Luoghi, tempo, fotografie (2015)

in Angelo Anétra, a cura di, Testimonianze nel  Tortonese dall’Archivio Fotografico e disegni della Soprintendenza Beni Architettonici e Paesaggistici di Torino. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2015, pp. 11-32

 

Guardare le fotografie

E vederle anche, questo è l’invito. Cercando di andare oltre l’apparenza, oltre l’immediata restituzione della cosa fotografata per essere consapevoli del fatto che lo sguardo che noi portiamo su questi luoghi, su queste architetture, è mediato dalla fotografia e dai fotografi: dal mezzo come dagli autori di queste serie di scatti. Queste immagini sono e ci restituiscono architetture dello sguardo: non solo perché queste sono raffigurate e rappresentate, ma anche perché ciascuno degli sguardi da cui originano è a sua volta caratterizzato da modi suoi propri, da una peculiare strutturazione espressiva che va riconosciuta e compresa. Detto altrimenti, queste fotografie sono documenti complessi che ci informano non solo sullo stato delle cose al momento della loro realizzazione, ma anche sulle intenzioni e la cultura dell’operatore che le ha realizzate, della committenza a volte. Oltre la loro apparente accessibilità, oltre la superficie vorremmo dire, contengono informazioni di natura diversa, della cui esistenza è bene tener conto.

Guardare una fotografia per poterla veramente vedere, allora, provandoci a superare la dicotomia espressa dal titolo di una famosissima mostra prodotta dal  MoMA di New York[1] nel 1978. Dobbiamo infatti considerare ogni fotografia ad un tempo “specchio” e “finestra”, immagine che documenta “non solo lo stato fisico delle architetture e degli spazi urbani  ma anche i modi del loro uso nel tempo” e che offre “un contributo alla conoscenza degli uomini e dell’uso che essi fanno degli spazi costruiti”[2]; consapevoli che esse sono “lettura critica di un’architettura (…) e della sua utilizzazione nel tempo.”[3]

Quelle qui pubblicate appartengono alla categoria delle fotografie comunemente definite documentarie e in particolare al ben consolidato  ‘genere’, della fotografia di architettura, in cui – almeno in prima approssimazione – è considerata meno rilevante se non proprio messa in secondo piano la figura (e per certi versi la presenza determinante) dell’autore. “Io conosco un tale che fa bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica”[4] scriveva Tristan Tzara nel 1922 offrendo una versione macchinista dell’idea già  ottocentesca di queste “immagini [che] creavano sé stesse” (François Arago, 1839),  accogliendo e valorizzando quella sorprendente, costitutiva assenza di autorialità in cui era individuata la meraviglia della fotografia, la sua confortante oggettività di prova.

Il “secolo breve” a cui appartengono le nostre fotografie avrebbe dovuto ormai essere culturalmente lontano dalla fiducia ‘primitiva’ e quasi incondizionata nell’oggettività di queste immagini che si dicevano prodotte  da una “natura fatta di sé medesima pittrice”, ma è sin troppo facile scoprire quanto quella fiducia sia ancora sottesa alla loro realizzazione e al loro utilizzo, tanto da rendere invisibile la stessa fotografia in quanto processo e in quanto oggetto: essa risulta ‘invisibile’ in quanto tale. Pare documentare solo altro da sé nonostante la propria invadente presenza di medium, quella rivelata dalle stesse modalità di rappresentazione: inquadratura, restituzione ottica, esposizione, messa a fuoco. Scopriamo allora che questa fiducia  nelle nostre capacità di comprensione è ancora la stessa di John Ruskin, che nella prefazione alla seconda edizione di The Seven Lamps of Architecture (1880) invitava gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico e li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli”.[5] Basti considerare qui la serie di riprese del 1981 relative alla  chiesa di S. Maria e S. Siro a Sale.

Anche un eminente studioso come Ernst Gombrich ricordava che “dal punto di vista geometrico, una fotografia in grandangolo non è né più né meno corretta di una ripresa con un obiettivo a fuoco normale. La differenza è una differenza psicologica”[6]. Questo è esattamente il termine della questione, sebbene non il solo. L’indifferenza alle ‘distorsioni’, siano esse derivate dalla strumentazione fotografica o dall’azione dell’operatore, dipende in tutta evidenza dal fatto che noi riconosciamo culturalmente queste immagini come fotografie e siamo  consapevoli della loro natura indiziaria di segno di cui il “ricevente deve sciogliere di volta in volta la costitutiva ambiguità”[7]. Indizi e documenti quindi: ma di cosa? Il tema è troppo complesso per poter essere sviluppato qui, ma non può neppure essere eluso. Allora possiamo almeno dire che ogni fotografia nella sua materialità di oggetto (e non solo di immagine) accanto alla cosa fotografata testimonia  anche  la cultura visiva e professionale dell’operatore, senza dimenticare che a queste si sovrappongono, nel momento dell’osservazione, le nostre attese e competenze di lettori di quel testo figurativo che è costituito dalla fotografia che stiamo osservando, che teniamo in mano, che vediamo su di una pagina di libro ovvero, oggi, sullo schermo di un dispositivo digitale. Per questo insieme di ragioni, per queste compresenze più o meno immediatamente comprensibili possiamo dire di ogni fotografia che è una traccia e un indizio, è un segno ed è anche un simbolo. È  – per riprendere la fortunata definizione di Jacques Le Goff[8] – un documento/ monumento, un insieme inscindibile e irrinunciabile, che ci forza a distinguere senza disgiungere le componenti referenziali e quelle culturali, verificando la possibilità di comprendere gli elementi connotativi che hanno contribuito a dare corpo all’ immagine a partire da quella oggettualità storicamente data che ne ha costituito ogni volta il referente fisico, materiale.  Ciò facendo assegniamo a ciascuna fotografia, un molteplice valore documentario e quindi di fonte: prodotto di una cultura (sociale e individuale, artistica e tecnologica) che è precisamente testimoniata dalla sua individuale materialità di oggetto, e contemporaneamente testimonianza di una realtà altra da sé, della realtà storica del soggetto fotografato, del referente, rispetto alla quale il valore documentario di ogni fotografia prescinde dalla sua propria natura di oggetto per essere fondato interamente sulla sua essenza, sulla sua più profonda natura di immagine, quella che ci fa dire con Roland Barthes che ciò che vediamo “è stato”.[9] Per questo complesso di ragioni le domande che noi possiamo porre al documento fotografico (anche di architettura) sono molteplici: esso ci informa non solo sullo stato dei luoghi e delle cose ma anche sul valore e sul senso assegnato all’opera rappresentata e alle sue modalità di raffigurazione. Da qui deriva la possibilità di riconoscere un significato anche nella scelta dei temi, di assegnare la stessa importanza alle presenze come alle assenze.

 

Verso una storia

L’invenzione della fotografia venne concepita e prese forma in un contesto che non può che essere definito della modernità in senso storiograficamente canonico, tra rivoluzione francese e rivoluzione industriale, e fu ancora in quell’ambito che si definì la sua funzione di strumento utopico di classificazione del mondo, di generatore e materia costituente di quegli archivi iconici che costituiscono una delle fonti privilegiate  per tracciare le coordinate dell’oggi e del passato recente, per fare storia. L’enorme successo e diffusione della fotografia, quel suo essere (stata) fuor di ogni dubbio uno degli elementi costituivi della contemporaneità trovò il proprio fondamento proprio nel suo essere la prima incarnazione tecnologica di un canone rappresentativo di consolidata e solo parzialmente declinante tradizione, ciò che consentì il formarsi di  quel sentire comune che le riconobbe quella  presunta oggettività su cui, ancora, si sono fondati la sua fortuna mediatica e la sua pervasività.

La possibilità offerta dal mezzo fotografico di documentare cose ed eventi divenendo documento lo stesso suo prodotto era già ben chiara nella mente dei suoi pionieristici esegeti: i primi contributi alla discussione risalgono infatti al fatidico 1839 quando Jean Vatout, presidente della commissione francese dei Monuments Historiques, rilevava come la scoperta di Daguerre offrisse la possibilità di portare a compimento il progetto di “former la collection des plans et des dessins de tous les monuments de la France”[10], assegnando alla fotografia quella funzione di strumento per la documentazione, qui indiretta ma già precisamente orientata in senso archivistico, che venne sviluppata successivamente e quasi normata da Viollet-Le-Duc nel più specifico contesto del cantiere di restauro architettonico[11] e dalla Mission Héliographique del 1851 per la documentazione del patrimonio monumentale francese[12]. Era quello stesso ruolo sancito polemicamente anche da Charles Baudelaire in occasione del Salon parigino del 1859: “Bisogna dunque che [la fotografia] si limiti al suo dovere (…) che salvi dall’oblio le rovine pericolanti, i libri, le stampe e i manoscritti che il tempo divora, le cose preziose la cui forma va scomparendo e che esigono un posto negli archivi della memoria”.[13]

Anche in Italia l’attenzione per il patrimonio storico artistico si tradusse in specifiche iniziative di conoscenza, e quindi di tutela, già negli anni intorno all’Unità con l’istituzione di appositi Commissioni e Commissariati,[14] mentre nel 1870 uno studioso come Pietro Selvatico avanzava la Proposta per la riproduzione fotografica dei principali monumenti d’Italia, rivolta al Comune di Padova affinché si facesse “promotore di un consorzio fra municipi allo scopo di costituire una cospicua collezione fotografica, seguita dalla pubblicazione di un volume a guida della raccolta (…) cioè una storia monumentale della penisola”,  poiché “I cataloghi e le definizioni che pur ne vanno preparando apposite Commissioni, non bastano (…) perché la parola non è sufficiente (…) Per raggiungere utilmente lo scopo vuolsi unita alla definizione l’immagine dell’opera”, cioè la fotografia, “la quale con poca spesa riproduce un monumento qualsiasi con ben altra precisione che non possa fare il disegno”.[15] In quello stesso anno il Ministero della Pubblica Istruzione invitava le Accademie di Belle Arti a “raccogliere notizie intorno agli edifizi e monumenti ragguardevoli per l’arte e per le memorie storiche ed archeologiche, non esclusi gli affreschi e i mosaici”[16], vale a dire a compilare quegli Elenchi  “di edifici pubblici di qualsiasi forma, sacri o profani (…)  i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali”, di cui scriveva Cesare Correnti nel 1870, sollecitandone la redazione ai Prefetti[17].

Da quelle iniziative derivarono le prime sistematiche ricognizioni del territorio a scala nazionale, vale a dire  la  campagna documentaria  avviata nel 1878 per iniziativa del Ministro della Pubblica Istruzione. Forse seguendo il modello francese della Mission Héliographique[18], il ministro aveva invitato ogni  prefetto italiano a “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici (…) per  avere le fotografie dei monumenti medievali esistenti in questa provincia, e indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie.”[19] La Commissione piemontese istituita giusto quell’anno riuscì però a deliberare solo nel  febbraio 1882,  assegnando a due dei migliori professionisti piemontesi, Giovanni Battista Berra (Fotografia Subalpina)[20] e Vittorio Ecclesia[21], il compito di fotografare gli “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  assegnandogli rispettivamente il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli.[22] Così l’Elenco dei monumenti assumeva per la prima volta la forma di un repertorio per immagini, riconoscendo alla visualizzazione un ruolo importante nel processo di mediazione e diffusione della conoscenza come in quello di costruzione identitaria dei territori.

Ciò che colpisce di quella realizzazione non è tanto l’esaustività delle ricognizioni, ben delimitate dai rispettivi incarichi, o la scelta dei soggetti (alcuni dei quali ritroveremo due anni dopo nella realizzazione del Borgo Medievale al Parco del Valentino a Torino),quanto l’idea non specificamente espressa ma ben evidente nelle indicazioni generali, di pervenire alla formazione sistematica e strutturata di un archivio per immagini di quelle che allora erano considerate le eccellenze del patrimonio architettonico italiano. Si trattava però di un tipo del tutto nuovo di figure, poco adatte ad essere lette come traduzione e rappresentazione formalizzata del reale, sulla scia tradizionale delle arti del disegno e dell’incisione. Anzi: queste erano immagini che portavano in dote la propria invisibilità, quella capacità massimamente mimetica di offrirsi quale immediato sostituto del reale che lo stesso Pietro Estense Selvatico aveva celebrato già nel 1859, sottolineando come “l’impassibile occhio senza cuore” della fotografia – la definizione è però di Alfonso Rubbiani[23] – fosse in grado di “darci le esatte apparenze  della forma”.[24]

L’iniziativa personale dei singoli fotografi aveva anticipato da tempo quel genere di realizzazioni. Per limitarci al Piemonte, e non considerando quindi la nascita dei grandi studi come Alinari, Brogi o Sommer, fu a partire dagli anni Cinquanta del XIX secolo,  decennio segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, che si ebbero le prime pionieristiche realizzazioni del biellese Giuseppe Venanzio Sella, che utilizzava ancora la più antica tecnica della carta salata e fu autore anche di un testo fondamentale della prima letteratura fotografica italiana come il Plico del fotografo  (1856), di  Ludovico Tuminello, romano esule a Torino dopo la caduta della Repubblica Romana nel 1849, e del torinese  Francesco Maria Chiapella. Mentre la scelta dei soggetti operata da questi autori confermava quelli già stabiliti dalla produzione calcografica e litografica precedente, nel decennio successivo si sviluppò una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolgeva a tutto il territorio regionale; l’attività di documentazione fotografica si faceva più specifica e il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: basti pensare alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864), il tracciato della Ferrovia Fell al Moncenisio ripreso dal fiorentino Giacomo Brogi o il traforo del Frejus, illustrato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure nel 1868-1870, ma anche all’insieme vasto della produzione di Vittorio Besso.[25]

A partire dagli anni ’70 del XIX secolo comparvero anche i primi album fotografici dedicati ai centri minori della regione. In quelle realizzazioni i fotografi attivi nelle piccole città rivolgevano la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase era proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li portava  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrispondeva allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili, qui riconosciute invece quali luoghi canonici, che si impongono come ovvi e ineluttabili, specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzavano ciascun sito[26]. Nel loro riferirsi alla specificità del luogo, la novità non era ancora di sguardo, ma di cosa osservata; erano i soggetti prescelti a connotare ogni realizzazione, mentre la sintassi visiva e le formule espressive si muovevano in uno spazio comune, secondo canoni ben riconoscibili, in cui la definizione autoriale dell’immagine, pur presente, non era esplicitamente ricercata e semmai evidente nella diversa maestria tecnica di trattamento dell’immagine. Era il progetto documentario, insomma, a essere culturalmente rilevante, ben più che la qualità formale delle immagini che da quello derivavano, pur essendo in quegli anni molto alta anche in conseguenza delle caratteristiche proprie delle tecnologie adottate: dalla ripresa effettuata con lastre di grande formato alla stampa a contatto dei positivi.

Costituisce una realizzazione esemplare in tal senso l’album Tortona e dintorni pubblicato nel 1889 da Federico Castellani[27] per iniziativa del Municipio, della Banca Popolare dei Piccoli Prestiti, del barone Alessandro Guidobono-Cavalchini-Garofoli, del Cav. Paolo Ferrari, del Sig. G. Ferretti e dell’Avv. G. Fiamberti. Questo l’ordine di citazione al primo foglio, in cui solo a pochi fu concesso l’onore di essere indicati anche col nome proprio per esteso. “Illustrazione fotografica ordinata da Aristide Arzano” recita ancora il frontespizio, indicando seppure in una forma quasi dimessa a chi si dovesse la regia di quella rappresentazione. L’esemplare consultato ha i fogli slegati, ciò che non consente di analizzare la sequenza narrativa originaria né, forse, di esprimersi con troppa certezza sulla scelta dei soggetti[28], ma alcune considerazioni possono essere comunque esposte: l’attenzione risulta equamente distribuita tra edifici religiosi (Santa Maria Canale, San Giacomo e il Duomo prima e dopo il rifacimento della facciata, l’abbazia di Rivalta), e altri civili come  il Teatro Civico, col suo sipario, e il Cimitero ma anche le sedi delle due banche, una delle quali era tra i promotori dell’impresa, ruolo condiviso dal proprietario di Villa Ferretti, alla quale vennero dedicate ben due riprese. Da quello che pare un tentativo di compiacere le pretese della committenza piuttosto che di descrivere esaurientemente la città risulta un’immagine complessiva scarsamente definita, dalla quale vennero esclusi non solo altri importanti edifici di interesse storico, sia civili che religiosi, ma anche presenze istituzionalmente significative come il Palazzo Municipale o testimonianze della modernità in atto quali la Stazione ferroviaria e quella tramviaria. [29]

A pochissimi anni di distanza dall’iniziativa ministeriale sopra citata, l’ormai notevole disponibilità di documentazione fotografica consentì di avviare un altro rilevante progetto: la costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani affidò  al Collegio locale in occasione dell’Esposizione Generale del 1884 che si tenne a Torino. Nel successivo congresso (Venezia, 1887)  questo presentò il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” – quindi con una presentazione artistica – quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano ordinate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[30]

A quello stesso 1884[31] risale anche la costituzione della prima Delegazione Regionale per i monumenti del Piemonte e della Liguria, cioè della prima forma istituzionale delle Soprintendenze e da quella data, ma specialmente dopo il 1886, è possibile seguire in modo piuttosto preciso lo svilupparsi dell’interesse per l’uso della fotografia, sino alla realizzazione di un proprio gabinetto di sviluppo e stampa. In aderenza alle proprie funzioni istituzionali, la documentazione fotografica risultava sempre essere in stretta relazione con interventi di tutela e restauro e proveniva sia dall’acquisizione di stampe di professionisti esterni sia impegnando i principali collaboratori di Alfredo d’Andrade come Carlo Nigra[32], che aveva uno specifico interesse personale per la fotografia, e Ottavio Germano[33]. La necessità di provvedere a una documentazione sistematica dei beni tutelati e dei cantieri indusse D’Andrade nel 1889 a richiedere al Ministero i fondi necessari per la realizzazione di un gabinetto fotografico[34] in grado di soddisfare tutte le esigenze di sviluppo, stampa e montaggio delle fotografie, scelta certo non estranea al dibattito sulla necessità della istituzione di archivi fotografici o Musei documentari, particolarmente intenso alla fine del XIX secolo; l’estendersi di questa attività impose addirittura un ampliamento del parco di strumenti a disposizione, come dimostra la richiesta avanzata da Germano a D’Andrade relativa a un preventivo di L. 852 per l’acquisto di una nuova macchina fotografica solo cinque anni più tardi.[35]

Anche a scala nazionale il Ministero esprimeva la necessità di dotarsi di proprie strutture produttive da affiancare a quella propriamente archivistica costituita nell’ambito della Direzione generale delle Antichità e Belle Arti[36] ; così nel 1895 per iniziativa dell’ing. Giovanni B. Gargiolli prese avvio  quello che si sarebbe poi chiamato Gabinetto Fotografico Nazionale[37], mentre era del 1893 il contestatissimo Regio Decreto che prevedeva l’obbligo da parte dei fotografi – poi non sempre rispettato – di consegnare al Ministero copie positive e negative delle riprese fotografiche di opere d’arte, monumenti e “cimeli artistici o letterari (…) per provvedere alla migliore preparazione del catalogo generale dei monumenti e degli oggetti d’arte del Regno”.[38] Come si è detto erano quelli anni in cui si stava sviluppando a livello internazionale il dibattito intorno alla possibilità di istituire musei documentari fondati sull’uso di fotografie, come quello parigino fondato da Léon Vidal,[39] che William Jerome Harrison intese proporre come modello per altri paesi del mondo in occasione del Congresso di Fotografia di Chicago del 1894, tema ripreso e illustrato Italia nel marzo dello stesso anno da un intervento di Pietro Alegiani sulle pagine del mensile milanese “Il Dilettante di Fotografia” e sviluppato da Camillo Boito, Giuseppe Fumagalli, Gaetano Moretti e Corrado Ricci che nel 1899 promossero la raccolta presso la Pinacoteca di Brera di “fotografie di opere d’arte, di luoghi, d’avvenimenti, di persone ragguardevoli in ogni campo dello scibile”.[40] La riflessione critica e metodologica sulle potenzialità documentarie degli archivi fotografici venne ripresa ancora da Ricci ma soprattutto da Giovanni Santoponte chiarendo la differenza tra Museo fotografico, inteso come raccolta eterogenea di immagini prevalentemente destinate ai contemporanei, e Archivio fotografico, costituito da materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte [individuando] i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali.”[41] Il dibattito internazionale proseguì ancora negli anni successivi, ma diversamente da quanto accadde in altri paesi europei, la situazione italiana fu sostanzialmente di stallo e, se si esclude l’esemplare impresa privata degli Alinari, che progressivamente acquisirono anche importanti fondi di altri professionisti come Anderson e Brogi[42], non si registrarono realizzazioni significative. Tale situazione non muterà neppure con la nascita dell’Istituto Luce  (L’ Unione Cinematografica Educativa, 1924) che pure acquisì archivi di cronaca, fondi fotografici di documentazione delle opere d’arte e lo stesso Archivio e Gabinetto Fotografico del Ministero della Pubblica Istruzione; come ha ricordato Carlo Bertelli: “Era  la grande occasione per costituire sia un inventario storico che un inventario attuale dell’Italia. Quell’occasione andò completamente perduta, come se il fascismo avesse timore di ciò che la fotografia potesse rivelare.”[43]

Ancora una volta, nello spazio lasciato libero dall’attività dei grandi studi nazionali come dalle iniziative ministeriali, in quella terra di nessuno che era la documentazione del patrimonio artistico e architettonico locale, un ruolo determinante, specialmente in Piemonte, venne svolto da alcuni fotografi amateur o da professionisti che affiancavano alla pratica ritrattistica un interesse autonomo per la storia artistica locale[44]. A questo progetto culturale, di forte valenza civica,  appartenevano ad esempio  le “ricreazioni fotografiche” di Secondo Pia[45], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione negli ultimi decenni del  XIX secolo, non di rado in anticipo sulla stessa storiografia e ancor più sull’azione di tutela del neonato Ufficio Regionale, cui già nel 1890 venne assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[46], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio, assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi”,[47] collocandosi senza soluzioni di continuità  tra le sollecitazioni ruskiniane e le raccomandazioni formulate dal Congresso di Parigi del 1900. Questo suo impegno venne giustamente celebrato specialmente in ambito torinese già a partire dall’Esposizione Italiana di Architettura del 1890 e quindi ancora in quella di Arte Sacra del 1898, quando espose circa 600 fotografie e Giovanni Cena gli dedicò un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[48]

Nel 1905 si tenne a Tortona l’ottavo Congresso Storico Subalpino e agli studi che vennero presentati in quell’occasione[49] credo possa essere riferito l’interesse di Pia per questo territorio. La sua campagna venne infatti realizzata l’anno successivo toccando oltre al capoluogo anche Castelnuovo Scrivia, Pontecurone, Viguzzolo e Volpedo (ma non Sale) e fu condotta con una attenzione inedita per quei luoghi. Il dato più significativo era costituito non solo dalla scelta dei soggetti, pur significativa, quanto piuttosto dalla sistematicità con cui era condotta la lettura degli edifici, di cui restituiva esterni, in viste generali e di dettaglio, interni ed elementi architettonici  oltre all’apparato decorativo e pittorico, allora ancora scarsamente considerato nonostante le prime pionieristiche ricognizioni di Carlo Nigra, limitate però all’area torinese e valsusina[50]. Fu proprio Pia negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo a compiere una ricognizione quasi esaustiva dei cicli pittorici del Quattrocento piemontese, compresi quelli di area tortonese tra Rivalta Scrivia, Pontecurone e Volpedo, in una ricerca sostanzialmente isolata, certo condotta a partire da indicazioni di numerosi e diversamente qualificati informatori, tenendosi a volte a ridosso  dei primi interventi di restauro. Dalle più di cinquanta riprese tortonesi realizzate è facile comprendere quanto Pia fosse aggiornato sulla più recente storiografia artistica e sulle ultime iniziative: lo testimoniano le diciassette riprese  di reperti archeologici effettuate nel Museo Civico di Tortona, appena istituito nel 1903, come la riproduzione del trittico di Macrino d’Alba da poco riscoperto nella Cappella Episcopale di Tortona[51] ma anche la documentazione delle mura di Volpedo sulle quali aveva richiamato l’attenzione nel 1903 Giuseppe Pellizza, commissionandone alcune riprese al fotografo tortonese Fausto Bellagamba.[52]  A pochissimi anni dall’emanazione della prima legge nazionale di tutela[53], le fotografie di Pia  restituivano di questo territorio un’immagine  ben più articolata e ricca di quanto non fosse emerso dalle “corografie” precedenti.

Quando la fotografia era sul nascere e poco si praticava, almeno nei piccoli centri della nostra provincia, il tema della veduta urbana, era stato Goffredo Casalis[54] a descrivere questi  luoghi alle soglie della modernità, prima della faticosa industrializzazione, prima della ferrovia, rappresentandoli nella loro condizione quasi immutata di borghi e città agricole in cui si insediavano  le prime manifatture. Nel 1846 Clemente Rovere[55] avrebbe considerato invece la sola Tortona nel corso delle proprie ricognizioni, schizzando rapidamente a matita con l’ausilio di una camera obscura  i resti del castello, una veduta dai (e dei) Cappuccini, la chiesa del Corpus Domini e la piazza principale col Duomo, oltre a Santa Maria Canale; poi la piazza del mercato con il “lungo bel loggiato di quaranta quattro archi”[56], costruito nel 1832 per il mercato del bestiame e la vicina Porta di Serravalle, resto occidentale delle vecchia cinta muraria. Non il Teatro civico però, recentemente costruito, che non venne considerato tra gli “edifici rimarchevoli” mentre pochi anni più tardi il significato della sua presenza venne correttamente indicato nella Corografia d’Italia[57] e confermato vent’anni dopo in occasione della ripubblicazione di quel testo ne Le cento città d’Italia[58]. Titolo di grande fortuna questo, come sappiamo, essendo stato utilizzato poi per il famoso supplemento de “Il Secolo” dell’editore milanese Edoardo Sonzogno, dove il fascicolo dedicato a Tortona venne curato nel  1890[59] da  Aristide Arzano in collaborazione con Giuseppe Dellepiane. Era l’anno successivo alla pubblicazione dell’album Castellani ma anche quello della pubblicazione del terzo volume dell’opera di  Giuseppe Strafforello La Patria: geografia dell’Italia, dedicato alla Provincia di Alessandria[60] che conteneva anche il testo su Tortona, illustrato da una serie di incisioni su acciaio tratte proprio dalle fotografie dell’album relative al Palazzo Cavalchini-Garofoli e alla casa medievale di Corso Leoniero, mentre tra gli edifici religiosi comparivano la Cattedrale, Santa Maria Canale, l’interno di San Giacomo e naturalmente l’abbazia di Rivalta Scrivia.

Quella era quindi l’immagine consolidata della città, quelle le emergenze architettoniche che la qualificavano e certamente la collocavano tra i centri minori del Piemonte anche dal punto di vista storico artistico[61] in anni in cui l’attenzione dell’Ufficio regionale piemontese, certo tenendo anche conto delle sollecitazioni di Arzano e poi della “Società per gli Studi” si appuntava su alcuni dei suoi principali monumenti, come dimostra una serie di lastre di grande formato (24×30) conservate nell’archivio dell’attuale Soprintendenza, relative a Palazzo Cavalchini-Garofoli, a Santa Maria Canale e all’interno della chiesa abbaziale di Rivalta. Sono queste le più antiche testimonianze fotografiche superstiti dell’azione di conoscenza e tutela svolta dall’Ufficio torinese (poi Soprintendenza), datate al 1905 e dovute verosimilmente a Cesare Bertea, allora giovane funzionario, realizzate seguendo le direttive di un Promemoria ministeriale dello stesso anno in cui si sottolineava non solo  “l’importanza che avrebbero i Cataloghi (…) se ogni scheda fosse fornita della sua fotografia” ma anche che le  fotografie fossero “fatte da chi redige la scheda e per conseguenza da persona che sa come il Monumento o l’Oggetto debba o possa essere riprodotto.”[62] Azione di tutela e documentazione fotografica assunsero da allora un andamento parallelo, come è facile riscontrare confrontando cronologia delle notifiche, degli interventi e datazione di alcune immagini; così nei mesi in cui era in discussione il disegno di legge “per le Antichità e Belle Arti” (poi legge n. 364/ 1909) si ebbero i primi provvedimenti in area tortonese, prevalentemente relativi a edifici di epoca medievale come la Chiesa di S. Maria e S. Siro a Sale, “dichiarata monumento d’arte in data 12 luglio 1908” come enunciava orgogliosamente il testo di una cartolina edita allora[63]. In anni in cui il Ministero sollecitava i Soprintendenti a inviare all’Archivio Fotografico della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti “una copia positiva di tutte le negative fotografiche dei singoli Uffici già eseguite e da eseguirsi e di quelle positive di cui esista un duplicato disponibile”[64] , il  Gabinetto fotografico torinese, forse affidato al solo Bertea, si dotava di apparecchiature fotografiche ormai di minor formato[65], come testimoniano alcune riprese relative alla  Chiesa di S. Maria Canale e ai resti del Chiostro del  Convento dell’Annunziata, tutte realizzate su lastre 5×4 cm, mentre in altri casi si affidava ad operatori esterni come il tortonese Andrea Ginocchio[66], per lungo tempo collaboratore della Soprintendenza e autore di buone riprese realizzate con materiali sensibili di differenti formati, dalle lastre 18×24 e 13×18 alle pellicole 10×15 cm.

Nonostante l’estesa attività di tutela e il ruolo svolto dalla “Società per gli Studi”[67], la notorietà del patrimonio storico in area tortonese restava ancora ben più che circoscritta se la  “Guida” rossa del Touring Club Italiano (1930) ricordava che solo “Circa 2 ore sono sufficienti alla visita” della città[68] e il primo volume della collana “Attraverso l’Italia”, dedicato nello stesso anno al Piemonte segnalava solo il Sarcofago di Publio Elio Sabino e il bassorilievo di Perino Cameri a Volpedo[69].   Assume quindi ancora maggior significato la presenza del fotografo Mario Sansoni che nel 1934-1935  documentò l’affresco con San Rocco nella Pieve di San Pietro a Volpedo nel corso di una grandiosa campagna di documentazione del patrimonio artistico medievale e rinascimentale in Europa, condotta per incarico della Frick Reference Library di New York. [70] Una documentazione di analogo livello tecnico era da poco stata realizzata da Augusto Pedrini[71], il miglior fotografo piemontese del settore in quel periodo, nella chiesa di Santa Maria Assunta a Pontecurone, durante un’importante campagna di restauri. L’uso di lastre di medio formato (13×18), un attento controllo dell’illuminazione e l’ausilio di ponteggi testimoniano dell’accuratezza professionale e fanno di questa serie uno dei migliori esempi ad oggi disponibili. Pedrini si muoveva ancora nella tradizione dell’ortogonalità prospettica ottocentesca: punto di vista rialzato e macchina parallela al piano principale per conservare il parallelismo delle linee verticali ed anche negli interni l’apparecchio era posto sull’asse principale ad un’altezza mediana. Le deformazioni non erano consentite, tanto meno ricercate da questo professionista che intendeva la fotografia come uno schermo trasparente, una finestra in posizione privilegiata da cui osservare senza inquietudini il bene da documentare. Lo stesso fotografo venne poi chiamato ad operare negli anni successivi anche a Rivalta[72] utilizzando ancora lastre 13×18 e riconfermando la sua consueta controllata libertà, quasi coincidente con l’impegno a evitare ogni ingombrante presenza autoriale.  Solo quando era indispensabile inclinava un poco l’apparecchio sull’asse verticale per riprendere il sistema voltato, sino al limite della ripresa zenitale. Basta confrontare queste riprese con quelle di fatto coeve siglate “PM” per comprenderne la qualità. Restano, quelle di Pedrini, le produzioni qualitativamente migliori, alle quali possono essere in parte avvicinate, seppur più modeste,  quelle relative ai restauri in stile di Palazzo Guidobono, realizzate dallo studio tortonese Foto Novecento.

Negli anni del secondo conflitto mondiale proseguirono le notifiche, specialmente di edifici del tessuto abitativo tortonese, ma solo nel 1949 si ebbe un’ulteriore campagna fotografica realizzata da Giannantoni su pellicola 6×9 nell’ambito delle  attività di Soprintendenza: oneste riprese, dalle quali emerge la preoccupazione per una resa corretta dell’edificio ma a cui non corrisponde la necessaria competenza tecnica o, forse, il tempo per porla in atto.  È la stessa impressione che si ricava dall’analisi delle fotografie realizzate nel decennio successivo nel nuovo formato quadrato 6×6 dall’architetto Ercole Checchi, già collaboratore di Vittorio Mesturino. Basta ad esempio confrontare la scelta del punto di vista rispetto a uno stesso edificio per verificare lo scarto di qualità: per fotografare ad esempio la chiesa di S. Giacomo a Tortona nel 1889 Castellani  si era collocato a nord, rendendo leggibile al massimo la facciata, mentre l’architetto Checchi  si posizionò a ovest realizzando una ripresa fortemente scorciata che rende quasi illeggibile l’articolazione dei volumi.  Se si riflette sulla qualità complessiva di queste immagini realizzare da funzionari e non da fotografi professionisti emerge con grande evidenza un radicale mutamento di paradigma: non si può più parlare di documentazione del patrimonio architettonico al fine di valorizzarlo ma di testimonianze delle sue condizioni contingenti. Sono immagini dell’emergenza. Si vedano le riprese dei  pannelli con figure del soffitto cassettonato di Palazzo Ghislieri a Sale, ancora di Ercole Checchi, nelle quali una mano femminile, poi tagliata in fase di stampa, sostiene i singoli elementi poggiati su sacchi di cemento Buzzi o quelle dell’Arco dell’antica cinta muraria di Castelnuovo Scrivia dove la ripresa inclinata non corrisponde a tardive suggestioni della “nuova visione” modernista  ma sembra dettata piuttosto dalla fretta e dalla radicata fede nelle inossidabili virtù documentarie della fotografia, a prescindere dalla qualità della ripresa. Le modalità non mutano neppure negli anni Sessanta con la presenza di nuovi operatori (gli architetti Ernesto Gallo e Giorgio Lambrocco, sempre della Soprintendenza torinese). Qui le ragioni sono ancor più specifiche e il soggetto non è ormai più l’edificio nella sua qualificazione architettonica ma lo stato di degrado e i conseguenti interventi, come nel caso dell’ex Convento della Trinità a Tortona dopo la caduta di un pezzo di cornicione nel giugno del 1964 o del chiostro e loggiato del “Cortile di Filosofia” del Seminario Vescovile, con dettagli su alcune cadute di intonaco ai basamenti; proseguendo una lunga consuetudine su alcune di quelle stampe vennero indicate a penna tracce di possibile aperture. Sono foto modeste ma corrette, come quelle relative alle terribili condizioni di degrado di Palazzo Airoli a Rivalta, realizzate nel 1971 da Lambrocco con un piccolo apparecchio 35 mm e con una cura che lascia emergere quasi con sgomento lo stato dell’edificio, molto più efficaci delle modeste riprese del successivo cantiere di restauro. Sono anni quelli in cui l’attenzione per la documentazione fotografica e la cura posta nella sua realizzazione appaiono assolutamente insufficienti, conseguenza e specchio di riorganizzazioni funzionali e di ruolo all’interno della Soprintendenza ma anche di una perduta cultura dell’immagine, delle minime cognizioni di alfabetizzazione nella comunicazione fotografica. Penso alla tremenda serie di venti riprese dedicate da un autore rimasto anonimo alla pieve di S. Maria  di Viguzzolo in cui la scelta della meno opportuna delle ore del giorno ebbe come conseguenza la perdita quasi totale di leggibilità del soggetto: qui le fronde degli alberi circostanti e le loro ombre portate sul paramento murario hanno cancellato non solo il volume ma quasi l’esistenza della pieve, in un esito mimetico in cui architettura e natura (per quanto artificiale) inutilmente si confondono.

Queste genere di fotografie ben rappresenta l’esito certo involontario e per questo più che probante di quello che Franco Vaccari[73] aveva proposto di nominare inconscio tecnologico, riconoscendo conseguentemente la scarsa rilevanza del “piglio inventivo e autorevole” dell’autore, sottoposto se non proprio sottomesso a quell’apparato destinato a produrre simboli che è lo strumento fotografico, di cui i fotografi non sono che “funzionari” che “dominano un gioco di cui non sono competenti”[74], di cui scriveva  Vilem Flusser nel 1979. È dal loro affidarsi compiutamente alle capacità insite nel processo fotografico che nasce questo grado zero della scrittura fotografica, dove la valenza documentaria risiede tutta e si fonda sulla sua natura irrimediabile di traccia.

 

 

Note

[1] John Szarkowski, Mirrors and windows: American photography since 1960, catalogo della mostra (New York, The Museum of Modern Art, 26 luglio – 2 ottobre 1978).  New York: The Museum of Modern Art, 1978.

[2] Giovanni Fanelli, L’anima dei luoghi: La Toscana nella fotografia stereoscopica.  Firenze: Mandragora, 2001, p. 5.

[3] Giovanni Fanelli, All’ombra della loggia: Storia dell’iconografia fotografica delle fiorentina Loggia della Signoria, “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 46 (2002 [febbraio 2004]), n. 2/3, pp. 533-556 (p.533).

[4] Tristan Tzara, La photographie à l’envers, in Man Ray, Les champs délicieux. Paris: Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T. Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie. Torino: Einaudi, 1975, p.75.

[5] John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture. Orpington (Kent): G. Allen, 1880. La prima edizione era stata pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in Paolo Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[6] Ernst H. Gombrich, Julian Hochberg, Max Black, Arte, percezione e realtà: come pensiamo le immagini. Torino: Einaudi, 1978.

[7] Roberto Signorini, Arte del fotografico. Pistoia: Editrice C.R.T., 2001, p. 112.

[8] Jacques Le Goff, Documento/Monumento, in Enciclopedia, vol. V. Torino: Einaudi, 1978, pp. 38-48, ora in Id.,  Documento/Monumento, in Storia e memoria. Torino: Einaudi, 1982, pp. 443-456.

[9] Roland Barthes, La camera chiara: nota sulla fotografia; traduzione di Renzo Guidieri. Torino: Einaudi. 1980.

[10] Citato in Françoise Bercé, Les premiers travaux de la Commission des monuments historiques, 1837-1848. Paris: Picard, 1979.

[11] Eugène Viollet-Le-Duc,  Restauration,  Id.,  Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siècle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Réunies, s.d. (1860), pp. 33-34.

[12] Anne de Mondenard, La Mission héliographique: cinq photographes parcourent la France en 1851. Paris: Monum – Éditions du Patrimoine, 2002.

[13] Charles Baudelaire, Salon de 1859; texte de « La Revue française » établi avec un relevé de variantes, un commentaire et une étude sur Baudelaire critique de l’art contemporain par Wolfgang Drost ; avec la collaboration de Ulrike Riechers. Paris: H. Champion, 2006.

[14] È del 1860 ad esempio l’istituzione del Commissariato straordinario per le belle arti per le province del Piemonte, Lombardia ed Emilia, Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, busta 596, fasc. 1063, n.1.

[15] Citato in Tiziana Serena, Pietro Selvatico e la musealizzazione della fotografia, “Annali della Scuola Normale di Pisa”, Classe di Lettere e Filosofia, ser. 4, v. 2, 1 (1997), pp. 75-96 (75, 87).

[16] Ariodante Fabretti, Atti della Società (1879), “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1879, 1881, pp. 9-15.

[17] Lettera di Cesare Correnti al Presidente dell’Accademia Albertina di Torino, conte Marcello Panissera di Veglio, datata 6 maggio 1870. Nella successiva, del 12 agosto, indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti”,  avrebbe precisato come fosse “mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa.” , Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”. In seguito a tale mandato l’Accademia Albertina nominò una Giunta costituita da Carlo Felice Biscarra, Andrea Gastaldi, Edoardo Arborio Mella, Francesco Gamba, Vittorio Avondo e Carlo Ceppi.

[18] Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione inviò ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti (…) voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va sottolineato l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire,  tanto da essere ancora invocate nel 1904 da  Giovanni Santoponte.

[19] cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10.

[20] Su Giovanni Battista Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990, p. 358; P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898, catalogo della mostra (Torino 2003-2004), a cura di Paolo Venturoli. Torino: Umberto Allemandi & C., 2003; La borghesia allo specchio. Il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra (Torino 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2004, p. 123.

[21] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano.

[22] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna, conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica

sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, congiuntamente alle «fotografie architettoniche» realizzate

da Castellani ad Alessandria, cfr. Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea.

Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884, p. 123 passim.

[23] Alfonso Rubbiani, Di un sentiero fiorito per l’arte nostra, “Giornale del mattino”, 6 febbraio 1913, ora in Id. Scritti vari editi e inediti; prefazione di Corrado Ricci. Bologna: Cappelli, 1925, pp. 227-233.

[24] Aggiungendo opportunamente, secondo una formula ampiamente abusata: “ma non  isprigionare dall’intelletto l’i­dea.”, Pietro Estense Selvatico, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, in Id., Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e Comp., 1859, p.338.

[25] Per la documentazione fotografica di alcuni grandi cantieri ottocenteschi piemontesi si vedano Infinitamente al di là di ogni sogno: Alle origini della fotografia di montagna (catalogo della mostra, Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, CAI Torino, 2004 e Frammenti di un paesaggio smisurato: montagne in fotografia 1850-1870, catalogo della mostra (Torino, 2015), a cura di Veronica Lisino. Torino: Museo Nazionale della Montagna, CAI Torino, 2015. Per Vittorio Besso si vedano i diversi contributi pubblicati in Studi e ricerche sulla fotografia nel Biellese, 2, presentazione di Giovanni Vachino. Biella: DocBi Centro Studi Biellesi, 2006.

[26] Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863, la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedicò nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di “archivio” o “museo” fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852 – 1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Miraglia1990 e P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[27] Federico Castellani (San Giorgio Lomellina, Pavia 1848 – Alessandria 27 Luglio 1889) aprì il proprio  studio fotografico forse nel 1867 nella casa in cui risiedeva, in Corso Roma 35 ad Alessandria, coadiuvato dal padre Luigi (1822- 11 marzo 1890), maestro elementare in pensione. La prima pubblicità nota dello Studio comparve però solo nel 1869 ne “L’Osservatore di Alessandria”. Successivamente  lo studio venne trasferito in via Piacenza, Casa Pedemonte e altri due vennero aperti a Nizza in Quai Massena 9 e a Vercelli, via del Duomo 1, Casa Pasta. Proprio a questa città dedicò nel 1873 un Album delle principali vedute edifizi e monu­menti della città di Vercelli, realizzato forse in coincidenza con l’apertura dello studio e composto da 23 vedute, ma negli anni precedenti aveva prodotto anche una serie di vedute di Alessandria, presentate all’Esposizione torinese del 1884. Oltre a questa prese parte anche a quella di Alessandria del 1870, dove vinse una medaglia d’argento e a quella Universale di Vienna del 1873; lo stabilimento Castellani risulta attivo sino ai primi anni del XX secolo sotto la gestione del figlio Livio, nato ad Alessandria nel 1877 e diplomatosi alla École de photographie pratique Klary di Parigi.

[28] L’album venne esposto anche in occasione della mostra dedicata ai Fotografi del Piemonte, il cui catalogo offriva una precisa elencazione delle stampe che lo costituiscono, corrispondente all’attuale, ma senza indicare se già all’epoca i fogli fossero slegati. La sequenza lì indicata risulterebbe comunque problematica ovvero, se corrispondente a quella originale, quanto meno singolare considerando che dopo le due vedute panoramiche dai ponti sulla Scrivia e dai Cappuccini la terza tavola fosse dedicata al  “Camposanto di Rinarolo”; cfr. Fotografi del Piemonte 1852-1899, p. 28.

[29] Potrebbe certo trattarsi di lacune dell’esemplare, ma la consistenza complessiva dell’insieme sembra escludere tale possibilità, così come il confronto con le immagini pubblicate da Giuseppe Strafforello, Provincia di Alessandria in La Patria: geografia dell’Italia, III. Torino: UTET, 1890.

[30] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[31] Regio Decreto del 27 novembre, cfr.  Mario Bencivenni, Riccardo dalla Negra, Paola Grifoni, Monumenti e istituzioni, II, Il decollo e la riforma del servizio di tutela dei monumenti in Italia 1880-1915. Firenze: Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici per le province di Firenze e Pistoia, 1992.

[32] Su Carlo Nigra (1856 – 1942) si vedano Fotografi del Piemonte, pp. 38-39 e la scheda relativa di  Claudia Cassio in Miraglia pp.403-404.

[33]Su Ottavio Germano (1857-1913), che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra e inoltre Cassio in Miraglia 1990, p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in  Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (77, nota 23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992.

[34] Preventivo del primo impianto d’un Gabinetto Fotografico per uso della R. Delegazione per i Monumenti del Piemonte e della Liguria in Torino, datato 31 luglio 1889, non firmato, Archivio di Stato di Torino, Corte, Fondo D’Andrade, m. 77, f.2, Fotografie.

[35] Lettera di D’Andrade al Ministero datata 4 febbraio 1891, Archivio di Stato di Torino, Corte, Fondo D’Andrade, m.77, Ufficio conservazione dei Monumenti del Piemonte e della Liguria, Fotografia.

[36] Fotografare le Belle Arti, appunti per una mostra: Un percorso all’interno dell’archivio fotografico della Direzione generale delle antichità e belle arti, Fondo MPI Ministero della pubblica istruzione, 1860 – 1970, catalogo della mostra (Roma, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, 10 maggio-28 giugno 2013), testi di Elena Berardi, P. Cavanna, Laura Moro. Roma: ICCD, 2013.

[37] Clemente Marsicola, a cura di, Il viaggio in Italia di Giovanni Gargiolli: le origini del Gabinetto fotografico nazionale 1895-1913. Roma: ICCD, 2014.

[38] Regio Decreto e Regolamento per le riproduzioni fotografiche, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 5 (1893), disp. 9, settembre, pp. 222-224. Per l’opposizione al Decreto cfr. Carlo Brogi, Circa la proposta di colpire con una tassa le riproduzioni fotografiche dei monumenti nazionali, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 4, (1892), disp. 5, maggio, pp. 101-103 e Vittorio Alinari, Del R. Decreto e regolamento per le riproduzioni fotografiche, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 5, (1893), disp.10, ottobre, pp.246-249.

[39] La letteratura sul tema dei musei documentari è ormai vastissima: si segnalano quindi solo due contributi italiani e un recente intervento di ordine storiografico-metodologico: Paolo Costantini, “La Fotografia Artistica” 1904-1917: Visione italiana e modernità. Torino: Bollati Boringhieri, 1990; P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’Impegno”, 2 (1991), n. 3, dicembre, pp. 41-48;  Elizabeth Edwards, Between the Local, National and Transnational: Photographyc Recording and Memorializing Desire, in Chiara De Cesari, Ann Rigney, eds., Transnational Memory: Circulation, Articulation, Scales. Berlin: De Gruyter, 2014.

[40] Cfr. Brera. 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano, catalogo della mostra (Milano, 200), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Electa, 2000.

[41] Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni, 7 (1905), pp.38-48 ora in Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Milano:  Franco Angeli, 1985, pp. 241-249.

[42] Sullo studio fiorentino si vedano Monica Maffioli, Arturo Carlo Quintavalle, a cura di, Fratelli Alinari fotografi in Firenze: 150 anni che illustrarono il mondo 1852-2002. Firenze: Alinari, 2003; Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003.

[43] Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali”, 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, I, p.172.

[44] Vanno almeno ricordati in questo contesto gli studi e le iniziative di due fotografi come Francesco Negri e Pietro Masoero. Quest’ ultimo, nato ad Alessandria nel 1863, aveva iniziato la propria attività a Vercelli, dove dal 1880 era impiega­to quale operaio fotografo presso lo studio di Federico Ca­stellani per poi aprire un proprio studio che divenne in breve tempo il più importante della città, godendo di buona fama anche a livello nazionale e internazionale. Nel corso delle proprie campagne documentarie dedicate alla produzione della “Scuola pittorica vercellese” e in particolare alle opere di Bernardino Lanino, Masoero riprese anche il San Paolo del Palazzo Vescovile di Tortona sia su lastre orto­cromatiche Cappelli in formato 21×27 cm, sia mettendo immediatamente a frutto la recente commercializzazione delle autocromie Lumiè­re, con le quali era in grado di soddisfare per la prima volta una sufficiente restituzione della gamma cromatica del dipinto; cfr. P. Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in  Paola Astrua, Giovanni Romano, a cura di, Bernardino Lanino. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154. Per la complessa figura di Francesco Negri, scienziato, storico dell’arte e valente fotografo si rimanda a Barbara Bergaglio, P. Cavanna, a cura di, Francesco Negri fotografo 1841-1924.  Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2006.

[45] Su Secondo Pia si vedano Michele Falzone del Barbaró, Luciano Tamburini, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981; Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989; Cavanna 1997; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998), a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone. Pioniere itinerante della fotografia, catalogo della mostra (Asti, 1998), a cura di Gemma Boschiero. Asti: Comune di Asti, 1998; Claudio Bertolotto, I fondi fotografici della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  II,  Indagine sulle raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, 9 (1999),  pp.15-18. La sua attività, pur eccezionale,  va collocata nel ricco contesto di autori piemontesi, solo in parte professionisti,  particolarmente attenti all’utilizzo della fotografia quale strumento di conoscenza e di divulgazione del patrimonio artistico locale; oltre ai già citati  Negri e Masoero ricordiamo qui almeno i nomi di Pietro Boeri e Alberto Durio, di alcuni religiosi come F. Origlia, Alessandro Rastelli e G. Valle, di Edoardo Barraja, Eugenio Olivero, Alessandro Roccavilla e ancora Mario Gabinio e Giancarlo dall’Armi.

[46] Lo stesso concetto era stato ribadito da Pietro Masoero recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino quando sottolineava come “Nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Secondo Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900) n.4, p.278.

[47] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, Slightly Out of Focus: Turin 1884-1898: From Art to Artistic Photography, “Photoresearcher”, 2013, n. 20, pp. 21-29.

[48]Giovanni Cena, Piemonte antico, “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240.

[49] In quell’occasione venne pubblicato il volume Storia ed Arte nel Tortonese:  Omaggio della Società per gli Studi di Storia, d’Economia e d’Arte nel Tortonese all’VIII Congresso Storico Subalpino Settembre 1905. Tortona: Adriano Rossi, 1905, con contributi di Aristide Arzano, Pio Evasio Cereti, Ferdinando Gabotto, Vittorio  Poggi, Diego  Sant’Ambrogio.

[50] Penso a San Giovanni ai Campi di Piobesi, studiato da Nigra in occasione della Esposizione torinese del 1890; cfr. Carlo Nigra, La chiesa di S.Giovanni di Piobesi, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, 11 (1927), n.3-4, consultato in estratto.

[51] Il 27 giugno 1904 Diego Sant’Ambrogio aveva comunicato all’amico Francesco Negri l’avvenuto ritrovamento del trittico realizzato da Macrino d’Alba per Santa Maria di Lucedio (Trino), anticipando così la sua segnalazione ne “La Lega Lombarda” del 1 luglio 1904 (cfr. Edoardo Villata, Macrino d’Alba; presentazione di Giovanni Romano. Savigliano: Editrice Artistica Piemontese, 2000, pp. 144-147).   Diego Sant’Ambrogio dedicò al tema anche il saggio Il trittico di Macrino d’Alba nella cappella episcopale di Tortona, “Bollettino della Società per gli Studi di Storia, d’Economia e d’Arte nel Tortonese”, n. 5, 1906, poi riedito da A. Rossi, Tortona, 1906. cfr. Sergio Samek-Lodovici, Storici, teorici e critici delle arti figurative in Italia dal 1800 al 1940.  Roma: Tosi, 1946. Il tema sarebbe stato successivamente ripreso, seppure non in forma monografica, proprio da Francesco Negri, Note d’arte a Lucedio, I pittori di Trino, in Evasio Colli, Francesco Negri, Alessandro Rastelli, Il Beato Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio. Casale Monferrato: Tip. Pane, 1914 (nuova ed. Trino: Circolo culturale trinese, 1996, con introduzione di P. Cavanna, pp. 48-49). Circa in quegli anni, ma dopo la tragica interruzione della Grande guerra, al trittico venne dedicato uno studio anche da parte di Guido Marangoni, Arte retrospettiva: Macrino d’Alba, “Emporium”, 47 (1918), n.277, pp. 22-33 con fotografie di Pietro Masoero.

[52] Si tratta di tre riprese presenti in stampe all’albumina sia  nell’Archivio fotografico della Soprintendenza torinese (NCTN 0100262376) sia nella raccolta di Giuseppe Pellizza (nn. 90-92),  cfr. Aurora Scotti, a cura di, Pellizza e la fotografia: il fondo fotografico. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2007, pp. 84, 158-159.

[53] Legge 12 giugno 1902, n. 185. – Sulla conservazione dei monumenti e degli oggetti di antichità e di arte.

[54] Goffredo Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna/ compilato per cura del professore G.C. Torino: Presso Gaetano Maspero librajo, Cassone Marzorati Vercellotti tipografi, 1833-1856. In particolare le voci relative ai comuni oggetto di questo studio sono così distribuite: Castelnuovo Scrivia, IV, 1837, pp. 200-220; Pontecurone, XV, 1847, pp. 584-587; Sale, XVII, 1848, pp.25-31; Tortona, XXIII, 1853, pp. 76-198;  Viguzzolo, XXV, 1854, pp. 364-365; Volpedo, XXVI, 1854, pp. 589-591.

[55] Cristiana Sertorio Lombardi, a cura di,  Il Piemonte antico e moderno delineato e descritto da Clemente Rovere. Torino: Reale Mutua, 1978, tavv. 3342-3350.

[56] Giacomo Carnevale, Descrizione dell’attuale Tortona, in Notizie storiche dell’antico e moderno Tortonese/ raccolte dal conte G. C.. Voghera: Tipografia di Cesare Giani, 1845, pp. 317-319, che costituisce il prototipo quando non la fonte non dichiarata di molte descrizioni successive.

[57] Corografia d’Italia, ossia Gran dizionario storico-geografico-statistico delle città, borghi, villaggi, castelli, ecc. della penisola, III: Lettera R-Z ; Appendice: aggiunte e correzioni. Milano: F. Pagnoni, 1854, pp. 510-515.

[58] Ariodante Manfredi, Le cento città d’Italia descrizione storica, politica, geografica, commerciale, religiosa, militare. II, Milano: G. Bestetti, 1872, pp. 515-521.

[59] Nel 1929 ne venne pubblicata una seconda edizione intitolata Tortona/ Eroina del Patrio Amore, n. 281, ancora con testi di Aristide Arzano, enfaticamente adattati al clima del tempo, e con foto di Ginocchio, Bellagamba, Pia e Ferretti.

[60] Strafforello 1890 con illustrazioni tratte da fotografie di: Castellani (Alessandria e Tortona), Ecclesia (Asti), C. Bruno (Castellazzo Bormida), N. Gabiani (Asti), Negri, (Casale Monferrato) e Cicala (Pontecurone, Castelnuovo Scrivia).

[61] Ricordiamo a tale proposito che né ad Alessandria né a Tortona venne dedicato alcuno dei 114 volumi de l’ “Italia Artistica”,  pubblicati dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche sotto la direzione di Corrado Ricci.

[62] Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, III  versamento,  II parte, busta 515, Uffici RegionaliPromemoria allegato a lettera del 27-09-1905.

[63] Sarà un’analoga fonte a celebrare anche il restauro del Castello di Castelnuovo Scrivia, condotto “in onore e gloria dei castelnovesi caduti nelle guerre dell’indipendenza”, come risulta da una cartolina di Aristide Fusetti, Milano (Stabilimento calcografico Fusetti, Passaggio Osii 2, Milano).

[64] Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il Comune e la Provincia di Torino, Archivio storico, OFU, Affari generali, Legislazione.

[65] Macchina fotografica 9×12 e obiettivo Goertz con chassis, borsa e treppiede (L. 233,00), Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il Comune e la Provincia di Torino, Archivio storico, Mastro per materie (…) degli oggetti mobili entrati o usciti relativamente all’inventario [1891 – 1939], 30  giugno 1911.

[66] Proprio nel 1919 Andrea Ginocchio, originario di Ovada, dopo il congedo e il  matrimonio aveva rilevato a Tortona, al civico 20 di Via Perosi, un precedente studio fotografico.  Nel 1931, a seguito dell’emanazione del  Regolamento della Legge sulle Professioni Sanitarie non Mediche emanata nel 1928, ottenne l’abilitazione a continuare ad esercitare “l’Arte di Ottico”. Nel 1936 l’azienda si trasferì nell’ attuale sede di Via Emilia 162; cfr.  http://www.gianni-rehak.it/253811634 [11-08-2015]

[67] Si veda ad esempio il saggio di Placido Lugano, I primordi dell’Abbazia Cisterciense di Rivalta Scrivia dal 1150 al 1300. Tortona: Rossi, 1916, estratto dal  “Bollettino della Società Storica Tortonese”, con disegni dell’ing. Piero Molli.

[68] Luigi Vittorio Bertarelli, Piemonte, “Guida d’Italia del Touring Club Italiano”. Milano: TCI, 1930, p.162.

[69] Piemonte; “Attraverso l’Italia”, I. Milano: TCI, 1930, p. 208. Anche nel 1939 il grande progetto storiografico ed espositivo messo a  punto da Viale avrebbe considerato per il Tortonese solo la Madonna col Bambino di Barnaba da Modena dalla Chiesa di San Matteo a Tortona, il trittico di Macrino d’Alba, e l’altorilievo di Volpedo; cfr. Vittorio Viale, Gotico e Rinascimento in Piemonte; catalogo della mostra (Torino, Palazzo Carignano).  Torino: Città di Torino, 1939, tavv. 15, 92,  213.

[70] Una copia di questa stampa è conservata presso la Fondazione Zeri di Bologna (n. 57988); sulla figura di Sansoni si veda  Redazionale, I nostri antenati, “AFT”, 3, (1987), n.5,  giugno, pp.44-45.

[71] Augusto Pedrini (1892 – 1970 post), avviò la propria attività come fotografo per le prime produzioni cinematografiche torinesi prima di aprire nel  1926 lo studio  di  Via Pio Quinto, 15-17 a Torino che gli consentì di segnalarsi come una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento. Oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di suoi contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”.

[72] In occasione del restauro degli interni e dei cicli affrescati sotto la direzione del Soprintendente all’arte medioevale e moderna, protezione bellezze naturali e passaggio Vittorio Mesturino, cfr. Manuela Mattone,Vittorio Mesturino, architetto e restauratore. Firenze: Alinea, 2005.

[73] Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico. Modena: Punto e virgola, 1979 (n. ed. Torino: Agorà, 1994; Torino: Einaudi, 2011).

[74] Vilem Flusser, Per una filosofia della fotografia. Torino: Agorà, 1987, p. 31. (n. ed. Milano: Bruno Mondadori, 2006) Può essere utile ricordare qui che già Walker Evans aveva definito l’apparecchio fotografico come “incredibile strumento di realismo simbolico”, Walker Evans, Photography, 1969, ora in Mike Weaver, ed., The Art of Photography 1839-1989. London: The Royal Academy of Arts, 1989, p. 301.

 

Un lungo sguardo (2013)

in  Fotografare le Belle Arti : appunti per una mostra: un percorso all’interno dell’archivio fotografico della Direzione generale delle antichità e belle arti, Fondo MPI Ministero della pubblica istruzione 1860 – 1970, catalogo della mostra (Roma, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, 10 Maggio – 28 Giugno 2013). Roma: ICCD, 2013, pp. 77-80

 

Una lunga teoria per meglio dire, conservando le plurime accezioni del termine, tra materialità e concetto, per rendere ragione della ricchezza testimoniale e culturale restituita dalle centinaia di migliaia di stampe che costituiscono questo fondo fotografico e di cui si presentano alcuni esemplari: quasi degli indizi. Più di un secolo di sguardi portati alle Belle Arti con intenzioni e modi, con pensieri diversi. Già solo la varietà dei temi, considerata cronologicamente, ci descrive quale sia stato il progressivo estendersi delle categorie considerate tra i beni della nazione, a partire da quegli Elenchi “di edifici pubblici di qualsiasi forma, sacri o profani […] i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali” di cui scriveva Cesare Correnti nel 1870, sollecitandone la redazione ai Prefetti[1] . In continuità con quell’iniziativa si collocava la prima sistematica ricognizione fotografica a scala nazionale avviata a partire dal 1878, opera sempre di operatori locali altamente qualificati, ai quali dobbiamo, in quel torno di tempo e magari per iniziativa personale, la ricchissima documentazione dei nostri centri ‘minori’, quelli storicamente esclusi dal repertorio canonico del Grand Tour. Quando il Ministero concepirà una nuova campagna, quella che darà forma all’Apulia Monumentale di Romualdo Moscioni nel 1892, l’impianto della ricognizione sarà concettualmente diverso, privilegiando ora l’indagine analitica di un territorio, passando quasi dal concetto di emergenza monumentale alla restituzione del tessuto archeologico e architettonico (non ancora paesaggistico) di un’intera regione. Furono questi, per quel che ci è dato di sapere sinora, alcuni dei materiali che alimentarono quella “Collezione fotografica di Belle Arti” del Ministero di cui ci parlano certi timbri al verso delle stampe, ma certo non i soli, o i primi, poiché la presenza di riprese di più alta datazione (come quelle relative a Roma e Venezia) testimonia una fase antecedente e suggerisce occasioni diverse di raccolta che non siamo ancora in grado di definire compiutamente.

In quegli anni i modi della rappresentazione contemplavano l’alternanza di vedute d’insieme e dettagli architettonici o d’ornato, con rare figure: sempre in posa. La loro presenza assumeva ragioni funzionali di riferimento scalare ovvero simboliche, di romantica meditazione sul fascino dell’antico e delle rovine, mentre solo più tardi, ormai alle soglie del pittorialismo, l’architettura medievale sarà trasformata in scenario per le gesta di una figura d’armigero (come ad Aosta). Il ricorso alla fotografi a era entrato a far parte delle buone pratiche degli interventi di restauro ben prima delle messe a punto normative: memore delle indicazioni di Viollet-Le-Duc[2] piuttosto che di Ruskin, il progettista dell’intervento sul Cortile del castello dei Pio a Carpi  richiese una doppia serie di riprese, metodologicamente rigorosa, che implicava la riproposizione esatta dello stesso punto di vista tanto quanto il rispetto del parallelismo tra i piani, qui ottenuto con i limitati mezzi di uno sconosciuto fotografo. Sono gli stessi anni, tra 1875 e 1877, in cui anche il Ministero raccomandava, in una circolare redatta da Cavalcaselle, di “far cavare una fotografi a prima del restauro” dei quadri più importanti, mentre un’analoga precauzione non sarebbe comparsa nel Regolamento ministeriale del 1879 in merito ai dipinti murali, alcuni dei quali furono oggetto nel decennio successivo di innovative letture fotografi che. Mentre la produzione dei grandi studi (da Alinari a Sommer) non offriva ancora esempi di ricognizione analitica dell’opera, semmai riprodotta limitandosi a seguire le scansioni interne dei cicli o alla ricerca del più accattivante motivo, nel lavoro di Pietro Boeri dedicato agli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo in Vercelli, del 1886, ci troviamo di fronte a una vera e propria lettura fotografica dell’opera e delle scene narrate. Le sessantaquattro immagini che costituiscono la serie restituiscono volti e gesti a un livello di dettaglio inattingibile dalla comune osservazione diretta, mentre danno conto dei modi e della tecnica del pittore, aprendo inedite possibilità d’indagine alla storiografia artistica come alle metodiche finalizzate al restauro, analogamente a quanto sarebbe accaduto con la campagna realizzata da Achille Ferrario sul Cenacolo leonardesco, riprodotto in scala 1:1 in una serie strabiliante di riprese di grande formato realizzate in previsione dell’intervento di Luigi Cavenaghi del 1907-1908, sviluppando la prima ricognizione condotta nel maggio 1895 per iniziativa dell’Ufficio Regionale lombardo. Resta aperta di fronte a queste produzioni la questione dell’autorialità: in quale misura essa debba essere riconosciuta al fotografo, alla sua sensibilità e accortezza professionale (e imprenditoriale) o se piuttosto non si debba (o almeno si possa) ipotizzare un suggeritore occulto, e magari un regista da ricercarsi necessariamente tra gli storici dell’arte (i primi in senso moderno, dopo la fotografia) o gli studiosi d’architettura. La questione non può che essere affrontata per singoli casi, attendendo la disponibilità di rilevanti messi di dati per provarsi a individuare tendenze: per ora ci sia sufficiente porre il problema. E aggiungerne un altro, forse più ovvio ma non più semplice, che riguardava (e riguarda ancora) la questione della riproduzione dei colori. Senza voler ripercorrere il dibattito ottocentesco sul tema, che in Italia data almeno da Macedonio Melloni (1839), ricordiamo come in questo ambito la presunta fedeltà riproduttiva del medium fotografico sia stata per tutto il XIX secolo (e oltre) ottenuta soprattutto facendo ricorso all’uso raffinatissimo del ritocco manuale, indispensabile per ovviare all’imperfetta resa tonale dei valori cromatici delle emulsioni fotografiche, progressivamente migliorata con l’aggiunta di sensibilizzatori ottici. Da qui le successive campagne di ripresa dei grandi atelier, che tornavano a distanza di anni a riprodurre le stesse opere con lastre e poi pellicole ortocromatiche e infine pancromatiche. In attesa del colore. Nei lunghi decenni della monocromia si perseguiva il miglioramento della resa tonale e della stabilità dell’immagine ricorrendo alle possibilità offerte dalle diverse tecniche di stampa (carta salata, albumina, carbone) o di intonazione (viraggio all’oro), accoppiate all’uso di lastre di grande o grandissimo formato, stampate sempre a contatto, mentre la spettacolare ripresa della volta di Santa Maria degli Scalzi a Venezia, venne realizzata intorno all’anno 1900 da Anderson con l’allora innovativa emulsione alla gelatina. Solo apparentemente più semplice si presentava il problema della rappresentazione della scultura: dopo gli entusiasmi antiaccademici e positivi di Ruskin, per il quale non si doveva avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni”[3]   o – in Italia – di Biscarra, che nella fotografia riconosceva l’opera “integralmente tradotta come attraverso ad uno specchio”[4], le successive generazioni di studiosi, cresciuti con la fotografia, erano ormai in grado di valutarne criticamente gli esiti considerando in particolare l’incidenza del punto di vista (di ripresa) nella restituzione corretta (non: oggettiva) dell’opera.  Wölfflin, certo, che nel 1896 si scagliava contro la “veduta ‘pittorica’ laterale” per privilegiare criticamente la ripresa dal “punto di vista principale”[5], inteso come quello stabilito dall’autore dell’opera. Solo pochi anni più tardi questa concezione ancora fiduciosamente neutrale del processo fotografico sarebbe stata corretta da uno specialista come Santoponte[6] , che richiamò l’attenzione sulla necessità di considerare criticamente la stessa strumentazione adottata, valutando in particolare l’ampiezza dell’angolo sotto il quale l’opera era ripresa, consapevole della necessità metodologica di far coincidere la “prospettiva geometrica” dell’obiettivo con la “prospettiva soggettiva” della percezione diretta. Resta per noi difficile comprendere se e in quale misura gli esempi di documentazione plastica qui presentati avrebbero potuto soddisfare le diverse sensibilità dei due studiosi. Forse entrambi avrebbero considerato con un qualche sospetto la magnificenza spettacolare della resa del gruppo dei Lottatori (Alinari) o del particolare michelangiolesco del capo di Giuliano de’ Medici (Brogi), sentendosi magari più prossimi alla semplice intenzione documentaria di Filippo Lais, che nascose con un’ampia e un poco sommaria mascheratura il contesto in cui era collocata la statua acefala di Afrodite. Il confronto tra queste realizzazioni, pur così diverse tra loro, e la ripresa fortemente scorciata del rosone del Duomo di Orvieto, morbidamente stampata alla gomma, fa emergere con lampante evidenza la distanza fotografica e culturale (registrata e certificata dalla cronologia) che separa queste produzioni. In quest’ultimo esempio la pura intenzione documentaria ha lasciato ormai posto all’interpretazione autoriale e si è ormai operato il ribaltamento: la fotografia (cioè la stampa) è l’opera mentre il soggetto arretra quasi a pretesto. Questa fotografia documenta (anche) altro: la concezione dell’immagine mostra la tensione irrisolta tra l’impostazione modernista della ripresa fortemente scorciata e una modalità espressiva ancora pittorialista, affidata alla stampa ai pigmenti. Nonostante il soggetto sia piegato e quasi sottomesso all’interpretazione autoriale, la fotografia mantiene però integro il proprio valore d’uso documentario, dice qualcosa a proposito dell’è stato della cosa fotografata. Una irriducibile referenzialità di cui dovevano essere ben consapevoli i fruitori coevi se l’accolsero tra i materiali dell’Archivio. Si muovono su questa linea fecondamente ambigua anche le immagini di paesaggio che chiudono cronologicamente questo breve excursus, testimoniando i nessi di una stagione della cultura e della storia italiane in cui la “questione del paesaggio”[7] , si affacciava come soggetto autonomo sia nella produzione fotografica divulgata dalle pagine de “La Fotografi a Artistica”, sia nel più ampio dibattito politico che avrebbe portato alla promulgazione della Legge 778 del 1922 sulla tutela delle “bellezze naturali”, comprese quelle “panoramiche”. Ancora una volta le immagini di quello che a buona ragione possiamo definire un genere ci interrogano sulla loro particolare natura di documento o – meglio – sulla complessità di questa accezione, in cui il puro referente non è che uno dei termini costitutivi, essendo l’altro rappresentato dalle forme culturali della sua manifestazione non meno che della sua ricezione, coeva e attuale. Così le pecore al pascolo che attraversano le paludi della tenuta di Coltano, che in quegli anni rappresentavano uno dei più forti e ricorrenti stilemi di quella fotografia “che sola merita il nome di Arte”[8] , sarebbero poi divenute oggetto degli strali della nuova generazione che si affacciava dalle pagine dell’annuario del 1943 di “Domus”, sospettosa certo anche nei confronti di una veduta come quella di Capo Miseno, costruita avendo ben chiari i modelli delle incisioni ottocentesche ma drammatizzata da un viraggio che accentuava il cielo corrusco di nubi, in un anticipo di tragedia.

 

 

Note

[1] Lettera di Cesare Correnti al Presidente dell’Accademia Albertina di Torino, conte Marcello Panissera di Veglio, datata 6 maggio 1870. Nella successiva, del 12 agosto, indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti”, avrebbe precisato come fosse “mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa.”, Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”.

[2] L’opinione che “la photographie présente cet avantage de dresser des procès-verbaux irrécusables et des documents qu’on peut sans cesse consulter”, espressa da Eugene Viollet-Le-Duc nella voce Restauration del suo Dictionnaire Raisonné de l’Architecture Française du XI au XVI siècle, VIII. Paris:Librairies Imprimeries Réunies, [1860], pp. 33-34, doveva essere ben nota e condivisa dall’ing. Achille Sammarini, responsabile del restauro.

[3] John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, II edizione. Sunnyside – Orpington, Kent:  George Allen, 1883, pp. 21-22.

[4] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica: Stabilimento Le Lieure in Torino,  “L’Arte in Italia : rivista mensile di belle arti”,2  (1870), IV, p. 58.

[5] Heinrich Wölfflin, Fotografare la scultura, a cura di Benedetta Cestelli Guidi. Mantova: Tre Lune, 2008.

[6] Giovanni Santoponte, Sulle applicazioni della fotografia all’archeologia, comunicazione presentata al III Congresso archeologico internazionale di Roma, 1912, ora in Id., Annuario della fotografia e delle sue applicazioni.  Roma: Casa Editrice Italiana, 1913, pp. 36-48 (38).

[7] “È lecito che il Parlamento rimanga insensibile e inerte, quasi non si accorga neppure che si sente e si agita anche in Italia, e più in Italia che dappertutto, una questione del paesaggio?”, Giovanni Rosadi, Per la difesa delle bellezze naturali, in Id., Difese d’arte. Firenze:  Sansoni, s.d. [1921], pp. 51-61 (55).

[8] Mario Tamponi, La Fotografia Artistica, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 1, gennaio, pp. 4-5.

Mostrare paesaggi ovvero  “La documentazione dell’inesistente”[1] (2003)

testo integrale per  L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, Galleria Civica di Modena, 23 novembre 2003 – 25 gennaio 2004) a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2003

 

La parte più nobile della fotografia italiana postunitaria aveva proseguito e consolidato, estendendola in misura mai prima immaginabile, l’esperienza indiretta della conoscenza visiva di luoghi e paesaggi avviata dai primi dagherrotipisti e poi dai grandi studi che si aprono nelle principali città d’arte italiane già intorno al 1850. A questo compito erano state chiamate anche le schiere sempre più nutrite di fotografi dilettanti, di amatori che (seguendo le suggestioni di Ruskin senza neppure conoscerne il nome) si erano assunti l’onere di documentare e illustrare  il “belpaese” anche nei suoi aspetti meno noti e celebrati, mentre le stesse municipalità si avviavano ad utilizzare lo strumento della fotografia per testimoniare le trasformazioni urbane in corso.  Si forma così quel “catalogo visivo” del patrimonio italiano cui miravano gli intelletti più accorti della cultura storico artistica nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo: da Camillo Boito ad Alfredo d’Andrade, da Giovanni Morelli a Corrado Ricci, sovente in piena consonanza con gli esponenti di maggior rilievo della cultura fotografica come Pietro Masoero e Giovanni Santoponte.

Un paese fatto di vestigia e paesaggi in cui schiere di poeti “hanno camminato molte volte”[2], e che rischia – già in quegli anni – di essere ridotto ad una rappresentazione omologata in cui “il luogo comune si trasforma in un ideogramma”[3], ma anche un paese che avvia la propria rivoluzione industriale e mostra orgogliosamente i ponti e le stazioni, i teatri,  le gallerie urbane e i cimiteri monumentali sempre più spesso citati dalle guide: l’immagine che così prende forma è quella che sulla scia dell’abate Stoppani, Gustavo Strafforello illustrerà nella serie regionale di volumi più retoricamente dedicati a La Patria[4], pubblicati a partire dal 1890 con un corredo di incisioni ricavate da fotografie, sovente ritoccate senza una precisa consapevolezza dei luoghi raffigurati, mentre Baedeker si affidava ancora alla sola efficacia della parola.

Mentre industrializzazione e urbanizzazione mutano il volto delle città,  gli esponenti più sensibili e curiosi della classe dirigente si fermano a osservare e testimoniare a futura memoria il mondo rurale che cambia, come sarà per Vittorio Sella e Domenico Vallino nelle vallate del Monte Rosa (1890) e – negli stessi anni – per la periferia e la campagna romane descritte da Giuseppe Primoli, incarnazione suprema del fotografo “irregolare” definito da Lamberto Vitali, “non legato a nessuna formula di meccanica uniformità e da nessuna schiavitù di mestiere [che] per posizione sociale e per cultura, era in grado di esercitare in modo tutt’affatto diverso la propria facoltà di osservazione.”[5]  Per Primoli la funzione di mediazione dell’esperienza che egli riconosceva alla sua sensibilità letteraria si riflette e corrisponde a quella necessità di cogliere l’evento, di porre  “una distanza in rapporto al presente”[6] per il tramite della rappresentazione fotografica che è – a  mio parere – il fondamento dell’estrema libertà e forza delle sue immagini, di quelle istantanee in cui lui stesso scopriva analogie non tanto con la più avanzata cultura visiva coeva, a lui ben nota per le costanti e qualificate frequentazioni parigine,  quanto con la sincerità e la verità delle rappresentazioni delle “peintures primitives “: quella “affettuosa, profumata castità di visione”[7] che caratterizza il suo uso dell’apparecchio fotografico e che trasmette senza sforzo apparente sottili elementi di lettura e giudizio, a volte affidati a notazioni quasi marginali, in altre ottenuti con un’orchestrazione bidimensionale degli elementi costitutivi che anticipa gli esiti più formalmente connotati della fotografia diretta (le bellissime Pecore al pascolo, 1890ca, col frontale della staccionata e gli animali disposti otticamente lungo le traverse come su un pentagramma costruttivista), ma sempre orchestrati per serie fotografiche raccolte su grandi cartoni in cui la singola immagine, per quanto accattivante non è che un elemento necessario del quadro complessivo.

Quello di Primoli è sovente paesaggio con figure, in cui i due elementi si compenetrano e giustificano a vicenda: il paesaggio è il luogo di quella figura, di quel tipo (mai un ritratto, ovvio), è il contesto necessario in cui collocare  lo svolgimento di un’azione che sensibilmente slitta dalla scena (Carro coi buoi ai Prati di Castello;  Buttero che sorveglia contadine che zappano, 1891ca; Contadina ad Ariccia, 1895ca) ancora ricca di debiti pittorici, alla rapidità dell’istantanea che blocca il gesto del Toro preso al laccio, 1890ca.

Nella sua intenzione descrittiva il mondo popolare  è lavoro e vita quotidiana, accettazione senza vagheggiamenti dello stato delle cose;  Primoli non sottostà alle mitologie dell’amico Michetti né al verismo verghiano[8], fenomeni che vanno invece inscritti – come il coevo richiamo classicista di Von Gloeden – in quella “attenzione nei confronti della cultura folklorica” – di cui ha parlato Luigi Lombardi Satriani – che “costituisce un tratto molto diffuso nella temperie culturale di quegli anni. La cultura italiana si avverte sempre più attratta da un altrove i cui tratti caratterizzanti delimitano variamente una topografia dell’immaginario”[9] identificato sempre come “spazio per l’idoleggiamento della semplicità”, che muovendo dalle prime reinvenzioni medievaleggianti si spinge poi verso l’oriente esotico o il mondo popolare extraurbano (a quello urbano pensava Bava Beccaris).

Nella rete di relazioni che lega, non solo personalmente, Primoli, Verga, Michetti e Von Gloeden le posizioni si fanno però distinte in rapporto al ruolo delle immagini e più specificamente all’uso della fotografia. Per Michetti[10] esso è – come noto – strutturale, inserendosi dapprima nel contesto più ampio delle diverse declinazioni del realismo e delle questioni connesse all’uso anche strumentale della documentazione fotografica, pur senza dimenticare la lezione di Luigi Capuana, per il quale  “l’artista non fotografa, neppure quand’egli stesso crede soltanto di fotografare”[11]. Si ripropone in questa lucida precisazione la questione del rapporto tra documentazione e interpretazione, chiave di volta non solo del dibattito in corso sul riconoscimento della possibile artisticità della fotografia, ma anche e più in particolare dei rapporti tra questa e la cultura verista, e ancora – in termini generali – del possibile esaurirsi della funzione artistica a favore della presunta oggettività della conoscenza scientifica, con l’apparecchio fotografico destinato a rappresentarne contemporaneamente il simbolo e lo strumento di attuazione. Anche il rapporto figura/sfondo che attira la critica letteraria verghiana e che viene riconosciuto come caratteristico della pittura ‘bidimensionale’ di Michetti, è anche un tema specificamente fotografico. Dopo la fatidica data del 1900 si assiste in Michetti al passaggio dalla fotografia come studio e repertorio al riconoscimento del valore della sua autonomia espressiva, in un ribaltamento delle gerarchie artistiche tradizionali che ha portato molti critici, specialmente nella prima metà del Novecento, a identificare negativamente questo passaggio come “crisi”, mentre sarà più corretto riconoscerlo come “scarto” e collocarlo in un pensiero segnato dal positivismo e dalla fascinazione per l’industrialesimo, dove l’urgenza del fare[12] che sempre lo aveva caratterizzato si traduce ora nel ricorso prevalente alla nuova tecnica, nella velocità di realizzazione come nell’accrescimento esponenziale delle immagini, fatte a macchina, per una produzione che si potrebbe definire potenzialmente seriale e quasi “a catalogo”[13]. Se solo portiamo alle conseguenze ultime l’interpretazione e il senso di quel suo sistema di codici e rimandi che legava fotografie e bozzetti, vediamo come l’operare dell’ultimo Michetti prefiguri questioni centrali dell’estetica e della produzione artistica del secolo che si apriva.

A questa trasformazione produttiva corrisponde all’abbandono dei temi demologici, la perdita di interesse per i contenuti narrativi a favore dell’indagine compositiva e formale, coloristica anche (mediante l’uso delle autocromie), mentre emergere il paesaggio come tema autonomo, indagato nelle sue componenti strutturali e minute, per orizzonti chiusi, “quasi che l’occhio meccanico michettiano si affidi al tatto, divenga – come ha riconosciuto Renato Barilli – lo strumento delegato a realizzare un corpo a corpo.”[14]

Al “grande artista che così mirabilmente consacrò sulla tela la sua terra natia” aveva guardato esplicitamente nei primi anni della sua attività anche Wilhelm von Gloeden, che proprio da Michetti aveva ricevuto vividi apprezzamenti per i suoi “primi modesti lavori fotografici”[15]. Sono gli anni intorno al 1880,  quando il fascino delle “classiche contrade della Sicilia” lo spinge a “rivivere fra i pastori arcadici e Polifemo”, a costruire una sua propria mitologia, per molti versi derivata e parallela a quella del pittore abruzzese, nella quale  evocazioni simboliste e cultura omosessuale si intrecciano indissolubilmente con le suggestioni più diverse, da Mariano Fortuny a Lawrence Alma Tadema, per mettere in scena un’ arcadia classicheggiante  che presenta analogie con i tableaux vivants cristologici di un autore coevo come Fred Hollad Day[16], ma che si rivela anche piena e ricca di elementi di acuta comprensione demologica[17]. Ciò che qui interessa sottolineare è che questo bagaglio di rimandi e suggestioni, questa “congerie di istanze culturali, umane ed estetiche”[18] non sia mai intesa da Von Gloeden come soluzione puramente stilistica, orientata alla conquista di un presunto valore “artistico” per le proprie immagini: suo scopo è di “far rivivere nell’opera fotografica i sentimenti che [l’autore] provò davanti alla natura”, senza fare ricorso “a esagerazioni che non possono essere approvate [quali] i formati giapponesi più strani, l’imitazione di pitture antiche o moderne, gli ingrandimenti confusi ricavati da piccole negative, la grana eccessiva e numerosi altri artifici cui oggi in fotografia si ricorre”[19], perché – dice Von Gloeden – “io non ho mai creduto necessario che la fotografia per elevarsi debba rinnegare la sua origine.” Insomma un rifiuto netto e circostanziato degli espedienti e dell’estetica pittorialista, e una presa di posizione che ci consente di non incorrere in equivoci in merito alle intenzioni se non agli esiti della sua poetica: nel rifiuto di ogni imitazione, dallo sforzo  di far “rivivere e sognare la Sicilia pastorale” (Anatole France[20]) prende forma quella sua aspirazione all’atemporalità del classicismo che è costretta a misurarsi con la temporalità ineluttabile della fotografia.  Da qui nascono queste immagini di un “genere spietato”, in cui “tutto lo sfumato sublime della leggenda entra in collisione (…) con il realismo della fotografia”[21], producendo un corto circuito in cui Von Gloeden riconosce la derivazione genealogica, l’identità letterale (e non letteraria) tra le figure modellate dalla mitologia  e l’umanità terragna dei giovani contadini taorminesi. In questa tensione trova la propria collocazione necessaria il paesaggio, sia – più raramente – come presenza autonoma sia nella sua funzione di elemento di definizione della figura, intriso degli stessi valori delle figure che lo animano: quasi fondale oleografico nelle immagini dedicate ai pescatori (debitrici dei “tipi” della fotografia ottocentesca, da Bernoud a Sommer) o luogo della quotidianità come della drammaticità della cronaca (terremoto di Messina e Reggio, del 1908) diviene, nella sua produzione più nota, sostanza e scena della celebrazione della mediterraneità primigenia, vista con gli occhi di un artista che si autorappresentava pensando a Dürer.

Ragioni affatto diverse portano al confronto col paesaggio un autore coevo come Francesco Negri, e più tardi Giuseppe Gallino, qui considerato quale rappresentante particolarmente significativo della selezionata pattuglia di fotografi che subisce il fascino delle autocromie Lumière. Non che Negri non lo avesse mai affrontato prima di quel 1901 in cui si misura con la difficoltà tecnica delle tricromie, ma qui – appunto – il senso e le ragioni della scelta risiedono principalmente nei vincoli imposti dal procedimento; si direbbe anzi che da questi possa essere derivata non solo la scelta del tema ma anche del luogo: ritorna infatti a indagare quel paesaggio fluviale e collinare che segna i dintorni della sua città (Casale Monferrato) e che tante volte ha già descritto e studiato, nello sforzo tutto positivo di annodare le fila di tutte le trame che costituiscono un territorio, in anni in cui si avviano in Italia le prime riflessioni in merito alla tutela del paesaggio[22]. Ora  la novità dirompente, assoluta, oggi incommensurabile è il colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel (Lippman, 1908). L’assunzione del tema non ha in queste prove di Negri nulla di ideologico:  il soggetto è imposto, quasi  ineluttabile nel momento in cui ci si voglia misurare col colore (insieme, non a caso, alla natura morta). Certo, stabilito questo, nella determinazione dell’inquadratura e nella costruzione generale dell’immagine influiscono e rientrano suggestioni e stimoli visivi e culturali precisi, sguardi educati a vedere secondo canoni determinati, non casuali. Ciò che più attira e colpisce l’attenzione dei contemporanei è però la novità dell’applicazione, il passaggio dalla sperimentazione di laboratorio al plen-air, quel suo essere “il primo credo, [che] dalla natura morta osò riprodurre a colori la natura aperta come un’aiuola di viole del pensiero e un canale del Po con effetto di tramonto (…) sintesi di un lungo e paziente lavoro, il quale lascia dietro di sé un enorme sciupio di lastre, pellicole e colori[23], come sottolinea Masoero nel presentare le tricromie di Negri in mostra all’Esposizione torinese del 1902, avvio di una pratica che solo negli ultimi decenni del Novecento avrà il sopravvento.

Tanto il metodo interferenziale di Lippmann costituiva – nelle sottili parole dei Lumière – “una meravigliosa esperienza di laboratorio e una elegante conferma della teoria fisica della luce” priva però di qualsiasi utilità pratica, tanto la nuova tecnica dell’autocromia da loro messa a punto nel 1904 e commercializzata tre anni dopo forniva la prima soluzione praticabile su larga scala al problema della fotografia a colori. Lo schermo tricromo in fecola di patata attirò da subito numerosi fotografi, specialmente in area piemontese (Masoero, Pia, Tournon, Vercellone, solo per citarne alcuni) non solo per il fascino divisionista della grana colorata di queste immagini (certo prossimo a Pellizza, a Morbelli), ma anche e soprattutto per le possibilità offerte di affrontare con strumenti linguistici nuovi un tema con cui la fotografia artistica si era a lungo misurata e che continuava ad essere considerato centrale anche nei primi decenni del Novecento.

Mentre il trattamento del paesaggio che si afferma prepotentemente negli anni della “Fotografia Artistica” predilige i toni bassi e brumosi (fontanesiani quasi), qui insieme al colore entra in gioco la luce, meglio ancora la luminosità che poteva essere restituita in tutte le sue gradazioni al momento della visione per proiezione delle autocromie. Mostrano bene questa attenzione inedita per le modulazioni cromatiche, slegate quasi da ogni vincolo narrativo e per questo lontane da quella “sentimentalità di un colorismo kitsch” che tanto preoccupava Lazlo Moholy-Nagy[24], i paesaggi alpini di Giuseppe Gallino,  esponente poco noto[25] di quella diffusa cultura piemontese che coniugava passione per la montagna e fotografia. Disegnatore, pergamenista e miniaturista, Gallino mostra nelle sue immagini di essere perfettamente aggiornato sulla pittura piemontese coeva, da Giuseppe Bozzalla (Il torrente d’inverno, 1910,  GAMTO) a Cesare Maggi, di poco più giovane, e ai suoi paesaggi innevati della metà degli anni Venti che vivono delle stesse suggestioni delle autocromie, mentre le luci calde a cui ricorre in altre riprese rimandano alle stagioni immediatamente precedenti. Nelle sue opere un solo tono satura l’immagine: solo bianchi invernali, le infinite gradazioni verdi o rossastre dei boschi nelle diverse stagioni. Solo raramente si preoccupa di articolare lo spazio per piani, di costruire una profondità che richiami l’idea di paesaggio come panorama, per restituire invece un effetto di superficie coloristica, non di rado racchiusa in un profilo centinato che riprende i modi della messa in cornice pittorica, ampiamente utilizzati anche da altri autori (si pensi a Cesare Schiaparelli o ad Andrea Tarchetti) fedeli ai modelli autorevoli proposti  sulle pagine de “La Fotografia Artistica”.

Non ha qui senso ripercorrere le ragioni e i termini del pittorialismo in tutte le sue differenti declinazioni; basti richiamarne l’allontanamento programmatico dalla realtà fattuale che lo segna a  livello internazionale e di cui costituiscono indizio rivelatore non solo elementi apparentemente secondari come il profilo di una cornice,  ma anche e specialmente il manipolare le apparenze analogiche di ogni fotografia, la tensione alla perdita di ogni vincolo di meccanica referenzialità.  È in questo contesto che nel secondo decennio del secolo si genera quello scarto drammatico tra la cultura fotografica di riviste e salon e lo scenario politico e civile che procederà in Italia, pur con ragioni successivamente diverse quasi sino agli anni del secondo dopoguerra.

Mentre si moltiplicano le scene arcadiche e crepuscolari guerra e fotografia si alleano per  offrire alla vista immagini sconosciute del mondo: non solo – come ha riconosciuto Diego Leoni elaborando un pensiero di Merleau Ponty – si amplia e si ridefinisce la “appropriazione del campo di percezione entro il quale l’oggetto del contendere si sarebbe definito visivamente e politicamente”[26], ma alla rappresentazione prospettica terrestre di tradizione rinascimentale si affianca e si sostituisce in parte una visione verticale e planimetrica; l’immagine fotografica si approssima all’astrazione cartografica conservando però intero il proprio carico di referenzialità[27]. Per questa sola ragione la ripresa aerea contribuisce a formare in modo nuovo l’esperienza comune del paesaggio e più in generale dello spazio, già toccata dalle modificazioni indotte dalle grandi invenzioni ed elaborazioni teoriche dei decenni a cavallo tra Otto e Novecento. Come ha riconosciuto Gertrude Stein riflettendo sull’opera di Picasso “il Novecento è un secolo che vede la terra come non l’ha mai veduta nessuno[28], la terra quindi ha uno splendore che non ha mai avuto. Nel Novecento tutto si distrugge e niente continua, il Novecento quindi ha uno splendore tutto suo. Picasso è di questo secolo. Ha la singolare qualità di una terra che nessuno ha mai veduto, di cose distrutte come non sono mai state distrutte.”[29] Lo statuto di queste fotografie è, ancora una volta, ambiguo e ciò determina conseguenze importanti sul loro impatto estetico[30]: certo esse costituivano – secondo la bella definizione di Giovanni Battista Trener, tra le figure più rilevanti del pionierismo dell’aerofotografia italiana –  la registrazione delle “impronte della guerra”[31], consentendo di raffigurare qualcosa di altrimenti invisibile come il campo di battaglia[32], ma la precisa formalizzazione ottico geometrica della rappresentazione ne riduceva anche drasticamente il campo di riconoscibilità al di fuori dell’analisi specialistica. Negando ogni confronto e il conforto che nasce dall’esperienza comune e diretta, questo terribile Paesaggio di rumori di guerra che  Depero descrive nel 1915 (oggi al Mart di Rovereto)  si trasforma in figura astratta e impone suggestioni nuove, fondamentali per la ridefinizione del linguaggio visivo e fotografico degli anni successivi al primo conflitto mondiale.é appena il caso di richiamare qui l’interesse o la vera e propria passione per le riprese aree in due architetti fotografi come Pagano e Carlo Mollino, mentre Moholy-Nagy ricorre alla “Fotografia aerea di una piazza” per la sceneggiatura tipofotografica di Dinamica della grande città, stesa nel 1921-22 con Carl Koch[33], e Antonio  Boggeri  nel 1929 annovera tra le possibilità di costruire una nuova visione “lo spostamento del punto di vista dell’obiettivo: in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari”[34].

Questa notazione destinata a diffondere  in Italia il verbo del modernismo fotografico, apparve – come noto – sulle pagine dell’annuario Luci ed Ombre, testimonianza della volontà di apertura del gruppo redazionale, di stretta formazione pittorialista, e ulteriore conferma della contraddittoria vitalità di quel “laboratorio” torinese che si avviava a perdere il proprio primato: luogo di una cultura fotografica sempre più autoriferita e sterile, che si sclerotizza nella sua settorialità mentre la ben più viva realtà milanese si apre ai confronti con discipline diverse, dall’architettura alla pubblicità, e per questi tramiti si misura con gli esempi più alti della cultura visiva e fotografica internazionale.

Anche un autore di grande prestigio internazionale e di solida formazione analitica e positiva come Vittorio Sella si misura con le suggestioni tardopittorialiste durante il viaggio in Algeria e Marocco fatto nel 1925: ne ricava stampe morbide, di medio formato e virate in tono caldo, le sole ad essere ospitate sulle pagine del “Corriere Fotografico” e poi di Luci ed Ombre[35] e le ultime sue ad essere note al pubblico, prima del suo definitivo allontanamento dalla pratica professionale[36]. Sono immagini che vanno considerate quale avvio di una più ampia fase, che comprende anche la  ristampa di negativi realizzati alcuni decenni prima e ora trattati con viraggi semplici (blu, rossastri) o a doppio tono, sino alle colorazioni parziali e alle sbianche utilizzate nelle stampe realizzate per conto di altri autori quali Mario Piacenza e i fratelli Gugliermina, in cui risulta evidentissimo l’interesse per la pittoricità del gesto e dell’esito, lontani da ogni intenzione di verosimiglianza, poiché non era certo un maggiore effetto di realtà che interessava Sella in quegli anni, come dimostra indirettamente il fatto che non abbia mai realizzato (per quanto sinora noto) fotografie a colori. Questi ricordi di un viaggio finalmente familiare, sempre in bilico tra ricordo e autonoma ragione espressiva  più che un’anomalia nel percorso dell’autore devono essere considerati l’avvio di un riemergere di quella passione pittorica che aveva toccato il giovane Sella, ora pienamente accettata e accettabile, compresa e coerente com’era al gusto medio della fotografia italiana tra le due guerre, illustrato dall’importante serie di mostre che si susseguono in Italia a partire dal 1923 (Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia a Torino, a cui partecipano anche Drtikol e Rodcenko, sostanzialmente ignorato) e poi ancora a Monza nel 1927, mostra che doveva “rappresentare il contributo italiano alla Pictorial Photography”[37], mentre a Stoccarda – solo due anni dopo si sarebbe aperta Film und Foto,  la grande esposizione che segnava la maturità espressiva delle avanguardie fotografiche internazionali.

Il distacco dalle contingenze del reale non rappresenta, per molti degli autori di questo periodo, solo una sommaria adesione al neoidealismo, in un intreccio di ragioni che coniuga la reazione al materialismo ottocentesco con l’aspirazione all’arte fotografica (pur messa in dubbio da Benedetto Croce): i riferimenti ideali e astorici, il ripiegamento sui valori intimisti delle piccole cose, costituiscono un contraltare alla dura realtà politica e civile del paese e alla retorica roboante del regime; anche così si  giustifica in parte la produzione di quegli anni, il rifiuto generalizzato per quanto non esclusivo delle suggestioni provenienti dalle ricerche internazionali.

“A Sandro G.G. [Galante Garrone], per ricordargli, di fronte al brutto passeggero, il bello eterno”[38] recita il testo di una dedica (datata 1934) di Domenico Riccardo Peretti Griva,  uno degli autori più rappresentativi di questa stagione e membro autorevole di numerosissime giurie fotografiche in cui si celebrano “i candori squisiti di «purezze alpine» (…) il misticismo delle buone donnette del villaggio che, nella tregua della dura fatica dei campi, vanno alla bianca chiesetta, bianche esse pure nel sole che inonda le vicine messi.” [39] , mostrando come fosse possibile e quasi  naturale coniugare retorica passatista e fascinazione per il modernismo del tono alto delle immagini. Come ha rilevato Marina Miraglia[40], in quelle occasioni Peretti Griva elabora il concetto, poi ripreso da Mollino alla fine del decennio successivo, del prevalere dell’efficacia comunicativa sulla modalità di realizzazione, sullo stile: “io non vado cercando nei lavori fotografici il mezzo usato per ottenere l’effetto (…) io non faccio differenza fra ottocentisti e novecentisti, fra romantici e realisti”[41] afferma Peretti Griva,  che ancora anni dopo dirà “io non intendo sollevare discussioni sulla tecnica fotografica, né, tanto meno, ho la pretesa di sostenere la superiorità del procedimento (bromolio-trasferto), che io soglio praticare, su quello comune al bromuro.”[42] Sarà questa onestà di intenti, l’apertura critica mostrata e per certi versi palesemente contraddetta dalle sue scelte stilistiche, a giustificare la sua presenza a chiudere, con Sole nel cortile, l’Annuario di Domus del 1943, dopo una tesissima e ampia sequenza ultramodernista (pp.188-203); presenza che segna le incertezze e contraddizioni dell’intera operazione[43], ma certo non inserita “quasi per una svista”[44] se lo stesso Mollino riconosceva in lui pochi anni dopo un “artista tra i pochissimi dove l’atmosfera avvolgente di questa pericolosa tecnica fotografico-pittorica  giunge all’evocazione di un autentico mondo di poesia.”[45]

In quella che si definiva Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia  Peretti Griva è il solo rappresentante del gruppo di torinesi vicini al “Corriere Fotografico”, cui anzi sembrano indirizzati implicitamente gli strali più polemici di Scopinich[46]. Risulta quindi assente su quelle pagine anche un autore internazionalmente noto[47] come Cesare Giulio, sebbene la fotografia a tono alto sia rappresentata da un altro torinese come Enrico Giorello (p.39), e dai trentini Aldo (p.80) ed Enrico Pedrotti (p.56)[48], che nei ritratti anticipa Vender. Giulio era stato tra i primi ad adottare coerentemente e sistematicamente questa soluzione stilistica, a partire almeno dalla seconda metà degli anni Venti: “abbacinati paesaggi di neve”[49] quasi sempre  privi di sviluppo prospettico, modellati per superfici pure, segnate da impronte e scie che si trasformano volentieri in texture, immagini in cui la tendenza alla costruzione della pura forma, astratta, è confermata anche da certi titoli suoi (Armonie invernali, 1925; Trasparenze, ante 1932) e di altri autori[50] a lui prossimi come Carlo Baravalle (Sinfonia della neve, 1927)  e Stefano Bricarelli (Tracce, 1932). Questa economia di mezzi, questa riduzione ai minimi termini dei segni e dei toni, l’assenza di manipolazioni in ripresa e in stampa pur nella ricerca ostinata di una artisticità dell’immagine rappresentano, più che il superamento, una soluzione alternativa al pittorialismo imperante, la scelta di altri modelli di riferimento, di altre suggestioni quali la grafica giapponese. L’eliminazione del volume prospettico in favore della risoluzione e dell’esaltazione della superficie, l’adozione del tono alto portano a fondare il proprio bagaglio espressivo sulle pure potenzialità delle modulazioni luminose, intrecciando il proprio con altri percorsi coevi sebbene distanti: basti qui ricordare ancora Moholy-Nagy, che utilizza sequenze di sciatori e scie tratte dal testo Wunder des Schneeschuhs di Arnold Fanck e Hannes Schneider[51] e i toni alti delle fotografie di fiori di Imogene Cunningham che proprio il “Corriere Fotografico” pubblica nel 1931.

Tra misticismi, purezze alpine e mondi di poesia la fotografia artistica si prodiga di fatto per ottenere quell’occultamento sistematico del reale cui tendeva, pur con intenti e strumenti opposti anche quella più propriamente di regime e di propaganda; “grande e infamante occasione”  per la fotografia italiana l’ha definita Giulio Bollati, chiamata e votata a “documentare l’inesistente” in un senso certamente meno poetico di quanto avesse potuto intendere Emanuele Sella nel 1922[52].

È quello che è stato definito “periodo d’oro dell’arcadia fotografica”[53], ma la prospettiva troppo prossima da cui tale giudizio era stato formulato oggi va in parte rivista, riconoscendo una varietà di posizioni e di effetti, una complessità di situazioni che trova il proprio interesse proprio nella ricchezza della sua articolazione.

Così, per rimanere ancora a Torino, accanto a Peretti Griva e Giulio si muove in un isolamento quasi assoluto e caparbio, forse imposto, Mario Gabinio che all’avvio degli anni Trenta impone uno scarto radicale e stupefacente al proprio guardare, ribaltando il realismo analitico della sua formazione ottocentesca in una nuova visione perfettamente aggiornata, senza pagare alcun dazio alla maniera pittorialista. Superate le indagini sistematiche sul patrimonio architettonico aulico e sulle strade della città quadrata, Gabinio si dedica alla ricognizione, non senza intenti celebrativi, degli “elementi che caratterizzano oggi la città (…) capitale dell’industria, ricchissima di forze plastiche moderne”, secondo la definizione del pittore Fillia[54].  Sono i lavori per il primo tratto di Via Roma (1931-1933) ad attirare la sua attenzione, intento ad indagare gli spazi di questa città “deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi”, per riprendere le parole che  Benjamin dedica nello stesso 1931 alla Parigi di Atget[55]; è la costruzione dello stadio, sono le dotazioni infrastrutturali che ridisegnano lo spazio delle periferie, affrontate circa negli stessi anni con declinazioni diverse anche da Stefani e da Pagano. È lo scenario della città nuova, che conquista alla propria vita il tempo modernista della notte, attraversata a Parigi da Brassai e Kertesz, con i selciati bagnati di pioggia che avevano affascinato Stieglitz ormai più di tre decenni prima, e che ora costituiscono per Gabinio l’occasione estrema per confrontare il proprio racconto fotografico la “nuova cultura della luce”.

La cultura fotografica che qui emerge non è di certo quella dei Salon o degli annuari, piuttosto quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che nel maggio del 1932 ospita l’importante Discorso sull’arte fotografica  del direttore Gio Ponti, che riconosce alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio“.[56]

I fermenti e le contraddizioni di questa stagione della fotografia italiana si traducono in sincretismo nelle prime produzioni di Bruno Stefani, attivo dalla seconda metà degli anni Venti, che oscilla tra una visione ancora tardo pittorialista della periferia milanese (Effetto di nebbia/ Riflessi Parco Lambro, 1930) e la dolorosa tensione grafica di Alta tensione, una cui versione più edulcorata sarà pubblicata in Luci e Ombre del 1932 (tav.10). è questo il periodo in cui, oltre a svolgere un ruolo fondamentale nella definizione dell’immagine della Montecatini, avvia la collaborazione con il TCI per la collana “Attraverso l’Italia” di cui Stefani fornirà la parte anche quantitativamente più rilevante dell’apparato iconografico, contribuendo a definire l’immagine del Bel Paese nella prima metà del Novecento, aggiornando e sostituendo in parte i modelli Alinari, ma contribuendo a sua volta a definire nuovi stereotipi narrativi, costruiti per reiterazioni di schemi compositivi in un contesto in cui “la committenza e la destinazione di queste fotografie diventano un motivo unificante al di là della dislocazione geografica.”[57] Sono immagini in cui una cultura fotografica ampia e aggiornata è di volta in volta posta al servizio della risoluzione più efficace e formalmente soddisfacente del tema affrontato, accogliendo via via le suggestioni astrattiste di Giulio e i grafismi di gusto Bauhaus come le forme più mature del pittoricismo, aggiornato dall’uso del colore, portate a volte a convivere nella stessa immagine. Dall’enorme quantità di immagini prodotte e raccolte per la realizzazione della collana viene ricavato nel 1956 “un estratto quintessenziale di quell’immenso patrimonio di bellezza” come lo definì Cesare Chiodi, presidente del TCI, un’antologia dell’Italia in 300 immagini che costituirà per la generazione attiva dagli anni Settanta “un modello sbagliato [ma] che aveva una sua compattezza, era nell’insieme interessante, era – nel giudizio di Ghirri – un libro di immagini «basse», volutamente «basse». Il modello era sbagliato perché era la riconferma dello stereotipo ma, d’altra parte, per quel periodo (…) era il massimo che si poteva fare.”[58]

Sul fronte meno immediatamente legato alla pratica professionale la situazione si presenta diversa: già Turroni aveva notato come “la fotografia italiana degli anni 1930-40 è nelle mani degli architetti e dei futuri registi di cinema, oltre che dei professionisti di studio. Gli architetti di Milano sono raccolti intorno alla rivista Domus (…) Non si può tracciare un panorama dell’estetica fotografica di ieri e di oggi senza tener conto di Fotografia della Domus”[59] , diretta da Ponti, ma certo vanno ricordati anche gli interventi e il ruolo centrale di Edoardo Persico in “La Casa Bella” (con la direzione di Giuseppe Pagano dal 1933), così come il ruolo svolto da un altro periodico non settoriale come “Natura”, su cui pubblicano Pagano e Stefani, che nel 1930 bandisce un concorso “onde stimolare anche in Italia la produzione di fotografie artistiche con novità di soggetti a carattere essenzialmente moderno.”[60] Attorno a queste riviste milanesi si concentra la più avanzata ricerca fotografica italiana, vivificata dalle relazioni strette con la migliore cultura architettonica e grafica del momento, in una fase della vita nazionale in cui la pratica del consenso si sviluppa oltre che  con metodi coercitivi e violenti anche con un uso accorto e spregiudicato dei mezzi di comunicazione, non ultimo il massiccio ricorso ad enormi fotomosaici e fotomurali nell’allestimento delle grandi esposizioni, a partire da quella celebrativa del decennale, nel 1932.

Nell’ambito della Mostra internazionale di Architettura della Triennale di Milano (maggio-ottobre 1936) si tiene la  Mostra di architettura rurale, risultato di un’indagine “intrapresa con lo scopo di dimostrare il valore estetico della sua funzionalità[61] che costituisce l’occasione per Giuseppe Pagano di avvicinarsi alla pratica fotografica. Obiettivo dell’indagine condotta con Guarniero Daniel è “la conoscenza delle leggi di funzionalità e il rispetto artistico del nostro imponente e poco conosciuto patrimonio di architettura rurale sana ed onesta, [che] ci preserverà forse dalle ricadute accademiche, ci immunizzerà contro la rettorica ampollosa e sopratutto ci darà l’orgoglio di conoscere la vera tradizione autoctona dell’architettura italiana: chiara, logica, lineare, moralmente ed anche formalmente vicinissima al gusto contemporaneo.”

Questa lucida analisi di matrice funzionale, razionalista coniugata con suggestioni diverse, presenta significative analogie con quanto si andava elaborando – pur ad un livello più schematico – in contesti prossimi quali la pubblicistica fotografica; basti il confronto con l’editoriale del primo numero dell’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, pubblicato a Torino nel luglio del 1933, che definisce la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire”, mentre Luigi Andreis poco oltre  descrive “la moderna fotografia, schietta, serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale”, rivelando infine la comune matrice nazional-popolare sottesa, che si traduce in richiamo esplicito alle direttive di Mussolini espresse nel discorso di inaugurazione della Mostra d’arte del Novecento Italiano nel 1926. Una comprensione strutturalmente lontana da quella prestata negli anni Venti ai temi e ai nessi della cultura popolare italiana da geolinguisti ed etnografi come Ugo Pellis o Paul Scheuermeir[62], sebbene anche Pagano avesse consapevolezza della necessità di riconoscere e considerare le relazioni tra condizioni socioeconomiche, contesto ambientale e forme architettoniche.[63]

La sua ricerca fotografica prosegue per poco meno di un decennio, sino alla prematura morte nel campo di concentramento di Mauthausen nel 1945 (dove muore anche Gian Luigi Banfi), articolata per temi, perfettamente scanditi e riflessi nell’organizzazione del suo archivio, in cui il paesaggio nelle sue diverse declinazioni e componenti, anche geografiche, assume un ruolo rilevante. Sono immagini in cui i canoni della composizione modernista, la geometrizzazione spinta ai limiti dell’astrazione  sono sempre intesi e coerentemente utilizzati quale strumento di comprensione analitica del reale, destinati  ad assumere “il valore di uno stile. Stile fatto di rapporti di chiaroscuro, di cadenze prestabilite, di assoluta dedizione all’irreale realtà della fotografia, e soprattutto tecnica di una nuova notazione pittorica: nitida, acuta, inesorabilmente obbiettiva e pur tanto poetica nella sua meccanica semplicità.”[64]

La rilevanza del ruolo svolto dalla cultura architettonica di area milanese nella definizione del carattere della fotografia italiana che si era avviato sin dai primi anni Trenta si conferma e si consolida nel decennio successivo, in un intrecciarsi di relazioni personali che resistono alle differenze ideologiche: la pratica fotografica e la passione per il cinema univano Pagano a Luigi Comencini, tra i primi commentatori delle sue fotografie, ma anche con i più giovani Enrico Peressutti e Gian Luigi Banfi (entrambi membri dello studio BBPR e redattori di “Quadrante”), Pier Maria Pasinetti  e Alberto Lattuada, che nel 1940 aveva pubblicato su “Corrente” una recensione di American Photographs, 1938, di Walker Evans[65].  Li unisce, in un momento di profondo e drammatico ripensamento ideologico, una concezione realista dello spazio esistenziale in cui – per dirla con Lattuada – è “sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose. La presenza dell’uomo è continua; e anche là dove son rappresentati oggetti materiali, il punto di vista non è quello della pura forma, del gioco della luce e dell’ombra, ma è quello dell’assidua memoria della nostra vita e dei segni che la fatica di vivere lascia sugli oggetti che ci sono compagni.”[66] 

Bel pensiero con echi pavesiani  che Pagano può condividere, ma di cui si faticherà a trovare traccia nella successiva rilevante occasione di affermazione e bilancio della fotografia italiana: l’annuario che E. F. Scopinich cura nel 1943[67] ancora per l’Editoriale Domus in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner. Fotografia esce a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di Luci ed Ombre (1934), che ne costituiva di fatto il precedente editoriale (ma non ideologico) e rappresenta la sintesi compiuta del dibattito e della svolta modernista, timidamente avviati dal “Corriere Fotografico”, poi proseguiti e affinati sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, nonché col contributo fondamentale di Ponti,  Persico e dell’editore Gianni Mazzocchi. La qualità della riflessione qui si fa però più incerta, sin dalle prime valutazioni iniziali sullo stato della fotografia italiana, considerata “giovane” da Scopinich e invece matura, tecnicamente e artisticamente da Mazzocchi. La logica del progetto segna poi un sostanziale ripiegamento, tutta rivolta com’è al chiuso mondo del puro esercizio fotografico, alla sin troppo ovvia messa in discussione di quelle “tre  generazioni di fotografi [che] hanno svolto per anni il tema delle pecore al pascolo (…) senza preoccuparsi del mondo, della vita (…) della rivoluzione prima e dell’evoluzione poi, dei valori etici e morali della nostra cultura”[68], con un richiamo ormai politicamente fuori tempo massimo, nel 1943.

Come era già accaduto al tempo del primo conflitto mondiale sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, anche le pagine di questo annuario non ci dicono quasi nulla di ciò che stava accadendo in Italia e nel mondo; solo alcune riprese dell’Istituto LUCE richiamano la drammaticità del momento, mentre Scopinich si prodiga a giustificare un poco maldestramente l’incerta poetica delle scelte.[69] Ritroviamo in quelle pagine molti degli autori da noi considerati: da Pagano a Peressutti[70], da  Peretti Griva a Stefani e Federico Vender, che tra le altre pubblica una Natura morta a colori che risulta essere la versione un poco maldestra de La fourchette di Kertesz, del 1928. Vender[71] rappresenta in quegli anni un’altra delle figure di rilievo dell’ambiente fotografico milanese, contiguo ma non coincidente con le posizioni espresse dal gruppo che ruotava intorno all’Editoriale Domus.  Uno degli autori più rappresentativi e considerati del panorama italiano, ben noto anche a livello internazionale almeno dal 1934, anche lui vicino alla cultura architettonica razionalista per il tramite del fratello[72] e direttore dal 1939 di quel Circolo Fotografico Milanese cui apparteneva anche Stefani, Vender risulta lontano dal realismo che affascinava Lattuada e Pagano, orientato semmai ad una trasfigurazione in senso idealistico della realtà in immagine, scelta che si traduce stilisticamente nel ricorso programmatico al tono alto, derivato da Cesare Giulio e dai fratelli Pedrotti ma qui caricato consapevolmente di senso, espressione di quella “necessità di allontanare la fotografia che abbia pretese di arte, dal binario morto della cronaca documentaria”[73] che costituirà il presupposto e il credo estetico del gruppo de “La Bussola”. Le immagini realizzate da Vender consentono però letture più articolate e complesse, mutevoli, in cui suggestioni materiche si alternano e a volte si affiancano ad altre di pura evocazione poetica, mentre cresce con gli anni, accanto al grande interesse per il ritratto femminile, una vocazione sempre più marcata per la geometrizzazione del paesaggio, che origina e si misura dapprima con la lettura evocativa delle architetture razionaliste ma si amplia poi e si estende alle occasioni più varie, non tanto per sottoporre il mondo ad una rigida griglia interpretativa, totalizzante quanto piuttosto e più pianamente alla ricerca di occasioni e pretesti: lo scopo non è di formulare giudizi quanto di ricavare pretesti, fedele “all’assioma fondamentale che in arte il soggetto non ha nessuna importanza”.[74]

 

Note

[1] La splendida formula si deve a Emanuele Sella che, rispondendo al quesito rivolto ai lettori del periodico “Il Fotografo” affermava: “La fotografia? È la documentazione dell’inesistente.”, cfr. “Il Fotografo”, 4 (1922),  n.3, p.10. La rivista, indicata come milanese in Italo Zannier, Leggere la fotografia: Le riviste specializzate in Italia (1863-1990), con la collaborazione di Maria Beltramini. Firenze: La Nuova Italia Scientifica, 1993, p. 250, diretta da Felice Baratelli, redattore Celeste Ferdinando Scavini, aveva invece sede a Torino, in via Cernaia 18 ed era verosimilmente finanziata dalla Bayer, come sembrano dimostrare i diversi e insistiti richiami ai prodotti dell’industria tedesca. Nel 1923 la sua gestione viene affidata a una società appositamente fondata che ne stabilisce la nuova sede in via Accademia Albertina, 1 e ne affida la direzione dal n.1 del 1925 ad Annibale Cominetti, che quindi riassume il ruolo di direttore di un periodico fotografico dopo l’importante esperienza del “La Fotografia Artistica”, ma senza ripetere il successo dell’impresa precedente. Non esistono per ora elementi certi che possano consentire di identificare l’autore della definizione con l’omonimo membro della famiglia Sella, economista e poeta, poi Rettore dell’Università di Genova, cfr. il numero monografico Emanuele Sella (1879-1946),  “Rivista Biellese”, 1 (1947),  n.5, settembre-ottobre,  cortesemente segnalatomi da Aldo Sola, che ringrazio. Due fotografie di E. Sella, di Torino,  Nouvelle lune, e Sérenité marine, vennero pubblicate nel numero di maggio giugno 1915 de “La Fotografia Artistica”.

[2] George Gissing, 1888, citato in Diego Mormorio, Vedute e paesaggi italiani dell’Ottocento. Milano: Federico Motta Editore, 2000, p. 18.

[3] L’efficace definizione è stata formulata da Leonardo Di Mauro, L’Italia e le guide turistiche dall’Unità ad oggi, in Cesare de Seta, a cura di, Il paesaggio, “Storia d’Italia – Annali”,  5. Torino: Einaudi, 1982, pp. 369-428 (389)  per descrivere il senso della rappresentazione che Gustav Klimt offrì del teatro di Taormina, realizzata per il Burghtheater di Vienna nel 1886-1888, negli anni di Von Gloeden.

[4] Gustavo Strafforello, La Patria: geografia dell’Italia. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1890 –1900. è indizio chiaro del formarsi di una nuova, più ‘moderna’ gerarchia di valori che nell’elencazione delle tipologie di beni compresa nel frontespizio dell’opera i “monumenti” siano posti a chiudere l’elenco, dopo “fiumi, canali, strade, ponti, strade ferrate, porti”.

A testimoniare su di un fronte solo parzialmente diverso l’interesse per una conoscenza non superficiale della nazione ricordiamo la fondazione nel 1894 del TCCI Touring Club Ciclistico Italiano, TCI dal 1900. Per quanto riguarda la funzione di strumento non indifferente di conoscenza del territorio italiano  è opinione comune che le guide TCI abbiano svolto la stessa funzione della produzione Alinari, di cui del resto facevano ampio uso.

[5] Lamberto Vitali, Un fotografo fin de siècle: Il conte Primoli, Torino: Giulio Einaudi Editore, 1968 (nuova ed. riveduta e aumentata 1981, p. 14).

[6]  Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2. Torino: Einaudi, 1981, pp. 421-544  (490-91).

[7] Lamberto Vitali in “Emporium”, citato da Silvio Negro, Album Romano. Roma: Gherardo Casini Editore, 1956, p. 17.

[8] Le implicazioni connesse allo scambio di fotografie tra Primoli e Verga, documentato da una lettera citata da Silvio Negro e pubblicata da Marcello Spaziani, sono discusse in Alberto Abruzzese, Carlo Grassi, La fotografia. In Alberto Asor Rosa, a cura di, Letteratura italiana: Storia e geografia, 3: L’età contemporanea. Torino: Einaudi, 1989, pp.1177-1222 (1193).

[9] Luigi M. Lombardi Satriani, La realtà e gli sguardi, in Francesco Paolo Michetti: Il cenacolo delle arti: tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia, 6 marzo-1 maggio 1999; Francavilla al Mare, Museo Michetti, 25 maggio-30 agosto 1999), a cura di Claudio Strinati. Napoli: Electa, 1999, pp. 65-71.

[10] Dopo le prime segnalazioni di Carlo Bertelli, Le fotografie di F. P. Michetti, “Musei e Gallerie d’Italia”, 1968, n. 36, settembre-dicembre, pp. 22-29,  l’approfondimento analitico della sua attività lo si deve – come è noto – a Marina Miraglia, a partire dalla monografia del 1975 (Marina Miraglia, Francesco Paolo Michetti fotografo. Torino: Einaudi, 1975) sino al più recente contributo alla mostra promossa nel 1999 dalla Fondazione Michetti (Marina Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, in Francesco Paolo Michetti: Il cenacolo delle arti, op. cit., pp. 13-64).

[11] Luigi Capuana, Spiritismo?.  Catania: N. Giannotta, 1884, pp.221-222, citato in Abruzzese, Grassi, op. cit., p. 1193.

[12] “Egli era impaziente al sommo. Trovato un mezzo più rapido di resa, si elevava di un grado. Sicché se avesse potuto fare in un attimo un quadro, l’avrebbe fatto in maniera eccellente.”, Eugenio Jacobitti, Francesco Paolo Michetti.  Firenze: Seeber, 1933 cit.  da Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.14. Notazione certo molto interessante, che colloca l’atteggiamento del pittore all’interno dei modelli interpretativi canonici (Gisèle Freund, ad esempio) ma anche in una tradizione di ‘urgenza’ di produzione di immagini di perfezione naturale che origina dal sogno di Giphantie. Bisognerebbe però riflettere che se la fotografia consente di “fare” il quadro in un attimo, implica però un “vedere” dilazionato nel tempo. A questa urgenza si associava l’interesse per l’osservazione e la resa del movimento, oltre alla precisa consapevolezza “circa l’autonomia del linguaggio fotografico”,  Miraglia,  Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.15.

[13] “E ancora sessant’anni dopo [1920ca] il vecchio Michetti diceva a Carlo Tridenti, ch’era andato a fargli visita a Francavilla, e faceva passare un fascio di schizzi fatti a colore sul vero: «Lascia stare quelle porcherie e vieni qua se vuoi vedere la natura e il vero colore». E gli mostrava decine di angoli di prati in fiore, e di campi di zucche mature, fotografati da lui con lastre a colori, e proclamava che valevano molto più dei suoi quadri.” (Negro, Album Romano, op. cit., p. 16) L’episodio fa il paio con quello ricordato nei Taccuini di Ugo Ujetti: “Lino Pesaro [il gallerista] mi parla di Michetti. L’ha veduto giorni fa al convento di Francavilla. Che cosa ha di pronto Senatore? Quanti quadri vuole! Me li mostri, e Michetti lo conduce davanti ad uno schedario con diecimila schede grandi di cartone (…) in un angolo  un numero” che rimanda allo schedario delle fotografie “Come vede, qui lei ha 10.000 quadri. Perché non li fa? Ma per me sono fatti. E per il pubblico? Non me ne importa niente. Dovrei eseguirli. Facile ma noioso. Io, li vedo perfetti.” citato in Miraglia,  Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.15.

[14] L’ultimo Michetti: Pittura e Fotografia, catalogo della mostra (Firenze, Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, 27 novembre 1993-27 febbraio 1994)  a cura di Renato Barilli. Firenze: Alinari IDEA, 1993, p. 13.

[15] Wilhelm von Gloeden in Bruno Caruso, a cura di, Ritratti di Von Gloeden con una nota autobiografica. Roma:  Edizioni dell’Elefante, 1964, p.n.n.

[16] Si veda Verna Posever Curtis, F. Holland Day: The poetry of photography,  “History of Photography”,  18 (1994), n. 4, pp. 299-321 e più in generale sulle rappresentazioni fotografiche del Cristo: Nissan N. Perez, Corpus Christi: les representations du Christ en photographie, 1855-2002.  Paris: Marval, 2002.

[17] Francesco Faeta, Wilhelm von Gloeden: per una lettura antropologica delle immagini,  “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 88-104. Già Cesare Schiaparelli nel presentare le opere di Von Gloeden esposte a Dresda nel 1909 aveva parlato a questo proposito di capacità di esprimersi artisticamente “in modo affatto speciale ed etnologicamente personale”, C. Schiaparelli, L’arte fotografica all’Esposizione internazionale di Dresda 1909.  Torino: Stab. Tipografico G. Momo, 1910, p.46.

[18] Marina Miraglia, Wilhelm von Gloeden fra realismo e simbolismo, in Michele Falzone del Barbarò, M. Miraglia, Italo Mussa, Le fotografie di Von Gloeden.  Milano: Longanesi, 1980, pp. 7-14 (14).

[19] Wilhelm von Gloeden in Caruso 1964, op. cit., p.n.n., sottolineatura nostra. Analoghi concetti erano espressi da esponenti di primo piano della cultura fotografica italiana proprio negli anni in cui si poteva avviare il confronto con la produzione pittorialista internazionale:“L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro” affermava ad esempio Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171(165), che riparlerà di “esagerazione della ricerca” anche a proposito della sezione americana recensendo l’Esposizione di Torino del 1902: Pietro Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia di Torino. Relazione al Consiglio direttivo,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 14 (1902, pp. 465-479). Tali concetti erano in netto contrasto con quelli espressi ad esempio da Livio Castellani, secondo il quale “per essere considerata opera d’arte, una fotografia deve spogliarsi da tutto quanto palesa l’azione meccanica del mezzo adoperato.”, cit. in Paolo Costantini, L’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica, in Torino 1902: Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, 23 settembre 1994-22 gennaio 1995) a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179 (97).

[20] Citato in Le fotografie di Von Gloeden 1980, op. cit. , p. 18.

[21] Roland Barthes, Wilhelm von Gloeden. Napoli:  Amelio Editore, 1978, pp.9-10.

[22] Nicola A. Falcone, Il paesaggio italico e la sua difesa: studio giuridico-estetico. Firenze: Alinari, 1914.

[23] Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia 1902, op. cit.

[24] Lazlo Moholy-Nagy, Pittura fotografia film (1925). Torino: Einaudi, 1987, p.  33.

[25] Segnalato per la prima volta da René Willien, Valle d’Aosta in bianco (e nero): un secolo di documentazione fotografica. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1976 , è stato poi compreso nel dettagliato panorama realizzato da  Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino:  Umberto Allemandi, 1990, pp. 345-346.

[26] Diego Leoni, Patrizia Marchesoni, Achille Rastelli, a cura di, La macchina di sorveglianza: la ricognizione aerofotografia italiana e austriaca sul Trentino (1915-1918).  Trento: Museo storico in Trento, 2001, p. 8.

[27] Confermando una programmatica distanza dalle contingenze storiche il periodico “La Fotografia Artistica” riprende ( 12 (1915), n.2 febbraio , pp. 25-25; n.3  marzo, pp. 37-38) lo studio dedicato alla Topofotografia aerea dal capitano Cesare Tardivo, già pubblicato sulla “Rivista d’Artiglieria e Genio”, 30 (1913), n. 3, pp. 57-75,  nel quale si descrivono le diverse applicazioni pur senza far cenno alla guerra incombente.

[28] Nello stesso secolo ci sarà un altro punto nodale in cui – nuovamente – la terra sarà veduta “come non l’ha mai veduta nessuno”: vista dalla luna in una notte del 1969 e raccontata da Luigi Ghirri, Kodachrome: Prefazione, ora in Paolo Costantini, Giovanni Chiaramonte, a cura di, Luigi Ghirri. Niente di antico sotto il sole.  Torino: SEI, 1997, pp. 18-19.

[29] Gertrude Stein, Picasso, 1938, in Stephen Kern, The Culture of Time and Space 1880-1918. Cambridge, Massachussetts: Harvard University Press, 1983 (trad.it. Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento.  Bologna: Il Mulino, 1988, p. 395).

[30] Che questo ordine di preoccupazioni non fosse estraneo alle riflessioni dei Comandi Militari è ben documentato  dalle Norme tecniche e d’impiego del servizio fotografico terrestre ed aereo emanate dal Comando supremo nel 1918, che imponevano per la individuazione del punto di vista da cui realizzare i panorami di non  tenere alcun conto “dell’aspetto più o meno artistico che, in base a tale scelta, può assumere il panorama stesso” (p.12) citato in Tiziano Bertè, Antonio Zandonati, Il fronte immobile : fotografie militari italiane dal monte Baldo al Cimon d’Arsiero. Rovereto: Museo storico italiano della guerra –  Osiride, 200, p. 16. Ciò dimostra la relazione comunque stretta tra la cultura dei fotografi militari e quella fotoamatoriale: se non si fossero presupposte connessioni, non sarebbe stata necessaria tale raccomandazione.

[31] Leoni, Marchesoni, Rastelli 2001, op. cit., p.  42.

[32] Sull’impossibilità reale di riconoscere e definire lo spazio del proprio agire al fronte è sufficiente rimandare qui alle bellissime pagine del Giornale di guerra e di prigionia  redatto da C. E. Gadda dall’agosto 1915 al dicembre 1919 e pubblicati per cura di Dante Isella, Milano: Garzanti, 1992.

[33] Moholy-Nagy (1925) 1987, op. cit., p.126.

[34] Antonio Boggeri, Commento, “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1929, pp. 9-16.

[35] La porta del mercato di Marrakesch, “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1925, tav. IV.

[36] Lodovico Sella, Vittorio Sella: cronologia, in Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982,  pp. 29-33 (p. 33).

[37] Antonella Russo, Il fascismo in mostra. Roma: Editori Riuniti, 1999, p.  186.

[38] Alessandro Galante Garrone, Domenico Riccardo Peretti Griva,  “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 20-27, ora in Fotografia luce della modernità: Torino 1920/1950, dal pittorialismo al modernismo, catalogo della mostra (Torino, Museo dell’automobile Carlo Biscaretti di Ruffia, 10 ottobre-17 novembre 1991) a cura di Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1991, pp. 151-163.   Oltre a quelli familiari, vanno ricordati qui anche i legami di passione politica e d’amicizia che legavano i due ed entrambi a Domenico Morelli, architetto e nipote dell’omonimo pittore napoletano, presso il cui studio si ritrovavano a Torino gli uomini del Partito d’Azione negli anni della Resistenza, cfr. Virginia Bertone, Da casa Morelli alle collezioni del Museo, in Domenico Morelli: il pensiero disegnato: opere su carta dal fondo dell’artista presso la GAM di Torino, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, 20 dicembre 2001-3 febbraio 2002), a cura di Claudio Poppi. Torino: GAM, 2001, p. 61.

[39] Cit. in Marina Miraglia, a cura di, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris –  Hopefulmonster, 2001, pp. 26-27.

[40] Ibidem.

[41] Ibidem.

[42] Presentazione della sua mostra La fotografia è una cosa seria, Torino, “Piemonte artistico e culturale”, 1959.

[43] L’opera di Peretti Griva risaliva infatti addirittura al 1930, anno in cui fu esposta a Torino al “Terzo Salon italiano d’Arte fotografica internazionale” (Miraglia 2001, op. cit., p.  41, nota 50).

[44] Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Bari-Roma: Laterza, 1986, p.  291.

[45] Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [gennaio 1950], p. 32; tavv. 135-137.

[46] Ermanno Federico Scopinich, con Alfredo Ornano e Albe Steiner, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943. Anche Alberto Lattuada, aveva vivacemente polemizzato con gli epigoni torinesi del pittorialismo: “Credo inutile fare osservazioni sulla tecnica fotografica. Mi pare giusto dire soltanto questo: recentemente ho visto pubblicato su un quotidiano di Torino una fotografia dalla quale, con l’aiuto di filtri, velature, bagni chimici e altri accorgimenti, l’autore era riuscito a ricavare un quadro; si trattava di una scena fluviale in controluce, sfumatissima e la dicitura diceva che tale opera aveva vinto il concorso della più grande esposizione internazionale di fotografia.”,  Alberto Lattuada, Occhio quadrato. Milano: Corrente, 1941.

[47] La sua Scia/ The Trach era stata pubblicata ad esempio in un volume importante come Modern Photography, numero speciale del trimestrale “The Studio”. London: 1931, p.81.

[48]  Si veda Daniela Floris, Floriano Menapace, Fratelli Pedrotti: immagini.  s. l. : s. n.[Trento, 1981], e in particolare, per la produzione di Enrico, Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001, p.  201 in basso, che mostra stringenti analogie con Emanuel Gyger e Giulio e che risulta più difficile collocare in un contesto di secondo futurismo, come fa lo studioso, nonostante i rapporti con Depero.

[49] Così li definirà Achille Bologna, 1935; va qui ricordato il suo Spiaggia,  che nell’uso della texture rimanda ancora a Giulio.

[50] Ricordiamo qui che anche gli Equivalents di Stieglitz (1923) vennero dapprima presentati come Songs of the Sky e furono preceduti da Music: A Sequence of Ten Cloud Photographs (1922), cfr. The Art of photography: 1839-1989, (catalogo della mostra itinerante,  Houston, Canberra,  London 1989), a cura di Mike Weaver. London: Royal Academy of Arts, 1989, p.  206.

[51] Moholy-Nagy (1925) 1987, op. cit., p.116. è appena il caso di ricordare che Fanck fu l’inventore del Bergfilm, del cinema di montagna,  la cui vera terra d’elezione è stata la Germania; efficace narratore di questo “idealismo eroico” che contemplava sempre il confronto simbolico tra l’uomo protagonista e le vette, gran costruttore di trame drammatiche, maestro di Luis Trenker e poi di Leni Riefenstahl. Analoghe soluzioni, pur con campi sufficientemente ampi e quasi panoramici, furono adottate da Emanuel Gyger circa negli stessi anni, cfr. Aldo Audisio, P. Cavanna, a cura di,  L’Archivio fotografico del Museo nazionale della montagna.  Novara: De Agostini, 2003, pp. 100 passim.

[52] Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, , pp. 5-55 ( 53); per E. Sella cfr. nota 1.

[53] Giuseppe Turroni, Nuova fotografia italiana. Milano: Schwarz, 1959, p. 12.

[54] Cit. in Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino 1920 1936. Società e cultura tra sviluppo e capitalismo.  Torino:  Edizioni Progetto, 1976, pp. 97-151 (112).

[55] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia [1931], in Id. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 57-78 (71), che riconosce anche Atget quale padre della “nuova fotografia”.  Questa relazione è sottolineata anche nella recensione di Edoardo Persico, Camille Recht: Atget,  “La Casa Bella”, 10 (1931), n.2, febbraio, p.51: “Non si tratta, infatti, di novantasei fotografie pittoresche; ma di altrettanti studi eseguiti sulla scorta di un’intelligenza acutissima; e quasi di un fine determinato, che è certo la rappresentazione dello spirito del proprio tempo. (…) Atget è il fondatore di un’«arte» della fotografia come sarà intesa parecchi anni dopo, in America ed in Germania, sotto la spinta della tecnica cinematografica”. Lo stesso Persico recensirà nello stesso anno l’importante volume di Franz Roh e Jan Tschichold, Foto-Auge – 76 Fotos der Zeit. Stuttgart: Wedekind,1929, “La Casa Bella”, 10 (1931), n.5, maggio, pp.57-58. A proposito di mediazioni culturali Germania-Italia, Floriano Menapace ricorda – in  Federico Vender: Photographien-Fotografie-Photographs 1930-1955, catalogo della mostra (Bolzano, Galerie Foto-Forum, 9 dicembre 1997-24 gennaio 1998; Innsbruck, Galerie Fotoforum West, 29 gennaio-21 febbraio 1998; Trento, Palazzo Geremia, 17 aprile-14 maggio 1998) a cura di Gunther Waibl. Bolzano: Raetia 1997, p. 9-  che Vender possedeva, forse per il tramite del fratello architetto,  una copia di questo volume.

[56] Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n. 53, maggio, pp. 285-283, corsivo dell’autore. Sottolineerei l’uso dell’aggettivo “disumana” che pare evocare (o  involontariamente presupporre) il concetto di “inconscio tecnologico”  espresso da Benjamin l’anno precedente. Se “Domus” dedica ampio spazio alla pubblicazione di immagini è su “Casa Bella” che compaiono in quegli anni le segnalazioni e recensioni  più attente di volumi dedicati alla nuova fotografia; si confrontino ad esempio le recensioni di Modern Photography, del 1931, che contiene due importanti saggi di Godfrey Hope Saxon Mills e di Cyril Leeston Smith e fotografie di autori quali Bayer, Bruguiére, Henry, Beaton e altri, tra i quali gli italiani Bologna, Bricarelli e Giulio: per il redattore di “Domus” si tratta  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  – 4 (1931), n.47, p.67- mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume è occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.” – (1931),  n.47, novembre 1931, p.54. All’Editoriale Domus di Giulio Mazzocchi si deve in questi anni la pubblicazione oltre che di “Casa Bella” e “Domus” anche di “Fotografia”, edita dal 1932 ancora sotto la direzione di Gio Ponti e la cura di Guido Pellegrini.

[57] Roberto Campari, a cura di, Bruno Stefani. Parma: Università di Parma, 1976, pp. 7-8.

[58] Luigi Ghirri, Viaggio dentro le parole: conversazione con A.C. Quintavalle, in Viaggio dentro un antico labirinto (1991), ora in Costantini, Chiaramonte 1997, op. cit., pp. 305-314.

[59] Turroni 1959, op. cit., pp.  9-10.

[60] Luci ed ombre: Gli annuari della Fotografia Artistica Italiana 1923-1934, catalogo della mostra (Firenze, Largo Fratelli Alinari, 1987-1988) a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier, introduzione di Valerio Castronovo. Firenze: Alinari, 1987,  p. 32.

[61]  Giuseppe Pagano, Guarniero Daniel, Architettura rurale italiana. Milano: Hoepli, 1936, p.  6, sottolineatura di chi scrive.

[62] Cfr. Miraglia, Note per una storia,  1981, op. cit.; Gianfranco Ellero, Italo Zannier, a cura di, Voci e immagini: Ugo Pellis linguista e fotografo. Milano: Federico Motta, 1999.

[63] Per le quali considera determinante “l’influenza del paesaggio circostante”(Pagano, Daniel 1936, p. 76). Orientamenti analoghi esprimerà Giuseppe De Santis che, proseguendo i discorsi di Lattuada e Pagano, scriverà nel 1941 (“Cinema”, n.116, 25-4-1941): “Ma come altrimenti sarebbe possibile intendere e interpretare l’uomo se lo si isola dagli elementi nei quali ogni giorno vive, coi quali ogni giorno comunica”, cit. in Piero Berengo Gardin, a cura di, Alberto Lattuada fotografo 1938-1948: Dieci anni di occhio quadrato. Firenze: Alinari, 1982, p.  8. Sono questi i temi condivisi in quegli anni da molti  intellettuali italiani di fronda, poi ripresi e sviluppati nella stagione neorealista.

[64] Giuseppe  Pagano, Un cacciatore di immagini, “Cinema”, dicembre 1938, pp. 401-403, ora in Giuseppe Pagano fotografo, catalogo della mostra (Bologna, Galleria d’arte moderna, 10 marzo-9 aprile 1979; Roma, Istituto Nazionale per la Grafica,  15 maggio-30 giugno 1979) a cura di Cesare De Seta. Milano: Electa editrice, 1979, pp. 155-156, sottolineatura di chi scrive. Già alcuni anni prima Pagano, Struttura e architettura, in Id.,  Dopo Sant’Elia. Milano:  Editoriale Domus, 1935, pp.94-120, aveva parlato di “retorica della semplicità” e questa tensione non può non richiamare la “semplificazione” di cui parlava Italo Mario Angeloni, La partecipazione dei dilettanti italianai al «IV Salon Internazionale» di Torino,  “Il Corriere Fotografico”, 28 (1933), n.5, maggio, p.252.  Pare essere questo il concetto chiave intorno a cui ruotano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni; già Marziano Bernardi nel 1927 aveva parlato di “conquista di stile” e di “concetto semplificatore” riconoscendo una rinnovata attenzione per le questioni compositive, mentre due anni più tardi Antonio Boggeri ne riprendeva i temi riconoscendo tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della “fotografia pura, o integrale” proprio la messa al bando di  “ogni concessione al gusto popolare [e la] aristocratica semplicità dello stile”, Boggeri  1929, pp. 9-16 (14).

[65] Lattuada risentirà della lezione di Evans nella formulazione del suo Occhio Quadrato, 1941; per Ennery Taramelli  il libro di Evans, penetrato clandestinamente in Italia, provocò un “profondo choc visivo (…) nella giovane bohème raccolta a Milano”  attorno a “Domus” e “Corrente. (Ennery Taramelli, Viaggio nell’Italia del neorealismo: la fotografia tra letteratura e cinema. Torino: SEI,  1995, p. 66) Va ricordato qui che sia Lattuada che Pagano collaboravano anche col settimanale illustrato “Tempo”.

[66]  Lattuada, Prefazione, in Id.,  Occhio quadrato, 1941, ora in Berengo Gardin 1982, op. cit., p. 15.

[67] Cfr. Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in  Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini. vol. 1, Fotografia e raccolte fotografiche, “Quaderni/ Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali Scuola Normale Superiore”, 8. Pisa: Scuola Superiore Normale di Pisa, 1998, pp. 99-128 ( 106-112).

[68] Scopinich 1943, op. cit., p.  7.

[69] “Nella selezione delle opere non abbiamo accettato nessun compromesso e se qualcuno troverà riprodotte nel volume delle opere in aperta contraddizione con le teorie estetiche del sottoscritto, pensi che il nostro compito ci impone di presentare anche degli esempi negativi, perché con l’accostamento grafico ed il confronto diretto si ottiene spesso di più che con un’arida discussione”, Ivi, p.  10.

[70] Un altro architetto che raccontava luoghi e “paesaggi” e tra i visitatori di Film und Foto a Stoccarda nel 1929. L’Annuario pubblica la sua bellissima Riflessi, (tav.76). Spiace di non aver potuto presentare in questa occasione le fotografie di Peressutti, autore anche di drammatiche immagini della campagna di Russia, pubblicate in Bertelli, Bollati 1979,  II, pp. 648-655, ma pare che i pochi originali ancora reperibili a quella data siano poi andati dispersi.

[71] Della nutrita bibliografia su questo autore si vedano almeno Italo Zannier, Federico Vender: Un maestro della scuola mediterranea, “Fotologia”, 7 (1990), n. 12, primavera-estate, pp. 48-59; Federico Vender: Gli esordi: 1930-1937, catalogo della mostra (Arco, Palazzo dei Panni) a cura di Floriano Menapace, prefazione di Italo Zannier. Trento –  Arco: Provincia Autonoma di Trento, Servizio Beni Culturali, Ufficio Beni Storico Artistici –  Comune di Arco, Assessorato alla Cultura, 2003.

[72] Claudio Vender condivideva con Marco Asnago uno dei più interessanti studi di architettura: cfr. Cleto Zucchi, Asnago e Vender. Milano: Skira, 1999, con fotografie di Olivo Barbieri.

[73] Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Italo Zannier, Susanna Weber, a cura di, Forme di luce. Il gruppo “La Bussola” e aspetti della fotografia italiana del dopoguerra.  Firenze:  Alinari, 1997.

[74]  Ibidem.

Mario Gabinio, vita attraverso le immagini (1996)

in Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di Pierangelo Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996, pp. 7- 35

 

 

“Prime prove con macchina da L.10 su carta albuminata, 1889? .

La ricostruzione dell’attività di Mario Gabinio si apre con questa sua nota autografa apposta in calce ad un piccolo gruppo di immagini realizzate in Valle di Aosta, al Gran San Bernardo, raccolte in uno dei tanti album che l’autore realizzerà nei decenni successivi.  Essa racchiude, come quasi sempre accade  in questa vicenda, informazioni dettagliate, precise, sulle quali sembra possibile costruire ipotesi biografiche e critiche non arbitrarie, e dubbi, incertezze difficili da districare. Di lui rimane l’opera, conservata quasi  integralmente nel Fondo omonimo della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, ma scarse testimonianze documentali o indirette della sua biografia, rari e contraddittori elementi paratestuali che siano in grado di suggerire o indirizzare la decifrazione del lavoro di questo fotografo che, alla sua morte, ha attraversato l’esatta metà della breve storia della fotografia riflettendone i mutamenti continui ma conservando anche, intatta, una coerenza di fondo, una presa di posizione precisa per quanto sommessa, che costituisce per noi una scelta di campo, una implicita dichiarazione d’intenti a favore della “documentazione artistica”.

Le prime testimonianze coeve disponibili parlano di Gabinio quasi solo in relazione alla sua ‘curiosa’ figura di escursionista-fotografo, accentuandone i lati pittoreschi e forse un poco esibizionisti[1], e per averne un ritratto meno angusto si deve attendere il ricordo redatto dal nipote Ivan Alessio nel 1939[2], certo più ampio ed articolato, il solo  a fornire -seppure in modo incompleto- un piccolo ritratto di quella che definisce “caratteristica e simpatica figura di artista e di cultore appassionato e tenace della fotografia (…) Fotografo non per interesse ma per passione (…) Alla ricerca continua del ‘meglio’ eseguiva molte fotografie per un solo soggetto (…) Ed erano lunghe soste sotto il sole od al freddo; erano studi lunghissimi per ottenere negli interni di chiese, e di palazzi monumentali, il voluto ed a volte difficilissimo effetto, per superarsi e vincere le difficoltà di ambiente che rendevano a volte difficile, quasi impossibile l’eseguire la riproduzione quale lui la voleva, nobilitante le bellezze e i pregi e nascondente o quanto meno attenuante i difetti e le disarmonie. Erano studi che continuavano nella solitudine della sua casa, nella camera oscura per provare e riprovare le varie carte fotografiche, i vari ‘bagni’ e i vari viraggi. Erano somme ingenti spese per ottenere dei contrasti su carte speciali, per ottenere gli effetti che il suo occhio di artista aveva visto al vero. (…) Malgrado il suo alto sentimento artistico e grandi capacità era modesto come la vita che conduceva; arguto assai sapeva con una buona battuta accattivarsi le simpatie di (sic) persone e allontanarle magari dall’inquadratura della fotografia che non le richiedeva. È scomparso con lui, se non un fotografo di eccezione, certo un appassionato ed originalissimo cultore di quest’arte.”

Questa testimonianza affettuosa e sottotono conserva, preziosa, le sole labili tracce di un atteggiamento nei confronti della pratica fotografica che è nostro compito ricostruire in forma compiuta analizzandola criticamente, cercandone le ragioni  nelle vicende coeve, nelle culture fotografiche che ne hanno accompagnato il suo svolgimento.

Si tratta allora di intraprendere un lavoro interpretativo che si proponga di superare la distanza che ci separa (in termini di tempo, di cultura) dal corpus di testi figurativi che costituisce l’opera di Gabinio, mettendo in atto una interpretazione cosciente del suo proprio “intendere intenzionale”, che “segue un certo progetto, deriva da una certa  precomprensione, da un qualche necessario pregiudizio” (Volli, 1994, p.40).  Si tratterà insomma di riconoscere i “tre tipi di intenzioni” definiti da Umberto Eco (1990, pp.22-25)  nella rassegnata consapevolezza di una irrimediabile povertà di elementi in grado di testimoniare l’intentio auctoris, costretti a  mettere  in atto una operazione di riconoscimento  delle caratteristiche dell’opera, di ciò che essa comunica (intentio operis) attraverso la formulazione di una serie di congetture e la definizione di tattiche interpretative ed ipotesi critiche che determinano il nostro “atto di lettura [da intendersi come] una transazione difficile fra la competenza del lettore (la competenza del mondo condivisa dal lettore) e il tipo di competenza che un dato testo postula per essere letto in maniera economica.”[3]

Lo strumento, il percorso, a cui siamo ricorsi in prima approssimazione è quello dell’analisi cronologica, scelta certo arbitraria e forse poco aderente al discorso di Gabinio se pensiamo che i suoi esempi di strutturazione del testo (gli album) hanno criteri di aggregazione che sono -piuttosto- tematici ma, appunto, una delle nostre congetture, dei nostri pre-giudizi, è la modificazione del lavoro fotografico di Gabinio in modo parzialmente lineare, traducibile  in cronologia, e la sua aderenza, in forme ogni volta diverse, allo spirito del proprio tempo.

 

 

Non conosciamo le ragioni precise o  le eventuali influenze che portarono Gabinio ad occuparsi di fotografia o -meglio- ad acquistare la prima macchina fotografica, ma certo negli anni in cui questo accade, intorno al 1890, l’evento non riveste più alcun carattere di eccezionalità per un giovane della piccola borghesia urbana, ormai dotato di una sua risicata disponibilità economica imposta dagli eventi.[4] Con le semplificazioni della tecnica fotografica che caratterizzano l’ultimo decennio del XIX secolo la fotografia entra  nella sua prima fase di grande diffusione fotoamatoriale, e si inaugura un periodo della sua breve storia ricco di contraddizioni e fermenti, durante il quale la fotografia si accompagna sovente ad altri fenomeni sociali propri dell’epoca, in particolare alle diverse forme di associazionismo turistico in cui, superato il meccanismo della cooptazione secondo criteri di  censo tipico dei club d’élite ottocenteschi, l’aggregazione si fonda sulla condivisione di un programma, supera i confini di classe, e costituisce in molti casi un elemento di forte integrazione sociale.[5]

Esempio tipico di questa connotazione nuova delle strutture  associative è la torinese Unione Escursionisti (U.E.T.), fondata nel settembre del 1892 per iniziativa di Silvestro Fiori e Luigi Ardizzoia, ambedue impiegati delle Ferrovie dello Stato con la passione per la montagna, con lo scopo di “curare lo sviluppo dell’amore per l’escursionismo; promuovere, organizzare e dirigere comitive per gite in montagna ed in pianura alla visita dei luoghi che presentano maggiore interesse per attraenza di bellezze naturali e per ricordi storici od artistici; incoraggiare ed aiutare gli studiosi alle ricerche istruttive.”[6] Il successo è tale che al 1898 -quando L’U.E.T. si presenta con una propria sezione nel padiglione della Didattica alla Esposizione Nazionale di Torino, il socio Ercole Bonardi illustrandone brevemente le vicende sul giornale dell’Esposizione può affermare orgogliosamente che “ormai fra gli Escursionisti c’è gente di tutte le condizioni, dal piccolo negoziante all’impiegato, al professionista, al Consigliere comunale, al Deputato”. [7]

Gabinio ne entra a far parte nel 1894 e durante alcune escursioni alpine realizza le sue prime fotografie di un certo interesse, segno ormai di una buona padronanza del mezzo come dimostra il Panorama in tre parti dalla vetta del Rocciamelone realizzato nel luglio di quell’anno forse seguendo le suggestioni di immagini analoghe viste alla “Esposizione Fotografica Alpina” che si era tenuta l’anno precedente nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti, di Torino, dove sei dei ventotto autori  presenti esponevano appunto panorami.[8] Allo stesso 1894 risale anche una serie di fotografie affatto diversa: le 21 lastre relative alla “Regia Scuola Normale Femminile di Ginnastica in Torino” frequentata dalla sorella Ida; sono il primo esempio compiuto di serie organica di immagini nella produzione di Gabinio, verosimilmente realizzate su commissione per illustrare tutti gli aspetti della scuola,  dalle divise delle allieve, agli esercizi ginnici all’istruzione didattica.[9]

Questa realizzazione costituisce però un semplice intermezzo nella produzione di quegli anni: Gabinio è ancora -per quanto ci è dato di sapere- un fotografo occasionale, attivo per brevi periodi, sempre in estate e prevalentemente  in occasione di gite in montagna; in questo periodo l’attività  fotografica è sempre motivata dall’escursione e non viceversa, come risulta dalla stessa scelta dei soggetti: il paesaggio e la veduta sono ancora scarsamente presenti e l’attenzione è rivolta al rito sociale,  all’esperienza di gruppo della gita, con notazioni tra il celebrativo e l’ironico nella documentata conquista di cime sin troppo accessibili.  Solo durante le ascensioni realizza le prime, vere vedute alpine; qui la montagna è presentata quale entità geografica pura, spoglia di presenze umane, forzando la veduta al panorama in un tentativo di estrema oggettivizzazione. Questa alternanza è ben documentata nelle prime immagini pubblicate da Gabinio nella  Guida Reynaudi dedicata a Ceresole Reale, edita nel 1896[10], certo una opportunità importante che gli viene offerta, il primo riconoscimento dell’interesse del suo lavoro ed uno stimolo a proseguire in modo meno occasionale, maturando il proprio interesse per una attività condivisa con altri membri dell’Unione Escursionisti, quali Treves e Belli, le cui opere sono nel frattempo presentate all’Esposizione Internazionale di Fotografia promossa dall’Associazione Universitaria Torinese nel 1895.[11]

Testimoniano questo nuovo impegno sia l’adozione di un formato maggiore (18 x 24) sia le sperimentazioni condotte  in fase di ripresa (ripetizione in diurna e notturna, utilizzazione del lampo di magnesio) ed in fase di stampa, mediante il ricorso a carte ed a viraggi differenti (A25/44), alla ricerca di una propria forma espressiva che si risolverà infine in un sostanziale rifiuto delle manipolazioni proprie della fotografia pittorica, per un’immagine che si presenti con un “aspetto armonico ed artistico” ma in grado di “dare tutti i dettagli”, così come viene teorizzata ad esempio  da Jules Brocherel[12] e proposta -almeno in quegli anni- da un nume tutelare come Sella;  una fotografia insomma che riesca a coniugare artisticità della composizione e ricchezza di informazione, qualità estetica e valore documentario, ricorrendo coscientemente a tutti gli elementi tecnici, e quindi linguistici, che ne costituiscono lo specifico. Al modello costituito dal fotografo biellese Gabinio fa esplicito riferimento in alcune immagini dei primi anni del secolo;  in particolare il confronto assume le caratteristiche di una vera e propria citazione nel caso  dell’immagine  di Pian della Mussa , nelle Valli di Lanzo (B123/1/30) visto da ovest con tre escursionisti di spalle in primo piano, datata 17 luglio 1900, che riprende esplicitamente Il Monte Rosa dal Monte Moro di Sella, datata 1895, presente nella collezione Gabinio[13]. La presenza di figure in primo piano è un motivo iconografico che ritorna più volte nella sua produzione, specialmente nella variante che prevede le figure in atteggiamento esplicitamente ostensivo, disposte in pose precise, realizzate con l’apparecchio di grande formato, nelle quali  il gesto esplicito dell’indice puntato,  del braccio teso,  non pare rivolto ai compagni presenti, non appartiene al  tempo della ripresa ma a quello della sua osservazione futura, è una comunicazione posticipata, un espediente narrativo, particolarmente evidente nelle vedute di ampio respiro (B122/2/42) e nei panorami.

Se i compagni di escursione sono sovente presenti nelle fotografie di montagna non altrettanto si può dire per le persone che in quelle valli vivono, riprese sempre in rigide pose e sovente ridotte al rango di “tipi”, con uno sguardo che oscilla tra il lombrosiano ed il pittoresco, condiviso con l’amico Reynaudi, lontanissimo in questo caso dall’esempio proposto da Sella e Vallino con l’album Monte Rosa e Gressoney, 1890,  in cui l’attenzione per “la fisionomia pastorale, la semplicità di costumi, la foggia particolare di vestire (…) l’esclusività dell’elemento locale nelle famiglie, la fisionomia propria di questa popolazione” si traducono in “quadretti graziosissimi”, riconoscendo e ritrovando nelle vicende dei luoghi che si sarebbero aperti di li a poco al turismo una contraddizione che doveva essere in primo luogo loro, di cittadini, di estranei, di rappresentanti di quella imprenditoria illuminata che possedeva gli strumenti per comprendere e subire il fascino di una cultura altra, ma insieme anche la forza e la determinazione economica e politica per porre concretamente in atto quel progresso che l’avrebbe cancellata. L’atteggiamento di Gabinio riflette una minore  coscienza  di questa distanza, che pare piuttosto appartenere ai soggetti fotografati (A18/56), una curiosità senza dramma e senza pietas, piuttosto orientata verso la fotografia di genere (B125/49).[14]

Sembra di leggere qui  una traccia di quella  ritrosia che si intuisce dalla scarna biografia del fotografo, quel tenersi al margine che impedisce un confronto schietto con l’altro, con l’estraneo, il diverso, un atteggiamento che invece non ritroviamo quando col soggetto fotografato intercorrono rapporti di amicizia o di parentela, come accade nei numerosi gruppi realizzati in occasione delle gite dell’Unione Escursionisti (B123/2/35, B123/2/36, B123/2/64, A25/8)  ed in alcuni bellissimi ritratti che appartengono alla sua prima produzione, noti soltanto attraverso le lastre: si tratta di immagini di singoli o coppie (coniugi, sorelle o amiche) fotografati in esterni davanti ad un rozzo telo disteso al muro, nella migliore tradizione della fotografia ambulante e domiciliare, o di prove di ripresa effettuate nello spazio angusto del balconcino della casa di Corso San Martino, con la modella avvolta in un lungo mantello,  poggiata in precario equilibrio su di uno sgabello che consentisse migliore spazio all’inquadratura, ma anche affettuose riprese della sorella Ida mentre allatta il primo figlio, i gruppi di famiglia ed i ritratti della madre, alcuni dei quali conservati in album, di cui già aveva sottolineato il valore Giorgio Avigdor (1981), esempi tutti della qualità fotografica che il ritratto ottocentesco raggiunge tanto più quanto si allontana dalla pratica codificata, e presto sclerotizzata, della ripresa di studio,  come mostrano anche le opere di due altri dilettanti piemontesi delle generazioni precedenti Gabinio, quali Giuseppe Venanzio Sella e Francesco Negri.

Ma i risultati più interessanti si ritrovano in immagini quali  il doppio ritratto di  C.Canavese e C. Varesi, 1900c.  (A23/23) in cui le figure rigidamente in posa, staccate l’una dall’altra, sembrano per sempre immobili, trasformate in caratteri, nei due tipi distinti del pedone e del velocipedista, pur mantenendo invariata la loro individualità, sottolineata dal titolo che ne riporta esplicitamente i nomi, ed ancora in quello di G.E Canale, 1900c.  (A23/26) in cui la figura del doppio rimanda invece al confronto tra i modi della rappresentazione, fotografica e pittorica, suggerendo un ambito di riflessione che non coinvolge tanto la questione della fotografia come arte  ma piuttosto quella del realismo e della possibilità delle due tecniche (dei due linguaggi) di affrontare il tema della verosimiglianza fisionomica, indagando contestualmente lo scarto tra produzione e riproduzione, accessibile solo a partire dalle possibilità metalinguistiche della fotografia.

Meno rilevanti quantitativamente ma altrettanto significative sono le immagini in cui la presenza umana  diviene elemento di lettura e di articolazione dello spazio restituito fotograficamente, come nelle vedute animate di alcune vie e piazze di Torino viste attraverso le quinte dei portici urbani, secondo  una soluzione ripresa da modelli riferibili al vedutismo  ottocentesco [15] che ritroviamo anche nella fotografia del Santuario di Santa Maria in Doblazio a Pont Canavese, 1907? (A36/50) in cui compare per la prima volta in Gabinio l’uso della disposizione scalare delle figure in relazione ai segni emergenti della scena, in un gioco di rimandi, un dialogo tra ‘emergenze’  a scale diverse tra le quali è destinato a muoversi lo sguardo dell’osservatore, attratto da un evento puramente visivo, in cui il dato di cronaca è bandito ed il soggetto è propriamente il tempo sospeso della fotografia, di quella fotografia, che concatena arbitrariamente e rende leggibili accadimenti altrimenti autonomi (A15/65, B90/5).

 

Un uso meno palesemente orchestrato, più diretto, della presenza umana lo ritroviamo in alcune delle immagini di quello che è certamente il lavoro di Gabinio all’epoca più noto, realizzato nei primi mesi del 1900 e presentato, sotto l’egida dell’Unione Escursionisti, alla I Esposizione Internazionale promossa dalla Società Fotografica Subalpina che si tiene dall’11 febbraio al 19 marzo nei locali della Società Promotrice di Belle Arti,  in via della Zecca 25[16] . Per l’occasione il Comune di Torino  bandisce un concorso dedicato alla “Collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente” (Brayda, 1900) che Gabinio si aggiudica con la serie dedicata a Torino che scompare (A14/ –), realizzata non “appena bandito il concorso del Municipio, vale a dire nella prima quindicina di gennaio p.p. in condizioni d’ambiente e di luce difficilissime.(…) Con quel senso artistico che lo distingue [Gabinio] ha saputo fissare un centinaio di impressioni curiose, tipiche, interessantissime, rivelando certi angoli ignorati della nostra Torino che, poco ancora, non avremmo conosciuto più” (Fiori, 1900, p.4). Il lavoro, costituito da un centinaio di riprese su lastra 9×12 dalle quali vengono ricavate 84 stampe, prende forma ed è realizzato in pochi giorni, segno di una raggiunta padronanza tecnica e di una maturità espressiva che deriva da precedenti esperienze, sulle quali occorrerà ritornare.  Per la scelta  dei soggetti, l’esaustività della documentazione e per l’approccio quasi da reportage consentito dall’uso del medio formato costituisce una novità assoluta nel panorama della fotografia di documentazione urbana piemontese e italiana, piuttosto propensa alle realizzazioni di tono celebrativo[17]. Le vedute dei canali nella zona del Balôn si alternano ai tetri cortili delle case a ballatoio di via Porta Palatina, vuoti di presenze, alle vedute urbane della “città quadrata”, riprese in tagli verticali che sottolineano lo spazio angusto di “quella parte della città che si stende tra via Santa Teresa e piazza Emanuele Filiberto. Qui la città -nelle parole di  Edmondo De Amicis- invecchia improvvisamente di parecchi secoli, si oscura, si stringe, s’intrica, si fa povera e malinconica. (…) Le vie serpeggiano e si spezzano bizzarramente, fiancheggiate da case alte e lugubri, divise da una striscia di cielo, che s’aprono in portoni bassi e cavernosi, da cui si vedono cortili neri, scalette cupe, anditi bui, vicoli senz’uscita, sfondi umidi e tristi di chiostro e di prigione”[18];  la scena è più ariosa ma le condizioni generali non certo migliori nelle altre zone documentate, i cosiddetti “orti delle Benne” nella zona delle Basse di Dora, le case delle lavandaie al Borgo Rubatto, sulla sponda destra del Po, ed il ghetto di Borgo San Salvario;  qui la presenza umana all’interno dell’immagine è accettata piuttosto che cercata, quale ulteriore elemento di connotazione del luogo. Sono fotografie che è giusto definire dirette, senza compiacimenti o cadute nel pittoresco, prive di nostalgia; immagini che si propongono quali puri documenti di una condizione urbana in via di auspicata trasformazione, per opera  di quel “piccone demolitore” che compare nel titolo di una veduta di via Genova (A14/101, attuale via San Francesco d’Assisi), lo stesso a cui farà riferimento Pietro Gribaudi nel 1908 analizzando quella fase del rinnovamento urbano torinese (Comoli Mandracci, 1983, p. 215). La consonanza tra la lettura che ne offre Gabinio e l’opinione diffusa negli ambienti culturali torinesi è ben documentata, oltre che dalla assegnazione del premio di duecento lire da parte del Comune di Torino, anche dalla accoglienza favorevole che la stampa locale riserva a questo lavoro rilevandone l’importanza “come ricordo di luoghi cari che più non rivedremo e come studio di monumenti e linee architettoniche” (Fadilla, 1900) poiché “interessanti e belle per ora, queste fotografie saranno preziose più tardi, quando le cose fotografate saranno cancellate dalla memoria”[19]. Ma il riconoscimento più importante viene certamente da Riccardo Brayda che sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” pubblica in due puntate l’articolo Torino che scompare. (Da fotografie del signor M.Gabinio), che costituisce una analisi dettagliata dell’opera e l’occasione per una riflessione sulle perdite provocate da una politica urbanistica poco attenta al patrimonio architettonico: “Fra queste fotografie non mancano i quadretti assai originali, come taluni che riproducono i canali e le modeste abitazioni che in essi si rispecchiano (…) Questi soggetti ricordano un motivo che i torinesi hanno veduto riprodotto parecchie volte nelle passate Esposizioni di Belle Arti: “l’Adigetto di Verona”. A chi non conosce quella remota regione di Torino, pare impossibile che possano trovarsi colà tanti soggetti pittorici, i quali dovrebbero invogliare molti artisti del pennello a riprodurli. Colpite con assai buon gusto sono certe scene del Mercato degli stracci in quel sobborgo, e pittoresche le riproduzioni dei modesti casolari che si trovano tuttora nelle regioni di San Salvario e nel Lungo Po, edifizi dei quali non è lontana la demolizione. Il Gabinio, compreso nell’importanza del suo concorso, non volle soltanto limitare il suo studio alla riproduzione di motivi pittorici; ma con molta cura, e superando non poche difficoltà tecniche, ci lascia memoria di antiche costruzioni e di particolari architettonici, i quali, malgrado abbiano carattere storico ed artistico, dovranno sparire per causa degli sventramenti e degli allargamenti di alcune vie di Torino. Degne di nota sono le riproduzioni degli avanzi del Cisternone della Cittadella [fotografato nel 1896-97], della casa del Vescovo [fotografata nel dicembre del 1898], e, tra le costruzioni medioevali, quella di via Sant’Agostino (…). Fra  le costruzioni del settecento, è notevole una minuscola cappella accanto al vecchio cimitero di San Pietro in Vincoli, opera d’arte non priva di merito artistico, ma che fu lasciata in completo abbandono, e che presto, per la comodità della circolazione, dovrà essere abbattuta. Alcune fotografie riproducono molto chiaramente i particolari del cortile del palazzo (…) situato in quella parte di via Genova che è compresa tra la ex-piazzetta di S. Martiniano e la chiesa di S. Francesco, è assai modesto nella sua architettura esterna, ma è dotato all’interno di un cortile originale, che rivela quella grandiosità solenne che si osserva e si ammira nelle fabbriche del settecento e che difficilmente riescono ad ottenere i moderni architetti. Originali sono gli archi poligonali invece che in curva, sovrastanti allo spazio tra le colonne binate del piano terreno, grandiose le logge del piano superiore, che fortunatamente ci furono conservate intatte. (…) Ho parlato volontieri di questo edifizio, come altra volta ebbi a descrivere il distrutto palazzo Gibellini, pure in via Genova, perché troppo soventi ho udito ripetere che a Torino non c’è nulla da vedere”[20]. L’aderenza del testo al progetto fotografico di Gabinio non mostra semplicemente una consonanza di sentire ma  ci permette di riconoscere in questo tracce più che evidenti della presenza fattiva di Brayda, un risultato visibile, concreto, di quell’opera di “inarrivabile volgarizzatore dei fasti piemontesi” (Barraja, 1912) che l’ingegnere conduce da alcuni anni anche nell’ambito dell’Unione Escursionisti, con la quale collabora a partire dal 1898, guidando gli associati in  quelle gite artistiche che costituivano uno degli scopi del sodalizio,  in un ruolo che era stato sostenuto precedentemente dall’architetto Gottardo Gussoni e dal professore Ercole Bonardi. Le mete corrispondono puntualmente agli interessi di Brayda e toccano molti  dei luoghi canonici della riscoperta del medioevo piemontese, da Avigliana a Vezzolano, da Asti a Verres, da Bussoleno e Susa a Villarbasse, alla torinese Casa del Vescovo, tutti puntualmente ripresi da Gabinio con una attenzione specifica per i valori documentali ed architettonici, in immagini in cui non prevale mai -come accade nelle coeve fotografie di montagna- il semplice ricordo della gita, la foto di gruppo con l’architettura a fare da sfondo.[21] La presenza di Brayda  risulta determinante per la formazione del fotografo, ed in particolare per la maturazione di quell’interesse per le architetture storiche che si svilupperà  pienamente nel corso degli anni Venti, ma la sua egemonia all’interno dell’associazione solleva forti perplessità, manifestate pubblicamente con una lettera aperta del presidente Fiori, pubblicata sul numero di maggio 1902 del bollettino sociale “L’Escursionista”, in cui -dopo gli apprezzamenti di rito- viene evidenziato il rischio che le troppe gite artistiche snaturino la fisionomia originaria dell’Unione: “Per qualcuno cessammo proprio completamente d’essere escursionisti [diventando] un’associazione di artisti; ed è appunto questo concetto che crediamo sia poco opportuno (…) [noi siamo] amici dei monumenti (dico amici e non studiosi)”[22]. Se la rete di relazioni istituite all’interno di questo sodalizio -in particolare le presenze di Ceradini e Gussoni oltre a Brayda- risulta un elemento fondamentale per la formazione di Gabinio non va però dimenticata l’importanza del panorama fotografico torinese coevo, ricco di figure rilevanti e particolarmente attive proprio nell’ambito della documentazione ingegneristica e del patrimonio artistico ed architettonico, primo fra tutti Secondo Pia che proprio pochi anni prima, nel 1890,  riceve una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi” [23] in occasione della Esposizione Italiana di Architettura di Torino diventando di fatto un modello per il giovane Gabinio,  allora agli esordi, e certo la sua emozione dovette essere forte quando, al banchetto conclusivo  dell’Esposizione del 1900  Edoardo di Sambuy, – di fronte a Pia ed ai rappresentanti più noti della Società Fotografica Subalpina di cui è presidente – elogia le fotografie di Gabinio “da esse traendo occasione per lanciare l’idea della fondazione di un archivio fotografico”.[24] Il tema della raccolta fotografica documentaria, che attraversa tutta la fotografia ottocentesca, diviene di particolare interesse negli anni a cavallo dei due secoli e costituisce oggetto di riflessioni ed esperienze diverse in ambito internazionale e italiano. Nel 1892 era stato istituito a Roma, per iniziativa dell’ingegnere Giovanni B. Gargiolli quello che diventerà il Gabinetto Fotografico Nazionale, iniziativa legata a filo doppio al nascente problema della tutela, come viene esplicitamente dichiarato nel contestatissimo Regio Decreto del 1893 relativo all’obbligo da parte dei fotografi di consegnare al Ministero copie positive e negative delle riprese fotografiche “per provvedere alla migliore preparazione del catalogo generale dei monumenti e degli oggetti d’arte del Regno”. Lo stesso Congresso Internazionale di Fotografia che si tiene a Parigi nel 1900 (23-28 luglio) affronta il tema, specialmente per iniziativa di G. Moreau ed Alfred Liégard, contribuendo a meglio definire culturalmente e metodologicamente i termini della questione, poi ripresi in Italia da Corrado Ricci e Pietro Toesca in due interventi del 1904, da confrontare con le riflessioni coeve di Giovanni Santoponte, il quale affrontando la questione dal punto di vista dello specifico fotografico esplicita la differenza tra  museo fotografico, da intendersi quale raccolta eterogenea di immagini, e archivio, costituito da materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti  riferentesi ad una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte [individuando] i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali”.[25] Anche l’Unione Escursionisti partecipa di questo clima e nei primi mesi del 1901 il nuovo presidente Anselmo Giusta propone l’istituzione di un museo  presso la sede sociale individuando nella fotografia, da buon dilettante, “il mezzo più semplice, più spiccio e maggiormente alla portata dei soci per illustrare quanto si riscontra in fatto di monumenti, chiese, cappelle, castelli torri, ecc.ecc. sia antiche che moderne;  ed è quello che abbiamo scelto di preferenza, senza escludere di proposito gli altri. (…) Oltre alla fotografia dell’insieme si dovrà aver cura di riprodurre anche i particolari delle costruzioni e  delle decorazioni, gli interni degli edifici, i loro arredi ecc.” (Giusta, 1901) Si associano qui, come in decine di altri casi simili, l’ansia catalografica e la fiducia, tutta positivista, ottocentesca, nella fotografia come schermo trasparente, come strumento principe per la riappropriazione sistematica della realtà, semplicemente ridotta ad immagine, impronta reale del vero,   ma si riconosce anche,  qui come nelle riflessioni di Brocherel e Masoero, nell’opera di Pia, l’ansia di una parte del mondo fotografico di costruire e vedere riconosciuto un proprio ruolo, una propria funzione sociale e culturale che altri, nello stesso ambito e negli stessi anni, perseguono attraverso il confronto ingenuo e sovente superficiale con le retroguardie del mondo dell’Arte.

In questo clima si colloca la ricca serie di fotografie di architetture storiche piemontesi, prevalentemente  medievali, realizzata da Gabinio a partire dal 1897-1898, in cui la composizione risulta articolata e complessa, tesa ad indagare il rapporto tra lo  spazio urbano dei piccoli centri  e la presenza incombente, il segno forte di un elemento come la Sacra di San Michele  (A42/32, A37/96) o la coerenza compatta del tessuto edilizio di un centro storico, restituita nei suoi aspetti di fascinazione spaziale e architettonica mediante l’uso del grande formato, che consente l’emergere del dettaglio ed il suo apprezzamento (A21/9); ed ancora l’interesse per la città in trasformazione, in cui la documentazione si traduce in  composizioni di più ampio respiro, formalmente dotate di una propria autonomia che deriva da una sapiente distribuzione degli elementi di attenzione tra i diversi piani, come accade nella  veduta del Ponte in ferro [ponte Maria Teresa] al primo inizio dei lavori/ pel nuovo ponte, 1903 (A22/16). Ma il suo interesse non si limita al patrimonio storico; se l’influenza della cultura storicistica torinese è determinante essa comunque non esaurisce l’orizzonte di interessi di Gabinio che anzi si cimenta con le architetture effimere dei padiglioni della Esposizione Nazionale Italiana di Torino del 1898, con un ampio lavoro (89 stampe raccolte in album) realizzato forse su sollecitazione dell’amico  Mario Ceradini, in cui mostra di aver raggiunto ormai una padronanza tecnica ed espressiva assolute, producendo immagini in grado di competere vittoriosamente con quelle realizzate da Remo Lovazzano, fotografo ufficiale della manifestazione.[26] Appartiene allo stesso periodo anche la bella serie sui “Periodi di costruzione di un gasometro della Soc.ta’ It.na [Società Italiana Gas] – Torino” a Borgo Dora, 1898,(A17/13, 14) realizzata -crediamo- a partire da una committenza legata alla sua frequentazione nello stesso anno del corso di Meccanica presso le Scuole Tecniche Operaie San Carlo[27] e l’interessante documentazione del cantiere di ampliamento della Conceria Fiorio a Torino su progetto di Pietro Fenoglio, tra i primi esempi di applicazione del cemento armato in una architettura industriale.[28]

 

La montagna resta però, in questi anni, il tema maggiormente frequentato ed il soggetto utilizzato per condurre le Prove su carte diverse poi raccolte nell’Album n.25. Molte di queste immagini tendono alla oggettivazione del soggetto, isolato dall’inquadratura e descritto in sé, nelle sue componenti orografiche e geologiche,  senza relazioni che ne suggeriscano la collocazione geografica; la cima o il panorama alpino come assoluto o come pretesto – in contraddizione solo apparente- per la confezione di composizioni gradevoli, graziose, sovente a profilo centinato, che guardano in particolare alla produzione pittorica del paesaggismo piemontese di primo Novecento, ad Angelo Morbelli per indicare un nome.[29] Più frequenti sono però le immagini in cui risulta leggibile, coinvolta, la presenza del fotografo alpinista, la sua esperienza del luogo, la sua percezione dell’oggetto fotografato: in alcune ciò che prevale è il senso della distanza, la separazione tra punto di osservazione e oggetto dello sguardo, tra veduta e fotografia (A39/41) mentre altre, all’opposto,  sono giocate sul senso di prossimità, di accessibilità del sito, e allora la ripresa si sviluppa senza soluzione di continuità dal primo piano all’orizzonte, rimanda al percorso necessario da compiere per raggiungere la vetta (B123/1/37). Il fotografo mostra di essere nel paesaggio specialmente nelle vedute di bassa valle (A1/130, A1/132) che raccontano di spazi densi, in cui l’elemento naturale quasi sommerge i segni dell’antropizzazione, la strada, le baite; spazi letti come sistemi complessi e privi di gerarchie, restituiti in modo efficacemente preciso, analitico, sovente inseriti in un vero e proprio resoconto per immagini che descrive l’intero percorso dalla pianura alle vette, con quell’alternarsi mirato di inquadrature orizzontali e verticali che abbiamo visto utilizzato anche in Torino che scompare.

Le precise intenzioni descrittive, analitiche, si accompagnano qui alle prime evidenti preoccupazioni formali, compositive e tonali, che risentono in parte dei modelli coevi della fotografia artistica, come accade per la Cascatella sotto la Sacra di S. Michele, del 1899 (CN/4), riquadrata in stampa ad accentuarne le proporzioni verticali ed il calligrafismo, o in alcuni paesaggi più tardi (1905-1910) venati di un romanticismo mai lezioso, dove l’atto del guardare è retoricamente sottolineato dalla presenza di quinte poste in primo piano a delimitare la scena (A15/41); né finestra né specchio ma palese rappresentazione. Ciò che invece segna la distanza da quei modelli è l’assenza di flou e di manipolazioni in fase di stampa,  la ricchezza di dettaglio consentita dalla copia a contatto su carte ad annerimento diretto, per le quali anche i viraggi assumono una semplice funzione conservativa e di stabilizzazione del tono.

Il distacco risulta ancora più netto nella serie realizzata intorno al 1900 “Al Valentino – presso il ponte in ferro” (A22/1), in cui di un gruppo di alberi ripresi in controluce netto viene restituito il puro grafismo dell’intreccio dei rami, una massa intricata di segni contro il chiarore del cielo; immagini di cui è difficile trovare l’analogo nella produzione dei fotografi coevi, specialmente piemontesi. Qui la fotografia abbandona esplicitamente ogni intenzione di riproduzione per non documentare altro che se stessa e la fascinazione da cui è nata.  Questa serie costituisce il presupposto necessario per comprendere la successiva maturazione delle ricerche di Gabinio relative al tema del paesaggio, che si manifesta compiutamente intorno alla  prima metà degli anni Dieci, quando si allontana, per ragioni non note, dal gruppo dell’Unione Escursionisti, guadagnando l’indipendenza, la libertà di operare al di là di esigenze più o meno esplicite espresse o imposte  dall’appartenenza ad un gruppo. Si veda la Cascata secca (A41/21) del 1914, dove  la padronanza tecnica ed espressiva  di un linguaggio fotografico di derivazione ottocentesca gli consente di produrre un’immagine di grandissima qualità,  che supera di fatto ogni questione relativa alla fotografia pittorica; questa resta sullo sfondo, una suggestione forse non eliminabile per chi opera all’inizio del secolo con una formazione da autodidatta, ed emerge soltanto in alcuni elementi, nel modo di inquadrare certi soggetti, come nel  Paesaggio invernale al Frais (A42/7), 1910c., da confrontare con A Snow Track di Will A. Cady, presentata a Torino all’Esposizione del 1902, [30] o nella volontà esplicita di comporre il “quadretto” tipicamente grazioso ma senza osare poi il salto pittorialista ed anzi ibridando quella matrice con interventi strettamente connessi alle possibilità analitiche proprie del mezzo fotografico, confidando quindi tutto nel suo specifico: e sono le riprese scandite diacronicamente conservando meticolosamente immutato il punto di vista, dalla notte al giorno, dall’estate all’inverno. Uno strumento d’indagine, “un’opera fotografica, forse tecnicamente perfetta, o per qualche motivo speciale interessante, e che pur trovasi agli antipodi dell’opera d’arte”, per riprendere le distinzioni introdotte da Edoardo Di Sambuy per la  presentazione della manifestazione torinese, “evento cruciale per le vicende della cultura fotografica del nostro paese” (Costantini, 1994, p.95) che Gabinio visita il giorno 25 maggio sotto la guida dell’onnipresente Brayda, lasciando però nella sua opera tracce relativamente modeste. Quali possono essere le ragioni, le resistenze forse, che fanno sì che un dilettante attivo a Torino in questi anni non risulti segnato, profondamente, da questi celebrati modelli? Possiamo provare a definire il problema cercando di leggere le intenzioni dell’autore non solo attraverso l’opera ma anche utilizzando il filtro di alcuni dati, o indizi, legati alla sua biografia: il primo elemento da rilevare è la sua marginalità rispetto al mondo fotografico torinese, espresso in quegli anni da quella Società Fotografica Subalpina che nella preparazione della mostra del 1902 si rivolge a “pochi, ma valentissimi cultori”  ed ancora nel 1933 si riconoscerà “nata aristocratica”; [31] ed inoltre la formazione di Gabinio, l’ambito da cui proviene, ed al quale è ancora legato -quello dell’associazionismo alpinistico- non ha pretese di “modernità” e per quanto riguarda la fotografia si propone altri intendimenti e quindi si esprime con linguaggi differenti; riconosce i propri valori nei “dettagli” propugnati da Jules Brocherel e nelle dichiarazioni di Pietro Masoero a proposito dell’ “arte fotografica [che] deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro”, [32] riconoscendo nel suo specifico quella modernità di linguaggio che altri cercavano altrove. Sarà per queste ragioni che il suo modo di fotografare non viene apprezzato dai critici dell’epoca così che, quando partecipa all’esposizione di fotografia organizzata dall’Unione Escursionisti nel 1906, il notista de “La Fotografia Artistica” lo segnala solo in quanto organizzatore della manifestazione, senza citare alcuna delle sue opere.[33] È  questa modesta occasione la sola esposizione a cui Gabinio partecipa prima degli anni Trenta né risulta che sia mai stato coinvolto in altre particolari realizzazioni collettive, quali le diverse iniziative legate agli aiuti per i terremotati di Reggio Calabria e Messina nel 1908.[34]

A  Torino si susseguono in questo lasso di tempo l’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, organizzata nel 1907 da “La Fotografia Artistica”, con la partecipazione di 391 autori provenienti da 16 paesi diversi, in particolare Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania, e quindi la Mostra Fotografica organizzata in occasione  dell’Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro, promossa nel 1911 nell’ambito delle celebrazioni per il 50° anniversario dell’Unità d’Italia, che vede 250 espositori con circa 2000 opere suddivise nelle due sezioni di “Fotografia artistica, industriale, illustrativa” e “Applicazioni della fotografia”, a cui va aggiunta l’esposizione di fotografia alpina prodotta nella stessa occasione dal Club Alpino Italiano e curata da Guido Rey.[35] Le occasioni per un confronto, anche pubblico,  e per un relativo aggiornamento sono quindi accessibili, al di là della presenza torinese di un periodico autorevole come “La Fotografia Artistica” (Costantini, 1990), ma l’attività di Gabinio in questo periodo risulta -per ragioni non note- quantitativamente ridotta seppure di grande qualità, condotta in assoluta autonomia e quasi -si direbbe- in isolamento, in una condizione di autoemarginazione da qualsivoglia sodalizio fotografico.

 

Gli anni della Grande Guerra, per Torino anni di crescita industriale e demografica e di forti conflitti sociali, sono un lungo periodo di silenzio per  un personaggio ormai non più giovane (nel 1921 compie cinquant’anni) e forse sconcertato dai mutamenti in atto, che alla cronaca non ha dedicato mai -almeno fotograficamente- alcuna attenzione, neppure più avanti nel tempo, durante la collaborazione con la Rassegna Municipale “Torino”, che utilizza la fotografia quale strumento di isolamento e difesa, una protezione sicura che libera dalla necessità di avere contatti col mondo.

Il 1923 è un anno di svolta. In un quadro politico segnato dall’ascesa al governo di Mussolini, nella città lacerata dalle lotte sociali ed ancora sotto l’incubo della strage fascista del dicembre ‘22, la Camera di Commercio Torinese promuove la “Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia”, aperta al Palazzo del Giornale al Valentino  per onorare il terzo  centenario della morte di Giovanni Battista Della Porta (1535-1615). Esempio complesso di esposizione fotografica, strutturalmente distante dai Salon che seguiranno per l’articolazione della materia, che prevede sezioni relative a tutti i settori di applicazione della fotografia, la manifestazione riscuote un grande successo di pubblico, segnato da più di 200.000 visitatori in due mesi. “Nonostante lo stato d’animo in cui vivono ancora molti nella crisi restauratrice, che involge problemi di spirito e di materia” alla sezione di fotografia artistica partecipano 227 autori internazionali con ben 3920 opere, tra le quali destano particolare attenzione quelle del cecoslovacco Frantisek Drtikol, nelle quali si rileva “uno stridore di contrasti, un urto fra l’acquiescenza alle forme consuete e la ribellione al passato, che impongono uno studio”.[36] Ma il 1923 è anche l’anno della pubblicazione del primo numero di Luci ed Ombre, annuario del “Corriere Fotografico”, da poco trasferitosi per proprietà e redazione a Torino per opera di Carlo Baravalle, Achille Bologna e Stefano Bricarelli, i fondatori del “Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica”, che assumerà per oltre un decennio “un ruolo catalizzatore della ricerca fotografica in Italia”.[37]

Anche per Gabinio questo sembra essere il momento della ripresa, segnato da una novità importante: l’apposizione alle stampe, quasi sempre al verso,  della data esatta di realizzazione e in alcuni casi del titolo, ancora di tipo descrittivo, semplice elemento di identificazione documentale del soggetto. Sono, questi, sintomi  di un rinnovato e diverso interesse per il lavoro fotografico ed elementi importanti  per ricostruire datazione e modalità di lavoro per la prima volta in modo accurato e diretto. [38]A partire dal giugno 1922  le cadenze di ripresa diventano molto ravvicinate, anche 3-4 giorni di seguito, e quantitativamente consistenti, mentre i soggetti oscillano in un ventaglio ampio di temi torinesi, tra paesaggi fluviali  e prime architetture, ancora senza un chiaro progetto apparente. All’anno successivo va invece fatto risalire l’inizio di un’altra consistente serie, quella dedicata alle “Fioriture”, che proseguirà senza sostanziali modificazioni di senso negli anni successivi, certo su sollecitazione diretta degli esempi proposti dalle riviste, in particolare dal “Corriere Fotografico” che dedica più di un concorso tra i propri abbonati a questo tema, ospitandone poi i risultati migliori sulle proprie pagine. [39] È  certo un tema tra i più consueti e stereotipati, al quale Gabinio riesce però ad applicare un trattamento meno oleografico, non solo per il ricorso consueto alla stampa a contatto da lastra di grande formato ma anche per la specifica modalità di composizione, con le chioma fiorite a riempire l’inquadratura sino a saturazione (B96/88) oppure, all’inverso, costruendo l’immagine su percorsi di lettura dinamici,  guidati da un pullulare di segni che si intersecano secondo opposte direzioni (B96/79). Sostanzialmente differenti e distanti dagli esempi proposti dalle riviste sono poi alcune stampe del 1923 (P5/1) nelle quali il segno forte dell’albero o del ramo fiorito viene sostituito da una trama di elementi apparentemente minori, ciascuno privo di intrinseca rilevanza figurale, propri dei micropaesaggi marginali, in cui scompare la relazione consueta tra figura e sfondo e l’immagine vive propriamente delle sole relazioni interne definite dal fotografo.[40]

L’articolazione del tema diviene particolarmente complessa nella serie del 1924-1926 realizzata al parco del Valentino e intitolata “Il castello medievale, ingresso pustierla a nord-o”: sono circa venti stampe su carte diverse, corrispondenti a quasi altrettante riprese, in cui gli alberi e le architetture, sino a quel momento indagati separatamente, interagiscono tra loro per il tramite della luce, che incomincia a mostrarsi quale elemento narrativo autonomo. Il risultato finale (B52/118), molto più tardi pubblicato anonimo sulla rivista “Torino”, è il frutto di una ricerca ostinata e lunga, fondata sullo studio delle varianti minime di definizione della scena, condotta in momenti e stagioni diverse mantenendo costante l’inquadratura. La questione della definizione spaziale propria del paesaggio è indagata in Parco Michelotti sotto la neve, 1930c (P37/10), secondo  una impostazione che possiamo definire paradossalmente antifotografica: le divergenti linee di fuga dei viale e l’assenza di un centro precisamente individuato producono una ambiguità percettiva che rende irriconoscibili le tracce della costruzione prospettica propria dell’ottica fotografica, generando contemporaneamente un raddoppiamento speculare della figura secondo una formula  che ritroviamo in altre sue immagini di soggetti diversi realizzate nello stesso periodo (B71/14, B103/23). [41]

 

I primi anni Venti segnano anche l’inizio effettivo dell’interesse di Gabinio per il patrimonio architettonico e le trasformazioni urbane di Torino, già indagato con Torino che scompare del 1900 e con alcune più sporadiche riprese degli ani ‘10, qui ora affrontato con sguardo più ampio e nuova sistematicità, mentre sparisce  di fatto quello che era stato fino al quel momento il tema principale della sua produzione fotografica, la montagna.

Tra i primi soggetti il Borgo Medievale al parco del Valentino, spazio effimero realizzato in occasione della Esposizione Generale Italiana del 1884 divenuto testimonianza consolidata della cultura architettonica storicista e del nascente restauro architettonico, che Gabinio indaga come microcosmo urbano reale, nei suoi rapporti spaziali e nelle sue architetture più vere del vero, senza cedimenti al pretesto decorativo o sottolineature della sua possibile funzione di loisir. È la stessa intenzione documentaria, di registrazione del dato reale che si ritrova nelle altre serie: quella dedicata ai monumenti che ornano piazze e giardini torinesi, dei quali ci restituisce un catalogo sostanzialmente esaustivo, e quelle altrettanto ricche  dedicate alle chiese ed ai palazzi barocchi, alle vedute urbane, ritornando più volte sullo stesso soggetto, alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta.  Le campagne fotografiche sono condotte con ritmi molto intensi, anche 15 lastre al giorno, percorrendo la città per aree omogenee o limitrofe, combinando esaustività della documentazione ed economia degli spostamenti, seguendo cioè percorsi che sembrano determinati non tanto da una committenza precisa quanto da un progetto individuale, al quale non sembrano però essere estranei i precisi interessi e la rete di relazioni del nipote Ugo Alessio, che in questi anni frequenta l’Accademia Albertina diplomandosi professore di Disegno Architettonico nel 1925.[42] A molti di questi edifici vengono  dedicate serie costituite da numerose immagini, come accade per la chiesa dei Santi Martiri o per il Duomo, di cui -oltre alle importantissime riprese della navata principale realizzate prima della cancellazione totale della decorazione- il fotografo indaga l’architettura e la presenza urbana, con inquadrature singolari e sapienti, a volte tanto poco ortodosse quanto efficaci (B75/64), segnate da un accorto uso dei rapporti tra luce ed ombra per presentare l’articolazione dei volumi minori del fianco destro (P21/17) oppure ancora ricorrendo alle affascinanti riprese zenitali (B75/129), fino ai notturni dal campanile e della facciata, questi datati al maggio 1930 in occasione della ostensione della Santa Sindone,  nei quali ancora una volta si riconferma l’interesse del fotografo non tanto per la cronaca dell’evento quanto per le modifiche ambientali che questo induce (le transenne, le tracce del  flusso di movimento della folla).[43] L’interesse per l’architettura e per le possibilità di lettura che ne offre la fotografia, quindi anche per i problemi posti dalla relazione tra illuminazione e forma architettonica, risulta chiaro nelle opere dedicate al cortile a portico e loggiato del palazzo dell’Università torinese, nelle quali al rigore topografico nella determinazione dei punti di ripresa (ripetizione dello stesso punto di vista in punti corrispondenti sui due piani, perfettamente allineati secondo un asse verticale) si affiancano immagini più affascinate dal gioco chiaroscurale consentito dagli stessi elementi architettonici, tema su cui lavorerà a lungo ottenendo risultati soddisfacenti, come per Austerità (RA/80) presentata all’Esposizione di Fotografia di Stoccolma nel gennaio 1934 e per Università  (RA/79) esposta a Bruxelles nel 1935 nell’ambito del XIV Salon organizzato dalla Association Belge de Photographie et Cinematographie, esempi di quel possibile connubio tra documentazione (architettonica) e fotografia artistica che molti ritengono  non realizzabile e che costituisce una delle manifestazioni del più generale ambito di discussione sulla natura del documento fotografico che si trascinava almeno dalla metà dell’Ottocento. “La fotografia architettonica non può essere fotografia artistica -afferma T.H.B. Scott, vicepresidente della Royal  Photographic Society di Londra,  nel 1925- essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve rinnegarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”, affermazioni pesanti queste, alle quali tenta di far fronte J.R.H. Weaver quando afferma che “nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo”.[44]

In questo periodo la posizione di Gabinio così come ci appare dalla lettura delle sue opere si mantiene in bilico tra le due posizioni ed è semmai orientata verso una concezione della fotografia quale riproduzione della realtà esterna, documento tanto più oggettivo quanto più tecnicamente corretto e magistralmente realizzato, con un orgoglio del fare che guarda alla tradizione dell’artigiano piuttosto che  all’artista, al mestiere del fotografo se non alla professione. “Rimettere in collezione” afferma l’iscrizione  apposta la verso di una stampa del 1925, suggerendo  la presenza di un repertorio prodotto con destinazione commerciale, al quale fanno pensare anche altri indizi sparsi quali i numeri d’ordine o le indicazioni di classificazione presenti in alcune stampe dello stesso periodo e le prime tracce di pagamenti ottenuti da committenti occasionali, incontrati forse durante le peregrinazioni fotografiche per le vie della città. Il lavoro intorno all’architettura assume la forma dell’indagine tipologica nella serie dedicata a portali e  portoni degli edifici sei-settecenteschi, riprendendo un tema non nuovo della produzione fotografica torinese, già affrontato da Alberto Charvet nel 1888 ancora in relazione con Brayda[45], qui connotato da una più marcata attenzione per il dato architettonico e da evidenti preoccupazioni compositive, che si concretizzano nella ostinata concatenazione di spazi e superfici tra facciata e cortile interno; intendendo il portale come cornice architettonica e punto di accesso al cannocchiale prospettico puntato verso il cortile, con la presenza costante di un elemento posto a sottolineare la posizione del punto di fuga.

Appartengono allo stesso periodo anche le fotografie dei piccoli caffè ed alberghi del vecchio centro, non i caffè ‘storici’ della tradizione torinese ma quelli che allora animavano le strade dell’antica città quadrata e contribuivano a definirne l’identità ambientale. Anche qui non è opportuno parlare semplicisticamente di nostalgia, è necessario invece riconoscere un’intenzione ed un sentimento più complessi, condivisi da una larga ed eterogenea porzione della scena culturale torinese della seconda metà del decennio. Le vedute urbane si muovono tra le strade anguste del nucleo antico (B103/4) e le sponde del Po, con il ponte ad articolare il dialogo tra la città e la collina con le sue presenze architettoniche (B77/122, B91/9) mentre la parte più aulica della città viene quasi trascurata. Sono gli stessi soggetti che si ritrovano nell’esposizione di “Vedute di Torino” promossa nel 1926 dalla “Società di Belle Arti A. Fontanesi”, a cui partecipano tutti gli esponenti del fronte figurativo torinese insieme ad architetti come Annibale Rigotti, Alberto Sartoris, membro della Commissione Ordinatrice, ed al giovane Aldo Morbelli, ancora studente,  con una serie di schizzi architettonici di temi e soggetti che si ritrovano nel lavoro che Gabinio compie negli stessi anni, noto anche ad un altro degli artisti presenti in mostra, l’incisore Francesco Mennyey, al quale il fotografo cede alcune vedute realizzate negli anni  immediatamente precedenti.[46] Sono i temi consueti della Torino antimodernista (“Noi moderni per i quali ogni arte è buona” dice Ceradini nel 1925)  contro i quali si scaglia Fillia nella recensione alla mostra: “[Nessuno] ha interpretato gli elementi che caratterizzano oggi la città (…) capitale dell’industria, ricchissima di forze plastiche moderne (…) Sembra che il pittore sia un essere insensibile, fuori del tempo, legato alla tradizione borghese della città, senza contatti con la vita (…) Una Torino quasi gozzaniana, dunque, in utrilliane elegie” (citato in Dragone, 1976, p.112), la stessa che si ritrova due anni più tardi nella serie dedicata alla “Vecchia Torino” da Marcello Boglione[47], ancora una volta ripercorrendo i luoghi,  intersecando i passi di Gabinio.

Una più accorta e impegnativa attenzione per le architetture storiche, ed una ulteriore occasione di confronto e di riflessione per Gabinio, è costituita sul medesimo scorcio dell’anno 1926 dalla “Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese” che si tiene a Torino alla palazzina della Promotrice delle Belle Arti al parco del Valentino nell’ambito della “II Mostra Internazionale di Edilizia”. Diretta da Giacomo Salvadori di Wiesenhof e Giovanni Chevalley sotto la presidenza di Carlo Nigra, la mostra presenta “un complesso di materiali di eccezionale interesse e non sempre facili da riunire e ordinare (…) gran copia di disegni di antichi architetti piemontesi e disegni e fotografie di cospicui edifizi della regione subalpina dal romanico all’800”[48] tra cui una importantissima retrospettiva dell’opera di Secondo Pia. Le architetture che Gabinio fotografa in questi anni,  e le scarse annotazioni presenti al verso di alcune stampe confermano una attività professionale non altrimenti documentata e smentita dallo stesso ricordo di coloro che lo conoscevano (Alessio, 1939, p.34) e la presenza di precise committenze per ora ignote. Conclusa la documentazione del patrimonio storico architettonico urbano si dedica alle architetture religiose della collina ma soprattutto alle nuove realizzazione, infrastrutturali o simboliche che tentano di porre un argine alle tensioni sociali determinate dalla crescente disoccupazione  connettendole  alle celebrazioni per il decennale della vittoria (il ponte Vittorio Emanuele III ora Balbis al Pilonetto (B92/86 E SEGG), su progetto di Giuseppe Pagano e il Faro della Vittoria al Colle della Maddalena)  ed agli altri  importanti cantieri aperti in città alla fine del decennio quali il ponte Principi di Piemonte in zona Sassi, ancora di Pagano (B92/27 E SEGG),  e  la demolizione di parte dell’antico Arsenale, per i quali organizza documentazioni minuziose e concettualmente innovative che seguono ogni fase dei lavori alternando vedute di insieme e dettagli costruttivi, introducendo per la prima volta l’elemento dinamico nel proprio lavoro (P16/15-18).

Il consolidamento dell’attività professionale sembra dargli sicurezze nuove e nel 1928 Gabinio partecipa individualmente per la prima volta ad un concorso, quello dedicato a “Le belle fotografie di Torino”, promosso dal “Corriere Fotografico” tra i propri abbonati, vincendo uno dei premi minori con la veduta Dal campanile del Duomo verso piazza Castello,  che sarà successivamente pubblicata nel numero unico dedicato a Le Esposizioni e i festeggiamenti di Torino nel 1928 (Commissione Propaganda, 1928, p.11) ma soprattutto gli frutta i primi contatti con la redazione della rivista municipale “Torino” (Avigdor, 1981, p.170) con cui collaborerà fino alla morte, pur senza mai ottenere di poter firmare le proprie immagini.

L’Amministrazione Comunale torinese è in questi anni particolarmente attenta ai temi della fotografia sia come settore di formazione professionale sia come strumento di documentazione e propaganda della propria attività. Per iniziativa di Alfredo Laezza, segretario della Società Fotografica Subalpina,  nel 1929 viene istituita dalla Città di Torino la Scuola di Avviamento Fotografico G. Pacchiotti “a beneficio di coloro che intendono dedicarsi all’arte ed al commercio fotografico” introducendo per la prima volta nel programma dei corsi anche l’insegnamento di Storia dell’Arte[49], mentre risale al 1931 l’istituzione della Fototeca Municipale allo scopo di “seguire e fissare nella documentazione fotografica lo sviluppo urbanistico in genere e sotto l’aspetto estetico dell’edilizia in ispecie (…) sia ancora per seguire l’andamento e lo sviluppo di opere pubbliche eseguite dal Comune o dei lavori edilizi privati (…) analogamente a quanto viene praticato dai grandi comuni del Regno. [Specialmente] con l’occasione dell’imminenza dei lavori di risanamento dei quartieri adiacenti via Roma e dell’esecuzione di altre numerose ed importanti opere di pubblico interesse (…) è opportuno deliberare subito la formazione della raccolta delle fotografie interessanti la vita cittadina”.[50]

 

È  in questa prospettiva che va collocata l’importante documentazione fotografica realizzata da Gabinio nei primi anni Trenta, seguendo il cantiere di Via Roma nuova ma documentando anche singole realizzazioni architettoniche su commissione diretta delle società proprietarie (Società Reale Mutua Assicurazioni, Istituto San Paolo)  o di architetti come Armando Melis e Alberto  Ressa. È specialmente il tessuto urbano interessato dai lavori per il primo tratto (1931-1933) ad attirare l’attenzione di Gabinio, nuovamente intento ad indagare le mutazioni, il passaggio dall’antico al nuovo, dalla tradizione al moderno, gli spazi di questa città “deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi” come diceva Benjamin nello stesso 1931 analizzando Atget[51]. L’enorme cantiere è seguito passo passo con la preoccupazione -in lui consueta- di fornire una informazione esaustiva.   Le vedute d’insieme delle prime demolizioni si alternano alla documentazione delle preesistenze per lasciare quindi spazio agli scavi, in particolare quelli per la “metropolitana”, osservati con una sapienza di sguardo che coniuga felicemente documento e ricerca compositiva; una fotografia diretta, pura, che produce immagini eleganti e raffinate dalle quali traspare il fascino ambiguo esercitato da queste architetture nuove, quasi posticce, scenografiche (B71/44), meno interessanti dei padiglioni provvisori costruiti in piazza San Carlo (B103/21, 23).

Le fasi di realizzazione del secondo tratto (1935-1937) sono documentate in modo meno esaustivo. Gabinio è ormai ammalato ma -crediamo- in questi anni è più  interessato alla esplorazione del linguaggio  fotografico. La fotografia  pura si affianca alle manipolazioni che gli consentono di proporre una propria visione di Via Roma nuova adottando la tecnica del fotomontaggio (B68/30), assolutamente eccezionale per lui, in cui per un semplice gioco di ribaltamento, di rispecchiamento della figura, la prefigurazione della nuova strada assume quei caratteri di regolarità e decoro che il progetto prevedeva pur conservando miracolosamente intatte le proprie architetture. Qui la città viene reinventata o mostrata nella lacerazione delle sue ferite che le danno “quell’aspetto di Dunkerque” che nemmeno le demolizioni dell’ultima guerra le avrebbero inflitto (Gabetti, Olmo, 1976, p.28); come già accadeva per le immagini di montagna è al panorama che viene affidato il compito di restituire in modo esauriente, massimamente oggettivo, il quadro della situazione (B71/140-143).

Il lavoro più interessante prodotto in questi anni è però quello legato alla documentazione dei due importanti cantieri promossi dalla Reale Mutua Assicurazioni, la sede centrale in via Corte d’Appello (1932)  e la “torre littoria” (1933-34), compresa nella ricostruzione dell’isolato di San Emanuele, entrambi eseguiti su commissione della Società in concomitanza con altri professionisti torinesi quali Pedrini e Ottolenghi[52], ciò che conferma ulteriormente la relativa notorietà professionale raggiunta da Gabinio in quegli anni. Il dato per noi più interessante è però fornito dalle stesse fotografie, che denunciano esplicitamente il fascino costruttivista dell’architettura del ferro, qui sapientemente confrontato con la città e le sue permanenze, in un dialogo suggestivo tra struttura architettonica e maglia urbana (A31/64) che solo in rari casi si traduce troppo esplicitamente nella  ricerca retorica e ingenua dei Contrasti (CN/51). Qui la cultura fotografica che emerge non è di certo quella dei Salon torinesi o di Luci ed Ombre, sostanzialmente ancorata ad un tardo pittorialismo in lenta trasformazione, con la sola eccezione di alcune opere di Stefano Bricarelli e delle prime prove di Riccardo Moncalvo, ma invece quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che Gabinio conosce certamente per il tramite del nipote Ugo Alessio, che ospita dopo una prima, importante, recensione del volume Photographie prodotto dalla rivista parigina “Arts et métiers graphiques”, pubblicata nell’aprile del 1932, nel maggio dello stesso anno l’importante  Discorso sull’arte fotografica  del direttore Gio Ponti, il quale riconosce alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio. Enorme importanza della fotografia”.[53] L’affermazione di questa autonomia è poi sostenuta e illustrata nella rubrica di fotografia che compare saltuariamente nei numeri successivi almeno fino ai primi mesi del 1933;  in perfetto accordo con la linea espressa dalla rivista, la selezione di fotografie industriali o di oggetti, di “cose”, non si rivolge tanto alla produzione europea di matrice costruttivista e razionalista quanto piuttosto alla sua declinazione statunitense, posta sotto l’influenza di Charles Sheeler e  conservando traccia del fascino che l’America aveva esercitato alcuni anni prima su Erich Mendelsohn.  Quanto autorevole fosse per Gabinio l’esempio costituito dalle fotografie pubblicate sulle pagine di queste riviste lo dimostrano alcune immagini della serie dedicata al palazzo dell’Opera Pia San Paolo di Torino (1934), in particolare quelle dedicate alla scala elicoidale, in cui sempre più chiaramente assistiamo alla riappropriazione da parte del fotografo del puro dato documentario, sul quale opera per variazioni tanto lievi quanto significative (B69/49), costruendo una realtà esplicitamente fotografica.[54]

 

Nuove visioni di Torino titola Gabinio nel 1931 una veduta di piazza Castello ripresa dalla cupola della chiesa della SS. Trinità (P13/5)  e definisce con questo solo titolo gli anni della sua svolta. È una sintetica dichiarazione di intenti. L’immagine non si discosta di molto dalle numerose altre sue fatte a partire dalla metà degli anni Venti; l’inquadratura è ancora ortodossa, perfettamente allineata all’orizzonte, ma le luci si fanno taglienti e ciò introduce  un’inquietudine nuova, inattesa, che dà senso al titolo: ciò che muta è l’intenzione dello sguardo se non ancora -ma per poco- la sua strutturazione in immagine. È per noi  il segnale dell’avvenuta conoscenza e dell’accettazione di una nuova concezione dell’immagine che si sta formando e diffondendo in quegli anni e della quale la “nuova visione” costituisce la parola d’ordine, il motto internazionale, che trova nell’esposizione Film und Foto di Stoccarda nel 1929 la propria celebrazione, diffuso in Italia da interventi quali  L’ora presente della fotografia di Wilhelm Kastner, pubblicato ne “Il Corriere Fotografico” dello stesso anno (Zannier, 1993, p.38) e ripreso nel 1931 da un altro torinese, Piero Boccardi, che presenta alla Mostra di Fotografia Futurista una  sua Visione torinese.[55] Se escludiamo alcuni panorami della città dal Monte dei Cappuccini, realizzati per incarico della Fototeca Municipale nei quali il tema ancora una volta è, al di la delle apparenze, la Torino che scompare, opere come Dall’alto, 1933, (RA/83) incarnano consapevolmente gli indirizzi dell’estetica  nuova: “L’importante è il come un oggetto viene considerato -afferma ancora Kastner- in quale posizione si trova rispetto all’apparecchio, da qual punto di vista lo si percepisce”,  al quale fa eco Antonio Boggeri sulle pagine di Luci ed Ombre dello stesso anno quando riconosce tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della nuova fotografia “la scelta del soggetto, la sua illuminazione e il punto di vista dal quale colpirlo” (citato in Luci ed Ombre, 1987,p.110), entrambi intenti a divulgare gli insegnamenti di Lazlo Moholy-Nagy.[56]

I suggerimenti e le suggestioni che gli provengono dalla cultura architettonica sono certo determinanti per il rinnovamento del suo linguaggio fotografico ma a questi deve essere accostato il preciso impegno scolastico che Gabinio assume verosimilmente in relazione alle necessità di aggiornamento che gli derivano dai suoi incarichi professionali. Nonostante abbia alle spalle una carriera quarantennale, sempre vissuta modestamente ai margini della comunità fotografica ma tutt’altro che povera di riconoscimenti, egli si iscrive nel 1928 ai Corsi promossi dalla Sezione Fotografica dell’Unione Escursionisti ALA (“Ad Liberas Alpes”, da non confondere con la più antica Unione Escursionisti Torinesi) che nel secondo semestre del 1933, per iniziativa di circa sessanta membri darà vita alla Associazione Fotografica ALA (“Ad Lucis Artem”, aderente all’Istituto Fascista di Cultura,  che si trasformerà successivamente in AFI, Associazione Fotografica Italiana). Tra i vari  scopi l’Associazione   si prefigge di “guidare i Soci attraverso lo studio pratico della fotografia promuovendo manifestazioni culturali (…) esperimenti e dimostrazioni (…); promuovere mostre personali e collettive (…); creare gradatamente il più grande numero possibile di elementi idonei a presentare opere d’arte fotografica alle esposizioni nazionali e, principalmente, a quelle estere dove sempre più dovrà affermarsi l’arte fotografica italiana.” (citato in Avigdor, 1981, p.165) secondo un programma che risente palesemente delle direttive imposte dal regime fascista, qui ben rappresentate dalla figura di Mario Bellavista, consulente tecnico dell’associazione e rappresentante della società Gevaert. A dimostrazione dei consistenti appoggi di cui gode, la stessa Associazione pubblicherà a partire dal settembre 1934 il periodico “Pagine Fotografiche ALA”, stampato in migliaia di copie e distribuito gratuitamente.

Il II Corso, di perfezionamento, che vede tra i docenti oltre a Bellavista anche Alfredo Laezza, Oreste Castagneri e Domenico Riccardo Peretti-Griva, cioè una buona rappresentanza di esponenti della tradizione con alcune aperture “moderniste”,  si conclude nel 1933 con una premiazione da cui Gabinio risulta escluso pur figurando tra gli iscritti, né pare che si debba all’iscrizione all’ALA la sua partecipazione alla “I Mostra di Arte Fotografica del paesaggio e dei monumenti di Aosta e Provincia” del 1932, organizzata da Jules Brocherel e suddivisa in cinque sezioni, (archeologia, arte, folklore, scienza, turismo) che vede tra gli espositori anche Italo Bertoglio, Achille Bologna, Cesare Giulio e Mario Prandi mentre della Giuria fanno parte Cesare Schiaparelli, Emilio Zanzi e Antonio Valli. Gabinio, che partecipa a quattro sezioni risultando  primo classificato in quella dedicata all’archeologia, sceglie di presentare in questa occasione ancora immagini di taglio tradizionale, sia ingrandimenti da lastre realizzate a cavallo del secolo sia riprese nuove, datate al 1931 e 1932 ma compositivamente assimilabili ai canoni ottocenteschi (CN/22) e non a caso premiate e pubblicate. Le caratteristiche delle sue fotografie ricche di dettagli tornano ad essere apprezzate in questi anni di incerto abbandono del gusto pittorialista e Gino Sansoni recensendo la mostra arriva a contrapporre Gabinio “ottimo fotografo molto nitido e preciso, nemico di ogni ricercatezza” al “pizzico di leziosità” di Bologna e in genere di tutti quei fotografi che “per la meticolosa raffinatezza e ricercatezza dell’esecuzione, con l’abuso del ritocco, con l’esagerata sfocatura [si sono] un poco discostati dalla natura forte ed a volte aspra, dei soggetti  prescelti quali sono in maggior parte quelli offerti dalle Alpi aostane”[57], offrendo un esempio di felice sintesi tra estetica fotografica e retorica della razza.

Il successo ottenuto lo spinge certo a dedicarsi con sempre maggior impegno alla ricerca fotografica ed il suo linguaggio subisce proprio in questi anni una trasformazione radicale, ben riconoscibile sia nei lavori professionali sia nelle sperimentazioni personali sebbene -come vedremo- sussistano  una insicurezza di fondo ed un desiderio di  omologazione che gli impediscono di presentare pubblicamente le prove più avanzate, nella consapevolezza della distanza esistente tra queste ed il panorama offerto dalla produzione amatoriale ma anche nella volontà ostinata di voler entrare a far parte, ad ogni costo, della comunità dei fotografi da Salon.

Dopo la grande Esposizione del 1923 Torino vede un susseguirsi quasi ininterrotto di occasioni espositive, prevalentemente nate dalla collaborazione tra il Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e la Società Fotografica Subalpina.

Nel dicembre 1925 apre il “Primo salon italiano d’arte fotografica internazionale” con la partecipazione di 227 espositori di 22 nazioni diverse; tra gli italiani, oltre al gruppo compatto dei torinesi, si segnalano Bragaglia, Sella e Wulz mentre il panorama straniero spazia da Drtikol a Mortensen, a Dubreuil, a Sudek, da Funke a Ortiz-Echagüe e Polak in un mescolarsi di tradizionalismo pittorialista e influenze del nuovo che sconcerta il critico de “La Stampa” Ugo Pavia, il quale dopo l’ennesima riproposizione del luogo comune delle fotografie che “possono essere scambiate per veri quadri” rileva la novità costituita dagli artisti russi e cechi, il “cubista Drtikol”, il suo discepolo Funke ed il polacco Dederko,  “questi artisti-fotografi futuristi, anche se non persuadono, destano però molta curiosità nei visitatori” mentre giudica negativamente la partecipazione francese (“il materiale inviato è di scarso interesse artistico”) ciò che parrebbe una prima presa di distanza dal gusto pittorialista se non fosse per l’apprezzamento manifestato per l’opera di Léonard Misonne.[58]

Il 1928 vede un pullulare di manifestazioni che si affiancano alla “Esposizione per il IV Centenario di Emanuele Filiberto e X anniversario della Vittoria” dove il padiglione della “Comunità dei fotografi” è progettato da Gigi Chessa[59], ma la ricchezza delle proposte risulta solo di ordine quantitativo ed il panorama proposto riconferma univocamente la tendenza pittorialista, negando le aperture che avevano caratterizzato il “I Salon”.

Per incontrare proposte diverse si deve attendere il 1930, quando al “Terzo Salon Italiano d’arte fotografica Internazionale”, vengono esposte -pur in un panorama quantitativamente ridotto rispetto alle edizioni precedenti- alcune opere che indicano direzioni nuove di ricerca come Uova, una natura morta di Achille Bologna, Aurora umbrarum victrix di Stefano Bricarelli e L’onda dell’americano K. Nakamura, un efficace studio di forme derivato dal movimento delle acque, che propone un atteggiamento inedito per il panorama torinese e sul quale Gabinio ha certamente riflettuto, profondamente diverso da quanto teorizzato poco tempo prima da Cesare Schiaparelli, per il quale “l’uomo, il fotografo che va in giro per diletto, si ferma più volentieri presso l’acqua morta. Perché? Perché la vista delle cose immote riposa l’anima e il corpo. E noi, dopo le diuturne e grandi e piccole battaglie della vita, cerchiamo il riposo. E poi è così suggestiva l’acqua che si ferma a dormire all’ombra delle piante nei silenziosi recessi! (…)  Da questo mistico sposalizio della forma della pianta colla superficie dell’acqua ferma, nasce in noi quel senso di intenerimento, di distensione dei nervi, di calma dello spirito che dà la vista delle cose solitarie, immobili e silenti, come l’audizione di un notturno o di una sinfonia in tono minore” (Schiaparelli, 1928, p.293). È  il contrasto tra la quiete piccolo borghese e l’inquietudine dei tempi nuovi, che produce, anche in ambito fotografico, il suo piccolo fuoco d’artificio con la “Mostra sperimentale di fotografia Futurista” che si tiene a Torino nel 1931 dopo la prima, ridotta,  edizione romana dell’anno precedente: “Ecco oggi la “Fotografia Futurista”! Ultima, in ordine di tempo, essa non si accoda ma si lancia nel movimento totalitario che ha ormai investito tutta l’Arte e decisamente tenta le vie di una espressione nuova e generosa. (…) Ma non occorre diventare eccessivamente spregiudicati ed aconvenzionali, basterà rimanere liberi e sinceri per subire la suggestione di opere come quelle che figurano in questa prima Esposizione Sperimentale”. La presentazione di Giuseppe Enrie, fotografo torinese che nello stesso anno realizza una nuova ripresa della Sindone,  inquadra bene le spinte contraddittorie e le realizzazioni sovente ingenue che si ritrovano in questa tendenza alla quale molti (Bertieri, Castagneri, Enrie e lo stesso Parisio) sembrano aver aderito in modo episodico, ormai distante dalle tendenze rivoluzionarie espresse del primo futurismo e dalla prime fotodinamiche di Anton Giulio Bragaglia, ma il Manifesto della Fotografia Futurista  che Marinetti e Tato (Guglielmo Sansoni) lanciano in questa  occasione contiene comunque una serie di suggestioni affascinanti e ricche, che certo hanno contribuito al formarsi in Italia di una nuova concezione della visione: “Il dramma degli oggetti (…) Il dramma delle ombre (…) isolate dagli oggetti stessi. La spettralizzazione di alcune parti del corpo umano (…). La fusione di prospettive (…). La fusione di visioni dal basso in alto con visioni dall’alto in basso (…) Le drammatiche sproporzioni (…). Le amorose o violente compenetrazioni (…)” (citato in Fillia, 1932, p.101)  costituiscono altrettante nuove, e dirompenti, “possibilità fotografiche” contro le quali si scaglia Guido Lorenzo Brezzo nel testo di apertura dell’annuario del “Corriere Fotografico”  dello stesso 1931, facendosi evidentemente portavoce delle opinioni del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica. Stabilito che “l’artista vero è sempre naturalmente moderno (…) il pseudo-artista vuole essere moderno, vuole essere futurista, perché non può essere artista. (…) E d’altra parte che cos’è cotesta novissima modernità che si decanta come la sola, la definitiva perfezione dell’arte in genere e della fotografia in ispecie? [Essa ha] per soggetto fondamentale la macchina, realtà monofronte a solo aspetto pratico, essenzialmente limitato e temporaneo, sterile perciò di trascendenza e incapace, salvo rari casi e speciali, di servire d’oggetto all’atto d’intuizione estetica. Inoltre la frequenza del soggetto macchina ingenera negli operatori un’abitudine di visione meccanica, che viene trasferita a qualsivoglia soggetto sia di tipo naturale (figura o paesaggio) che artificiale (architettura).” (citato in Luci ed Ombre, 1987, pp.134-135)

Ulteriori segnali di rinnovamento provengono dalle opere presentate al “Quarto Salon Internazionale di Fotografia Artistica fra dilettanti” che si tiene sempre a Torino nel maggio-giugno 1933, con presenze interessanti come Ferruccio Leiss, Fosco Maraini, Alfredo Ornano e Bruno Stefani, oltre ai cecoslovacchi Jan Lauschmann e Jiri Jenicek. Per Italo Mario Angeloni, che la recensisce sulle pagine de “Il Corriere Fotografico” “c’è in questa Mostra il tormento del moderno, la ricerca della originalità qualche volta spinta fino all’eccesso” (Angeloni, 1933, p.252) ma anche, almeno per i migliori espositori italiani, la preoccupazione per  un problema: “quello della semplificazione”.  Pare essere questo il concetto chiave intorno a cui ruotano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni; già Marziano Bernardi nel 1927 aveva parlato di “conquista di stile” e di “concetto semplificatore” riconoscendo una rinnovata attenzione per le questioni compositive, mentre due anni più tardi,  sempre sulle pagine di Luci ed Ombre, Antonio Boggeri ne riprendeva i temi riconoscendo tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della “fotografia pura, o integrale” proprio la messa al bando di  “ogni concessione al gusto popolare [e la] aristocratica semplicità dello stile”.[60] Sono termini (e forse concetti) che si prestano  a sottili slittamenti di senso, ciascuno dei quali connota -e distingue in parte- le diverse posizioni. Così l’editoriale del primo numero dell’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, pubblicato a Torino nel luglio del 1933, definisce la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire” e Luigi Andreis, poco oltre  descrive “la moderna fotografia, schietta, serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale” rivelando infine l’ideologia nazional-popolare sottesa, che si traduce in  richiamo esplicito alle direttive di Mussolini espresse nel discorso di inaugurazione della Mostra d’arte del Novecento Italiano nel 1926 -ciò che sembra inserire rimandi ad un’estetica diversa e lontana da quella a cui si ispirava ad esempio Boggeri- la necessità di “inquadramento sindacale delle forze artistiche ed intellettuali” allo scopo di “creare il clima, ritornare alla nobile e meravigliosa tradizione artistica italiana, interrotta sulla fine del secolo scorso dal trionfo del cattivo gusto borghese, anche attraverso a sconvolgimenti ed a travagli interni nell’animo dell’artista, intensi e talvolta dolorosi: fu il compito iniziale del fuoco vivificatore del fascismo. Così attraverso il ‘900, il futurismo, ecc. vennero fuori la poesia del motore, nuovo e meraviglioso per la sua sagoma audace e per  il suo ritmo sonoro, forte ed ardimentoso; il severo e rapido passo della vita nuova; la sinfonia della sanità morale; il canto della Roma dei Cesari.”[61]

 

La trasformazione del linguaggio fotografico di Gabinio nel corso degli anni Trenta risente e riflette queste diverse influenze, in qualche modo assumendole e conciliandole contraddittoriamente nella propria opera.

Già si è detto del ruolo, importante, della cultura delle riviste di architettura ma nelle sue fotografie troviamo anche riferimenti e rimandi espliciti ad opere presentate alle mostre torinesi. Un primo esempio palese è La macchina da caffè (B106/54), insieme autoritratto e registrazione analitica del fascino moderno del metallo cromato della macchina, che costituisce una citazione quasi letterale de La tazza di caffè che Giulio Parisio presenta alla “Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista” del 1931, visitata da  Gabinio forse in compagnia di Oreste Castagneri, presente con tre opere e suo docente alla Scuola Fotografica ALA, ma anche l’altra coppia di autoritratti, più tarda,  (B103/27, B106/75) pur richiamandosi alle distorsioni anamorfiche di Louis Ducos du Hauron  e di Léon Gimpel, vive dello spirito ‘sperimentale’ della fotografia futurista.  Meno semplice risulta ricostruire la sequenza di rimandi che lo porta a realizzare la fotografia dei Due lattonieri su di una scala (B102/101) dove  i riferimenti evidenti vanno cercati  ben oltre i confini torinesi e italiani, e sono Moholy-Nagy (Navigazione, 1926-27) e soprattutto Rodcenko (Sulla grande scala, 1927)  anche se -come rilevava Andreina Griseri in tutt’altro contesto- anche noi possiamo dire che semplicemente “poteva aver captato un esempio eccitante, un’idea decisiva, sul filo della concentrazione (…). Dire «poteva aver estratto» toglie ogni legame di necessità all’ispirazione, ogni derivazione precisa da fonti: era il legame che unisce chi appartiene ad una cultura complessivamente unitaria, parla il medesimo linguaggio artistico, e lavora verso direzioni non contrastanti.” (Griseri, Gabetti, 1973, p.66)

Queste realizzazioni convivono con altre di impianto meno radicalmente innovativo ma ormai saldamente ancorate al moderno, quel recupero della fotografia pura che per Gabinio è solo consapevolezza nuova di una forma espressiva mai abbandonata. I due ritratti della  Ragazza col gatto  (B111/19) e dell’Uomo al mercato (P38/19) sono esempi riusciti di quel processo di semplificazione riconosciuto come elemento sostanziale della nuova fotografia, mentre dai contemporanei ritratti del compagno delle ultime  escursioni (B120/107, B106/50)  trapela una attenzione, una cultura d’immagine che tiene conto delle più autorevoli esperienze della scena pittorica torinese, senza per questo porsi alcun obiettivo di imitazione o di rifacimento.

È una varietà di atteggiamenti e di soluzioni che si ritrova anche nelle immagini dedicate alle acque,  tema a lui caro fin dalle prime fotografie di cascate alpine realizzate sul finire del secolo. Basta confrontare il fascino melanconico della Veduta della città dal Po (RA/47), sapientemente sottolineato da un appropriato viraggio, con la bella serie -realizzata nello stesso sito- dei gorghi alla diga Michelotti (B92/44-50) dove l’indagine assume la forma della variazione sul tema del contrasto tra la fissità della struttura metallica e  le forme continuamente cangianti dell’acqua, quelle stesse che  ritroviamo ancora in Po,  1935 (RA/76), rappresentazione di quell’”acqua catramosa, rapida in improvvisi luccichii”  che avrebbe descritto Giovanni Arpino molti anni dopo.

L’attivissima Associazione Fotografica ALA ha tra i propri scopi quello di “contribuire fattivamente all’ascesa culturale e organizzativa dell’amatore fotografo italiano che dovrà fascisticamente riuscire, in brevi anni, a conquistare quel posto che gli spetta nel campo delle competizioni artistiche internazionali”[62] e l’adesione consente a Gabinio di partecipare fin dal 1934 alle esposizioni di Sopron in Ungheria, Stoccolma e Vienna[63] con una decina di opere che rappresentano un panorama esauriente del suo nuovo corso, dalla riproposizione in senso luministico di soggetti già affrontati nel decennio precedente come Austerità (RA/80), alle immagini caratterizzate dalla ‘modernità’ del punto di vista come Dall’alto (RA/82) sino al tema per lui nuovo della natura morta, specialmente di frutta e verdure riprese al mercato, genere che gode di grande fortuna nella produzione pittorica di questi anni ma qui affrontato sulla scia di Achille Bologna, che realizza immagini con identico trattamento del soggetto: non composizioni in studio ma “oggetti trovati” e rielaborati fotograficamente in fase di ripresa e soprattutto di stampa. Il soggetto viene progressivamente isolato, reinquadrato mediante maschere in carta leggera, ricavate da fogli di quaderno, che consentono anche rotazioni dell’asse compositivo, per “forzare lo sguardo all’arresto” (Marbot, 1989, p.151)  ed esaltare il motivo, sottolineato ancora dagli ultimi e definitivi interventi legati alla scelta della carta ed ai viraggi di intonazione cromatica, alla ricerca di un preziosismo anche materico della stampa finale (RA/30) che costituisce per Gabinio una concessione tarda al pittorialismo.

La partecipazione prosegue nel 1935 (Bruxelles, Londra, Johannesburg, Ottawa, Parigi) ma le opere presentate testimoniano l’emergere dell’attenzione per soggetti diversi: dalla sontuosità quasi barocca delle Uve e delle Pesche si passa alle “cose più modeste e comuni” di cui parlava Boggeri nel 1929, “interpretate con desiderio di penetrarne la segreta personalità, la solitaria poesia” (citato in Luci ed Ombre, 1987, p.111). Sono le Maioliche (RA/21) e i Piatti (RA/19) presentati alla “Prima esposizione fotografica sociale ALA”, inaugurata il 15 marzo 1935 nei locali del Salone della “Stampa” alla presenza del Vice Segretario Federale Ing. Cavallari Murat, accompagnato da Alfredo Laezza, Cesare Schiaparelli ed Edoardo Rubino. L’insieme delle  189 opere di 41 autori diversi è caratterizzato dall’eclettismo delle tendenze e dal sincretismo delle opere: “C’era una infinita gamma di personalità che colpiva enormemente anche come problema psicologico. Molte delle opere esposte destavano una ben viva curiosità di conoscere personalmente l’artista, per ricercare in esso l’anima dell’autore” afferma Peretti-Griva nella breve presentazione al catalogo prima di passare in rassegna le immagini più significative, senza peraltro riferirsi esplicitamente ai singoli autori. “Ecco [di Gabinio] gli umili  piatti in fila, che attendono l’umile acquisitore dall’umile mensa, che stanno a individualizzare col linguaggio, talora terribile, delle cose inanimate, tutta una vicenda sociale”[64]. Già Avigdor ha fatto a suo tempo notare come Peretti-Griva sia “molto lontano dal cogliere la novità dell’operazione”, questo taglio diagonale della composizione che si richiama senza indecisioni alla nuova fotografia, ma la questione appare più complessa, e certo la nostra valutazione va fondata, per quanto possibile, sulla considerazione e sulla comprensione dello sguardo coevo, sulla compresenza di tendenze e interpretazioni che possono apparire contraddittorie e tenendo conto anche della concezione, nostra, di un moderno a tutto tondo che costituisce uno dei miti,  quindi  una delle mitologie del secondo Novecento.

“Quanto più la crisi dell’attuale ordinamento sociale dilaga -dice Benjamin nel 1931- e quanto più i suoi singoli momenti si oppongono rigidamente secondo una morta contraddittorietà, tanto più la creatività -che nella sua sostanza più profonda è una variante, figlia della contraddizione e dell’imitazione- diventa un feticcio, la cui fisionomia vive soltanto in virtù dei cambiamenti dell’illuminazione, determinato dalla moda. Il mondo è bello: questo è il suo motto. Questo motto smaschera l’atteggiamento di una fotografia che è capace di montare dentro la totalità del cosmo un qualunque barattolo di conserve, ma non è in grado di afferrare nessuno dei contesti umani in cui essa si presenta e che così, anche quando affronta i soggetti più gratuiti, è più una prefigurazione della loro vendibilità che della loro conoscenza” (Benjamin, 1966, p.75). L’attacco portato alla fotografia pubblicitaria così come alla “Nuova Oggettività” ed a Renger-Patzsch in particolare, noto anche in Italia almeno per la sua partecipazione alla “Mostra internazionale della fotografia” di Milano del 1933,  riporta in primo piano la questione della relazione forma-contenuto o meglio le possibilità e intenzioni, di produzione e lettura critica, delle immagini in termini narrativi o puramente compositivi. Peretti-Griva, non riconoscendo la novità della forma e sottolineando il significato del contenuto, attribuisce a quell’immagine il valore di una “fotografia costruttiva”, avvicinandosi forse maggiormente, più di quanto noi non si sia in grado di fare, alle intenzioni di Gabinio, che nel 1932 aveva intitolato Umiltà un’altra fotografia di stoviglie (RA/20).[65]

Il problema della comprensione critica della sua produzione ultima è reso più complesso, meno facilmente risolubile, dall’analisi di altre serie fotografiche coeve, più esplicitamente derivate da una ricerca formale aggiornata sulle più avanzate esperienze europee degli anni Venti e mai proposte in esposizioni o concorsi ma da lui stesso raccolte in una cartella di “Saggi scelti” che porta la data del 23 aprile 1936. Sono, insieme a quelle già segnalate, fotografie tutte costruite su forti elementi di geometrizzazione del soggetto, ottenuti vuoi per astrazione di un dettaglio, come il particolare del portale della nuova sede della Cassa di Risparmio di Torino (B65/9), a partire dal quale realizza un puro esercizio stereometrico, un’analisi dei rapporti tra luce e volume in cui la materia perde la propria rilevanza e le relazioni contestuali sono annullate, vuoi giocando sulle relazioni grafiche tra linee del soggetto e margini dell’inquadratura, come nelle riprese dello scalone della chiesa della Gran Madre di Dio (B76/166, 169), che richiamano, forse attraverso la mediazione di Bologna e Bertoglio ma qui in modo più graficamente preciso, una delle serie più note di Rodcenko, realizzata nel 1930.[66] Accanto a queste, e nello stesso ambito di influenza tra costruttivismo e nascente fotografia pubblicitaria, vanno poi collocate fotografie come Lavori per la posa di cavi, 1930c. (B106/4) e le Reti metalliche, 1935c. (B106/52), così come il gioco di riflessi e rimandi iconici della Vetrina, 1930c. (B84/7), raro esempio di attenzione per i segni della cultura urbana letta nella sovrapposizione delle sue tracce, nella costruzione dell’immagine per compresenza di segni che deriva  dalla tecnica del collage e del fotomontaggio.

I segni più evidenti di una riflessione avanzata sulla fotografia, le reali “nuove visioni” prodotte da Gabinio, si ritrovano nel gruppo di immagini che hanno esplicitamente per tema la luce, progressivamente riconosciuta quale esplicito fondamento costitutivo del linguaggio fotografico. Le prime prove risalgono alla metà degli anni Venti e già indicano un passaggio significativo da una concezione della luce quale  segno simbolico, come nell’Interno della chiesa dei Santi Martiri (B77/11), alla luce come valore autonomo, segno autoreferenziale che ritroviamo nell’astrazione del ritmo luminoso ricavato dal buio di una casa a ballatoio (B83/24) e nelle due vedute dal Lungo Po (B91/64, 65) nelle quali, contrariamente a quanto accade per i più consueti notturni, la traccia luminosa dei lampioni sull’acqua si trasforma in puro elemento di modulazione della superficie fotografica, liberato da ogni contingenza, posto a confronto con un segno di luce tracciato dal fotografo di fronte all’obiettivo; una dichiarazione palese, nel corpo dell’opera, dell’autonomia dell’immagine fotografica. La ricerca prosegue con la ricca serie realizzata nell’atrio ottocentesco di palazzo Carignano il giorno di Natale del 1932 (RA/87, 88). Qui i raggi luminosi trasformano percettivamente lo spazio modificandone la figurabilità, si sovrappongono al disegno degli elementi architettonici facendone emergere alcuni e relegandone  altri in masse appena distinte, segni che si aggiungono a segni, sottolineature ed elisioni. Un momento di consapevolezza profonda, di riflessione sui fondamenti del linguaggio fotografico, condotta analizzando le sottili variazioni introdotte dal modificarsi di uno solo dei due termini del discorso, la luce appunto, mentre la scena architettonica rimane sostanzialmente immutata e trattata secondo i più rigorosi canoni previsti dal “genere”: nessun punto di vista inconsueto, nessun taglio forzato, affinché tutta l’attenzione possa essere concentrata sulle modulazioni luminose.[67]

Questa ricerca prosegue ancorandosi liberamente a precise occasioni di committenza come in Sera sullo stadio, 1933-35 (RA/92),  o nella serie sul sottopasso al Lingotto, 1933 (B80/25, B80/36), nella quale cade ogni distinzione tra documentazione e sperimentazione formale, questa applicandosi a quella nella produzione di pura fotografia.   La raggiunta consapevolezza della propria padronanza linguistica è evidente nei diversi passaggi che conducono dalla ripresa alla stampa finale della veduta di Via Pietro Micca vista in controluce dall’alto, del 1933 (RA/84) che rimanda senza incertezze a opere quali  Unheimliche Strasse I  di Umbo (1928) e Kleiner Platz in Alt-Berlin di Raoul Hausmann (1931). L’originaria ripresa dall’alto di Palazzo Madama  viene tagliata per eliminare la striscia di cielo ed accrescere il peso delle masse nere, incombenti, dei palazzi così da accentuare l’isolamento della piccola figura in primo piano, presenza umana priva di fisionomia riconoscibile, ai margini della moderna città delle macchine.

E’ un esempio compiuto di quella fotografia contro cui si scaglia Alberto Savinio dalle pagine della “Stampa”: “Cominciò il diabolico settentrione a dare un’anima alla fotografia, un cervello, un cuore, e nacque la fotografia ‘pensosa’. Si scrissero libri interi di sole fotografie, i ‘soggetti’ si ridussero a uno schematismo edificante, tra i quali dominò la strada solitaria e i suoi selci visti dall’alto. L’ombra portata conobbe i maggiori successi.”[68]

1 Giro di giostra/ Zeppelin, del 1934 (B106/21) costituisce il risultato più compiuto e complesso delle ricerche di Gabinio sul tema della luce, che qui si fa generatrice di un volume, di un solido di rotazione tutto virtuale, ricollegandosi idealmente alle prime prove degli anni Venti ma  con una ricchezza di intuizioni che richiama alla mente le esperienze, più fredde, condotte in ambito Bauhaus nel corso di Walter Peterhans o i notturni di Hilde Hubbuch. È questa un’opera che appartiene di diritto alla “nuova cultura della luce” di cui parla Moholy-Nagy: “Questo secolo appartiene alla luce. La fotografia è il primo mezzo per dare forma tangibile alla luce, anche se in una forma trasposta e -forse proprio per questo- quasi astratta.” (citato in La fotografia al Bauhaus, 1993, p.117)

 

 

Lo scarto tra queste ricerche, avanzate e segrete, e la produzione inviata ai Salon si fa stridente, il divario enorme. Nel 1936, se si esclude la partecipazione all’esposizione che si tiene alla City Art Gallery di Durban con Carezze di sole, la sua attività sembra dedicata esclusivamente  alla produzione professionale per conto della rivista “Torino” e solo l’anno successivo riprende la partecipazione ai Salon (Torino, Metz,  Parigi, Chicago) presentando le consuete nature morte di frutta e di oggetti.[69]

La sua morte, avvenuta il 19 aprile del 1938 per complicanze prodotte dalla nefrite cronica di cui soffriva da tempo, passa inosservata nel mondo della fotografia torinese e Gabinio viene ricordato solo dal necrologio pubblicato dal Club Alpino Italiano mentre le sue immagini continuano ad essere sporadicamente utilizzate, anonime, dalla rivista “Torino”.

 

 

L’oblio in cui giace la sua figura cade parzialmente nel 1974 in conseguenza della mostra Torino anni ‘20: documentazione fotografica da materiali di Mario Gabinio promossa dalla Fondazione Agnelli e curata da  Giorgio Avigdor ed Enrico Nori a partire da una segnalazione di Andreina Griseri, e dalla successiva pubblicazione del volume omonimo con scritti di Aldo Passoni ed E. Nori. La definizione del titolo e gli stessi commenti -tra il nostalgico ed il rancoroso- raccolti sul registro dei visitatori danno l’esatta misura del senso dell’operazione: il tema è Torino, la fotografia è una finestra trasparente e magica, aperta su di uno spazio antico, passato, col quale si può entrare in comunicazione solo attraverso lo strumento della nostalgia. Di Gabinio quasi nessuna traccia, se non le varie e fantasiose considerazioni aneddotiche fornite da Nori alle quali pone un argine il bel testo di Aldo Passoni che individua alcuni elementi chiave del suo atteggiamento (“Gabinio, che non ha il gusto della critica”) rilevando anche le connessioni con certa produzione figurativa coeva, da Boglione a Mennyey, a certe periferie di Umberto Boccioni e di Italo Cremona, la Torino disabitata, colta sulla soglia di radicali trasformazioni, che faceva pensare ad Atget, che altri invece interpretano come una “città che muore e che avrà la sua necropoli nelle fosse scoperte di via Roma” (Carluccio, 1974, p.9) in un saggio suggestivo ma fondato su di una coincidenza equivoca, quella tra l’opera di Gabinio e le immagini presenti in mostra, accortamente scelte e scenograficamente presentate per parlare in un certo modo di una certa Torino, non del fotografo. Lo ha ben compreso allora Paolo Fossati, che registra l’impossibilità di far coincidere il sentimento di Gabinio con l’angoscia della scomparsa cogliendo “un attimo di stupore che va ben oltre la nostalgia per un ‘vecchio’ ordine distrutto (…). Sicché la tesi che ora si accredita nel libro è fatta per non convincerci, un immobilismo di fondo, culturale e morale, di Gabinio di fronte alla città in sviluppo” (Fossati, 1975). È questa l’occasione anche per riconoscere e sottolineare -nelle parole di Andreina Griseri- il ruolo fondamentale svolto dai fotografi nel documentare la storia della città, letta da Gabinio “come una natura morta di oggetti (…) fedele ad un realismo di presenze sempre rapportate a un ambiente teso, spesso disabitato o quasi (…) [indagato] con un segno che rinuncia per fortuna nostra ad ogni inflessione dialettale, approdando ad un paradigma angoscioso.” (Griseri, 1974)

All’esperienza della mostra del 1974 si ricollega esplicitamente -mutandone però radicalmente l’impostazione-  la monografia scritta da Giorgio Avigdor alcuni anni più tardi (1981)  fondata anche sulla conoscenza diretta di documenti di prima mano, oggi purtroppo in larga parte non disponibili.

La competenza dell’autore, studioso di storia della fotografia e fotografo egli stesso, consente per la prima volta di delineare la complessità della figura di Gabinio collocandola nella necessaria trama di relazioni con le culture fotografiche del suo tempo, presentando  un primo corpus di immagini che rende evidente la complessità della sua opera e le profonde trasformazioni del suo linguaggio fotografico, pur nella consapevolezza che “certamente c’è molto altro da scoprire, da conoscere e quindi da dire…”.

 

Abbiamo raccolto l’invito.

 

Note

 

[1] “Va su per le ripide costiere con una sua gabbietta a fotografie (…) ha qualcosa in sé dello scoiattolo di montagna” (Piasco, 1896, p.83). “Per immaginarselo bisogna pensare ad un frammento di roccia miracolosamente staccato dal massiccio materno e divenuto parte vivente di quella gigantesca famiglia di culmini. Della natura primitiva trasformata in essere umano, non è rimasta che una figura vigorosamente delineata, con lineamenti disarmonici, che tuttavia non fanno impressione sgradevole, una rozzezza non priva di grazia (…) La sua poesia però è tutta nella macchina, compagna fedele delle grandi ascensioni”, (M.B. [ Mario Borani?], 1904, citato in Avigdor, 1981, p.29).

L’apparecchio a cui si fa riferimento potrebbe essere  la Simplex-Roll Camera di Krügerer, compresa nel lascito Marcellino Alessio del 1968; una detective-box in legno, reflex biottica (ma priva di obiettivo da ripresa), per pellicola in rullo nel formato 120 (1890 post), che costituisce un adattamento della precedente Simplex-Magazine del 1889, con magazzino portalastre. La matricola dell’apparecchio di Gabinio, il solo a noi pervenuto, porta il n.2427.   Nel  Fondo è conservato anche l’ingranditore ICA per il formato 9×12, a messa a fuoco automatica, matricola n.76997, dotato di obiettivo ICA Novar Anastigmatic 1:6,8, f =  13,5 cm, matricola n.669397, che Gabinio acquista forse dopo il  1930, anno in cui -con la morte della madre- si ritrova solo nell’appartamento di via Avogadro, 9.

 

[2] “Ogni volta che qualcosa di Torino “moriva” l’ultimo conforto (così egli soleva dire) gli veniva da lui portato (…).Seguiva con attenzione ogni mutamento edilizio ed urbanistico: il vecchio raffrontava poi al nuovo e di ogni risanamento sapeva cogliere il lato artistico e quello pratico insieme” (Alessio, 1939, p.37).  Questo articolo  deve essere messo in relazione col tentativo, condotto dai fratelli  Ugo ed Ivan Alessio  di vendere al Comune di Torino  le lastre ricevute in eredità dallo zio.  La proposta viene prima fatta alla Fratelli Alinari, che suggerisce di rivolgersi al Comune di Torino, e quindi  alla sezione torinese del CAI sottolineando opportunamente ogni volta i possibili motivi di interesse per ciascun destinatario, ma entrambi declinano. Dopo un primo rifiuto (7 giugno 1939) ed una lunga trattativa relativa alla valutazione economica, il podestà di Torino delibera l’acquisto dell’eredità Gabinio in data 17 giugno 1940, cfr. i documenti relativi in Avigdor, 1981, pp.174-179. Il perfezionamento dell’acquisto potrebbe non essere estraneo al ruolo svolto da Ivan Alessio, dipendente dell’Ufficio Tecnico Municipale ma soprattutto Comandante della Centuria Sportiva delle Camicie Nere della I Legione (Alessio, 1936).

 

[3]Eco, 1990, p.110. L’utilizzo semplificato e strumentale che qui viene fatto delle categorie analitiche definite da Eco presuppone ovviamente una accettazione della definizione generale di testo quale “trama comunicativa”, a prescindere dalle specificità dell’ambito  della comunicazione visiva ed in particolare dai problemi posti dalla interpretazione semantica e semiotica della fotografia.

 

[4]Al 1889, data delle prime immagini realizzate citate in apertura, Gabinio ha 18 anni  e  da due è entrato a far parte della Amministrazione delle Ferrovie dello Stato prima di poter terminare gli studi, in conseguenza della morte del padre, già funzionario delle ferrovie, avvenuta nel 1887. Le condizioni della famiglia, certo non floride, non sono comunque tali da impedire alla sorella Ida (1872-1931) di diplomarsi maestra di ginnastica ed al fratello Ernesto (1875-1944) di laurearsi in farmacia.

 

[5]Cfr. Maiullari, 1988; Banti, Meriggi, 1991; Per una analisi della principale e più nota di queste associazioni di massa, il Touring Club Italiano cfr. Ottaviano, 1986;  per i rapporti intensissimi tra TCI e fotografia cfr. Zannier, 1991.

 

[6]”L’Escursionista”, 4 (1902), n.8, 7 agosto, p.4. Sono soci dell’Unione Escursionisti Torinesi  negli anni immediatamente successivi la fondazione architetti come Mario Ceradini ,  Gottardo Gussoni (direttore del periodico dell’associazione del primo numero, 1899, al 1907),  Cesare Bertea, studiosi come Ercole Bonardi ed Edoardo Barraja, l’avvocato Carlo Reynaudi, autore ed editore di una fortunata serie di Guide turistiche, fotografi come Emanuele Elia Treves (collaboratore della “Gazzetta del Popolo”, tra i fondatori della Società Fotografica Subalpina), Giancarlo Dall’Armi, lo scultore Tancredi Pozzi, gli  editori Francesco Casanova e Simone Lattes. L’attività dell’associazione è poi sostenuta da altre collaborazioni prestigiose come quella di Riccardo Brayda, dal 1898 fino alla morte, di Giovanni Vacchetta e di Federico Sacco, ma la rete di relazioni intessuta tra i diversi gruppi a livello regionale è tale che scorrendo le pagine dell’ “Escursionista” si  incontrano anche i nomi di esponenti di spicco della cultura e della fotografia piemontesi come Francesco Negri e Pietro Masoero.

 

[7]Bonardi, 1898, p.232. L’interesse di Bonardi per la fotografia è discusso in Costantini, 1990, p.72 passim.

 

[8]Cfr. Rivoir, 1992, p.18, p.130. Il primo panorama alpino realizzato da Gabinio con mezzi ancora inadeguati è quello della valle del Gran San Bernardo (A17/85) datato 1889. Per una storia generale del panorama come genere cfr. Bordini, 1984. In particolare le connessioni tra montagna e panorama sono già ben presenti in De Saussure, 1776 (ibidem, p.31-32 e nota 7 p.40);  per le prime realizzazioni fotografiche cfr. Garimoldi, 1995, pp.15-18.

 

[9]Quindici di queste immagini, tratte dall’album di proprietà della “Società Ginnastica” che non ci è stato consentito di consultare in questa occasione, sono state pubblicate in Gilodi, 1978, pp.IX-XX. La serie completa di 21 lastre in formato 13x 18 è conservata nel Fondo Gabinio (Sc.182/Ri) mentre 12 stampe a contatto sono comprese nell’album  Ritratti =Gruppi =/ Ginnastica =/ 16. Sul tema dell’educazione fisica femminile a Torino nell’Ottocento cfr. Giuntini, 1995 da cui si ricava (p.426) tra l’altro che Ubaldo Valbusa, membro dell’Unione Escursionisti ed uno dei più assidui compagni di Gabinio, pubblica Ginnastica da camera, massaggio e nuoto. Torino: Lattes, 1910. Di  Valbusa va ricordata anche l’attività di fotografo alpino, cfr. Rivoir, 1992, p.126, p.134-135.

 

[10]Reynaudi, 1896. La collaborazione tra Gabinio e Reynaudi nasce certamente nell’ambito dell’Unione Escursionisti, della quale fa parte anche l’architetto Ceradini, che proprio  per queste guide disegnerà le copertine, presentate alla I Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna  di Torino nel 1902,   e realizzerà alcune tavole nel testo. Diamo di seguito l’elenco cronologico delle collaborazioni di Gabinio alle  guide Reynaudi, indicando tra parentesi il numero di immagini pubblicate nelle prime edizioni di ciascuna, rilevando però che  nelle edizioni successive molte di queste fotografie vengono ripubblicate anonime e con un diverso ordine di presentazione:  1896 (sei); 1903 (trentasette); 1905 (dieci); 1906 (una); 1910 (sei).

 

[11]Alla Esposizione partecipano tra gli altri Guido Rey, Giulio Roussette, Vittorio Sella, Luigi Primoli, Giovanni Varale di Biella   “con gli impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, Alberto Durio con un “album contenente le magnifiche riproduzioni degli affreschi di Gaudenzio Ferrari, che resero famosa la chiesa delle Grazie a Varallo Sesia” e Federico Peliti, con una serie di 150 fotografie di grande formato intitolata 28 anni nell’India Inglese, cfr. “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 1895. La partecipazione di Peliti a questa Esposizione non era sinora stata segnalata, cfr. Federico Peliti, 1993, p.19 passim.

 

[12]Brocherel, 1898,  dedica un intero paragrafo del capitolo XV al tema de “La fotografia sulle Alpi”, in cui accanto ad una serie di indicazioni tecniche si ritrovano attacchi sprezzanti al costume della nascente fotografia di massa ed una serie di prescrizioni  relative a “La veduta [che] deve riescire d’un aspetto armonico ed artistico e dare tutti i dettagli rilevanti”. Da segnalare inoltre l’invito -proprio della più avanzata cultura fotografica dell’epoca- a far si che “il dilettante cerchi sempre che il suo lavoro riesca di qualche utilità [sottolineatura nostra] alle scienze, e lo si può senza scemare la soddisfazione che si ripromette dalle sue non poche fatiche. La geologia, la glaciologia, la topografia, i bradisismi ed i fenomeni tellurici in genere abbisognano della fotografia.”, p.292.

 

[13]Compresa nell’album Autori diversi/ Vedute alpine, etc./ 1a parte/ 26 (A26/4); il passo del Monte Moro costituisce uno dei più noti  e celebrati punti panoramici  dell’arco alpino occidentale, cfr. Garimoldi, 1995, p.25. Gabinio possiede complessivamente quattordici  fotografie di Sella; di un’altra, non reperita, si ha traccia nell’unica  lettera inviata da Sella a Gabinio: “Biella 20 Ott. 98/ Eg.o  Collega/ Le mando le tre copie della/ fotografia n.1685 [Grivola, Grivoletta e ghiacciaio del Trajo, 1894]  e Le sono grato/ di spedirmi L.4.50 per cartolina-vaglia./ Con  saluti  cordiali/ suo dev.mo/ V. Sella”, (Fondazione Sella, Biella, Fondo Vittorio, Copialettere dal 3-5-1897 al 31-12-1898, p.50, n.421), verosimilmente da mettere in relazione con l’ascensione che Gabinio compie nello stesso periodo, documentata da una ricca serie di stampe.

Lo schema compositivo che prevede la collocazione in primo piano di una o più figure di fronte al panorama, di derivazione  romantica, è tipico della fotografia a cavallo dei due secoli (Sella, Rey, Lamy, Gabinio ed altri) e corrisponde ad una fase in cui l’esperienza del panorama non è più eccezionale senza essere ancora divenuta pratica massificata dal turismo.

Nella collezione Gabinio sono presenti , insieme a due riproduzioni da Vittorio Besso, anche 475 stampe originali di Anonimo e di Mario Balloira, V.Baretta, A.Basso, Avv. G. Belli, Giovanni Bollani, Bossola, Brogi, Bugelli, Giovanni Caracciolo, Avv. Carbone, Mario Ceradini, E.Chirali, Luigi Costa, Bobbio Crau, Giovanni Cravero, E.Curione, O.Debernardi, Ducretet, Giovanni Elia, L.Elia, O.Elia, Giuseppe Enrie, Giuseppe Facciotti, V.Ferrari,  Federico Filippi, Funch, Luigi Galleani, C.Galli, C.Giacchino, O.Giudice, Anselmo Giusta, Cesare Grosso, F.Guidetti, Gottardo Gussoni, Adolfo Hess,  Paolo Kind, Cesare Lucca, R.Marchetti, A.Mennyey, Luigi Minetti (Studio SLIFT), Felice Mondini, Agide Noelli, Peluffo, Angelo Perotti , Secondo Pia, Teresio Piasco, Benedetto Porro, Carlo Reynaudi, H.Rinck, Michelangelo Scavia, Vittorio Sella, Diana e Bianca Stella, Giuseppe Tavella, Tonelli, Emanuele Elia Treves, Trionfi, Ubaldo Valbusa, Wehrli (ed.), Ernesto Zoppis. E’ interessante notare che Gabinio possedeva anche un piccolo gruppo di lastre di autori diversi (Fondo Gabinio, lastre, scatola 58/Gs). Per le notizie relative ad alcuni di questi fotografi si rimanda al puntuale apparato di schede in  Miraglia, 1990, ad vocem.

 

[14]Questa immagine si inserisce perfettamente nel genere delle “Scene di vita e di lavoro” che tanto successo aveva nei periodici amatoriali dei primi anni del secolo, “Il Progresso Fotografico” in particolare in cui vennero pubblicate sotto questo titolo immagini di autori tra loro diversissimi quali Von Gloeden e Tarchetti, cfr. Cavanna, 1990; Miraglia, 1990, p.75 passim.

 

[15]Si confronti ad esempio la  fotografia di Piazza Solferino, datata 1927, (B41/1)   con la veduta di Piazza S. Gioanni  litografata da D. Festa da un  disegno di Enrico Gonin del 1835, verosimilmente nota a Gabinio almeno dal 1902 , quando cura con Luigi Galleani la proiezioni delle diapositive a corredo della conferenza di Alberto Viriglio dedicata ad Una escursione attorno ed a traverso alla vecchia Torino, tenuta il 17 aprile al Politeama Gerbino per iniziativa dell’Unione Escursionisti e comunque pubblicata nel 1923 in un album tipografico di grande diffusione (Rossi, 1923, s.n.). Rare sono queste immagini nel Fondo Gabinio della Galleria Civica mentre  una serie significativa è stata pubblicata in Avigdor, 1981, tavv. 62-65.

 

[16]Sezione IV del IV Concorso,  cfr. “L’Escursionista”, 2 (1900), n.2, 23 febbraio. L’Unione Escursionisti espone “nella categoria dei paesaggi e gruppi gran parte del materiale che era raccolto nella sede a ricordo di tutte le escursioni compiute” accanto a lavori di maggior impegno quali la serie di Gabinio e la riproduzione degli affreschi della sala del castello della Manta, realizzata da Gottardo Gussoni. Una immagine del padiglione dell’Unione Escursionisti è pubblicata in Avigdor, 1981, tav. VI, ma con datazione al 1898.

 

[17] Sulla scia dei precedenti torinesi di Le Lieure e Marville ed oltre alla ben nota produzione di Vittorio Besso, che non assume però esplicitamente la forma dell’album dedicato alla città in cui opera (Biella) numerose sono a partire dagli anni ‘70 dell’800 le produzioni documentarie commissionate dalle diverse municipalità, da committenti o sottoscrittori privati ma più sovente realizzate dagli stessi fotografi a scopo promozionale, cfr. Cavanna, 1992. La novità d’impostazione del lavoro di Gabinio, la sua qualità di “documentazione artistica”, è stata rilevata anche da Marina Miraglia (1990, pp.72-73; tavv. 163-166) sebbene a partire da immagini che appartengono ad una fase molto più tarda della sua produzione, riferibile piuttosto ai primi anni Trenta. Solo in questo contesto sono condivisibili le osservazioni relative alla capacità di Gabinio di leggere la “complessità e continuità dell’aggregato urbano” , mentre non pare verificabile l’ipotesi che egli abbia  puntato “il proprio obiettivo sulla classe dei lavoratori, riprendendone a distanza ravvicinata volti, espressioni, gesti e sorrisi. Sembra quasi che egli abbia colto (…) soprattutto la forza diversa del proletariato”

Colgo l’occasione per segnalare che anche la fotografia di Carlo Nigra Torino, fontana nella piazza del Borgo Medioevale, (tav.138) datata dubitativamente 1884?, va più correttamente collocata almeno al 1928, anno in cui la copia della fontana del melograno del castello di Issogne, realizzata per l’Esposizione romana del 1911, venne collocata nella piazza del Borgo.

 

[18]Edmondo De Amicis, La città, 1880, citato in Comoli Mandracci, 1983, p.209.

 

[19]Ferrari, 1900. Nel testo è contenuta anche una interessante “classificazione”: “Questa grande famiglia -dice Ferrari- come ogni altra dei tre regni della natura, si divide e suddivide in classi, generi, specie, gruppi ed individui (…). Le due classi principali sono: i dilettanti ed i professionisti. La prima si divide e suddivide all’infinito. Vi sono i semplici, i quali non domandano altro che di premere il bottone (…). Poi vi sono quelli che portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi (…) da collezionare. Più in su troviamo i dilettanti più diligenti, i quali sono molto stimati dai negozianti di generi fotografici. Più in su ancora troviamo gli appassionati, gl’ingegni matematici, per quali la fotografia è una risultante di varie piccole trovate (…). Da questa schiera di dilettanti escono poi i tecnici, gli industriali, i fabbricanti brevettati, gli applicatori.  Ma vi ha un altro genere di dilettanti, coloro che sentono e vedono il bello, e solo perché è tale lo riproducono sulla gelatina; essi non sono veramente artisti, ma temperamenti sensibili, intelletti accessibili all’arte. Vi sono poi i dilettanti, i quali non scelgono che quei determinati soggetti estetici che rispondono al loro temperamento (…) Costoro sono sensibili, raffinati, e si approssimano assai più all’arte. Finalmente ci sono i dilettanti artisti, i quali, seguendo un’ispirazione, compongono scene e oggetti, li dispongono in modo che la fotografia li faccia valere, e non si servono dell’obiettivo che per copiare il quadro che hanno immaginato e compiuto. Questi sono i veri artisti. Vengono quindi gli applicatori della fotografia alla scienza e all’industria (…). Infine abbiamo i professionisti, per i quali la fotografia, più che riflettere il loro temperamento, riflette il gusto del pubblico che servono (…)”.

Nell’ambito dell’Esposizione la Sezione III, dedicata alle “Riproduzioni di monumenti, dipinti ed oggetti d’arte antica e moderna” comprende lavori di Ernesto Forma, Alberto Grosso, Charvet e Tamagnone di Torino oltre a Pietro Santini di Pinerolo, ma non risultano presenti Secondo Pia, Vittorio Ecclesia, due tra i principali operatori piemontesi del settore. Nella Sezione IV, dedicata un poco confusamente ad “Interni, vedute, paesaggi” si segnalano Guido Accotto, Annibale Cominetti ed appunto Gabinio, al quale Pietro Masoero dedica una lusinghiera segnalazione sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana”: “Un’altra esposizione collettiva è quella dell’Unione escursionisti di Torino, interessante nel complesso. È l’illustrazione dell’escursione in tutte le forme, e fra fotografie di poca importanza tecnica ve ne sono alcune molto buone. Tra queste le riproduzioni interessantissime di Mario Gabinio Torino che scompare.” (Masoero, 1900, p.282). Lo stesso Masoero, uno dei personaggi più interessanti della fotografia   italiana tra i due secoli, sarà la guida artistica dell’Unione Escursionisti nel corso della gita a Vercelli e Palestro del 1912, cfr. “L’Escursionista”, 14 (1912), n.6, maggio.  L’opera e la figura di Masoero sono state in parte presentate e discusse in Cavanna, 1985; Id. 1986; Costantini, 1990, p.22 passim.

 

[20]Brayda, 1900. Limitatamente alle sole architetture medievali Gabinio ripercorre lo stesso cammino tracciato da Secondo Pia negli anni immediatamente precedenti (1894-1896), ma risulta assente nel catalogo delle riprese di questo fotografo (Borio, Falzone del Barbarò, 1989, pp.130-132) il palazzo dei conti Ponte di Scarnafigi e Lombriasco in via Genova, al quale Brayda dedica così grande attenzione, ciò che sembra indicare per l’ingegnere qualcosa di più che il ruolo di semplice ispiratore nella genesi di Torino che scompare.

Le vicende legate alla demolizione della Casa del Vescovo (1900)  e l’intervento di poco precedente (1897) relativo agli affreschi di Sant’Antonio di Ranverso sono testimonianza precisa dei dissapori tra Riccardo Brayda ed Alfredo d’Andrade, originati certo da rivalità personali e professionali che datano dagli anni di formazione del progetto per il Borgo Medievale (1882-1884) ma soprattutto legati a due diverse concezioni della politica di tutela  e restauro del patrimonio storico torinese. Cfr. Bertea, 1914; Alfredo d’Andrade, 1981; Viglino Davico, 1984; Donato, 1993.

Nella pubblicazione della seconda serie di immagini sul numero del 1 aprile 1900, il redattore conferma il giudizio positivo sul senso da assegnare a questa campagna di documentazione: “Ci pare opera buona ed utile il registrare così, per via di documenti che potranno servire ai futuri storici dell’arte o della topografia torinese, alcune fra le cose più interessanti sia dal punto di vista estetico, sia da quello di una semplice curiosità: tanto più che siamo sicuri di porre non pochi fra i nostri lettori torinesi in grado di scoprire nella loro città bellezze pittoriche, le quali a moltissimi sono perfettamente ignote”.

Ancora nel 1934, in occasione dei lavori relativi alla realizzazione di via Roma nuova, la rassegna municipale “Torino” pubblica una rubrica fotografica intitolata La città che scompare nella quale peraltro non sono comprese immagini di Gabinio.

 

[21]Nello stesso periodo anche la Società Fotografica Subalpina organizza gite con identiche mete, sempre guidata da Brayda, ma non risulta che le due associazioni organizzassero iniziative comuni. Anche Francesco Negri, nel  1901, ripeterà la propria conferenza sul Santuario di Crea sia per  l’Unione Escursionisti sia per la Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, cfr. Mattirolo, 1925, p.13, n.1.   Il connubio tra l’attivissimo Brayda e l’Unione è precocemente celebrato da Edoardo Barraja nell’articolo Alla scoperta del Piemonte ( il cui titolo è ripreso da una conferenza tenuta da Ercole Bonardi al Circolo Centrale di Torino) pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” del 1 gennaio 1899, (Barraja, 1899) corredato da una fotografia della casa del Vescovo  realizzata da Gabinio,  la cui collaborazione al periodico data dal 1898 al 1902 per il tramite di Brayda e Treves.

 

[22]Fiori, 1902, p.3. Con un articolo dallo stesso titolo, Gli amici dei monumenti, pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” del 23 febbraio 1902 Edoardo Barraja aveva presentato  la serata di proiezioni che si doveva tenere il successivo giorno 28 al Teatro Vittorio Emanuele per iniziativa dell’Unione Escursionisti e collega l’attività di questa associazione al più vasto fenomeno della rinnovata attenzione per l’arte (“la sua funzione nella società appare sempre più potente quale strumento di rigenerazione civile”) mostrando in particolare apprezzamento per l’attenzione portata al patrimonio artistico ed architettonico minore, ai cui problemi legali di tutela aveva dedicato sua tesi di laurea in Giurisprudenza, discussa nel 1901 (Gilibert Volterrani, Gilibert, 1977, p.10): “È pregiudizio purtroppo ancora largamente diffuso all’epoca presente -ha scritto e con ogni ragione Luca Beltrami- che il patrimonio artistico e storico del nostro paese possa compendiarsi tutto nei principali monumenti e nelle sole opere d’arte più salienti (…) ma tutto il resto delle memorie, le quali pur essendo meno appariscenti, sono gli elementi che compongono la vaga ed indefinita espressione di quell’ambiente artistico che avvolge i nostri monumenti e li completa, e ci conduce ad una vera comprensione dell’arte” (Barraja, 1902, G164P).  Appare qui una concezione del patrimonio artistico certamente più proficua di quella che sarà alla base della prima legge italiana di tutela (L.185 del 12-6-1902) da applicarsi ai soli “monumenti, agli immobili ed agli oggetti mobili che abbiano pregio d’antichità o d’arte”.

Nel rinnovato interesse per il patrimonio storico che si manifesta in questo periodo (“Solo in questi anni, e diremmo, in questi ultimi mesi, è venuto per buona sorte un salutare movimento contro la distruzione inconsiderata dei monumenti antichi (…) meno male però per la nostra città! La prosa del presente non è ancora riuscita a distrurre del tutto la poesia del passato”, Anonimo, 1902) va collocata verosimilmente l’iniziativa  per l’erezione di un monumento a Filippo Juvarra, proposta da Brayda e sostenuta dall’Unione Escursionisti, a cui aderiscono  il sindaco di Torino Severino Casana, Alfredo d’Andrade, Camillo Boito, Carlo Ceppi, Giacomo Salvadori di Wiesenhof, Stefano Molli, Melchiorre Pulciano,  Camillo Boggio, Pietro Spurgazzi, Mario Gabinio ed altri. Tale iniziativa si concretizzerà nella posa di una lapide commemorativa a Superga nel 1903.

 

[23]Citato in Cavanna, 1981, p.109. Questo giudizio positivo sarà ribadito da Masoero nella recensione delle immagini di Pia presentate all’Esposizione Fotografica di Torino del 1900: “Il Pia dona alla storia futura quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia” (citato in Cavanna, 1985, p.151). Questa celebrazione del ruolo del dilettante rimanda alle opinioni espresse da Brocherel nel 1898, cfr. nota  12.

 

[24]Al banchetto erano presenti oltre ad Eduardo di Sambuy anche Luigi Cantù, Guido Rey, Ercole Bonardi,  Felice Alman, Vigliardi-Paravia, Alessandro Pasta, Benedetto Porro, Achille Berry, Oreste Pasquarelli, Efisio Manno, Secondo Pia, Pio Foà, Gerardo Molfese, Annibale Cominetti, Oreste Bertieri, Adolfo Guallini, Giovanni Assale e Luigi Pellerano. “Finito il banchetto, dietro invito del presidente i commensali si recarono ad inaugurare la nuova sede della Società Fotografica Subalpina, in via Maria Vittoria 25″(Anonimo, 1900/ G159P, Anonimo, 1900/ G156P).

 

[25] Giovanni Santoponte, “Per un museo italiano di fotografie documentarie”, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni, 7 (1905), pp.38-48, citato in Cavanna, 1991, p.42.  Per la ricostruzione del dibattito italiano sugli stessi temi, a partire dagli interventi pubblicati ne “La Fotografia Artistica” cfr. Costantini, 1990, pp.58-72.

 

[26]Per Lovazzano cfr. Miraglia, 1990, tavv.147-150. L’Album di Gabinio intitolato Esposizione/ 1898 contiene anche alcune immagini fatte dal pallone frenato di Godard collocato nel recinto dell’Esposizione. Una serie simile viene realizzata nella stessa occasione da Edoardo di Sambuy dopo che lo stesso Godard gli aveva vietato di fotografare la città durante il volo su Torino compiuto il 6 giugno, cfr. “L’Esposizione Nazionale del 1898 ”, n.14, p.105. Forse in occasione della concomitante Esposizione di Arte Sacra Gabinio fotografa una copia del trittico con “L’Annunciazione” di Van Der Weyden (B101/19).

Mario Ceradini partecipa al concorso per il manifesto del “Cinquantenario dello Statuto/ Esposizione generale Italiana/ Torino/ Aprile 1898 Ottobre”, presentato col motto “Biancabella” e quindi realizza per l’Esposizione il chiosco della ditta Sangemini, entrambi fotografati da Gabinio (B110/6, A17/21). Per Ceradini cfr. Gli architetti dell’Accademia, 1996, pp.120-121, scheda a cura di Airis Rossana Masiero, in cui la presenza dell’architetto all’Esposizione non viene però segnalata.

Il trattamento riservato alla fotografia nella stessa Esposizione viene aspramente stigmatizzato da Carlo Brogi: “La fotografia figura meschinamente, e non da di sé, del suo sviluppo raggiunto nel nostro paese, che un’idea molto lontana dalla realtà (…) non è considerata né classificata con criteri razionali. E ciò avviene per quell’erroneo concetto in forza del quale si vuole disconoscere in essa qualunque carattere d’arte, per ritenerla semplicemente un processo meccanico di riproduzione del vero (…) Ricordo che a Bologna nell’Esposizione del 1888, si aveva fatto ancora peggio, confinando la fotografia con le carni insaccate (…) Ma che dire di più, quando si vede che neppure i fotografi di Torino hanno preso parte alla festa che si faceva in casa propria.”, Brogi, 1898, pp.252-254.

 

[27] Avigdor, 1981, p.155, cita anche il primo premio in Meccanica ricevuto da Gabinio a conclusione del Corso, documentato da una medaglia conservata nella collezione Marcellino Alessio ma non ricordato in Serra, 1898 nelle sue “Memorie” raccolte in occasione del cinquantenario di fondazione delle Scuole, il cui obiettivo -simile a molte altre istituzioni consimili- era di “Educare le menti degli operai al bello ed al vero”. La primitiva denominazione di “Società di Tecnico Insegnamento” muta nel 1856 acquisendo la denominazione corrente e popolare legata all’ex-convento di San Carlo in cui le Scuole erano ospitate. Tra le presenze significative vanno segnalate quelle di Angelo Reycend, Pier Celestino Gilardi e Tancredi Pozzi, amministratori rispettivamente dal 1885, dal 1888 e dal 1892 mentre Cesare Reduzzi faceva parte del corpo insegnante; di quest’ultimo Gabinio fotograferà il Busto in bronzo della Signora Bonardi nel 1903 (A30/2-5).

 

[28] Album 23 nn.67-72, album 17 n.26. Il riferimento all’impresa costruttrice Viretti contenuto nel titolo di quest’ultima immagine fa supporre che questa ditta ne fosse il committente, forse per il tramite dell’architetto Gottardo Gussoni, collaboratore di Fenoglio dopo il 1895,  cfr. Gli architetti dell’Accademia, 1996, pp.148-149, scheda a cura di Airis Rossana Masiero. Per Fenoglio cfr. Nelva, Signorelli, 1979; Politecnico di Torino, 1995.

 

[29] Per Morbelli cfr. Anzani, Maggia, 1995. Il confronto che qui si suggerisce, ad esempio tra il Morbelli di Alta montagna, 1912 ed alcune immagini di Gabinio non pretende ovviamente di fondare relazioni dirette ma più semplicemente di dare conto di un clima culturale comune all’interno del quale si collocano le due esperienze, senza che sia per ora possibile definire i reciproci debiti, che andrebbero comunque verificati caso per caso.  L’individuazione di  relazioni evidenti tra le produzioni della fotografia e le “ricerche pittoriche in corso” a Torino nei primi anni del secolo è stata proposta ad esempio da Maria Mimita Lamberti (1996, p.16) in particolare a proposito della Ofelia di Felice Carena, esposta alla Biennale di Venezia del 1912.

 

[30]Pubblicata in Costantini, 1994, p.152, n.101.

 

[31] “Nata aristocratica la fotografia piemontese, pare ancor oggi segnata di quel nobile sigillo (…) ed è stata la quarta culla che ammirò il mondo in Torino, dove i destini vollero nascesse prima il Risorgimento, e poi l’automobile e la moda e la fotografia. Quante attività fotografiche ha già disseminato nel mondo la città nostra? Qui le prime conferenze, le prime proiezioni, il primo Istituto di educazione proiettiva, le prime battaglie per l’autocromia, per la fotografia artistica; qui i primi passi e certo le più aristocratiche creazioni della cinematografia”, Angeloni, 1933, p.189. Questo delirio retorico autocelebrativo costituisce un buon esempio del clima culturale dominante a Torino in quegli anni.  La marginalità in cui si collocavano i dilettanti fotografi dell’Unione Escursionisti è rivelata nella relazione anonima sulla Seconda Esposizione Sociale che si tiene nei mesi di marzo ed aprile del 1914: “Subito si nota nelle prove esposte (…) la grande preponderanza d’ingrandimenti e la mancanza assoluta di lavori al carbone, di gomme bicromatate e di altri processi foto-meccanici. Va considerato però che se tale lacuna sarebbe certamente sentita in una mostra fotografica che abbia prevalente carattere artistico e classico, diventa pressoché trascurabile nella modesta accolta di opere delle nostre esposizioni.”, De Marchi, 1914, p.4.

 

[32]Citato in  Cavanna, 1985, p.150.  Queste posizioni lo portarono ad esempio a criticare “l’esagerazione della ricerca” degli esponenti del gruppo americano selezionato da Stieglitz per l’Esposizione torinese del 1902, sebbene poi apprezzasse nella stessa occasione le opere di Giacomo Grosso, Guido Rey e Cesare Schiaparelli, cfr. Costantini, 1994, p.99 passim.

 

[33]”La Fotografia Artistica”, 3 (1906), n. 12, p.204;

 

[34] La notizia di un viaggio di Gabinio a Messina viene riportata per la prima volta da Enrico Nori (Passoni, Nori, 1974, s.n.) corredata da una serie di  informazioni non altrimenti documentate e di valutazioni infondate (la “dimestichezza con Galileo Ferraris”; “Dopo i cinquanta anni Gabinio comincia a fotografare solo Torino”; “Negli anni che restano [cioè gli anni Trenta] scatta ancora qualche fotografia: ma è solo tecnica, mestiere, abitudine e sopravvivenza”)  e viene quindi  ripresa da Avigdor, 1981, p.155, il  quale connette esplicitamente il viaggio alla documentazione del terremoto del dicembre 1908, seguito in questo da Miraglia, 1990, p.385, sulla base di quattro lastre poi passate al Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari di Firenze, forse corredate di una indicazione di attribuzione della quale oggi non rimane traccia.  La verifica condotta sulle copie moderne tratte da quelle lastre, gentilmente fornite da Giorgio Avigdor, non consente di formulare alcuna ipotesi attributiva poiché queste fotografie non si discostano  in nulla dalla corrente produzione coeva relativa all’evento. Va però fatto notare che nelle circa 12.000 stampe originali e nelle circa 4500 lastre che costituiscono il Fondo Gabinio della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino non compare alcuna traccia non solo di immagini relative al terremoto ma neppure ad un viaggio in Calabria e Sicilia.

A sostegno dei terremotati e per iniziativa della Società Fotografica Subalpina la rivista torinese “La Fotografia Artistica” pubblica  nel gennaio 1909 il numero unico Pro Sicilia e Calabria, contenente 80 illustrazioni dovute a Felice Masino, Secondo Pia, Frank Perret di Napoli, Stabilimento Brogi, Luca Comerio, Generale Cerri, Giovanni Assale, Giovanni Alifredi, Arturo Ambrosio, L. Martinez di Catania, Modò di Acireale e Maraffa Abate di Palermo. Una simile iniziativa viene presa anche dalla Società Fotografica Italiana che “sotto l’alto patronato di S.M. il Re” mette in cantiere una monografia su Calabria e Sicilia che sarà posta in vendita a L.5.  Di intento più celebrativo sembra essere invece l’album Resurrecturae edito a Milano da Biagio Giarmoleo e conservato alla Biblioteca Civica di Torino, forse da mettere in relazione con la realizzazione  a Messina dell’Ospedale Piemonte, offerto alla città dal “Comitato piemontese in pro delle popolazioni colpite dal terremoto”, realizzato nel 1911 su progetto di Riccardo Brayda e Pietro Fenoglio. (Viglino Davico, 1984, p.51). L’edificio venne visitato da una comitiva dell’Unione Escursionisti in occasione della gita nel Mediterraneo compiuta nel giugno del 1910.

 

[35]Per i dati relativi a queste manifestazioni cfr. Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica, 1907; Brand, 1911; Garimoldi, 1995, p.109.

 

[36]Angeloni, 1924, p.46. In particolare il riferimento è all’opera Movimento di Drtikol, pubblicata anche nel catalogo dell’esposizione, a cui partecipa tra gli altri anche Alexander Rodcenko con il Ritratto del poeta Assico  ed un altro Ritratto non identificato (nn. 102, 103). L’insieme delle immagini presenti riflette l’eterogeneità delle tendenze della fotografia dei primi anni Venti, ancora segnate da influenze pittorialiste, specialmente forti in ambito torinese come non manca di rilevare Namias, escluso dalla Giuria,  sulle pagine de “Il Progresso Fotografico”, luglio 1923, p.220: “In questa Esposizione, pur così riuscita, è mancato al Comitato il volere o il potere di sottrarsi alle influenze locali”. Al termine della manifestazione il Consigliere Giuseppe Ratti, ideatore dell’iniziativa, propone che le eccedenze di bilancio siano destinate “alla costituzione di un primo fondo per la creazione di una scuola professionale di fotografia ed ottica sotto l’alto patronato della Camera [di Commercio] stessa”,   intitolandola al conte Teofilo Rossi di Montelera, ma questa iniziativa prenderà corpo solo molti anni più tardi, nel 1935, cfr. infra nota 49.

 

[37]Per la ricostruzione della vicenda e del ruolo svolto dalla rivista e dall’annuario il riferimento è Luci ed Ombre, 1987. La rivista venne fondata a Piacenza nel 1904 da Angelo Guido Dell’Acqua (deceduto a Genova nel 1932); in seguito alla morte di  Alberto Dell’Acqua  la rivista passa al gruppo torinese nel 1922.  Il titolo dell’annuario riprende la definizione che Sem Benelli aveva dato dell’Esposizione Internazionale di Fotografia del 1923, detta “della luce e dell’ombra” (Prolo, 1976, p.215) e richiama quello di una rivista di esoterismo che si pubblicava a Roma circa negli stessi anni (1923-1927): “Luce e ombra. Rivista mensile illustrata di Scienze Spiritualistiche”.

 

[38] La schedatura analitica prevede che si definisca come “data” quella di realizzazione del fototipo (positivo, negativo, diapositiva) oggetto di scheda, registrando in nota le eventuali differenze tra data di esecuzione della ripresa e data di esecuzione della stampa. Stabilito questo irrinunciabile principio, perfettamente consono al trattamento di tutte quelle immagini su cui non compare una annotazione autografa relativa all’esecuzione, i problemi si pongono -paradossalmente- proprio nel momento in cui ci si trova di fronte ad una informazione dettagliata e precisa fornita dall’autore stesso: la data apposta al verso.  Alcune verifiche incrociate hanno consentito di individuare casi diversi: 1) data di ripresa e di stampa coincidono. 2) la data indica per certo l’esecuzione della stampa. 3) data di ripresa e data di stampa sono diverse ma molto prossime nel tempo, nell’ordine di due/tre giorni. Questa verifica consente di attribuire con certezza la data autografa all’esecuzione della stampa analizzata ma di ottenere anche -per le considerazioni appena fatte- una ricostruzione più che attendibile del calendario delle riprese.

Dall’analisi si ricava che Gabinio in questo periodo dedica alla fotografia anche giornate non festive, ciò che lascia supporre l’interruzione o la  conclusione del suo rapporto di lavoro con l’Amministrazione delle Ferrovie, apparentemente non verificabile attraverso i documenti conservati presso l’Archivio Storico delle Ferrovie di Torino.

 

[39] Il gioco insistito di relazioni  tra il primo piano di rami (fioriti)  e lo sfondo di  paesaggio tenuto fuori fuoco che  rimanda nella struttura compositiva e nel trattamento a numerose immagini di Gabinio dello stesso periodo,  si ritrova ad esempio in Fiori di melo di Enrico Unterveger, primo premio al II Concorso Trimestrale del 1926 (Praj, 1950, s.n.) ma anche in Nube di primavera di Mario Balloira, commerciante torinese di articoli fotografici ed amico di Gabinio, pubblicata in La Società Fotografica Subalpina nel 1927, p.2  Altri confronti possibili si possono fare tra il Panorama di Torino dall’approdo fluviale di Sassi (A44/56) ed il Tramonto sul Po presso Sassi (CM/35), entrambe del 1922,  con  alcune delle immagini presenti negli annuari del “Corriere Fotografico” quali Crepuscolo di Cesare Schiaparelli, 1926, o Tramonto di Antonio Fasoli, 1927, ora ripubblicate in Luci ed Ombre, 1987, s.n. Tutte registrano il tentativo fatto da Gabinio in quegli anni di aggiornare una prima volta il proprio linguaggio, adeguandolo ai  sicuri modelli certificati dalla pubblicistica fotografica e dai Salon.

Una seconda serie di immagini di fiori, isolati singolarmente, risale invece agli anni 1933-34 e rimanda ad esempi precisi della fotografia in ambito Bauhaus, la cui conoscenza era mediata in Italia, ad esempio, dalle immagini di soggetto simile pubblicate nella rivista “Domus”. Particolarmente interessante è il confronto tra il Fiore di passiflora di Gabinio, 1933, e la fotografia di identico soggetto di Joost Schmidt, datata 1928c, ora in Bauhaus Fotografie, p.47, tav.50.

 

[40]Una attenzione simile per i paesaggi marginali, inconsueta per l’epoca, si ritroverà in una serie di fotografie di Raoul Hausmann dei primi anni Trenta come Grano presso Schönenberg, 1931, Senza titolo, 1927-31 e Acqua di torba, 1931 (Raoul Hausmann, 1994, p.130).

 

[41] La singolarità e novità di questa immagine sono verificabili nel confronto con la stampa al bromolio di identico soggetto realizzata da Domenico Riccardo Peretti-Griva e pubblicata in “Torino” Rassegna Municipale, 8 (1929), n.4, aprile, p.176.

 

[42] Per Ugo Alessio cfr. Gli architetti dell’Accademia, 1996, pp.200-206, scheda a cura di Airis Rossana Masiero e Elena Dellapiana. La commissione esaminatrice  con la quale Alessio si diploma nell’ottobre del 1925 con il progetto per una cappella, era composta da Eugenio Ballatore di Rosana, Giulio Casanova che controfirma il progetto Alessio, Agide Noelli,  Cesare Bertea e Mario Ceradini, questi ultimi buoni conoscenti e amici di lunga data di Mario Gabinio. Tra le collaborazioni professionali di Alessio interessa ricordare qui quella con Carlo Brayda, che rimanda ancora una volta ad una trama di relazioni che trova le proprie origini nell’Unione Escursionisti. Gabinio riproduce più volte disegni e progetti del nipote, a partire dal saggio di diploma del 1925 sino alle tavole di progetto per il Teatro Civico di Vercelli e l’Istituto Tecnico Industriale Q. Sella di Biella, realizzati in collaborazione con l’ing. L. Gariboldi (Fondo Gabinio, lastre, sc. 311/Pl).

 

[43]Nell’ampia produzione superstite la sola immagine di folla urbana presente compare in una fotografia di piazza Palazzo di Città ripresa dall’alto il 12 settembre 1925 in occasione di un evento non identificato. (P22/9).

 

[44]Weaver, 1925, p.36. Dallo stesso articolo è tratta la citazione di Scott con cui l’autore polemizza utilizzando strumenti e categorie molto deboli e confusi, del resto propri della maggior parte della pubblicistica di quegli anni, specialmente quella rivolta al grande pubblico dei dilettanti.

 

[45]Brayda, 1888. La collaborazione tra i due origina dal precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, Brayda, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.  L’opera di Alberto Charvet costituisce un importante esempio della ricchezza del panorama torinese e più ampiamente piemontese di fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e d’architettura con produzioni di costante alto livello. Per Charvet cfr. Miraglia, 1990, pp.371-372. Il tema “porte e portoni” è stato ripreso in anni più vicini a noi da Augusto Pedrini, 1955, una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi a Torino nel campo della documentazione d’arte e di architettura, alla quale si accompagna una ricca produzione editoriale sugli stessi temi, con presentazioni di Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi, e la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri ed Architetti di Torino”. Pedrini viene chiamato nel 1932, con Gabinio, a documentare il cantiere della nuova sede della Società Reale Mutua Reale Mutua Assicurazioni di Torino.

 

[46] I rapporti tra Gabinio e l’architetto sono  documentati dalla riproduzione fotografica della tavola generale del progetto di laurea di Morbelli, Veduta assonometrica di un quartiere operajo/ presso la FIAT-Lingotto a Torino/ 1928,  presente nel Fondo (B101/31). Anche le relazioni con alcuni esponenti della famiglia Mennyey sono documentate da stampe presenti nel Fondo: due fotografie di paesaggi liguri sono infatti attribuite da Gabinio ad A.Mennyey mentre le stampe di Via Bertola, 1924 (B114/15), Albergo Fucina, 1926 (B83/16) e Chiesa dei Santi Simone e Giuda a Borgo Dora, 1927c(B77/146) risultano “consegnate”, secondo quanto si ricava dalle indicazioni al verso, a [Francesco?] Mennyey, che all’Esposizione del 1926 presenta l’acquaforte Il Borgo Dora. Per Mennyey, alle cui incisioni già aveva fatto riferimento Aldo Passoni a proposito di Gabinio (Passoni, Nori, 1974, s.n),  cfr. Francesco Mennyey, 1975; L’incisione del Novecento, 1985, p.62.

Le relazioni di Gabinio con l’ambiente artistico torinese sono ulteriormente confermate dalle fotografie di quattro copriteiere ricamate di Maria Rigotti Calvi, datate tra il 1920 ed il 1926 (Rigotti, 1980, p.268) realizzate forse in preparazione della mostra ginevrina del 1927 “Expositions d’Artistes Italiens Contemporains”.

Va segnalata qui anche la straordinaria coincidenza di temi, soggetti e luoghi che avvicina la serie di fotografie che Gabinio dedica ai cortili di case a ballatoio nell’area interessata dalla ricostruzione di via Roma, realizzata nel 1930-31 (B83/19-21), a litografie ed acqueforti di  Ettore de Fornaris quali Vecchio cortile (1936-1937) e  Slums (1938-39), nelle quali anche il punto di vista fortemente scorciato dal basso rivela un preciso rimando ai modi della ripresa fotografica, cfr. 6 incisori a “La Stampa”,  1939, p.7; Il tema era già stato affrontato da De Fornaris, ma con diverso trattamento, in Vecchio cortile, ante 1932, cfr. Incisori contemporanei, 1932, tav.XI. La sua figura di artista e mecenate è stata affettuosamente presentata da Rosanna  Maggio Serra (1986, pp.11-17).

 

[47] Il fascino degli spazi e dell’ambiente della “Vecchia Torino” coinvolge anche Marcello Boglione che al tema dedica  sia l’omonima cartella di incisioni, realizzata nel 1928 con Ercole Dogliani, sia le più tarde vedute di Via Barbaroux e di Via Sant’Agostino, esposte nel 1938 alla personale alla Galleria  Martina a Torino, mostra che Ettore Zanzi definisce, nella sua recensione, “specialmente interessante per gli studiosi della storia urbanistica torinese: sono infatti numerose le tavole che documentano con esattezza obiettiva e, tuttavia, con genialità interpretativa, non pochi aspetti della nostra città vecchia e stanca, edifizi che stanno per essere demoliti, strade e vicoli che subiranno presto o tardi radicali trasformazioni.” (citato in Marcello Boglione, 1994, p.143) riproponendo valutazioni sostanzialmente identiche a quelle con cui era stato accolto Torino che scompare nel 1900. Gabinio conosce certamente alcune opere di  Boglione, e in particolare nella sua Veduta della torre littoria in costruzione da Piazza Castello (P14/12) riprende esplicitamente il disegno di identico soggetto pubblicato in “Torino”, 14 (1934), n.1, gennaio, p.43.

 

[48] Nella Sala VII sono ospitati rilievi di d’Andrade, Brayda, Mella, Ferrante, Nigra, Pulciano, Vacchetta e Tornielli e “tutta una parete della sala è occupata da ben 22 vetrine dell’avv. Secondo Pia contenenti fotografie di grande formato di edifizi piemontesi dal periodo romanico, al gotico, al rinascimento: è la più completa raccolta di fotografie della Mostra”. Nella Sala X sono presenti rilievi di edifici barocchi realizzati da Giovanni Vacchetta e corredati di fotografie di Giancarlo Dall’Armi ed Augusto Pedrini; nella Sala XI progetti di Bonsignore, Talucchi, Locarni, Ferri ed altri ed infine nella Sala XII progetti di Vittorio Melano, Angelo Reycend, Stefano Molli e Carlo Ceppi, cfr. La Mostra retrospettiva, 1926.

 

[49] Società  Fotografica Subalpina, 1949. Sulle prime scuole di fotografia istituite a Torino cfr. Costantini, 1990, p.142, n.229. La scuola professionale Teofilo Rossi di Montelera, già auspicata da Giuseppe Ratti nel 1923 viene istituita solo nel 1935 per iniziativa del Consorzio per l’Istruzione Tecnica. Riconoscendo la necessità di fornire una formazione a largo raggio il programma della scuola viene impostato per giungere alla “formazione del ‘fotografo totalitario’”,  dotato di cultura generale e di cultura professionale. A tale scopo accanto agli insegnamenti tecnici, tecnologici e merceologici sono attivati i corsi di Storia dell’Arte, Storia delle Tecniche Fotografiche, Estetica Fotografica e Storia dell’Arte Fotografica, cfr. Bellavista, 1935, p.189.

 

[50]Archivio Storico della Città di Torino, Deliberazioni Podestarili, par.35, Verbale n.4 del 24-1-1931. Questa attenzione per la documentazione fotografica potrebbe anche essere stata suggerita da Vittorio Viale, dal 1930   direttore del Museo Civico in cui istituisce un primo nucleo di Archivio Fotografico, dotato di un fondo spese di circa ottomila lire annue, che propone di trasformare in “Archivio fotografico dei monumenti degli oggetti d’arte del Piemonte”, in apparente  concorrenza col corrispondente archivio della Regia Soprintendenza. La proposta, presentata al “I Congresso piemontese di Archeologia e Belle Arti” che si tiene a Cavallermaggiore nell’agosto del 1932, intende anche ovviare alla dispersione del materiale fotografico di interesse documentario conseguente alla chiusura degli studi professionali per cessazione dell’attività, (Viale, 1932) prefigurando in un qualche modo proprio la vicenda Gabinio che vedrà ancora protagonista Viale sul finire del decennio.

Quando, dopo alterne vicende (Avigdor, 1981, pp. 174-179) il Comune di Torino decide di accettare la proposta di acquisto avanzata da  Ugo ed Ivan Alessio dopo la morte di Gabinio, la motivazione è individuata “in relazione essenzialmente all’interesse connesso alla conoscenza dello stato di fatto in cui si trovavano l’edilizia cittadina e parecchi servizi municipali, fra l’ultimo Ottocento e il primo Novecento, da cui risultano evidenti le trasformazioni verificatesi sotto l’impulso innovatore del Regime.“, Archivio Storico della Città di Torino, Deliberazioni Podestarili, par. 40, verbale n.28 del 17-6-1940, corsivo nostro. La perizia relativa al valore delle 497 scatole di lastre, stimato in 9.500 lire, venne affidata a Viale, il quale ne opera una prima selezione, trattenendo per l’Archivio Fotografico dei Musei Civici solo quelle “di carattere artistico o archeologico”, corrispondenti a 1087 lastre e restituendo le altre -oggi non più reperibili- alla Divisione VIII Amministrazione Patrimonio e Lavori Pubblici, Archivio dei Musei Civici, cat. IX, cl.6, pr.425 del 18 ottobre 1941.

 

[51]Benjamin, 1966, p.71, che riconosce anche Atget quale padre della “nuova fotografia”.  In un contesto diverso questa relazione è sottolineata anche nella recensione del volume di Camille Recht dedicato ad Atget pubblicata da “La Casa Bella”, nel 1931: “Non si tratta, infatti, di novantasei fotografie pittoresche; ma di altrettanti studi eseguiti sulla scorta di un’intelligenza acutissima; e quasi di un fine determinato, che è certo la rappresentazione dello spirito del proprio tempo. (…) Atget è il fondatore di un”arte” della fotografia come sarà intesa parecchi anni dopo, in America ed in Germania, sotto la spinta della tecnica cinematografica” (C.G., 1931).

 

[52] Le stampe di Gabinio relative ai due cantieri sono conservate anche nell’archivio storico della Società Reale Mutua Assicurazioni di Torino, insieme a quelle di Stella, Pedrini, Ottolenghi,  dell’ing. Pantanelli e di Luigi Costa, fotografo con studio in Corso Regina Margherita 102 a Torino, che firma con Gabinio anche l’album Nuovo Palazzo/ della Società’ Reale/ Mutua Assic.ni/ Torino/ Foto di M.Gabinio/ e L.Costa. Alcune di queste immagini vennero pubblicate in Architetture di Armando Melis, 1936, p.38;

 

[53]Ponti, 1932, pp. 285-286, corsivo dell’autore.  Se “Domus” dedica ampio spazio alla pubblicazione di immagini è su “Casa Bella” che compaiono in quegli anni le segnalazioni e recensioni  più attente di volumi dedicati alla nuova fotografia; si confrontino ad esempio le recensioni di Modern Photography, numero speciale del trimestrale “The Studio”, pubblicato nel 1931, che contiene due importanti saggi di G.H. Saxon Mills e di C. Leeston Smith e fotografie di autori quali Bayer, Bruguiére, Henry, Beaton e altri, tra i quali gli italiani Bologna, Bricarelli e Giulio: per il redattore di “Domus” si tratta  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  (4 (1931), n.47, p.67),  mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume è occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.” (4 (1931),  n.47, novembre 1931, p.54). All’Editoriale Domus di Giulio Mazzocchi si deve in questi anni la pubblicazione oltre che di “La Casa Bella” e “Domus” anche di “Fotografia”, edita dal 1932 ancora sotto la direzione di Gio Ponti.

 

[54]La fotografia di Gabinio, pubblicata in “L’Architettura Italiana”, 29 (1934), n.3, marzo, p.95, ricorda le foto di Thèrese Bonney di una scala di Robert Mallet-Stevens, a proposito delle quali Ponti  parla di “seduzione fotografica”  (“Domus”, 2 (1929), n.2, febbraio, p.38) e richiama in particolare quelle eseguite dalla Studio Cartoni per la palazzina al Lungotevere Arnaldo da Brescia di Giuseppe Capponi, pubblicate in “Domus”, 4 (1931), n.37, gennaio, p.23.

 

[55]Cfr. Mostra sperimentale, 1931. Il concetto di “nuova visione” formulato da Moholy-Nagy e sviluppato in ambito Bauhaus relativamente alla fotografia (La fotografia al Bauhaus, 1993) diventerà il titolo della prima edizione americana del suo volume Von material zu architektur, Bauhausbücher 14, edito nel 1928 da Albert Lagen a Monaco (The New Vision: from Material to Architecture New York: Brewer, Warren & Putnam, 1930) ed in questa forma avrà particolare fortuna critica, pur non riferendosi in nulla, come è noto, alla fotografia.

 

[56]Antonio Boggeri  ha occasione di conoscere le opere delle avanguardie fotografiche europee per il tramite delle riviste messe a disposizione da Marco Luigi  Poli, che alla Alfieri & Lacroix di Milano, dove entrambi lavorano, cura il supplemento illustrato de “Il Popolo d’Italia” (Monguzzi, 1981, p.2).

 

[57]Sansoni, 1932, in cui sono pubblicate anche tre immagini di Gabinio: Lyskamm (4500) e suo ghiacciaio al chiaro di luna, L’alba sul ghiacciaio del Trajo e Aosta – Le Porte Praetorie. È interessante rilevare l’operazione condotta in questa occasione da Gabinio che stampa su carta per ingrandimento alla gelatina bromuro d’argento lastre realizzate circa trent’anni prima destinate alla stampa a contatto su carte ad annerimento diretto. I risultati, tecnicamente discutibili, indicano non tanto la necessità di adeguarsi alla scomparsa dal mercato delle carte alla celloidina ed al citrato quanto piuttosto un desiderio di adattamento al gusto corrente, alla modernità dell’ingrandimento consentito dalle carte al bromuro. Alcune perplessità sul lavoro di Achille Bologna erano già state espresse da Cesare Schiaparelli nella recensione alla sua personale torinese del 1930 (Schiaparelli, 1930).

 

[58] Pavia, 1926. Il rimando improprio al cubismo ed al futurismo  (“Si rallegrino i futuristi: la teoria del ‘volume’ e quella della ‘sintesi’ è accettata anche dagli artefici dell’obiettivo”) indica bene quale fosse il giudizio -e la distanza- che separava la cultura tradizionale dalle esperienze più aperte verso i valori del moderno, gli  stessi che avevano fatto si che lo stesso Felice Casorati venisse gratificato, nel 1919, dell’epiteto di “futurista” (Dragone, 1978, p.194)

 

[59] Sarà con questa architettura effimera che Edoardo Persico commemorerà l’artista sulle pagine di “Casabella” a pochi giorni dalla morte, nel numero di maggio 1935.

Nel corso del 1928, oltre a numerose altre minori, si tengono a Torino: gennaio – febbraio, “Prima mostra del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica” accanto alle personali di Léonard Misonne, José Ortiz-Echagüe e Marcus Adams; giugno, “Prima mostra provinciale d’arte fotografica dell’O.N.D.” promossa dalla Società Fotografica Subalpina; settembre,  “ III Mostra nazionale e I Esposizione internazionale di fotografia di montagna” organizzata dal Club Alpino Italiano; ottobre: “Secondo Salon italiano d’arte fotografica internazionale” oltre naturalmente alla I Esposizione dei Maestri d’Arte professionisti Fotografi nell’ambito dell’Esposizione Celebrativa.

 

[60] I “Commenti” di M.Bernardi (1928) ed A.Boggeri (1929) sono stati ripubblicati in Luci ed Ombre, 1987, pp.100-101 e pp.110-111.

 

[61]Andreis, 1933, p.10. Andreis con Mario  Bellavista, Cesare Giulio, Giuseppe Borghi, Luigi Costa (collaboratore di Gabinio per le riprese alla “torre littoria”), Carlo Emanuele Rossi ed Ernesto Sacchetto sono i  membri della redazione di “Pagine Fotografiche ALA”, con direttore Giuseppe Portigliatti. (Appendino, Ghigo, Lombardo, 1973, p.121) Questo intrecciarsi di presenze non solo rende ragione dell’attenzione con cui “Galleria” segue le vicende ALA ma mostra bene quanto fosse oligarchico il gruppo “dirigente” della fotografia torinese negli anni del fascismo.  La stessa rivista ospita i Concetti per fotografi moderni, con cui Mario Bellavista si propone di definire una tipologia della fotografia fascista. Bellavista, interessante fotografo, è uno  dei personaggi più influenti della fotografia italiana del Ventennio: oltre a tenere corsi per numerose associazioni a Milano ed a Torino è direttore a Milano  del Laboratorio di Resinotipia di Namias, Direttore della Scuola ALA a Torino, direttore dell’Ufficio Tecnico Gevaert e  per la stessa Società realizza nel 1934-35 il “Corso radiofonico elementare di fotografia” che viene pubblicato in sunto anche sulle pagine di “Galleria” e della “Rivista Fotografica Italiana”.

 

[62] “Pagine Fotografiche ALA”, 2 (1935), n.1, febbraio, p.5. Il problema dell’aggiornamento e della crescita culturale dei fotografi induce le diverse associazioni sia a mettere a disposizione dei soci una ricca serie di periodici (37 titoli tra italiani e stranieri, presso la sede ALA) sia a promuovere corsi di grande interesse, come quello prodotto dalla Società Fotografica Subalpina nel 1934 che prevedeva, tra gli altri, interventi di Bellavista, Dalla dagherrotipia ai raggi infrarossi; Erizzo, Il Novecento in fotografia e in cinematografia; Bertoglio, Surrealismo e fotografia; Bologna, Tendenze fotografiche internazionali;  Movilia, Funzione politica e sociale della fotografia. Anche la ALA promuove “riunioni culturali” seguite da dimostrazioni pratiche, tra le quali segnaliamo quelle dedicate a La fotografia dell’infrarosso nella pratica e La fotografia notturna, entrambe tenute da Gabinio in collaborazione rispettivamente con Mario Balloira e Smeraldo Smeraldi. Questo impegno didattico sostenuto in età avanzata spezza temporaneamente la sua tradizionale riservatezza ma stupisce anche per i  temi trattati: tra le stampe del Fondo Gabinio sono presenti attualmente solo tre fotografie all’infrarosso (B53/59-61).

Nel 1936 la denominazione muta da “Associazione Culturale Fotografica ALA” a “Associazione Fotografica Italiana A.L.A” mentre l’anno successivo si riduce definitivamente ad “Associazione Fotografica Italiana” (AFI).  La nuova denominazione riflette una crescita ed un livello di influenza che superano l’orizzonte torinese creando forti polemiche con la Società Fotografica Subalpina. In questo contesto va collocata l’assenza dell’AFI dall’Unione Società Italiane Arte Fotografica (USIAF), con sede a Roma presso l’Associazione Fotografica Romana Dilettanti e ovviamente aderente all’Istituto Fascista di Cultura , la cui costituzione era stata però promossa proprio dalla Società Fotografica Subalpina, a cui spetta anche l’organizzazione del primo Congresso USIAF, che si tiene a Torino nel 1937. Alla Società torinese si deve anche l’organizzazione dell’assemblea costitutiva della FIAF (Federazione Italiana  Associazioni Fotografiche) che si tiene a Torino il 19 dicembre 1948. (Appendino, Ghigo, Lombardo, 1973, p.8 passim).

 

[63] Nel 1934 Gabinio partecipa alle seguenti esposizioni: “Internationell Fotografiutstallning” alla Liljevalchis Konsthall di Stoccolma con le opere Austerità, n.272, Carezze di sole, n.273, Pesche, n.274, Uva, n.275 (poi a Boston e Ottawa), Refezione al cantiere, n.276, Dall’alto, n.277; “Prima mostra internazionale fra le Società YMCA” (Young Men’s Christian Association) a Torino, con  Mezzogiorno ovvero Refezione al cantiere, n.202; “III Nemzetkozi Muveszi Fenykepkiallitas” di Sopron (Ungheria) con l’opera Carezze di sole; “III Internationale Photo-austellung” di Vienna con Umiltà, n.192, Carezze di sole, n.193, Pesche, n.194.

Le nature morte di Gabinio vanno confrontate con le corrispondenti di Achille Bologna ora pubblicate in Fotografia luce della modernità, 1991, pp.122,12,127, datate 1935c.

Nello stesso 1934 Federico Sacco pubblica il volume dedicato a Le Alpi che contiene, tra le altre, 38 fotografie di montagna di Gabinio. A partire da questo dato è stato ipotizzato (Avigdor, 1981, p.155) un ruolo fondamentale svolto dal geologo nella formazione culturale di Gabinio, a partire da una collaborazione databile al 1890. In realtà la collaborazione data a partire dal 1925 e si concretizza nell’utilizzazione di immagini provenienti dall’ampio repertorio di Gabinio relativo alla montagna.

 

[64]Domenico Riccardo Peretti-Griva, La nostra prima rassegna, in Prima esposizione fotografica, 1935, s.n. A suggerire altre e possibili tangenze e riferimenti troviamo in  catalogo Aringhe di Giulio Galimberti, che rimanda anche compositivamente a Le sardine di Emmanuel  Sougez, del 1932.  Una ulteriore selezione di immagini presenti in mostra (“la fotografia classica ottocentesca era accoppiata alle più audaci composizioni pubblicitarie”)  viene pubblicata anche dalla “Rivista Fotografica Italiana”, 20 (1935),  n.3, marzo, con fotografie di Martino Brondi, Giovanni Calleri, Vincenzo Balocchi, Enrico Giorello, Enrico Aonzo, Gualtiero Castagnola, Mario Castino e Mario Gabinio (Piatti). Anche il redattore del “Corriere Fotografico” rileva che “Il torinese Mario Gabinio si fa notare per diverse belle nature morte e per una bella scena sul Po”  (citato in “Pagine Fotografiche ALA”, 2 (1935), n.4, aprile, p.38). Le opere presentate alla mostra sono: Piatti, n.112, Maioliche, n.113, Cipolline, n.115, Festa, n.116, Po, n.117, Valnontey, n.118. Nello stesso anno Gabinio partecipa anche al “XIV Salon International de Photographie” di Bruxelles con Università, n.352, Alluminio, n.353; “Fourth South African Salon of Photography” di Johannesburg: Carezze di sole, poi alla City Art Gallery di Durban, nel 1936; Mostra della Royal Photographic Society of Great Britain di Londra: Maioliche, n.86; “Second Canadian International Salon of Photographic Art” di Ottawa: Uva, n.63 (mentre Refezione al cantiere viene restituita); “XXX  Salon  international d’art photographique” di Parigi: Maioliche, n.166, Po, n.167,  Piatti, n.168;

 

[65] La rigida strutturazione compositiva di Piatti appare piuttosto come un’eccezione nella produzione di Gabinio di questi anni; in opere come Miscellanea (RA/23) o Maioliche (RA/21) come nella già citata Umiltà la forma appare piuttosto trovata che cercata, mai enfatizzata o insistita, e l’attenzione sembra piuttosto rivolta al “motivo” dell’accumulazione di oggetti, acutamente analizzato in Marbot, 1989, pp.154-155.

 

[66] Per La scala, 1930, di  Rodcenko cfr. Karginov, 1977, tav.182 e la variante di ripresa in Khan-Magomedev, 1986, p.247. Il gioco delle ombre portate sulla scalinata è il soggetto di Gradinata del tempio, 1930, di Achille Bologna e di Parigi, la Madeleine, 1932 , di Italo Bertoglio, entrambe pubblicate in Luci ed Ombre (1987, s.n.).

 

[67] Due immagini di questa serie vennero inviate a numerosi Salon internazionali con un titolo, “Carezza/e di sole”, che riprende esplicitamente quello di un’opera di Carlo Baravalle pubblicata in Luci ed Ombre, del 1927 (L’ultima carezza del sole), ancora una volta a suggerire non solo la condivisione di un gusto “crepuscolare” ma anche la caparbia capacità di assimilazione di Gabinio.

Le ninfee presenti nella citata immagine di Baravalle sono un altro dei temi con cui si confrontano numerosi fotografi in questi anni, attirati dalla mescolanza di richiami e suggestioni che questo contiene e, insieme,  dalle possibilità di ricerca formale che offre. Neppure Gabinio si sottrae a questa prova ma in Ninfee dopo la pioggia, 1933, (RA/1) riesce comunque a realizzare un’opera dotata di personalità propria, riconoscibile nel mantenimento di alcuni elementi caratteristici quali la perfetta leggibilità del dettaglio, la connotazione tridimensionale dello spazio pur in assenza della linea dell’orizzonte, ottenuta con la presenza di elementi minimi, che suggeriscono un punto di fuga (assente nelle opere di altri fotografi, forse sulla scia di Monet) e nell’ancorare la figura al luogo, che si ricava dalle scritte al verso, perché l’immagine sia -contemporaneamente- documento e forma.

 

[68] Savinio, 1935. L’articolo prende le mosse da una irridente condanna di Cézanne per estenderla a tutto l’ambito della ricerca fotografica contemporanea, a quel  “cézannismo fotografico [che] fu la vendetta burlona di Cézanne, il morto”, non senza aver prima esaltato il valore della scoperta della fotografia ed averne tracciato per sintetici tratti le influenze sulla produzione artistica tra Otto e Novecento, dalla letteratura alla musica. Sulla scia dell’antica condanna baudelairiana alla fotografia, “microscopio per tutti”, viene negato il “mistero dello sguardo”.

 

[69] Nel 1937 Gabinio partecipa al “XXXII Salon international d’art photographique” di Parigi con Moscato bianco e nero; “Salon international de 1937” di Metz, organizzato in occasione del trentaseiesimo convegno dell’Unione nazionale delle Società Fotografiche Francesi: Uva zibibbo e mele, n.269, Pesche reali, n.270; “V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti” di Torino: Uva nera e dorata, n.230, Mezzanotte alle Porte Palatine, n.231. Le fotografie Maioliche, Ferro zincato, Partita a carte e Persi moi [Pesche mature], inviate al Salon di Chicago, non vennero accettate.

 

 

 

Bibliografia citata

 

 

Alessio 1936

Ivan Alessio, Camicie nere della Ia Legione sulla Rocca Bernauda, “Rivista mensile del CAI”, 55 (1936), pp. 86-88

 

Alessio 1939

Ivan Alessio, Figure che scompaiono,  “Torino”, 19 (1939), n. 2, febbraio, pp. 34-37

 

Alfredo d’Andrade 1981

Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale e Palazzo Madama, 27 giugno – 27 settembre 1981), a cura di  Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi,  1981

 

Andrea Tarchetti 1990

Andrea Tarchetti, notaio: Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, Auditorium di Santa Chiara, gennaio-febbraio 1990) a cura di Pierangelo Cavanna, Domenico Vetrò. Vercelli: Assessorato alla Cultura, 1990

 

Angeloni 1924

Italo  Mario Angeloni, La fotografia artistica alla Prima Esposizione Internazionale, in L’arte nella fotografia, 1924, pp. 39-50

 

Angeloni 1933

Italo  Mario Angeloni, Nell’imminenza del IV “Salon” Torinese, “Il Corriere Fotografico”, 28 (1933), n. 4, aprile, pp. 189-190

 

Appendino, Ghigo, Lombardo 1973

Giorgio Appendino, Michele  Ghigo, Guido Lombardo, a cura di, Fotografia amatoriale italiana 1948-1973. 25 anni della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche. Napoli: Edizioni Nuova Fotografia, 1973

Gli architetti dell’Accademia Albertina, 1996

Gli architetti dell’Accademia Albertina, catalogo della mostra (Torino, Accademia Albertina di Belle Arti, aprile giugno 1996),  a cura di Giovanni  Maria Lupo.  Torino:  Allemandi,  1996

 

L’arte nella fotografia 1924

L’arte nella fotografia. Prima Esposizione Internazionale di fotografia, ottica e cinematografia, (Torino, maggio-giugno 1924). Milano-Roma:  Bestetti e Tuminelli, 1924

 

Avigdor 1981

Giorgio Avigdor, Mario Gabinio fotografo.  Torino: Einaudi, 1981

 

Banchetto 1900 a

Banchetto di chiusura della mostra fotografica, “La Stampa”, 34 (1900), n. 81, 22 marzo

 

Banchetto 1900 b

Banchetto fotografico, “La Gazzetta del Popolo”, 53 (1900), n. 81, 22 marzo

 

Banti , Meriggi 1991

Alberto M.  Banti, Marco Meriggi, a cura di, Élites e associazioni nell’Italia dell’Ottocento, “Quaderni storici”, 26 (1991),  fasc. 2, n. 77, agosto

 

Barraja 1899

Edoardo  Barraja, Alla scoperta del Piemonte, “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 17 (1899), n. 1, 1 gennaio, pp. 4-5

 

Barraja 1902

Edoardo  Barraja, Gli amici dei monumenti, “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 20 (1902), n. 8, 23 febbraio, p. 59.

 

Barraja 1912

Edoardo  Barraja, Riccardo Brayda e l’opera della sua vita.  Torino: Tip. Gran Didier, 1912

 

Bauhaus 1982

Bauhaus Fotografie. Düsseldorf: Marzana,  1982

 

Bauhaus 1993

La fotografia al Bauhaus, catalogo della mostra, (Venezia, Museo Fortuny, ottobre dicembre 1993), a cura di Paolo Costantini, Venezia:  Marsilio, 1993

 

Bellavista 1935

Mario Bellavista, All’Italia la più bella scuola di fotografia, “Rivista Fotografica Italiana”, 20 (1935), n. 10, ottobre, pp. 189-192

 

Benjamin [1931] 1966

Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia [1931], in Id. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 57-78

 

Bertea 1914

Cesare Bertea, Gli affreschi di Giacomo Jaquerio nella chiesa di Sant’Antonio di Ranverso, in “Atti  della Società Piemontese di  Archeologia e Belle Arti”, vol. VIII. Torino:Paravia, 1914,  estratto

 

Boggeri 1929

Antonio Boggeri, Fotografia moderna, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 8, agosto, pp. 557-564

 

Boggeri 1930

Antonio Boggeri,  Caratteri della nuova fotografia,  “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930) n. 8, agosto, pp. 546-549

 

Bologna 1932

Achille Bologna, Il corso di fotografia nella Scuola di Avviamento al Lavoro in Torino,  “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 3, marzo, pp. 136-138

 

Bonardi 1898

Ercole Bonardi, Una società di escursionisti,  “L’Esposizione Nazionale del 1898”. Torino, 1898, pp. 231-232

 

Bordini 1984

Silvia Bordini, Storia del panorama. La visione totale nella pittura del XIX secolo. Roma:  Officina, 1984

 

Brand 1911 a

Brand, Inaugurazione della mostra fotografica, “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), nn. 6-7,  giugno-luglio, pp. 98-99

 

Brand 1911 b

Brand, La fotografia all’Esposizione di Torino,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911) n. 12,  dicembre, pp. 167-171

 

Brayda 1887 a

Riccardo Brayda, Ricordo di una passeggiata artistica a Sant’ Antonio dl Ranverso (Valle di Susa). Torino: Doyen, 1887

 

Brayda 1887 b

Riccardo Brayda, Stucchi ed affreschi nel reale Castello del Valentino.  Torino: Libreria e Fotografia Artistica Charvet-Grassi, 1887

 

Brayda 1888

Riccardo Brayda,  Porte Piemontesi dal XV al XIX secolo.  Torino: Libreria e Fotografia Artistica Charvet-Grassi, 1888

 

Brayda 1898

Riccardo Brayda,  Torino scomparsa, “L’Esposizione Nazionale del 1898”. Torino, 1898, p. 96

 

Brayda 1900

Riccardo Brayda,  Torino che scompare (da fotografie del signor Mario Gabinio),  “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 18 (1900), n. 11, 18 marzo, pp. 85-86

 

Brocherel 1898

Jules Brocherel, Alpinismo. Milano: Hoepli, 1898

 

Brogi 1898

Carlo Brogi, , La fotografia all’esposizione, “L’Esposizione Nazionale del 1898”, Torino, 1898, pp. 252-255

 

Carluccio 1974

Luigi  Carluccio, Entrare e vivere nella Torino di ieri e di oggi, “Piemonte vivo”, 8 (1974), n. 2, aprile, pp. 4-9

 

Cavanna 1981

Pierangelo Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo d’ Andrade. Tutela e restauro, 1981, pp. 107-125

 

Cavanna 1985

Pierangelo Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, aprile – luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154

 

Cavanna 1986

Pierangelo Cavanna, Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di S. Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione, “Fotologia”, n.6, 1986,  pp. 34 – 45

 

Cavanna 1991

Pierangelo Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo,  “L’Impegno”, 11 (1991), n. 3 dicembre, pp. 41-48

 

Cavanna 1992

Pierangelo Cavanna, Problemi di documentazione fotografica del territorio Piemontese nell’Ottocento, in Le “Ali” del mercato in provincia di Cuneo. Bra – Torino: Comune di Bra – Ministero per i Beni Culturali – Politecnico di Torino -L’Arciere, 1992, pp. 100-111

 

Chan-Magomedov 1986

Selim Omarovič Chan-Magomedov,  Rodcenko. The complete work.  London:  Thames and Hudson, 1986

 

Comoli  Mandracci 1983

Vera  Comoli  Mandracci, Torino.  Bari:  Laterza, 1983

 

Costantini 1990

Paolo Costantini, “La Fotografia Artistica” 1904-1917.  Torino:  Bollati Boringhieri,  1990

 

Costantini 1994

Paolo Costantini, L’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica, in Torino 1902 1994, pp. 94-179

 

De Marchi 1914

Guido de Marchi, Esposizione fotografica sociale, “L’Escursionista”, 16 (1914), n. 11, 25 maggio, pp. 4-7

 

X anniversario  1902

A proposito del X anniversario dell’Unione Escursionisti, “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 20 (1902), n. 8, febbraio, pp. 60-61

 

Donato 1993

Giovanni Donato, Immagini del Medioevo fra memoria e conservazione, in Rinaldo Comba, Rosanna Roccia, a cura di, Torino fra medioevo e rinascimento. Dai catasti al paesaggio urbano e rurale.  Torino: Archivio Storico della Città di Torino, 1993, pp. 305-364

 

Dragone 1976

Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino 1920-1936, 1976, pp. 97-151

 

Dragone 1978

Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino tra le due guerre, catalogo della mostra, (Torino, marzo-giugno).  Torino:  Città di Torino, Assessorato per la Cultura-Musei Civici, 1978

 

Eco 1990

Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione. Milano: Bompiani, 1990

 

Esposizione 1907

Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, catalogo della mostra, (Torino, giugno-luglio 1907), Torino: s.n., 1907

 

Ettore de Fornaris 1932

Incisori contemporanei. Ettore de Fornaris;  presentazione di T. Grandi. Torino:  Buratti, 1932

 

Fadilla 1900

Ugolino Fadilla, L’Esposizione Fotografica di Torino,  “Gazzetta di Torino”, 41 (1900), n. 64, 5 marzo

 

Ferrari 1900

Giulio Ferrari, Esposizione Fotografica. La fotografia artistica,  “La Stampa”, 34 (1900), n. 67, 8 marzo, p. 3

 

Fillia 1932

Fillia [Luigi Colombo], Il futurismo. Ideologie, realizzazioni e polemiche del Movimento Futurista Italiano.  Milano: Sonzogno, 1932

 

Fiori 1900

Silvestro Fiori, L’Esposizione di fotografia,  “L’Escursionista”, 2 (1900), n.2, 23 febbraio, p. 4

 

Fiori 1902

Silvestro Fiori, Gli amici dei monumenti,  “L’Escursionista”, 4 (1902), n. 6, 23 maggio, pp. 3-5

 

Fossati 1975

Paolo Fossati, Fotografia e città: la Torino di Mario Gabinio,  “Il Corriere della Sera”, 100  (1975), n. 68, p. 15

 

Fotografia 1991

Fotografia luce della modernità: Torino 1920/1950, dal pittorialismo al modernismo, catalogo della mostra (Torino, Museo dell’automobile Carlo Biscaretti di Ruffia, 10 ottobre-17 novembre 1991) a cura di Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1991

 

Gabetti, Olmo 1976

Roberto Gabetti, Carlo Olmo, Cultura edilizia e professione dell’architetto: Torino anni ’20-’30, in Torino 1920-1936, 1976, pp. 11-33

 

Garimoldi 1995

Giuseppe  Garimoldi, Fotografia e Alpinismo:  Storie parallele.  Ivrea: Priuli e Verlucca, 1995

 

Gilibert Volterrani 1977

Anna Gilibert Volterrani , Alfredo Gilibert, Valsusa com’era.  Susa: Editrice Delphinus, 1977

 

Gilodi 1978

Renzo  Gilodi, La Società Ginnastica di Torino. Sport e cultura nel tempo.  Torino:  SGT, s.d. [1978]

 

Giuntini 1995

Sergio Giuntini, L’educazione fisica femminile a Torino a fine Ottocento,  “Studi Piemontesi”, 24 (1995), n. 2, novembre,  pp. 419-427

 

Giusta 1901

Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche,  “L’Escursionista”,  11 (1901) , n. 3, 6 maggio, pp. 6-7

 

Griseri 1974

Andreina  Griseri, Obbiettivo sulla città,  “L’informazione industriale”, 30 (  1974), nn. 7-8, 30 aprile, pp. 34-35

 

Griseri, Gabetti 1973

Andreina  Griseri, Roberto Gabetti,  Architettura dell’eclettismo : un saggio su G. B. Schellino. Torino: Einaudi, 1973

 

In memoriam 1938

In memoriam Mario Gabinio,  “Rivista mensile del CAI”, 58 (1938), p. 463

 

L’incisione del Novecento 1985

L’incisione del Novecento in Piemonte, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, marzo – aprile 1985), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Milano: Fabbri, 1985

 

L’ invention d’un regard 1989

L’invention d’un regard (1839-1818), catalogo della mostra (Parigi, Musée d’Orsay, 4 ottobre – 31 dicembre 1989),  a cura di Françoise Heilbrun, Bernard Marbot e Philippe Néagu. Paris:  Réunion des Musées Nationaux,  1989

 

Karginov 1977

German Karginov, Aleksandr Rodcenko.  Roma:  Editori Riuniti, 1977

 

Laezza 1927

Alfredo Laezza, a cura di, La Società Fotografica Subalpina nel 1927. Torino: Tip. Bona, 1927

 

Lamberti 1996

Maria Mimita Lamberti, Gli anni torinesi di Felice Carena, in Felice Carena, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte moderna e contemporanea, 30 gennaio-7 aprile 1996),  a cura di Fabio Benzi.  Milano:  Fabbri,1996,  pp. 9-22

 

Levi 1991

Marcello Levi, Mario Gabinio: immagini del primo Novecento, in XV Mostra Nazionale di Antiquariato di Saluzzo, catalogo della mostra (Saluzzo, maggio 1991).  Savigliano:  L’Artistica, 1991

 

Luci ed ombre 1987

Luci ed ombre: Gli annuari della Fotografia Artistica Italiana 1923-1934, catalogo della mostra (Firenze, Fratelli Alinari, 1987-1988) a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1987

 

Maggio Serra 1986

Rosanna Maggio Serra, a cura di, Arte moderna a Torino.  Torino:  Allemandi, 1986

 

Marcello Boglione 1994

Marcello Boglione (1891-1957). Un maestro dell’incisione all’Accademia Albertina, catalogo della mostra  (Torino, Accademia Albertina di Belle Arti,  marzo-aprile 1994), a cura di Angelo Dragone, Franca Dalmasso,  Vincenzo Gatti.  Torino:  Regione Piemonte – Franco Masoero,  1994

 

Mario Gabinio 1982

Mario Gabinio. Trenta fotografie di montagna, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna,  marzo-maggio 1982), a cura di Aldo Audisio.  Torino: Museo Nazionale della Montagna Duca degli Abruzzi -Club Alpino Italiano, sezione di Torino, 1982

 

Masoero 1900

Pietro Masoero,  L’Esposizione fotografica di Torino Note e appunti , “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), nn. 6, 7,  pp. 124-139, 277-291

 

Mattirolo 1925

Oreste Mattirolo, In memoria dell’avv. Francesco Negri : commemorazione letta nell’adunanza del 1 marzo 1925 alla Società piemontese di Archeologia e Belle Arti.  Torino: Anfossi, 1925

 

Melis 1936

Architetture di Armando Melis. Milano: Tip. Allegretti, 1936

 

Mennyey 1975

Francesco Mennyey. Monumentalità dell’incisione, in Francesco Mennyey:  acqueforti, catalogo della mostra, a cura di P. D. Ferrero.  Torino: Le Immagini – Studio d’arte contemporanea, 1975

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911.  Torino: Allemandi, 1990

 

Monguzzi 1981

Bruno Monguzzi, Lo Studio Boggeri, 1933-1981 : archetipi della seduzione grafica.  Milano:  Electa, 1981

 

Le montagne della fotografia 1992

Le montagne della fotografia, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 18 settembre – 22 novembre 1992) a cura di Silvana Rivoir. Torino: Museo Nazionale della Montagna – Club Alpino Italiano sezione di Torino, 1992

 

Morbelli & Morbelli 1995

Morbelli Angelo & Morbelli Alfredo, catalogo della mostra (Masnago e Casale Monferrato, giugno luglio 1995), a cura di Giovanni Anzani e Filippo Maggia.  Varese:  Lativa, 1995

 

La Mostra retrospettiva 1926

La Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese,  “Il Momento”, 24 (1926), n. 128, 2 giugno, p. 5

 

Mostra Sperimentale 1931

Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista, catalogo della mostra, (Torino, 15 marzo – 6 aprile 1931).  Torino:  Tip. Fedetto,  1931

 

Nelva , Signorelli 1979

Riccardo Nelva , Bruno Signorelli, Le opere di Pietro Fenoglio nel clima dell’Art Nouveau internazionale.  Bari:  Dedalo,  1979

 

Ottaviano 1986

Chiara Ottaviano, Classe agiata e organizzazione del tempo libero, in Valerio Castronovo, a cura di, La cassetta degli strumenti. Ideologia e modelli sociali nell’industrialismo italiano.  Milano: Franco Angeli, 1986, pp. 169-196

 

Passoni, Nori 1974

Aldo  Passoni, Enrico Nori, Torino anni ‘20:  104 fotografie di Mario Gabinio.  Torino:  Editoriale Valentino, 1974

 

Pavia 1926

Ugo Pavia, Il “Salon” fotografico di Torino: gli espositori stranieri , “La Stampa”, 60 (1926), n. 9, 10 gennaio, p. 5

 

Pedrini 1955

Augusto Pedrini, Portoni e porte maestre dei secoli XVI e XVI in Piemonte. Torino: Pozzo-Salvati, Gros Monti & C., 1955

 

Peliti  1993

Federico Peliti (1844-1914). Un fotografo piemontese in India al tempo della Regina Vittoria, catalogo della mostra (Roma, maggio-luglio 1993; Torino, marzo-maggio 1994), a cura di Marina Miraglia.  Roma: Peliti Associati, 1993

 

Peretti Griva 1933

Domenico  Riccardo Peretti Griva, In difesa dei procedimenti interpretativi,  “Galleria”, 1 ( 1933), n. 8, agosto, pp. 4-6

 

Piasco 1896

Teresio Piasco, Otto giorni sulle Alpi Marittime, 5-12 luglio ‘96; riproduzione anastatica. Cuneo:  Vecchi libri, s.d.

 

Politecnico di Torino 1995

Politecnico di Torino, Dipartimento di Ingegneria dei Sistemi Edilizi e Territoriali, a cura di, Torino nell’Ottocento e nel Novecento. Ampliamenti e trasformazioni entro la cerchia dei corsi napoleonici.  Torino:  Celid, 1995

 

Ponti 1932

Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n. 53, maggio, pp. 285-283

 

Praj 1950

Praj, a cura di, Luci e ombre. Fotografie pubblicate dalla cessata rivista torinese “Il Corriere Fotografico“.  Torino, in proprio,  1950

 

Prima esposizione 1935

Prima esposizione fotografica sociale ALA, brochure della mostra (Torino, marzo 1935). Torino: Tip. A. Kluc, 1935

 

Primo salon 1925

Primo salon italiano d’arte fotografica internazionale : Torino 1925-26,  brochure della mostra (Torino, Galleria centrale d’arte,  19 dicembre 1925 – 10 gennaio 1926).  Torino: Tip. Celanza, 1925

 

Prolo 1976

Maria Adriana Prolo, Il cinema – la fotografia, in Torino 1920-1936, 1976, pp. 211-217

 

Raoul Hausmann, 1994

Raoul Hausmann, catalogo della mostra, (Valencia, Institut Valencià d’Art Modern, febbraio – aprile 1994). Valencia: IVAM-Generalitat Valenciana, 1994

 

Reynaudi 1896

Carlo  Reynaudi, Ceresole Reale e la valle dell’Orco.  Torino: Roux e Frassati, 1896

 

Rigotti 1980

Giorgio Rigotti, 80 anni di architettura e di arte : Annibale Rigotti architetto, 1870-1968 : Maria Rigotti Calvi pittrice, 1874-1938.  Torino:  Tipografia Torinese Editrice, 1980

 

Sansoni 1932

Gino Sansoni, La Ia Mostra di Arte Fotografica del Paesaggio e dei Monumenti di Aosta e Provincia, “Aosta”, 4 (1932), nn. 9-12, pp. 515-530

 

Savinio 1935

Alberto Savinio, Fasti e nefasti della fotografia, “La Stampa”, 69 (1935), 6 luglio, p. 3, ora in Id., Torre di guardia ,  a cura di Leonardo Sciascia.  Palermo: Sellerio, 1977, pp. 131-142

 

Schiaparelli 1924

Cesare  Schiaparelli, La scuola piemontese di fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico”, 21 (1924), n. 4, aprile, pp. 52-53

 

Schiaparelli 1930

Cesare  Schiaparelli, Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale,  “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 10, ottobre, pp. 697-698

 

Secondo Pia 1989

Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo nazionale del Cinema, ottobre-novembre 1989), a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò.  Torino:  Allemandi, 1989

 

6 incisori 1939

6 incisori a “La Stampa”, brochure della mostra (Torino, Salone de La Stampa, aprile 1939), a cura di Marziano Bernardi. Torino: La Stampa, 1939

 

Serra 1898

Gian Giacomo Serra, Le Scuole Tecniche Operaie San Carlo in Torino.  Torino: Tip. Cassone, 1898

 

VI Mostra Biennale 1939

VI Mostra Biennale Internazionale di Fotografia Artistica (Torino, Circolo degli artisti,  maggio-giugno 1939). Torino: Stamperia Artistica Nazionale, 1939

 

VII Esposizione Annuale 1941

VII Esposizione Annuale Sociale di Fotografia Artistica AFI, (Torino, maggio 1941).  Torino:  Satet, 1941

 

Società  Fotografica Subalpina 1949

Società  Fotografica Subalpina, Catalogo della mostra del cinquantenario,  “Vita Fotografica”, 5 (1949), n. 9, aprile

 

Storiografia 1990

Storiografia francese ed italiana a confronto sul fenomeno associativo durante XVIII e XIX secolo,  atti delle Giornate di studio (Torino, Fondazione Luigi Einaudi , 6 e 7 maggio 1988),  a cura di Maria Teresa Maiullari. Torino : Fondazione Luigi Einaudi, 1990

 

Thovez 1898

Enrico Thovez, Fotografia pittorica, “L’Esposizione Nazionale del 1898”. Torino, 1898, pp. 219-222

 

Torino 1902 1994

Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino settembre 1994 gennaio 1995),  a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci.  Milano:  Fabbri, 1994

 

Torino 1920-1936 1976

Torino 1920-1936. Società e cultura tra sviluppo e capitalismo.  Torino:  Edizioni Progetto, 1976

 

Torino che scompare 1929

Torino che scompare: l’Arsenale,  “Torino”, 9 (1929), n. 2, febbraio, pp. 91-93

 

Viale 1932

Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte, in I  congresso Piemontese di Archeologia e Belle Arti, atti del convegno, (Cavallermaggiore, agosto 1932).  Torino:  Anfossi, 1932, pp. 158-161

 

Viglino Davico 1984

Micaela Viglino Davico, Benedetto Riccardo Brayda: una riproposta ottocentesca del medioevo.  Torino:  Centro Studi Piemontesi, 1984

 

Volli 1994

Ugo Volli, Il libro della comunicazione: idee, strumenti, modelli.  Milano: Il Saggiatore, 1994

 

Weaver 1925

John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 35-36

 

Zannier 1991

Italo  Zannier, Cento anni di fotografia Touring, in Fotografi del Touring Club Italiano, a cura di Elisabetta Porro.  Milano:  TCI,  1991, pp. 6-27

 

Zannier 1993

Italo  Zannier, Leggere la fotografia. Le riviste specializzate in Italia (1863-1990).  Roma:  Nuova Italia Scientifica, 1993