diventassero buone” gli scriveva nel febbraio del 1912[47], e certo la proposta dovette essere accolta, avviando una serie di commesse di cui allo stato attuale delle nostre conoscenze non siamo in grado di comprendere le ragioni, restando indefinita la figura e l’attività del committente.[48] La richiesta più impegnativa riguardava gli ambienti del Palazzo Reale di Torino, per i quali era necessario superare difficoltà di ordine burocratico quanto tecnologico: occorsero infatti ben nove mesi per ottenere l’autorizzazione dell’ Amministrazione della Real Casa,  ma “finalmente – nel giugno 1913 –  dopo mille rigiri per avere il permesso di fotografare la camera di Re Umberto questo mi fu negato, come a tutti è negato, potrei però eseguire quelle dello scalone, salone degli svizzeri, sala da ballo, pranzo ecc. per le quali ebbi il permesso.”[49] La realizzazione si presentò poi tanto difficoltosa quanto scarsamente remunerativa: “in omaggio alla deferenza che Ella ebbe sempre per me, scriveva a Carboni nell’agosto del 1913[50] – ho mantenuto il prezzo di £ 20 caduna, quantunque, specialmente per gli interni del Palazzo Reale, io finisca per rimetterci, essendoché per ogni veduta, come già le accennai, dovetti farne tre per la RR. Casa, e per avere una veduta buona, senza macchie, graffiature ecc, dovetti farne diecine per ogni soggetto! In compenso, tanto più che i risultati per la maggior parte d’esse sono eccellenti, mi fido perfettamente della di Lei correttezza, ed oso sperare non me ne rifiuterà alcuna del Palazzo Reale onde compensarmi in parte di un mese di lavoro! Noti che in quegli interni ho dovuto dare pose di 1-2 e più ore[51], ed il pubblico che visitava, passando, non di rado mi rovinò l’opera mia! (…) Dimenticavo di dirle che per la disposizione infelice della luce e per l’ampiezza dell’angolo visuale che le attuali macchine fotogr[afiche] stereoscopiche non possono abbracciare, o [sic] dovuto scartare lo scalone d’onore ed il Salone degli Svizzeri, viceversa mi sono barcamenato in modo da darle una collezione dei punti migliori e decentemente fotografabili a colori del ns. Palazzo Reale.” Il committente, che pare conoscesse piuttosto bene le stesse Valli di Lanzo,  non dovette però ritenersi soddisfatto: “Quanto al Salone degli Svizzeri ed allo Scalone d’onore, ritenterò la prova – gli comunicava Fino una settimana più tardi – tanto per dimostrarle che cerco di contentarla, ma siccome mi sarebbe passiva la fattura di 4 lastre per qualità, come mi fu passiva per le 10 mandatele, userò l’astuzia di dire all’Amministraz.  della R.C. che non mi sono riuscite, e così farò a meno di ripetere pose di 3-4 ore! (…) La veduta N.15 (se non erro dove sul sentiero è ferma una donna colla gerla) è realmente la perinera, ed il campanile non ha nulla a che vedere con quello della Cappella di Benot, al quale assomiglia però, data la comunanza del tipo architettonico contemporaneo delle chiese delle vallate di Lanzo. Per l’interno della cappella, credo che non ci sia interesse, ad ogni modo se sarà fotografabile e degna di nota, ad una mia eventuale gita colà lo tenterò per lei.”[52] Negli anni immediatamente successivi all’ Esposizione del 1911 le occasioni di lavoro fotografico sembrano moltiplicarsi, nei più diversi settori: dalla documentazione d’arte, con la riproduzione di dipinti di Vittorio Avondo su richiesta di Emanuele Celanza[53], alla realizzazione di alcuni interessanti studi di nudo, forse realizzati su richiesta di Alfredo Canova, residente a Lima ma conosciuto a Torino proprio nel 1911[54]. Il tema non era certo inconsueto neppure per la fotografia, che sin dai primi dagherrotipi aveva offerto un’ampia produzione di nudi, specialmente femminili, in una gamma estesa di trattamenti che andava dallo ‘studio artistico’ all’immagine licenziosa o esplicitamente pornografica, affidandosi non di rado all’iperrealismo della resa stereoscopica per ottenere un di più di sollecitazione sensoriale, certo accentuato dal vincolo di una visione che non poteva che essere individuale ed esclusiva: privata. Questo sembra essere stato l’ambito di maggior diffusione, la destinazione privilegiata, tanto che il tema scorre quasi sotterraneo e certo non risulta essere stato tra quelli qualificanti delle prime ricerche, esplicitamente artistiche, come quelle poste in essere dai fotografi pittorialisti, nel cui ambito sono rari gli autori che lo hanno affrontato sistematicamente. Nessun nudo venne presentato alla grande Esposizione internazionale di Fotografia Artistica che si svolse a Torino nel 1902; nessun nudo integrale comparve mai sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, a riconferma di uno scarso interesse degli autori italiani per il tema, ma anche la più autorevole “Camera Work” ospitò quasi solo i corpi simbolisti, immersi nella natura di Anne W. Brigman. Non era quindi alla cultura fotografica che Fino poteva guardare per concepire le proprie immagini, ma all’iconografia pittorica, specialmente accademica, sebbene alla predilezione di molti per Ingres quale modello[55] egli doveva preferire Delacroix (Linda, I), o per meglio dire le fotografie che Eugène Durieux aveva realizzato sotto l’attenta regia del pittore circa mezzo secolo prima[56]. Riferimento fotografico difficile da ipotizzare con verosimiglianza, quasi impossibile. Più criticamente plausibile una mediazione iconica, per la relativa buona circolazione dei modelli sotto forma di riproduzioni con diverse tecniche, non ultima proprio quella fotografica, e per le relazioni forti con l’ambiente artistico torinese di cui costituiscono più che un indizio alcune immagini e alcuni documenti. Michelina (modella nello studio del comm. Grosso), dichiara sin dal titolo il luogo della sua realizzazione e si presenta come un’interpretazione fotografica del notissimo dipinto del 1896, mentre (Linda, II), si ispira a sua volta a una delle tante varianti realizzate dal pittore dopo lo scalpore e il successo de La nuda[57]. Ribaltando una consuetudine propria di tutto il XIX secolo e oltre, Fino non realizzava fotografie per i pittori, ma ne utilizzava le risorse (studi, modelle, opere) per scopi personali. Qui l’atelier  non è neppure più pretesto per mostrare il corpo nudo, è semplice scenografia, ambientazione tra le tante possibili, facilmente sostituibile da quei “tendaggi damascati” che suggeriva il manuale di Pellerano o addirittura da un contesto ambientale quasi domestico, sebbene ingombro di piccoli quadri, tenuto in ombra e un poco fuori fuoco come nel bel Busto di giovinetta, certo il meno convenzionale, il più moderno dei suoi nudi, dei quali merita però sottolineare come fossero, tutti, esercizi di grande virtuosismo tecnico, per le lunghissime pose necessarie per le riprese in interni, rispetto alle quali certo risultava fondamentale la capacità professionale delle modelle coinvolte, sebbene non dovesse essere questa qualità ad attrarre i suoi possibili acquirenti.

Il rapporto diretto con alcuni esponenti del mondo artistico piemontese, tra Accademia Albertina e soggiorni a Viù, favorito forse anche da alcuni legami parentali, dalla sua primaria passione per la pratica pittorica, testimoniato da queste immagini e da alcune lettere[58], è confermato proprio dalle fotografie a colori di Ferdinando Fino, che nella scelte compositive e di trattamento dei soggetti mostrano una consuetudine con il paesismo piemontese e con certa pittura coeva che si traduce immediatamente in adesione stilistica, tradotta nelle nuove forme espressive consentite e – di più – suggerite dalle particolarità tecniche dell’autocromia. “Non si può immaginare, se non si osserva, l’effetto eminentemente suggestivo che danno le autocromie stereoscopiche – scriveva Rodolfo Namias[59] – Congiungere colori naturali e brillanti coll’effetto di rilievo e di forma costituisce per l’occhio un godimento che niente può superare.” La pubblicazione di queste immagini, così come la loro esposizione sotto forma di stampa a immagine singola, certo priva l’osservatore odierno di questa affascinante esperienza, rendendo meno evidenti le intenzioni del fotografo, poiché la visione monoculare conserva certo gli elementi cromatici e la struttura compositiva, ma annulla  quell’effetto di profondità spaziale che ne costituiva il tratto distintivo, e a cui Fino prestava particolare attenzione specialmente nelle riprese di paesaggio, in cui questa era risolta non solo mediante la scelta di un opportuno punto di vista, che consentisse una graduale distribuzione dei volumi o sottolineando opportunamente il punto di fuga (si noti l’alberello posto al centro di Paesaggio), ma anche giocando sulle diverse luminosità della scena, collocando le ombre più profonde in primo piano (Alba sul Monte Civrari). Luce e colore, un colore iperrealistico e vivo nella mutevole osservazione per trasparenza[60], erano il vero tema di molte riprese, giocate sulla variazione quasi monocromatica: dalla penombra fredda, quasi vespertina del sottobosco (Lo stagno), argomento di diverse riprese, una delle quali (Poesia autunnale) facilmente accostabile a Nel bosco, di Petiti[61], datato 1914,  alla saturazione piena dei rossi aranciati (Nel regno dei larici) e dei verdi (Mulattiera presso Usseglio?), alle infinite combinazioni intermedie (Bosco in collina, Alberi in autunno). L’ambiente è alpino, quasi sempre, o campestre: non gli interessava la città né la vita che vi si svolgeva. Anche le sue figure sono ambientate tra prati e boschi. Alcune non sono nulla più che versioni a colori delle consuete immagini escursionistiche (Borgata Porcili presso LemieViù: Versino), ma la maggior parte di quelle rimaste mostra con quanta sensibile attenzione Fino guardasse alla produzione piemontese di derivazione fontanesiana, senza per questo escludere suggestioni diverse e di differente ispirazione, sino a produrre quasi un repertorio fotografico di soluzioni pittoriche nelle quali la figura gioca un ruolo importante, pur senza essere fondamentale. Sono scene di genere, con pastorelle e valligiane che paiono attendere ai loro lavori, ma non si tratta di istantanee. Nulla di più estraneo all’operare di Fino di ogni intenzione etnografica. Non gli apparteneva la volontà di superare “i prodotti del pennello in fedeltà e verità nel ricordarci la vita vissuta, palpitante di movimento, producendo una freschezza di impressioni che difficilmente sono a portata della paletta” [62]. Le sue scelte erano frutto del convergere di due intenzioni: la volontà di produrre immagini di valore artistico e la necessità di  “trovare i tipi che realmente posino con arte e naturalezza: ma in campagna si troveranno sempre, e sono i contadini, mentre non è facile trovare negli abitanti della città espressioni tanto naturali.”[63]  Quando neppure i villici soccorrevano alla bisogna, poteva essere la moglie a prestarsi come modella per arricchire una scena agreste (Sull’altipiano di Benot, la figura a sinistra) o realizzare efficaci composizioni sul tema della figura nel paesaggio (Meditando; Alla sorgente), accordate cromaticamente nello scrupoloso rispetto dei canoni espressi dalla pubblicistica coeva, senza mai far mancare quella cuffia rossa che sembra essere stata il marchio distintivo di quel sereno mondo color pastello raccontato dalle autocromie amatoriali. Quello che la Grande guerra si sarebbe premurata, di lì a poco, di cancellare.

 

 

Note

 

[1] L’Unione Escursionisti Torinesi (U.E.T.) venne fondata nel settembre del 1892 per iniziativa di Silvestro Fiori e Luigi Ardizzoia, allo scopo di “curare lo sviluppo dell’amore per l’escursionismo; promuovere, organizzare e dirigere comitive per gite in montagna ed in pianura alla visita dei luoghi che presentano maggiore interesse per attraenza di bellezze naturali e per ricordi storici od artistici; incoraggiare ed aiutare gli studiosi alle ricerche istruttive.”, cfr.  “L’Escursionista”, 4 (1902), n.8, 7 agosto, p.4. Erano soci negli anni immediatamente successivi alla fondazione architetti come Mario Ceradini, Gottardo Gussoni e Cesare Bertea, studiosi come Ercole Bonardi ed Edoardo Barraja, l’avvocato Carlo Reynaudi, autore ed editore di una fortunata serie di Guide turistiche, fotografi come Emanuele Elia Treves (collaboratore della “Gazzetta del Popolo”, tra i fondatori della Società Fotografica Subalpina), Mario Gabinio, Giancarlo Dall’Armi, lo scultore Tancredi Pozzi, gli  editori  Francesco Casanova e Simone Lattes. L’attività dell’associazione era sostenuta da altre collaborazioni prestigiose come quella di Riccardo Brayda, dal 1898 fino alla morte, di Giovanni Vacchetta e di Federico Sacco, ma la rete di relazioni intessuta tra i diversi gruppi a livello regionale è tale che scorrendo le pagine del  “L’Escursionista” si  incontrano altri nomi di esponenti di spicco della cultura e della fotografia piemontesi come Francesco Negri e Pietro Masoero.

[2] A.T., Notizie fotografiche, in “La Fotografia Artistica”, 3 (1906), n. 12, dicembre, p. 204. Ricordo che l’Unione Escursionisti aveva partecipato anche all’Esposizione di Fotografia di Torino del marzo 1900. In quell’occasione  “La Valle di Viù fu illustrata assai bene da Federico Filippi, il quale lascia molto bene sperare di sé per le sue vedute in formato 9×12.”, Ugolino Fadilla, L’Esposizione fotografica a Torino,  “Gazzetta di Torino”, 5 marzo 1900, p.4. La mostra del 1906 ebbe tra i propri organizzatori Mario Gabinio, di cui era già relativamente noto il lavoro dedicato alle Valli di Lanzo, ma non paiono esservi state relazioni dirette o di amicizia tra i due: tra le 475 stampe originali  e le decine di lastre di sessanta autori diversi comprese nel Fondo Gabinio della Fondazione Torino Musei non compaiono immagini  di Fino, cfr. Mario Gabinio. Valli Piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, 2000), a cura di P. Cavanna. Torino: Edizioni GAM Galleria Civica d’Arte Moderna, 2000.

[3] Non solo per i limiti geografici stabiliti da questo progetto dedicato alle Valli di Lanzo, è bene avvertire che lo studio della sua figura di fotografo, e della sua produzione, è inevitabilmente condotto su quanto di lui si conosce allo stato attuale, cioè sulle immagini superstiti: non più di un migliaio di fototipi tra lastre monocrome e autocromie, tutte stereoscopiche, ma nessuna stampa. Questo patrimonio consente certo di valutare opportunamente la sua produzione in bianco e nero, meno le più interessanti autocromie che – come dimostra il copialettere – venivano regolarmente vendute almeno a partire dai mesi successivi all’Esposizione del 1911 e sono quindi disperse (semmai superstiti) in archivi di famiglia italiani e stranieri, in fondi non ancora indagati di pittori torinesi, e delle quali ci restano soltanto – in non pochi casi – i titoli originali.

[4] Non è questa la sede per ripercorrere le vicende della storia della fotografia in Piemonte nel XIX secolo, ma credo sia utile richiamarne alcuni caratteri salienti, in particolare la pratica amatoriale svolta ad altissimo livello e sovente con esiti pionieristici.  Si pensi ad esempio ai numerosi rappresentanti della borghesia imprenditoriale come Giuseppe Venanzio Sella, Emilio Gallo o Cesare Schiaparelli, nei quali si associavano competenze tecnologiche e imprenditoriali, tanto da poter quasi dire di una fotografia dell’età industriale, dove industriale è per la prima volta la produzione e quasi solo industriali (sebbene per poco) furono molti dei suoi cultori. A questi si aggiunsero i rappresentanti delle professioni: i medici, i farmacisti (ritorna, ancora, inevitabilmente la dimestichezza con la chimica), gli ingegneri ma soprattutto gli avvocati, come Secondo Pia. Tra questi va ricordato, di poco più giovane di Fino, almeno Domenico Riccardo Peretti Griva (Coassolo 1882 – Torino 1962) che fu uno dei dilettanti appartenenti alla storica Scuola Piemontese di Fotografia Artistica (così denominata da Schiaparelli), che insieme ad Achille Bologna, Stefano Bricarelli, Carlo Baravalle, Mario Gabinio  Cesare Giulio, Italo Bertoglio e pochi altri segnarono la modernità della fotografia italiana tra le due guerre mondiali.

[5] G[uglielmo] Ferrari, Esposizione fotografica. La fotografia artistica, in “La Stampa”, 34 (1900), n. 67, 8 marzo, p. 3.

[6] Agostino Ferrari, Catalogue de Photographies de la Châine des Alpes, des Appennins, des Pyrenées, du Caucase, de l’Himalaya, etc., 1902 e 1902-1907, dattiloscritto, Torino, Museo nazionale della Montagna, Centro di Documentazione. A conferma di questo dato ricordiamo che nessuna immagine di Fino venne utilizzata dallo stesso Ferrari per il volume La Valle di Viù. Torino: Lattes, 1912.

[7] Vincenzo Fino, Notizie mineralogiche sulle Valli di Lanzo, in Club Alpino Italiano, sezione di Torino, Le valli di Lanzo: Alpi Graie. Torino: G. B. Paravia e C., 1904, pp. 491-507. Per la preparazione della monografia il CAI aveva indetto un concorso fotografico e una successiva mostra alla quale avevano preso parte tredici autori con ben seicento fotografie.

[8]Carlo Ratti, Da Torino a Lanzo e per le Valli della Stura. Torino: F. Casanova, 1883, pp. 6-7. Nonostante il richiamo all’attività dei fotografi, il volume è però illustrato da sole riproduzioni di disegni.

[9] Aldo Audisio, Bruno Guglielmotto Ravet,  Valli di Lanzo ritrovate fra Ottocento e Novecento: 1860-1930.  Ivrea: Priuli & Verlucca, 1981.

[10] Cfr. Giuseppe Garimoldi, Alle origini dell’alpinismo torinese. Montanari e villeggianti nelle valli di Lanzo. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1988. p.55; Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990; Pierluigi Manzone, a cura di, Un repertorio dei fotografi piemontesi 1839-1915, in Id., a cura di, Fotografi e fotografia di provincia: Studi e ricerche sulla fotografia nel Cuneese. Cuneo: Biblioteca Civica di Cuneo, 2008, pp.11-119.  Segnalo qui che ancora nel 1911, all’Esposizione di fotografia, Zeno Flamia di Vinovo, presentava un Album di vedute della Valle di Lanzo e della Valle di Viù, cfr. Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia,  Torino, aprile-ottobre 1911. Torino: G. Momo, 1911, p.10, n.22.

[11] Per le vicende costruttive della ferrovia rimando a Cristina Boido, Chiara Ronchetta, Luca Vivanti, a cura di, Torino – Ceres e la Canavesana. Itinerari ferroviari piemontesi. Torino: Celid, 1995.

[12]Citato in Rinaldo Rinaldi, a cura di, Un inglese nelle Valli di Lanzo. Dalle note di viaggio di Samuel Butler. Lanzo: Società Storica delle Valli di Lanzo, xlviii, 1995, p.8 passim.  Butler era allora in Italia su incarico del proprio editore che gli aveva offerto 100 sterline per la realizzazione di un libro illustrato sul nostro paese, poi rifiutato e pubblicato a spese dell’autore: Alps and Sanctuaries. London: David Bogue, 1882. Sull’uso della fotografia da parte dello scrittore inglese si vedano: Elinor S. Shaffer, Erewhons of the eye : Samuel Butler as painter, photographer, and art critic. London: Reaktion Books, 1988; Samuel Butler, the way of all flesh : photographs, paintings watercolours and drawings by Samuel Butler (1835-1902),  catalogo della mostra (Bolton, 1989). Bolton:  Bolton Museum and Art Gallery, 1989.

[13] Inventata nel 1832 da sir Charles Wheatstone, ma  messa a punto fotograficamente solo nel 1849 da sir David Brewster (già inventore del caleidoscopio) ed enormemente diffusa dopo l’Esposizione Universale di Londra del 1851, la visione stereoscopica aveva molto precocemente attratto l’attenzione dei pittori; si veda a titolo esemplificativo Alessandro Guardasoni, Della pittura, della stereoscopia e di alcuni precetti di Leonardo  da Vinci: pensieri. Bologna:  Soc. tip. Azzoguidi, 1880. L’attenzione per la pratica fotografica – sebbene quasi clandestina –  non era estranea all’ambiente dell’Accademia torinese, come dimostra la presenza nella Biblioteca dell’Albertina del volume di H.P. Robinson, De l’effet artistique en photographie: conseils aux photographes sur l’art de la composition et du clair-obscur, traduction française de la 2.e éd. anglaise par Hector Colard. Paris: Gauthier-Villars, 1885; più consueto invece il ricorso alle stampe fotografiche quali modelli di studio, non estraneo neppure a Fontanesi, ma praticato in particolare da Luigi Belli, cui si devono gli esemplari più importanti, specialmente di autori francesi, ancora attualmente conservati nel Fondo fotografico storico di questa istituzione.

[14]  Cfr. Andrea Tarchetti, notaio: Fotografie 1904 – 1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna, Mimmo Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli 1990; Miraglia 1990, p.75. Un analogo approccio bozzettistico è rintracciabile anche nelle fotografie coeve di Mario Gabinio, e nelle immagini di altri frequentatori delle Valli di Lanzo, cfr. Audisio, Guglielmotto Ravet 1981, nn. 42,43,65,94. Tra queste si segnala una ripresa realizzata a Benot da Guido Cibrario verso il 1913 (n. 137) che è analoga, quasi sovrapponibile alla veduta realizzata da Fino circa gli stessi anni (26881). Un’attenzione diversa, non bozzettistica ma empatica, per il mondo contadino delle valli piemontesi è invece quella testimoniata con grande anticipo,  per la generazione precedente, dai numerosi album di Vedute delle Valli Valdesi realizzati dal pastore David Jean Jaques Peyrot (Luserna San Giovanni, Torino, 1854 – 1915), tra i più rilevanti esempi di produzione fotografica di tutto l’Ottocento piemontese, in parte conservati presso l’Archivio Fotografico Storico del Centro Culturale Valdese di Torre Pellice.

[15] Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, s.d. [1890], (reprint Ivrea: Priuli & Verlucca Editori, 1983). Per una presentazione critica dell’Album realizzato da Sella e Vallino rimando a P. Cavanna, Album di un alpinista fotografo,  “Alp”, 11 (1995) n.122, giugno, pp.124-127; Id.,  La montagna abitata di Domenico Vallino, “Rivista Biellese”, 3 (1999), n.1, gennaio, pp.51-58.

[16] Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica. Catalogo. Torino: Grafica Editoriale Politecnica [La Fotografia Artistica], 1907.

[17] Red., Il Concorso fotografico di Milano, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 8, agosto, pp. III-IV.

[18] Red., Una Rassegna della Mostra Fotografica Nazionale di Milano,  “Il Progresso Fotografico”, 16 (1909), pp.217-221 (219). Tra i pochissimi autori a praticare il colore, Fino era il solo a lavorare in stereoscopia mentre Luigi Pellerano era il solo che risulti ancora attualmente noto.

[19] Luigi Pellerano, L’autocromista e la pratica elementare della fotografia a colori. Milano: U. Hoepli, 1914.

[20]Luigi Pellerano, L’Autochromie et ses applications artistiques, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 8, agosto,  p.128, nota 1.

[21] Autocromia (sintesi tricromica diretta – sintesi additiva): sistema messo a punto dai Fratelli Lumière nel 1904 (commercializzato dal 1907) sulla scia delle intuizioni di Ducos du Hauron (1869) e delle sperimentazioni di Joly (1894), è reso possibile dalla scoperta del procedimento di sbianca di Rodolfo Namias. La luce impressiona una lastra b/n pancromatica rivestita da un filtro a mosaico a struttura casuale costituito da granelli di fecola, colorato nei colori primari blu, verde, rosso. La lastra, dopo sviluppo e inversione, viene osservata per trasparenza o per proiezione. Lo schermo tricromo in fecola di patata attirò da subito numerosi fotografi piemontesi, di diverse generazioni, tra i quali merita almeno ricordare  Italo Mario Angeloni, Giuseppe Gallino, Franco Manassero, Felice Masino, Pietro Masoero, Francesco Negri, il già citato Pellerano, anch’egli  membro dell’Unione Escursionisti, Secondo Pia, autore di poco meno di trecento autocromie,  Adriano Tournon, Giovanni Battista Vercellone e C. Schiaparelli, oltre a Anny Wild, unica donna a godere di una certa notorietà,  le cui fotografie vennero pubblicate ne “La Fotografia Artistica”  a partire dal luglio 1910. A conferma di un fenomeno ancora tutto da studiare nelle sue dimensioni effettive e nei suoi esiti, per la gran parte sconosciuti o dimenticati, mi limito a segnalare tra gli altri autori di cui resta memoria nei cataloghi delle esposizioni o negli archivi degli eredi quello di Francesco Ernesto Penna, a sua volta in relazione con Pia; cfr. Marco Albera, Francesco Ernesto Penna: un fotografo torinese alla Sacra di San Michele (1913), estratto da Italo Ruffino, Maria Luisa Reviglio della Veneria, a cura di, Il Millenio Composito di San Michele della Chiusa: Documenti e studi interdisciplinari per la conoscenza della vita monastica clusina, V. Borgone Susa: Melli, 2003. Sulla produzione di Pia si rimanda a Giuseppe Pia, Nota storica sull’Archivio di Secondo Pia, in Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, pp.73-77, mentre l’attività di autocromista di Schiaparelli pare non aver lasciato traccia materiale, almeno per quanto risulta dalla monografia curata da Gian Paolo Chiorino, Cesare Schiaparelli fotografo paesaggista. Occhieppo Superiore: Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2003. La stessa Società Fotografica Subalpina organizzò conferenze e proiezioni per presentare questo nuovo metodo e i fratelli Lumière vennero nominati soci onorari dall’Assemblea del 30 aprile 1908.

[22] La possibilità di riprodurre le proprie opere a colori, dapprima col metodo della tricromia, aveva affascinato ad esempio già Segantini, che in un lettera a  Grubicy de Dragon del 1893 (n. 383) scriveva: “Caro Alberto, come ti ho già detto, a me pare che il sistema trovato dal Mora [cioè la tricromia] di riprodurre fach simile i quadri ad oglio [sic] è scoperta meravigliosa. ed io sono pronto a sostenerla, non solo moralmente, ma intendo di fare dei quadretti appositamente, di effetto afferrabile a tutti, e di sentimento intimo, onde abbiano con la delicatezza e serietà dell’arte (…) che seduce e affascina le anime buone, onde divolgare il gusto dell’arte (…) vera.” E ancora, a fine settembre 1897 (n.622): “Pei quadretti da riprodursi in Eleografia sistema Mora, bisognerà intendersi meglio per non fare un inutile lavoro.” Infine nel luglio 1899 (n.762): “Caro Alberto (…) Nell’ultima tua lettera ho trovato dentro dei campioni di riproduzioni a colori, per far questo bisognerebbe che avessi il tempo di starci dietro di persona.” Cfr. Annie-Paule Quinsac, a cura di, Segantini. Trent’anni di vita artistica europea nei carteggi inediti dell’artista e dei suoi mecenati. Oggiono – Lecco: Cattaneo Editore, 1985. Altrettanto, e forse più noto è il caso di Michetti che rivolgendosi a Carlo Tridenti, ch’era andato a fargli visita a Francavilla [1920ca], e stava guardando un gruppo di schizzi dal vero gli diceva: “«Lascia stare quelle porcherie e vieni qua se vuoi vedere la natura e il vero colore». E gli mostrava decine di angoli di prati in fiore, e di campi di zucche mature, fotografati da lui con lastre a colori, e proclamava che valevano molto più dei suoi quadri.”, citato in Silvio Negro, Album Romano. Roma: Casini, 1956, p. 16. L’episodio fa il paio con quello ricordato nei Taccuini di Ugo Ujetti: “Lino Pesaro [il gallerista] mi parla di Michetti. L’ha veduto giorni fa al convento di Francavilla. Che cosa ha di pronto Senatore? Quanti quadri vuole! Me li mostri, e Michetti lo conduce davanti ad uno schedario con diecimila schede grandi di cartone (…) in un angolo  un numero” che rimanda allo schedario delle fotografie “Come vede, qui lei ha 10.000 quadri. Perché non li fa? Ma per me sono fatti. E per il pubblico? Non me ne importa niente. Dovrei eseguirli. Facile ma noioso. Io, li vedo perfetti.”, citato in Marina Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, in Francesco Paolo Michetti. Il cenacolo delle arti tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma – Francavilla al Mare, 1999). Napoli: Fondazione Michetti – Electa Napoli, 1999, p. 15. Anche Rodolfo Namias, La Fotografia in Colori. L’Autocromia. I Processi Fotomeccanici in Colori. La Cinematografia in Colori. Milano: Edizioni “Il Progresso Fotografico”, 1930 (V ediz.), p. 201 ricordava di “aver inteso lui stesso dalla bocca di uno dei più eminenti artisti italiani, il compianto pittore F.P. Michetti [1851 – 1929], esaltare l’utilità delle lastre autocrome. Egli, dopo aver applicato largamente l’ordinaria fotografia come ausiliario utilissimo, trovò nelle lastre autocrome un ausiliario ben più prezioso.”   E così proseguiva: “oggi colle lastre autocrome l’artista può ottenere una riproduzione fedele del soggetto in pochi secondi, e può poi studiare l’immagine a colori con maggiore comodità e in modo più preciso che nella natura stessa. Si può dire che la prova autocroma insegna a vedere i colori e dovrebbe essere considerata come mezzo efficacissimo di preparazione artistica.” (Ivi, p. 20, che in realtà si appropriava  – senza citarlo – di intere frasi di Luigi Pellerano, L’autochrome, cit., pp.127-129). Di diversa opinione fu certamente Giuseppe Pellizza, nel cui Fondo fotografico non sono state ritrovate autocromie, cfr. Aurora Scotti, a cura di, Pellizza e la Fotografia: il fondo fotografico. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2007.

[23] Svoltasi in concomitanza col XIII Congresso delle Società fotografiche francesi a Nancy, dal 18 al 25 luglio, cfr. Pietro Masoero, Pro Annuario, in “Annuario della Fotografia Italiana”, 1905, VII, p. 191. Il processo di fabbricazione delle lastre era ovviamente coperto da segreto, tanto che anche un tecnico esperto come Namias ancora nell’edizione del 1930 del suo manuale si trovava costretto a fare abbondante uso di termini condizionali (“presumibilmente (…) sarebbe (…) Tale scelta è fatta con processo meccanico non noto, ma forse…”, Namias 1930, passim.

[24] Il nuovo procedimento era stato presentato in Italia dagli stessi Auguste e Louis Lumière, Sopra un nuovo metodo d’ottenere la fotografia dei colori,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 1904, pp. 287-289.

[25] Leon Vidal, L’Art de peindre avec la photographie, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 6, giugno, pp.1-2.

[26] Armando Gandolfi, La fotografia dei colori, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 7, luglio, pp.13-15. Un atteggiamento diverso fu quello della rivista milanese “Il Progresso Fotografico”, che ancora nel 1908 e oltre pubblicava molte tricromie e insomma non parteggiava per i Lumière come i torinesi, forse influenzati (oltre che da legami di lunga data con la Francia) dalla presenza in città del concessionario per l’Italia del nuovo processo: la ditta Momigliano e Calcina, con sede in Via Bogino, 19 bis.

[27] “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n. 8, agosto, pp.122-128. L’attenzione di Mancini per la fotografia è testimoniata anche dalla sua relazione dedicata alla Fotografia stereoscopica, metodo Estenave, presentata al III Congresso fotografico italiano di Roma del 1911.

[28] Charles Holme, a cura di, Colour Photography and other recent developments of the Art of the Camera. London –  Paris – New York: “The Studio”, 1908.

[29] Charles Holme, Prefatory Note, Ivi,  p. A2. Anche in Italia c’era chi, da tempo, era convinto che “l’arte fotografica  deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro”,  Pietro Masoero, Studi e critiche: Arte fotografica, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 10 (1898), pp. 161-171 (p. 170).  Queste posizioni lo indussero a  prendere le distanze dalla “esagerazione della ricerca” degli esponenti del gruppo americano selezionato da Alfred Stieglitz per l’Esposizione torinese del 1902, mentre nella stessa occasione espresse apprezzamento per le opere di Giacomo Grosso, Guido Rey e Cesare Schiaparelli.

[30] Edoardo Bertone di Sambuy, Notes sur l’usage des plaques autochromes, “La Fotografia Artistica”, 5 (1908),, n. 1, gennaio, pp.7-9.

[31] Dixon Scott, Colour Photography, in Holme 1908, pp. 1-10; salvo diversa indicazione, sono tratte da questo testo tutte le citazioni seguenti.

[32] Ibidem, sottolineatura dell’autore. Lo stesso Pellerano, nel descrivere il tipo di fotografo cui era destinato il suo testo così si esprimeva: “In questo manuale noi battezziamo l’autocromista col titolo di pittore a macchina, ed a lui affidiamo l’ufficio di ritrarre dal vero, con le sue linee, colori e tonalità infinite, con senso d’arte per quanto permette la tecnica autocromatica, infondendo un po’ di sentimento suo individuale nel soggetto scelto, oppur composto. Che l’opera sua serva di documento sempre, cercando di emulare, ma superare mai la vera arte, ché almeno per ora l’affermare il contrario, ripetiamolo sempre, equivarrebbe a bestemmiare nel tempo dell’arte stessa.”, Pellerano1914, p. 399, sottolineatura mia.  Le parole non ingannino: nulla di più errato che attribuire a un’eco futurista questa definizione, che invece riproponeva in modo apodittico, con sintesi efficace e felice, il giudizio limitativo proprio di tutta la cultura ottocentesca e dal quale aveva tentato (e ancora stava tentando) di liberarsi il pittorialismo fotografico. Ben altro significato avrebbe avuto l’affermazione di Tristan Tzara nel 1922: “Io conosco un tale che fa dei bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica.”, La photographie à l’envers,  in Man Ray, Les champs délicieux, Paris, Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T. Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie. Torino: Einaudi, 1975, pp.73-75.

[33] Citato da Ernest Coustet, L’exactitude du coloris en autochromie, “La Fotografia Artistica” 9 (1912), n. 7, luglio, pp. 105-107, che imputa questa insufficienza all’imperfetto ortocromatismo dell’emulsione utilizzata.

[34] Antonin Personnaz, L’Esthetique de la plaque autochrome, relazione presentata al Congresso internazionale di fotografia di Bruxelles del 1910, pubblicata in “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n. 10, ottobre, pp. 161-162. Personnaz (Bayonne, 1854-1936) fu amico di numerosi impressionisti e loro precoce collezionista. Alla sua morte la collezione passò per legato al Museo del Louvre ed è ora conservata al Museo d’Orsay di Parigi, cfr. Anne Clark James, Antonin Personnaz: Art Collector and Autochrome Pioneer, “History of Photography”, 18 (1994), n.2, Summer, pp.147-150.  Alcune delle sue autocromie, donate dalla vedova alla Societé Française de Photographie, sono state presentate nella mostra Georges Seurat, Paul Signac e i neoimpressionisti, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 10 ottobre 2008 – 25 gennaio 2009), a cura di Marina Ferretti Bocquillon. Milano: Skira, 2008.

[35] Pellerano 1914, p. 432. Il ricorso al fazzoletto rosso quale richiamo cromatico si ritrova anche in Secondo Pia, come mostra l’autocromia Donna tra le ortensie, recentemente presentata alla mostra Secondo Pia fotografo della Sindone e del Piemonte, Torino, Palazzo Barolo, aprile 2009, a cura di Erica Bassignana. In altra parte del testo di Pellerano si fa esplicito il richiamo alla tradizione impressionista, i cui “criteri stabiliti non solo per felice intuito del vero, ma per profonda analisi di questo, hanno aperto una nuova via alla pittura contemporanea. La fotografia dei colori è venuta a formare la prova sperimentale (se pure occorreva) della giustezza di quei criteri [mostrando] tutto ciò che è sanzionato dai dogmi dell’impressionismo.” (Ivi, p. 390, sottolineatura dell’autore). L’apprezzamento per la pittura “contemporanea” espresso in questa occasione dalla cultura fotografica era ben lontano dalle condanne senza appello di un critico autorevole come Enrico Thovez, attivo anche in ambito fotografico come collaboratore del londinese “The Studio”, che proprio a proposito di pittura impressionista dichiarava che “l’arte di queste tele non solo è scesa mille miglia al disotto della fotografia, ma ha toccato i gradi più bassi dell’abbiezione del gusto e della degenerazione estetica.”, E. Thovez, L’arte di dipinger male, “La Stampa”, 7 gennaio 1909, parzialmente riprodotto in Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895-1920.  Milano: Unicredit, 2003, p.232.

[36] Premiato con diploma di medaglia d’oro per il Gruppo III – Classe 17 “La Fotografia nelle sue applicazioni – Fotografie stereoscopiche”, che comprendeva al suo interno anche il tema della “Riproduzione dei colori mediante la fotografia”, significativamente escluso dalla Classe 16 “Fotografia artistica”. Vinse anche il Gran Premio più L. 400 nell’ambito del Concorso Internazionale di Fotografia,  cfr. Esposizione internazionale di Torino 1911, Elenco generale ufficiale delle premiazioni conferite dalle Giurie internazionali. Torino, 1912. A conferma di una per noi incomprensibile scarsa propensione a cimentarsi pubblicamente nonostante i lusinghieri risultati ottenuti, segnaliamo che Fino non prese parte all’Esposizione internazionale di Fotografia artistica di Roma dello stesso anno.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili.”, Brand., Inaugurazione della Mostra fotografica,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99.

[38] Brand., La fotografia all’Esposizione di Torino,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 12, dicembre, pp.167-171 (167). Fino non venne segnalato da Gino Bellotti, La Fotografa artistica all’Esposizione di Torino, “Il Progresso Fotografico”, 18 (1911), pp. 307-311, testo già pubblicato dal “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, n. 9. Da altra fonte si ricava un elenco più dettagliato delle sue opere esposte nella sala III, (n°202): “Meditando, Nel parco, La rosa delle Alpi, Sull’altipiano, Ritratto di Signora, La pineta, Bosco in collina, Nell’Ungheria, Sotto i faggi, Dopo la tormenta, Sulle Alpi Graie, Ritratto di Signora, Nel regno dei larici, Tramonto, Lo stagno, Prato alpino, Ritratto del pittore Giacomo Grosso, L’alpe, Roccie muschiose, Alba grigia, Poesia autunnale, Felici alpigiani, Ritratto di Signorina, ecc.”,  Esposizione internazionale Torino 1911  p.15. Tra gli autocromisti, tra cui Pellerano, Vittorio Marchis e Michele Polito di Torino, Fino era il solo a presentare stereocromie, mentre qualcuno (come Giuseppe Battistini,  sempre di Torino) presentava già “fotografie a colori su carta ottenute con lastra autocroma.” Come si ricava dalla lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26, buona parte delle immagini esposte in quell’occasione potrebbero non far più parte del Fondo Fino conservato dagli eredi, sebbene la mancanza di titolazione autografa sulle lastre superstiti impedisca un riscontro puntuale. Scriveva Fino:  “le ho spedito N° 40 autocrome stereoscopiche (così precisamente si chiamano le fotografie di cui Ella vide qualche saggio a Torino) (…) La avverto che fra le 40 vedute, i N: 1-2-5-6-7-9-13-19-23-30-37-38 facevano parte della collezione che vinse alla ns esposizione di Torino il concorso internazionale di fotografia a colori e il Grand Prix.” Dall’elenco allegato si ricavano i titolo seguenti: 01, Stagno nel parco Nigra Torino;  02, Lago di Viano (particolare) Val di Viù;  05, Sull’altipiano di Benot (Val d’Usseglio) (la contadina è mia moglie) ; 06, Pantano al Pian della Mussa; 07,Lago Campagna presso Ivrea; 09, Rosa delle Alpi (presso Piazzetta di Usseglio); 13, Tonio al Benot Val di Viù; 19, Campo di cavoli (Ivrea); 23, Piano della Mussa (panorama) ; 30, Pilone presso Margone (val di Lanzo); 37, Prato alpino (Praly) Val Germanasca  Pinerolo; 38,Tonio e Giacomin al Benot.

[39] Ferdinando Fino, Copialettere con rubrica.  500 fogli, di cui 69 compilati dal 2 settembre 1912 al 14 giugno 1916. Manoscritto sino al 30 novembre 1915, quindi dattiloscritto. Rubrica muta; Torino, Archivio Fino.

[40] Il 10 maggio 1912, ad esempio, scriveva, in francese, ad Alfred Krolopp, di Budapest (forse identificabile col botanico docente alla Scuola reale di agricoltura di Magyar-Ovar), scusandosi per non avergli  ancora spedite le copie monocrome di alcune autocromie, e per farsi perdonare gli inviava nove diapositive “che può darsi non corrisponderanno ai vostri desideri poiché ho perso la nota che mi avete fatta di quelle che vi interessavano.”, Copialettere, p.4.

[41] Lettera a Italo Carboni del 9 febbraio 1912, Copialettere, pp. 1-2.

[42] Le difficoltà derivanti dai lunghissimi tempi di posa, analoghi e forse superiori a quelli della fotografia delle origini, erano ribaditi anche in una successiva occasione: “Una collezione quale io avevo all’Esposizione [del 1911], frutto di una scelta fra centinaia di prove, infatti essendo esse tutte a lunga posa, il minimo soffio di vento impedisce la riuscita, nei ritratti il movimento minimo della persona, l’atteggiamento duro o non naturale dato dall’obbligo dell’immobilità, o se si è all’aria aperta il cambiamento d’un ombra per lo spostamento d’una nube (…) congiurano contro il povero fotografo che talvolta fa una dozzina e più di vedute senza avere neppure una che lo soddisfi! E senza la possibilità di trarre una copia d’una prova riuscita!” Lettera a Italo Carboni del 30 maggio 1912, Copialettere, p.  8. Secondo le indicazioni fornite da Pellerano1914, la realizzazione di un ritratto in esterni (ma con lastra 18×24) richiedeva ben 6 minuti.

[43] Evidentemente Fino non era a conoscenza del metodo messo a punto dagli stessi Lumière, e ampiamente utilizzato dagli studi professionali, di riprodurre le autocromie utilizzando altre lastre autocrome.

[44] Lettera a Italo Carboni del 17 maggio 1912, Copialettere, pp. 5-6.

[45] Guido Rey, Fotografia inutile, 1908, ora in Paolo Costantini, Italo Zannier, a cura di Luci ed Ombre.  Gli annuari della fotografia artistica italiana  1923-1934. Firenze: Alinari, 1987, pp.64-65.

[46] Lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26.

[47] Lettera a Carboni del 9 febbraio 1912, Copialettere, pp. 1-2. La lettera contiene anche interessanti istruzioni relative alle modalità di osservazione delle autocromie: “le lastre devono essere viste colla parte grigia verso il suo occhio e colla parte nera dall’altra parte, al fine di vedere la veduta dalla sua giusta parte. Però a parer mio, quando si tratta di paesaggi non tipici, pei quali non muta vederli a rovescio, come piacevoli particolari di boschi, fiori ecc., i colori sono più brillanti guardandoli dall’opposto lato.”

[48] “Ho speranza di presto mandarle qualche cosa di bello (…) Potrebbe darsi che certe vedute di montagna che le manderò, abbiano ad interessarla, intanto farò il possibile di prepararle delle vedute di chiese.” Lettera a Carboni del 14  giugno 1912, Copialettere, p. 10.

[49] Lettera a Carboni del 26 giugno 1913, Copialettere, p. 28. Le prime pratiche erano state avviate nel settembre dell’anno precedente. Il 16 luglio dello stesso anno gli era stato concesso il permesso di fotografare anche l’Armeria Reale, cfr. Visite e permessiPermessi,  fascicolo n. 865, n. prot. 4197; n. d’ordine 2339, 16/07/1913, Permesso a Ferdinando Fino di fotografare l’Armeria, consultabile all’indirizzo http:// www.artito.arti.beniculturali.it /Armeria%20Reale/ 6SALA/ ArchivioStorico.asp? PageNo=1369&Mv=Avanti (06-04-10).

[50] Lettera a Carboni del 14 agosto 1913, Copialettere, pp. 31-33. Le riprese effettuate da Fino sono tra le rare testimonianze fotografiche degli interni dei Palazzo Reale all’inizio del XX secolo e certo, almeno per quanto sinora noto, le prime realizzate a colori, cfr. Cesare Enrico Bertana, Palazzo Reale com’era … 1900-1920. Torino: Associazione Amici di Palazzo Reale, 2002.

[51] Secondo gli studi tecnici riportati in Namias 1930 p.165, “La lastra [autocroma] lascia passare circa 1/10 della luce che la colpisce.” Quindi aumenta in misura esponenziale il tempo di posa necessario per la sua corretta esposizione, calcolato in circa 80 -100 volte quello di una lastra monocroma rapida, valore che si approssima a 200 lavorando in ambienti chiusi. A dimostrazione di quanto una ripresa di questi soggetti costituisse un risultato virtuosistico altamente apprezzabile, lo stesso Pellerano pubblicava tra le tavole f.t. del suo manuale un’analoga ripresa della Galleria Beaumont dell’Armeria Reale, dichiarando un tempo di posa di 90 minuti, cfr. Pellerano1914, p. 462 f.t. Di quali fossero le effettive difficoltà di esecuzione delle riprese in Armeria anche con le ben più rapide lastre alla gelatina ci rimane testimonianza nelle parole di Giovanni Assale, direttore dello stabilimento Berra “Fotografia Subalpina” cui era stato affidato il compito di realizzare le fotografie per l’edizione dei tre volumi Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino, Milano, Eliotipia Calzolari e Ferrario [1898], con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna. Nel gennaio del 1897 Assale comunicava ad esempio che “Sarà cura del sottoscritto di non lasciar trascorrere inutilmente la futura propizia occasione di una nevicata per la esecuzione delle negative degli interni della Galleria e della Rotonda”. A queste si aggiunsero le prescrizioni dello stesso Avogadro di Quaregna che – su indicazione del fotografo –  annoverava tra le difficoltà da superare per la realizzazione del progetto “anche quella della difettosa illuminazione interna (…) che per scarsità di luce e per i molti riflessi non si addice alle riproduzioni fotografiche. Onde eliminare sì fatto inconveniente si dovette addivenire alla costruzione di una forte impalcatura provvisoria nell’interno dello scalone ove la luce è più abbondante e propizia”,  oltre a disporre una tenda di percalle bianco al “gran finestrone nello scalone” e una “tenda oscura per la finestra attigua alla galleria della Prefettura per impedirne la luce”, mettendo a disposizione del fotografo il “personale di fatica occorrente al trasporto dei monumenti equestri sopra l’impalcata dello scalone e rimettere nella galleria dopo la loro riproduzione fotografica.”  Per la ricostruzione analitica delle diverse campagne di documentazione fotografica dell’Armeria Reale di Torino rimando a P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Paolo Venturoli, a cura di, Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898. Torino: U. Allemandi & C., 2003, pp. 79-98.

[52] Lettera a Carboni del 21 agosto 1913, Copialettere, p. 34.

[53] La lettera indirizzata a Emanuele Celanza del 16 marzo 1912 contiene una nota spese per “n° 12 autocromie 13×18 riproduzioni quadri Avondo £ 4 cadauna”, Copialettere, p. 11. Le autocromie, sinora non reperite, devono certamente essere messe in relazione con la pubblicazione presso lo stesso editore del saggio di Enrico Thovez, L’opera pittorica di Vittorio Avondo. Torino: Celanza, 1912, illustrato però da riproduzioni monocrome. Secondo i dati forniti da Pellerano 1914, p. 226, 4 lastre 13×18 costavano L.7.

[54] “sempre in attesa di ric[evere] vs. commissioni, mi sono messo all’opera [per] studi artistici di nudi. La stagione piovosa mi ha impedito di dedicarmi a paesaggi (…).”, Lettera a Canova del 4 marzo 1912, Copialettere, p. 3.

[55] Si veda ad esempio il Nudo nel bagno di Leon Gimpel, in Il colore della Belle Époque: i primi processi fotografici diapositivi, catalogo della mostra (Venezia, 1982), a cura di Silvio Fuso, Sandro Mescola. Venezia: Comune di Venezia, s.d., [1982], t. 6.

[56] Si veda L’Art du nu au XIX siècle: le photographe et son modèle, catalogo della mostra (Parigi, Bibliothèque nationale de France 1997-1998). Paris: Hazan, 1997. Resta un’affascinante eccezione nella fotografia di nudo tra XIX e XX secolo, la naturalezza con cui Pierre Bonnard fotografava la sua compagna e modella, cfr. Françoise Heilbrun, Philippe Néagu, Pierre Bonnard Photographe. Firenze: Alinari, 1988.

[57] Si veda Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 1990- 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Milano: Fabbri, 1990. Non solo le date dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio che le autocromie non possono che derivare dai dipinti di Grosso, più che buon fotografo egli stesso che quindi mai avrebbe avuto bisogno di ausili esterni. Le prime notizie relative alla sua attività fotografica risalgono al 1894, quando presentò all’Esposizione Internazionale di Fotografia promossa dal Circolo Fotografico Lombardo di Milano, riproduzioni di “quadri e statue” oltre a “ritratti ai sali di platino di buona fattura”, quindi all’ Esposizione torinese del 1902, che lo vide tra gli autori più considerati, specialmente quale ritrattista. (Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso 1990, pp. 21-24. Le sue fotografie di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi, furono tanto apprezzate da Schiapparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea.”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909, I parte,  “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nel suo studio, sottolineando come il pittore “nei suoi ritratti fotografici segue la via tracciata dall’artista che lui ama così profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno.”, Enrico  Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, a cura di, Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London, 1905, pp. I.3-I.8, come confermano sia il ritratto di Cesare Reduzzi pubblicato nelle stesse pagine sia quello di Celestino Gilardi pubblicato ne “La Fotografia Artistica” a corredo del suo necrologio. Risulta perciò difficile accostare a queste prove gli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino e a suo tempo pubblicati da Miraglia 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute. Anche Pietro Masoero, come si è accennato, recensì entusiasticamente le opere di Grosso presentate all’Esposizione del 1902, cfr. Paolo Costantini, Giacomo Grosso, in Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994, scheda n. 61.

[58] “Riguardo al quadro che Ella desidera (Veduta n°11) – gli scrisse Petiti da Roma – credo che le ho domandato un prezzo da amico per una esposizione anche in quella misura 76 ½ x 55 non sarebbe meno di 600 lire perché il soggetto è difficilino e molto complicato e richiederebbe un certo tempo per farlo, impossibile essendo di dipingerlo alla prima. Le modificazioni da lei desiderate per trasportare il soggetto da destra a sinistra si possono fare per primo perché all’artista non mancano mai le risorse e qualche volta anche le licenze poetiche. Insomma io spererei che il quadretto riescisse tutto di suo gradimento … ma … Però siccome intendo ancora una volta dimostrarle la mia gratitudine glie lo farò per 200 lire (…) Potrò ancora tenere presso di me tutte le sue lastre? (…) Questa sgrammaticata lettera è talmente scritta male che dovrei rifarla ma non ne ho il tempo né la voglia. Mi perdoni.”, Lettera di Filiberto Petiti del 9 aprile 1916, Archivio Fino, Torino. Impossibile identificare il dipinto in questione, ma tra le opere di Petiti possedute da Fino ritroviamo un Monte Lera (Usseglio) che risulta essere la trasposizione dell’autocromia Sui pendii di Usseglio [26886]. Un altro cenno, purtroppo ancora generico, era già contenuto in una lettera di Fino del 1913:“Se Ella dovesse recarsi a Torino mi faccia il favore d’una sua visita e le farò vedere qualche lastra che certo però non venderei avendo servito a pittori celebri come documento per quadri che stan facendo.”, (Lettera a Carboni del 21 agosto 1913, Copialettere, p. 34). I legami e le suggestioni reciproche tra cultura pittorica e fotografica in ambito torinese nei primi decenni del Novecento, per larga parte ancora da studiare analiticamente, sono ben testimoniati dalle pagine di un periodico autorevole quale “La Fotografia Artistica”, che mantenendo fede al proprio impegno programmatico non di rado pubblicava riproduzioni a colori di dipinti sotto forma di tavole fuori testo (nel luglio 1906, ad esempio, Un torrente, proprio di Petiti; a settembre dello stesso anno una Pastorella di Michetti). Lo stesso periodico dedicò ben cinque numeri, di fatto monografici, alle opere esposte alla II Esposizione Quadriennale di Belle Arti – Torino 1908, con testo critico di Ernesto Ferrettini, critico d’arte de “La Gazzetta del Popolo”, poi de “La Stampa”, già autore del saggio Artisti nelle Valli di Lanzo, compreso nel volume edito dal Club Alpino Italiano  nel 1904.

[59] Namias 1930, p. 202.

[60] “Noti che bisognerà guardare le vedute in uno stereoscopio di centimetri 6×13, che tale è il formato delle fotografie e i veri colori naturali appariranno colla più grande verità quando si guardi la veduta avendo di rimpetto a noi o delle nuvole bianche o un muro o un lenzuolo bianco su cui batta il sole. Contro il cielo sereno avremo una diffusione di azzurro , e contro pareti in ombra un eccesso di grigio e deficienza di illuminazione.”, Lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26.

[61] Filiberto Petiti, Nel bosco, 1914 ca, olio su tela, Roma, Accademia Nazionale di San Luca.

[62] Ernesto Baum, Il «genere» in fotografia, “La Fotografia Artistica”, 10 (1913), n.1, gennaio,pp. 12-14.  Questo testo dovette costituire un riferimento importante per Stefano Bricarelli, che avviava le sue considerazioni critiche a partire dalla constatazione che in Italia la maggior parte dei dilettanti “che meritano veramente questo nome” non si dedicano alle “scene animate” sebbene “in nessun altro paese il pittoresco è stato sparso così a piene mani [e] non si conosce in niun altro luogo una vita così varia e pittoricamente interessante (…). Ma – proseguiva – una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…) Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata.” Per “fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  di un quadro (…) Scelto rapidamente il motivo (…) occorrerà procedere ad una coraggiosa opera di selezione e di eliminazione. (…) In un istante, con gli elementi che avrà riconosciuto necessari ed opportuni, la mente costituirà, organizzerà per così dire, idealmente il quadro, determinandone il taglio, fissando l’importanza relativa delle masse, equilibrando il gioco delle luci e delle ombre; sarà allora di grande aiuto per fare immediatamente avvertire ogni squilibrio e ogni deficienza dell’insieme e porvi rimedio quel senso quasi istintivo della composizione, che molto si acquista osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative.”, Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 8, agosto, pp. 225-2260, sottolineature dell’autore.

[63] Pellerano 1914, p. 432.

Quoi? La Photographie  ovvero  La carriera di un dilettante fotografo (2006)

in Barbara Bergaglio, P. Cavanna, a cura di, Francesco Negri fotografo: (1841-1924).  Cinisello Balsamo: Silvana, 2006, pp. 14-29;  La biblioteca del fotografo, estratto da Francesco Negri e la Biblioteca civica di Casale Monferrato, “AFT – Rivista di Storia e Fotografia”, 6 (1991), n.14, pp. 61-63

 

La lastra fotografica è la vera retina dello studioso

Jules César Jansen, 1888

 

 

Cappello e soprabito sull’attaccapanni, forse appena appesi, come se fosse rientrato da poco in questo angusto spazio ricolmo di carte che fu il suo studio. Una fotografia disposta con noncuranza apparente sulla stufa in ceramica, una stampa di paesaggio se la nitidezza della ripresa non ci tradisce, ci consente di datare questa  stereoscopia all’ultimo decennio dell’Ottocento, quasi certamente dopo il 1896, quando la consuetudine di Negri con la fotografia datava ormai da almeno un trentennio e la fase delle applicazioni e sperimentazioni più strettamente scientifiche poteva ormai dirsi conclusa.

Per quanto è possibile desumere dallo studio dei documenti fotografici e archivistici rimasti a costituire il fondo Negri della Biblioteca civica di Casale Monferrato, ambito necessariamente ristretto su cui è stata condotta la ricerca, possiamo far risalire  al luglio del 1862 il primo indizio certo del suo interesse per la fotografia.[1]  In quei giorni il giovane Negri, poco più che ventenne e appena trasferitosi a Casale, poneva un’annotazione a matita sulle pagine del volume di Eugène Disderi, L’art de la photographie[2], uno dei manuali più autorevoli dell’età del collodio, attento alle questioni poste dal ritratto fotografico, ad un esito di rassomiglianza che andasse oltre la pura resa fisiognomica, quella cui pure l’autore doveva la propria notorietà di inventore del ritratto in formato carte-de-visite.

Conosciamo ancora troppo poco la storia della fotografia a Casale Monferrato[3] per sapere se Negri avesse potuto trovare localmente suggestioni e sostegno alla propria passione nascente o se questi non gli provenissero invece dal soggiorno torinese, dove si era laureato in giurisprudenza nel 1861, ambiente in cui era stata precocemente praticata la fotografia sin dal fatidico 1839, divenuta ben presto attività fiorente e diffusa per la presenza di numerosi e qualificati studi professionali come di amatori colti[4], nobili o borghesi che fossero, coi quali certamente non possiamo escludere possibili relazioni legate all’ambiente universitario.

Ciò che risulta però chiaro è come l’attenzione fosse da subito sistematica e precisamente orientata se già nel 1864  il novello sposo[5] risultava abbonato non solo alla prima rivista italiana di settore, “La Camera Oscura. Rivista periodica universale dei progressi della fotografia” diretta a Milano da G. Ottavio Baratti”, ma anche a prestigiosi periodici internazionali come “The Philadelphia Photographer”, mentre la sua biblioteca si arricchiva di  preziosi manuali[6].

Risaliva ai primi di settembre dell’anno precedente la sua più antica ripresa datata, una lastra al collodio[7]  che oltre all’indicazione del giorno (“1863 5 sett.”)  e alla sigla “N.F.” porta inciso il numero d’ordine «44», ad inaugurare una consuetudine tipica di molti fotografi coevi cui Negri restò fedele sino agli ultimi anni di attività[8]. È  l’immagine di tre figure in esterni, due donne e un uomo seduti, tutti con fucili da caccia, realizzata forse a Ramezzana, una delle grange dell’abbazia di Lucedio (Trino)[9]. Non si tratta quindi di un ritratto vero e proprio, anzi si potrebbe quasi parlare di un’istantanea ante litteram, ma per noi costituisce la testimonianza di come il suo primo interesse fosse rivolto alla figura umana, colta inevitabilmente nella  cerchia di relazioni personali, come fu per molti dei fotografi amatori delle origini.

Sebbene non datati, sono da collocarsi nello stesso periodo di tempo gli splendidi ritratti eseguiti in interni, fortemente influenzati dai coevi modelli professionali e in particolare fedeli alle istruzioni del già citato testo di Disderi,  che indicava come “la prima cosa che deve fare il fotografo che desidera ottenere  un buon ritratto, sia di penetrare (…) il tipo reale e il vero carattere dell’individuo; lo si deve studiare e conoscere [si deve] comporre il ritratto, in una parola. Comporre un ritratto, per noi, vuol dire scegliere le modalità di rappresentazione più adatte al modello e combinare tutti gli elementi visibili in maniera unica.”[10]

Questa ascendenza è ancor più evidente nelle riprese a figura intera, col soggetto disposto di tre quarti, in pose rigorose e ferme e un uso degli arredi che ricalca la disposizione tipica delle carte-de-visite del francese, con un tendaggio collocato come quinta di chiusura a sinistra, mentre in altri casi l’utilizzazione di elementi tipici quali la balaustra posticcia, farebbe pensare alla collaborazione di un professionista casalese per ora non individuato, lo stesso che potrebbe averlo istruito nella sua prima fase di formazione.

Non mancano neppure le riprese in esterni, forse di poco antecedenti, per le quali Negri ricorreva a un’improvvisata scenografia fatta di pochi elementi (un fondale uniforme appena mosso da un tendaggio poggiato, un tappeto, l’immancabile poltrona)[11], mentre altre  ne sono completamente prive e tutta l’attenzione è rivolta all’efficace rappresentazione della persona, traducendo in figura il rapporto di colloquialità che lo legava al soggetto, analogo a quello che emerge – seppure in maniera più sottile – dalla bellissima serie di ritratti in interni in cui la non convenzionalità della rappresentazione è testimoniata più che dalla posa dalla presenza di arredi non stereotipati, certamente appartenenti all’ambiente quotidiano del fotografo.

Sono ritratti che sembrano dar corpo ai più alti esiti attesi dal nuovo realismo del mezzo fotografico, a quella “ricerca di assoluto verismo” di cui ha parlato Carlo Bertelli[12]. Sono indizi certi di una fiducia tutta positiva nelle sue capacità di descrizione analitica, di traccia del reale, ma alcuni indizi ci orientano verso una convinzione più incerta. Penso alla coppia costituita dall’Autoritratto con lo stereoscopio  e dal Ritratto della moglie  con una rivista fotografica in grembo, che assumono un’evidente connotazione allegorica, ma soprattutto ai due autoritratti multipli come ‘fantasma’, che rivelano tutta la gioiosa sorpresa, il primitivo stupore per le possibilità narrative della nuova tecnica che avremmo ritrovato in Lumière e Méliès agli albori del cinematografo. La burlesca messa in scena  spiritista non solo rivela il giudizio sarcastico dell’uomo di scienza[13] su di un fenomeno allora in voga, ma costituisce una precoce, immediata intelligenza dell’illusoria obiettività e verosimiglianza della ripresa fotografica.  Se questa può mostrare ciò che non esiste, allora il suo stesso statuto di verosimiglianza documentaria – pur ampiamente fondato e giustificato – deve essere accolto criticamente, ma contemporaneamente usato per stupire. In questa latente contraddizione continua risiede il fascino fecondo dell’immagine fotografica, ribadito da Negri in modi ed occasioni diverse lungo tutto l’arco della sua produzione.

“La fotografia – ha notato George Didi-Huberman[14] – nasce in un tempo che considera sé stesso del sapere assoluto. La fotografia è certo uno strumento d’obiettività straordinariamente fecondo, [ma] è innanzitutto uno strumento di sperimentazione, cioè mette in evidenza la variabilità o la relatività dei fenomeni visibili, non la loro stretta ‘positività’ .” In particolare consente di fissare l’immagine di ciò che non appare: perché troppo piccino o troppo distante, o rapido come il momento di un gesto. Se mostrare l’invisibile (il ‘non visibile’) è una delle virtù riconosciute alla fotografia, allora Negri con questa messa in scena spiritista segna simbolicamente la propria adesione a questo credo positivista in modo affatto paradossale, proprio mentre si ingegna ad applicarlo in forme più canoniche,  dedicandosi in particolare all’esplorazione dell’universo dell’infinitamente piccolo.

Porta la data del 1866[15] la  Prima Prova Micrografica/ Gamba di Ragno, di poco successiva alla produzione dei pionieri italiani in questo settore, come Antonio Roncalli di Bergamo e Luigi Arcangioli di Arezzo che all’Esposizione di Firenze del 1861 avevano presentato “studi micrografici” e “fotografie rappresentanti oggetti al microscopio”, mentre due anni più tardi all’Esposizione provinciale di Reggio Emilia del 1863 anche il conte Luigi Scapinelli esponeva immagini di insetti ingranditi al microscopio[16]. Le sperimentazioni fotomicrografiche[17] di Negri proseguirono sporadicamente negli anni successivi, segnati però principalmente da significativi studi di fitopatologia, tali da renderlo immediatamente noto a livello nazionale.[18] L’estensione progressiva dei propri interessi alla fotomicrografia batteriologica è testimoniato da una serie di articoli comparsi sul fiorentino “Lo Sperimentale” a partire dall’agosto del 1882[19], uno dei quali – la Contribuzione allo studio dei bacilli speciali della tubercolosi – costituì l’occasione di un primo contatto con Robert Koch, lo scienziato tedesco che nel marzo dello stesso anno aveva presentato la propria scoperta alla Società Fisiologica di Berlino.   A queste prime significative applicazioni fece seguito nei tre anni successivi un’intensa sperimentazione rivolta alla messa a punto di opportune metodiche di colorazione dei preparati destinati ad essere fotografati, in molti casi “espressamente inviati al Negri” dallo studioso torinese Edoardo Perroncito[20], mentre in altre occasioni  – come il bacillo del colera fotografato nel 1884 – egli si era avvalso di campioni raccolti durante l’epidemia che colpì i due piccoli centri casalesi di Pontestura e Vialarda nell’autunno di quell’anno, guadagnandosi nel 1885 una medaglia d’argento concessa dal Ministero della Sanità, anche per le attività profilattiche poste in essere in qualità di  sindaco.[21]

Il riconoscimento ufficiale veniva a coronare vent’anni di studi e ricerche scientifiche e di fotografia applicata all’indagine microscopica, ma per Negri ciò non costituì motivo di ulteriore impegno, anzi dopo questa data la sua attività in questo settore si interruppe bruscamente  con la realizzazione nel 1885 di un’ultima bella serie di ingrandimenti di Diatomee, con inquadrature che a volte si rifanno esplicitamente alle tavole pubblicate nel 1866 da Albert Moitessier nel suo manuale –  posseduto da Negri – dedicato a La photographie appliquée aux recherches micrographiques.  Qui accanto all’interesse strettamente documentario emerge una palese attenzione compositiva, del resto non estranea anche ad analoghe produzioni di altri autori, ciò che impedisce di condividere le troppo categoriche affermazioni di Carlo Bertelli secondo il quale “l’aspirazione della fotografia era allora la rimozione di qualunque intento estetico, la ricerca di assoluto verismo.”[22]

Non diverso dovette essere il suo modo di procedere nel nuovo e per lui inedito ambito di indagine, quello della storia dell’arte. Henry Festing Jones, amico e biografo di Samuel Butler ricordava come la consuetudine tra lo scrittore inglese e Negri datasse al 1888, anno della pubblicazione di Ex-Voto[23], e proprio il convergere di interessi intorno all’opera di Jean de Wespin e più in generale sul Santuario di  Crea fosse stato il fondamento di un’amicizia intellettuale e di una frequentazione che si protrassero sino alla morte di Butler nel 1902[24].  In Negri, membro della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti d’Arte e d’Antichità per la Provincia di Alessandria dal 1890, doveva certamente essere viva già da qualche tempo l’attenzione per il Santuario negli anni successivi ai grandi lavori intrapresi per iniziativa del vescovo di Casale  Monsignor Calabiana[25], ma non può essere senza significato che le sue prime riprese datate risalgano al 1891 – da luglio a settembre[26] – cioè esattamente allo stesso periodo, agli stessi giorni quasi cui datano anche le poche immagini realizzate da Butler, poi inviate a Giulio Arienta il 31 ottobre successivo con una lettera in cui esprimeva tutta la propria stima per lo studioso casalese: “Quel prete Don Minina ed il cav. Avv. Francesco Negri sono i più attivi, e cercano dappertutto con zelo molto forte e molto intelligente (…) so d’ogni modo che l’avvocato Negri è uomo di ottimo giudizio in questi affari.”[27]

Fu proprio la cappella del Martirio di Sant’Eusebio, che Butler aveva definito“la più importante” di Crea, e di cui Negri denunciò la grave condizione di degrado ancora all’inizio del Novecento, a costituire il primo e principale soggetto delle sue riprese, sebbene il principale  argomento di ricerca fosse volto in quel tempo alla ricostruzione delle figure di Martino Spanzotti e di Guglielmo Caccia.[28]

La costante attenzione per la statuaria di quella cappella consentì a Negri di realizzare nel corso degli anni una serie di immagini che varia dalla ripresa d’insieme ai particolari, intesi qui come descrizione analitica dell’opera quanto della scena, evento restituito dalla doppia mediazione dei due linguaggi, con l’intenzione esplicita di celebrare quel “realismo così sano e spontaneo” che tanto lo affascinava nelle opere di Giovanni Tabacchetti.  Attuava così quel rispecchiamento tra gesto del plasticatore  e gesto fotografico[29], entrambi impegnati a mettere in scena la memoria di una realtà, che riconosciamo anche nel modo di disporre le figure all’interno dell’inquadratura di una delle riprese relative alla cappella della Concezione della Vergine dove, ancora, l’interesse appare rivolto principalmente alla restituzione fotografica del dialogo fra le figure. Era questo un modo di  declinare l’intenzione documentaria propria della fotografia di riproduzione d’arte secondo una più sottile intenzione, che reinterpretava  e stravolgeva la pratica consolidata dei grandi studi quali Alinari o Braun (verso i quali in quegli stessi anni si appuntavano le incisive osservazioni di Wölfflin) accogliendo le suggestioni della nuova sintassi visiva introdotta  dalla pratica dell’istantanea fotografica, quel tentativo di rendere l’illusione della vita corrispondendo alla teatralizzazione  del gesto che apparteneva alla logica di rappresentazione del plasticatore.[30]

“How about your Tabacchetti?”  chiedeva Butler a Negri in una lettera datata 5 novembre 1900[31], con allegata copia della sua traduzione dell’Odissea e l’annuncio di aver iniziato la redazione di Erewhon Revisited,  a riconferma di una solida consuetudine e stima,  che si sarebbe concretizzata due anni più tardi coll’accollarsi le spese di pubblicazione dell’apparato illustrativo  (“i fototipi per le illustrazioni che ornano queste notizie”)  del lungo saggio da Negri dedicato a Il Santuario di Crea in Monferrato, summa degli  studi dello studioso e fotografo casalese[32] che sulla “Rivista di Storia, Arte, Archeologia della provincia di Alessandria”, aveva già pubblicato gli esiti delle proprie ricerche dedicate a Giorgio Alberini e a Guglielmo Caccia[33], occasione per avviare rapporti con altri studiosi come Carlo dell’Acqua[34], Gustavo Frizzoni[35]  e Diego Sant’Ambrogio, che il 27 giugno 1904 gli segnalava l’importante ritrovamento del trittico realizzato da Macrino d’Alba per l’abbazia di Santa Maria di Lucedio (Trino)[36].

Proprio il patrimonio artistico di questa importante abbazia cistercense costituì l’argomento delle sue ultime ricerche di storia dell’arte, estese al patrimonio pittorico del vicino centro di Trino, pubblicate nel 1914 in un volume firmato coi religiosi Evasio Colli ed Alessandro Rastelli, autore quest’ultimo del ricco apparato fotografico a corredo.[37] Non è questa la sede per valutare nel merito gli esiti delle ricerche di Negri, ma risulta semplice riconoscere come numerose sue conclusioni non abbiano retto alla prova del tempo e siano state radicalmente modificate dagli studi più recenti[38]. Sarebbe però ingiusto disconoscere la sua capacità di aprire gli interessi della cultura locale alla storiografia artistica su base documentale, seguendo percorsi che si discostavano significativamente dal prevalente interesse per la cultura tardomedievale espresso negli stessi anni dagli storici torinesi, mentre nel Piemonte settentrionale, dopo gli studi di Edoardo Arborio Mella l’attenzione era piuttosto rivolta alle scuole artistiche di matrice lombarda e alla produzione cinquecentesca in genere.

Nel ripercorrere questa diversa geografia culturale l’attività di Negri mostra notevoli analogie con quanto andava facendo nello stesso periodo l’amico fotografo vercellese Pietro Masoero[39], impegnato nella documentazione delle opere della Scuola pittorica vercellese, sebbene il suo progetto culturale  avesse una più precisa intenzione politica, orientata alla divulgazione,  all’istruzione delle classi popolari piuttosto che alla produzione storiografica. E diversa ancora era l’intenzione di Secondo Pia[40], cui lo legavano rapporti di conoscenza anche nell’ambito della Società Fotografica Subalpina, certo in quel periodo l’autore più sistematicamente impegnato nella formazione del catalogo visivo del patrimonio artistico e architettonico piemontese.[41] Pia si era recato a Crea il 15 settembre del 1885, ma in quella prima occasione aveva rivolto la propria attenzione al solo aspetto paesaggistico, risolto in un panorama in due parti ripreso da sud, secondo il punto di vista canonico[42], la più antica documentazione fotografica di questi luoghi a noi nota, realizzata da Vittorio Ecclesia nel  1878-1880, che aveva escluso le cappelle e il loro patrimonio statuario, allora in fase di profonda trasformazione, per rivolgersi alla sola facciata e all’interno del Santuario offrendo però una Veduta generale del Sacro Monte ripresa dal colmo della chiesa  che costituisce una delle più affascinanti invenzioni iconografiche del fotografo e di tutto il repertorio relativo a questi luoghi.[43]

“Per godere di queste sensazioni [questo] misantropo così squisitamente sensibile (…) partiva da Casale a piedi (…) Sempre solo, poiché non aveva l’amico il cui spirito vibrasse all’unisono col suo; sempre taciturno, ma beato per gli spirituali conversari che lo intrattenevano (…) con le umili pianticelle che andava raccogliendo nel bosco. (…) Lo rivedo ancora nella buia cappella di S. Margherita, a rivelarmi le bellezze in essa rinchiuse mediante il lampo di magnesio che portava sempre con sé.”[44] Le parole del necrologio redatto da Luigi Gabotto confermano come Crea sia stata per molti versi il laboratorio di Negri, ma non convincono sino in fondo, fanno emergere nel lettore il sospetto delle stereotipo. Soprattutto non corrispondono all’impressione generale che le fotografie di Negri lasciano in chi le osserva.

Certo Crea fu luogo privilegiato di meditazioni e studi, ma non il solo. Le note autografe apposte alle lastre registrano le località di Pozzengo, Torcello, San Germano, Camino, Quargnento, Bosco Marengo, Fubine disegnando una mappa di destinazioni facilmente raggiungibili dall’amatissima Casale, cui dobbiamo aggiungere la Val Sesia con Riva Valdobbia e alcune località della Valle d’Aosta, Courmayeur in particolare. Sono le mete accessibili nel tempo concesso dagli impegni pubblici e professionali, sono i luoghi delle villeggiature. Scontati e pienamente comprensibili per l’attività di un amateur photographer, per quanto selettiva e qualificata. Così come non ci sorprende il calendario delle riprese, tutte scalate – tranne rare eccezioni – da maggio a ottobre, quando la luce è più calda e intensa, in grado di migliorare ancora le prestazioni delle già rapide emulsioni alla gelatina-bromuro d’argento.

Né mi convince quell’accenno a una misantropica solitudine, a una subìta separatezza, radicalmente smentita dalla collezione  di sguardi che vediamo intrecciarsi nelle sue lastre, dal piacere giocoso e tutto dilettantesco della curiosità tecnologica[45], che lo portava a usare apparecchi “nascosti”.

La rivoluzione delle emulsioni alla gelatina  ebbe conseguenze enormi anche nel costituirsi della fotografia come pratica sociale. Il fotografo non professionista non fu più – o non solo – l’irregolare di rango, ma,  per onde socialmente sempre più ampie, omnicomprensive divenne dapprima dilettante e poi fotoamatore, ruolo culturale inedito, produttore e consumatore di quella che ormai molto avanti nel Novecento Pierre Bourdieu avrebbe chiamato “arte media”, o semplice praticante occasionale colonizzato dalle strategie dell’industria dell’immagine.

In questa traiettoria la figura di Negri si pone in maniera affatto singolare per la sua capacità di utilizzare la fotografia senza preconcetti, in grado di ricorrere alle migliori  e più aggiornate soluzioni applicative come di usarne quale strumento e testimonianza di relazioni sociale e affettive.

Anche per Negri la lastra fotografica era “la vera retina dello scienziato, che vede tutto, che analizza tutto e che addiziona le impressioni, senza fatica, senza parzialità, senza preconcetti”[46], sebbene questo  approccio positivista e analitico non gli impedisse poi usi diversi, privati e narrativi, spingendosi se del caso ben oltre i legittimi limiti della verosimiglianza per giocare con le esposizioni multiple sulla stessa lastra, dove – abbandonato il grottesco sarcasmo delle prime prove ‘spiritiste’ – l’espediente era destinato a inventare mondi possibili, verosimilmente fantastici,  abitati non a caso da bambini.[47]

L’accoppiamento tra nuove emulsioni e apparecchi gli consentì soprattutto di orientare diversamente il proprio sguardo, affiancando alle precedenti applicazioni strumentali – tra ricerca scientifica e storiografia artistica – il piacere di cogliere la realtà “nella verità della sua apparizione” (Gunthert 2001, p. 65), di collezionare ricordi istantanei senza alcuna premeditazione.

In questa nuova stagione, e inedita, un ruolo determinante giocò l’uso dagli apparecchi stereoscopici, dove grande maneggevolezza e rapidità di posa arricchivano l’affascinante promessa della futura visione tridimensionale e privata  così come accadeva con le detective camera.  Il loro uso letteralmente sorprendente dava corpo e immagine per la prima volta alla versione fotografica del voyeur[48], ormai dotato di un apparecchio[49] nascosto sotto al panciotto, con l’obiettivo sporgente da un’asola, che consentiva di ottenere su ciascuna delle lastre circolari di cui era dotato, sei immagini circolari di 40 mm di diametro e che Negri usò a partire dal 1888.

Paradosso della situazione: nel momento di più esplicito voyeurismo il fotografo nuovo delegava alla macchina buona parte delle proprie funzioni autoriali e posticipava il piacere del vedere riservandolo allo spazio sacrale della camera oscura. Si limitava a scegliere l’occasione e il momento. Affidandosi all’apparecchio per strutturare l’articolazione dello spazio e la composizione dell’inquadratura abdicava alla propria funzione di autore aprendo inconsapevolmente la strada alle estetiche del Novecento.

Anche in termini iconografici con questa possibilità nuova, nativa, offerta dall’istantanea[50], la fotografia si rendeva autonoma da ogni debito con la tradizione pittorica, giungendo progressivamente a definire un genere costituito da immagini articolate secondo sintassi inedite[51], che in Italia sarebbero poi state lucidamente individuate da Stefano Bricarelli, che per la buona riuscita delle “scene animate”  avrebbe indicato quale “condizione indispensabile (…) che il soggetto sia inconscio (…). Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata. [Per] fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  di un quadro.”[52]

Le scene di strada erano un soggetto privilegiato e ampiamente frequentato già dalla prima maturità della pratica stereoscopica, intorno agli  anni ’70 del XIX secolo.  A questa si devono anzi i primi esempi di ripresa istantanea, ancora ai tempi del collodio, ma fu la pratica dilettantistica consentita dai nuovi dispositivi fotografici a determinare la vera e definitiva scoperta della scena urbana, a mutarne il senso della rappresentazione, che ora diviene piuttosto la registrazione di un’esperienza, la traccia del rapporto individuale tra il fotografo e la città, testimonianza del suo esserci in quanto componente della scena stessa.

La semplicità d’uso consentiva ormai di rivolgere l’attenzione alle banalità (più raramente all’eccezionalità)  del quotidiano; erano  proprio le nuove possibilità operative a consentire e definire nuovi soggetti, irriducibili ai canoni dell’artisticità, incommensurabili. Contemporaneamente si accresceva il valore testimoniale di traccia della fotografia, poiché l’apparente casualità dell’inquadratura certificava la veridicità di una ripresa non posata e simulata, “rendendo più profondo il nesso tra informalità e verità fotografica.”[53] È l’istantaneità che inventa i propri soggetti collocandoli in un diverso orizzonte espressivo e di valore, che si caratterizza  per la sua elevata autoreferenzialità[54]. Prende così progressivamente forma un modello di consapevolezza espressiva fondato sui nuovi elementi discorsivi apportati da questa pratica, ciò che consente per la prima volta di “piegare la rappresentazione al proprio ordine, di imporre al visibile la griglia della tecnica, di trasformare il soggetto della pittura nell’oggetto della fotografia”[55], di più ancora, come abbiamo visto nel caso di alcune riprese relative a Crea: di cercare l’istantaneità del gesto anche nella lettura delle statue di Tabacchetti.

Nell’opera di Francesco Negri questa libertà nuova ha assunto forme diverse, che riguardano aspetti compositivi non meno che narrativi, così come la scelta di specifici soggetti.

Quanto all’accogliere le suggestioni di nuove possibilità sintattiche, basti pensare a certe vedute urbane[56],  ai modi di orchestrare le figure nello spazio, congiunte da intervalli così silenziosi da far emergere a volte un sentimento di desolata solitudine, quasi disperata. Si produceva così un tempo che appare sospeso, immoto, il più lontano dal fermo immagine  proprio dell’istantanea comunemente intesa. In altri casi è la rimessa in discussione del punto di vista a costituire il centro di interesse, come nella bella ripresa delle lavandaie dall’alto, o la scomposizione – affidata alle ombre – dell’inquadratura di una scena di strada altrimenti al limite del bozzetto folklorico. In entrambe un soggetto ampiamente frequentato e ormai consunto venne  rivitalizzato in modi che anticipano soluzioni che saranno poi programmaticamente perseguite dai fautori della “nuova visione”.

Negri non escludeva alcun uso della fotografia. Non temeva la banalità del quotidiano, poiché la fotografia (gli) consentiva anche questo: di raccontare un gesto qualsiasi, cui si è legati anche solo da un fuggevole sentimento momentaneo, con grande e risolutiva economia di mezzi. Per questo – credo – non temeva neppure di misurarsi con qualcosa che noi oggi possiamo forse chiamare il qualunquismo delle ricorrenti pose goliardiche, dei piccoli gesti di pessimo gusto, di intere serie di “foto col colombo in man”. Non solo desiderava misurarsi con la fotografia, ma anche sottoporne a verifica le potenzialità, affidandosi al piacere sorprendente di estrarre il singolo gesto fugace dal flusso continuo dell’azione. Mi riferisco al velleitario tentativo di dimostrare come fosse possibile la “Abolizione della film (…) vantaggiosamente sostituita dalle comuni lastre sensibili”, condotto utilizzando il bizzarro apparecchio Olikos[57], ma ancor più alle due opposte serie delle scene di ballo e della brevissima, sorprendente sequenza del tuffo nelle acque del fiume, altro “soggetto istantaneo” praticato da molti fotografi il cui successo non era immune, secondo alcuni, da più o meno esplicite suggestioni della cultura omosessuale.[58]

Questa sindrome dell’istantanea fu immediatamente individuata e precisamente descritta da Albert Londe, direttore del servizio fotografico al cronicario parigino  della Salpêtriére col grande psichiatra Jean-Martin Charcot,  che nel suo saggio dedicato alla Photographie instantanée notava come “molti fotoamatori da quando possiedono un otturatore non sognano altro che di fotografare dei cavalli in corsa o dei treni espressi” , sebbene questo si rivelasse ben preso un compito ingrato, poiché “se la ripresa ottenuta è nitida il treno appare irrimediabilmente fermo e solo la dichiarazione del fotografo, ancor più del pennacchio di fumo che volteggia, garantisce l’istantaneità della posa.”[59]

Ciononostante l’attrazione per questo soggetto – in Negri come in altre decine di pittori e fotografi europei e statunitensi, ben prima delle celebrazioni futuriste – fu irresistibile, poiché la locomotiva rappresentava  la materializzazione di una velocità inumana, sino a prima inimmaginabile. Era e rimane per questo il simbolo più efficace e pieno della modernità della prima rivoluzione industriale, ma costituiva anche il banco di prova dell’istantaneità fotografica: velocità contro velocità, otturatore vs motore. Senza poter impedire che sfuggisse però – irresistibile – una scenografica massa cangiante di fumo e vapore bianco, come di nuvole fatte a macchina.

I diversi ambiti della sua attività, così come si sono  andati delineando ci consentono un’affermazione che può apparire sorprendente: sino agli anni Novanta Negri non fu un amateur photographer, ma uno studioso che usava in modo molto accorto e appropriato la fotografia, trovando in questo campo di applicazione specialmente motivi di interesse tecnologico. Basti pensare alla progettazione del teleobiettivo, che costituiva in quegli anni un rilevante problema ottico meccanico, già affrontato da Thomas Rudolphus Dallmeyer a Londra e da  Adolf Miete a Berlino sin dal  1891, quindi da Giorgio Roster e Innocenzo Golfarelli in Italia, e che lui risolse operativamente per primo nell’arco di poco più di quattro anni, a partire dalle sperimentazioni avviate nell’aprile 1892 sino alla messa in produzione da parte della ditta milanese Francesco Koristka nel 1896.[60]

Il profilo architettonico della città, insieme alle montagne lontane, era ciò che lo attirava per primo nella sperimentazione del nuovo strumento ottico, la possibilità di incidere nella veduta panoramica un percorso visivo di avvicinamento estremo, sino alla scala del singolo edificio o tenendosi un poco più largo per rivelarne le aguzze emergenze che lo distinguono, le più antiche torri e le ciminiere dei cementifici, mantenute significativamente in primo piano anche in un’altra ripresa in cui notava l’adagiarsi calmo della città nell’ansa ampia del fiume. Poco sembrano interessarlo invece le singole emergenze architettoniche. Non rientrava tra i suoi scopi la formazione di un repertorio visivo del patrimonio storico urbano; attento semmai agli spazi da vivere, tra le piazze, i giardini e il lungofiume. Poi le infrastrutture, forse anche in virtù della sua stessa funzione di amministratore pubblico. La sua è una città che appare scarsamente popolata, sebbene alcune tra le primissime riprese, ancora su lastra al collodio, fossero dedicate all’imprendibile animazione di piazza Mazzini in un giorno di festa, e ancora anni dopo avesse generosamente impiegato il proprio apparecchio stereoscopico per raccontare l’animazione di piazza Castello in occasione di qualche fiera, tra padiglioni e giostre.[61]

La città che sembra attirarlo di più è quella degli spazi vuoti, non di rado marginali, quella che appare  nelle giornate uggiose, con scarsi passanti, nell’elegante griglia dei giardini innevati, deserti.

Anche del fiume ciò che maggiormente costituiva per lui richiamo non era la vita sulle sue sponde, pur non esclusa, ma la sua relazione inscindibile con la città e col paesaggio che la circonda, letteralmente nato per erosione e accumulo, tra bordi collinari e pianura. Raccontare il fiume voleva dire per Negri reinventarne fotograficamente la maestosa ampiezza, minacciosa a volte; alzare panoramicamente il proprio  sguardo sino a cogliere il dialogo con la geografia dell’intorno o ridursi al breve orizzonte chiuso dagli argini, estendendo il proprio sguardo a tutti i paesaggi d’acque che circondano la città, sino alle più prossime risaie, fotografate forse per l’amico Angelo Morbelli.[62]

Quasi si potrebbe dire che solo nell’ultimo decennio del secolo Negri divenne un dilettante, aprendosi liberamente al piacere dell’istantanea, ma rivelandosi soprattutto un ritrattista di gran livello, così come sarebbe accaduto per un altro amateur della generazione successiva come Enrico Del Torso (Trieste 1876 – Udine 1955)[63]. È proprio in questa serie di figure che risulta dal dialogo serrato coi soggetti fotografati, tutti palesemente in relazione di stretta conoscenza, di familiarità col fotografo che emerge per la prima volta un esplicito impegno espressivo, scalato in una ricca serie di soluzioni linguistiche, frutto di uno sguardo innovativo e scarsamente condizionato dai modelli della fotografia pittorialista; immagini  destinate alla pura  fruizione privata. Come aveva già notato Marina Miraglia[64], Negri fu “tra i pochi fotografi amatori piemontesi che oltre all’immagine del territorio indagò, in toccanti istantanee, la propria quotidianità familiare”, riuscendo però a trascendere ampiamente questi angusti limiti sino a restituire l’identità visiva della borghesia casalese tra Otto e Novecento, a offrire esiti innovativi all’ormai lunga consuetudine del genere.

Dopo una pausa di circa un trentennio l’archivio di Negri si popola nuovamente di persone, spesso inseguite e colte nella relativa libertà del gesto quotidiano, in modi mantenuti volutamente lontani dalla prestabilita compostezza della ripresa in studio, a meno che ciò non costituisca quasi un esercizio di citazione. Gli sfondi, appena fuori fuoco, sono di interni borghesi, ma non mancano certo gli esterni, che anzi tendono a prevalere col procedere degli anni. L’attenzione è per la figura (non sono ritratti ambientati) anzi, ancor più, è concentrata sul volto e in questo sullo sguardo, che a volte emerge dall’ombra, con una modernità priva di inquietudine. Oppure si rivolge diretto alla macchina, al fotografo quindi, in segno di manifesta confidenza, o si ritrae pudico per analoghe ragioni. Anche qui ritroviamo esempi di sperimentazione linguistica condotti al limite della citazione, ma sempre con la levità quasi innocente del dilettante. Penso alla figura stante, di profilo, con lunga tunica bianca, in cui le suggestioni tra preraffaelitte e simboliste piuttosto che sublimare l’identità concreta e storica della persona ritratta – come accadeva circa gli stessi anni nelle fotografie di Guido Rey – contribuiscono a marcarne la connotazione. Penso anche alle due ieratiche figure di netto profilo, forse una coppia, di ancora più antiche ascendenze pittoriche ma certo di scarsa applicazione nella ritrattistica coeva: ad esclusione della segnaletica, certo.

I modi oscillano continuamente tra gli estremi opposti delle silhouette prefotografiche, alcune provate virtuosisticamente in esterni, e la vivezza dell’istantanea, in cui uno sguardo colto quasi al volo, un gesto rivelano improvvisamente qualcosa della persona ritratta, aprendo la strada che poi sarebbe stata ampiamente frequentata dalla fotografia degli anni della modernità.

Anche il tema del paesaggio – secondo le date autografe apposte alle lastre – non venne sistematicamente affrontato prima della fine degli anni Ottanta, quando però si trattava ancora, il più delle volte, di vedute di  località, non di paesaggi veri e propri[65]. Tra i primi soggetti con cui si misurava vi era la montagna, certo una nobile tradizione per la fotografia piemontese e per lui legata ai soggiorni in alta Val Sesia (Alagna e soprattutto Riva Valdobbia, dal 1888) e poi in Valle d’Aosta (Courmayeur, Châtillon, la Valtournenche tra 1897 e 1899). Sono prevalentemente vedute di ampio respiro, che restituiscono l’insieme del contesto alpino o si soffermano sui piccoli insediamenti di fondovalle. Negri non era un alpinista, solo di rado il suo sguardo veniva attratto dalle catene montuose o dai fronti di ghiacciaio, memore delle favolose immagini dei primi grandi fotografi di montagna, non più di trent’anni prima[66]. Non per questo però la qualità della sua produzione fu meno nota e apprezzata se Vittorio Sella[67], forse il più grande fotografo alpinista del XIX secolo, scelse alcune sue riprese per una mostra aostana dedicata proprio a questo genere, realizzandone in proprio una nuova stampa delle eccezionali dimensioni di 53,5×218,5 centimetri. Più interessanti ci sembrano oggi i paesaggi veri e propri, per quella sua capacità di sorprenderci con piccoli scarti improvvisi, inattesi; per la scelta di soggetti inconsueti e quasi marginali che gli consentono però di orchestrare l’inquadratura in modo dinamico, con la ricorrente presenza di elementi in primo piano con funzione di quinta e di scomposizione dell’inquadratura, oppure ricorrendo per analoghe ragioni alle amatissime ombre portate di elementi fuori scena.

La più costante attenzione fu però rivolta alla vegetazione nelle sue diverse forme, alle specie spontanee riprese in stereoscopia ancora nel 1899 con lo sguardo del naturalista e specialmente alle masse alberate che chiudono l’orizzonte dei campi, che segnano il margine delle lanche, al folto dei boschi. Tutti soggetti che ben si prestavano ad essere trattati col metodo della tricromia.

Paesaggio e colore in un qualche modo si sovrapponevano, e neppure la montagna faceva eccezione,  esito di una mediazione che era pittorica e tecnologica insieme. Com’era per l’istantanea, anche la tricromia[68] imponeva i propri soggetti, non solo per l’ovvio prevalere d’interesse della gamma cromatica sulle modulazioni tonali, ma anche e forse soprattutto perché la realizzazione distinta dei tre negativi di selezione imponeva la scelta di soggetti sostanzialmente immobili, la cui forma permanesse immutata per il tempo necessariamente lungo delle tre distinte pose.

Dopo le prime prove del 1890 (una ripresa di fiori in vaso, con filtro rosso, datata 8 luglio) Negri si dedicò con costanza a queste esperienze a partire dall’ottobre del 1899 (“Quando cominciai nel dicembre 1899 a tentare la tricromia..”  ricordava nel 1906, sbagliando di poco), forse sollecitato dalla pubblicazione dell’importante testo di Carlo Bonacini La fotografia dei colori (1897) e da quello di Alcide Ducos du Hauron, fratello del più noto Louis, La triplice photographique des couleurs et l’imprimerie che l’editore parigino Gauthier-Villars aveva pubblicato nello stesso anno.  L’interesse per il tema era però di molto precedente come dimostra la presenza nella sua biblioteca del testo fondamentale di Hermann Wilhelm Vogel, La photographie des objects colorés avec leurs valeurs réelles (1887), e confermata dalla presenza di periodici specializzati quali “La Photographie des Couleurs” e del più tardo volume di Ernst König,  Natural-color photography, del 1906.

L’attenzione non episodica per questo tema è oggi testimoniata dalle sessanta tricromie presenti nel Fondo[69], “sintesi di un lungo e paziente lavoro, il quale lascia dietro di sé un enorme sciupio di lastre, pellicole e colori”; poi aggiungeva:  “di schermi ne ho fatti molte decine, di colori ne ho passati in rassegna più di un centinaio.”[70]

Gli esiti di questa metodica applicazione furono immediatamente noti e apprezzati, tanto da determinare la partecipazione nel 1902 alla grande Esposizione di Arte decorativa moderna e contemporanea che si tenne a Torino,[71] chiamato a rappresentare l’Italia nella sezione dedicata alla fotografia[72]. L’invito doveva certo essere giunto dallo stesso Presidente del Comitato promotore dell’Esposizione internazionale di fotografia artistica Edoardo di Sambuy, che Negri aveva conosciuto in occasione dei due primi congressi italiani di fotografia a Torino (1898) e Firenze (1899). La condivisione dell’iniziativa con autori quali Guido Rey, Cesare Schiaparelli, Giacomo Grosso e Vittorio Sella, solo per citare i maggiori, consacrava Negri come uno dei più significativi autori a livello nazionale, sebbene il suo modo di intendere e praticare la fotografia poco avesse da condividere con le pratiche ‘artistiche’ allora dominanti, analogamente a quanto accadeva del resto anche per Vittorio Sella.

Pietro Masoero, commentando l’Esposizione sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana” segnalava le “magnifiche tricromie su pellicola di Francesco Negri di Casale, destanti l’ammirazione generale. E questa volta il pubblico giudicava bene. I saggi presentati dal Negri erano perfetti sotto ogni rapporto e per il primo credo, dalla natura morta osò riprodurre a colori la natura aperta come un’aiuola di viole del pensiero e un canale del Po con effetto di tramonto.”[73]

L’ammirazione del pubblico era certo favorita dalla semplicità di queste composizioni, lontane dalle “inusitate forme” e dalla “esagerazione della ricerca” della più avanzata produzione straniera di gusto pittorialista, specialmente statunitense. La novità dirompente, assoluta, per noi oggi incommensurabile era però il colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel al francese Gabriel Lippmann nel 1908, per la messa a punto del metodo interferenziale diretto di fotografia a colori; quello  che i fratelli Lumière, grandi sperimentatori e recenti inventori dell’autocromia, molto sottilmente definivano come “una meravigliosa esperienza di laboratorio e una elegante conferma della teoria fisica della luce”, priva però di qualsiasi utilità pratica.

Come si è detto, non che Negri non avesse mai affrontato il tema del paesaggio prima di misurarsi con la difficoltà tecnica delle tricromie, ma qui – appunto – il senso e le ragioni della scelta risiedevano nei vincoli imposti dal procedimento e l’interesse per il genere assumeva una vitalità nuova. La scelta del tema ma anche quella del luogo, quel paesaggio fluviale e collinare che segna i dintorni della città e che tante volte aveva  già descritto e studiato, forse non estraneo all’intenzione tutta positiva di annodare le fila delle trame che costituiscono un territorio, in anni in cui si avviavano in Italia le prime riflessioni in merito alla tutela del paesaggio[74]. Il soggetto (insieme, non a caso, alla natura morta) risultava quindi in certa misura imposto, quasi  ineluttabile, ma non per questo nella determinazione dell’inquadratura e nella costruzione generale dell’immagine non è possibile riconoscere suggestioni, stimoli visivi e culturali precisi  esito di sguardi educati a vedere secondo canoni determinati, non casuali.  Mentre il trattamento dominante del paesaggio negli anni della “Fotografia Artistica” prediligeva i toni bassi e brumosi (fontanesiani quasi), qui insieme al colore entrava in gioco la luce, meglio ancora la luminosità densa dei tre strati policromi, restituita in tutte le sue gradazioni al momento della visione per trasparenza.

Accanto ai paesaggi le sobrie nature morte,  eleganti studi condotti nella calma racchiusa del proprio studio.

Nella messa a punto di questi set di ripresa Negri  mostra un’attenzione e una sapienza nel trattare la luce che invano cercheremmo nelle altre fotografie. Il soggetto, perfettamente centrato, ripreso frontalmente, quasi affiora dal piano posteriore cromaticamente intonato oppure si stacca, netto, dal fondale scuro e indistinto, da cui i colori pastosi delle gelatine emergono con evidenza materica.

L’accuratezza di queste composizioni testimonia da sola le sue potenzialità, ma conferma anche il suo scarso interesse generale per le questioni estetiche, qui sollecitate dalla sfida della più efficace, spettacolare resa del colore e risolta applicando modelli compositivi direttamente desunti da analoghi  esempi pubblicati dalle riviste dell’epoca sotto forma di tavole fuori testo[75]  o comunque di ampia circolazione come gli Etudes de Feuilles di Charles Aubry, del 1864, ma ancor più la serie dei Fleurs photographiées realizzata da Adolphe Braun nel decennio precedente (1854-1856), che costituì a sua volta modello per innumerevoli autori successivi, tra fotografia e pittura.

La sua attività fotografica proseguì ancora per circa dieci anni,  le ultime annotazioni autografe datano le immagini al maggio 1915, ma certo l’incontro con le opere dei maggiori protagonisti della stagione pittorialista avvenuto a Torino non produsse in Negri alcuna velleità di confronto, alcuna suggestione.  Quando nel 1906 pubblicò sul “Bullettino della Società Fotografica Italiana” e quindi ne “Il Progresso Fotografico” i suoi Appunti sulla tricromia, apparentemente l’unico suo testo dedicato alla fotografia, le notazioni erano esclusivamente di carattere tecnico[76];  invano si cercherebbe un cenno alla poetica o anche solo alle ragioni del fotografare a colori.

Il suo operare fu continuamente delimitato da  orizzonti puntualmente definiti e temporalmente circoscritti, dove la maestria nell’individuare di volta in volta i parametri applicativi più adatti alla più efficace soluzione del problema si coniugava e si confondeva col desiderio, con la necessità di un continuo confronto tecnologico propria dell’autodidatta, del fotografo dilettante che agli albori della modernità si appresta a divenire fotoamatore. Anche la sua connotazione di autore ‘locale’ sembrerebbe muovere il giudizio in tal senso, ma è indispensabile distinguere. Certo la scelta dei soggetti, la delimitazione geografica della sua area di lavoro fu fortemente radicata nel territorio casalese, luogo in cui si fondavano e si svolgevano le ragioni e le trame che legavano i suoi molteplici interessi. Ma la sua cultura, le ragioni i modi e gli esiti della sua pratica fotografica rivelarono, già ai contemporanei il suo valore sovralocale, la sua singolare figura di fotografo tra i più rilevanti degli ultimi decenni del XIX secolo in Italia, impossibile a ridursi a una tipologia che non sia quella di uomo del suo tempo, enciclopedico ed eclettico. Indifferente alle gerarchie di valore lui accoglieva e usava tutta la fotografia; ne coglieva e apprezzava l’infinito spettro di possibilità indifferenziate di puro e affascinante strumento, in grado all’occasione di divenire gioco raffinato o elegante problema da risolvere. Mezzo d’espressione cui concedere poco però, da cui lasciar trasparire quasi nulla di sé. Per questo non credo che Francesco Negri si sentisse ‘autore’, non almeno nel significato trasmesso dalla tradizione artistica e ancora oggi troppe volte accolto e usato senza cautele. La sua presenza più definita e personale riusciamo a trovarla, a leggerla con sufficiente chiarezza solo nella produzione più riservata e personale dei ritratti e delle istantanee, nascosta sino ad ora a sguardi che non fossero intimi. “Carattere complesso – lo ricordava il canonico Francesco Gasparolo nel 1925 –  davanti a cui (…) si rimane perplessi nel giudicare, se la difficoltà di misurare l’alto valore dell’uomo provenga dalla sua eccessiva modestia o da fierezza d’animo. Converrebbe probabilmente conchiudere che ambedue siano state le cause.”

 

 

Note

[1] È opportuno ricordare, e ribadire, che ciò che si mostra in questa occasione non è solo una inevitabile selezione, come necessariamente accade ogni volta che ci si propone di presentare criticamente l’intero ciclo operativo di un fotografo.

L’antologizzazione delle fotografie realizzate da Francesco Negri è, ancor prima, conseguenza di ciò che si è riusciti a mostrare, ma non rispecchia fedelmente l’insieme di ciò che si è conservato, per ragioni che credo indispensabile motivare almeno sinteticamente.

L’insieme dei materiali su cui abbiamo condotto le ricerche qui pubblicate, tutti conservati nel Fondo Negri della Biblioteca civica di Casale Monferrato, appartiene a quella porzione – crediamo prevalente – della sua produzione che è riuscita a superare il corso dei decenni sopravvivendo a dispersioni, vicende giudiziarie, incuria e non sempre opportuni e accorti interventi. In quasi totale assenza di stampe originali, forse disperse negli anni, la selezione  è stata condotta prevalentemente sui negativi, rinunciando comunque dolorosamente a presentare le lastre irrimediabilmente rigate, quelle la cui emulsione non si è negli anni gonfiata e parzialmente staccata, quelle su cui una mano tanto volonterosa quanto imprudente non ha incollato, solo pochi decenni orsono, micidiali etichette identificative. Come ha ben documentato Barbara Bergaglio, per troppo tempo il Fondo Negri è stato sfruttato come una risorsa di cui poco importava la conservazione nel tempo, ponendo in essere insufficienti cautele e attenzioni sia in termini di condizioni fisiche che di sicurezza. Non si spiega altrimenti l’attuale assenza di alcune immagini e documenti pubblicati nella monografia curata da Cesare Colombo nel 1969, ma anche di altri beni strumentali e immagini individuati da chi scrive alla fine degli anni ’80, confermati dalla schedatura condotta dalla Fondazione Italiana per la Fotografia e oggi non reperibili.

Per meglio identificare i forti limiti entro cui è stato costretto il presente lavoro è necessario ricordare che la committenza non ha ritenuto opportuno favorire l’ampliamento delle ricerche presso quelle istituzioni e collezioni private che notoriamente conservano immagini e documenti relativi all’attività di Negri. Non è stato così possibile, ad esempio, studiare e utilizzare la ricca e varia documentazione conservata presso il Sacro Monte di Crea, che fu l’amato laboratorio di una vita per Negri, né rendere note alcune eccezionali testimonianze della sua precoce fortuna critica, penso in particolare alle bellissime stampe fotografiche di panorami alpini che Vittorio Sella trasse da sue lastre negli anni Trenta del Novecento, i cui negativi sono oggi conservati presso la Fondazione Sella di Biella, mentre alcuni positivi in diversi formati, anche di grandissime dimensioni, sono conservati nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna di Torino e nei fondi Fotografici della Soprintendenza regionale della Valle d’Aosta.

Sono infine convinto che le collezioni private, specialmente casalesi, avrebbero potuto riservare interessanti sorprese, offrire significative testimonianze di una consuetudine, certo sua, a concedere ad amici ed estimatori i migliori esemplari della sua vasta e poliedrica produzione, oggi tanto più preziosi in conseguenza della scarsità di stampe originali conservate nel Fondo.

[2] Disderi 1862, nota a p.169, accanto alla formula del “collodion pour l’été”.

[3] Escludendo Padre Vittorio della Rovere (1811 – 1863 ?), di nascita casalese ma vissuto prevalentemente tra Torino e Roma, ben noto per le sue rare immagini e gli studi sulla stereoscopia (cfr. “Atti dell’Accademia dei Lincei”, 8, 1854) e ancor prima sulla  dagherrotipia, per cui si rimanda a L’Italia d’argento, 2003, p. 246, scheda siglata “mfb” [Maria Francesca Bonetti], e stando alle poche notizie certe, negli anni intorno al 1860 a Casale si registrava la sola presenza di Antoine Valentin, di evidente origine francese, della Fotografia Sociale, Via della Posta n.6, e di un  “V. Casazza \ Geom.tra Fot.fo \ Casale” non altrimenti noto, sebbene l’interesse per la nuova invenzione dovesse essere stato molto precoce, come indica la presenza nel Fondo Negri di Buron 1841, che porta al frontespizio il timbro ex-libris della biblioteca della famiglia Vitta, di cui sono note le relazioni con la Francia in relazione alla costituzione del Crédit Lyonnais.

Nei decenni successivi furono attivi Virgilio Tamburini, 1879 – 1905 ca, Via Sant’Ilario 18 poi via Garibaldi 6, cui subentrerà E. Camurati ai primi del ‘900; Carlo Giovara, 1880 ca, Via Vittorio Emanuele II (Palazzo Treville) e piazza dell’Addolorata, Casa Cerinola, con succursale a Chivasso; A. Manfredi, attivo dal 1883 a Torino, Via Lagrange 15, poi dal 1893 al 1895 in Piazza San Carlo 4, che possedeva anche una succursale a Casale, Piazza dell’Ospedale di Carità, 6  ove subentreranno prima del 1899 Giuseppe Menzio e F. Rota (presente al Congresso di Firenze del 1899) prima di aprire ciascuno studio proprio. E ancora: Premiata Fotografia (Fotografia e Pittura)   Angelo Bensi, 1890 ca, piazza Carlo Alberto 2, cui succederà  Ezio Bensi, titolare dello Stabilimento Fotografico Arte Moderna, 1908, Viale Regina Margherita 2 e Via Ricovero (casa Ing. Masazza), citato all’Esposizione del 1909 per “gli ingrandimenti degli autopastelli” [sic] di Leonardo Bistolfi e dell’Archinti” (Ettore Archinti, 1878 – 1944).

Altri studi e fotografi seguiranno nei decenni successivi come A. Armani, attivo dal 1920, Battaglieri, Goffredo Calvi, con notizie nel 1907,  Colombino, La Fotoelettra, Foto Lori, dal 1925,  Melotti, C. Migliore e L. Piantone, mentre ancora più incerto è l’universo degli amateur photographers come quell’E. Morbelli (sotto cui potrebbe celarsi un refuso) di cui si pubblica un “superbo gruppo di piante” ne “Il Progresso fotografico” dell’ottobre 1898 o altri casalesi presenti all’Esposizione del 1909 come l’avvocato Silvio Montalenti, Felice Deambosi, il dott. Emilio Iaffe . “Bisogna però convenire – ricordava il redattore – che Casale e provincia, per quanto non sia un gran centro, ha però un forte nucleo di dilettanti che è ben difficile trovare altrove.” (“Il Progresso Fotografico”, 1909, pp. 126)

[4] Per una puntuale ed esauriente presentazione critica dell’ambiente torinese si veda Miraglia 1990.

[5] Nel 1863 aveva sposato la novarese Giulia Ravizza, con cui abitava in via Benvenuto San Giorgio “nella casa che fu dei Della Rovere di Casale” (Mattirolo 1925, p.10, nota 3), poi demolita nel secondo dopoguerra. La moglie era la prima figlia dell’avvocato Giuseppe Ravizza (Novara 1811- Livorno 1885), erudito cultore di storia e archeologia in stretta relazione con Theodor Momsen con cui redasse il Catalogo primo del Museo Patrio di Suno ed Appendice alle Memorie storiche.  Novara: Tip. Merati,  1877, più noto come inventore della prima macchina da scrivere a tasti, il  “Cembalo scrivano” del 1855, i cui cimeli “posseduti e custoditi gelosamente” da Federico Negri vennero esposti nel padiglione Olivetti dell’Esposizione agricolo-zootecnica di Novara del 1926, cfr. Aliprandi 1931, da cui pervennero al Museo della Scienza di Milano, che conserva anche un ritratto di Giuseppe Ravizza con la moglie Ernesta  Brosio e la seconda figlia Elisa realizzato da Francesco Negri nel 1864,  donato al Museo proprio dal figlio Federico nel 1931. Colgo l’occasione per ringraziare Paola Mazzucchi, responsabile della Biblioteca del Museo per avermi cortesemente fornito alcuni dati in merito alla provenienza di questi oggetti.

[6] Cfr. qui La biblioteca del fotografo.

[7] Quale ulteriore testimonianza della prima pratica fotografica di Negri segnaliamo che nella lastra 10B144 compare una camera oscura portatile per la preparazione di lastre al collodio, non dissimile da quella usata circa negli stessi anni dal pastore valdese David Peyrot e oggi compresa nelle collezioni del Museo nazionale del Cinema di Torino.

[8] Dopo i primi esempi riferibili all’avvio della sua attività fotografica, la consuetudine di annotare ai bordi della lastra i dati di ripresa e sviluppo con più rare indicazioni relative al soggetto fu riavviata intorno al 1885 per proseguire ininterrotta sino alle ultime lastre, datate maggio 1915.

[9] Henry Festig Jones ricordava come il padre di Negri (gran cacciatore, morto per la puntura di una zanzara) abitasse proprio a Ramezzana, avendo sovente come ospiti  Cavour e il principe Dal Pozzo della Cisterna, ma anche Vittorio Emanuele II, che volentieri coccolava il piccolo Francesco; cfr. Jones 1919, p. 113.

[10] Disderi 1862, ora in Frizot, Ducros 1987, pp.  36- 47 (39).

[11] Si confronti ad esempio il ritratto di un giovane prelato in piedi, poggiato alla spalliera di una sedia tenuta in equilibrio, [9C138] con l’identica posa del [Ritratto della moglie] di Giuseppe Alinari, 1870 ca, in Quintavalle 2003, p. 273.

[12] Bertelli 1979, p. 76.

[13] Ricordiamo come a questa data fosse già in relazione col botanico Vincenzo Cesati (Milano 1806 – Vercelli 1883), che gli dedicò uno Xantium, che lo stesso Negri aveva trovato per primo a Castell’Apertole (Livorno Ferraris), cui  secondo Oreste Mattirolo 1925, p.7 lo legavano anche “aspirazioni patriottiche comuni”. Ancora alla relazione con Cesati si doveva la conoscenza con Antonio Stoppani (Lecco 1824 – Milano 1891) [che definì Negri “distinto botanico”] segnalata ancora da Mattirolo 1925, p. 8 e poi ripresa da tutti i commentatori successivi, che Negri accompagnò  alle cascate del Toce, redigendo quell’elenco “delle specie crescenti nell’Alta valle del Toce” che fu pubblicato ne Il Belpaese, 1875.  L’immutato interesse per la botanica è documentato fotograficamente da una serie di stereoscopie datate aprile 1899. (R0096654- R0096658)

[14] Didi-Huberman 1986, p. 71, corsivi dell’autore.

[15] Allo stesso anno risale Moitessier 1866, un trattato molto noto che ben documenta la fase di massimo successo in ambito fotografico di questo genere di immagini, che consentivano agli studiosi di colmare il vuoto filogenetico tra organismi inferiori (dai batteri alle alghe) e superiori (l’uomo) in maniera compatibile con il gradualismo evoluzionista delle nuove teorie darwiniane ( Jeffrey 1999, p. 38). Lo stesso editore  aveva pubblicato nel 1845 l’Atlas du Cours de Microscopie Donné e Foucault, considerata la più antica pubblicazione di fotomicrografia. Già il 17 febbraio del 1840 Alfred Donné (1801 – 1878) professore al College de France, aveva presentato all’Accademia delle Scienze di Parigi per il tramite di Jean-Baptiste Biot delle fotomicrografie su dagherrotipo ottenute alla luce ossidrica grazie ad un microscopio solare (Corcy 2003, p. 64). Quasi negli stessi giorni, il 4 marzo,  il medico e matematico viennese Andreas Ritter von Ettingshausen (1796 – 1878) aveva realizzato la fotomicrografia di una sezione di Clematis (Frizot 1994, p. 276; Marien 2002, p. 34), ma come è noto già tra gli esemplari fotografici di Talbot presentati da Michael Faraday alla Royal Institution il 25 gennaio 1839 si trovavano immagini di ingrandimenti, tra cui l’ala di un insetto (Frizot 1994, p. 276; Jeffrey 1999, p. 35).

[16] Zannier 1986, p. 171.

[17] Diversamente dall’uso ottocentesco, proprio anche di Francesco Negri, per le riprese fotografiche ottenute per il tramite del microscopio utilizziamo il termine “fotomicrografia” e non  “microfotografia” con cui più specificamente oggi si intendono i processi di miniaturizzazione delle immagini.

[18] Diresse il Gabinetto di crittogamia del “Giornale Vinicolo Italiano” dal 1869-1879 ed entrò in relazione di studio con importanti ricercatori internazionali come Felix von Thumen, che gli dedicò il micromicete Phoma Negriana . La sua produzione venne tempestivamente segnalata da Angelo De Gubernatis, che lo inserì nel proprio Dizionario del 1879 (II, pp. 1221-1222) come “scrittore piemontese, avvocato.”

[19] Negri, Pisolini 1882 Contribuzione allo studio dei bacilli speciali delle tubercolosi. Firenze: Tip. Cenniniana, 1882, estratto da “Lo sperimentale: giornale italiano di scienze mediche”, Agosto 1882.  Pisolini era il medico che gli fu vicino anche nel giorno della morte, il 21 dicembre 1924.

[20] Greco 1969, pp. 86-87, cui si rimanda per la descrizione analitica degli esiti fotomicrografici di Negri.

[21] Questa emergenza sanitaria costituì l’occasione per la pubblicazione di Negri, Cassone 1885.

[22] Bertelli 1979, p. 76; che considerazioni di ordine estetico potessero convivere con  intenzioni di accuratezza documentaria, non essendo di fatto in contraddizione tra loro è testimoniato non solo da buona parte della cultura ottocentesca, ma anche più in particolare da molta fotografia naturalistica e micrografica. Penso, per esemplificare,  ad un autore come Giorgio Roster, il cui percorso professionale e di ricerca ha più volte incrociato il cammino di Negri, per il quale rimando a Principe, Sensi, Casati 2004.

[23] Butler 1888, con 21 tavole f.t. da fotografie dell’autore, che proprio a questo scopo aveva preso lezioni in Inghilterra nell’inverno del 1887, cfr. Jones 1919, p. 109.  L’edizione italiana riveduta e ampliata, tradotta da Angelo Rizzetti, venne pubblicata a Novara nel 1894 dalla Tipo-Litografia dei Fratelli Miglio con una titolazione semplificata (Ex Voto. Studio artistico sulle opere d’arte del S.Monte di Varallo e di Crea) ma con un apparato iconografico lievemente ampliato. L’archivio fotografico di Butler, oggi conservato alla St John’s College Library dell’Università di Cambridge, è costituito da circa 1600 negativi su lastra (databili 1888 – 1898) e da cinque album contenenti complessivamente circa 1700 stampe con una cronologia compresa tra 1891 e 1898. Cfr. https://archiveshub.jisc.ac.uk/search/archives/516c6af9-031d-3239-b4db-668ec60a0dcd?component=0a2d1de2-378b-3bd7-b37e-e891b3c16d39  (dicembre 2022). La sua produzione fotografica è stata studiata da Shaffer 1988 e presentata in Butler 1989. Butler era andato a Casale già nel settembre del 1887, provenendo da Alagna dopo essere disceso a Gressoney attraverso il Col d’Olen, proprio per estendere le proprie ricerche su Tabacchetti, ma non pare che in quell’occasione avesse avuto modo di conoscere Negri.

[24] Mattirolo 1925, p.14 nota 1 ricorda che Negri scrisse il necrologio di Butler, non reperito in questa occasione né citato da altre fonti.

[25] Si vedano i diversi contributi pubblicati in Barbero, Spantigati 1998 e in particolare Maria Carla Visconti Cherasco, La nuova vita del Sacro Monte nell’ottocento fra ripristini e rinnovamento devozionale, pp.123-136.

[26] BCCM- Fondo Negri: Scat.42, 43.

[27]“Prendo l’occasione del nuovo anno per mandarle alcune fotografie prese a Crea mentre l’estate passato (sic). Lei vedrà subito che alcune sono cattivissimi restauri, furono fatti 30 anni fa da un certo padre Latini”, citato  in Durio 1940, p. 86. Le riprese si riferiscono  a un gruppo di pellegrini, alla cappella di sant’Eusebio (4 riprese di statue attribuite a Tabacchetti) e a quelle delle Nozze di Cana e della Natività, e portano tutte la data del 14 settembre 1891, mentre al giorno successivo risalgono un’immagine di bambini e il doppio ritratto di Don Minina e Francesco Negri, entrambe realizzate a Casale.

[28] Negri 1892  dedicato all’attività di Martino Spanzotti e della sua scuola, col corredo di due riproduzioni in fototipia delle vetrate (di cui si conservano i negativi), primo frutto delle sue ricerche di storia dell’arte condotte con rigoroso metodo di ricerca: “Da provetto legale quale egli era, applicò alle sue ricerche la severità delle regole procedurali, cercando di documentare ogni sua asserzione con riferimenti a contratti; a tavole testamentarie; a inventari, ecc. frugando negli archivi della sua regione per giungere a sbrigare le arruffate matasse che si riferivano alle biografie degli artisti casalesi”, Mattirolo 1925, p. 9.

[29] La possibilità di rendere efficacemente il gesto tradotto realisticamente da Tabacchetti venne affrontata da Negri anche in termini letterari nel saggio del 1902, in cui, dopo una notazione etico-politica sulla capacità del plasticatore di dare “al martirio l’impronta di una esecuzione capitale non tumultuosa e selvaggia, ma sebbene ordinata da un potere costituito su regole determinate  e regolari”, procedeva ad una interpretazione verista della scena, sottolineando “la movenza [del santo]  così naturale da spingere a dargli aiuto, a sostenerlo”,  come la “triste malvagità incosciente [della vecchia] che sia alza sulla punta dei piedi e allunga il collo fra due soldati per ben vedere.” (Negri 1902, p. 36).

[30]Per le suggestive relazioni tra scultura e fotografia cfr. Pygmalion Photographe 1985; Sculpter-Photographier 1991; Skulptur 1998.

Anche in altre occasioni lo sguardo di Negri procede oltre la pura documentazione per sottolineare la teatralità delle figure [740, Cappella del Paradiso] o cedere ad una bonaria ironia [361d, Cappella del Paradiso]. Diverso atteggiamento avrà nei confronti di opere bidimensionali come le vetrate o la grande Madonna col Bambino e Santi [48C] di Macrino d’Alba, ripresa più volte nella biblioteca del convento (?) forse anche per ottenerne una riproduzione in tricromia oggi non reperibile, ma che avrebbe potuto far parte delle “ben  riuscite proiezioni a colori del Cav. Avv. F. Negri” presentate da Pietro Masoero nel corso della sua conferenza Arte e fotografia tenuta in occasione dell’Esposizione di Lodi il 9 settembre 1901 (citato in “La Sesia”, 13 settembre 1901)

[31]Pubblicata in facsimile in Greco 1969 p. 24. Dopo la  morte di Butler (18-6-1902) gli esecutori testamentari H.F. Jones e R. A. Streatfeild  donarono a Negri uno schizzo a olio eseguito dallo scrittore nel 1871, in occasione del suo primo soggiorno a Varallo, “Preso dalla soglia della chiesa dell’Assunta” (Durio 1940, p. 22, nota 3).

[32] Negri 1902. Il casalese espresse a sua volta  “lode a Samuel Butler il quale, innamorato delle opere del Giovanni [Tabacchetti] ne scrisse a lungo nel suo Ex Voto non solo, ma nello intento di conoscerne il casato e l’origine si portò anche a Dinant” (Negri 1902, p. 65). Gli esiti delle sue ricerche avevano però portato alla  definitiva confutazione delle prime ipotesi formulate da Butler, tanto che al momento della riedizione dei suoi saggi, già comparsi in “The Universal Review”, il suo “esecutore letterario”  R. A. Streatfeild  decise di non ripubblicare la prima parte di A Sculptor and a Shrine. “Had Butler lived he would either have rewritten his essay in accordance with Cavaliere Negri’s discoveries, of which he fully recognized the value, or incorporated them into the revised edition of Ex Voto, which he intended to publish. As it stands, the essay requires so much revision that I have decided to omit it altogether.”, Richard Alexander Streatfeild, Introduction,  in Butler 1913. Per la prima volta nella storiografia artistica dedicata al Santuario, alle ricerche condotte direttamente sulle fonti  archivistiche e bibliografiche, corredate da una articolata  analisi storico-critica delle opere, faceva da riscontro la documentazione fotografica intesa quale ulteriore e specifico strumento d’indagine ma anche – sebbene in misura ridotta per esigenze di economia editoriale – di comunicazione, di illustrazione non subordinata al testo bensì a questo complementare, secondo il modello ancora una volta costituito dal saggio dell’amico Butler sugli Ex Voto, corredato da un apparato di illustrazioni che “The Spectator” aveva definito “strange and fascinating”. Tra 1891 e 1900 le prime riproduzioni fotografiche a comparire in volumi dedicati a Crea (Damonte 1891; Locarni 1900 ) si limitavano a una veduta generale e al prospetto della chiesa, sempre da riprese Negri, e ancora in Crea 1900, il numero unico pubblicato in occasione del pellegrinaggio diocesano al Santuario di Crea, con brevi scritti di F. Negri, G. Giorcelli, F. Valerani e altri, la sola cappella documentata era quella – da poco terminata – della Salita al Calvario, già da lui fotografata ma qui illustrata con fotografie attribuite a Giovanni Augusto De Amicis, cfr. Cavanna 1998.

[33] Gli studi sul Moncalvo (Negri 1895-1896) di cui nel 1893 fotografò gli affreschi nella chiesa di San Michele a Candia Lomellina, scat. 61,  figura ben più rilevante per la connotazione complessiva del complesso monumentale del Sacro Monte, confluirono in parte negli scritti dedicati a Crea, apparsi in forma definitiva nel 1902 ma sinteticamente anticipati in Crea 1900.

[34] Carlo Dell’Acqua (1834-1909), Direttore della Regia Biblioteca Universitaria di Pavia dal 1879 al 1883, gli inviava il numero de “Il Ticino”, del 1 marzo 1899 in cui era pubblicato il suo articolo Di Ambrogio Volpi da Casale insigne scultore ed architetto alla Certosa di Pavia (1567-1576) poi recensito da anonimo (Francesco Negri?) ne “L’Avvenire. Gazzetta del Monferrato” del 7 aprile 1899.

[35] Gustavo Frizioni (1840-1919), con cui Negri era in relazione almeno dal 1891, anno in cui gli aveva inviato alcune riproduzioni di dipinti chiedendogli pareri, gli scriveva da Milano il 20 febbraio 1904 “Mentre conservo gratissimo ricordo del capolavoro di Macrino a Crea Le sono riconoscentissimo della fotografia nuovamente mandatami. Mi serve di ottimo riscontro per una grande tavola che è certamente di lui, passata in America sotto il nome di Ghirlandaio.”,  BCCM – Fondo Negri, Corrispondenza.

[36] La relazione epistolare con lo studioso milanese, tra i promotori nel 1901 con Luca Beltrami, Luigi Cavenaghi, Francesco Malaguzzi Valeri, Gaetano Moretti, Corrado Ricci e altri della “Rassegna d’arte”, datava almeno dal 1901 e divenne progressivamente più confidenziale, sino a un colloquiale “tu” nel 1905. Dopo una prima segnalazione dello studioso milanese ne “La Lega Lombarda” del 1 luglio 1904 (cfr. Villata 2000, pp. 144-147) Diego Sant’Ambrogio dedicò a questo tema il saggio Il trittico di Macrino d’Alba nella cappella episcopale di Tortona, pubblicato nel “Bollettino della Società per gli studi di storia, d’economia e d’arte nel tortonese”, n. 5, 1906, poi riedito da A. Rossi, Tortona, 1906, cfr. Samek-Lodovici 1946.

[37] Colli, Negri, Rastelli [1914] 1996. Il Canonico Prof. Colli,  in relazione di studio anche con Luigi Gabotto, aveva da poco pubblicato il volume Crea, storia, cronologia, arte, culto, etc. Casale Monferrato: Tip. Editrice Ditta O. Pane, 1913, e ancora nel 1926 sarebbe tornato a percorrere la scia degli studi artistici di Negri con un saggio dedicato a Il Moncalvo, pubblicato dal Comitato per le Onoranze a Guglielmo Caccia. Nello stesso 1914 Colli e Negri collaborarono a De Amicis et al. 1914. Il sacerdote vercellese Alessandro Rastelli (1883 – 1960), viceparroco a Trino dal 1915, fu il fondatore dell’OFTAL (Opera Federativa Trasporto Ammalati a Lourdes). Le ventiquattro fotografie che costituiscono l’apparato iconografico del volume rappresentavano una novità significativa per l’editoria di soggetto trinese di quegli anni sia per la consistenza e la qualità complessiva sia per la figura dell’autore,  uno dei pochi sacerdoti a praticare la fotografia in quegli anni.  Sono prevalentemente immagini di architettura, complessivamente di buona qualità e tecnicamente ben eseguite, con inquadrature ordinate e precise, perfettamente in linea con i canoni della documentazione fotografica dell’architettura che si erano andati formando nel corso del XIX secolo. La loro precisa applicazione da parte di Rastelli lascia supporre un interesse ed una pratica non occasionali ed anzi ormai ben consolidati all’epoca della realizzazione del volume, e nella stessa direzione ci portano le nitide fotografie di interni, di ancor più difficile realizzazione. In assenza di dati precisi risulta quasi ovvio collocare la formazione fotografica di questo sacerdote proprio in quell’ambiente vercellese da cui proveniva, ricco di professionisti e dilettanti di buon livello quali Pietro Boeri, Pietro Masoero ed Andrea Tarchetti, ma evidentemente non è da escludere un ruolo di supporto e regia svolto dallo stesso Francesco Negri, cui Rastelli scriveva il 6 ottobre 1914, a poco meno di un mese dalla pubblicazione del volume,  per aggiornarlo sull’andamento della campagna documentaria: “Ho fatto invece quella del capitolo (interno) Non so però se potrà servire. Tutt’intorno sacchi e cesti di tagliarisi forestieri, e attorno alla colonna di mezzo trenta cent.[imetri] di paglia, il giaciglio dei medesimi”, ricordando che sarebbe andato “fra alcuni giorni” a fotografare il piccolo quadro dello Spanzotti a Trino, BCCM – Fondo Negri: Manoscritti, cartolina del 6 ottobre 1914. La foto dell’aula capitolare venne poi pubblicata (p.42) e costituisce ora un’importante testimonianza delle condizioni d’uso e soprattutto di vita nelle grange all’inizio del Novecento, mentre non venne utilizzata la riproduzione del “piccolo quadro”, cioè la Madonna col Bambino di Martino Spanzotti nella chiesa trinese di San Domenico, cfr. Cavanna 1996.

[38] Si veda a questo proposito quanto detto in Cavanna 1996, pp. XI- XII.

[39] Cavanna 1985.

[40] Nel Fondo sono conservate anche tre stampe all’albumina 18×24 ca di Secondo Pia, raccolte sotto il titolo Affreschi della Cappella di S. Margherita di Antiochia dell’Abbazia di Crea attribuiti a Cristoforo Moretti di Cremona.

[41] Cfr. Falzone del Barbarò, Borio 1989.

[42] Pia tornerà, come suo costume, più volte a Crea nei decenni successivi (1888-1919) realizzando complessivamente più di trenta riprese dedicate specialmente alle opere d’arte conservate nel santuario, alcune riprodotte eccezionalmente a colori con la tecnica dell’autocromia (1909-1910). Va qui notato  come la serie relativa alla statuaria delle cappelle, realizzata a partire dal 1902, sia  verosimilmente debitrice proprio della pubblicazione del saggio di Francesco Negri.

[43] Le immagini di Crea facevano parte di una serie dedicata alle Chiese della provincia di Alessandria, poi presentata alla Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884, cfr. Fotografi del Piemonte, 1977, pp. 29-30.

[44] Gabotto b  1925, p. 82, redatto poco dopo la solenne commemorazione di Negri tenuta a Crea da Oreste Mattirolo, con apposizione di una lapide commemorativa sulla facciata della chiesa. Un primo necrologio era già stato pubblicato nel febbraio dello stesso anno, Gabotto a, 1925.

[45] Come testimonia il pur impoverito Fondo fotografico, Negri ha utilizzato circa 20 formati negativi diversi, sovente corredati di notazioni autografe, dalle lastre 18×24 alle pellicole 17mm, ciò che fornisce indicazioni anche sulla ricchezza e varietà della strumentazione in dotazione, oggi presente nel Fondo in modo scarsamente significativo.

[46] Roster 1899, p. 25, che riprende in forma quasi letterale il concetto – del resto ampiamente condiviso da tutta la cultura di secondo Ottocento – espresso da Jansen dieci anni prima e posto in esergo a questo saggio.

[47] La quasi totale assenza di positivi impedisce – come già abbiamo notato – di valutare compiutamente gli esiti finali del lavoro fotografico di Negri, ciò che comporta l’assumersi il rischio di valutazioni a volte non documentalmente sostenute in modo soddisfacente, ma ci pare di poter ascrivere allo stesso piacere di reinvenzione del reale mostrato dalle esposizioni multiple anche il ricorrere di immagini stereoscopiche in cui la sovrapposizione dei bordi contigui dei due stereogrammi genera affascinanti paesaggi d’invenzione [8e16].

[48] Questo atteggiamento è efficacemente testimoniato dalla piccola serie di riprese ‘rubate’ col teleobiettivo [72A, 824B, 534].

[49] Brevettato nell’ottobre del 1886 dal tedesco Carl P. Stirn.

[50] È stata proprio la fotografia a contribuire a definire in senso moderno, visualizzandolo,  il concetto di istante. Quando nel 1886 Albert Londe – di cui Negri possedeva La photographie moderne, pratique et applications, 1888 – decise di intitolare il proprio volume Photographie instantanée, la comprensione di ciò che questo termine designasse era ancora incerta, tanto più la sua definizione, cfr. Gunthert 2001, p. 66.

[51] Alla definizione di questo nuovo genere che dapprima non prevedeva il riconoscimento di alcuno statuto, contribuirono non poco i milioni di immagini prodotte ad uso personale e destinate ad essere relegate nell’ambito della fruizione privata, da cui riusciranno a emergere e svincolarsi solo  in virtù  della loro natura essenzialmente quantitativa di fenomeno, giungendo poi a contribuire  significativamente all’accrescimento delle modalità linguistiche della fotografia del XX secolo.

[52] Bricarelli 1913, sottolineature dell’autore,  citato in Stefano Bricarelli 2005, p. 15, cui si rimanda per ulteriori riferimenti e citazioni.

[53] Marien 2002, p. 170.

[54] Penso allo Stieglitz newyorkese ad esempio, ma anche alle riprese di  Paul Martin a Londra, come alla sublime leggerezza di Jacques-Henri Lartigue.

[55] Gunthert 2001, p. 72, traduzione di chi scrive, corsivi dell’autore.

[56] Non mi pare che Negri intendesse invece raccontare i protagonisti della scena urbana, come faceva ad esempio Alessandro Perelli a Milano proprio nel 1910-1915, o più tardi Luciano Morpurgo, al di fuori della sua produzione più smaccatamente pittorialista.   Una familiare libertà presente in alcune immagini può semmai  avvicinarlo al Michetti delle foto al mare o all’operare di Giuseppe Michelini a Bologna.

[57] Si trattava di un “un apparecchio di cinematografia” messo in commercio in Italia a partire dal 1912, che consentiva di realizzare su ciascuna lastra  nel formato 9,5×9 84 fotogrammi cadenzati in sequenza a partire dall’alto secondo un ordine che potremmo definire bustrofedico e di cui si sono conservate nel Fondo 7 lastre negative e 40 positive.

[58] Secondo Rictor Norton ad esempio il successo di Bathing Boys, opera del pittore inglese Henry Scott Tuke (1858-1929) fu così folgorante che centinaia di amatori fotografi e pittori corsero a misurarsi con questo soggetto. Per questo due anni più tardi, nel 1890, la Amateur Swimming Association impose che tutti i concorrenti dovessero indossare i pantaloncini da bagno durante le gare,  cfr. Rictor Norton, The Beginnings of Beefcake, https://rictornorton.co.uk/beefcake.htm  (30 11 2022).

[59] Josef Maria Eder, Der Momentphotographie. Wien, 1884, pp.9-10, citato in Gunthert 2001, pp. 80, traduzione di chi scrive.

[60] È del 25 aprile 1892 la prima prova documentata, una veduta di Casale da Sant’Anna “m.1500 40 ist. 4 pom”, forse realizzata ancora con quel rudimentale dispositivo “formato di due tubi di cartone”  che venne poi  esposto all’ammirazione di tutti nella sezione storica della “Prima esposizione internazionale di fotografia, ottica e cinematografia” curata da Annibale Cominetti, come si ricava dalla sua lettera di condoglianze inviata al figlio Federico, citata in Gasparolo 1925, pp. 9-19. Nel maggio del 1894 proseguirono le sperimentazioni per il formato 18×24 adottando diverse combinazioni di lenti, successivamente indicate come “Tel. I”, quindi “Tel. II” (lastra 246, 1895), e infine “Tel. III”, con cui riprese nel 1896 un panorama in cinque lastre del Monte Rosa visto dalla cima dello Zebion in Val d’ Ayas,  successivamente stampato da Vittorio Sella intorno alla metà degli anni Trenta del Novecento. Due anni dopo la messa in produzione da parte di Koristka (Milano: via Revere 2, poi Piazza d’Armi Vecchia 59, angolo via Bersaglio 2) officina che produceva obiettivi su licenza Zeiss ed era la rappresentante italiana della ditta Haas di Francoforte (Contini 1990, p. 110), il nuovo teleobiettivo, “il primo in Italia, fra i primi nel mondo” (Masoero 1900), venne presentato dallo stesso Negri ai partecipanti al primo Congresso Fotografico Italiano, che si tenne a Torino nel 1898.

[61] Altre serie di immagini riguardano le esposizioni casalesi (1900) e torinesi (1898, 1902). Mentre alla locale esposizione vinicola documenta sistematicamente i padiglioni con i relativi addetti rigorosamente in posa, a Torino Negri si aggira liberamente tra quelle fantastiche e innovative architetture effimere. Qui è un visitatore anonimo, libero di orientare ovunque, inavvertito, la propria curiosità; là era l’avvocato Negri, già Sindaco, notoriamente fotografo.

[62] “Hai fatto la risaia andando a vederla presso Casale e ritornando poi a casa a lavorare il quadro a memoria hai condotto le figure servendoti di fotografie” rimproverava Giuseppe Pellizza da Volpedo all’amico a proposito della realizzazione del dipinto Per ottanta centesimi  in una lettera databile tra 1896 e 1897, citata da Luciano Caramel 1982. Non è escluso che quelle immagini fossero state realizzate dallo stesso pittore, dilettante fotografo, ma va almeno segnalata la presenza nel Fondo Negri, di cui sono note le relazioni di amicizia con Morbelli, di due immagini di risaia [573A, 575A] altrimenti inconsuete per la sua produzione, che potrebbero essere state realizzate proprio su richiesta dell’amico, di cui Negri documentò almeno tre opere: S’avanza (1896), Venduta (1897) e l’Autoritratto con modella (1900-1901). Chiunque ne sia stato l’autore, queste due riprese possono essere considerate le più antiche immagine di un gruppo di mondine al lavoro e costituiscono il primo momento di definizione tipologica del modello iconografico di rappresentazione del tema: le mondine al lavoro riprese di schiena, ricurve, immerse nell’orizzonte lungo dei campi allagati. Strumenti di lavoro ancor prima che persone, negate nella loro identità, cfr.  Cavanna 2000. I rapporti Morbelli – fotografia sono stati analizzati da  Marisa Vescovo 1982.  Va ricordato inoltre che il figlio di Morbelli, Alfredo, esercitò la professione di fotografo a Varese nel periodo 1920-1940 senza però avvicinarsi se non tangenzialmente ai temi di matrice verista affrontati dal padre; cfr. Morbelli & Morbelli, 1995.

[63] Toffoletti, Zannier 1990.

[64] Miraglia 1990, pp. 91 nota 124.

[65] “ ‘Veduta’ e ‘panorama’ (…) sono due generi elaborati dalla tradizione manuale della pittura (…) in epoche fra loro diverse e distanti, ma ambedue nati, almeno nelle intenzioni, con l’intento di rappresentare le cose come realmente sono”, mentre il ‘paesaggio’ va inteso “come espressione del sentimento” individuale dell’autore, cfr. Miraglia 2006, pp.15, 19.

[66] Infinitamente 2004.

[67] Sella 2006. È verosimile che tramite della loro conoscenza fosse il Club Alpino Italiano, che nel 1879 aveva designato Negri membro della Commissione di un non meglio specificato “concorso per lavori sulle montagne italiane”, Gasparolo 1925, p. 8.

La stampa, recentemente ritrovata e segnalatami da Daria Jorioz, capo del Servizio Attività Espositive della Regione Autonoma Valle d’Aosta, che qui ringrazio, è una ripresa panoramica in cinque parti del Monte Rosa dal Zerbion (St. Vincent–Ayas), datata 1896 e stampata da Vittorio Sella da “Telefoto Negri Avv. Francesco”.  La versione a contatto di questo stesso panorama compare in una stereoscopia dello studio di Negri [23e29].

[68] Tricromia (detta anche eliocromia indiretta o analitica), metodo indiretto per la realizzazione di immagini fotografiche a colori messo a punto indipendentemente da Charles Cros e Louis Ducos du Hauron tra 1867 e 1869, poi successivamente modificato. Di ciascun soggetto, di necessità statico, Negri realizzava su lastra tre negativi di selezione utilizzando ogni volta un filtro di colore primario: verde, rosso-arancio e bluvioletto, questo infine abbandonato “perché dannoso, producendo esso negative monotone anziché contrastate, quali occorrono per il monocromo giallo.” Ciascuna lastra veniva successivamente stampata a contatto su “pellicole rigide alla gelatina-bromuro della A.G.F.A. di Berlino, le uniche che non si alterano mai, stante la bontà della celluloide”, trattate con bicromato di potassio e quindi colorate nei tre colori complementari (rosso porpora/magenta, azzurro-verde/ciano e giallo). La sovrapposizione a registro delle tre gelatine colorate restituiva, per sintesi sottrattiva,  i colori del soggetto, perfettamente leggibili per trasparenza, cfr. Negri 1906.

[69] A queste vanno aggiunti gli esemplari conservati in collezione privata, ma le stesse vicende di costituzione del Fondo della Biblioteca Civica di Casale Monferrato lasciano intendere la possibilità di ulteriori futuri ritrovamenti, cfr. Cavanna 1991.

[70] Negri 1906. Il nove settembre 1901 alcune “ben  riuscite proiezioni a colori del Cav. Avv. F. Negri” vennero presentate da Pietro Masoero nel corso della conferenza dedicata ad “Arte e Fotografia”, tenuta in occasione dell’Esposizione di Lodi, cfr. “La Sesia”, 13 settembre 1901. Doveva trattarsi di riproduzioni di dipinti, di cui però oggi si conservano le sole riprese di selezione, non i risultati finali.  Per l’aspirazione al colore nella fotografia di documentazione d’arte cfr. Cavanna 1985.

[71] Cfr. Costantini 1994. Negri visitò l’Esposizione il giorno 23 maggio, realizzando con un apparecchio Vérascope una bella serie di vedute stereoscopiche destinate alla duplicazione in positivo su lastra (per proiezione quindi), cfr.  Cavanna 1994. Prima di questa occasione Negri aveva già preso parte  all’Esposizione Nazionale di Milano organizzata dal Circolo Fotografico Lombardo nel 1894, cui parteciparono anche Grosso, Sella e, tra i professionisti, Masoero e Pietro Santini. All’Esposizione Fotografica Internazionale tenutasi a Firenze in occasione del secondo Congresso Fotografico Italiano (1899) espose con Guido Rey nella sezione dilettanti,  presentando immagini scientifiche, per le quali  gli fu assegnato un “Diploma di medaglia d’argento” di III grado nella classe VI-VII (Scientifica). L’anno successivo prese parte all’Esposizione Fotografica Internazionale organizzata dalla neonata (1899) Società Fotografica Subalpina di Torino, presentando “telefotografie e microfotografie”, poste “accanto ai lavori esposti dall’Istituto geografico militare. (…) Presenta il gruppo del Gran Paradiso in 4 pezzi 18×24, senza alcun ritocco e di tale bellezza e nettezza da ritenerlo una veduta diretta; il Ruitor (…) con un ingrandimento di 15 diametri ed a 30 chilometri di distanza. Vi si ammira uno splendido effetto di ghiacciaio. Un gruppo del Monte Bianco ed il Monte Rosa da Riva Valdobbia pure bellissimi.”,  Masoero 1900, pp. 138-139. L’assenza in lui di qualsiasi velleità artistica sembra confermata dalla partecipazione  – nella categoria “B” riservata agli abbonati – alla IV Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica che si svolse a Torino nel 1907, promossa dalla rivista “La Fotografia Artistica”. Qui non presentò alcuna immagine a colori, ma espose vedute di castelli valdostani (Fènis, Ussel, Verrès, Montjovet) e temi valsesiani (Riva Valdobbia, un dipinto nella chiesa di Valdobbio) ma soprattutto  fotomicrografie batteriologiche (polmonite, tubercolosi, tetano, tifo e colera asiatico “da preparazione avuta direttamente dal dott. Koch”), per le quali gli fu assegnato un diploma di medaglia d’argento.  Solo nel 1909, all’Esposizione Nazionale di Fotografia che si tenne a Casale Monferrato  dal 16 al 23 marzo in occasione della Fiera di San Giuseppe, nei locali dell’Accademia Filarmonica Negri presentò  “nove quadretti di fotografie a colori tra cui furono trovati stupendi senza esagerazione, un cespo di rose e tre paesaggi montani.” Ormai a suggello del suo  lungo e qualificato impegno, in quell’occasione gli fu assegnato il “Gran diploma e medaglia d’argento del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio per il contributo da lui portato all’arte fotografica.”,  “Il Progresso Fotografico”, 1909, pp.62, 126.

[72] A causa dell’elevata deteriorabilità delle gelatine le tricromie vennero esposte a rotazione, ma ciò nonostante alcune risultarono danneggiate irreparabilmente, verosimilmente per un incidente occorso durante  l’esposizione stessa (3C114 = “Carbonizzata”; 5C114 “Esposizione di Torino 1902. Da giugno a novembre”).

[73] Masoero 1902. La sua maestria in questo settore venne opportunamente celebrata ancora vent’anni più tardi nei necrologi: “Fin dal 1863 il Negri praticò anche la fotografia, sia scientifica, che artistica, nonché di paesaggio: occupò molto tempo, e con mirabili risultati, nella fotografia a colori.”, Gasparolo 1925. “Fotografo valentissimo, tentò, durante gli albori della fotografia a colori, di emulare i professionisti. Eseguì fotografie policrome magnifiche di fiori, frutta e paesaggi che destarono la meraviglia di chi li vide; ma, come per tante altre sue creazioni, una volta congegnate e perfezionate per suo intimo diletto e per la gioia di riuscire, vennero abbandonate nei polverosi scaffali.”,  Gabotto c 1925.

[74] Falcone 1914.

[75] Nel Fondo Negri se ne conserva una ricca collezione, tutte purtroppo separate dai fascicoli originali, ormai perduti.

[76] “Se pubblico queste mie esperienze (…) lo faccio colla speranza di rendermi utile ai colleghi che desiderano occuparsi dell’arduo problema della tricromia.”,  Negri 1906, p. 44. Nella stessa occasione consegnava  alla SFI “anche una serie di belle tricromie” di cui si è persa ogni traccia.

 

 

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Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981

 

Toffoletti, Zannier

Riccardo Toffoletti, Italo Zannier, a cura di, Enrico del Torso fotografo (1876 – 1955). Udine: Arti Grafiche Friulane, 1990

 

Valle 1925

P.G. [Padre Giovanni Valle], Crea nella fotografia, “La Madonna di Crea, periodico del Santuario di Crea”, 17 (1925), n.6, giugno, p. 69

 

Valle 1926

  1. Giovanni Valle, L’arte fotografica a Crea, in La Fiorita di Crea, a cura dei PP. Francescani del Santuario. Casale Monferrato: Tip. Succ. Cassone, 1926, pp.275-279

 

Vescovo 1982

Marisa Vescovo, Ombre e luci come grafia e mimesi del reale,  in Angelo Morbelli 1982, pp.21-32

 

Villata 2000

Edoardo Villata, Macrino d’Alba. Alba: Fondazione Ferrero, 2000

 

Warner Marien 2002

Mary Warner Marien, Photography: A Cultural History. London: Laurence King Publishing, 2002

 

Zannier 1979

Italo Zannier, La massificazione della fotografia (1880 – 1899), in Fotografia Italiana dell’Ottocento 1979, pp. 85-118

 

Zannier 1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

Zannier, Costantini 1985

Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Milano: Franco Angeli, 1985

 

 

 

La biblioteca del fotografo

 

Vengono qui repertoriate le pubblicazioni appartenute a Francesco Negri conservate presso la Biblioteca Civica di Casale Monferrato, sulla base di una ricognizione effettuata nel 1990-1991; a queste sono state aggiunte (segnalandole con un asterisco) tutte le pubblicazioni fotografiche conservate nella stessa sede edite prima del 1924, data di morte del fotografo, di provenienza diversa o di cui non è documentata l’appartenenza al Fondo Negri.

La consistenza complessiva risulta oggi essere di circa sessanta titoli e certamente non corrisponde pienamente allo stato originario della biblioteca di Francesco Negri non essendo ad oggi reperibili almeno due periodici ed un catalogo documentati da fonti diverse: “The Philadelphia Photographer” del 1869, che compare nel noto ritratto della moglie (FN, 12/B146), “Photographic News” del 1887 a cui Negri fa riferimento in un appunto citato da Fabrizio Celentano (in Colombo 1969, p.120), il catalogo di Joseph Bamfortp ricordato da Ando Gilardi nella stessa monografia ed ancora il fondamentale testo di Alcide Ducos du Hauron del 1869.

 

Anderson 1907

Domenico Anderson, Catalogo, III, Parte prima. Parte seconda.  Roma: Anderson,1907

 

Anderson 1911

Domenico Anderson, I.er supplement au Catalogue general. Première partie. Deuxième partie. Roma: Anderson, 1911

 

Apparecchio 1897

Apparecchio cronofotografico e Kinetoscopio Pasquarelli. Torino: Camilla e Bertolero, s.d.[1897?]

 

Association Belge 1884-1895

“Association Belge de Photographie: Bulletin”, II serie, 11(1884), 15 (1888) – 22 (1895)

 

Aubry 1903

Roger Aubry, dir., Annuaire Général et International de la photographie. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1903

 

Aubry 1907

Roger Aubry, dir., Annuaire Général et International de la photographie. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1907

 

Barreswil, Davanne 1854

[Charles Louis] Barreswil, [Alphonse] Davanne, Chimica fotografica; versione del Prof. Giuseppe Ravani. Milano: Libreria Ravani, 1854

 

Barreswil, Davanne 1861

[Charles Louis] Barreswil, [Alphonse] Davanne, Chimie photographique. Paris: Mallet-Bachelier, 1861

 

Blanquart-Evrard 1851

[Louis Désiré] Blanquart-Evrard, Traité de photographie sur papier. Paris: Roret, 1851

 

Bonacini 1897

Carlo Bonacini, La fotografia dei colori. Milano: Hoepli, 1897

 

Borlinetto 1868

Luigi Borlinetto, Trattato generale di fotografia. Padova: Stabilimento Nazionale di P. Prosperini, 1868

 

Bullettino SFI 1900-1911

“Bullettino della Società Fotografica Italiana”, Firenze, 12 (1900) – 18 (1906); 20 (1908) – 21(1911)

 

Buron 1841

[Noël François Joseph] Buron,  Description de nouveaux daguerréotypes perfectionnés et portatifs. Paris: Dondey-Dupré Imprimeurs, s.d. [1841]

 

Burton 1884

William Kinninmond Burton, A B C de la photographie moderne. Paris: Gauthier-Villars, 1884

 

Camera Oscura 1864-1865

“La Camera Oscura. Rivista periodica universale dei progressi della fotografia per G. Ottavio Baratti”. Milano: Tip. Giuseppe Redaelli, 2 (1864) – 3 (1865)

 

Camera Oscura 1865-1867

“Camera Oscura. Rivista universale dei progressi della fotografia per O. Baratti”, Milano, 3 (1865) – 5 (1866-1867)

 

Chapel d’Espinassoux 1890

Gabriel Chapel d’Espinassoux, Traité pratique de la détermination du temps de pose. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1890

 

Chevalier A. 1876

Arthur Chevalier, L’étudiant photographe. Traité pratique de photographie à l’usage des amateurs. Paris: Eugène Lacroix, s.d. [1876]

 

Chevalier C. 1846

Charles Chevalier, Nouveaux renseignements sur l’usage du daguerréotype. Paris: Chez l’auteur – Palais Royal, 1846

 

Clerc 1899

Louis-Philippe Clerc, La photographie des couleurs; prefazione di Gabriel Lippmann. Paris: Gauthier-Villars, Masson et C.ie, s.d. [1899]

 

Colson 1894

René Colson, La perspective en photographie. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1894

 

Corriere Fotografico 1920-1922

“Il Corriere Fotografico”, Milano, 17 (1920) – 19 (1922)

 

Coustet 1913

Ernest Coustet, La fotografia dell’infinitamente piccolo, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n.12, dicembre, pp.9-10

 

Daguerre 1839

[Louis J.M Daguerre], Description pratique du procédé nommé le daguerréotype. Gênes: A. Beuf, 1839; allegato: Description des procédés de peinture et d’éclairage inventés par Daguerre, et appliqués par lui aux tableaux du diorama; Projet de Loi

 

Despaquis 1866

Despaquis, Photographie au charbon. Paris: Leiber, 1866

 

Disderi 1862

André-Adolphe-Eugene Disderi, L’art de la photographie. Paris: Chez l’auteur, 1862

 

Ducos du Hauron 1897

Alcide Ducos du Hauron, La triplice photographique des couleurs et l’imprimerie. Paris: Gauthier-Villars, 1897

 

* Egasse 1888

Edouard Egasse, Manuel de photographie au gélatino-bromure d’argent. Paris: Octave Doin, 1888

 

Esposizione Internazionale  1907

Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica – Catalogo. Torino: La Fotografia Artistica, 1907

 

Fabre 1889-1902

Charles  Fabre, Traité encyclopédique de photographie. Paris, Gauthier-Villars et fils, 1889-1902, 7 voll.

 

                Matériel photographique, 1889

II                 Phototypes Négatifs, 1890

III                Phototypes positifs. Photocopies. Photocalques, Phototirages, 1890

IV                Agrandissements. Applications de la photographie,1890

A                 Premier Supplément, 1892

B                 Deuxième Supplément, 1897

C                 Troisième Supplément, 1902

 

 

La Fotografia 1902

La Fotografia e le sue applicazioni alle arti grafiche; supplemento artistico al “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 1 (1902), n.3/4, marzo-aprile

 

Il Fotografo 1922

“Il Fotografo”, Torino, 4 (1922), n. 11, Novembre

 

Fouque 1867

Victor Fouque, La vérité sur l’invention de la photographie. Nicéphore Niepce, sa vie, ses essais, ses travaux. Paris: Leiber, 1867

 

Girard 1870

Jules Girard, La Chambre Noire et le Microscope. Photomicrographie pratique. Paris: F. Savy, 1870

 

Girard 1872

Jules Girard, Photomicrographie en cent tableaux pour projection. Paris: Gauthier-Villars, 1872

 

Huberson 1879

Gabriel Huberson, Précis de Microphotographie. Paris: Gauthier-Villars, 1879

 

Klary 1888

  1. Klary, L’art de retoucher les négatifs photographique. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1888

 

König 1906

Ernst  König, Natural-color photography. London: Dawbarn & Ward Ltd., s.d. [1906]

 

La Blanchère 1862-1866

Henri de la Blanchère,  Répertoire encyclopédique de photographie: comprenant par ordre alphabétique tout ce qui a paru et paraît en France et à l’étranger depuis la découverte par Niepce et Daguerre de l’art d’imprimer au moyen de la lumière, I, II.  Paris: [Aymot],  s.d. [1862-1866]

 

Lefèvre 1888

Julien  Lefèvre, La photographie et ses applications aux sciences, aux arts et à l’industrie. Paris: Baillière et fils, 1888

 

Le Roux 1902

Marc Le Roux, dir., Annuaire Général et International de la photographie 1901-1902. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1902

 

* Liesegang  1864

Paul Liesegang, Manuale illustrato di fotografia; prima traduzione italiana dalla quinta tedesca di Antonio Mascazzini. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1864

 

Londe 1888

Albert  Londe, La photographie moderne: pratique et applications. Paris: G.Masson Éditeur, 1888

 

Lumière 1897

Augusto e Luigi  Lumière, Nozioni sul cinematografo. s. l. : s.n. [1897?]

 

Malley 1883

Abraham Cowley Malley, Micro-photography, including a description of the wet collodion and the gelatino-bromide process. London: H.K.Lewis, 1883

 

Meldola 1889

Raphael  Meldola, The chemistry of photography. London – New York: Macmillan and Co., 1889

 

Miethe 1896

Adolf Miethe, Optique photographique sans développements mathématiques a l’usage des photographes et des amateurs. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1896

 

Moitessier 1866

Albert Moitessier, La photographie appliquée aux recherches micrographiques. Paris: J.B. Baillière et fils, 1866

 

Monckhoven 1859

Désiré van Monckhoven, Répertoire général de photographie théorique et pratique. Planches. [Paris], [A. Gaudin et Frère], 1859

 

Monckhoven 1863

Désiré van Monckhoven, Traité général de photographie. Paris: Victor Masson, 1863

 

Monckhoven 1880

Désiré van Monckhoven, Traité général de photographie suivi d’un chapitre spécial sur le gélatino-bromure d’argent. Paris, G. Masson, 1880

 

Muffone 1887

Giovanni Muffone, Come il sole dipinge. Manuale di fotografia per i dilettanti. Milano: Hoepli, 1887

 

*Muffone 1892

Giovanni Muffone, Come il sole dipinge. Manuale di fotografia per i dilettanti, seconda edizione rifatta. Milano: Hoepli, 1892

 

*Muffone 1906

Giovanni Muffone, Come dipinge il sole. Fotografia per i dilettanti, sesta edizione riveduta e ampliata. Milano: Hoepli, 1906

 

*Namias 1912

Rodolfo Namias, Carte e viraggi per la fotografia artistica e la carta al pigmento o carbone.  Milano: Il Progresso Fotografico, 1912

 

Notizie Tensi 1913-1914

“Notizie della Società Anonima Tensi Milano”, 1 (1913), n.2;  2 (1914), n.1, suppl. al n.1

 

Paris Photographe 1891-1894

“Paris Photographe”, 1 (1891) 4 (1894)

 

Phipson 1864

Thomas Lamb Phipson, Le préparateur-photographe ou traité de chimie a l’usage des photographes.  Paris: Leiber, 1864

 

La Photographie 1908-1909

“La Photographie. La Photographie des Couleurs et la Revue des sciences photographiques et leurs applications réunies”, N.S., 1 (1908) – 2 (1909)

 

La Photographie des couleurs 1906-1907

“La Photographie des Couleurs: Revue Mensuelle”, 1 (1906), n.2, Août – 2 (1907), n.7, Juillet

 

Piquepé 1881

Paul Piquepé, Traité pratique de la retouche des clichés photographiques suivi d’une méthode très détaillée d’émaillage et de formules et procédés divers. Paris: Gauthier-Villars, 1881

 

Reichardt, Stürenburg 1868

Oscar Reichardt, Carl Stürenburg, Lehrbuch der Mikroskopischen Photographie. Leipzig: Quandt & Händel, 1868

 

Rivista Scientifico – Artistica 1893-1897

“Rivista Scientifico – Artistica di Fotografia”. Bollettino del Circolo Fotografico Lombardo, 1 (1893) – 6 (1897)

 

Roster 1893

Giorgio Roster, Note pratiche su la telefotografia. Firenze: Salvatore Landi, 1893

 

Roster 1899

Giorgio Roster, Le applicazioni della fotografia nella scienza. Conferenza, estratto dagli “Atti del Secondo Congresso Fotografico Italiano” (Firenze, 15-19 maggio 1899). Firenze: Tip. M. Ricci, 1899

 

Rouillé-Ladevèze 1894

Auguste Rouillé-Ladevèze, Sépia-photo et sanguine-photo. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1894

 

*Sassi 1897

Luigi Sassi, Le proiezioni. Materiale – Accessori – Vedute a movimento- Positive sul vetro- Proiezioni speciali policrome, stereoscopiche, panoramiche, didattiche, ecc. Milano: Hoepli, 1897

 

Sassi 1905

Luigi  Sassi, La fotografia senza obiettivo. Milano: Hoepli, 1905

 

* Sassi 1912

Luigi Sassi, Immagini fotografiche a colori. Ottenute con sviluppi e viraggi su carte all’argento e su diapositive. Milano: Hoepli, 1912

 

* Sassi 1917

Luigi Sassi, I primi passi in fotografia. Milano: Hoepli, 1917

 

*Sella 1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del fotografo. Trattato teorico-pratico di fotografia. Torino: Tip. G.B. Paravia e Comp., 1863

 

Spiller 1883

Arnold Spiller, Douze leçons élémentaires de chimie photographique. Paris: Gauthier-Villars, 1883

 

Sternberg 1883

George Miller Sternberg, Photo-Micrographs and how to make them. Boston: James R. Osgood and Company, 1883

 

*Thierry 1847

Jean Pierre Thierry, Daguerréotypie. Edition augmentée par l’auteur de la description rigoureuse duprocédé dit Americain et de son emploi facile avec sa composition d’iode. Paris: Lerebours et Secretan, 1847

 

*Valicourt 1851

Edmond de Valicourt, Nouveau manuel complet de photographie sur métal, sur papier et sur verre. Nouvelle édition. Paris: Roret, 1851

 

Vidal 1884

Léon Vidal, Calcul des temps de pose et tables photométriques. Paris: Gauthier-Villars, 1884

 

Vidal 1885

Léon  Vidal, Manuel du touriste photographe, I, II. Paris: Gauthier-Villars, 1885

 

Vogel 1887

Hermann Wilhelm Vogel, La photographie des objets colorés avec leurs valeurs réelles. Paris: Gauthier-Villars, 1887