Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese (1992)

in Antichità ed arte nel Biellese, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, N.S. – XLIV, 1991/92, pp. 199-216

 

 

Immagini biellesi

 

Una bella veduta di Cerreto Castello, con le ossidazioni ed i grigi argentei della lamina dagherrotipica ad evocare impossibili effetti di colore, costituisce sino ad ora la più precoce testimonianza a noi nota di immagine fotografica del territorio biellese[1]. Il soggetto inconsueto a quella data ed i modi del suo trattamento  depongono a favore di un autore certamente non professionista sebbene alla data di esecuzione (1849) forse pochissimi avrebbero potuto  essere definiti tali, nati a questo mestiere senza essere stati prima ed ancora pittori, incisori, litografi, ottici e falegnami; ma insomma, crediamo, l’anonimo autore della veduta non esercita la dagherrotipia per mestiere né tantomeno appartiene alla categoria dei fotografi itineranti , la cui presenza in area biellese è documentata da alcuni noti ritratti[2]; il suo interesse per la nuova tecnica è forse più vicino all’attenzione prestata, circa negli stessi anni, da Giuseppe Venanzio Sella che passa ben presto ai processi negativo/positivo in cui “l’immagine, che nella camera oscura si produce, è rovesciata per causa dello incrocicchiamento dei raggi luminosi riflessi dagli oggetti esterni, quindi anche nell’immagine ottenuta col suo mezzo le parti sono rovesciate, cioè da destra sono portate a sinistra, ed inversamente. Questi apparenti svantaggi formano il merito principale del Calotipo, perché essi sono quelli che rendono quest’immagine su carta, non già un disegno comune, ma un tipo paragonabile alla forma dello scultore, al rame dell’incisore, capace di produrre una quantità innumerevole di altre più perfette immagini, le quali non lasciano più nulla a desiderare sotto il rapporto della verità e della naturalezza, poiché gli oggetti vi sono riprodotti con effetti naturali di luce e di ombra, e vi conservano la loro giusta posizione relativa”. (Sella 1863, p.11) Il doppio specifico della veridicità (obiettività) e della riproducibilità dell’immagine fotografica non potrebbe essere espresso  meglio che da queste parole tratte dal “Plico” sebbene forse non sia poi stata la produzione di immagini ciò che lo attraeva particolarmente della nuova tecnica poiché scarsa è la sua produzione di fotografo, iniziata ufficialmente a Parigi dove  realizza nel 1851 alcune immagini al collodio umido, e poi “tra il 1852 ed il 1853 una serie di stampe da negativi all’albumina, in cui ritrasse vedute di monumenti e di piazze di Torino , e, tra il 1859 ed il 1863, scene e figure di ambiente familiare, paesaggi”[3]. La poca rilevanza dell’attività fotografica di Giuseppe Venanzio Sella,   certamente non confrontabile col ruolo di rigoroso studioso e divulgatore svolto con la redazione del Plico, ci consente di guardare ad essa – secondo quelli che sono gli scopi di questo studio – come assolutamente paradigmatica dell’immagine del territorio propria dei  primi fotografi attivi nel Biellese: l’episodicità delle riprese rende significativi i soggetti prescelti, alla cui individuazione non si applica la lucidità critica di un progetto di documentazione, presentandosi questi come ovvii e ineluttabili, specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il territorio.

Una stampa all’albumina  apre il carnet di appunti acquistato da Giuseppe Venanzio a Parigi ma compilato in Italia, dedicato alla registrazione di “Fatti rimarchevoli”; si tratta di una ripresa frontale del ponte sul Cervo, effettuata dal greto del torrente, datata a penna in basso a sinistra “1853”, a cui fa seguito una formula di preparazione della emulsione su base albuminata (“Fotografia: albumina”), che il Sella giudicherà nel suo trattato “inarrivabile per prendere delle vedute, per copiare la natura immobile”[4]. Altre immagini di poco successive, non comprese nello stesso quaderno, riguardano invece il castello di Gaglianico, il Battistero ed il Duomo di Biella e la stazione della ferrovia Biella-Santhià, tutte vedute stereoscopiche databili circa il 1856, in cui ancora una volta sembra prevalere soprattutto la curiosità per una tecnica nuova, di cui poco vengono riconosciute ed utilizzate le potenzialità espressive: i soggetti sono sottoposti ad una visione strettamente frontale che nega i diversi piani del loro sviluppo spaziale  né alcun elemento con funzioni di quinta viene frapposto  tra questi e la camera, annullando di fatto le possibilità di una simulazione della visione tridimensionale proprie della stereoscopia.

Interessante è la scelta dei soggetti: accanto alla presenza di luoghi canonici quali il Battistero, il Duomo ed il castello di Gaglianico, e volendo escludere la veduta del ponte sul Cervo come contingente, per certi versi assimilabile alla veduta dalla finestra di Gras di Niépce, compare la stazione ferroviaria,  altro luogo canonico dell’urbanistica e della fotografia ottocentesche, ma che assume in questa piccola serie un significato particolare, che le è dato soprattutto dalla figura dell’autore, dal suo ruolo di imprenditore, “fabbricante di panni” come si firma nelle Note sopra l’industria della lana del 1873.

 

 

Il Catalogo

Con Giuseppe Venanzio Sella sia apre tradizionalmente la storia della fotografia biellese che comporta, quale apparizione successiva quella di Vittorio Besso, suo allievo  e sempre molto legato alla famiglia: quando nel settembre del 1864 si riunisce a Biella la Società Italiana di Scienze Naturali, Besso documenta l’evento e, firmandosi “pittore e fotografo”, ci lascia una bella immagine di gruppo dei partecipanti, ciascuno anagraficamente individuato in legenda[5].

Non è per ora dato sapere se la presenza di Besso quale fotografo ufficiale sia dovuta semplicemente all’assenza in quegli anni (ancora da verificare) di altri studi professionali attivi in città ma certamente la sua fama doveva già allora essere notevole, almeno localmente, se la “Gazzetta Biellese” del 1865 ricorda tra i meriti di questo stabilimento fotografico “quello di usare di questa divina arte…anche al nobile scopo di farci ammirare i capolavori di pittura e d’architettura (che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario); e le grandiose bellezze profuse largamente nei nostri monti e nelle nostre valli dalla mano onnipotente dell’essere creatore.”(citato in Becchetti 1978, p.55), a conferma di una attenzione precoce per i temi del paesaggio e del patrimonio artistico ed architettonico, probabilmente influenzata dal buon successo di stabilimenti famosi quali Alinari e Brogi ma certo non lontana dalle suggestioni di Quintino Sella, il solo in quegli anni e per alcuni decenni ancora ad occuparsi di tutela del patrimonio biellese “pur se in misura più circoscritta e quasi privata” (Astrua 1979, p.111). Besso pare raccogliere il messaggio costituito dalla raccolta di quadri riuniti nell’aula in cui si tiene la prima seduta della Società di Scienze Naturali e lo coniuga con possibili sbocchi professionali, commerciali anche, a loro volta legati ad un tipo diverso di frequentazioni, alla sua formazione di pittore e litografo, e la sua produzione si orienta verso la documentazione del territorio, rappresentato nelle sue emergenze più note, ma anche verso un genere particolare di riproduzione d’arte, geograficamente non connotato, destinato ad “essere di sommo aiuto ai pittori, sia in figura che in ornato ed in scenografia ed agli ingegneri, architetti, plasticatori” (Besso 1881, p.39) che assume nel 1868 la forma di un Album Artistico / ossia / raccolta di 326 disegni autografi /  di valenti artisti italiani / Galliari – Vacca – Sevesi – Barelli – Salvator Rosa – Apiani – Perego – Morgari – Bibiena – Vinca – Cineroli – Tiepoli – Rapus – Harthmann ecc. / Questi autografi vennero raccolti e fotografati / per cura del fotografo / Besso Vittorio / da Biella/…/ Album primo /…[6]. A poco meno di un decennio dall’apertura dello studio fotografico (1859) l’attività di Besso è quindi precisamente orientata secondo queste due direzioni, scarsamente integrate tra loro. Nulla conosciamo sino ad ora di Besso al di là delle (scarse) testimonianze della sua produzione fotografica ma due dati vanno rilevati ed immediatamente trasformati in problemi: l’Album Artistico nasce da una raccolta condotta in prima persona; l’interesse per pittori e scenografi di area prevalentemente piemontese non si traduce in attenzione per il patrimonio artistico della regione in cui vive. Quale sia l’immagine del territorio che Besso esprime risulta chiaramente dal catalogo del 1881, che vede accanto al Biellese assumere grande rilevanza anche la documentazione relativa ad altre zone quali il Canavese ma soprattutto la Valle d’Aosta e altre valli alpine e prealpine (Valle Po, Valsesia, Valtellina)  per estendersi sino a Lucca e le Apuane ed alle isole Maddalena e Caprera.

Che il Club Alpino Italiano sia l’ispiratore ed i suoi membri i destinatari di tale produzione risulta implicitamente fin dalle prime pagine del Catalogo (Besso 1881) che prevedono facilitazioni e sconti: le vedute, i panorami, le riproduzioni di monumenti sono destinate ad un pubblico di turisti colti ed amanti della montagna. Il Catalogo si apre con le “Vedute nel Biellese” suddivise in “Biella (città)” che comprende una piccola parte destinata alla documentazione dei monumenti più noti  accanto ad una più ampia sezione dedicata agli edifici industriali  a cui si aggiunge una serie di panorami composti di più immagini; completa la sezione dedicata a Biella la piccola serie “Circondario” con i castelli di Castellengo e Gaglianico ed il Cotonificio Poma, mentre le serie successive si riferiscono alla “Valle d’Andorno” con sessantuno immagini complessive, tra le quali si segnala un nucleo di ben trentaquattro fotografie dedicate a Rosazza che comprende anche immagini della chiesa e casa parrocchiale inaugurate l’anno precedente, all’ “Ospizio di Oropa” (ventitre immagini) ed infine all'”Ospizio di Graglia” ( due immagini) che chiude la parte  relativa al Biellese, complessivamente costituita da 126 immagini, caratterizzata da  una eterogeneità che conferma la funzione di guida e ricordo turistico che questa produzione doveva avere, segnata da una interpretazione carducciana delle caratteristiche del luogo biellese; siamo lontani quindi da una precisa intenzione documentaria in senso analitico e questa produzione di Besso si avvicina nell’impostazione al lavoro di Federico Castellani che nel giugno del 1873 presenta un Album delle principali vedute edifizi e monumenti della città di Vercelli in cui fin dalle distinzioni introdotte nel titolo si riconosce l’intento di fornire complessivamente una immagine dei luoghi senza pretendere o presumere alcun rigore disciplinare. Se a Vercelli, dove pure si poteva contare su di una ricca tradizione e pratica di studi storico-artistici , si giungerà con molta fatica, e solo dopo il 1886, a produrre importanti campagne di ricognizione fotografica del patrimonio artistico ed architettonico locale, a Biella, dove la percezione stessa di tale  patrimonio risulta essere inadeguata ( quei “capolavori che sebbene rari,tuttavia si trovano qua e là sparsi” per ritornare ai termini usati nel 1865) ed i problemi della tutela sembrano affidati alle sole attenzioni di Quintino Sella,  un preciso progetto fotografico in tal senso non vedrà forse mai la luce assumendo più facilmente come vedremo l’aspetto della raccolta di produzioni eterogenee dovute ad autori diversi.

La spinta essenziale e prevalente che guida l’operare degli studi fotografici è quella della pura commercializzazione e questo spiega credo la rilevante presenza nei Fondi sino ad ora consultati di immagini di Oropa[7], tra le quali si segnala un’immagine del cortile superiore ripresa da Besso che sembra essere stata il modello per la veduta corrispondente compresa in Alps and sanctuaries (Butler 1913, p. 174)[8].  L’iconografia di Oropa e, in misura minore, quella degli altri santuari biellesi è anche in quegli anni un prodotto di grande diffusione, destinato ad un pubblico vasto e composito, per il quale sono realizzate gamme differenziate di prodotti che vanno  dalle grandi stampe  24/30 cm sino alle ridotte dimensioni del formato “biglietto visita” (cm 6/10 ca), alle stereoscopie, agli album fotografici e litografici. Le Guide per il Biellese dei primi anni Ottanta (Pozzo 1881; Vallino 1882) confermano la presenza di studi fotografici nella sola città di Biella  (solo Rossetti, per quanto è dato conoscere sino ad ora, aprirà una propria succursale a Vallemosso nel 1887) e riportano i nomi già noti di Besso, Borro, Capellaro e Masserano e appunto Rossetti, ma tra le stampe conservate nel Fondo Fotografico del Santuario di Oropa non risultano immagini delle cappelle riferibili ad alcuno di questi; sappiamo però   che Besso -a cui si devono quasi  tutte le stampe di certa attribuzione presenti nell’Archivio e databili in questo intorno di anni-aveva in catalogo sette immagini di cappelle chiaramente identificate con la propria denominazione (della Presentazione, dell’Assunzione, della Concezione, della Purificazione, del Paradiso, della Natività della Vergine e della Dimora nel Tempio) più due altre minori, ciascuna indicata genericamente come “una cappella” (nn.64,65). (Besso 1881, p.10)

Non si può escludere che altri studi fotografici avessero una produzione simile ma ci sembra probabile che il catalogo di Besso, per quanto riguarda Oropa, fosse realizzato in condizioni di monopolio, strettamente connesse anche alla riscossione sui diritti di vendita da parte dell’Amministrazione del Santuario; quali poi fossero le ragioni di tale scelta di affidamento sembra, per quanto ne sappiamo oggi, relativamente facile dire: quello di Besso era il più antico studio fotografico biellese, fin dai primi anni particolarmente interessato alla documentazione del patrimonio artistico ed architettonico, il solo noto in ambito extralocale ed infine, come sappiamo, ancora molto legato alla famiglia Sella. Il ruolo di assoluta prevalenza commerciale è tale che alla Esposizione Generale dei Prodotti del Circondario di Biella del 1882 Besso risulta essere il solo fotografo presente, premiato con medaglia d’oro dalla Commissione esecutiva per essere “l’unico in Italia che presenti i panorami delle nostre Alpi accuratamente e nitidamente fotografati, ed uno dei pochi artisti che abbiano sì gran copia dei nostri monumenti architettonici, la perfetta riproduzione dei quali richiede molto gusto e molta conoscenza della prospettiva e degli effetti di chiaroscuro. Al Besso vanno eziandio tributate molte lodi per la premura dimostrata in ogni circostanza nel riprodurre oggetti o avvenimenti che solo a pochi era dato di poter ammirare e a portarli così a conoscenza di tutti coloro ai quali possono porgere interesse.”(Esposizione 1882, p.213)

Il testo della motivazione mostra una compresenza di affermazioni appartenenti alla ormai consolidata retorica ottocentesca sulla fotografia accanto a più precisi riferimenti alla produzione specifica di Besso e ad improbabili affermazioni che lo dipingono quale campione assoluto della fotografia di montagna proprio nella stessa occasione in cui Vittorio Sella presenta le proprie vedute, ma inserite nella sezione del C.A.I., accanto a due quadri ad olio e ad un disegno a carboncino[9]. Un riconoscimento alla carriera quindi, ormai più che ventennale, ed anche alla sua preminenza professionale e commerciale di cui nulla sappiamo per ora ma che sembra sufficientemente intuibile dalle clamorose assenze che si registrano in questa Esposizione.

Gli anni ’80 sono, almeno virtualmente, i meglio documentati dell’attività di Besso, scanditi dai cataloghi editi nel 1881 e nel 1893 che testimoniano anche di una notevole modificazione della produzione: rimangono inalterate le caratteristiche generali di eterogeneità, accentuate dalla presenza di nuovi soggetti quali la serie dedicata ai manufatti più significativi (ponti, viadotti, muri di sostegno, stazioni) delle Ferrovie Economiche Biellesi ed alle miniere e stabilimenti sardi (che possono essere letti come  una celebrazione dell’operato di Quintino Sella) mentre risulta particolarmente accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entra a far parte una sezione dedicata ai castelli costituita da 17 immagini, forse influenzata dalla realizzazione del Borgo Medievale del 1884, e -per il Biellese- la serie dedicata al castello di Gaglianico che passa da tre a quindici fotografie. Altrettanto significative sono le serie mancanti: nessuna immagine di Rosazza, del castello di Castellengo o della chiesa di Tavigliano. Per Oropa infine la diminuzione della quantità complessiva (20 contro 23) si accompagna ad una sostanziale novità dei soggetti che ora non comprendono più alcuna cappella. Questo dato, per ora privo di una spiegazione documentata, potrebbe essere messo in relazione con l’apertura del nuovo studio “Fotografia Artistica/ Dossena e Scanzio / via Umberto, 40, casa Galoppo / Dirimpetto alla chiesa della SS.Trinità” che affianca alla produzione corrente una documentazione esaustiva di tutte le cappelle del Sacro Monte, per un totale di diciannove soggetti diversi, venduti ad Oropa da G. Regis, risultato probabile di una nuova privativa concessa dalla Amministrazione del Santuario. Anche in questo caso le immagini, relative ai soli interni, sembrano collocarsi in un’area di produzione devozionale mirata  prevalentemente ad offrire una storia figurata della vita della Vergine piuttosto che porsi l’obiettivo di una documentazione dell’opera d’arte, sebbene siano noti alcuni esempi della produzione successiva dello studio più precisamente orientati in tal senso[10].

 

 

Il Progetto

Nell’anno 1891 Emilio Gallo, imprenditore e amico di Vittorio Sella, realizza un Album del Biellese (Fotografi del Piemonte 1977, pp.33-34) composto di 39 stampe, tra paesaggio e architettura, con una attenzione prevalente per le immagini di montagna, secondo gli intendimenti di quella che è stata definita come “scuola di Biella” (Miraglia 1981, p.475), ma con presenze  significative di edifici o siti minori quali la Trappa di Sordevolo o Cerrione col proprio castello, che si accompagnano a temi canonici e consolidati: la tomba di Quintino Sella, il Santuario di Oropa con la nuova chiesa in costruzione ed il castello di Gaglianico. Se a questi soggetti aggiungiamo le immagini di un ponte ferroviario in valle di Andorno, uno stabilimento industriale e le cave della Balma avremo, come era forse nelle intenzioni dell’autore, una sintesi panoramica della regione biellese condotta per brani antologici, esemplificativi, secondo un progetto che prenderà forma alcuni anni più tardi nella Illustrated Guide to the valleys of the Biellese Region (Padovani, Gallo 1900) destinata, secondo le parole introduttive di Vallino, a quegli untiring travellers (who) will at last know that the fine Biellese region exists and will visit it”[11].

Gli elementi del paesaggio biellese sono nuovamente indagati nel volume che il CAI dedica a questa regione nel 1898, con ampio apparato fotografico, dovuto a numerosi autori, da cui emergono le belle tavole fuori testo dovute a Vittorio Sella ma soprattutto ad Emilio Gallo, dove lo sforzo maggiore sembra dedicato ad occultare la presenza diffusa, territorialmente caratterizzante, delle strutture industriali, al fine di fornire una visione ancora romantica di regione incontaminata che ben si adatta alla committenza ma risulta meno immediatamente comprensibile quando si ricordi la quasi perfetta corrispondenza tra membri del CAI e rappresentanti dell’imprenditoria biellese.

Anche la documentazione del patrimonio artistico ed architettonico non va oltre la consuetudine e del resto il Biellese non pare ancora in questi anni  essere riconosciuto quale territorio ricco di tesori d’arte, se anche gli operatori Alinari, che proprio nel 1898 realizzano un’ampia campagna di documentazione del Piemonte con una permanenza quasi ininterrotta di ben cinque mesi, non si addentrano nella regione, di cui invece percorrono con assiduità i confini, dalla Valle d’Aosta al Vercellese alla Valsesia (Sansoni 1987).

La prima ricognizione del patrimonio artistico ed architettonico di queste terre si deve, ormai all’inizio del secolo, alle campagne fotografiche di Secondo Pia: “Ill.mo Signore – scrive in una lettera a V. Sella del 2 luglio 1890 – Quale modesto dilettante in fotografia in arte antica recandomi a Biella avrei vivo desiderio poter ritrarre colla mia macchina i preziosi saggi di arte antica che mi si dice esistervi nella sua splendida villa già convento … Appassionato anch’io per la  fotografia ho ammirato le splendide vedute alpine della S.V con rara abilità eseguite, e benché modesti accolga anche i miei sinceri rallegramenti”[12]. Non sappiamo per quali ragioni tale progetto venisse temporaneamente accantonato, ma il regesto autografo delle campagne di Pia (Tamburini, Falzone del Barbarò 1981, pp.55-58) mostra come il primo viaggio a Biella ed Oropa avvenga solo nel 1898 e che si debba attendere addirittura il 1902 per una vera e propria campagna di documentazione, preceduta da una significativa anticipazione, questa sì nel 1890, a Roasio dove Pia fotografa gli affreschi al cimitero di  Curavecchia e Santa Maria dei Cerniori. Basta questo dato a mostrare come gli interessi del fotografo si discostino in modo radicale dagli esempi precedenti: se analizziamo anche sommariamente la sua produzione vediamo come accanto a luoghi canonici quali il Duomo e San Sebastiano, però indagati nei loro cicli pittorici e negli arredi, si trovino gli archivolti in cotto di piazza Cisterna (quegli stessi che aveva ricordato Q. Sella nella sua prolusione del 1864) e ben dodici siti biellesi poco o nulla frequentati come San Quirico a Cossato, Magnano, Masazza e così via, seguendo una rete di segnalazioni e di contatti che andrebbe ricostruita e studiata, disegnando una diversa geografia dei luoghi notevoli del territorio.

Sono questi gli anni in cui Roccavilla porta avanti i propri studi e ricerche, che sfoceranno nella pubblicazione del volume del 1905 dedicato a L’arte nel Biellese, dotato di un apparato fotografico ricco, dovuto all’opera di numerosi studi professionali (Besso, Ariello, Dossena e Scanzio, Rossetti), di ben più numerosi studiosi locali che praticano la fotografia (D. Vallino, L. Pozzo, E. Cappa, V. Olivetti, V. Maglioli, E. Protto, E. Negro) ma prevalentemente realizzato con immagini scattate dallo stesso autore. Sorprendente risulta l’assenza di immagini di Secondo Pia al quale pur si doveva la migliore documentazione sul patrimonio biellese sino ad allora disponibile e nome certamente non ignoto ad uno studioso quale Roccavilla che certo doveva almeno conoscere il breve testo di Brayda dedicato a Candelo e Gaglianico, illustrato con fotografie di Pia e del Di Sambuy. (Brayda 1904)

Tale assenza potrebbe forse corrispondere ad una scelta precisa, di coinvolgimento di forze strettamente locali nel primo progetto organico di studio del patrimonio artistico ed architettonico biellese, affidato prevalentemente anzi alle forze dell’autore, che si colloca nella breve tradizione costituita dall’operare di Masoero per il Vercellese e di Negri per il Monferrato, sebbene in Roccavilla si registri un atteggiamento differente sia nei confronti dell’uso della documentazione fotografica (per cui il momento della realizzazione sembra essere importante ma non essenziale, quasi una necessità dovuta alla scarsità di fonti disponibili, come già era accaduto per d’Andrade)   sia nei confronti del tema che risulta essere, complessivamente, piuttosto il Biellese quale entità storico-geografica, etnica, che non la storia dell’arte nel proprio specifico. Con Roccavilla si passa infatti dalla documentazione del patrimonio architettonico ed artistico (ma con significative attenzioni già nel 1905 per temi minori quali l’oreficeria) a quella di impronta nettamente etnografica connessa alla preparazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911 (Albera, Ottaviano 1989), in parte utilizzata due anni più tardi nel numero monografico della rivista “The Studio” dedicato a L’art rustique en Italie[13].

 

 

Il Registro

Nel 1880/81 Simone Rossetti entra in società con P. O. Borro, di cui rileva lo studio nel 1885 per trasferirsi quindi nei nuovi locali nei primi mesi del 1899 (Bianchino 1987); fin dall’inizio, proseguendo una consuetudine che era già di Borro, i dati di  ripresa sono  registrati  in volumi, denominati sino al 1911 “Libri Mastri”, in cui al numero progressivo ed al formato della lastra è affiancato il nome del committente, essendo strettamente in funzione di questo che lo Studio Rossetti opera, al di fuori di ogni progettualità sua propria che non sia quella di sempre meglio soddisfare le richieste del mercato[14];  per questo nello scorrere i registri è più frequente incontrare indicazioni di genere (Interno chiesa, Acque, Condotte, Dighe, Pitture, ecc.) piuttosto che denominazioni precise dell’opera, essendo questo un dato per così dire di secondaria importanza per il fotografo, per il quale risulta fondamentale il solo sistema di rimandi che consente di risalire eventualmente alla lastra necessaria per la ristampa, secondo il motto comune a tutti i fotografi del secolo scorso, ma forse non sempre realizzato in modo così scrupoloso, “Si conservano le negative”. È questo di Rossetti un mondo professionale ormai completamente diverso dai pionierismi di Besso ed opposto per intendimenti alle campagne di Pia, segnato da una delimitazione netta del proprio ruolo professionale che risulta qui privo di volontà propositiva, puro servizio, in cui ciò che conta non è più la scelta del soggetto ma il bagaglio di esperienze e tecnologie che il fotografo è in grado di offrire e che si traduce, per noi che guardiamo alla sua produzione anche quale fonte, in ulteriori e sempre più indispensabili elementi di documentazione. Si consolida nel primo decennio del secolo la separazione netta, iniziata circa il 1880 con la prima produzione industriale dei materiali sensibili, tra impegno professionale e produzione amatoriale a cui sfuggono forse, ma la loro vicenda è ancora poco nota,   personaggi con storie diverse alle spalle quali Mario Garlanda di Biella o Franco Bogge di Occhieppo, che dopo una stagione di buon dilettantismo pittorialista passa alla professione realizzando campagne di documentazione  per lungo tempo utilizzate a corredo di volumi dedicati al territorio biellese[15].

 

 

 

 

 

Note

 

[1] Costantini et al. 1989, tav.263.

[2] Falzone del Barbarò 1980, p.1385 sg.

[3] Racanicchi 1981, pp. 8-9. La vasta eco prodotta dalla pubblicazione del Plico è documentata in Vittorio Sella 1982, p.351, nota 36.

[4] G.V.Sella “Fatti rimarchevoli”, Biella San Girolamo, Fondazione Sella, Fondo Maurizio. Ringrazio il Dott. Lodovico Sella, Presidente della Fondazione, Maria Vittoria Bianchino e Vittoria Sella per i preziosi suggerimenti e per le segnalazioni; per la citazione cfr. Sella 1863, p.13. La pratica della annotazione scrupolosa dei procedimenti, delle varianti e delle esemplificazioni basate sull’esperienza corrente non è un caso eccezionale specialmente tra i fotografi ottocenteschi, ciò che distingue G.V. Sella è il prevalere della attenzione tecnologica sulla produzione di immagini, la volontà di sistematizzazione che porterà alla redazione del Plico, entrambe strettamente legate alla sua attività imprenditoriale.

[5] Album Fotografico, 1864, Biella, Biblioteca Civica. L’immagine è stata pubblicata per la prima volta in Falzone del Barbarò, 1979, p.145 ed ora riedita in  Romano 1990, s.n. Per la biografia di Besso cfr. Falzone del Barbarò 1980, p.1404 , Poco definita risulta tuttora l’attività precedente  l’apertura dello studio fotografico nel 1859: secondo Torrione 1965  egli realizza nel 1842 una veduta in litografia, stampata a Torino nello stabilimento Doyen, della “Casa di campagna del Sig. Cavaliere Cipriano Villani a Lessona (Biella)” ed ancora, nello stesso anno, una veduta del castello di Sandigliano su incarico dell’Istituto Agrario del Regno Sardo; della stessa immagine esiste una versione incisa, in collezione privata, descritta come  “rara incisione del pittore Besso, tratta da una china di autore ignoto”(Vialardi di Sandigliano 1989, p.8). Da segnalare infine che nessuno di questi soggetti  figura nei cataloghi fotografici, mentre ancora nel 1881  viene offerto un “Piccolo ricordo in litografia contenente n.20 vedute comprendenti i tre Santuari di Oropa, San Giovanni e Graglia” (Besso 1881, p.11). Non essendo sinora stato reperito alcun esemplare di questa raccolta non resta altro che sottolineare la particolarità costituita dalla offerta di una serie di vedute in litografia a questa data ed all’interno di un catalogo fotografico. Per quanto riguarda la denominazione dello studio si ritrova dapprima la dicitura “Besso Vittorio/Pittore e fotografo/cantone Riva/Casa Cavaliere Marandono/Biella”, utilizzata almeno fino al 1864 e poi sostituita, forse intorno al 1873-75, da “Premiata Fotografia Vittorio Besso…”. La denominazione “Fotografia Reale Alpina” è registrata dal Catalogo del 1881 mentre al 1893 (Besso  1893) si avrà “Reale Stabilimento Fotografico Alpino”.

[6] Besso 1868. L’album, conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, costituisce a tutt’oggi la testimonianza più importante della produzione di Besso nel campo della riproduzione d’arte ma certo una migliore conoscenza dei Fondi Fotografici di Istituti ed Accademie d’Arte potrebbe portare a non poche sorprese; basti ricordare a titolo di esempio che presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli sono conservate una trentina di stampe sciolte, montate su cartone. La riproduzione di disegni autografi prosegue per tutto il corso dell’attività di Besso: se al 1868 l’album contiene 326 esempi essi divengono “mille e più” (Besso 1881) circa venti anni più tardi e risultano oltre duemila negli ultimi anni di attività (Besso 1893). Di tali disegni, collezionati dallo stesso fotografo, “si ignora la collocazione attuale…(né, d’altronde, è certo che esistano tuttora)” (Viale Ferrero 1980, p. 1487). Tra le tavole riprodotte nell’Album segnaliamo una rappresentazione allegorica de La Fotografia dovuta a Paolo Morgari (n.306), che richiama la litografia dello stesso autore realizzata nel 1839 su iniziativa degli ottici torinesi Jest e Rasetti per celebrare Daguerre e Della Porta (Prolo, Carluccio 1978, p.136); ancora a Morgari si deve la decorazione con stucchi e pitture dello studi di Henri Le Lieure a Torino (Falzone del Barbarò 1987, p.17). Il tema iconografico dei putti fotografi è ampiamente diffuso intorno alla metà del secolo come mostrano gli esempi di Bertini (Lucca), Casarico e Tomaso Pozzi (Milano) pubblicati in Becchetti, 1978, passim. e la “Fotografia Svizzera di Fumasoli”, Aosta (Maccaferri 1986, p.30).

[7] Anonimo,” Ospizio di Oropa“, 1865 c., Anonimo, “Nuovo cimitero del Santuario di Oropa“,1874 c., Oropa, Santuario, Fondo Fotografico; da questo fondo provengono tutte le immagini di Oropa presentate in questa occasione. Ringrazio la Amministrazione del Santuario per aver autorizzato l’accesso al Fondo; devo alla grande cortesia del sig. Golzio la concreta possibilità di accedere alla ricchissima documentazione in questo conservata, solo parzialmente analizzata in questa occasione non essendo stato possibile studiare il fondo di negativi su lastra. Sia per le stampe che per i negativi sarebbe inoltre della massima urgenza provvedere ad una accurata sistemazione e conservazione al fine di frenare i processi avanzati di deterioramento determinati dalle peculiari condizioni di ambientali, termoigrometriche, che caratterizzano i locali del Santuario. Da segnalare inoltre la presenza, in altro contesto, di numerose testimonianze fotografiche tra gli ex-voto il cui significato non può essere affrontato in questa sede. Negli anni Settanta risultano operosi anche gli studi di P. O. Borro e Capellaro e Masserano (Cassio 1980, p.197; Bianchino 1987): Paolo Onorato Borro ha studio in via Umberto 59, dirimpetto alla piazza San Cassiano dove risulta associato con  Rossetti  dal 1880 al 1885, quando si trasferisce a Torino in via Cernaia, 20 dove apre la “Fotografia Cernaia”; allo stesso indirizzo risulta,  qualche anno più tardi, la “Platinotipia Giuseppe Paggiaro” poi trasferita a Trino verso il 1892, dove avrà come successore, a partire dal 1908, Enrico Toccafondi.  Dello studio Capellaro/Masserano (altre volte indicato come Capellaro/Massarano) non è nota l’ubicazione;  operatore dello studio era il fotografo G. Garaffi mentre un Giuseppe Masserano è ricordato quale chimico e fotografo ed un Lorenzo Masserano è citato quale litografo-tipografo nel 1881-82. Il motto da loro scelto, “Artis Amica Nostrae”, risulta ampiamente utilizzato dagli studi fotografici coevi: si vedano ad esempio i cartoni di Fumasoli, Aosta, 1880 c. (Maccaferri 1986, p.31) e dei F.lli Ajello di Catanzaro (Becchetti, 1978, p.61) in cui anche l’iconografia risulta derivata da un modello comune.

[8] Nella prefazione alla prima edizione (riedita in Butler 1913, p.11 l’autore ricorda che “the two larger views of Oropa are chiefly taken from photographs. The rest are all from studies taken upon the spot.” Sebbene per queste immagini non possa essere esclusa la paternità di Butler, che alcuni ricordano anche come fotografo (paternità che sarebbe però stata scrupolosamente segnalata nella stessa prefazione), la relazione con la citata fotografia di Besso è molto stretta e pare verosimile che lo studioso inglese abbia fatto ricorso alla produzione di uno studio fotografico locale. Va qui almeno ricordata l’amicizia di Samuel Butler e di Francesco Negri, legata alla redazione del volume dello studioso inglese dedicato agli Ex voto (1888). Nel Fondo Fotografico Negri della Biblioteca Civica di Casale Monferrato è conservata una lastra stereoscopica (BCC,FN, sc.E13) in cui compaiono S. Butler, H. Festing Jones e C. Coppo ripresi a Camino, ed un altro negativo, non stereoscopico, datato 1898 ca (BCC., FN., sc.B20) in cui ancora Butler e Jones, che sarà il curatore dell’edizione postuma dei Notebooks dello studioso, sono ripresi nel giardino di casa Negri a Casale.

[9] Come si ricava dalla serie cronologica delle opere  (L. Sella 1982, pp.29-33), alla data dell’Esposizione,in cui presenta tra le altre cose una “veduta panoramica dipinta ad olio” (Esposizione, 1882), Vittorio Sella ha già realizzato i panorami dal Monte Mars (1879), dalla Testa Grigia (1880), le immagini del Bianco(1881) ed il panorama di 360° dal Cervino. Le immagini di Besso, in particolare quelle relative alla Valle d’Aosta, vennero presentate ancora all’Esposizione Nazionale di Torino del 1884, valendogli una Medaglia d’argento. (Barbiera 1884, p.350). Il fotografo non risulta invece presente nella “Appendice alla Sezione Architettura – Fotografie Architettoniche” della stessa Esposizione in cui compaiono tra gli altri Berra, Castellani, Maggi ed Ecclesia, quest’ultimo con temi e soggetti simili a Besso (Esposizione 1884).

[10] Il corpus di immagini relative alle cappelle del Sacro Monte, conservato presso il Fondo Fotografico del Santuario di Oropa, è costituito da 19 stampe montate su cartone e 14 negativi di formato non immediatamente corrispondente alle stampe. A Dossena e Scanzio si deve anche una bella immagine dell’altare di San Teonesto a Masserano  forse legata ancora ad un mercato “devozionale” (bella stampa montata su cartone, destinata alla vendita ) ma forse non estranea al rifiorire di studi intorno al primo decennio del Novecento. Allo stesso Studio si deve la riproduzione de “La sciabola del Canonico Moretta” pubblicata in Carandini, 1914 p.77, conservata nella collezione dello stesso autore. Non risultano per ora altre informazioni relative all’attività di questi fotografi che sembrano porsi, non solo cronologicamente, tra il modo di operare di Besso e quello dello Studio Rossetti. Per comprendere quale differenza intercorra tra rappresentazione devozionale e documentazione del patrimonio artistico dei Sacri Monti può essere sufficiente confrontare le immagini di Dossena e Scanzio con quelle, sostanzialmente coeve, di Pizzetta e Masoero per Varallo e di Francesco Negri per Crea.

[11] Domenico Vallino in, Padovani, Gallo, 1900, p. VI. Egli va ricordato seppur per brevi cenni, anche come fotografo: già nell’Album di un alpinista (Vallino 1878) alcuni degli schizzi dal vero sembrano tratti da fotografie e sue fotografie compaiono sia nel volume realizzato in collaborazione con V. Sella (Sella, Vallino 1890) sia in quello collettivo del 1898 dedicato al Biellese (C.A.I., 1898); altre ancora saranno infine utilizzate da Roccavilla  (Roccavilla 1905). Una attenta verifica delle immagini comprese nel Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Biella porterà certamente alla individuazione di numerose stampe e lastre originali, alcune delle quali sono state pubblicate in Romano 1990. Il volume di Padovani Gallo 1900 ha un precedente nel testo dedicato ad Andorno pubblicato da Amosso nel 1887, corredato di una stampa all’albumina e di vedute in litografia (Lynn Linton 1887). Anche le Guide di Pertusi e Ratti sono dotate di una corredo illustrativo che nella edizione del  1892 comprende 16 fotografie, prevalentemente dovute a Francesco Casanova, che risulta essere l’autore della maggior parte delle immagini utilizzate  nei volumi da lui editi, ma anche a Carlo Ratti ed Emilio Gallo, da confrontarsi queste ultime con l’Album dell’anno precedente.

[12] Biella San Girolamo, Fondazione Sella, Fondo Vittorio, Lettere. Il “modesto dilettante” Pia riceverà pochi mesi dopo, durante la Prima Esposizione Italiana di Architettura, una Medaglia d’oro “Per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti” (Prima Esposizione 1891, p.49). Le riproduzioni dei dipinti a cui si fa cenno nel testo della lettera sono oggi conservate nel Fondo Pia della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, scatola C/II. Tale Fondo è costituito dalle stampe originali donate dallo stesso fotografo a partire dal 1891.

[13] Devo a Chiara Ottaviano, che ringrazio, la segnalazione di questa pubblicazione, già discussa in Albera, Ottaviano 1989, Appendice I,  in cui si affronta per la prima volta il problema di una corretta attribuzione del Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Biella. Se non si può non concordare nel riconoscere a Roccavilla la responsabilità della raccolta di immagini che lo costituiscono, si deve anche rilevare  come esse non siano riferibili ad un solo autore, come è dimostrato – anche solo per la porzione già riprodotta – dalla presenza di immagini cronologicamente e stilisticamente molto distanti, a volte di attribuzione certa (Vallino, Besso), in larga parte utilizzate per illustrare  il primo volume che il Club Alpino Italiano dedica al Biellese (CAI 1898). Il Fondo comprende anche  alcune stampe originali tra le quali si segnalano Sulla porta del molino di canapa, che una scritta sul verso attribuisce a Roccavilla, pubblicata nel volume del 1913 (“The Studio” 1913, tav.18) senza indicazione d’autore, mentre sono attribuite a Roccavilla due immagini di oreficerie vercellesi e biellesi (“The Studio” 1913, tavv. 283,284) riedite recentemente (Romano 1990, s.n., negg. 446, 430). Si segnala infine, ad esemplificazione dei problemi posti dalla identificazione degli autori delle immagini presenti nel Fondo, come la fotografia intitolata Peasant carriers, Valle del cervo, Biella, Piedmont sia attribuita nel 1913 a Roccavilla (“The Studio” 1913, tav. 25), che risulta tra i collaboratori del volume, mentre è assegnata a D.V.(Domenico Vallino) nel già citato volume del CAI del 1898 (CAI 1898, p. 178).

[14] Non è certo il caso di sottolineare l’importanza fondamentale del Fondo Rossetti, conservato presso la Fondazione Sella di Biella San Girolamo, per la storia della città e del territorio tra Otto e Novecento, non semplicemente legata alla abbondanza del materiale iconografico ma  anche alla presenza dei registri di commissione che consentono di datare esattamente e di studiare i modi dell’utilizzazione dell’immagine fotografica da parte di utenti estremamente diversificati (Bianchino 1987).

[15] Fotografie di Bogge sono pubblicate ne “Il Progresso Fotografico” nelle annate del primo decennio del secolo, mentre allo stesso autore, che intorno al 1926 ha studio in Biella in via Umberto 43, si devono le belle illustrazioni del volume dedicato alla IV Incoronazione della Vergine di Oropa ( Cucco, Varale 1920). Ancora di Bogge sono le illustrazioni di soggetto biellese comprese in Marangoni 1931, riprese nel contemporaneo volume dedicato al Piemonte dal Touring Club Italiano (TCI 1931, pp.231-234). Con Rossetti e Bogge vanno ricordati gli autori/editori di cartoline quali Giovanni Bonda e Mario Garlanda, che all’inizio secolo edita una serie di paesaggi dovuti a Cesare Schiaparelli. Accanto a questi pochi nomi ed agli altri ormai noti dei fratelli Piacenza, di De Agostini, di Roberto Mosca, vanno almeno segnalati, quale labile traccia per ricerche future, Gabutti di Mosso S.Maria, Brilla di Biella, l’ing. P.Ponti di Andorno (segnalati in varie annate de “Il Progresso Fotografico” tra 1894 e 1909),  e la numerosa schiera di autori, forse prevalentemente dilettanti, che collaborano in vario modo nei primi decenni del secolo con Touring Club  e Club Alpino Italiano (Serpieri 1910; CAI 1928) quali L. Borsetti ed Erminio Sella di Biella, U. Sella di Cossato, A. Ramella di Pollone, E. Gaja, O. Silvestri, G. Varale, F. Maggia ed E. Cablé.

 

 

Bibliografia

 

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Michele Falzone del Barbarò, Besso Vittorio,  in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979, pp.145-146.

 

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Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2., pp. 421-544

 

Padovani, Gallo 1900

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Pertusi, Ratti 1892

Luigi Pertusi, Carlo Ratti, Guida pel villeggiante nel Biellese. Torino: Casanova, 1892

 

Pozzo 1881

Severino Pozzo, Biella: Memorie storiche e industriali. Biella: Amosso, 1881

 

Prima Esposizione 1891

Prima Esposizione Italiana di Architettura. Torino: Roux & C., 1891

 

Progresso Fotografico 1894-1909

“Il Progresso Fotografico”, 1 (1894) – 16 (1909)

 

Prolo, Carluccio 1978

Maria Adriana Prolo, Luigi Carluccio, Il Museo Nazionale del Cinema. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1978

 

Racanicchi 1981

Piero Racanicchi, Vittorio Sella fotografo, alpinista, esploratore in Maria Raffaella Fiory Ceccopieri, a cura di, Dal Caucaso al Himalaya 1889-1909: Vittorio Sella, fotografo, alpinista, esploratore. Milano: Touring Club Italiano – Club Alpino Italiano, 1981, pp.7-33

 

Roccavilla 1905

Alessandro Roccavilla, L’arte nel Biellese. Biella: Allara, 1905

 

Romano 1990

Giovanni Romano, a cura di, Museo del territorio biellese. Biella: Gariazzo, 1990

 

Sella 1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del Fotografo. Torino: Paravia, 1863

 

Sella,  Vallino 1890

Vittorio Sella,  Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, 1890

 

Serpieri  et al.1910

Arrigo Serpieri  et al., Il bosco. Il Pascolo. Il monte. Milano: T.C.I., 1910

 

Tamburini, Falzone del Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Piazza, 1981

 

T.C.I. 1930

Touring Club Italiano, Piemonte. Milano: T.C.I., 1930

 

Torrione 1965

Pietro Torrione, a cura di, Castelli biellesi. Biella: Sandro Maria Rosso, 1965

 

Vallino 1878

Domenico Vallino, In Valsesia: album d’un alpinista.  Biella: Amosso, 1878

 

Vallino 1882

Domenico Vallino, Guida per gite alpine nel Biellese e indicazioni sulle industrie del circondario. Biella: C.A.I., 1882  

 

Vialardi di Sandigliano 1988

Tomaso Vialardi di Sandigliano, Il castello del Torrione a Sandigliano, “Rivista storica biellese”, 5 (1988), n.5, pp.5-14

 

Viale Ferrero 1980

Mercedes Viale Ferrero, Fabrizio Sevesi (1773-1837),  in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, vol. 3, pp. 1486-1487

 

Vittorio Sella 1982

Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982

 

Luoghi, tempo, fotografie (2015)

in Angelo Anétra, a cura di, Testimonianze nel  Tortonese dall’Archivio Fotografico e disegni della Soprintendenza Beni Architettonici e Paesaggistici di Torino. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2015, pp. 11-32

 

Guardare le fotografie

E vederle anche, questo è l’invito. Cercando di andare oltre l’apparenza, oltre l’immediata restituzione della cosa fotografata per essere consapevoli del fatto che lo sguardo che noi portiamo su questi luoghi, su queste architetture, è mediato dalla fotografia e dai fotografi: dal mezzo come dagli autori di queste serie di scatti. Queste immagini sono e ci restituiscono architetture dello sguardo: non solo perché queste sono raffigurate e rappresentate, ma anche perché ciascuno degli sguardi da cui originano è a sua volta caratterizzato da modi suoi propri, da una peculiare strutturazione espressiva che va riconosciuta e compresa. Detto altrimenti, queste fotografie sono documenti complessi che ci informano non solo sullo stato delle cose al momento della loro realizzazione, ma anche sulle intenzioni e la cultura dell’operatore che le ha realizzate, della committenza a volte. Oltre la loro apparente accessibilità, oltre la superficie vorremmo dire, contengono informazioni di natura diversa, della cui esistenza è bene tener conto.

Guardare una fotografia per poterla veramente vedere, allora, provandoci a superare la dicotomia espressa dal titolo di una famosissima mostra prodotta dal  MoMA di New York[1] nel 1978. Dobbiamo infatti considerare ogni fotografia ad un tempo “specchio” e “finestra”, immagine che documenta “non solo lo stato fisico delle architetture e degli spazi urbani  ma anche i modi del loro uso nel tempo” e che offre “un contributo alla conoscenza degli uomini e dell’uso che essi fanno degli spazi costruiti”[2]; consapevoli che esse sono “lettura critica di un’architettura (…) e della sua utilizzazione nel tempo.”[3]

Quelle qui pubblicate appartengono alla categoria delle fotografie comunemente definite documentarie e in particolare al ben consolidato  ‘genere’, della fotografia di architettura, in cui – almeno in prima approssimazione – è considerata meno rilevante se non proprio messa in secondo piano la figura (e per certi versi la presenza determinante) dell’autore. “Io conosco un tale che fa bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica”[4] scriveva Tristan Tzara nel 1922 offrendo una versione macchinista dell’idea già  ottocentesca di queste “immagini [che] creavano sé stesse” (François Arago, 1839),  accogliendo e valorizzando quella sorprendente, costitutiva assenza di autorialità in cui era individuata la meraviglia della fotografia, la sua confortante oggettività di prova.

Il “secolo breve” a cui appartengono le nostre fotografie avrebbe dovuto ormai essere culturalmente lontano dalla fiducia ‘primitiva’ e quasi incondizionata nell’oggettività di queste immagini che si dicevano prodotte  da una “natura fatta di sé medesima pittrice”, ma è sin troppo facile scoprire quanto quella fiducia sia ancora sottesa alla loro realizzazione e al loro utilizzo, tanto da rendere invisibile la stessa fotografia in quanto processo e in quanto oggetto: essa risulta ‘invisibile’ in quanto tale. Pare documentare solo altro da sé nonostante la propria invadente presenza di medium, quella rivelata dalle stesse modalità di rappresentazione: inquadratura, restituzione ottica, esposizione, messa a fuoco. Scopriamo allora che questa fiducia  nelle nostre capacità di comprensione è ancora la stessa di John Ruskin, che nella prefazione alla seconda edizione di The Seven Lamps of Architecture (1880) invitava gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico e li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli”.[5] Basti considerare qui la serie di riprese del 1981 relative alla  chiesa di S. Maria e S. Siro a Sale.

Anche un eminente studioso come Ernst Gombrich ricordava che “dal punto di vista geometrico, una fotografia in grandangolo non è né più né meno corretta di una ripresa con un obiettivo a fuoco normale. La differenza è una differenza psicologica”[6]. Questo è esattamente il termine della questione, sebbene non il solo. L’indifferenza alle ‘distorsioni’, siano esse derivate dalla strumentazione fotografica o dall’azione dell’operatore, dipende in tutta evidenza dal fatto che noi riconosciamo culturalmente queste immagini come fotografie e siamo  consapevoli della loro natura indiziaria di segno di cui il “ricevente deve sciogliere di volta in volta la costitutiva ambiguità”[7]. Indizi e documenti quindi: ma di cosa? Il tema è troppo complesso per poter essere sviluppato qui, ma non può neppure essere eluso. Allora possiamo almeno dire che ogni fotografia nella sua materialità di oggetto (e non solo di immagine) accanto alla cosa fotografata testimonia  anche  la cultura visiva e professionale dell’operatore, senza dimenticare che a queste si sovrappongono, nel momento dell’osservazione, le nostre attese e competenze di lettori di quel testo figurativo che è costituito dalla fotografia che stiamo osservando, che teniamo in mano, che vediamo su di una pagina di libro ovvero, oggi, sullo schermo di un dispositivo digitale. Per questo insieme di ragioni, per queste compresenze più o meno immediatamente comprensibili possiamo dire di ogni fotografia che è una traccia e un indizio, è un segno ed è anche un simbolo. È  – per riprendere la fortunata definizione di Jacques Le Goff[8] – un documento/ monumento, un insieme inscindibile e irrinunciabile, che ci forza a distinguere senza disgiungere le componenti referenziali e quelle culturali, verificando la possibilità di comprendere gli elementi connotativi che hanno contribuito a dare corpo all’ immagine a partire da quella oggettualità storicamente data che ne ha costituito ogni volta il referente fisico, materiale.  Ciò facendo assegniamo a ciascuna fotografia, un molteplice valore documentario e quindi di fonte: prodotto di una cultura (sociale e individuale, artistica e tecnologica) che è precisamente testimoniata dalla sua individuale materialità di oggetto, e contemporaneamente testimonianza di una realtà altra da sé, della realtà storica del soggetto fotografato, del referente, rispetto alla quale il valore documentario di ogni fotografia prescinde dalla sua propria natura di oggetto per essere fondato interamente sulla sua essenza, sulla sua più profonda natura di immagine, quella che ci fa dire con Roland Barthes che ciò che vediamo “è stato”.[9] Per questo complesso di ragioni le domande che noi possiamo porre al documento fotografico (anche di architettura) sono molteplici: esso ci informa non solo sullo stato dei luoghi e delle cose ma anche sul valore e sul senso assegnato all’opera rappresentata e alle sue modalità di raffigurazione. Da qui deriva la possibilità di riconoscere un significato anche nella scelta dei temi, di assegnare la stessa importanza alle presenze come alle assenze.

 

Verso una storia

L’invenzione della fotografia venne concepita e prese forma in un contesto che non può che essere definito della modernità in senso storiograficamente canonico, tra rivoluzione francese e rivoluzione industriale, e fu ancora in quell’ambito che si definì la sua funzione di strumento utopico di classificazione del mondo, di generatore e materia costituente di quegli archivi iconici che costituiscono una delle fonti privilegiate  per tracciare le coordinate dell’oggi e del passato recente, per fare storia. L’enorme successo e diffusione della fotografia, quel suo essere (stata) fuor di ogni dubbio uno degli elementi costituivi della contemporaneità trovò il proprio fondamento proprio nel suo essere la prima incarnazione tecnologica di un canone rappresentativo di consolidata e solo parzialmente declinante tradizione, ciò che consentì il formarsi di  quel sentire comune che le riconobbe quella  presunta oggettività su cui, ancora, si sono fondati la sua fortuna mediatica e la sua pervasività.

La possibilità offerta dal mezzo fotografico di documentare cose ed eventi divenendo documento lo stesso suo prodotto era già ben chiara nella mente dei suoi pionieristici esegeti: i primi contributi alla discussione risalgono infatti al fatidico 1839 quando Jean Vatout, presidente della commissione francese dei Monuments Historiques, rilevava come la scoperta di Daguerre offrisse la possibilità di portare a compimento il progetto di “former la collection des plans et des dessins de tous les monuments de la France”[10], assegnando alla fotografia quella funzione di strumento per la documentazione, qui indiretta ma già precisamente orientata in senso archivistico, che venne sviluppata successivamente e quasi normata da Viollet-Le-Duc nel più specifico contesto del cantiere di restauro architettonico[11] e dalla Mission Héliographique del 1851 per la documentazione del patrimonio monumentale francese[12]. Era quello stesso ruolo sancito polemicamente anche da Charles Baudelaire in occasione del Salon parigino del 1859: “Bisogna dunque che [la fotografia] si limiti al suo dovere (…) che salvi dall’oblio le rovine pericolanti, i libri, le stampe e i manoscritti che il tempo divora, le cose preziose la cui forma va scomparendo e che esigono un posto negli archivi della memoria”.[13]

Anche in Italia l’attenzione per il patrimonio storico artistico si tradusse in specifiche iniziative di conoscenza, e quindi di tutela, già negli anni intorno all’Unità con l’istituzione di appositi Commissioni e Commissariati,[14] mentre nel 1870 uno studioso come Pietro Selvatico avanzava la Proposta per la riproduzione fotografica dei principali monumenti d’Italia, rivolta al Comune di Padova affinché si facesse “promotore di un consorzio fra municipi allo scopo di costituire una cospicua collezione fotografica, seguita dalla pubblicazione di un volume a guida della raccolta (…) cioè una storia monumentale della penisola”,  poiché “I cataloghi e le definizioni che pur ne vanno preparando apposite Commissioni, non bastano (…) perché la parola non è sufficiente (…) Per raggiungere utilmente lo scopo vuolsi unita alla definizione l’immagine dell’opera”, cioè la fotografia, “la quale con poca spesa riproduce un monumento qualsiasi con ben altra precisione che non possa fare il disegno”.[15] In quello stesso anno il Ministero della Pubblica Istruzione invitava le Accademie di Belle Arti a “raccogliere notizie intorno agli edifizi e monumenti ragguardevoli per l’arte e per le memorie storiche ed archeologiche, non esclusi gli affreschi e i mosaici”[16], vale a dire a compilare quegli Elenchi  “di edifici pubblici di qualsiasi forma, sacri o profani (…)  i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali”, di cui scriveva Cesare Correnti nel 1870, sollecitandone la redazione ai Prefetti[17].

Da quelle iniziative derivarono le prime sistematiche ricognizioni del territorio a scala nazionale, vale a dire  la  campagna documentaria  avviata nel 1878 per iniziativa del Ministro della Pubblica Istruzione. Forse seguendo il modello francese della Mission Héliographique[18], il ministro aveva invitato ogni  prefetto italiano a “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici (…) per  avere le fotografie dei monumenti medievali esistenti in questa provincia, e indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie.”[19] La Commissione piemontese istituita giusto quell’anno riuscì però a deliberare solo nel  febbraio 1882,  assegnando a due dei migliori professionisti piemontesi, Giovanni Battista Berra (Fotografia Subalpina)[20] e Vittorio Ecclesia[21], il compito di fotografare gli “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  assegnandogli rispettivamente il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli.[22] Così l’Elenco dei monumenti assumeva per la prima volta la forma di un repertorio per immagini, riconoscendo alla visualizzazione un ruolo importante nel processo di mediazione e diffusione della conoscenza come in quello di costruzione identitaria dei territori.

Ciò che colpisce di quella realizzazione non è tanto l’esaustività delle ricognizioni, ben delimitate dai rispettivi incarichi, o la scelta dei soggetti (alcuni dei quali ritroveremo due anni dopo nella realizzazione del Borgo Medievale al Parco del Valentino a Torino),quanto l’idea non specificamente espressa ma ben evidente nelle indicazioni generali, di pervenire alla formazione sistematica e strutturata di un archivio per immagini di quelle che allora erano considerate le eccellenze del patrimonio architettonico italiano. Si trattava però di un tipo del tutto nuovo di figure, poco adatte ad essere lette come traduzione e rappresentazione formalizzata del reale, sulla scia tradizionale delle arti del disegno e dell’incisione. Anzi: queste erano immagini che portavano in dote la propria invisibilità, quella capacità massimamente mimetica di offrirsi quale immediato sostituto del reale che lo stesso Pietro Estense Selvatico aveva celebrato già nel 1859, sottolineando come “l’impassibile occhio senza cuore” della fotografia – la definizione è però di Alfonso Rubbiani[23] – fosse in grado di “darci le esatte apparenze  della forma”.[24]

L’iniziativa personale dei singoli fotografi aveva anticipato da tempo quel genere di realizzazioni. Per limitarci al Piemonte, e non considerando quindi la nascita dei grandi studi come Alinari, Brogi o Sommer, fu a partire dagli anni Cinquanta del XIX secolo,  decennio segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, che si ebbero le prime pionieristiche realizzazioni del biellese Giuseppe Venanzio Sella, che utilizzava ancora la più antica tecnica della carta salata e fu autore anche di un testo fondamentale della prima letteratura fotografica italiana come il Plico del fotografo  (1856), di  Ludovico Tuminello, romano esule a Torino dopo la caduta della Repubblica Romana nel 1849, e del torinese  Francesco Maria Chiapella. Mentre la scelta dei soggetti operata da questi autori confermava quelli già stabiliti dalla produzione calcografica e litografica precedente, nel decennio successivo si sviluppò una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolgeva a tutto il territorio regionale; l’attività di documentazione fotografica si faceva più specifica e il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: basti pensare alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864), il tracciato della Ferrovia Fell al Moncenisio ripreso dal fiorentino Giacomo Brogi o il traforo del Frejus, illustrato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure nel 1868-1870, ma anche all’insieme vasto della produzione di Vittorio Besso.[25]

A partire dagli anni ’70 del XIX secolo comparvero anche i primi album fotografici dedicati ai centri minori della regione. In quelle realizzazioni i fotografi attivi nelle piccole città rivolgevano la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase era proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li portava  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrispondeva allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili, qui riconosciute invece quali luoghi canonici, che si impongono come ovvi e ineluttabili, specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzavano ciascun sito[26]. Nel loro riferirsi alla specificità del luogo, la novità non era ancora di sguardo, ma di cosa osservata; erano i soggetti prescelti a connotare ogni realizzazione, mentre la sintassi visiva e le formule espressive si muovevano in uno spazio comune, secondo canoni ben riconoscibili, in cui la definizione autoriale dell’immagine, pur presente, non era esplicitamente ricercata e semmai evidente nella diversa maestria tecnica di trattamento dell’immagine. Era il progetto documentario, insomma, a essere culturalmente rilevante, ben più che la qualità formale delle immagini che da quello derivavano, pur essendo in quegli anni molto alta anche in conseguenza delle caratteristiche proprie delle tecnologie adottate: dalla ripresa effettuata con lastre di grande formato alla stampa a contatto dei positivi.

Costituisce una realizzazione esemplare in tal senso l’album Tortona e dintorni pubblicato nel 1889 da Federico Castellani[27] per iniziativa del Municipio, della Banca Popolare dei Piccoli Prestiti, del barone Alessandro Guidobono-Cavalchini-Garofoli, del Cav. Paolo Ferrari, del Sig. G. Ferretti e dell’Avv. G. Fiamberti. Questo l’ordine di citazione al primo foglio, in cui solo a pochi fu concesso l’onore di essere indicati anche col nome proprio per esteso. “Illustrazione fotografica ordinata da Aristide Arzano” recita ancora il frontespizio, indicando seppure in una forma quasi dimessa a chi si dovesse la regia di quella rappresentazione. L’esemplare consultato ha i fogli slegati, ciò che non consente di analizzare la sequenza narrativa originaria né, forse, di esprimersi con troppa certezza sulla scelta dei soggetti[28], ma alcune considerazioni possono essere comunque esposte: l’attenzione risulta equamente distribuita tra edifici religiosi (Santa Maria Canale, San Giacomo e il Duomo prima e dopo il rifacimento della facciata, l’abbazia di Rivalta), e altri civili come  il Teatro Civico, col suo sipario, e il Cimitero ma anche le sedi delle due banche, una delle quali era tra i promotori dell’impresa, ruolo condiviso dal proprietario di Villa Ferretti, alla quale vennero dedicate ben due riprese. Da quello che pare un tentativo di compiacere le pretese della committenza piuttosto che di descrivere esaurientemente la città risulta un’immagine complessiva scarsamente definita, dalla quale vennero esclusi non solo altri importanti edifici di interesse storico, sia civili che religiosi, ma anche presenze istituzionalmente significative come il Palazzo Municipale o testimonianze della modernità in atto quali la Stazione ferroviaria e quella tramviaria. [29]

A pochissimi anni di distanza dall’iniziativa ministeriale sopra citata, l’ormai notevole disponibilità di documentazione fotografica consentì di avviare un altro rilevante progetto: la costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani affidò  al Collegio locale in occasione dell’Esposizione Generale del 1884 che si tenne a Torino. Nel successivo congresso (Venezia, 1887)  questo presentò il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” – quindi con una presentazione artistica – quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano ordinate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[30]

A quello stesso 1884[31] risale anche la costituzione della prima Delegazione Regionale per i monumenti del Piemonte e della Liguria, cioè della prima forma istituzionale delle Soprintendenze e da quella data, ma specialmente dopo il 1886, è possibile seguire in modo piuttosto preciso lo svilupparsi dell’interesse per l’uso della fotografia, sino alla realizzazione di un proprio gabinetto di sviluppo e stampa. In aderenza alle proprie funzioni istituzionali, la documentazione fotografica risultava sempre essere in stretta relazione con interventi di tutela e restauro e proveniva sia dall’acquisizione di stampe di professionisti esterni sia impegnando i principali collaboratori di Alfredo d’Andrade come Carlo Nigra[32], che aveva uno specifico interesse personale per la fotografia, e Ottavio Germano[33]. La necessità di provvedere a una documentazione sistematica dei beni tutelati e dei cantieri indusse D’Andrade nel 1889 a richiedere al Ministero i fondi necessari per la realizzazione di un gabinetto fotografico[34] in grado di soddisfare tutte le esigenze di sviluppo, stampa e montaggio delle fotografie, scelta certo non estranea al dibattito sulla necessità della istituzione di archivi fotografici o Musei documentari, particolarmente intenso alla fine del XIX secolo; l’estendersi di questa attività impose addirittura un ampliamento del parco di strumenti a disposizione, come dimostra la richiesta avanzata da Germano a D’Andrade relativa a un preventivo di L. 852 per l’acquisto di una nuova macchina fotografica solo cinque anni più tardi.[35]

Anche a scala nazionale il Ministero esprimeva la necessità di dotarsi di proprie strutture produttive da affiancare a quella propriamente archivistica costituita nell’ambito della Direzione generale delle Antichità e Belle Arti[36] ; così nel 1895 per iniziativa dell’ing. Giovanni B. Gargiolli prese avvio  quello che si sarebbe poi chiamato Gabinetto Fotografico Nazionale[37], mentre era del 1893 il contestatissimo Regio Decreto che prevedeva l’obbligo da parte dei fotografi – poi non sempre rispettato – di consegnare al Ministero copie positive e negative delle riprese fotografiche di opere d’arte, monumenti e “cimeli artistici o letterari (…) per provvedere alla migliore preparazione del catalogo generale dei monumenti e degli oggetti d’arte del Regno”.[38] Come si è detto erano quelli anni in cui si stava sviluppando a livello internazionale il dibattito intorno alla possibilità di istituire musei documentari fondati sull’uso di fotografie, come quello parigino fondato da Léon Vidal,[39] che William Jerome Harrison intese proporre come modello per altri paesi del mondo in occasione del Congresso di Fotografia di Chicago del 1894, tema ripreso e illustrato Italia nel marzo dello stesso anno da un intervento di Pietro Alegiani sulle pagine del mensile milanese “Il Dilettante di Fotografia” e sviluppato da Camillo Boito, Giuseppe Fumagalli, Gaetano Moretti e Corrado Ricci che nel 1899 promossero la raccolta presso la Pinacoteca di Brera di “fotografie di opere d’arte, di luoghi, d’avvenimenti, di persone ragguardevoli in ogni campo dello scibile”.[40] La riflessione critica e metodologica sulle potenzialità documentarie degli archivi fotografici venne ripresa ancora da Ricci ma soprattutto da Giovanni Santoponte chiarendo la differenza tra Museo fotografico, inteso come raccolta eterogenea di immagini prevalentemente destinate ai contemporanei, e Archivio fotografico, costituito da materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte [individuando] i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali.”[41] Il dibattito internazionale proseguì ancora negli anni successivi, ma diversamente da quanto accadde in altri paesi europei, la situazione italiana fu sostanzialmente di stallo e, se si esclude l’esemplare impresa privata degli Alinari, che progressivamente acquisirono anche importanti fondi di altri professionisti come Anderson e Brogi[42], non si registrarono realizzazioni significative. Tale situazione non muterà neppure con la nascita dell’Istituto Luce  (L’ Unione Cinematografica Educativa, 1924) che pure acquisì archivi di cronaca, fondi fotografici di documentazione delle opere d’arte e lo stesso Archivio e Gabinetto Fotografico del Ministero della Pubblica Istruzione; come ha ricordato Carlo Bertelli: “Era  la grande occasione per costituire sia un inventario storico che un inventario attuale dell’Italia. Quell’occasione andò completamente perduta, come se il fascismo avesse timore di ciò che la fotografia potesse rivelare.”[43]

Ancora una volta, nello spazio lasciato libero dall’attività dei grandi studi nazionali come dalle iniziative ministeriali, in quella terra di nessuno che era la documentazione del patrimonio artistico e architettonico locale, un ruolo determinante, specialmente in Piemonte, venne svolto da alcuni fotografi amateur o da professionisti che affiancavano alla pratica ritrattistica un interesse autonomo per la storia artistica locale[44]. A questo progetto culturale, di forte valenza civica,  appartenevano ad esempio  le “ricreazioni fotografiche” di Secondo Pia[45], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione negli ultimi decenni del  XIX secolo, non di rado in anticipo sulla stessa storiografia e ancor più sull’azione di tutela del neonato Ufficio Regionale, cui già nel 1890 venne assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[46], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio, assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi”,[47] collocandosi senza soluzioni di continuità  tra le sollecitazioni ruskiniane e le raccomandazioni formulate dal Congresso di Parigi del 1900. Questo suo impegno venne giustamente celebrato specialmente in ambito torinese già a partire dall’Esposizione Italiana di Architettura del 1890 e quindi ancora in quella di Arte Sacra del 1898, quando espose circa 600 fotografie e Giovanni Cena gli dedicò un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[48]

Nel 1905 si tenne a Tortona l’ottavo Congresso Storico Subalpino e agli studi che vennero presentati in quell’occasione[49] credo possa essere riferito l’interesse di Pia per questo territorio. La sua campagna venne infatti realizzata l’anno successivo toccando oltre al capoluogo anche Castelnuovo Scrivia, Pontecurone, Viguzzolo e Volpedo (ma non Sale) e fu condotta con una attenzione inedita per quei luoghi. Il dato più significativo era costituito non solo dalla scelta dei soggetti, pur significativa, quanto piuttosto dalla sistematicità con cui era condotta la lettura degli edifici, di cui restituiva esterni, in viste generali e di dettaglio, interni ed elementi architettonici  oltre all’apparato decorativo e pittorico, allora ancora scarsamente considerato nonostante le prime pionieristiche ricognizioni di Carlo Nigra, limitate però all’area torinese e valsusina[50]. Fu proprio Pia negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo a compiere una ricognizione quasi esaustiva dei cicli pittorici del Quattrocento piemontese, compresi quelli di area tortonese tra Rivalta Scrivia, Pontecurone e Volpedo, in una ricerca sostanzialmente isolata, certo condotta a partire da indicazioni di numerosi e diversamente qualificati informatori, tenendosi a volte a ridosso  dei primi interventi di restauro. Dalle più di cinquanta riprese tortonesi realizzate è facile comprendere quanto Pia fosse aggiornato sulla più recente storiografia artistica e sulle ultime iniziative: lo testimoniano le diciassette riprese  di reperti archeologici effettuate nel Museo Civico di Tortona, appena istituito nel 1903, come la riproduzione del trittico di Macrino d’Alba da poco riscoperto nella Cappella Episcopale di Tortona[51] ma anche la documentazione delle mura di Volpedo sulle quali aveva richiamato l’attenzione nel 1903 Giuseppe Pellizza, commissionandone alcune riprese al fotografo tortonese Fausto Bellagamba.[52]  A pochissimi anni dall’emanazione della prima legge nazionale di tutela[53], le fotografie di Pia  restituivano di questo territorio un’immagine  ben più articolata e ricca di quanto non fosse emerso dalle “corografie” precedenti.

Quando la fotografia era sul nascere e poco si praticava, almeno nei piccoli centri della nostra provincia, il tema della veduta urbana, era stato Goffredo Casalis[54] a descrivere questi  luoghi alle soglie della modernità, prima della faticosa industrializzazione, prima della ferrovia, rappresentandoli nella loro condizione quasi immutata di borghi e città agricole in cui si insediavano  le prime manifatture. Nel 1846 Clemente Rovere[55] avrebbe considerato invece la sola Tortona nel corso delle proprie ricognizioni, schizzando rapidamente a matita con l’ausilio di una camera obscura  i resti del castello, una veduta dai (e dei) Cappuccini, la chiesa del Corpus Domini e la piazza principale col Duomo, oltre a Santa Maria Canale; poi la piazza del mercato con il “lungo bel loggiato di quaranta quattro archi”[56], costruito nel 1832 per il mercato del bestiame e la vicina Porta di Serravalle, resto occidentale delle vecchia cinta muraria. Non il Teatro civico però, recentemente costruito, che non venne considerato tra gli “edifici rimarchevoli” mentre pochi anni più tardi il significato della sua presenza venne correttamente indicato nella Corografia d’Italia[57] e confermato vent’anni dopo in occasione della ripubblicazione di quel testo ne Le cento città d’Italia[58]. Titolo di grande fortuna questo, come sappiamo, essendo stato utilizzato poi per il famoso supplemento de “Il Secolo” dell’editore milanese Edoardo Sonzogno, dove il fascicolo dedicato a Tortona venne curato nel  1890[59] da  Aristide Arzano in collaborazione con Giuseppe Dellepiane. Era l’anno successivo alla pubblicazione dell’album Castellani ma anche quello della pubblicazione del terzo volume dell’opera di  Giuseppe Strafforello La Patria: geografia dell’Italia, dedicato alla Provincia di Alessandria[60] che conteneva anche il testo su Tortona, illustrato da una serie di incisioni su acciaio tratte proprio dalle fotografie dell’album relative al Palazzo Cavalchini-Garofoli e alla casa medievale di Corso Leoniero, mentre tra gli edifici religiosi comparivano la Cattedrale, Santa Maria Canale, l’interno di San Giacomo e naturalmente l’abbazia di Rivalta Scrivia.

Quella era quindi l’immagine consolidata della città, quelle le emergenze architettoniche che la qualificavano e certamente la collocavano tra i centri minori del Piemonte anche dal punto di vista storico artistico[61] in anni in cui l’attenzione dell’Ufficio regionale piemontese, certo tenendo anche conto delle sollecitazioni di Arzano e poi della “Società per gli Studi” si appuntava su alcuni dei suoi principali monumenti, come dimostra una serie di lastre di grande formato (24×30) conservate nell’archivio dell’attuale Soprintendenza, relative a Palazzo Cavalchini-Garofoli, a Santa Maria Canale e all’interno della chiesa abbaziale di Rivalta. Sono queste le più antiche testimonianze fotografiche superstiti dell’azione di conoscenza e tutela svolta dall’Ufficio torinese (poi Soprintendenza), datate al 1905 e dovute verosimilmente a Cesare Bertea, allora giovane funzionario, realizzate seguendo le direttive di un Promemoria ministeriale dello stesso anno in cui si sottolineava non solo  “l’importanza che avrebbero i Cataloghi (…) se ogni scheda fosse fornita della sua fotografia” ma anche che le  fotografie fossero “fatte da chi redige la scheda e per conseguenza da persona che sa come il Monumento o l’Oggetto debba o possa essere riprodotto.”[62] Azione di tutela e documentazione fotografica assunsero da allora un andamento parallelo, come è facile riscontrare confrontando cronologia delle notifiche, degli interventi e datazione di alcune immagini; così nei mesi in cui era in discussione il disegno di legge “per le Antichità e Belle Arti” (poi legge n. 364/ 1909) si ebbero i primi provvedimenti in area tortonese, prevalentemente relativi a edifici di epoca medievale come la Chiesa di S. Maria e S. Siro a Sale, “dichiarata monumento d’arte in data 12 luglio 1908” come enunciava orgogliosamente il testo di una cartolina edita allora[63]. In anni in cui il Ministero sollecitava i Soprintendenti a inviare all’Archivio Fotografico della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti “una copia positiva di tutte le negative fotografiche dei singoli Uffici già eseguite e da eseguirsi e di quelle positive di cui esista un duplicato disponibile”[64] , il  Gabinetto fotografico torinese, forse affidato al solo Bertea, si dotava di apparecchiature fotografiche ormai di minor formato[65], come testimoniano alcune riprese relative alla  Chiesa di S. Maria Canale e ai resti del Chiostro del  Convento dell’Annunziata, tutte realizzate su lastre 5×4 cm, mentre in altri casi si affidava ad operatori esterni come il tortonese Andrea Ginocchio[66], per lungo tempo collaboratore della Soprintendenza e autore di buone riprese realizzate con materiali sensibili di differenti formati, dalle lastre 18×24 e 13×18 alle pellicole 10×15 cm.

Nonostante l’estesa attività di tutela e il ruolo svolto dalla “Società per gli Studi”[67], la notorietà del patrimonio storico in area tortonese restava ancora ben più che circoscritta se la  “Guida” rossa del Touring Club Italiano (1930) ricordava che solo “Circa 2 ore sono sufficienti alla visita” della città[68] e il primo volume della collana “Attraverso l’Italia”, dedicato nello stesso anno al Piemonte segnalava solo il Sarcofago di Publio Elio Sabino e il bassorilievo di Perino Cameri a Volpedo[69].   Assume quindi ancora maggior significato la presenza del fotografo Mario Sansoni che nel 1934-1935  documentò l’affresco con San Rocco nella Pieve di San Pietro a Volpedo nel corso di una grandiosa campagna di documentazione del patrimonio artistico medievale e rinascimentale in Europa, condotta per incarico della Frick Reference Library di New York. [70] Una documentazione di analogo livello tecnico era da poco stata realizzata da Augusto Pedrini[71], il miglior fotografo piemontese del settore in quel periodo, nella chiesa di Santa Maria Assunta a Pontecurone, durante un’importante campagna di restauri. L’uso di lastre di medio formato (13×18), un attento controllo dell’illuminazione e l’ausilio di ponteggi testimoniano dell’accuratezza professionale e fanno di questa serie uno dei migliori esempi ad oggi disponibili. Pedrini si muoveva ancora nella tradizione dell’ortogonalità prospettica ottocentesca: punto di vista rialzato e macchina parallela al piano principale per conservare il parallelismo delle linee verticali ed anche negli interni l’apparecchio era posto sull’asse principale ad un’altezza mediana. Le deformazioni non erano consentite, tanto meno ricercate da questo professionista che intendeva la fotografia come uno schermo trasparente, una finestra in posizione privilegiata da cui osservare senza inquietudini il bene da documentare. Lo stesso fotografo venne poi chiamato ad operare negli anni successivi anche a Rivalta[72] utilizzando ancora lastre 13×18 e riconfermando la sua consueta controllata libertà, quasi coincidente con l’impegno a evitare ogni ingombrante presenza autoriale.  Solo quando era indispensabile inclinava un poco l’apparecchio sull’asse verticale per riprendere il sistema voltato, sino al limite della ripresa zenitale. Basta confrontare queste riprese con quelle di fatto coeve siglate “PM” per comprenderne la qualità. Restano, quelle di Pedrini, le produzioni qualitativamente migliori, alle quali possono essere in parte avvicinate, seppur più modeste,  quelle relative ai restauri in stile di Palazzo Guidobono, realizzate dallo studio tortonese Foto Novecento.

Negli anni del secondo conflitto mondiale proseguirono le notifiche, specialmente di edifici del tessuto abitativo tortonese, ma solo nel 1949 si ebbe un’ulteriore campagna fotografica realizzata da Giannantoni su pellicola 6×9 nell’ambito delle  attività di Soprintendenza: oneste riprese, dalle quali emerge la preoccupazione per una resa corretta dell’edificio ma a cui non corrisponde la necessaria competenza tecnica o, forse, il tempo per porla in atto.  È la stessa impressione che si ricava dall’analisi delle fotografie realizzate nel decennio successivo nel nuovo formato quadrato 6×6 dall’architetto Ercole Checchi, già collaboratore di Vittorio Mesturino. Basta ad esempio confrontare la scelta del punto di vista rispetto a uno stesso edificio per verificare lo scarto di qualità: per fotografare ad esempio la chiesa di S. Giacomo a Tortona nel 1889 Castellani  si era collocato a nord, rendendo leggibile al massimo la facciata, mentre l’architetto Checchi  si posizionò a ovest realizzando una ripresa fortemente scorciata che rende quasi illeggibile l’articolazione dei volumi.  Se si riflette sulla qualità complessiva di queste immagini realizzare da funzionari e non da fotografi professionisti emerge con grande evidenza un radicale mutamento di paradigma: non si può più parlare di documentazione del patrimonio architettonico al fine di valorizzarlo ma di testimonianze delle sue condizioni contingenti. Sono immagini dell’emergenza. Si vedano le riprese dei  pannelli con figure del soffitto cassettonato di Palazzo Ghislieri a Sale, ancora di Ercole Checchi, nelle quali una mano femminile, poi tagliata in fase di stampa, sostiene i singoli elementi poggiati su sacchi di cemento Buzzi o quelle dell’Arco dell’antica cinta muraria di Castelnuovo Scrivia dove la ripresa inclinata non corrisponde a tardive suggestioni della “nuova visione” modernista  ma sembra dettata piuttosto dalla fretta e dalla radicata fede nelle inossidabili virtù documentarie della fotografia, a prescindere dalla qualità della ripresa. Le modalità non mutano neppure negli anni Sessanta con la presenza di nuovi operatori (gli architetti Ernesto Gallo e Giorgio Lambrocco, sempre della Soprintendenza torinese). Qui le ragioni sono ancor più specifiche e il soggetto non è ormai più l’edificio nella sua qualificazione architettonica ma lo stato di degrado e i conseguenti interventi, come nel caso dell’ex Convento della Trinità a Tortona dopo la caduta di un pezzo di cornicione nel giugno del 1964 o del chiostro e loggiato del “Cortile di Filosofia” del Seminario Vescovile, con dettagli su alcune cadute di intonaco ai basamenti; proseguendo una lunga consuetudine su alcune di quelle stampe vennero indicate a penna tracce di possibile aperture. Sono foto modeste ma corrette, come quelle relative alle terribili condizioni di degrado di Palazzo Airoli a Rivalta, realizzate nel 1971 da Lambrocco con un piccolo apparecchio 35 mm e con una cura che lascia emergere quasi con sgomento lo stato dell’edificio, molto più efficaci delle modeste riprese del successivo cantiere di restauro. Sono anni quelli in cui l’attenzione per la documentazione fotografica e la cura posta nella sua realizzazione appaiono assolutamente insufficienti, conseguenza e specchio di riorganizzazioni funzionali e di ruolo all’interno della Soprintendenza ma anche di una perduta cultura dell’immagine, delle minime cognizioni di alfabetizzazione nella comunicazione fotografica. Penso alla tremenda serie di venti riprese dedicate da un autore rimasto anonimo alla pieve di S. Maria  di Viguzzolo in cui la scelta della meno opportuna delle ore del giorno ebbe come conseguenza la perdita quasi totale di leggibilità del soggetto: qui le fronde degli alberi circostanti e le loro ombre portate sul paramento murario hanno cancellato non solo il volume ma quasi l’esistenza della pieve, in un esito mimetico in cui architettura e natura (per quanto artificiale) inutilmente si confondono.

Queste genere di fotografie ben rappresenta l’esito certo involontario e per questo più che probante di quello che Franco Vaccari[73] aveva proposto di nominare inconscio tecnologico, riconoscendo conseguentemente la scarsa rilevanza del “piglio inventivo e autorevole” dell’autore, sottoposto se non proprio sottomesso a quell’apparato destinato a produrre simboli che è lo strumento fotografico, di cui i fotografi non sono che “funzionari” che “dominano un gioco di cui non sono competenti”[74], di cui scriveva  Vilem Flusser nel 1979. È dal loro affidarsi compiutamente alle capacità insite nel processo fotografico che nasce questo grado zero della scrittura fotografica, dove la valenza documentaria risiede tutta e si fonda sulla sua natura irrimediabile di traccia.

 

 

Note

[1] John Szarkowski, Mirrors and windows: American photography since 1960, catalogo della mostra (New York, The Museum of Modern Art, 26 luglio – 2 ottobre 1978).  New York: The Museum of Modern Art, 1978.

[2] Giovanni Fanelli, L’anima dei luoghi: La Toscana nella fotografia stereoscopica.  Firenze: Mandragora, 2001, p. 5.

[3] Giovanni Fanelli, All’ombra della loggia: Storia dell’iconografia fotografica delle fiorentina Loggia della Signoria, “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 46 (2002 [febbraio 2004]), n. 2/3, pp. 533-556 (p.533).

[4] Tristan Tzara, La photographie à l’envers, in Man Ray, Les champs délicieux. Paris: Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T. Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie. Torino: Einaudi, 1975, p.75.

[5] John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture. Orpington (Kent): G. Allen, 1880. La prima edizione era stata pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in Paolo Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[6] Ernst H. Gombrich, Julian Hochberg, Max Black, Arte, percezione e realtà: come pensiamo le immagini. Torino: Einaudi, 1978.

[7] Roberto Signorini, Arte del fotografico. Pistoia: Editrice C.R.T., 2001, p. 112.

[8] Jacques Le Goff, Documento/Monumento, in Enciclopedia, vol. V. Torino: Einaudi, 1978, pp. 38-48, ora in Id.,  Documento/Monumento, in Storia e memoria. Torino: Einaudi, 1982, pp. 443-456.

[9] Roland Barthes, La camera chiara: nota sulla fotografia; traduzione di Renzo Guidieri. Torino: Einaudi. 1980.

[10] Citato in Françoise Bercé, Les premiers travaux de la Commission des monuments historiques, 1837-1848. Paris: Picard, 1979.

[11] Eugène Viollet-Le-Duc,  Restauration,  Id.,  Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siècle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Réunies, s.d. (1860), pp. 33-34.

[12] Anne de Mondenard, La Mission héliographique: cinq photographes parcourent la France en 1851. Paris: Monum – Éditions du Patrimoine, 2002.

[13] Charles Baudelaire, Salon de 1859; texte de « La Revue française » établi avec un relevé de variantes, un commentaire et une étude sur Baudelaire critique de l’art contemporain par Wolfgang Drost ; avec la collaboration de Ulrike Riechers. Paris: H. Champion, 2006.

[14] È del 1860 ad esempio l’istituzione del Commissariato straordinario per le belle arti per le province del Piemonte, Lombardia ed Emilia, Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, busta 596, fasc. 1063, n.1.

[15] Citato in Tiziana Serena, Pietro Selvatico e la musealizzazione della fotografia, “Annali della Scuola Normale di Pisa”, Classe di Lettere e Filosofia, ser. 4, v. 2, 1 (1997), pp. 75-96 (75, 87).

[16] Ariodante Fabretti, Atti della Società (1879), “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1879, 1881, pp. 9-15.

[17] Lettera di Cesare Correnti al Presidente dell’Accademia Albertina di Torino, conte Marcello Panissera di Veglio, datata 6 maggio 1870. Nella successiva, del 12 agosto, indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti”,  avrebbe precisato come fosse “mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa.” , Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”. In seguito a tale mandato l’Accademia Albertina nominò una Giunta costituita da Carlo Felice Biscarra, Andrea Gastaldi, Edoardo Arborio Mella, Francesco Gamba, Vittorio Avondo e Carlo Ceppi.

[18] Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione inviò ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti (…) voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va sottolineato l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire,  tanto da essere ancora invocate nel 1904 da  Giovanni Santoponte.

[19] cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10.

[20] Su Giovanni Battista Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990, p. 358; P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898, catalogo della mostra (Torino 2003-2004), a cura di Paolo Venturoli. Torino: Umberto Allemandi & C., 2003; La borghesia allo specchio. Il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra (Torino 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2004, p. 123.

[21] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano.

[22] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna, conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica

sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, congiuntamente alle «fotografie architettoniche» realizzate

da Castellani ad Alessandria, cfr. Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea.

Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884, p. 123 passim.

[23] Alfonso Rubbiani, Di un sentiero fiorito per l’arte nostra, “Giornale del mattino”, 6 febbraio 1913, ora in Id. Scritti vari editi e inediti; prefazione di Corrado Ricci. Bologna: Cappelli, 1925, pp. 227-233.

[24] Aggiungendo opportunamente, secondo una formula ampiamente abusata: “ma non  isprigionare dall’intelletto l’i­dea.”, Pietro Estense Selvatico, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, in Id., Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e Comp., 1859, p.338.

[25] Per la documentazione fotografica di alcuni grandi cantieri ottocenteschi piemontesi si vedano Infinitamente al di là di ogni sogno: Alle origini della fotografia di montagna (catalogo della mostra, Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, CAI Torino, 2004 e Frammenti di un paesaggio smisurato: montagne in fotografia 1850-1870, catalogo della mostra (Torino, 2015), a cura di Veronica Lisino. Torino: Museo Nazionale della Montagna, CAI Torino, 2015. Per Vittorio Besso si vedano i diversi contributi pubblicati in Studi e ricerche sulla fotografia nel Biellese, 2, presentazione di Giovanni Vachino. Biella: DocBi Centro Studi Biellesi, 2006.

[26] Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863, la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedicò nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di “archivio” o “museo” fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852 – 1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Miraglia1990 e P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[27] Federico Castellani (San Giorgio Lomellina, Pavia 1848 – Alessandria 27 Luglio 1889) aprì il proprio  studio fotografico forse nel 1867 nella casa in cui risiedeva, in Corso Roma 35 ad Alessandria, coadiuvato dal padre Luigi (1822- 11 marzo 1890), maestro elementare in pensione. La prima pubblicità nota dello Studio comparve però solo nel 1869 ne “L’Osservatore di Alessandria”. Successivamente  lo studio venne trasferito in via Piacenza, Casa Pedemonte e altri due vennero aperti a Nizza in Quai Massena 9 e a Vercelli, via del Duomo 1, Casa Pasta. Proprio a questa città dedicò nel 1873 un Album delle principali vedute edifizi e monu­menti della città di Vercelli, realizzato forse in coincidenza con l’apertura dello studio e composto da 23 vedute, ma negli anni precedenti aveva prodotto anche una serie di vedute di Alessandria, presentate all’Esposizione torinese del 1884. Oltre a questa prese parte anche a quella di Alessandria del 1870, dove vinse una medaglia d’argento e a quella Universale di Vienna del 1873; lo stabilimento Castellani risulta attivo sino ai primi anni del XX secolo sotto la gestione del figlio Livio, nato ad Alessandria nel 1877 e diplomatosi alla École de photographie pratique Klary di Parigi.

[28] L’album venne esposto anche in occasione della mostra dedicata ai Fotografi del Piemonte, il cui catalogo offriva una precisa elencazione delle stampe che lo costituiscono, corrispondente all’attuale, ma senza indicare se già all’epoca i fogli fossero slegati. La sequenza lì indicata risulterebbe comunque problematica ovvero, se corrispondente a quella originale, quanto meno singolare considerando che dopo le due vedute panoramiche dai ponti sulla Scrivia e dai Cappuccini la terza tavola fosse dedicata al  “Camposanto di Rinarolo”; cfr. Fotografi del Piemonte 1852-1899, p. 28.

[29] Potrebbe certo trattarsi di lacune dell’esemplare, ma la consistenza complessiva dell’insieme sembra escludere tale possibilità, così come il confronto con le immagini pubblicate da Giuseppe Strafforello, Provincia di Alessandria in La Patria: geografia dell’Italia, III. Torino: UTET, 1890.

[30] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[31] Regio Decreto del 27 novembre, cfr.  Mario Bencivenni, Riccardo dalla Negra, Paola Grifoni, Monumenti e istituzioni, II, Il decollo e la riforma del servizio di tutela dei monumenti in Italia 1880-1915. Firenze: Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici per le province di Firenze e Pistoia, 1992.

[32] Su Carlo Nigra (1856 – 1942) si vedano Fotografi del Piemonte, pp. 38-39 e la scheda relativa di  Claudia Cassio in Miraglia pp.403-404.

[33]Su Ottavio Germano (1857-1913), che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra e inoltre Cassio in Miraglia 1990, p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in  Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (77, nota 23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992.

[34] Preventivo del primo impianto d’un Gabinetto Fotografico per uso della R. Delegazione per i Monumenti del Piemonte e della Liguria in Torino, datato 31 luglio 1889, non firmato, Archivio di Stato di Torino, Corte, Fondo D’Andrade, m. 77, f.2, Fotografie.

[35] Lettera di D’Andrade al Ministero datata 4 febbraio 1891, Archivio di Stato di Torino, Corte, Fondo D’Andrade, m.77, Ufficio conservazione dei Monumenti del Piemonte e della Liguria, Fotografia.

[36] Fotografare le Belle Arti, appunti per una mostra: Un percorso all’interno dell’archivio fotografico della Direzione generale delle antichità e belle arti, Fondo MPI Ministero della pubblica istruzione, 1860 – 1970, catalogo della mostra (Roma, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, 10 maggio-28 giugno 2013), testi di Elena Berardi, P. Cavanna, Laura Moro. Roma: ICCD, 2013.

[37] Clemente Marsicola, a cura di, Il viaggio in Italia di Giovanni Gargiolli: le origini del Gabinetto fotografico nazionale 1895-1913. Roma: ICCD, 2014.

[38] Regio Decreto e Regolamento per le riproduzioni fotografiche, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 5 (1893), disp. 9, settembre, pp. 222-224. Per l’opposizione al Decreto cfr. Carlo Brogi, Circa la proposta di colpire con una tassa le riproduzioni fotografiche dei monumenti nazionali, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 4, (1892), disp. 5, maggio, pp. 101-103 e Vittorio Alinari, Del R. Decreto e regolamento per le riproduzioni fotografiche, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 5, (1893), disp.10, ottobre, pp.246-249.

[39] La letteratura sul tema dei musei documentari è ormai vastissima: si segnalano quindi solo due contributi italiani e un recente intervento di ordine storiografico-metodologico: Paolo Costantini, “La Fotografia Artistica” 1904-1917: Visione italiana e modernità. Torino: Bollati Boringhieri, 1990; P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’Impegno”, 2 (1991), n. 3, dicembre, pp. 41-48;  Elizabeth Edwards, Between the Local, National and Transnational: Photographyc Recording and Memorializing Desire, in Chiara De Cesari, Ann Rigney, eds., Transnational Memory: Circulation, Articulation, Scales. Berlin: De Gruyter, 2014.

[40] Cfr. Brera. 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano, catalogo della mostra (Milano, 200), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Electa, 2000.

[41] Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni, 7 (1905), pp.38-48 ora in Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Milano:  Franco Angeli, 1985, pp. 241-249.

[42] Sullo studio fiorentino si vedano Monica Maffioli, Arturo Carlo Quintavalle, a cura di, Fratelli Alinari fotografi in Firenze: 150 anni che illustrarono il mondo 1852-2002. Firenze: Alinari, 2003; Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003.

[43] Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali”, 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, I, p.172.

[44] Vanno almeno ricordati in questo contesto gli studi e le iniziative di due fotografi come Francesco Negri e Pietro Masoero. Quest’ ultimo, nato ad Alessandria nel 1863, aveva iniziato la propria attività a Vercelli, dove dal 1880 era impiega­to quale operaio fotografo presso lo studio di Federico Ca­stellani per poi aprire un proprio studio che divenne in breve tempo il più importante della città, godendo di buona fama anche a livello nazionale e internazionale. Nel corso delle proprie campagne documentarie dedicate alla produzione della “Scuola pittorica vercellese” e in particolare alle opere di Bernardino Lanino, Masoero riprese anche il San Paolo del Palazzo Vescovile di Tortona sia su lastre orto­cromatiche Cappelli in formato 21×27 cm, sia mettendo immediatamente a frutto la recente commercializzazione delle autocromie Lumiè­re, con le quali era in grado di soddisfare per la prima volta una sufficiente restituzione della gamma cromatica del dipinto; cfr. P. Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in  Paola Astrua, Giovanni Romano, a cura di, Bernardino Lanino. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154. Per la complessa figura di Francesco Negri, scienziato, storico dell’arte e valente fotografo si rimanda a Barbara Bergaglio, P. Cavanna, a cura di, Francesco Negri fotografo 1841-1924.  Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2006.

[45] Su Secondo Pia si vedano Michele Falzone del Barbaró, Luciano Tamburini, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981; Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989; Cavanna 1997; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998), a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone. Pioniere itinerante della fotografia, catalogo della mostra (Asti, 1998), a cura di Gemma Boschiero. Asti: Comune di Asti, 1998; Claudio Bertolotto, I fondi fotografici della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  II,  Indagine sulle raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, 9 (1999),  pp.15-18. La sua attività, pur eccezionale,  va collocata nel ricco contesto di autori piemontesi, solo in parte professionisti,  particolarmente attenti all’utilizzo della fotografia quale strumento di conoscenza e di divulgazione del patrimonio artistico locale; oltre ai già citati  Negri e Masoero ricordiamo qui almeno i nomi di Pietro Boeri e Alberto Durio, di alcuni religiosi come F. Origlia, Alessandro Rastelli e G. Valle, di Edoardo Barraja, Eugenio Olivero, Alessandro Roccavilla e ancora Mario Gabinio e Giancarlo dall’Armi.

[46] Lo stesso concetto era stato ribadito da Pietro Masoero recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino quando sottolineava come “Nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Secondo Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900) n.4, p.278.

[47] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, Slightly Out of Focus: Turin 1884-1898: From Art to Artistic Photography, “Photoresearcher”, 2013, n. 20, pp. 21-29.

[48]Giovanni Cena, Piemonte antico, “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240.

[49] In quell’occasione venne pubblicato il volume Storia ed Arte nel Tortonese:  Omaggio della Società per gli Studi di Storia, d’Economia e d’Arte nel Tortonese all’VIII Congresso Storico Subalpino Settembre 1905. Tortona: Adriano Rossi, 1905, con contributi di Aristide Arzano, Pio Evasio Cereti, Ferdinando Gabotto, Vittorio  Poggi, Diego  Sant’Ambrogio.

[50] Penso a San Giovanni ai Campi di Piobesi, studiato da Nigra in occasione della Esposizione torinese del 1890; cfr. Carlo Nigra, La chiesa di S.Giovanni di Piobesi, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, 11 (1927), n.3-4, consultato in estratto.

[51] Il 27 giugno 1904 Diego Sant’Ambrogio aveva comunicato all’amico Francesco Negri l’avvenuto ritrovamento del trittico realizzato da Macrino d’Alba per Santa Maria di Lucedio (Trino), anticipando così la sua segnalazione ne “La Lega Lombarda” del 1 luglio 1904 (cfr. Edoardo Villata, Macrino d’Alba; presentazione di Giovanni Romano. Savigliano: Editrice Artistica Piemontese, 2000, pp. 144-147).   Diego Sant’Ambrogio dedicò al tema anche il saggio Il trittico di Macrino d’Alba nella cappella episcopale di Tortona, “Bollettino della Società per gli Studi di Storia, d’Economia e d’Arte nel Tortonese”, n. 5, 1906, poi riedito da A. Rossi, Tortona, 1906. cfr. Sergio Samek-Lodovici, Storici, teorici e critici delle arti figurative in Italia dal 1800 al 1940.  Roma: Tosi, 1946. Il tema sarebbe stato successivamente ripreso, seppure non in forma monografica, proprio da Francesco Negri, Note d’arte a Lucedio, I pittori di Trino, in Evasio Colli, Francesco Negri, Alessandro Rastelli, Il Beato Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio. Casale Monferrato: Tip. Pane, 1914 (nuova ed. Trino: Circolo culturale trinese, 1996, con introduzione di P. Cavanna, pp. 48-49). Circa in quegli anni, ma dopo la tragica interruzione della Grande guerra, al trittico venne dedicato uno studio anche da parte di Guido Marangoni, Arte retrospettiva: Macrino d’Alba, “Emporium”, 47 (1918), n.277, pp. 22-33 con fotografie di Pietro Masoero.

[52] Si tratta di tre riprese presenti in stampe all’albumina sia  nell’Archivio fotografico della Soprintendenza torinese (NCTN 0100262376) sia nella raccolta di Giuseppe Pellizza (nn. 90-92),  cfr. Aurora Scotti, a cura di, Pellizza e la fotografia: il fondo fotografico. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2007, pp. 84, 158-159.

[53] Legge 12 giugno 1902, n. 185. – Sulla conservazione dei monumenti e degli oggetti di antichità e di arte.

[54] Goffredo Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna/ compilato per cura del professore G.C. Torino: Presso Gaetano Maspero librajo, Cassone Marzorati Vercellotti tipografi, 1833-1856. In particolare le voci relative ai comuni oggetto di questo studio sono così distribuite: Castelnuovo Scrivia, IV, 1837, pp. 200-220; Pontecurone, XV, 1847, pp. 584-587; Sale, XVII, 1848, pp.25-31; Tortona, XXIII, 1853, pp. 76-198;  Viguzzolo, XXV, 1854, pp. 364-365; Volpedo, XXVI, 1854, pp. 589-591.

[55] Cristiana Sertorio Lombardi, a cura di,  Il Piemonte antico e moderno delineato e descritto da Clemente Rovere. Torino: Reale Mutua, 1978, tavv. 3342-3350.

[56] Giacomo Carnevale, Descrizione dell’attuale Tortona, in Notizie storiche dell’antico e moderno Tortonese/ raccolte dal conte G. C.. Voghera: Tipografia di Cesare Giani, 1845, pp. 317-319, che costituisce il prototipo quando non la fonte non dichiarata di molte descrizioni successive.

[57] Corografia d’Italia, ossia Gran dizionario storico-geografico-statistico delle città, borghi, villaggi, castelli, ecc. della penisola, III: Lettera R-Z ; Appendice: aggiunte e correzioni. Milano: F. Pagnoni, 1854, pp. 510-515.

[58] Ariodante Manfredi, Le cento città d’Italia descrizione storica, politica, geografica, commerciale, religiosa, militare. II, Milano: G. Bestetti, 1872, pp. 515-521.

[59] Nel 1929 ne venne pubblicata una seconda edizione intitolata Tortona/ Eroina del Patrio Amore, n. 281, ancora con testi di Aristide Arzano, enfaticamente adattati al clima del tempo, e con foto di Ginocchio, Bellagamba, Pia e Ferretti.

[60] Strafforello 1890 con illustrazioni tratte da fotografie di: Castellani (Alessandria e Tortona), Ecclesia (Asti), C. Bruno (Castellazzo Bormida), N. Gabiani (Asti), Negri, (Casale Monferrato) e Cicala (Pontecurone, Castelnuovo Scrivia).

[61] Ricordiamo a tale proposito che né ad Alessandria né a Tortona venne dedicato alcuno dei 114 volumi de l’ “Italia Artistica”,  pubblicati dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche sotto la direzione di Corrado Ricci.

[62] Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, III  versamento,  II parte, busta 515, Uffici RegionaliPromemoria allegato a lettera del 27-09-1905.

[63] Sarà un’analoga fonte a celebrare anche il restauro del Castello di Castelnuovo Scrivia, condotto “in onore e gloria dei castelnovesi caduti nelle guerre dell’indipendenza”, come risulta da una cartolina di Aristide Fusetti, Milano (Stabilimento calcografico Fusetti, Passaggio Osii 2, Milano).

[64] Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il Comune e la Provincia di Torino, Archivio storico, OFU, Affari generali, Legislazione.

[65] Macchina fotografica 9×12 e obiettivo Goertz con chassis, borsa e treppiede (L. 233,00), Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il Comune e la Provincia di Torino, Archivio storico, Mastro per materie (…) degli oggetti mobili entrati o usciti relativamente all’inventario [1891 – 1939], 30  giugno 1911.

[66] Proprio nel 1919 Andrea Ginocchio, originario di Ovada, dopo il congedo e il  matrimonio aveva rilevato a Tortona, al civico 20 di Via Perosi, un precedente studio fotografico.  Nel 1931, a seguito dell’emanazione del  Regolamento della Legge sulle Professioni Sanitarie non Mediche emanata nel 1928, ottenne l’abilitazione a continuare ad esercitare “l’Arte di Ottico”. Nel 1936 l’azienda si trasferì nell’ attuale sede di Via Emilia 162; cfr.  http://www.gianni-rehak.it/253811634 [11-08-2015]

[67] Si veda ad esempio il saggio di Placido Lugano, I primordi dell’Abbazia Cisterciense di Rivalta Scrivia dal 1150 al 1300. Tortona: Rossi, 1916, estratto dal  “Bollettino della Società Storica Tortonese”, con disegni dell’ing. Piero Molli.

[68] Luigi Vittorio Bertarelli, Piemonte, “Guida d’Italia del Touring Club Italiano”. Milano: TCI, 1930, p.162.

[69] Piemonte; “Attraverso l’Italia”, I. Milano: TCI, 1930, p. 208. Anche nel 1939 il grande progetto storiografico ed espositivo messo a  punto da Viale avrebbe considerato per il Tortonese solo la Madonna col Bambino di Barnaba da Modena dalla Chiesa di San Matteo a Tortona, il trittico di Macrino d’Alba, e l’altorilievo di Volpedo; cfr. Vittorio Viale, Gotico e Rinascimento in Piemonte; catalogo della mostra (Torino, Palazzo Carignano).  Torino: Città di Torino, 1939, tavv. 15, 92,  213.

[70] Una copia di questa stampa è conservata presso la Fondazione Zeri di Bologna (n. 57988); sulla figura di Sansoni si veda  Redazionale, I nostri antenati, “AFT”, 3, (1987), n.5,  giugno, pp.44-45.

[71] Augusto Pedrini (1892 – 1970 post), avviò la propria attività come fotografo per le prime produzioni cinematografiche torinesi prima di aprire nel  1926 lo studio  di  Via Pio Quinto, 15-17 a Torino che gli consentì di segnalarsi come una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento. Oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di suoi contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”.

[72] In occasione del restauro degli interni e dei cicli affrescati sotto la direzione del Soprintendente all’arte medioevale e moderna, protezione bellezze naturali e passaggio Vittorio Mesturino, cfr. Manuela Mattone,Vittorio Mesturino, architetto e restauratore. Firenze: Alinea, 2005.

[73] Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico. Modena: Punto e virgola, 1979 (n. ed. Torino: Agorà, 1994; Torino: Einaudi, 2011).

[74] Vilem Flusser, Per una filosofia della fotografia. Torino: Agorà, 1987, p. 31. (n. ed. Milano: Bruno Mondadori, 2006) Può essere utile ricordare qui che già Walker Evans aveva definito l’apparecchio fotografico come “incredibile strumento di realismo simbolico”, Walker Evans, Photography, 1969, ora in Mike Weaver, ed., The Art of Photography 1839-1989. London: The Royal Academy of Arts, 1989, p. 301.

 

La variante Sommer (2011)

in Dal Vesuvio alle Alpi. Giorgio Sommer: fotografie d’Italia, Svizzera e Tirolo, catalogo della mostra (Napoli Castel dell’Ovo – Museo di Etnopreistoria, 27 marzo -30 aprile 2011; Torino, Museo nazionale della montagna 25 novembre 2011 – 20 aprile 2012).  Torino: Museo nazionale della montagna, 2011, pp. 6-19

 

Ho sempre visto tutto in forma di figura,

anche le parole.

Claudio Parmiggiani

 

“Ci sono poche prove che possono essere portate della grande diffusione del nuovo mezzo, e dei differenti modi della sua ricezione [quanto il fatto che] mentre la nostra Regina ha inviato un apparato fotografico completo per uso del Re del Siam, il solo Re di Napoli, in tutto il mondo civilizzato, ha vietato la pratica delle opere della luce nei propri domini!”[1]  Questo scriveva Lady Elizabeth Eastlake, in quello che è forse il primo resoconto critico della letteratura fotografica, nello stesso 1857 in cui Sommer apriva a Napoli il proprio studio[2], negli anni fervidi del passaggio dalla prima fase pionieristica a quella che si sarebbe poi detta età del collodio, nella quale – abbandonata la carta – il negativo su supporto in vetro avrebbe aperto l’era dei grandi studi fotografici e della sistematica commercializzazione.

Questo giudizio derivato dalla disillusione postromantica per il nostro paese era certo ingeneroso, ma soprattutto infondato[3], sebbene resti un sintomo significativo di quale fosse la percezione delle condizioni culturali e politiche del Regno borbonico, e forse italiane nell’Inghilterra intorno alla metà del XIX secolo. Va rilevato invece l’artificio retorico e implicitamente razzista (del resto ampiamente diffuso anche oggi) di collocare spregiativamente il reo a un livello inferiore a quello attribuito a persone e paesi che si consideravano modelli di arretratezza.  La Napoli di Ferdinando II (1830 – 1848), certo attenta alle suggestioni e ai simboli della modernità (si pensi alla ferrovia Napoli – Portici), fu invece uno dei centri italiani in cui  più precoce e qualificata era stata l’attenzione per le nuove, meravigliose invenzioni di Daguerre e Talbot:  la prima anticipata da Raffaele Liberatore sulle pagine de “Il Lucifero” già il 6 febbraio 1839; l’altra patrocinata dallo scienziato Michele Tenore, Direttore dell’Orto Botanico di Napoli e da più di un quindicennio in contatto con Talbot, che il 27 settembre dello stesso anno scriveva al Direttore di quel giornale per annunciare di aver ricevuto direttamente dallo studioso inglese alcuni “disegni fotogenici eseguiti da lui medesimo.”[4]  Insomma, dopo quel giovedì 28 novembre in cui il signor Raffaele Gargiulo “restò meravigliosamente dagherrotipato” ad opera di Gaetano Fazzini durante il “primo  sperimento”condotto a Napoli”[5], le vicende locali della fotografia dovettero avere sviluppo e attenzione ben più ampie di quelle supposte dalla Eastlake, specialmente per merito delle rilevanti presenze straniere in una città che costituiva una delle principali tappe del Gran Tour. “Amena più che ogni altra (…) per pittoresche circostanze – era infatti descritta questa città – [essa] darebbe all’artista o all’amatore che ne avesse genio l’agio di riprodurre per mezzo del Daguerre, le più belle vedute che la matita o il pennello de’ paesisti abbia mai tracciato sulla carta e sulla tela.”[6]

Le prime vedute al dagherrotipo di Napoli, e dei siti archeologici, entrarono molto presto, già nel 1840-1841,a far parte delle serie editoriali di Alexander John Ellis come di Noël Marie Paymal  Lerebours o dell’italiano Ferdinando Artaria e per tutto il quindicennio successivo – cioè fino a che tale tecnica non venne abbandonata – furono almeno una decina i dagherrotipisti in transito o presenti in città per periodi più o meno lunghi, mentre Francesco Gibertini pare essere stato il solo professionista locale.[7] Ancor più nutrita, e qualificata fu la frequentazione dei luoghi da parte dei calotipisti, a partire almeno dal 1846, con le presenze di Amélie Guillot-Saguez e di Richard Calvert-Jones, che a Santa Lucia si provò con una veduta urbana in due parti, dedicandosi anche a Pompei e Baja[8], ma soprattutto di Stefano Lecchi che, nella testimonianza del Reverendo George Wilson Bridges, era a Napoli per realizzare fotografie di Pompei proprio su incarico di Ferdinando II.[9]  Altri seguirono nei primissimi anni Cinquanta: Alfred-Nicolas Normand, Firmin Eugéne Le Dien, Paul Jeuffrain, Alphonse Davanne, i napoletani Arena e Pellegrino e il milanese Luigi Sacchi che verso il  1853 fotografò Pompei e Paestum,  ma anche una Veduta del Golfo di Napoli con Castel dell’Ovo poi non compresa nelle serie di Monumenti, vedute e costumi d’Italia pubblicata  nel 1852-1855.[10] Come si vede la scelta dei soggetti non presenta novità di rilievo. Pompei e Paestum, Mergellina e Santa Lucia, Ischia e Ravello: sono le mete che consigliava anche l’Handbook for travellers in Southern Italy, che Octavian Blewitt scrisse nel 1853 per la serie edita a Londra da John Murray, distribuita a Napoli da Detken, presso il quale sarebbero state poste in vendita negli anni successivi anche le stampe di Sommer.[11]

Dopo una prima, forse breve sosta a Roma nel mese di settembre, Giorgio Sommer aveva aperto il proprio studio napoletano nell’inverno 1857-1858. Poco sappiamo di quel suo avvio di attività; nulla a proposito delle tecniche adottate in quei primissimi anni, anche se pare verosimile ritenere che fin da subito adottasse l’innovativo negativo su vetro, come del resto avevano fatto gli Alinari solo pochi anni prima[12], magari utilizzando dapprima, al posto del collodio, un’emulsione all’albumina che consentiva una migliore resa dell’immagine pur scontando maggiori tempi di esposizione. Ciò che conosciamo  almeno un poco meglio è la sua capacità immediata di adeguarsi alle richieste di mercato avviando, accanto alle prime vedute in diversi formati, una ricca produzione di stereoscopie, e dedicandosi contemporaneamente al ritratto, una pratica che pare aver progressivamente abbandonato nei decenni successivi.[13] Risale a questo stesso periodo anche la collaborazione con Edmond Behles, che tanti problemi attributivi ancora pone agli studiosi[14], ma che qui vogliamo richiamare solo per quanto significa in merito alla questione della concezione autoriale del lavoro fotografico nel contesto della pratica professionale italiana dopo la metà del XIX secolo. Non si tratta tanto di richiamarsi alla questione del diritto d’autore riconosciuto alla fotografia, ancora di là da venire in quegli anni nel nostro paese, ma di considerare quale fosse il significato e il valore in termini di responsabilità intellettuale sotteso a una pratica di scambio di immagini che molti indizi ci dicono diffusa, anche se ancora poco nota e pochissimo studiata, ma che pare avesse implicazioni quasi esclusivamente commerciali.[15]  In questa prospettiva è ancora utile richiamarsi alle riflessioni di Rosalind Krauss che ha auspicato “la necessità di abbandonare, o almeno di sottoporre a una seria critica, categorie derivate dall’estetica come quelle di autore, opera e genere (come nel caso del paesaggio), [per]  cercare di mantenere la fotografia antica nel suo statuto di archivio e di chiedere che si esamini questo archivio in modo archeologico, come Foucault ce ne ha fornito insieme la teoria e l’esempio.”[16]

Un altro elemento problematico relativo ai primi anni della sua attività, riguarda la precoce circolazione delle sue immagini, che derivava credo dalla conquista di un’autorevolezza ben presto riconosciuta se già nel 1859 Domenico Benedetto Gravina, credo per il tramite dello stabilimento litografico Richter di Napoli, a lui si rivolgeva per l’illustrazione del suo Il Duomo di Monreale, certo una delle più rilevanti imprese della prima editoria fotografica italiana.[17] È una collaborazione questa che ci interroga anche sui tempi e sui modi della formazione di Sommer, sul farsi della sua prima cultura visiva come della sua maestria tecnica, per le quali non sembra sufficiente il riferimento all’apprendistato presso lo studio Andreas und Sohn di Francoforte. Certo avranno avuto un qualche rilievo le suggestioni che gli poterono derivare dalla frequentazione di alcuni membri dell’eterogenea colonia tedesca ben radicata a Roma negli anni della sua presenza in città, ma credo vada almeno presa in considerazione la possibilità che in quello stesso periodo abbia avuto contatti coi principali esponenti della Scuola fotografica romana, ancora molto attivi e presenti anche a Napoli, come si è detto, o – almeno – che abbia avuto occasione di conoscere e studiare le loro opere, di buona circolazione quando non addirittura predisposte per la diffusione seriale, come nel caso delle Vedute di Roma e dei contorni in fotografia pubblicate da Giacomo Caneva nel 1855. Sono domande a cui non siamo per ora in grado di rispondere, ma non per questo meno necessarie, nella convinzione che sia difficile attribuire il suo rapido percorso di formazione al contesto napoletano in cui, a prescindere dal valore discontinuo dei diversi operatori presenti, lui pare essersi proposto da subito quale professionista qualificato, non come un autore in fieri. Non solo: la qualità del lavoro che andava conducendo a Pompei almeno dal 1860, quando il 25 settembre fotografò Garibaldi in visita agli scavi[18], lo propose da subito quale interlocutore privilegiato del neo nominato Direttore del Museo Nazionale Giuseppe Fiorelli, cui si deve la prima applicazione a Pompei dei metodi dell’archeologia moderna, a scavo stratigrafico, e l’utilizzo del metodo della colatura di gesso nelle forme vuote lasciate dai corpi nella lava, di cui Sommer fotografò uno dei primi esiti nel febbraio del 1863[19].

Impronta di un’impronta. Matrice di una matrice sono questi negativi in cui la forma del vuoto lasciato dai corpi annientati dal calore della lava è l’immagine latente che il calco ha rivelato, in un processo concettualmente analogo a quello fotografico. Immagine di un’immagine quindi, ma in modo incommensurabilmente diverso dalla riproduzione di un dipinto, di una scultura o di un reperto. Il calco ha una diversa relazione col tempo; non è il reale che ritorna, ma una sua manifestazione seconda, differita, cui riconosciamo lo statuto di figura, ma che appartiene in maniera radicale e netta al regime dell’impronta, non dell’icona: come le sagome lasciate sui muri dal “vento-lampo della bomba”[20] atomica. Figure non tracciate da mano umana. “Ciò che rappresenta un ostacolo per lo sguardo si ricollega alla  (…) questione dell’impronta: non c’è nulla da guardare perché non c’è invenzione formale, e non c’è invenzione formale perché l’oggetto non è che un prelievo, una riproduzione, una semplice impronta della realtà. Non c’è nulla da guardare perché non c’è abilità, non c’è lavoro artistico, e non c’è lavoro artistico perché c’è solo un calco, un’impronta meccanicamente riproducibile della realtà. Non c’è nulla da guardare, come opera d’arte, perché c’è solo impronta: la non opera per eccellenza”[21], che era appunto ciò che si diceva, l’accusa che era mossa alla fotografia al tempo della sua comparsa e negli anni di Sommer, ancora.

Non considerando i lavori su commissione, l’archeologia – tra Roma e Napoli – sembra essere stata la sua prima area di interesse, cui si aggiunsero ben presto le vedute urbane, pur se non unanimemente apprezzate[22]. Roma, Napoli, di cui realizzò anche un panorama in cinque parti verso il 1865, poi Firenze, Milano (entro il 1869). E Torino, la prima capitale. Insolito soggetto per quegli anni, in cui la città sabauda era descritta quasi solo dai fotografi residenti, se si esclude la luminosa eccezione di Charles Marville[23], e di cui Sommer ci ha offerto una veduta stereoscopica della Contrada di Po e di Via della Zecca che restituisce le qualità prospettiche di questo spazio urbano che poi si sarebbe detto metafisico in maniera tanto più magistrale della già eccellente ripresa contenuta in Turin ancien et moderne, edito da Henri Le Lieure nel 1867. Sono anni questi in cui il suo catalogo si accresce rapidamente e, per la sua parte più connotata e consistente, si trasforma in repertorio iconografico napoletano: archeologia, veduta urbana e “tipi napoletani”, disponibili anche in versione colorata, nel formato carte de visite, destinati a soddisfare la diffusa richiesta del mercato turistico, specialmente nordeuropeo e che proprio per questo si ritrovano con minime variazioni e riprese al limite del plagio anche nel repertorio di altri fotografi attivi  a Napoli, come Giorgio Conrad, Achille Mauri e poi Gustavo Eugenio Chauffourier, in un andirivieni continuo tra grafica e fotografia, con forti influenze della tradizione tutta napoletana delle figurine da presepe. E il Vesuvio allora? Giustamente famosa è la sequenza relativa all’eruzione del 1872, sistematicamente ripresa a intervalli di mezz’ora, adottando una forma narrativa che suggerisce la durata piuttosto che sottolineare l’istantaneità della posa. Un trattamento antipittoresco, che segna uno scarto rispetto alle opere antecedenti relative allo stesso soggetto. La prima immagine nota [2204], in piccolo formato, in una copia firmata Edmond Behles, si riferisce all’eruzione del 1861, ma non è ancora una “vera fotografia”. Si tratta infatti della riproduzione di una stampa, analogamente a quanto accade per la pseudostereoscopia Scesa dal Vesuvio [753], questa firmata “Sommer e Behles Napoli & Roma”, che essendo formata da una coppia di riproduzioni necessariamente identiche mai avrebbe potuto sortire alcun effetto tridimensionale. “Lava con figure” potrebbe essere classificato il soggetto, comune anche a una ripresa stereoscopica [293] e ad altre fotografie successive [2546], così come alle immagini di altri autori, ancora Chauffourier e Mauri[24], che mostrano anche un’analoga se non perfettamente coincidente attrazione per le forme fantastiche, quella stessa che in Sommer accomuna le prime riprese in cui la lava è sontuosamente posta in primo piano [298] a quelle più tarde dei ghiacciai alpini [13307], entrambe forse debitrici della Colata di lava che James Graham fotografò intorno al 1860, utilizzando ancora il negativo di carta.[25]

Catalogo di fotografie d’Italia recita il suo primo titolo, pubblicato nel 1870, dove la geografia dei luoghi progressivamente si amplia, secondo percorsi e movimenti che sarebbe interessante poter seguire nel dettaglio, in particolare per quanto riguarda la Sicilia e altri importanti centri dell’Italia meridionale, soggetti che in parte contribuiranno all’apparato iconografico delle dispense relative agli Studi sui monumenti della Italia meridionale dal IV al XIII secolo che Demetrio Salazar pubblicò a Napoli, presso Richter & C. nel 1871 – 1877. La figura dello studioso risulta importante anche per il ruolo svolto nella fondazione del Museo Artistico Industriale, nel 1882,  con Gaetano Filangieri  e la collaborazione di Domenico Morelli, Filippo Palizzi, che ne fu Direttore,  e Giovanni Tesorone. Prendendo a modello come in altre realizzazioni italiane  il South Kensington Museum, lo scopo della nuova istituzione era quello di divulgare e sviluppare la cultura delle arti applicate nell’Italia meridionale, avviando, accanto al Museo, le Scuole-Officine in cui i giovani potessero ricevere un insegnamento tecnico specializzato nei settori della ceramica come della lavorazione dei metalli e simili. Questo progetto è da porre in relazione anche con la produzione e col fiorente mercato di oggetti artistici e copie cui a diverso titolo si dedicavano molti fotografi napoletani quali Achille Mauri (che vendeva “ceramiche artistiche, collezioni di bronzi e terrecotte, copie del Museo e dei Costumi di Napoli)[26], la Fotografia Pompeiana di Giacomo Luzzati, che realizzava copie di busti e statue in scagliola col metodo della “scultofotografia”[27] e specialmente Giorgio Sommer, il quale a partire almeno dal Catalogo del 1873 si definiva  “Artiste fabricant de vases etrusques de l’Abruzzi et terre-cuites” reclamizzando “le sue copie di statue, di vetri Riton, di lampade, candelabri, allegorie e ancora vasi fra i più belli conservati al Museo Nazionale di Napoli.”[28]  Questa nuova pubblicazione, nell’anno in cui fu tra i premiati all’Esposizione di Vienna, ma a breve distanza dalla prima edizione, deve essere messa in relazione non solo con l’accresciuto numero di soggetti disponibili, ma anche con la comparsa di temi napoletani nel catalogo Alinari dello stesso anno[29]. La novità dichiarata sin dal titolo era la presenza di immagini di Malta[30], una delle mete più frequentate dai viaggiatori inglesi, ma anche il repertorio italiano si era nel frattempo esteso sino a comprendere i laghi di Como e Maggiore, più un’appendice luganese, con stampe destinate a circolare nella forma dei fogli sciolti o raccolte in album[31]. Napoli è il semplice titolo di quello dedicato “Alla Sezione centrale di Torino [dal]la Sezione di Napoli in occasione del VII Congresso del Club Alpino Italiano”, che si aprì  a Torino il  9 agosto 1874. Dopo l’orgogliosa antiporta con l’ostensione delle “Grandi Medaglie d’Oro” ricevute negli anni precedenti, il frontespizio con la grande “N” ornata di figure costituisce una sintesi iconica e una dichiarazione programmatica a un tempo, con quella barocca iniziale che si staglia su uno sfondo di vegetazione lussureggiante da cui emerge un pino marittimo (La Pina) sullo sfondo del Golfo con Castel dell’Ovo e il Vesuvio fumante[32]. La sequenza dei soggetti, il sommario diremmo, è canonica e la si può ritrovare in altri e successivi esemplari[33]. Apertura con panorama. Il primo è dal Vomero: verso nord, poi a sud. Quindi dalla Certosa di San Martino e – in controcampo, secondo una soluzione cui ricorreva sistematicamente  – dal molo della Stazione marittima. Segue una serie – qui di quattro immagini – dedicata al chiostro e all’interno della chiesa della Certosa, il primo monumento incontrato in questo percorso visuale e quasi materiale di avvicinamento alla città. Di fatto anche l’unico; la sola architettura a essere indagata in quanto tale e non nella sua presenza urbana. Poi si inoltra in città: Piazza del Plebiscito, Marinella, Santa Lucia (ancora campo e controcampo), la Villa Nazionale, Piazza del Municipio, Posillipo e le altre località dei dintorni da Baja a Caserta. La composizione ricorre spesso a un impianto in diagonale, che è un modo per restituire una maggiore profondità prospettica.  Nel leggere il paesaggio dei dintorni di Napoli  Sommer  si richiamava senza soluzioni di continuità – anzi, quasi citando – all’iconografia immediatamente precedente, ma ricorrendo di volta in volta a modelli e fonti differenti, a seconda del tema svolto, secondo il soggetto. Direi che è una modalità comune all’operare di molti grandi studi fotografici: non la definizione spasmodica di uno stile, forse ancora culturalmente inconcepibile,  ma la sapienza e la strategia visiva necessarie per adottare di volta in volta le soluzioni più adatte a inserire la propria produzione in una precisa tradizione iconografica,  giungendo alla formulazione di un discorso qualificato e riconoscibile a un tempo, in cui sovente l’effetto prospettico è accentuato collocando “un oggetto ombrato che facesse da primo piano”[34] ovvero un gruppo di figure, sovente posizionate a sinistra,  figure nel paesaggio che arricchiscono il pittoresco della veduta.  Anche il Vesuvio, certo. Proposto però in modo niente affatto romantico, privo di ogni pur lontana eco di sublime, mostrato anzi in tutta la terribilità della sua forza distruttrice, con le Ruine di San Sebastiano causate dall’eruzione del 1872, seguite da un’immagine tratta dalla ben nota sequenza. Poi: le ceneri che ne rimasero. Un’illustrazione che si potrebbe dire esauriente se non completa, da cui però risulta clamorosamente assente ogni riferimento ai pittoreschi stereotipi delle figure popolane cui tanta attenzione aveva dedicato nel decennio precedente, mentre ancora manca qualsiasi ripresa ‘dal vero’ della varia umanità che animava le strade di Napoli. Solo, al fondo, unica concessione a un pittoresco ormai in crisi come argomento e modalità di racconto, la riproduzione di una popolare litografia raffigurante il Calesse per Resina e la riproposizione dell’icona fotografica dei Mangiamaccheroni: quasi un atto dovuto. Singolare l’immagine dedicata all’interno del Teatro San Carlo, palese riproduzione di una grafica, forse una litografia, certo neppure tratta a sua volta da una ripresa fotografica, come dimostra non tanto la presenza della folla degli spettatori quanto l’incerta resa prospettica dello spazio[35]. Analoga soluzione era adottata per raffigurare altri interni ‘difficili’ come la Grotta di Pozzuoli  e la Grotta Azzurra , riproducendo un repertorio di figure cui negli stessi anni facevano ricorso anche altri fotografi come Chauffourier (Pozzuoli) e Mauri (Teatro San Carlo)[36]. L’insieme raccolto in questo album, ben rappresentativo del suo repertorio, mi pare sia l’ulteriore conferma di come sia quasi una forzatura collocare Sommer tra i fotografi di architettura o di riproduzione di opere d’arte, mentre invece i suo generi preferiti erano la veduta urbana, il paesaggio e in misura minore il costume, in ciò distinguendosi dalla linea Alinari, Anderson e simili.

La visita al suo studio in quello stesso anno da parte di Edward Livingston Wilson, fondatore e editore di “The Philadelphia Photographer”[37], il solo periodico fotografico professionale pubblicato all’epoca negli Stati Uniti,  certifica la notorietà del fotografo in una città che conta ormai quasi cento studi attivi, confermata anche dalla frequente pubblicazione di sue immagini su periodici internazionali, sebbene ancora nella forma del disegno o dell’incisione “d’apres une photographie”.[38]  A questa ormai consolidata posizione di prestigio si deve forse la commessa da parte della Società La Ferrovia Funicolare del Vesuvio  per la realizzazione di una ricca documentazione del nuovo impianto, pubblicata nel 1881 in “un piccolo ma raffinatissimo volumetto”[39], cui certo fece seguito una campagna autonoma realizzata nel 1886 dopo la sostituzione delle due prime vetture con un nuovo modello a fiancate aperte, puntualmente registrata nel catalogo edito in quello stesso anno. Questo incarico, con le relazioni che sottende e lascia intuire, potrebbe aver costituito un punto nodale per lo sviluppo di alcuni progetti successivi, in particolare quelli legati alla documentazione di alcune strade ferrate svizzere di diversa rilevanza ma di analoga notorietà turistica internazionale, quali la ferrovia del Gottardo e le due brevi linee che dai dintorni di Lucerna portavano al Monte Rigi e al Monte Pilatus. L’impresa della Funicolare vedeva infatti coinvolte figure ben inserite in una rete complessa di rapporti internazionali di tipo finanziario e industriale, come l’imprenditore Ernesto Emanuele Oblieght, azionista di numerose società di costruzioni ferro-tranviarie presenti ad esempio anche in Lombardia, ed Enrico Treiber, progettista e direttore dei lavori, in relazione per il tramite della sorella Clara, a sua volta parente del segretario generale di una compagnia ferroviaria tedesca,  con la famiglia Pallme[40], attiva a Napoli nel commercio e nella produzione di vetri intagliati e ceramiche. Nulla più che una suggestione per ora. Come escludere però che questa possa essere stata la via che portò Sommer a divenire socio della Mittelschweizerischen Geographisch Commerciellen Gesellschaft [Società Geografico Commerciale della Svizzera centrale] di Aarau, fondata nel 1884, che aveva tra i propri scopi statutari quello di istituire un vero e proprio “Museo fotografico.  Fotografie di paesaggi,  città, porti, villaggi, templi, palazzi, case, monumenti, opere d’arte, statue, dipinti. Immagini di tipi e costumi, queste ultime possibilmente colorate. Vegetazione, frutta e immagini di animali. Navi, veicoli e macchinari di ogni tipo. Fotografie stereoscopiche. Grafica pubblicitaria e oggetti etnografici. Chiediamo che tutte le fotografie,  se possibile, non siano montate, così come tutte le singole immagini di grande formato. Sono benvenute anche incisioni su acciaio e rame, fototipie e cromolitografie, xilografie e litografie.”[41]

All’iniziativa di questo sodalizio potrebbe riferirsi la serie fotografica relativa alla ferrovia del Gottardo, realizzata certo dopo la conclusione dei lavori e immediatamente resa nota nel catalogo del 1886[42], mentre fu lo studio Adolphe Braun & C.ie di Dornach[43] a documentare il cantiere sino alla messa in esercizio della linea il primo giugno 1882, illustrando con grande attenzione non solo le opere strutturali (ponti e gallerie) ma anche i macchinari utilizzati e gli impianti di servizio. Il confronto tra le due serie fotografiche mostra, al di là delle differenti intenzioni, il riproporsi di scelte che paiono obbligate: non solo i luoghi sono necessariamente gli stessi (gli stessi anche delle innumerevoli guide che seguiranno[44]), ma sovente coincidevano anche i punti di vista, quelli che consentivano non di distinguersi rispetto al lavoro di altri Studi ma di mostrare nella maniera più efficace lo stupefacente andamento della linea ferroviaria, le sue andate e ritorni, le gallerie. Ma Sommer non li descrive per sé. Non gli interessa l’ingegneria civile dei ponti e dei viadotti,  ma il loro inserimento quasi naturale nel paesaggio alpino, cui si aggiunge così un di più di meraviglia.  L’andamento delle immagini raccolte nell’album Souvenir de la Suisse è strutturato secondo il percorso della ferrovia, con una direzione certo non casuale da nord a sud (quasi un invito), in cui accanto ai punti più significativi o spettacolari del tracciato si illustrano le strutture ricettive più importanti, come l’Hotel Bellevue di Andermatt, ripreso anche da Braun, secondo la consuetudine di molta fotografia alpina della seconda metà del XIX secolo.[45] La documentazione di questa ferrovia costituì per Sommer una prima occasione per fotografare non solo Lucerna e il Lago dei Quattro Cantoni, che ne costituivano la destinazione svizzera, ma anche le montagne del Vallese e dell’Oberland Bernese[46]; luoghi in cui sarebbe tornato ancora negli anni successivi e per almeno un decennio per arricchire il catalogo di nuovi soggetti, come quelli dedicati alla Pilatusbahn [n. 13535] e alla Wengeralpbahn [n. 14300], aggiornando in molti casi riprese già presenti in catalogo, regolarmente ripetute confermando punto di vista e angolo di ripresa, secondo una modalità operativa ormai ampiamente consolidata.

Rispetto alla sua produzione antecedente, la novità di queste fotografie svizzere sta più nei soggetti che nei modi: mentre per Napoli e dintorni l’adesione alla richiesta culturale, e quindi commerciale, si traduceva in una generale accentuazione del pittoresco, qui l’attenzione era rivolta al paesaggio trasformato dalla modernità. Fedele ai modelli narrativi utilizzati per circa trent’anni, la veduta, lo sguardo d’insieme prevalgono sulla ripresa propriamente architettonica. Anzi, proprio la volontà di sottolineare le relazioni tra i diversi elementi costituenti la scena urbana, di segnalare visualmente le connessioni tra emergenze e tessuto, e questo e quelle col paesaggio e l’orografia sembra essere l’elemento caratterizzante del suo lavoro, cui si aggiunge una costante sistematicità. Nella progressione ottica delle riprese, dal generale al particolare, come nella scansione spaziale di avvicinamento al soggetto che suggeriscono (o consentono di ricostruire) un percorso di avvicinamento, lo spazio e il tempo di un viaggio. Si veda la bella serie realizzata intorno al Vierwaldstättersee in cui il segno luminoso del campanile di Fluelen emerge progressivamente dal fondo della veduta come un’epifania, sino a collocarsi in asse perfetto con la cima del Bristenstock sullo sfondo; poi, con uno scarto netto, l’attracco del traghetto al molo della stessa località, con un’immagine che Bruno Munari avrebbe potuto scegliere per le sue Fotocronache.[47] È nelle possibilità di questo impianto narrativo che mi pare di poter leggere la novità, importante, di queste realizzazioni, non,  ad esempio, nella scelta del punto di vista e nel taglio dell’inquadratura, che molte volte ripropongono schemi consolidati, citando quasi letteralmente esempi antecedenti, come accade proprio con alcune immagini di Lucerna e dintorni, in cui è evidente il richiamo alle fotografia dei bernesi Fratelli Charnaux, che avevano ampia circolazione anche in cartolina.

Le riprese relative alla Svizzera formano due serie distinte, la cui numerazione, almeno in questo caso[48] riflette una cronologia. La prima, numerata intorno al 12100-12500, è  coeva alle riprese del Gottardo,  cioè databile agli anni 1882-1885, mentre la successiva (nn. 13100-13700) data almeno al 1889.[49] L’occasione per il ritorno credo possa essere individuata nella conclusione dei lavori della ferrovia del Monte Pilatus (1889), che costituiva – accanto a quella del Rigi – una grande attrazione turistica[50], come confermano i soggetti offerti dal Diorama Meyer, a Lucerna in Zürichstrasse. Lo spettacolo offriva quattro vedute: il panorama dalla sommità del Rigi,  la veduta della ferrovia del Rigi e i panorami dal Pilatus e dal Gornergrat con “rappresentazioni degli effetti luminosi di mattina e sera. Somiglianza perfetta di grandi proporzioni. Ogni rappresentazione di 25-40 metri ca. è il miglior risarcimento per i turisti in caso di tempo cattivo e il miglior ricordo delle vedute alpine.”[51] Con un buon secolo di anticipo lo spettatore si ritrovava inconsapevolmente immerso nella condizione postmoderna della società del simulacro: “I Baedeker prima, e le cartoline illustrate poi, gli uni per un verso, le altre per un altro, hanno ai dì nostri tolto al viaggio ogni impreveduto, ogni poesia. I paesi, grazie a questi due portati della civiltà odierna, perdono ogni pregio di novità: tutto quanto v’è di stupefacente, di ammirevole è in anticipazione descritto, misurato, calcolato, pesato, fotografato! E addio impressioni vergini! Addio rivelazioni improvvise di paesaggi e di cieli! Addio punti di esclamazione sgorgati spontaneamente davanti a luoghi ignoti ed ignorati! Tutto quanto si vede è già cosi conosciuto! già così saputo! già così veduto!”[52]

Sono quelli gli anni in cui il figlio Edmondo iniziava a collaborare col padre, sino alla costituzione di una vera e propria società nel gennaio del 1889, e certo si dovrà tenere conto nell’attribuzione delle fotografie realizzate dopo questa data delle condizioni stabilite dal contratto, che prevedeva che il figlio dovesse “viaggiare per smaltire i prodotti dell’azienda e per formare le collezioni di vedute.”[53] Il successo internazionale della Ditta Giorgio Sommer e Figlio venne ribadito dall’assegnazione del Grand Prix all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno 1900 e dalla crescente diffusione di loro fotografie su pubblicazioni locali e internazionali[54], mentre i cataloghi di vendita, ancora nel 1914 distinguevano tra “Grand Etablissement Photographique/ sous la direction de Mr. Giorgio Sommer” e  “Grande Fonderie Artistique en Bronze (…) sous la direction du Chev. Edmondo Sommer”: una complessa attività che si muoveva sul crinale sottile che distingue produzione e riproduzione e che ancora attende di essere compiutamente indagata.

 

Note

[1] “These are but a few of the proofs  that could be brought  forward of the wide dissemination of the new agent, and of the various modes of its reception (…) for while our Queen has sent out a complete photographic apparatus for the use of the King of Siam, the King of Naples alone, of the whole civilised world, has forbidden the practice of the works of light in his dominions!”. L’articolo Photography, comparve anonimo in “The London Quarterly review”, 101 (1857), January – April, pp. 241-255 (243) per essere successivamente attribuito a Elisabeth Rigby Eastlake (1809-1893), in più occasioni fotografata da Hill & Adamson,  moglie di Charles Eastlake, Direttore della National Gallery e primo presidente della Photographic Society of London (ora Royal Photographic Society of Great Britain). Il saggio venne riproposto anche in Beamont Newhall, ed.,  Photography: Essays and Images,. London: Secker &  Warburg, 1980, pp. pp. 81-95 (84), ma citando in modo impreciso la fonte, oggi consultabile integralmente mediante il browser Google Books. Per il dibattito napoletano intorno alle nuove scoperte si veda Giovanni Fiorentino, Tanta di luce meraviglia arcana. Origini della fotografia a Napoli. Sorrento: Franco Di Mauro Editore, 1992, che rappresenta un indispensabile riferimento per la ricostruzione del contesto delle origini della fotografia in questa città. Rilievo ben maggiore ebbe la Relazione intorno al dagherrotipo presentata da Macedonio  Melloni alla Regia Accademia delle Scienze nella seduta del 12 novembre 1839 e più volte ristampata nei mesi successivi a Napoli, a Parma, a Roma e persino a Parigi, con traduzione di Alfred Donné; cfr. Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Antologia di testi sulla fotografia 1839/ 1949. Milano: Franco Angeli, 1985, pp. 88-89. La Relazione è stata ripubblicata integralmente in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia”, Annali, 2. Torino: Einaudi, 1979, pp. 212-232.

[2] Cfr. Marina Miraglia, Giorgio Sommer, un tedesco in Italia, in M. Miraglia, Ulrich Pohlmann, Un viaggio fra mito e realtà: Giorgio Sommer fotografo in Italia, 1857-1891. Roma: Carte Segrete, 1992, pp. 11-32, a cui si rimanda anche per la definizione del quadro generale della biografia, non solo professionale del fotografo. Si veda anche Giovanni Fanelli, L’ Italia virata all’oro  attraverso le fotografie di Giorgio Sommer.  Firenze: Pagliai Polistampa, 2007.

[3] Ancora in anni recenti si è affermato che “benché le prime tecniche di riproduzione fotografica (…) fossero state recepite immediatamente dagli ambienti scientifici napoletani, ciò non ha riscontro in una corrispondente attività di professionisti o dilettanti locali.”, Daniela del Pesco, Fotografia e scena urbana fra artigianato e industria culturale, in Giuseppe Galasso, Mariantonietta Picone Petrusa, D. del Pesco, Napoli nelle collezioni Alinari e nei fotografi napoletani fra ottocento e novecento. Napoli: Gaetano Macchiaroli Editore, 1981, pp. 65-107 (67).

[4] Già Ugo di Pace aveva ritrovato al Museo di San Martino una lettera di Talbot a Tenore datata 29 gennaio 1840, Cfr. U. di Pace, …E Napoli scoprì la foto, “Paese Sera”, Napoli, 3 dicembre 1982, p. 15. La corrispondenza di Talbot è stata digitalizzata e trascritta nell’ambito del progetto The Correspondence of William Henry Fox Talbot (d’ora in poi TCP), consultabile all’indirizzo http://foxtalbot.dmu.ac.uk/letters/letters.html [25-01-2011].

[5] “Il Lucifero”, 2 (1839), n. 43, 4 dicembre, p. 443, citato in Fiorentino 1992, p. 43 passim.

[6] A. De. L., Nuovo metodo per la pittura fotogenica, “Salvator Rosa”, 1 (1839),  n. 20, 24 marzo, pp. 154-155, citato in Fiorentino 1992, p. 31, che ha identificato l’autore in Achille de Lauzières, il quale mostrava così una precoce comprensione di quella linea che avrebbe collocato il dagherrotipo, e poi la fotografia nella consolidata tradizione di quel paesaggismo napoletano che proprio sull’oleografia dei luoghi e dei costumi avrebbe fondato la propria fortuna ancora per almeno due secoli a venire.

[7] Giovanni Fiorentino, Napoli e il Regno delle Due Sicilie, in L’Italia d’argento. 1839/ 1859 Storia del dagherrotipo in Italia, catalogo della mostra (Firenze – Roma, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli. Firenze: Alinari, 2003, pp. 252-255.

[8] Per la ricostruzione delle presenza napoletane di fotografi calotipisti si rimanda ai saggi e alle opere pubblicate in Éloge du negatif. Les débuts de la photographie sur papier en Italie (1846-1862), catalogo della mostra (Parigi – Firenze, 2010). Paris: Paris Musées, 2010. Per l’attività di Calvert Jones cfr. la lettera di Bridges a Talbot del 23 aprile 1846, in TCP n. 5632.

[9] Maria Francesca Bonetti, Talbot et l’introduction du calotype en Italie, in Éloge du negatif 2010, pp. 25-35 (35, nota 45) in cui ricorda un calotipo di Lecchi relativo alla Casa del Fornaio di Pompei, firmato e datato 1846, che costituisce a oggi il più antico calotipo noto di autore italiano.  G.W. Bridges scriveva a Talbot:  “In Naples I met with a Sig. Lechie [sic], a Milanese – who is teaching the art at 600 francs – one only lesson: – a poor Optician in Toledo, paid that sum – & by some means obtained the whole process in writing: – from him I have it & have seen some very superior negative & possitives worked by it: – but have yet been too ill to try it myself. I give you the copy overleaf (…) Lechie’s skies are perfect – & he succeeds on paper of very inferior quality – no spots seeming to appear, or injure the process. (…) Certainly some few of his specimens are more perfect in detail than any I have seen – He is employed now by the King of Naples in copying at Pompeii – but I have some 4 or 5 taken there equal to his. – His advantage seems to be that he makes use of any inferior paper, & is more certain of good productions. – I saw him take 14 one morning at Pompeii without one failure.” (28 Aug 1847 , TCP n. 5985). Lo stesso Bridges si riprometteva di realizzare “a few [copies] which I shall take to the King of Naples, (of Pompeii) – who is infinitely pleased even with the negatives – especially those of the frescoes lately discovered” (lettera del 23 maggio 1847, TCP n. 5951).  Il nome di Lecchi era già noto a Talbot per il tramite di  Calvert Jones: “At Lyons, Avignon, and Marseilles I saw some Photographs which the Shopkeepers at the houses where they were exposed, represented as being paper Dags, but which, from certain identical stains on different copies, I discovered to be a kind of Talbotype; they appeared to be quickly done, as several figures appeared. They were done by an Italian, named Leuchi, who is prepared to reveal his method whenever a certain number (how many I know not) of persons shall have agreed to give him 100 francs each: I did not see him, but all the Photographers I have met with are delighted with my paper specimens.” (lettera del 1 dicembre 1845 , TCP n. 05453).

[10] Roberto Cassanelli, a cura di, Luigi Sacchi. Un artista dell’Ottocento nell’Europa dei fotografi, “Quaderni della Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte”, 2. Torino: Provincia di Torino, 1998, cat. 41. Ben oltre gli anni in cui si iniziava a utilizzare il negativo di vetro Gustave de Beaucorps, realizzò ancora una serie di vedute al calotipo del Golfo di Napoli, una di Ischia e una di Ravello, datate  1859, cfr. Éloge du negatif 2010, pp. 40-41, 171, 173.

[11] Miraglia 1992, p. 18.

[12] Cfr. lettera di Leopoldo Alinari a Ernest Becker del 15 giugno 1858, in Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003, p. 129.

[13] Sino al 1862 avrebbe realizzato più di 1.000 ritratti, vale a dire una media di circa 200 ritratti l’anno, dato che può indicare non solo la sua riconosciuta abilità nel genere, ma anche la scarsità di alternative professionali locali. Per quanto riguarda la definizione dell’arco cronologico in cui Sommer si sarebbe dedicato a questo genere, che molti propendono a considerare conchiuso proprio nei primi anni Sessanta,  ricordiamo che il suo ben noto n. 11601 – Bersagliere, pubblicato in Miraglia 1992, p. 17 è datato “post 1873”, sebbene proprio la titolazione faccia propendere per una sua interpretazione come figura piuttosto che come ritratto, come conferma anche Fanelli 2007, p. 35, che ricorda come Il Bersagliere fosse compreso nella sezione “Costumi” del Catalogo del 1886. Quanto alle stereoscopie, la cui produzione secondo alcuni fu limitata allo stesso periodo,  si può affermare sulla base delle immagini note che proseguì almeno sino al 1880, data di realizzazione della serie dedicata alla Funicolare vesuviana.

[14] Pur senza pretendere di dirimere le questioni relative alla cronologia della collaborazione tra Sommer e Behles (questo fu, quasi sempre, l’ordine di citazione sui cartoni di supporto) proviamo a riordinare i dati sino ad ora resi disponibili dalle fonti bibliografiche: l’avvio del loro rapporto professionale, che Miraglia 1992 pone al 1857, andrà forse spostato al 1860, anno in cui Behles giunse a Roma (Piero Becchetti, La fotografia a Roma dalle origini al 1915. Roma: Editore Carlo Colombo, 1983,  ad vocem), se non addirittura oltre, considerando che una richiesta avanzata ai Musei vaticani per fotografare alcune sculture, datata 2 luglio 1863, venne firmata dal solo Sommer, mentre la successiva, datata 20 settembre 1864, fu sottoscritta da entrambi; si veda a questo proposito l’attenta ricostruzione fatta da Maria Francesca Bonetti, Giorgio Sommer – Edmondo Behles, Laocoonte, 1863-1867 , in Laocoonte: alle origini dei Musei Vaticani, catalogo della mostra (Città del Vaticano, 2006-2007). Roma: L’Erma di Bretschneider, 2006, sch. n. 87, pp. 190-191. Ancora nel 1867 i due fotografi firmarono congiuntamente un’analoga domanda, mentre furono premiati separatamente all’Esposizione Universale di Parigi dello stesso anno (Miraglia 1992, p.31, nota 84.) Pare quindi ragionevole sostenere che la separazione dovette compiersi in quel periodo, e comunque prima del 1870, anno in cui Sommer pubblicò il suo primo catalogo. A ulteriore conferma si ricorda che nel 1871 fu il solo Behles, con cui i rapporti dovettero restare ottimi se Sommer chiamerà il figlio Edmondo, a inoltrare una nuova richiesta di autorizzazione per fotografare nei Musei Vaticani (Bonetti 2006).

[15] Già Miraglia 1992 aveva segnalato i rapporti commerciali di Sommer con Celestino Degoix a Genova e  Carlo Ponti a Venezia, ma vogliamo qui ricordare almeno la proposta ben più tarda (a suo tempo ricordata dalla stessa studiosa) avanzata da Achille Mauri sulle pagine de “La Camera Oscura” nel 1883 in cui chiedeva “ai vedutisti italiani (…) di scambiare vedute, paesaggi e monumenti formato 21×27 con sue di Napoli, dintorni, Pompei, Museo Nazionale”,  Mariantonietta Picone Petrusa, Linguaggio fotografico e «generi» pittorici, in Galasso, Picone Petrusa, Del Pesco, 1981, pp. 21-63 (60, nota 175). Altra invece la questione delle copie illecite e delle contraffazioni, di cui pure è ricca la vicenda professionale di  Sommer e di altri fotografi napoletani, per la quale si rimanda alla stessa fonte.

[16] Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia. Milano: Bruno Mondatori, 1996, p.48. Va inoltre immediatamente posta una questione che qui non possiamo che limitarci a formulare: si dice Sommer come si direbbe Alinari o Brogi, proponendo un’indicazione di responsabilità che non sempre e necessariamente può aver coinciso con l’effettivo operatore, ma che deve semmai essere intesa quale adesione a una linea interpretativa e produttiva che costituiva l’identità del marchio. Ancora troppo poco sappiamo dell’organizzazione del lavoro degli studi fotografici di medie e grandi dimensioni per procedere oltre in questo percorso, che dovrà prima o poi essere avviato, pena l’incomprensione critica non solo dell’effettiva cultura fotografica di questi operatori ma anche delle modalità della costituzione di quell’iconografia dei luoghi che ha determinato l’immaginario del Bel Paese.

[17] Domenico Benedetto Gravina, Il duomo di Monreale  illustrato e riportato in tavole cromo litografiche. Palermo: Stab. tipogr. di F. Lao, 1859-1869; nuova edizione con riproduzione integrale dell’originale del 1869: Caltanissetta: Lussografica, 2007.

[18]  Del Pesco 1981, p. 74.

[19] Stephen L. Dyson, In pursuit of ancient pasts: a history of classical archaeology in the nineteenth and twentieth centuries. New Haven, CT:  Yale University Press, 2006, p. 48.

[20] Jean-Christophe Bailly, L’istante e la sua ombra,. Milano: Bruno Mondadori, 2010, p. 121.

[21] Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta. Torino: Bollati Boringhieri, 2009, pp. 17-18, che costituisce la riedizione in forma di saggio  del catalogo della mostra L’empreinte, curata dallo stesso Didi-Huberman nel 1997 presso il Centre Pompidou di Parigi. Particolarmente ricca di suggestioni è la lettura in parallelo dei saggi di Bailly e Didi-Huberman.

[22] Secondo la “Photographische Correspondenz”, 1865, p. 306 queste erano considerate “eccessivamente dure e tecnicamente al limite dell’errore”, citata in Miraglia, 1992 n.54 p. 29.

[23] Charles Marville, Vedute di Torino. Turin: Maggi, [s.d.], in Fotografi del Piemonte 1852-1899, catalogo della mostra, Torino, giugno-luglio 1977, a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp. 37-38, con una datazione proposta al 1865-1870 che Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi, 1990, p. 334 aveva già anticipato al 1861-62, ma che sarà più corretto attribuire al 1858-59, quando “Charles François Bossu, dit Marville artiste photographe”, era in Italia e in Grecia con Charles Cordier per realizzare l’impresa dedicata alla Sculpture Ethnographique, commissionata dal governo francese nel 1850 (vale a dire prima della ben più nota Mission Héliographique) e quindi pubblicata in fascicoli successivi. Un esemplare dell’opera venne dedicato “A S.M. Victor Emmanuel Roi d’Italie” ed è oggi conservato presso la Biblioteca Reale di Torino. L’occasione per la realizzazione di queste riprese di Marville potrebbe essere individuata nella campagna fotografica di riproduzione dei disegni della stessa Biblioteca Reale e della Biblioteca Ambrosiana, che faceva seguito all’impegno analogo per le collezioni del Louvre, pubblicate pochi anni prima e certamente note anche a Torino, come testimoniano i fogli oggi conservati all’Accademia Albertina di Belle Arti. La datazione delle riprese torinesi potrebbe essere ulteriormente anticipata alla metà del decennio considerando che Marville  si qualificava come “Photographe du Musée Imperial du Louvre”, dicitura che ritroviamo sui cartoni di queste stampe, solo fino al 1855, anno di chiusura della stamperia di Blanquart-Evrard a Lille, di cui fu uno dei più assidui collaboratori. La rivelazione del vero nome di Marville si deve a Sarah Kennel, conservatrice presso la National Gallery di Washington, che sta preparando una mostra monografica a lui dedicata.

[24] Picone Petrusa, 1981, tavv. 237, 245; Achille Mauri fotografo di Sua Maestà, catalogo della mostra (Bari,  2009–2010),  a cura di Clara Gelao. Firenze: Alinari 24 Ore, 2009, tav. 190.

[25] James Graham, Vesuvius. Lava of 1858-60 near the Observatory,  albumina, pubblicata in  Éloge du negatif, p. 195.

[26] Sergio Leonardi, Achille Mauri fotografo, in Achille Mauri fotografo 2009, pp. 19-31. (p. 30 nota 35).

[27] Del Pesco, 1981, p. 98 n. 44.

[28] Daniela Palazzoli, a cura di, Giorgio Sommer fotografo a Napoli. Milano: Electa, 1981, p. V. Le relazioni tra le diverse attività di Sommer sono ancora, mi pare, tutte da datare con precisione e soprattutto da studiare, ponendo in relazione l’accrescimento del catalogo di fotografie con la produzione di bronzetti e simili che avrebbe avuto “un eccezionale incremento fra il 1879 e il 1886, tanto è vero che nel catalogo a stampa di quell’anno Sommer faceva precedere l’elenco delle proprie fotografie da un soggettario di ben 245 bronzi.” Miraglia 1992 p. 28 nota 52. Dal Catalogo del 1914 (Del Pesco 1981, p. 73) si ricava come oltre alla vendita di fotografie (anche al carbone, al platino e colorate) e diapositive, la ditta forniva cromolitografie di propria edizione, acquarelli, guache e dipinti a olio di Napoli, Pompei e dintorni. Veniva inoltre offerto un servizio completo di sviluppo e stampa di lastre e pellicole Kodak, di cui era rivenditore. Se a queste si aggiungono le attività della fonderia, dell’atelier di scultura, dei calchi in gesso, delle copie in argento e delle terrecotte, si ha un’immagine ben definita di un’azienda di medie dimensioni con una produzione molto diversificata, le cui diverse attività pare difficile poter separare. Una selezione di opere della Fonderia Sommer è visibile all’indirizzo  http://www.annona.de/alben/Sommer%20Bronze/ (8-2-2011).

[29] Catalogo generale delle riproduzioni fotografiche pubblicate per cura dei Fratelli Alinari. Firenze: Barbera, 1873.

[30] Giorgio Sommer, Casa fondata nell’anno 1857, Catalogo di fotografie d’Italia e Malta.  Napoli: Rocco, 1873, che risulta essere il solo catalogo di uno stabilimento fotografico registrato nel repertorio di  Attilio Pagliaini, Catalogo generale della libreria italiana dall’anno 1847 a tutto il 1899. Milano: Associazione tipografico-libraria italiana, 1901-1905, ad vocem.

[31] L’enorme diffusione delle stampe Sommer è confermata ancora oggi dalla presenza di numerosissimi esemplari non solo in collezioni pubbliche e private, ma anche dalla frequenza di presentazione in asta di fogli singoli e di album. Alla fine del decennio è databile, ad esempio, il bellissimo album Italia, con 130 albumine nel formato 21×27, presente nelle collezioni della Biblioteca Storica della Provincia di Torino, che apre proprio con Lugano e il Lago Maggiore, poi Como e Milano, Pavia e Torino (con veduta da Villa della Regina ante 1863), Genova, Verona, Venezia, Bologna, Firenze (ante 1876), Pisa, Siena, Orvieto, Assisi, Tivoli, Roma, Napoli, Baja, Amalfi, Caserta, Paestum, i Mangiamaccheroni, Pompei, un calco datato 1873 (n. 1279), Palermo, Monreale, Messina, Taormina, Siracusa, mentre la chiusa è affidata al tempio della Concordia di Agrigento. Un album di viaggio per stranieri, tedeschi e svizzeri direi: che apre coi laghi e chiude con l’archeologia siciliana.

[32] L’esame delle litografie che ornavano al verso i cartoni di supporto e che venivano riprodotte fotograficamente nei frontespizi dei diversi album mostra  quale fosse la varietà delle soluzioni grafiche di volta in volta utilizzate.

[33] Si veda ad esempio l’album Napoli conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, realizzato tra 1880 e 1887, che consente di esprimere alcune considerazioni rispetto ai modi operativi di Sommer, in particolare per quanto riguarda le varianti di ripresa, rispetto alle quali, oltre all’ovvia peculiarità delle riprese stereoscopiche, si nota come la posizione del punto di ripresa restasse identica nel passaggio da un formato all’altro; solo da alcuni mutamenti nella scena, solo dalle diversità del referente si comprende la distanza, per quanto minima di tempo intercorso tra uno scatto e l’altro: quello necessario a sostituire gli apparecchi sull’immobile cavalletto (cfr. Ischia, 1880 ca, n. 1187 nel 20/25, n. 5232 nel 10/15), mentre le focali dovevano essere diverse, con un angolo di ripresa più ampio per il formato minore (cfr. Funicolare del Vesuvio n. 5231 nel 10/15, n. 8120 nel 20/25). Anche nella consueta pratica dell’aggiornamento delle riprese (non del repertorio), ritornando a distanza di tempo sullo stesso soggetto, i modi  restano immutati, nella fedeltà a un canone che pare indiscutibile e stabilito da tempo. Si considerino due versioni di una delle più note immagini della serie dedicata al Grand Hotel di Amalfi, già convento dei Cappuccini, dove la seconda (n. 2996, post 1891) ricalca pedissequamente  la prima (n. 2013, 1870 ca.) conservando identici i dati di ripresa (punto di vista, focale, ora e periodo dell’anno, come si evince dallo studio delle ombre portate)  con la sola variante dei due ospiti al tavolino, mentre è inevitabilmente cresciuta la yucca in secondo piano. Della versione, in verticale, appartenente all’album 1874, si ricorderanno gli Alinari (n. 11480, ante 1896) collocando però una graziosa popolana al posto del frate (Quintavalle 2003, p. 300). Analogo discorso può essere fatto per 1202 Foro civile (Pompei), 1881 ante, di cui è nota  una variante con inquadratura da un punto un poco più elevato e lievemente spostata a sinistra, con aggiunta del pennacchio al vulcano, ma di cui esiste anche una ripresa precedente, 1870 ca, effettuata dallo stesso punto e con le stesse condizioni di luce, che si distingue solo per la presenza di un uomo in cilindro poggiato al basamento. A proposito di questa pratica, comune del resto a tutti i grandi studi fotografici coevi,  è stato giustamente notato che “si determina una griglia che è sempre adattabile a nuovi eventi e quindi costantemente aperta. Insomma è come se dentro lo schema (…) si potessero sempre inserire nuove edizioni, diciamo così, del loro simbolico documento archeologico per immagini, e anche per questo forse, la necessità di cambiare gli scatti che si sono fatti in passato con scatti nuovi viene considerata come un dato di fatto normale.” Quintavalle 2003, p. 212.

[34] Luigi Delàtre, Le fotografie dei fratelli Alinari, “Monitore Toscano”, 8 (1855), 30 marzo, citato in Quintavalle 2003, p. 98.

[35] Soluzione analoga a quella adottata alcuni anni prima per la stereoscopia n. 876 dedicata al  Teatro della Scala – Milano, datata al verso 1869.

[36] Per Achille Mauri 19 – Interno del Teatro San Carlo, cfr. Achille Mauri fotografo 2009, p. 33 in basso. Non può però essere questa l’immagine che fu oggetto del processo intentato da Mauri nel 1903 alla ditta Richter di Napoli e al fotografo Giorgio Sternfeld di Venezia per la contraffazione della sua ripresa (poi ritoccata) del 1894, come si afferma in Leonardi 2009, p. 28. Per la ricostruzione degli elementi salienti della vicenda cfr. Elvira Puorto, Fotografia fra arte e storia: il Bullettino della Società fotografica italiana (1889 -1914). Napoli: A. Guida, 1996, pp. 69-71. Della Grotta Azzurra di Sommer sono note, oltre a una variante colorata a mano (n. 2217) una pseudostereoscopia (n. 243) firmata ancora Sommer & Behles.

[37] “A Napoli il maggior produttore (di fotografie) è il Sig. Sommer [che] ha delle sale di vendita molto vaste in una delle principali strade, in cui è realizzata un’esposizione molto bella. [Il suo stabilimento] è fornito di tutti i requisiti necessari a ottenere risultati ottimi in ogni quantità.”. Il testo, reso noto per la prima volta da Van Deren Coke, Giorgio Sommer, “Bulletin of the University Art Museum”, n. 9 (1975-1976). Albuquerque: University of New Mexico, è stato a suo tempo ripreso da Palazzoli 1981, p. VI, che qualificava però Wilson come un generico “viaggiatore americano”.  Di questo autorevole encomio mi piace sottolineare quel richiamo alla “quantità” che ben sintetizza l’orizzonte produttivo e commerciale in cui si collocava l’attività della Casa Sommer.

[38]Pres de Sorrente. – Dessin de A. de Bar, d’apres une photographie de Giorgio Sommer”, “Magazin Pictoresque”, 42 (1878) tratto dalla stampa n. 1153 – Vallate di Sorrento.

[39] Miraglia 1992 p. 29 nota 60.

[40] Roberto, figlio di Clara Treiber e Franz Josef Pallme, è stato un grande appassionato ed esperto di cinema muto. La sua collezione è oggi conservata alla George Eastman House – International Museum of Photography and Film di Rochester, mentre la raccolta di proiettori cinematografici, radio e strumenti scientifici costituisce il Fondo Roberto Pallme presso la  Fondazione Micheletti di Brescia.

[41] Cfr. Statuten der Mittelschweizerischen Geographisch-Commerciellen Gesellschaft, „Fernschau“,  1 (1886), pp. XV-XVI. La Società Geografico-Commerciale della Svizzera centrale, fu attiva dal 1884 al 1905. Per la ricostruzione delle vicende di questa collezione si rimanda a Fernschau: global: ein Fotomuseum erklärt die Welt (1885–1905), catalogo della mostra (Aarau, Forum Schlossplatz, 2006), Markus Schürpf, hrg. Baden: Hier + jetzt Verlag für Kultur und Geschichte, 2006, e più in particolare al saggio di Ricabeth Steiger, Fotografieren als Geschäft: die Reportagen und Reisebilder von Giorgio Sommer, ivi, pp. 72-79. L’iniziativa di questa Società va inquadrata nel più ampio dibattito tardo ottocentesco sulle funzioni dei Musei fotografici documentari che interessava in quegli anni tutti i paesi europei, Confederazione Elvetica compresa, oltre agli Stati Uniti.

[42] Giorgio Sommer, fotografo di S.M. il Re d’Italia, Largo Vittoria, Napoli, Palazzo Sommer, Catalogo di fotografie d’Italia, Malta e Ferrovie del Gottardo. Napoli: Tipografia A. Trani, 1886.

[43] Cfr. Maureen C. O’ Brien, Mary Bergstein, eds., Image et Enterprise. The Photographs of Adolphe Braun. London: Thames & Hudson, 2000 oltre che, nello specifico, Kurt Zurfluh, Gotthard: als die Bahn gebaut wurde. Zürich: Offizin, 2003, in cui è pubblicata parte della campagna fotografica della Ditta Adolphe Braun, certamente non realizzata dal titolare, morto nel 1877, conservata presso la Collezione Walter Reinert di Lucerna. Le riprese vennero utilizzate per la pubblicazione delle Photographische Ansichten der Gottardbahn, Photographien von Ad. Braun & Cie. Dornach im Elsass, 1882 ca., di cui sono note diverse edizioni con un numero di tavole compreso tra 44 e 77, tra le quali un panorama in quattro parti.

[44] La funzione di attrazione turistica della nuova infrastruttura è confermata dalle innumerevoli guide pubblicate negli anni immediatamente successivi alla sua apertura, non di rado illustrate con incisioni tratte da fotografie, anche di Sommer: Woldemar Kaden, La ferrovia del Gottardo ed i suoi dintorni. Bellinzona: C. Salvoni, s.d. [1882 post]; Jakob Hardmeyer,  Die Gotthardbahn, mit 48 Illustrationen von J. Weber. Zurich: Orell Fussli & co, s.d.[1886 ca]; Guide-album illustrée du chemin de fer du Gothard. Milano: Administration de Guide-Album du Gothard, s.d. [1890]; George L. Catlin, A travers les Alpes par le chemin de fer du Saint-Gothard. Zurich: Art Institut Orell Fussli, 1900; Edmondo Brusoni, Da Milano a Lucerna: guida itinerario descrittiva della ferrovia del Gottardo, dei Tre Laghi, del Lago dei Quattro Cantoni e del Canton Ticino.  Bellinzona: Colombi e C. editori, 1901. A titolo esemplificativo segnaliamo come la ripresa n. 12130 – Amsteg, venne ripresa in Catlin p. 21 e Guide-album p. 27, la n.12164 – Bellinzona è stata la fonte per Catlin p. 34 e Guide-album p. 45, in cui vennero pubblicate anche n. 12127 – Fluelen p. 21, n. 12242 – Goeschenen  p. 33 e n. 12291 – Hospenthal  p. 68, mentre a p. 15 è pubblicata Arth Goldau di Braun. Il confronto tra le diverse immagini costituenti l’apparato illustrativo di queste guide, tutte incisioni tratte alternativamente da fotografie (pubblicate rigorosamente anonime) e da schizzi dal vero, mostra come ai due media originari corrisponda una diversa intenzione narrativa: l’adozione di una impaginazione verticale per le immagini disegnate risulta più efficace nella  restituzione del contesto “orrido e sublime”, mentre  sia Braun che Sommer escludevano il cielo e i profili delle montagne per concentrarsi il più possibile sulla presenza dei manufatti nel paesaggio in campo medio. Un vivace resoconto, certo debitore dell’immaginario romanzesco di Jules Verne, così descriveva un viaggio notturno su questa linea: “ed il cielo è nero, o, piuttosto, il cielo non c’è più : si ha l’impressione, traverso infinite gallerie, di pozzi interminabili, rivestiti di ferro, di scendere, scendere, scendere verso il centro della terra. Le stazioni, davanti a cui si fanno brevi soste, al bagliore scialbo delle file di lampade che le illuminano, paiono vacillare come cose riflesse in un’acqua, ed hanno nomi stravaganti ed ostili.  Poi, a tratti, sopra il frastuono, il rombo metallico del treno, giunge all’orecchio, misterioso, uno scroscio di cascate, di acque vorticose, di torrenti precipitanti da chi sa quale balza ignota….. Un tremolio incerto, indistinto, infine, rompe l’oscurità. Giù in  fondo ad una vallata, che sembra spalancarsi come un’enorme mascella, sotto un cielo accigliato e torbido d’autunno, non ancora svegliato dall’alba, appare il Vierwaldstättersee, il lago dei Quattro cantoni, il paese leggendario di Guglielmo Tell.”, Ernesto Ragazzoni, Istantanee svizzere, “La Stampa”, 8 (1902), n. 213, 3 agosto, pp. 1-2 (1).

[45] Aldo Audisio, P. Cavanna, Emanuela De Rege di Donato, Fotografie delle montagne. Ivrea: Priuli & Verlucca, 2009.

[46] Le montagne e i ghiacciai della regione furono oggetto di una prima campagna fotografica realizzata dai Fratelli Bisson,  presentata con grande successo all’Esposizione di Parigi del 1855; cfr. Les Frères Bisson photographes. De flèche en cime 1840-1870, catalogo della mostra (Parigi – Essen, 1999), Milan Chlumsky, Ute Eskildsen, Bernard Marbot, dir. Paris – Essen: Bibliothèque Nationale de France – Museum Folkwang, 1999; Infinitamente al di là di ogni sogno. Alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo nazionale della Montagna, 2004. Una nuova campagna fotografica venne realizzata alcuni anni più tardi e pubblicata in H[ereford] B[rooke] George, The Oberland and its glaciers explored and illustrated with ice axe and camera. London: Alfred W. Bennet, 1866, illustrato con ventotto stampe all’albumina di Ernest Edwards, autore anche di una interessante serie di Notes of the Photographer,  pubblicate in appendice, in cui descrive con grande chiarezza ed efficacia gli scopi, gli accorgimenti tecnici e le difficoltà dell’impresa.

[47] Bruno Munari, Fotocronache: dall’isola dei tartufi al qui pro quo. Milano: Editoriale Domus, 1944 (nuova ed. Milano: Verbaq edizioni, 1980; Mantova: Corraini, 1997).

[48] Risulta purtroppo difficile e quasi impossibile ricorrere alla progressione numerica dei soggetti per determinare la cronologia delle riprese. Analizzando le opere pubblicate nella non ricca bibliografia dedicata a Sommer, quelle presenti nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna di Torino e quelle, numerosissime, disponibili in rete sembrerebbe possibile in prima approssimazione individuare  una certa progressione cronologica nella numerazione dei soggetti (n.1000 ca. per Roma, 1857-65; n.1100 ca. per Napoli 1860-1865), un nucleo dai nn. 1900 al 1990 ca. che riguarda Milano, Genova e Torino (1863 – 1873 ante), ma allo stesso periodo apparterrebbe anche la serie di Venezia, che ha una numerazione intorno al 3500 e quella su Como con numeri intorno al 7000 nel formato 21/27 (7100 formato album; 7200 stereo; 7300 carte de visite). Questa costruzione del codice di catalogo che pone in relazione soggetto e formato si ritrova anche in altri esempi (Torino, chiesa della Gran Madre, nn. 973, 1973, 3973), ma non rappresenta purtroppo una costante, né pare avere un andamento cronologicamente coerente, anche in conseguenza della sostituzione di nuove riprese dello stesso soggetto realizzate a distanza di tempo, ma entrate in catalogo con lo stesso numero, consuetudine del resto comune ad altri studi fotografici. Per analoghe considerazioni ed esempi si rimanda a Palazzoli 1981, Nota alle opere e alle analitiche schede delle immagini pubblicate in Miraglia, Pohlmann 1992.

[49] Se possiamo suggerire il 1889 come termine post quem, il 1894 è certamente quello ante quem della loro realizzazione. Presso l’Harry Ransom Center ad Austin è conservata una stampa di Sommer, Rigi Railway, Vitznau, Schnurtobelbrucke  (n. 964:0728:000), che porta la data June 8, 1894 analoga a quella apposta in calce, sul supporto secondario della stampa relativa al Maloja del Museo Nazionale della Montagna di Torino, datata “September 14 1894”. Poiché si deve pur presumere che le stampe per raggiungere l’acquirente dovevano essere immesse in un preciso circuito produttivo e distributivo, è ragionevole supporre che la loro data di pubblicazione, e ancor più di ripresa possa essere anticipata almeno di qualche mese. Superfluo a questo punto ricordare che questi soggetti risultano compresi in G. Sommer & Figlio fotografi di S.M. il Re d’Italia, Casa fondata nell’anno 1857, Catalogo di fotografie Svizzera e Tirolo. Napoli: Tipografia Scarpati, 1899.

[50] I due tronchi della Ferrovia del Rigi furono inaugurati rispettivamente nel 1869-70 per la parte da Vitznau e nel 1875 per la tratta da Arth-Goldau. Si calcola che negli anni ’70 la meta fosse frequentata da circa 80.000 persone l’anno, cfr. Kaden 1882 post, p. 27. Si segnala che recentemente, presso la Galerie Fischer Auktionen di Lucerna, è stato presentato in asta un album di Giorgio Sommer dedicato proprio al Pilatus, datato 1890 ca., con  23 stampe all’albumina relative al Monte e alla sua ferrovia.

[51] In Guide-album 1890, p.n.n.

[52] Ragazzoni 1902, p. 1.

[53] Miraglia 1992  p.21

[54] Loro immagini vennero pubblicate nei primi numeri di “Napoli nobilissima” illustrati da fotografie (1892), cfr. Picone Petrusa 1981 p. 57 n. 68. Si segnalano inoltre le fotografie dell’Oberland Bernese firmate G. Sommer & Figlio pubblicate in “The Graphic”, 54 (1896), cfr. Anton Gattlen, L’estampe topographique du Valais.  Martigny – Brig: Éditions Gravures, Éditions Pillets – Rotten verlag AG, 1987-1992, II, p. 313; il volume di Jakob Christoph Heer, Der Vierwaldstätter See und die Urkantone. Zürich: J. A. Preuss 1898 (ed. francese e inglese: Zürich: Th. Schroeter, 1900), corredato da 800 illustrazioni in photogravure e xilografiche, con immagini di Sommer, dei Fratelli Wehrli, di Schroeder e dei fotoamatori  Hans Brun, J. Muheim, L. Zimmermann, A. Soldenhof, H. Felder; Hippolyt Haas. Neapel seine Umgebung und Sizilien. Bielefeld und Leipzig: Verlag von Velhagen & Klafing, 1904, riccamente illustrato da fotografie firmate Sommer & Figlio e Alinari; Augustus J. C. Hare. Cities of Southern Italy. New York: Dutton and Company, 1911, per il quale “The Editor takes this opportunity of thanking Messrs. G. Sommer, of Naples, and Signor R. Moscioni, of Rome, for permission to use certain of their photographs for the illustration of this work.” Anche alcune delle illustrazioni pubblicate in Gustavo Strafforello, La Patria: Geografia dell’Italia: Provincia di Napoli. Milano – Roma – Napoli: Unione Tipografico Editrice, 1896 erano tratte da Fotografie Sommer.

 

Fotografia e tutela del patrimonio architettonico in Valle d’Aosta nella seconda metà dell’Ottocento (2012)

“Bollettino della Soprintendenza per i beni e le attività culturali” [della Regione autonoma Valle d’Aosta], 8 (2011- 2012),  pp. 293-302

 

Scriveva Alfredo d’Andrade al Prefetto di Torino nel 1888: “Avendo bisogno di consultare le fotografie dei monumenti regionali per il servizio del Ministero della Pub[blic]a Istruzione del quale sono delegato […] regionale per i Mon[ument]i del Piemonte e della Liguria occorremi sovente di dover consultare la raccolta delle fotografie di monumenti piemontesi (in deposito presso questa Prefettura) fatte dai fotografi Berra ed Ecclesia per ordine e conto del Ministero predetto. Sarei quindi a pregare la S.V. Ill.ma a volere impartire gli ordini opportuni perché temporaneamente vengano le predette fotografie depositate presso quest’Ufficio, e ciò a mente della circolare N° 776 del M. Istr. P. in data 6 giugno 1885”[1]. Nonostante il puntuale, burocratico richiamo il Prefetto declinò fermamente l’invito poiché, spiegava, “Le fotografie […] fanno parte dell’inventario di questa R[egi]a Prefettura; ed inoltre ogni qualvolta la Commissione Consultiva Conservatrice dei Monumenti d’Arte e d’Antichità lo crede opportuno ne chiede visione, epperciò bisogna che le abbia costantemente a di Lei disposizione. Sono quindi spiacentissimo di non poter corrispondere alla richiesta della S. V. Ill.ma, ma le dichiaro contemporaneamente, che le predette fotografie sono sempre a sua disposizione”[2]. Questa schermaglia, che si risolverà in data non meglio precisata a favore di D’Andrade, come conferma la presenza di alcune di queste stampe negli archivi fotografici dell’Ufficio beni archeologici della Soprintendenza per i beni e le attività culturali di Aosta e della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Torino[3], fornisce indizi ed elementi in merito a due aspetti non secondari della storia della tutela del patrimonio culturale in Valle d’Aosta: il contrasto, neppure troppo velato e a volte aspro, tra la Regia Commissione conservatrice dei monumenti d’arte e di antichità per la Provincia di Torino (insediata nel 1878) e i neonati (1884) Delegati regionali designati dal Ministero e la rilevanza che si attribuiva alla campagna fotografica documentaria promossa nel 1882 dalla Commissione stessa, testimoniando quale fosse l’idea di ‘monumento’ e quindi di patrimonio da conoscere e tutelare espressa dalla cultura torinese e aostana in quegli anni.

Le vedute, di mano di autori stranieri che per le più diverse ragioni avevano attraversato la Valle richiamando per la prima volta l’attenzione sullo stato dei luoghi (Christian Friederich Müller, 1805 circa; James Pattison Cockburn, 1822-1823)[4], offrivano sporadiche e spesso fantasiose rappresentazioni dei soggetti architettonici, col gusto per il pittoresco a forzare la mano, specialmente nelle tavole dedicate a illustrare le guide, in cui prevaleva l’attrazione tutta romantica per gli elementi naturali, orridi o sublimi. Diverso il caso dell’album di Henriette-Ann Fortescue-Hoare[5], 1817, in cui a una raffigurazione convenzionale e pacata degli elementi naturali corrisponde un’attenzione certo inedita per le architetture anche minori, mentre i castelli già illustrati da Cockburn in una forma scenograficamente idealizzata fanno la loro sistematica comparsa;prima vera anticipazione di uno dei topoi dell’immagine e   dell’immaginario valdostano. I monumenti archeologici romani, appena considerati da Müller (Porta Prætoria, ponte di Châtillon) vennero per la prima volta descritti dal barone De Malzen (1826), in una più ampia rassegna dedicata agli Stati di terraferma del Regno di Sardegna[6], illustrati con belle litografie ricavate significativamente dai disegni di un architetto di gusto neoclassico come Giuseppe Talucchi, appena pochi anni prima che prendesse avvio la ricognizione graficamente più approssimativa ma sistematica di Clemente Rovere, che tra 1829 e 1830 percorse la Valle fornendo descrizioni attendibili dello stato dei luoghi, alternando le vedute alpine con quelle di città e paesi (Aosta, Courmayeur, Montjovet, Verrès, Villeneuve, Piccolo e Gran San Bernardo, il Monte Bianco), alcuni resti romani (Arco e Teatro ad Aosta, l’arco a Donnas, Pont d‘Aël, il ponte di Châtillon), pochi monumenti aostani (cattedrale, castello di Bramafam, Torre del Lebbroso), il ponte-acquedotto di Porossan, ma soprattutto moltissimi castelli: Aymavilles, Châtillon, Fénis, Montjovet, Introd, Quart, Sarre, Saint-Denis, Saint-Pierre, Verrès, mentre molti altri (tra cui Issogne e Ussel) inspiegabilmente mancano[7]. L’iconografia della Valle incominciava ad articolarsi definendo la propria immagine eterogenea e complessa e forse non è un caso che questa fosse dovuta a uno sguardo più topografico che erudito, a un’intenzione esplicitamente documentaria, che per questo si apriva a considerare anche il paesaggio alpino e le montagne, tema che ritroveremo ancora segnalato sin dal titolo nella ben nota tavola litografica di Enrico Gonin, Vues principales de la cité et de la Vallée d’Aoste, des eaux minerales et des plus hautes montagnes d’Europe, 1851, con le vedute alpine impaginate quasi a formare  una veduta circolare, posta a coronamento del panorama del capoluogo[8]. È sufficiente scorrere questa breve serie di esempi per rilevare come non compaiano ancora, in quegli anni, autori  valdostani a descrivere e rivendicare il patrimonio artistico quale elemento costituente dell’identità valdostana, ancora in bilico tra romanità centrifuga, in qualche modo extraterritoriale, e Medioevo centripeto, tutto e fortemente locale, tutto aostano, questione resa ancor più complessa da un altro, forte conflitto identitario: quello tra natura e cultura, tra montagne e architetture. “Combien de fois […] murmurai-je  contre les peintres qui, selon moi, perdaient leur temps près des murs délabrés de nos vieilles tours du moyen âge?”[9]  scriveva Georges Carrel circa gli stessi anni presentando il  suo Panorama Boréal de la Becca di Nona (1855), costretto a disegnarlo di propria mano (con l’aiuto della camera obscura) e a fotografarlo dopo il rifiuto opposto da tutti i pittori a cui lo aveva proposto, tra i quali Conrad Zeller[10]  di Zurigo. Carrel si risolse a “prendre le crayon […] sans avoir aucune notion de dessin, et j’esquissai de mon mieux, à l’aide d’un prisme de foyer de 50 centimètres environ et même du daguerréotype, le Panorama de la Becca di Nona, dont je ne publie qu’un tronçon en forme d’essai”. Questa testimonianza risulta fondamentale anche per quel che riguarda  la nascita della fotografia in Valle d’Aosta, sebbene la data in cui Carrel inizia a praticare l’ancora relativamente nuova e sorprendente tecnica del dagherrotipo debba essere anticipata almeno di alcuni anni se nell’edizione del 1853  del romanzo di Xavier de Maistre, Le Lépreux de la Cité d’Aoste, Aosta, Damien Lyboz, curata dallo stesso Carrel, compare una “Tour du Lépreux Daguerréotypée” (siglata G.C.C.A) certamente dovuta al curatore, che già nel 1845  non solo si era fatto acquistare a Torino, dall’amico Louis  Jules Ransis, dei composti chimici certamente necessari per il trattamento delle immagini come il cloruro d’oro e l’iposolfito di sodio, ma aveva realizzato un ritratto al dagherrotipo di Émilie Argentier in tenuta da alpinista, poi appartenuto al figlio Anselme Réan e un altro non meglio specificato “portrait au daguerrotype” di un comune amico del prevosto del Gran San Bernardo, Joseph Deléglise[11]. La bella veduta della Torre del Lebbroso, che per ora conosciamo solo nella versione incisa, potrebbe allora essere la più antica fotografia di un monumento aostano ed è rilevante notare che le motivazioni da cui nacque questo interesse, questa prima eccezionale realizzazione, fossero storico letterarie piuttosto che storico artistiche, a  conferma delle posizioni del canonico.

Si dovrà attendere quasi un ventennio perché fosse affidato alla fotografia il compito quasi sistematico di illustrare i “principali Monumenti antichi” della Valle, seguendo una direttrice geografica che partendo da Pont-Saint-Martin giungeva sino ad Aosta: La vallée d’Aoste monumentale: photographiée et annotée historiquement, che i due avvocati e “amateur photographers J. Riva e P. Meuta” (questo l’ordine con cui firmano l’introduzione, mentre al frontespizio è “Meuta e Riva”), pubblicarono ad Ivrea presso la tipografia Garda nel 1869[12], un bell’album contenente trentuno stampe all’albumina corredate di brevi testi esplicativi da loro stessi redatti, in francese[13], che potrebbe aver avuto come modello editoriale l’analogo Turin ancien et moderne che Henri Le Lieure aveva pubblicato solo due anni prima in un più lussuoso formato, affiancando alle vedute “variati articoli dettati da distinti scrittori”[14].

I monumenti romani rappresentati erano numerosi (Pont-Saint-Martin, Donnas, Châtillon, Liverogne, il Pont d‘Aël e, per Aosta, Arco di Augusto, mura romane, Porta Prætoria, il Teatro), forse risentendo degli studi di Jean-Antoine Gal (Coup-d’œil sur les antiquités du Duché d’Aoste) e di Carlo Promis, Le antichità di Aosta: Augusta Prætoria Salassorum, misurate, disegnate, illustrate da Carlo Promis, entrambi editi nel 1862, ma le presenze medievali erano in assoluto prevalenti, nonostante alcune clamorose e apparentemente ingiustificabili assenze come Sant’Orso e, ancora, Issogne. Risiede nella natura fotografica dell’opera il valore storico documentario di questa impresa, diverso e più attendibile di quanto non potesse essere quello reso possibile dalla sistematica raccolta iconografica del solo, vero e qualificato antecedente: La Vallée d’Aoste che Édouard Aubert aveva pubblicato a Parigi, presso Amyot, nel 1860, dopo quasi un decennio di perlustrazioni e indagini, svolte anche con la collaborazione di Jean-Antoine Gal e specialmente di Georges Carrel[15]. Quelle che compongono l’album sono fotografie di grande interesse, che mostrano una notevole cura compositiva, attenta specialmente a restituire le relazioni spaziali piuttosto che le singole architetture isolate dal contesto, seguendo in questo, e a volte quasi citando proprio le tavole di analogo soggetto pubblicate da Aubert (si confrontino, a puro titolo di esempio, la ripresa di Pont d‘Aël o quella dell’Arco di Augusto, con cui condividono la distanza e il punto di vista). Diversamente dalle incisioni, queste fotografie possiedono come si è detto anche un più stringente valore documentario, poiché descrivono in modo necessariamente, culturalmente più fedele, lo stato dei luoghi negli anni immediatamente successivi all’Unità, vale a dire ben prima che l’interesse erudito per il patrimonio archeologico e architettonico valdostano producesse interventi di restauro della più diversa natura e livello qualitativo. La produzione dei fotografi valdostani (o attivi in Valle) in quel periodo è ancora quasi del tutto sconosciuta, ma risulta difficile credere che la stereoscopia del castello di Verrès realizzata da Julien Vuillier di Courmayeur intorno al 1870 non facesse parte di una serie più ampia di cui oggi si è persa traccia[16], utile anche per comprendere quanto gli studi e le pubblicazioni erudite potessero aver influito su una produzione decisamente commerciale e a basso costo quale era quella delle stereoscopie e, ancor più, delle immagini in formato carte de visite.

Erano gli anni in cui il nuovo stato unitario iniziava a prestare una precisa attenzione alla conoscenza (e in parte alla tutela) del patrimonio architettonico. Il 6 maggio 1870  Cesare Correnti, ministro della Pubblica Istruzione, scriveva ai presidenti delle Accademie di Belle Arti affinché gli fornissero “con sollecitudine una nota particolareggiata di tutti gli edifici pubblici (cioè non appartenenti a privati cittadini) di qualsiasi forma, sacri o profani, esistenti nel distretto di codesta Accademia, i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali”, precisando in una successiva comunicazione, indirizzata alle Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti, di essere “mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa”[17].  A queste lettere di intenti fece seguito il decreto ministeriale del 3 agosto dello stesso anno, a cui il Presidente dell’Accademia Albertina di Torino, conte Marcello Panissera di Veglio rispose dichiarando tutta la disponibilità “ad additare al Governo le opere e gli edifizi più degni di conservazione e di restauro per antichità, per memorie storiche, per interesse artistico che si trovano in Piemonte”, dove il richiamo ai concetti di conservazione e restauro introduceva una importantissima variazione nella gerarchia dei parametri di giudizio, ormai non più meramente conoscitivi ed eruditi. La Commissione, presieduta da Panissera e composta da Francesco ed Enrico Gamba, Bartolomeo ed Andrea Gastaldi, Federico Pastoris, Vittorio Avondo, Carlo Ceppi, Edoardo Arborio Mella e Carlo Felice Biscarra, comunicò l’esito delle proprie indagini alla Giunta di Belle Arti istituita presso il Ministero, Sottocommissione per i Monumenti Nazionali, il successivo 27 aprile 1871; per la Valle d’Aosta, nella selezione operata dal “pittore e antiquario” Avondo, erano indicati solamente la chiesa e la “collegiale” di Sant’Orso, il duomo di Aosta, e i castelli di Fénis, Issogne e Verrès, non considerando quindi alcuna testimonianza di architettura romana, lontana dagli interessi del Commissario a cui era stata assegnata la ricognizione di questo territorio[18].  L’esito di questa campagna nazionale venne pubblicato nel 1875 sotto forma di Elenco dei monumenti nazionali medievali e moderni[19], mentre la parte relativa al Piemonte, ovviamente comprensiva della Valle d’Aosta, venne edita nel 1879 da Carlo Felice Biscarra, col titolo, a quella data un poco fuorviante, di Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte[20]. Frattanto il Ministero aveva emanato il Decreto di istituzione delle Commissioni conservatrici, su modello fiorentino, modificandone nel contempo la giurisdizione, che passava da scala regionale a provinciale, ciò che portò nel triennio 1874-1876 a un incremento di ben ventisette nuovi organismi locali, che vennero ad aggiungersi a quelli già attivati nel 1866, legati da un programma unitario ma nei fatti fortemente differenziati a seconda delle specificità locali.

La Regia Commissione conservatrice dei monumenti d’arte e di antichità per la Provincia di Torino venne istituita il 18 maggio 1876 avendo per membri sette soci della Società di Archeologia[21]  che divenne “organo della commissione conservatrice dei monumenti di Belle Arti e di Antichità”, pubblicando periodicamente nei propri “Atti” i principali argomenti trattati nelle diverse riunioni, presiedute dal Prefetto. Dal 31 ottobre 1878 al 15 luglio 1879 la Commissione tenne quattro sedute; nel corso della prima, oltre a discutere del progetto di restauro dell’ “antico granaio militare di Aosta”, decidendo di attendere una specifica relazione di Promis, venne comunicata “la richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione di avere le fotografie dei monumenti medievali esistenti in questa provincia, e che con la scorta dell’elenco dei monumenti, approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti, volesse la Commissione indicare per ciascuno dei più importanti monumenti le figure d’insieme e i dettagli che meglio valgano a darne una chiara idea”. I membri Biscarra e Fabretti fecero notare come quell’elenco fosse incompleto e opinabile, mancava infatti come si è detto ogni riferimento agli edifici romani e per questo affidarono poi allo stesso Biscarra il compito di “migliorarlo”[22].  Il ricorso alla fotografia nelle campagne di documentazione archeologica non era estraneo all’ambito operativo della Società di Archeologia e Belle Arti (poi SPABA), come risulta dai rendiconti di questi anni, che registrano acquisti da Felice Alman e dai fratelli Bruneri[23], ma l’iniziativa ministeriale costituiva, per sistematicità e chiarezza di impianto, un incommensurabile salto di qualità, ben esplicitato dalle indicazioni contenute nel prosieguo della stessa circolare: “Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30×0,40”[24].  Con questo atto, le cui conseguenze iniziano appena a essere conosciute e studiate, lo stato italiano si poneva sulla scia delle più avanzate iniziative europee, sviluppate a partire dal modello costituito dalla Mission Héliographique promossa dal governo francese nel 1851[25]. Non sono sinora note le ragioni per cui intercorse un così ampio lasso di tempo tra la formulazione della richiesta  ministeriale e la sua attuazione, ma si dovette attendere la seduta del 18 giugno 1881 affinché la Commissione conservatrice deliberasse di “invitare i migliori fotografi ad una specie di concorso. Agli artisti prescelti si associerebbe [sic] un membro della Commissione per assisterli nelle operazioni di rilievo, e per indicare la parte di maggior importanza artistica da riprodurre”[26] e solo nella successiva riunione in data 8 febbraio 1882 la Commissione assegnava a Giovanni Battista Berra e Vittorio Ecclesia “l’incarico di rilevare i monumenti esistenti nella Provincia di Torino”, sottoponendo al Ministero le condizioni del contratto già approvato dalla Commissione stessa, “commettendo all’uno [Berra] i rilievi dei monumenti dei circondari di Torino e di Susa, e all’altro [Ecclesia] quelli dei circondari di Aosta e d’Ivrea, assistiti dai signori Biscarra e [Crescentino] Caselli”[27].

Le ricerche archivistiche sinora condotte non ci hanno purtroppo consentito di reperire l’elenco dei “migliori fotografi” piemontesi invitati al concorso, quindi neppure di ricostruire il dibattito che portò alla scelta dei due professionisti incaricati o alle caratteristiche del loro contratto, ma la scelta finale appare più che motivata in relazione al panorama del periodo. Nonostante la rilevanza del suo operato, risultano ancora sconosciute le ragioni che portarono Giovanni Battista Berra (Chivasso, 1811 o 1817 – Torino, 1894) ad abbandonare una pratica pittorica di discreta qualità (si veda il suo Ritratto di famiglia, 1856)[28]  per dedicarsi compiutamente alla fotografia, così come sono contraddittorie le informazioni relative alle date in cui avrebbe assunto la direzione della Fotografia Subalpina, fondata da Domenico Berra e Leone Mecco nel 1862, studio attivo sin dai primi anni nella documentazione delle opere d’arte, a partire dalle innovative illustrazioni per gli Album della Società Promotrice delle Belle Arti di Torino nel 1868 e oltre, ampiamente celebrate dalla stampa locale: “Il Berra è uno dei più distinti artisti di Torino […] come fotografo poi egli dà al pubblico dei lavori finiti, eleganti, irreprensibili. Speriamo che la fotografia del quadro del Gamba verrà posta in vendita, e non vi sarà amico dell’artista, ammiratore del quadro che non vorrà farne acquisto. La tela ce la pigliano gli stranieri, conserviamone noi la fotografia”[29]. Negli anni successivi la fama del fotografo si consolidava sia per la riconosciuta qualità delle produzioni autonome sia attraverso la realizzazione di importanti commesse, quali alcune riprese per l’album che la Città di Torino presentò all’Esposizione di Vienna del 1873 e il grande album dedicato ai dipinti e alle sculture esposte alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, Torino 1880, di cui strategicamente donò due copie a Umberto I e al Municipio di Torino[30].

Non meno noto e stimato era Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe, 1847-  Asti, 1928), sebbene da alcuni anni, dopo un importante apprendistato e avvio di attività torinesi[31], si fosse trasferito ad Asti dove nel 1878 aveva realizzato un bell’album contenente sedici vedute della città, premiato a Napoli nello stesso anno, mentre subito dopo “riprodusse, sotto la direzione degli ispettori degli scavi e monumenti antichi di Casale ed Asti, alcuni dei più importanti monumenti dei tempi andati […] rappresentati nell’assieme e nelle loro parti più importanti […]. Consta questa raccolta di 39 tavole in dimensioni non comuni (510x 400 mm)”[32]. L’importante documentazione del patrimonio architettonico monferrino, condotta per incarico dei Commissari astigiani dovette costituire la ragione della scelta dei colleghi torinesi, che proprio ad Ecclesia affidarono la parte più consistente del lavoro. La campagna fotografica, certamente avviata ad agosto[33],  venne conclusa entro l’inverno e nella seduta del 18 dicembre 1882 la Commissione conservatrice dei monumenti prese “cognizione delle fotografie dei monumenti esistenti nei Comuni della Provincia, eseguite dai fotografi cav. Battista Berra e Vittorio Ecclesia, lodandone il lavoro”[34], mentre una nota redazionale del periodico “Arte e Storia”, nel numero del maggio successivo, descrive la consistenza di questa serie di “grandi fotografie illustrative delle antichità della provincia di Torino che formano una raccolta specialissima di numero 103 grandi tavole [nel formato 30×40 cm richiesto dal Ministero] splendide per esecuzione e per impostazione di documento storicoartistico. L’egregio Biscarra presentò al Ministero della Pubblica Istruzione tale raccolta che figurerà nella grande esposizione generale italiana di Torino nella sezione di Architettura e desterà certamente vivo interesse negli estimatori delle artistiche antichità”[35].  Ad Ecclesia era stato affidato il compito più impegnativo sia per estensione territoriale dell’area considerata sia per il totale delle riprese commissionate, che per la sola Valle d’Aosta (escludendo quindi Ivrea) assomma a ben sessantatre, relative a diciotto diversi monumenti, prevalentemente aostani (undici)[36] dei quali in alcuni casi secondo una consuetudine comune a tutti gli studi fotografici ottocenteschi sono note anche stampe di dimensioni minori, e quindi più economiche, ricavate da riprese con apparecchi di differente formato poiché la stampa a contatto, allora la sola possibile, non consentiva di ricavare per proiezione, a partire da un unico negativo, quelle stampe di differente grandezza che erano necessarie a soddisfare le diverse esigenze di mercato[37]. Confrontando la campagna di Ecclesia con quella di Meuta e Riva[38] e non considerando per ora la qualità delle immagini, su cui torneremo, risulta evidente quanto fossero diversi gli scopi e di conseguenza le impostazioni. Mentre l’Album del 1869 voleva offrire uno sguardo antologico sulle architetture della Valle, con una scelta ampia e variegata ma dedicando a ciascun monumento una sola immagine, la regia della Commissione conservatrice impose a Ecclesia una selezione più rigida, dalla quale furono esclusi ad esempio i castelli “minori” e l’arco di Donnas, ma una lettura più analitica dei singoli edifici: sei e sette riprese rispettivamente per la cattedrale Santa Maria Assunta[39] e per Sant’Orso; quattro per la Porta Prætoria; dieci per Verrès e addirittura quindici per Issogne, con uno squilibrio certamente dovuto all’influenza sui membri della Commissione di Vittorio Avondo, con cui Ecclesia avrebbe realizzato due anni dopo uno specifico album dedicato al castello[40]. Nonostante questi squilibri il repertorio si presentava ben più ampio e articolato di quello compreso nell’Elenco del 1871, in particolare per la rilevante presenza delle più importanti architetture romane, sulle quali aveva recentemente richiamato l’attenzione il canonico Édouard Bérard, segretario dell’Académie Saint-Anselme, pubblicando il proprio, ricchissimo repertorio nella forma di una lunga lettera ad Ariodante Fabretti, anche allo scopo di “indiquer à S.E. le Ministre de l’Instruction Publique […]les réparations urgentes qu’exigent les antiquités de la vallée [sic] d’Aoste”[41].  Posto che il programma delle riprese, vale a dire l’elenco dei soggetti e dei loro eventuali dettagli venne certamente stabilito dalla Commissione conservatrice e dal membro incaricato di assistere il fotografo, Caselli, il confronto con le immagini comprese nell’album di Meuta e Riva, evidenzia sostanziali differenze di impostazione delle riprese, esaltate anche dall’uso di  lastre di grande formato (317×419 mm) alla gelatina bromuro d’argento. Ecclesia ha adottato punti di vista sempre ravvicinati, riducendo il contesto ai minimi termini per migliorare la leggibilità dell’edificio di volta in volta considerato o per esaltarne la monumentalità, come accade ad esempio nella ripresa scorciata di una porzione del fronte occidentale dell’Arco di Augusto o nella vista assiale dell’arcata del ponte romano di Pont-Saint-Martin, in cui ha adottato efficacemente i modi delle più innovative riprese di manufatti industriali in ferro, come i ponti ferroviari. Anche quando le condizioni ambientali imponevano un identico punto di vista, come per i resti del ponte di Châtillon le differenze, sebbene più sottili, risultano fondamentali: la scelta del momento della giornata, e quindi dell’illuminazione, rende perfettamente leggibili i resti altrimenti in ombra. Nella maggior parte delle riprese le luci quasi zenitali, le ombre sempre morbide, evidenziano i volumi senza celare neppure il minimo dettaglio, come nella migliore pratica e nella già allora consolidata tradizione della fotografia di architettura. Poi su suggerimento dell’architetto si trovava sempre un angolo verticale cui far aderire la stadia, portata dal giovanissimo assistente di Ecclesia che compare in molte di queste immagini, quasi sempre la sola figura ad animare la scena. Posto perfettamente in chiave all’arco, a misurarne direttamente spessore e altezza della spalletta nella ripresa da valle di Pont-Saint-Martin, o in collocazioni meno evidenti ma sempre appropriate, il riferimento metrico venne utilizzato in quasi tutte le riprese, per consentire una prima sommaria restituzione grafica degli edifici fotografati, alcuni dei quali erano proprio in quegli anni oggetto di particolari attenzioni, come la Tour du Pailleron, minacciata addirittura di distruzione, o la Porta Prætoria, di cui la serie documenta indirettamente anche i discussi interventi  in corso, su progetto dell’ing. Chabloz e del canonico Bérard, rispetto ai quali il Ministero aveva già chiesto un parere alla Commissione il 29 maggio 1879 e che saranno poi rimossi da Alfredo d’Andrade nell’ottobre del 1892[42].

 

 

Note

[1] Minuta di lettera, datata 14/11/1888, ASTO, Corte, Fondo D’Andrade, m. 77, Carteggio dell’Ufficio, Fotografie.

[2] Lettera, s.d., ASTO, Corte, Fondo D’Andrade, m. 77, Carteggio dell’Ufficio, Fotografie, f. 2.

[3] Il testo che qui si presenta costituisce l’esito parziale delle ricerche svolte a supporto della campagna di catalogazione dei fototipi storici conservati presso l’Archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Torino, promossa dal Dipartimento Soprintendenza per i beni e le attività culturali dell’Assessorato Istruzione e Cultura della Regione Autonoma Valle d’Aosta.

[4] Il tema della costruzione iconografica dell’identità della Valle d’Aosta è stato diversamente trattato in Valle D’Aosta nelle immagini dei viaggiatori dell’ottocento : collezione della Soprintendenza per i beni culturali della regione autonoma della Valle D’Aosta, catalogo della mostra permanente (Verres), a cura di Aldo Audisio. Torino: Museo nazionale della montagna, 1986; Marco  Cuaz, Valle d’Aosta. Storia di un’immagine: le antichità, le terme, la montagna alle radici del turismo alpino. Roma – Bari,Laterza, 1994; Daria Jorioz, Souvenirs d’ltalie. lconografia del Grand Tour nelle collezioni d’arte della Regione Autonoma Valle d’Aosta, in Memorie del Grand Tour. Viaggio in ltalia nelle fotografie degli archivi Alinari e nelle collezioni d’arte della Regione autonoma Valle d’Aosta, catalogo della mostra (Aosta, MAR, 19 dicembre 2008 – 3 maggio 2009), a cura di Angelo Maggi. Firenze: Alinari, 2008, pp. 14-17; Piero Malvezzi, Viaggiatori inglesi in Valle d’Aosta (1800-1860).  Milano: Ed. di Comunità, 1972; Ada Peyrot, La Valle d’Aosta nei secoli, vedute e piante dal IV al XIX secolo. Torino: Tipografia Torinese editrice, 1972; Ada Peyrot, Piero Malvezzi, Efisio Noussan, Immagini della Valle d’Aosta nei secoli, vedute e piante dal XVI al XIX secolo. Torino: Tipografia Torinese, 1983. Come ha ricordato Malvezzi 1972, p. 16, “La prima letteratura turistica sulla Valle d’Aosta, è letteratura inglese e non valdostana o piemontese.”

[5] Si vedano: Penelope Le Fanu-Hughes, One of your best pupils, Francis Nicholson and the honorable Henrietta-Ann Fortescue, in memory of Piero Malvezzi, “The Old Water-Colour Society Club”, 63 (1994), pp. 51-69; Pierre Tucoo-Chala, Les Pyrénées en 1818 : Dessins  inédits d’Henrietta-Ann Fortescue-Hoare, in Une Anglaise aux Pyrénées : Lady Fortescue, catalogo della mostra (Pau, Musée national du château, février-mars 1996). s.n. Portet-sur-Garonne, 1996; Giuseppe Garimoldi, Daniele Jalla, a cura di, Henrietta Anne Fortescue: viaggio in Valle d’Aosta, settembre dicembre 1817, catalogo della mostra (Forte di Bard, 2006). Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2006.

[6] De Malzen, Monumens d’antiquité romaine dans les états de Sardaigne en terre-ferme par M. le Baron de Malzen, Chevalier de l’Ordre de Malte, Ciambellan [sic] de S. M. le Roi de Bavière, et son Chargé d’affaires à la Cour de Sardaigne. Turin: s.n., 1826. I soggetti valdostani comprendevano tra gli altri il ponte di Pont-Saint-Martin, l’arco di Donnas, il ponte di Saint-Vincent, il Teatro di Aosta e il Pont d’Aël, anticipando l’attenzione per alcuni degli edifici poi studiati con ben altro rigore da Carlo Promis, Le antichità di Aosta: Augusta Prætoria Salassorum, misurate, disegnate, illustrate da Carlo Promis. Torino: Stamperia Reale, 1862.

[7] Cristina Sertorio Lombardi, a cura di, Il Piemonte antico e moderno delineato e descritto da Clemente Rovere. Torino: Reale Mutua, 1978.

[8]  Più convenzionale risulta, in questo senso, la serie litografica di Margherita Cornagliotto edita dai F.lli Doyen nel 1848: 1. Ponte acquedotto romano presso Aymavilles; 2. Castello di Sarre; 3. Castello di Fénis; 4. Castello di Quart; 5. Castello di Saint-Pierre; 6. Castello di Aymavilles; 7. Torre di Bramafam; 8. Acquedotto di Porossan; 9. Veduta generale di Aosta; 10. Cattedrale di Aosta; 11. Teatro romano di Aosta; 12. Ponti di Châtillon, cfr. Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, III, scheda n. 1431.

[9]  George Carrel, Les Alpes Pennines dans un jour, soit, Panorama boréal de la Becca de Nona depuis le Mont-Blanc jusq’au Mont-Rose.  Aoste: Lyboz, 1855, p. 7 passim. Mentre il frontespizio indica un editore aostano, la copertina dell’esemplare consultato presso    la Biblioteca Reale di Torino recita: The Pennine Alps viewed in a day’s journey. Panorama de la Becca de Nona Vallée d’Aoste, dess.ne [sic] d’après nature pendant l’été de 1854. Turin: Lit. F.lli Doyen, 1855, a testimonianza di una doppia edizione, tale da soddisfare la maggior parte dei possibili acquirenti stranieri. Anche il fotografo francese Aimé Civiale avrebbe realizzato un panorama fotografico dalla Becca di Nona circa 10 anni dopo, il 9 luglio 1866, ospite proprio di Carrel, cfr. Carla Fiou, Daria Jorioz, Georges Carrel: Scienza e religione in Valle d’Aosta nell’Ottocento. Aosta:  Le Chateau, 1999, p. 102.

[10] Johann Conrad Zeller (Hirslanden, 1807 Zurigo, 1856) nato da una famiglia di commercianti, dopo aver preso lezioni di disegno da Konrad Gessner, nel 1832 rinunciò alla sua carriera di imprenditore e si trasferì a Roma, dove venne introdotto da Hans Heinrich Keller nella cerchia di Thorvaldsen, Overbeck, Johann Anton Koch e Wolfensberger, per rimanervi sino al 1847, anno del suo ritorno a Zurigo.

[11] Fiou, Jorioz 1999, in particolare il paragrafo Fotografia (pp. 100-103) redatto da Jorioz. Secondo Albert-Marie Careggio, Le clergé valdôtain de 1900 à 1984. Notices biographiques.  Aoste: Imprimerie valdotaine, 1985, p. 45, segnalatomi da Maria Cristina Fazari che qui ringrazio, fu invece un altro religioso, Jean-Pierre Carrel (Valtournenche, 1826 Aosta, 1908), nipote di George, il primo ad utilizzare il dagherrotipo in Valle, ma credo che   tale attribuzione a mio parere errata, anche per ragioni cronologico   biografiche possa derivare dal ricorso a fonti piuttosto tarde, forse i soli necrologi del 1908, che verosimilmente riportavano in modo impreciso eventi ormai lontani più di mezzo secolo.

[12] Il volume ebbe immediata notorietà, tanto da essere compreso già nella bibliografia a corredo della terza edizione di John Ball, A guide to the Western Alps. London: Longmans, Green and Co., 1870. Per una sintetica descrizione dell’album si rimanda a Pietro Fioravanti, Daniela Giordi, ll restauro di una copia del volume fotografico La Vallée d’Aoste monumentale, photographiée et commentée par P. Meuta et J. Riva, edito nel 1869 a lvrea dalla tipografia Garda, “Bollettino della Soprintendenza per i beni e le attività culturali”, 5 (2008 – 2009), pp. 310-315. Un esemplare dell’album e una selezione di immagini (in riproduzione) erano già stati esposti alla mostra tenutasi presso il Museo Archeologico Regionale nel 2008-2009 e pubblicati in Memorie del Grand Tour 2008.

[13] “Tutti i castelli, i ponti, gli acquedotti sono annotati, con alcuni cenni storici altrettanto esatti quanto concisi, e se un neo volessimo trovare in questo lavoro gli è quello di avere scritto le annotazioni in francese, mentre gli autori sono due buoni italiani; ma questo diffettuccio va spiegato come un tributo che essi vollero rendere ai buoni Valdostani descrivendo il loro paese colla lingua da essi parlata.”, Salvatore Olivetti, La Vallée d’Aoste monumentale, photographiée et annotée historiquement, par Riva et Meuta, “Gazzetta Piemontese”, n. 241, lunedì 30 agosto 1869, p. 3.

[14] Redazionale, Torino antico e moderno, “Gazzetta Piemontese”, n. 301, 8 dicembre 1867, p. 2. Per una riedizione del volume si rimanda a Michele Falzone Del Barbarò, a cura di, Henri Le Lieure maestro fotografo dell’Ottocento. Turin ancien et moderne. Milano: Fabbri, 1987.

[15] Peyrot 1972; Fiou, Jorioz 1999, p. 9. Qui si coniugavano per la prima volta paesaggio e storia. Le 90 incisioni pubblicate costituiscono un vero e proprio catalogo illustrato del patrimonio architettonico anche minore (Gressan, Porossan, Gignod, Châtelard, ecc.) oltre a molte vedute di paesi e paesaggi alpini. La presenza di Carrel accanto ad Aubert consentirebbe di formulare ipotesi rispetto al possibile uso della fotografia, del dagherrotipo in particolare, quale fonte intermedia per le incisioni, che il frontespizio dichiara ricavate “d’après les dessins de l’auteur”, sul modello delle parigine Excursions daguerriennes: vues et monuments les plus remarquables du globe (1841-1843) di Noël-Marie Paymal Lerebours e delle Vues d’Italie d’après le Daguerréotype pubblicate a Milano nel 1840-1847 dalla ditta Ferdinando Artaria e Figlio, ma non è questa l’occasione per condurre i necessari approfondimenti.

[16] l fotografi della Valle d’Aosta 1870-1940, catalogo della mostra (Aosta, Tour Fromage, 1986),  a cura di Gianfranco Maccaferri. Aosta: Regione Valle d’Aosta, 1986, p. 48. Di Vuillier è nota anche una veduta della Torre del Lebbroso, 1870 ca, in formato carte de visite, ma sono note anche due stereoscopie, dedicate rispettivamente a Fénis e a Ussel, realizzate circa gli stessi anni da uno dei più importanti studi fotografici europei: Adolphe Braun di Dornach.

[17] Lettere rispettivamente del 6 maggio e del 12 agosto, Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, m. AABA TO599, “Arte in Piemonte”. Salvo diversa indicazione, tutti i documenti di seguito citati sono  compresi in questo fondo.

[18] L’assenza di sistematicità e il prevalere degli interessi dei singoli studiosi connotano tutta la redazione di questo primo elenco di beni.

[19] Elenco dei monumenti nazionali medievali e moderni.  Roma: Forzoni e C. Tipografia del Senato, 1875.

[20] Carlo Felice Biscarra, Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte, “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino”, II, 1878, pp. 255-279; lo scarto tra compilazione e pubblicazione è confermato dai dati relativi a Issogne, che nel testo è ancora indicato di proprietà del “barone di Vautheleret” mentre in nota si registra ormai l’acquisto di Avondo “verso il 1872” (p. 264).

[21] Cfr. “Gazzetta Piemontese”, n. 311, 10 novembre 1876, p. 2. Va quindi corretta l’informazione contenuta in Ariodante  Fabretti, Atti della Società (1879),  “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino”, III, 1879, Torino, 1881, pp. 9-15, che parla di 18 maggio 1878, esito forse di un banale refuso, successivamente accolto dagli studiosi che hanno utilizzato questa fonte. Membri della Commissione erano Nicomede Bianchi, Carlo Felice Biscarra, Gaudenzio Claretta, Ariodante Fabretti, Francesco Gamba, Andrea Gastaldi, Vincenzo Promis ed Ercole Ricotti.

[22] Fabretti 1881, pp. 10-11. I testi pubblicati negli “Atti” e, ancor più, alcuni documenti relativi alle sedute della Società rappresentano fonti  imprescindibili anche per la ricostruzione del vivace dibattito intorno ai restauri aostani.

[23] Archivio della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, m. 58/4, Rendiconti delle spese 1874-1910. Gli acquisti erano fatti da tale Francesco Pianta, che i documenti indicano come aiutante di un non meglio definito “fotografo”, mentre altre fotografie erano realizzate da E.  Mancarelli. L’uso però doveva essere piuttosto saltuario e incerto se ancora nel 1879 Enrico Gamba, discutendo di “pitture murali antiche non conosciute ancora” suggeriva di “mettere in pratica il metodo dei lucidi, da eseguirsi con tutta fedeltà sugli originali, da ridursi poi col mezzo della fotografia in una data proporzione a convenirsi per la pubblicazione, incidersi poscia od eseguirsi in litografia a contorni con massima cura per la riproduzione esatta del carattere dell’originale”; proposta sostenuta anche da Pastoris che citava “ad esempio molti studi visti da lui posti in pratica dal D’Andrade anche per quanto riguarda l’arte ornamentale”, osservazione che getta nuova luce sulla precocità del ruolo svolto da D’Andrade quale modello di riferimento metodologico per un’intera generazione di studiosi piemontesi, cfr. Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, m. AABA TO599, “Arte in Piemonte”, Verbali della Commissione Conservatrice.

[24] Il testo della comunicazione ministeriale, non reperito negli archivi torinesi, è qui citato dalla copia conservata presso l’Archivio di Stato di Lecce, Prefettura, I serie, I vers., b. 44, f. 413. Va sottolineato l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese per decenni a venire tanto che ancora nel 1904 Santoponte dovrà richiamare esplicitamente la necessità metodologica di dotarsi di materiali  altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte [individuando] i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali», Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id., Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni.  7 (1905). Roma: Tip. Della Casa Edit. Italiana, pp. 38-48.

[25] Anne De Mondenard, La Mission héliographique: cinq photographes parcourent la France en 1851. Paris: Monum – Éditions du patrimoine,  2002.

[26] Ariodante Fabretti, Atti della Società (1880-1882), “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino”, 4 (1883), p. 13.

[27] Ibidem.

[28]  In  La borghesia allo specchio: il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Cavour, 26 marzo 27 giugno 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2004, p. 171.

[29] Red., in “Gazzetta Piemontese”, n. 85, 26 marzo 1870, p. 2, corsivo di chi scrive.

[30] Per una prima ricostruzione dell’attività di Berra cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Allemandi,  1990, p. 358, pur con imprecisioni dovute “alla non sempre precisa segnalazione delle guide”. È infatti probabile che il “pittore” di cui parla la Guida Galvagno del 1872 fosse proprio Giovanni Battista, che morì nel 1894 mentre l’attività dello studio (Fotografia Subalpina) sarà proseguita dalle due figlie Celestina Berra Bussolino e Gustava Berra Favale, cui succederanno prima Baratelli e quindi Vittorio Rogliatti, cfr. P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Paolo Venturoli , a cura di, Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898. Torino: Allemandi,  2003, pp. 79-98. Ricordiamo che nel 1880 venne anche esposta una ricca selezione di      opere d’arte decorativa, tra cui alcuni oggetti provenienti dal Tesoro della cattedrale di Aosta, da Sant’Orso e dalla chiesa di San Biagio di Villeneuve, poi pubblicata nella cartella di cento splendide tavole in fototipia L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880. Torino: F.lli Doyen, 1882, senza indicazione dell’autore delle riprese.

[31] Secondo quanto riportato in un foglio pubblicitario molto tardo (1907) Ecclesia avrebbe avuto una prima fase di apprendistato torinese presso Alberto Luigi Vialardi, per divenire quindi, dal 1864, operatore presso l’importante studio di Henri Le Lieure, prima di aprirne uno proprio in società con Rondoni, cfr. Miraglia 1990 p. 379; Pierluigi Manzone, Un repertorio dei fotografi piemontesi 1839-1915, in Id., a cura di, Fotografi e fotografia di provincia. Studi e ricerche sulla fotografia nel Cuneese.  Cuneo: Biblioteca civica di Cuneo – Nerosubianco, 2008, ad vocem.

[32] Giovanni Minoglio, Monumenti archeologici astigiani e casalesi, “Gazzetta Piemontese”, n. 21, 21 gennaio 1880, p. 2.

[33] Il 24 agosto Federico Pastoris, ospite a Issogne, scriveva ad Avondo che Ecclesia aveva eseguito otto foto per il Ministero e quattro per conto suo “e fece bene, perché son certo che a quanti le vedranno piaceranno assai e serviranno a dare del tuo castello un’assai buona idea”, cfr. Sandra  Barberi , a cura di, Il castello di Issogne in Valle d’Aosta. Diciotto secoli di storia e quarant’anni di storicismo.  Torino: Allemandi,  1999, p. 93, n. 111. Le ricognizioni di Ecclesia dovettero incrociarsi con quelle di Carlo Nigra, che operava in preparazione del progetto per il Borgo medievale di Torino; così mentre lui fotografava la facciata e lo scalone di Fénis, Nigra riprendeva lo stesso scalone e la cappella adibita a fienile, non considerata dal primo.

[34] “Gazzetta Piemontese”, n. 2,  2 gennaio 1883, p. 3; cfr. anche Fabretti 1883, p. 16.

[35] Red., Torino Antichità torinesi,  “Arte e Storia”, 2 (1883), maggio, p. 168. Per l’elenco delle opere esposte si rimanda a Esposizione Generale Italiana, Arte contemporanea, Catalogo, 1884, p. 123 passim. Nella stessa occasione, nella cosiddetta casa di Avigliana del Borgo medievale, fu installato un chiosco per la vendita delle fotografie ricordo dell’esposizione, con gabinetto di camera oscura, gestito proprio da Ecclesia.

[36] Si fornisce di seguito l’elenco dei soggetti valdostani realizzati da Ecclesia. Aosta: Anfiteatro, Arco di Augusto, Cattedrale, Collegiata di Sant’Orso, Mura romane, Ponte romano (pont de pierre), Porta Pretoria, Priorato di Sant’Orso, Teatro, Torre di Bramafan, Torre del Pailleron. Aymavilles: Pont d‘Aël. Chatillon: Ponte romano. Fénis: Castello. Issogne: Castello. Pont-Saint-Martin: Ponte romano. Saint-Vincent: Ponte romano, resti. Verrès: Castello.

[37] Quale ulteriore indizio della loro circolazione si segnala che anche delle stampe di maggior formato sono note diverse edizioni, a volte distinte da più o meno significative variazioni del titolo o da altri interventi, verosimilmente realizzate in momenti e per fini diversi. Si vedano a titolo di esempio le due versioni della Tour du Pailleron, di cui quella non virata (e non numerata) presenta una rozza mascheratura in corrispondenza del tetto e dello spigolo nordorientale.

[38] Non può essere considerato in questo confronto l’album di Vittorio Besso, La Valle d’Aosta, 1880 ca, dedicato a Umberto I, conservato presso la Biblioteca Reale di Torino, che contiene solo bellissimi paesaggi prevalentemente alpini (Gressoney, Valtournenche) e tre fotografie di stambecchi e camosci imbalsamati.

[39] Da alcune di queste riprese vennero tratte cartoline ancora all’inizio del ’900: si veda ad esempio quella relativa al portale della cattedrale, edita da Garlanda di Biella, conservata nel Fondo Valle d’Aosta della Soprintendenza torinese.

[40] P. Cavanna, a cura di, Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei-GAM, 2005. Anche in questa occasione emerge la grande attenzione di Avondo per i possibili risvolti commerciali delle proprie iniziative culturali: non può essere casuale la scelta di pubblicare l’album nello stesso anno dell’Esposizione e in particolare della realizzazione del Borgo medievale, del cui gruppo di progetto lo stesso Avondo faceva parte.

[41] Édouard Bérard, Antiquités romaines et du Moyen-Age dans la Vallée d’Aoste, “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti della provincia di Torino”, 3 (1881), pp. 119-120, successivamente aggiornato in Id., Appendice aux antiquités romaines et du Moyen-Age dans la Vallée d’Aoste, “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti della provincia di Torino”, 5 (1887), pp. 130-156.

[42] Si vedano a questo proposito gli “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti della provincia di Torino”, 2 (1879), p. 14 e il resoconto contenuto in ASTO, Corte, Fondo D’Andrade, m. 67.

Esposizioni della fotografia (2011)

in Torino, la città che cambia : fotografie 1880-1930, catalogo della mostra (Torino,  Borgo Medioevale, 9 aprile – 9 ottobre 2011), catalogo a cura di Riccardo Passoni. Cinisello Balsamo : Silvana Editoriale, 2011, pp. 16-21

 

Fu nel 1861, alle soglie di quella che si sarebbe detta l’età del collodio e dell’avvio della grande commercializzazione con l’apertura dei grandi studi, che la fotografia in Italia fece la sua apparizione alla Prima Esposizione Italiana Agraria, Industriale e Artistica di Firenze[1], inaugurata da Vittorio Emanuele II, che fu anche la prima a essere oggetto di documentazione fotografica, realizzata dal fotografo fiorentino Pietro Semplicini, “Fotografista dell’Esposizione Italiana”, per incarico della Commissione Reale presieduta dal principe Eugenio di Savoia Carignano[2]. La committenza è indicativa di quale ormai fosse la consapevolezza dell’efficacia di quello che era a tutti gli effetti uno strumento di comunicazione, sebbene non ancora di massa. Mutavano cosi anche i luoghi di esposizione di queste fotografie di interesse pubblico: non più o non solo le vetrine degli studi o degli editori come Alberto Charvet o Giovanni Battista Maggi, il “boudoir dell’elegante signora, come [le] biblioteche dell’artista e dell’uomo di scienza e d’affari”[3], ma anche e sempre più frequentemente i padiglioni delle Esposizioni, come quella di Dublino del 1865 in cui le fotografie di Alberto Luigi Vialardi dedicate al Canale Cavour vennero presentate montate in cornici dorate[4]. La fotografia si rivelava, qui come nella poco più tarda documentazione del Traforo del Frejus, fotografato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure, come il medium più aderente, più adeguato a celebrare i cantieri pieni di macchine di quelle grandi infrastrutture. Erano ancora anni, di più, decenni, in cui la fotografia alle Esposizioni raccontava altro da sé, utilizzata per la sua novità di immagine a cui non ancora era riconosciuta una possibile dignità di opera. Si pensi alla cartella di cento splendide tavole in fototipia L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880, pubblicata dai Fratelli Doyen nel 1882, in cui le fotografie, di autore non identificato, riproponevano quella disposizione degli oggetti fatta come nella casa di un uomo di gusto, che tanto aveva affascinato Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux-Arts”: “Quand on entre, on est touché par une sorte d’harmonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les ceuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite”[5], essendo esposte (e poi fotografate: difficile immaginare un allestimento apposito per le riprese) in modo sistematico per prodotti (maioliche e porcellane, mobilio, oreficerie, stoffe) e per tipologie, secondo modalità che non paiono estranee alla presenza di Vittorio Avondo trai membri del comitato predisposto alla pubblicazione. Anche la Fotografia Subalpina di Giovanni Battista Berra realizzò per l’occasione un’ampia documentazione dei dipinti e delle sculture esposte, poi raccolta in album e donata “A S.M. Umberto I / che più di tutti / ama la grandezza / della Patria”, e al Municipio di Torino[6]. Altre fotografie di Berra, accanto a quelle realizzate da Giuseppe Vanetti, tutte relative allo stato di fatto prima e dopo gli interventi di restauro del castello di Rivara, furono presentate da Alfredo d’Andrade nella sezione di Architettura della stessa esposizione, con un intento documentaristico che non può non richiamare alla memoria le indicazioni metodologiche di Viollet-le-Duc.
Avondo e D’Andrade, cioè l’invenzione del Borgo Medievale per l’Esposizione Generale Italiana del 1884. Questo monumento nuovo, esito di un progetto conoscitivo lungo un biennio, che vide tra le altre la collaborazione di Carlo Nigra per la documentazione fotografica preliminare, costituì il punto nodale della formazione della consapevolezza culturale del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano. Nell’idea che lo sosteneva, in una pratica che si voleva filologica nonostante il procedimento di assemblaggio necessario alla realizzazione di una “copia” che si pretendeva oggettiva, riconosciamo il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, favorita e quasi indotta dall’enorme diffusione della fotografia. Il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, una stereoscopia improvvisamente vivibile che riesce a dare concretezza di materia alla raffigurazione di un soggetto inesistente in quella forma. Un’idea felicissima, una novità assoluta che con un buon secolo di anticipo proiettava lo spettatore nella condizione postmoderna della società del simulacro, poiché “la compiuta finzione aiuta la fantasia […]. Ora l’uomo è cosi fatto, che si sente suscitare dentro più spiriti estetici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effettivo”[7]. In perfetta sintonia con questo principio di spettacolarizzazione anche il Club Alpino Italiano aveva realizzato un Villaggio alpino, posto accanto alla Tenda di caccia di S.M. Vittorio Emanuele II, in cui erano ospitati i materiali della Stazione Alpina, primo nucleo del futuro Museo della Montagna[8]. A Vittorio Ecclesia, che aveva incontrato Avondo a Issogne[9] nel 1882, venne affidato il ruolo di fotografo di scena dello spettacolo del Borgo, ma risultava presente anche nella Sezione Belle Arti / Fotografie Architettoniche con altri tredici fotografi, tra i quali lo stesso Berra, con cui aveva condiviso la campagna documentaria prodotta dalla Commissione conservatrice dei monumenti nel 1882, e Federico Castellani che aveva condotto analoghe ricognizioni nell’Alessandrino. Oltre ad alcune belle vedute del Santuario di Crea, Ecclesia presentava proprio le immagini animate del Borgo in un piacevole giuoco di rimandi e rispecchiamenti che corrispondeva però anche a precisi accordi commerciali: nel bell’album realizzato e prodotto da Giovanni Battista Maggi[10], il Borgo Medievale, che pure apre la sequenza di immagini, è sempre visto da lontano e dall’esterno, sebbene la sua presenza fosse inevitabile e segnasse l’orizzonte di molte riprese. Ma di più non era concesso fare poiché era Ecclesia a detenere la privativa sulle immagini di quegli edifici, di quelle strade animate da personaggi in costume ‘d’epoca’, secondo un gusto per la giocosa messa in scena che costituiva la cifra riconoscibile del gruppo di amici che si riuniva intorno ad Avondo a Issogne. Dalla sezione dedicata alle fotografie di architettura prese avvio il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[11],  realizzata dal Collegio torinese, che in occasione del successivo VI Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani di Venezia, nel 1887, presentò il catalogo del Museo Regionale di Architettura, ospitato in una sala del Borgo Medievale, costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano disposte “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia”[12].

Questa realizzazione rappresentò il precedente necessario della Prima Esposizione Italiana di Architettura, promossa dalla relativa Sezione del Circolo degli Artisti e inaugurata nel febbraio del 1890, in cui vennero esposti oltre diecimila disegni, ma anche numerose fotografie: “Ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!”[13]. Accanto alla documentazione di nuovi edifici compariva in modo sempre più sistematico quella dei cantieri di restauro (dall’arco di Augusto a Susa, ripreso da Secondo Pia, a San Marco a Venezia), cui si affiancavano i repertori di storia dell’architettura frutto delle campagne documentarie di Pia, Ecclesia, Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet, assenti gli Alinari, mentre Annibale Cominetti, giornalista e fotografo dilettante, futuro direttore de “La Fotografia Artistica”, presentava immagini di edifici spagnoli.

Con il diffondersi dei nuovi materiali sensibili alla gelatina bromuro d’argento, carte per la stampa ma specialmente lastre e pellicole di produzione industriale, la pratica fotografica si apriva al variegato universo dei dilettanti di rango, determinando un atteggiamento diverso e inedito, caratterizzato dall’emergere di una volontà di ricerca che coniugava tecnica e intenzione espressiva, in cui era possibile pensare e mostrare la fotografia in quanto immagine e – attraverso di questa – l’autore. Fu questo cambio di paradigma che consenti di pensare alle esposizioni di fotografia, magari limitandosi dapprima prudentemente a un ambito circoscritto, quale ad esempio, in area piemontese e torinese in particolare, quello della montagna, anche per la determinante influenza del CAI e di molti dei suoi membri più autorevoli, non a caso magistrali fotografi di fama internazionale come Vittorio Sella e Guido Rey. Cosi nel 1893 questo sodalizio organizzò la sua prima Esposizione Fotografica Alpina nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti, con la partecipazione tra gli altri del musicista Leone Sinigaglia, con una serie dedicata a Villaggi e montagne della Val d’Ala, mentre alla successiva Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dall’Associazione Universitaria Torinese nel 1895, parteciparono L[uigi?] Belli, Luigi Primoli, Rey, Giulio Roussette, Sella, Emanuele Elia Treves. Oltre a questi si segnalarono Giovanni Varale di Biella “con gli impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, Alberto Durio con un “album contenente le magnifiche riproduzioni degli affreschi di Gaudenzio Ferrari, che resero famosa la chiesa delle Grazie a Varallo Sesia” e Federico Peliti, con una serie di 150 fotografie di grande formato intitolata 28 anni nell’India Inglese[14].

1898. Cinquantenario dello Statuto albertino: Torino rivendicava il ruolo svolto nel difficile processo di unificazione celebrando le proprie glorie recenti, ormai passate, e lo fece utilizzando ancora una volta la forma moderna per eccellenza delle Esposizioni, ma scegliendo con grande accortezza di affiancare Arte Industriale e Arte Sacra. Fu in questo contesto che la fotografia assunse inaspettatamente le caratteristiche di un evento di rilevanza internazionale, con la ripresa della Sindone effettuata in Duomo da Secondo Pia, che rivelò la natura di “negativo” del Sacro Lino e diede origine a una serie infinita di polemiche e contestazioni, che coinvolsero a diverso titolo tanto la comunità religiosa quanto quella scientifica. L’enorme flusso di visitatori atteso per le due Esposizioni portava nuovamente Torino al centro della scena nazionale e costituiva per molti, fotografi compresi, un’importante occasione commerciale. Cosi Brogi pubblicò una nuova edizione del proprio album di vedute di Torino e gli Alinari inviarono in città il loro miglior operatore, Mario Sansoni, che ebbe tra le proprie inevitabili mete anche i padiglioni espositivi. Sul versante più squisitamente tecnologico i fratelli Lumière colsero l’occasione per presentare i risultati delle loro prove di *fotocromosgrafia indiretta […] ed è ad un mazzo di leggiadrissimi lillà. stavo per dire fragranti, che affida[rono] sicuri la divulgazione della loro scoperta[15]. Anche per le istituzioni l’Esposizione costituiva un’occasione preziosa per rendere note le proprie attività e collezioni attraverso fotografia: cosi fu per i tre volumi de l’Armeria Antica e Moderna di SM. il Re d’Italia /in Torino, con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, pubblicati a Milano dall’Eliotipia Calzolari e Ferrario, che dovevano essere pronti per “l’epoca dell’apertura della Esposizione Nazionale indetta pel 1898 in Torino”[16], mentre l’analogo progetto voluto da Avondo per la Sezione di Arte antica del Museo Civico avrebbe visto la luce solo la vigilia di Natale del 1904. Anche il Comitato per la Mostra Medievale Pugliese, che aveva presentato dei calchi tratti da “monumenti di arte classica antica dei periodi Angioino, Svevo e Normanno”, aveva celebrato quel l’iniziativa con l’album Nella Terra di Bari. Ricordi di arte medioevale, con 127 illustrazioni in zincotipia ricavare da fotografie di Romualdo Moscioni e di Nicola de Mattia, mentre i fratelli Antonelli, di Bari, furono premiati con medaglia di bronzo “per ritratti e fotografie di monumenti con luce artificiale”[17].  La zincotipia costituiva allora la grande novità dell’editoria, consentendo la stampa tipografica congiunta di immagini e testo, tecnica immediatamente adottata da Roux Frassati e C., editori del giornale del l’Esposizione, illustrato dalle fotografie del “cav. Remo Lovazzano, uno dei migliori fotografi torinesi […] Orbene, di queste fotografie il cav. Lovazzano pensò di fare una raccolta completa e di offrirle in omaggio al Re quale ricordo fedele della grande Mostra […]. Le fotografie sono state riunite in un magnifico album in cuoio giallo con fregi in argento cesellato e sguardie in raso bianco marezzato, opera veramente ricca ed artistica dello stabilimento Vezzosi. Un’epigrafe dettata dall’avvocato Bona dichiara il pensiero di omaggio e di ricordo con cui il cav. Lovazzano offre al Re questa raccolta, che forma una vera opera d’arte, poiché arte è ormai altresì la fotografia. L’album sarà tra breve presentato al Re. Una consimile raccolta il cav. Lovazzano ha altresì offerto all’on. Villa, presidente dell’Esposizione”[18], Anche Mario Gabinio[19] si era cimentato con le architetture effimere dei padiglioni, con un ampio lavoro (89 stampe raccolte in album), realizzato forse su sollecitazione dell’amico Mario Ceradini, progettista del chiosco della ditta  Sangemini, che mostra quale fosse ormai il livello raggiunto da questo oscuro grande fotografo, assente anche al Primo Congresso Fotografico che si tenne in città in quell’occasione[20]. Nonostante la rilevanza dell’evento, il trattamento riservato alla sezione fotografica dell’Esposizione risultò pessimo[21] e venne aspramente stigmatizzato da Carlo Brogi: “La fotografia figura meschinamente, e non da di sé, del suo sviluppo raggiunto nel nostro paese, che un’idea molto lontana dalla realtà […] non è considerata né classificata con criteri razionali. E ciò avviene per quell’erroneo concetto in forza del quale si vuole disconoscere in essa qualunque carattere d’arte, per ritenerla semplicemente un processo meccanico di riproduzione del vero […). Ricordo che a Bologna nell’Esposizione del 1888, si aveva fatto ancora peggio, confinando la fotografia con le carni insaccate […). Ma che dire di più, quando si vede che neppure i fotografi di Torino hanno preso parte alla festa che si faceva in casa propria”[22].

Anche Enrico Thovez, analogamente a quanto aveva fatto Biscarra nel 1870[23], colse l’occasione per celebrare le glorie della riproducibilità fotomeccanica delle immagini: “Grazie alla fotoincisione una rivoluzione si è operata nell’aspetto di molte pubblicazioni. Giornali e riviste di ingegneria e di meccanica (sopratutto americane ed inglesi) diventano piacevoli a sfogliare come albums pittoreschi, grazie alla bellezza delle vedute di officine, di cantieri, di docks, di ferrovie, non più schematizzate secondo un’intenzione dimostrativa, ma colte nella realtà viva, colla poesia delle luci e delle ombre, delle nuvole di fumo e di vapore, della folla che le popola”[24]. La nuova tecnologia gli consentiva anche di formulare il progetto di “pubblicare questa ricchezza {del nostro patrimonio artistico), e pubblicarla a buon prezzo, senza scrupoli di perfezione, popolarmente, a dispense, con riproduzioni fotoincise rigorosamente fedeli, magari senza testo, come fanno spesso i Tedeschi, perché la coltura più necessaria e fondamentale, per ora, è quella visiva, empirica, formale […]. La Pinacoteca è stata recentemente fotografata dal Brogi e dall’Anderson; non basta; bisogna pubblicarne un catalogo con buone riproduzioni fotografiche, in modo che tutti, conterranei e forestieri, ne conservino un ricordo completo e un invito a tornarvi, non bisogna lasciare questo godimento estetico soltanto alle serve e ai soldati. E un uguale programma attende il Museo Civico d’arte moderna”[25].

La fotografia e le fotografie erano ormai parte dello scenario quotidiano. Le brevi di cronaca ne segnalavano con sempre maggiore frequenza la presenza: a corredo delle prime patenti automobilistiche, sciolte, nei portafogli, nei ciondoli, per non dire di quelle utilizzate in ambito scientifico, giudiziario o per foschi ricatti a sfondo sessuale, mentre in altre pagine degli stessi quotidiani, non ancora illustrate con fotografie”[26], grande successo riscuoteva il tema della fotografia spiritica, e la divulgazione di argomenti quali la telefotografia e la cronofotografia, descritte da Oreste Pasquarelli sulle pagine de “La Stampa” nella rubrica “Scienza popolare”. “La fotografia non è più, come era nel suo inizio, un soprappiù, una curiosità scientifica, un capriccio della moda; essa è oggidì una necessità della vita pel largo contributo e per la validissima cooperazione sua alla scienza, alla storia, all’arte. I suoi stessi progressi, gli studi cui è fatta scopo da illustri ingegni, le sue infinite e variatissime applicazioni bastano a mettere in evidenza la grandissima importanza che ha la fotografia ai giorni nostri, importanza che, lungi dal diminuire, aumenterà sempre. È adunque logico, giusto, naturalissimo che le Mostre fotografiche si facciano più frequenti e crescano ogni volta più di valore e di importanza”[27]. In questo clima di rinnovata attenzione si aprì nel febbraio del 1900 la I Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dalla neonata (1899) Società Fotografica Subalpina, per la cura di Edoardo di Sambuy, ospitata nella sede di via della Zecca 25 in “cinque grandi sale, le cui pareti sono addirittura coperte di fotografie, il cui numero è tale che si dovette ricorrere anche a speciali vetrine, discoste dalle pareti […]. Fra i numerosi concorrenti professionisti e dilettanti sono notevoli le mostre del Foto-Club di Parigi, e di altri stranieri; quella collettiva degli Escursionisti, quella dell’Istituto geografico militare di Firenze e quella del Genio Militare. Una delle sale, elegantemente addobbata, è destinata alle signore promotrici”[28]. Particolare attenzione suscitarono le opere di Constant Puyo e Robert Demachy, di cui si apprezzava l’estremo pittorialismo, pur preferendo ancora, in fondo, il neoclassicismo dei tableau vivant di Guido Rey, “innamorato della grazia greco-pompejana e della grazia ché presiedeva al gusto del secolo scorso”. Tra i membri dell’Unione Escursionisti si segnalava perla prima volta Mario Gabinio, che con la serie dedicata a Torino che scompare si aggiudicava il premio bandito dal Comune di Torino per la “collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”[29]; lavoro molto apprezzato da Riccardo Brayda e dallo stesso di Sambuy che elogiandone gli esiti in occasione del banchetto conclusivo del’ l’Esposizione, formulava l’idea della costituzione di un archivio fotografico. Fu ancora di Sambuy a promuovere e poi a coordinare l’Esposizione internazionale di fotografia artistica che ebbe luogo nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa Moderna del 1902, allo scopo di far conoscere i migliori esiti delle nuove tendenze, mostrando “accanto alle opere già ben note in Torino dei membri del Photo-Club di Parigi […] quelle di Tedeschi, Fiamminghi, Svedesi, Inglesi, Americani, fors’anche dei lontani Giapponesi ed Australiani […] Benvenuta adunque l’Esponzione di fotografie inspirate unicamente ad intenti artistici, poiché contribuirà, con quella d’Arte Decorativa Moderna, a scuotere l’indifferenza del pubblico ed a persuaderlo che una coltura artistica largamente diffusa è indispensabile ai giorni nostri come fatto di moderno democratico incivilimento, e quale apportatrice di maggior benessere sociale”[30]. Le diverse nazioni presentarono i loro autori (qui ormai la parola assumeva il suo senso più proprio, e pieno) più significativi”[31]. Per l’Italia, solo per fare qualche nome, Francesco Negri con una serie di belle tricromie; le scene di Rey, i paesaggi di Cesare Schiaparelli, Vittorio Sella con stampe virate in doppio tono relative al Caucaso georgiano, gli intensi ritratti degli amici artisti di Giacomo Grosso”[32]. Un’occasione cruciale per la cultura fotografica italiana e torinese in particolare, portata a misurarsi con più di 1.300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, ma l’opinione comune doveva essere diversa se la segnalazione contenuta nella rubrica “Gli Spettacoli d’Oggi” de “La Stampa” indicava semplicemente: “Esposizione d’Arte Decorativa Moderna al Valentino con annessa Mostra di fotografia artistica, vini e olii”.

La pubblicazione nel dicembre del 1904, per iniziativa di Annibale Cominetti, de “La Fotografia Artistica”[33] fu certo tra gli esiti più significativi di quell’evento. Una “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33 x 24), redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni nel testo e tavole fuori testo realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa fotografica al bromuro, alle fotoincisioni, alla similgravure), che ha rappresentato nei primi due decenni del secolo, sino alla chiusura nel 1917, l’espressione più rilevante della fotografia italiana, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la scena internazionale (artistica e tecnica: si pensi alla costante attenzione per gli sviluppi della fotografia a colori), ma anche più in generale con la cultura artistica e pittorica nazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” cui tendeva tutto il movimento pittorialista, qui richiamato sin dal titolo e che costituiva il punto di riferimento, magari incerto, dei membri dei numerosi sodalizi fotografici aperti in quegli anni a Torino, come il Club d’Arte, fondato nel 1906, che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi. Non meno rilevante fu il ruolo svolto dal periodico nell’organizzazione di alcune importanti iniziative quali, nel 1907, l’Esposizione internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, organizzata in poco più di un mese, ma avvalendosi del sostegno di tutte le principali personalità della scena fotografica torinese e italiana oltre a un comitato d’onore con importanti presenze internazionali quali il fotografo Alfred Horsley Hinton, tra i fondatori di The Linked Ring Brotherhood; lo storico della fotografia Josef Maria Eder e il fisico Gabriel Lippmann, che l’anno precedente aveva ricevuto il premio Nobel per le sue ricerche sul metodo interferenziale di fotografia a colori. Questa IV Esposizione nazionale generale di fotografia e internazionale per materiale fotografico non ebbe pero il successo sperato. Poco soddisfacente la sezione artistica, nella quale “la ‘maniera nera”, l’abusare cioè di toni bassi e di sfumature confuse ingenera monotonia: rari sono i motivi di paese e di figure che riescano a vera bellezza d’arte, e si lamenta sopratutto il costume dei ritocchi di cieli e delle illogiche aggiunte di pennellate di colore che nonché giovare, rovinano in bontà delle fotografie […] Uno dei rami che appaiono in decadenza è quello delle scene composte: siamo lontani dai saggi di anni addietro del Rey, del Puyo, del Demacky […] L’evocazione storica per mezzo della fotografia è cosa di una delicatezza spaventosa: se non è fatta con tutta severità, può facilmente cadere nel puerile “[34]. Poche furono anche le Case produttrici di apparecchi fotografici e di carte sensibili, e l’interesse maggiore venne suscitato non tanto dai saggi di tricromia offerti dalle due ditte milanesi Alfieri e Lacroix e Unione Zincografi, quanto dalla presentazione ufficiale per l’Italia del nuovo processo a colori dell’autocromia, messo a punto dai Fratelli Lumiere nel 1904,  affidata al Segretario dell’Accademia dei Lincei Ernesto Mancini[35]. Il dibattito che ne seguì sulle pagine dei più importanti periodici internazionali, condusse alla progressiva definizione di una vera e propria estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico con il pittorialismo, si misurava e provava a fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche ed espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico.

Nonostante le perplessità derivanti dal confronto con altre grandi, recenti iniziative italiane e straniere, così come contro la convinzione sempre più diffusa “che le grandi esposizioni generali abbiano fatto il loro tempo”, la volontà “di consacrare il cinquantenario dell’affermazione unitaria con un quadro completo del progresso economico della patria risorta attirò il concorso entusiastico di tutte le forze vive della nazione”[36]  e rese possibile la realizzazione nel 1911 della grande Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro. Il Concorso Internazionale e la Mostra Fotografica realizzati per l’occasione videro circa “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti”[37], a cui si aggiunse l’esposizione di fotografia alpina prodotta nella stessa occasione dal Club Alpino ltaliano, curata da Guido Rey”[38] e ospitata ancora una volta in un “villaggio alpino” dislocato lungo le mulattiere che solcavano le lievi balze del Parco del Valentino, in un pastiche folklorico con qualche pretesa etnografica. Nell’edificio che fungeva da alberghetto “una scaletta di legno ci invita. Si entra e ci si trova in una sala che per verità è raro trovare in un villaggio alpino [dove] l’attrattiva maggiore sono le stupende diapositive del Sella che fanno ufficio di vetri alle finestrelle e i panorami del Karakorum o le altre fotografie di questo principe dei fotografi illustranti i campi d’azione del Duca [degli Abruzzi]”[39].

I resoconti descrivevano un panorama certo più soddisfacente di quello offerto dall’occasione del 1907, confermando come la fotografia fosse ormai considerata “non più una pratica di puro sperimentalismo, sibbene un’arte, alla cui esplicazione concorrono molti elementi di gusto personale, di perspicacia e di abilità schiettamente individuali”; in particolare “la fotografia a colori è ampiamente rappresentata in questa mostra; ed è doveroso notare che il suo progresso è stato grandissimo da quando fece, pochissimi anni fa, la sua prima apparizione […] però è ancora molto spesso lecito osservare che si tratta, sì, di fotografia a colori, ma non sempre precisamente di fotografia del colore: distinzione che non è punto sottile, e che giova fare per intenderci su come vadano meglio considerate queste prove”. Tra i partecipanti il recensore segnalava “certe interessanti fotografie esotiche del conte Luigi Primoli” e “alcune prove di Bricarelli, tra cui una bellissima, che pare un quadretto fontanesiano: una squallida campagna autunnale su cui, contro un cielo nubiloso, si levano due file oscure di pioppi: indovinatissimo è il color giallo che il Bricarelli ha scelto per questa fotografia”[40]. Era questa la prima segnalazione di chi negli anni successivi avrebbe segnato con la propria attività di fotografo, critico, editore e animatore del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica tutto il periodo compreso tra le due guerre mondiali, aprendo la cultura fotografica torinese e italiana alle suggestioni della nuova visione.

 

Note

[1] Per dare un’idea della scarsa rilevanza del settore ricordiamo che su circa 4.000 espositori solo 48 appartenevano alla sezione fotografica (Classe X – Sezione V), cioè poco più dell’1%. Per il Piemonte erano presenti Giuseppe Venanzio Sella e Francesco Maria Chiapella.

[2] Un esemplare dell’album di Pietro Semplicini, Esposizione italiana 1861, è conservato presso la Biblioteca Reale di Torino.

[3] “Gazzetta Piemontese”, 31 maggio 1869, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta:  Musumeci, 1980, p. 365.

[4] Archivio Storico dei Canali Cavour, Novara, Regi Canali, Libro Mastro A, f. 170, 27 aprile 1865.

[5] Citato in Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Vittorio Avondo (1836-1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro, atti del convegno (Torino, Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 27 ottobre 1995), a cura di Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli.  “Atti SPABA”, Nuova Serie, vol. IV. Torino 1997, pp. 49-60 (53).

[6] Le due copie dell’album Ricordo della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, ciascuna costituita da cinquanta albumine, sono conservate presso la Biblioteca Reale di Torino e la Biblioteca della Fondazione Torino Musei.

[7] Camillo Boito, Il Castello medioevale all’Esposizione di  Torino, citato in P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architetturain Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale e Palazzo Madama, 27 giugno – 27 settembre 1981), a cura di  Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi,  pp. 107-125.

[8] “Cfr. I villaggi alpini. Le identità nazionali alle grandi esposizioni, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 25 febbraio – 20 novembre 2011), a cura di Alessandro Pastore.  Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 2011. Tra i materiali esposti in quell’occasione anche un album fotografico con immagini, tra gli altri, di Pietro Bruneri, Francesco Casanova e Paolo Palestrino.

[9] P. Cavanna (a cura di), Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005.

[10] I padiglioni fotografati da Maggi costituiscono l’indispensabile termine di confronto per l’album di 121 tavole di progetto di tutti gli edifici realizzati sotto la sua direzione che Camillo Riccio offri al Collegio degli architetti, oggi conservato al Circolo degli Artisti, cfr. Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura.  Torino: Celid,  1999, P. 56.

[11] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[12] Ibidem. Tra i donatori di documenti e opere vi furono Brayda, Casana, Ceppi, Ferrante, Gelati, Tonta ma anche Berra ed Ecclesia (Volpiano 1999, p.120). Mario Ceradini ricorderà nel 1890 che “il collegio [degli architetti] trasse vita oscura […] continuando ad arricchire il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, in Id., L’architettura italiana alla prima esposizione d’architettura in Torino. Torino: Carlo Clausen, 1890, p. 3.

[13] Giovanni Sacheri, citato in Volpiano 1999., p. 99; già alcuni anni prima (1883) Sacheri si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32), concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[14] “Gazzetta del Popolo della Domenica”, n. 50, 15 dicembre 1895, p. 399.

[15] Michelangelo Scavia, La fotografia dei colori,  “La Stampa”, venerdì 26 agosto 1898, n. 236, pp. 1-2. La ricostruzione del contesto in cui si è sviluppata la pratica e il dibattito intorno alla fotografia nel periodo di tempo qui considerato si è avvalsa quale fonte importante delle annate storiche del quotidiano “La Stampa”, ora consultabili in rete all’indirizzo http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_frontpage/Itemid,1/  (09 01 2023).

[16] P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 18371898, catalogo della mostra (Torino, Armeria Reale, 15 ottobre 2003 – 11 gennaio 2004), a cura di Paolo Venturoli.  Torino: Allemandi,  2003, pp. 79-98.

[17] Clara Gelao, Tra calchi e monumenti. A cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, in Castelli e cattedrali di Puglia a cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, catalogo della mostra (Bari, 13 luglio – 31 ottobre 1999), a cura di C. Gelao, Gian Marco Jacobitti.  Bari:  Consorzio Idria – M. Adda, 1999, pp. 33-47.

[18] Cronaca, “La Stampa”, 29 gennaio 1899, n.29, p. 3.

[19] L’Album di Gabinio intitolato Esposizione 1898 contiene anche riprese realizzate dal pallone frenato di Godard, collocato nel recinto dell’Esposizione. Una serie analoga venne realizzata nella stessa occasione da Edoardo di Sambuy dopo che lo stesso Godard gli ebbe negato l’autorizzazione a fotografare la città durante il volo su Torino compiuto il 6 giugno, cfr. “L’Esposizione Nazionale del 1898”, n. 14, p, 105.

[20] Atti del primo Congresso fotografico Nazionale in Torino, ottobre 1898. Torino: Tip, Roux, Frassati e C.,1899.

[21] “Poco favore aveva incontrato a Torino nello scorso anno la sezione fotografica dell’Esposizione Generale. Pessimo era il locale e disadatto, e dai rari visitatori non era avvertito quanto di buono vi era esposto. Alla fotografia italiana toccava una rivincita, e se l’ebbe, adesso in Firenze”, Edoardo di Sambuy, L’Esposizione fotografica a Firenze, “La Stampa”, 14 giugno 1899, n. 163, p. 2.

[22] Carlo Brogi, La fotografia all’Esposizione, in “L’Arte all’Esposizione del 1898”, nn. 31-32, pp. 252-254, mentre altri osservavano “con grande sorpresa e vivo rincrescimento che nella presente Esposizione Generale la fotografia alpina figura con ben poca cosa: troppo poca; e neppure si può dirne tutto il bene che si vorrebbe”, L. Stanghelloni, Per la fotografia alpina, “La Stampa – Gazzetta Piemontese”, 27 ottobre 1898, n. 298, pp. 1-2.

[23] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica. Stabilimento Le Lieure in Torino,  “L’Arte in Italia”, IV, 1870, p. 58.

[24] Enrico Thovez, Poesia fotografica, “La Stampa”, 3 giugno 1898, n. 152, ripreso dal n. 9 de “L’Arte all’Esposizione del 1898”.

[25] Enrico Thovez, L’ideale di Torino,  “La Stampa”, 2 gennaio 1899, n.2, p.1.

[26] L’illustrazione fotografica fece la sua prima apparizione nelle pagine de “La Stampa” solo nel 1907, e non a caso in una pubblicità. Il ritratto della signorina Panni Dianira, sarta, di San Costanzo Cerasa, provincia di Pesaro, era corredato dalla seguente, orgogliosa e privatissima dichiarazione: “Ero anemica. Le Pillole Pink mi hanno resa la salute”, “La Stampa”, 4 giugno 1907, n. 153, p.4.

[27] Redazionale,  “La Stampa”, 26 dicembre 1899, n. 357, p.3.

[28] Arti e Scienze, “La Stampa”, 10 febbraio 1900, n. 41, p. 3.

[29] Citato in P. Cavanna, Mario Gabinio, vita attraverso le immagini, in Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, GAM, 28 novembre 1996 – 16 febbraio 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo  Costantini.  Torino: Allemandi,  1996, pp.7-35 (p.10).

[30] Edoardo di Sambuy, La fotografia artistica, “La Stampa”, 28 novembre 1901, n. 330, p. 1.

[31] Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, , catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci.  Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179.

[32] Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 22 novembre 1990-17 febbraio 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini.  Milano: Fabbri,  1990, pp. 21-24. I suoi ritratti di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi furono tanto apprezzati da Schiaparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909,I parte, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nello studio di Grosso, sottolineando quanto il pittore seguisse “la via tracciata dall’artista che lui ama cosi profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno”, Enrico Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, ed., Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London 1905, pp. 1.3-1.8. Risulta difficile accostare queste prove di grande qualità agli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino a suo tempo pubblicati da Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911.  Torino: Allemandi, 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute.

[33] Cfr. Paolo Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri,  1990.

[34] Cronaca, “La Stampa”, 17 gennaio 1907, n. 17, p. 3. L’Esposizione vide la partecipazione di 391 autori provenienti da sedici paesi diversi, in particolare Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania.

[35] Il testo della conferenza, La photographie aux plaques autochromes des Frères Lumière, venne pubblicato integralmente ne “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n.8, agosto, pp. 122-128.

[36] La chiusura dell’Esposizione. Quasi duecentocinquanta mila visitatori, “La Stampa”, 20 novembre 1911, n. 322, p. 5.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili”, Brand, Inaugurazione della Mostra fotografica, “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99. Si veda anche Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia (Torino, aprile-ottobre 1911). Torino: G. Momo, 1911.

[38] Per i dati relativi a queste manifestazioni cfr. Esposizione internazionale di fotografia artistica e scientifica, Torino, giugno-luglio 1907, Concorso indetto dalla rivista internazionale “La Fotografia Artistica”. Torino, Grafica: 1907; Brand 1911.

[39] Dal villaggio Alpino alla Mostra dell’Inghilterra, “La Stampa”, 22 aprile 1911, n. 111, p. 3.

[40] La Mostra fotografica, “La Stampa”, 21 giugno 1911, n. 170, p. 6.

Da strumento a patrimonio: documenti e opere  (2007)

intervento al convegno Fototeche a regola d’Arte, Siena, Santa Maria della Scala, 30 novembre – 1 dicembre 2007, promosso dal CERR Centro Europeo di Ricerca sulla Conservazione e sul Restauro di Siena

 

 

Ciò che mi propongo con questo intervento è di ripercorrere le vicende che hanno portato alla costituzione delle diverse raccolte che formano il patrimonio fotografico della Fondazione Torino Musei direttamente gestito dalla loro Fototeca[1], con la duplice intenzione di indagarne la natura (e di farne emergere quindi un’eventuale definizione, non solo tipologica[2]) a partire dalla considerazione dei diversi modi e delle differenti ragioni e occasioni che ne hanno determinato la crescita, tracciando un percorso che si sviluppa parallelo a quello della considerazione stessa della fotografia e – qui – delle fotografie. Poiché l’archivio non nasce in quanto tale, né risulta immediatamente chiara, nella storia museale, non tanto cosa debba intendersi per fototeca quanto la necessità della sua stessa esistenza. Più in generale credo che non sia difficile verificare come nel corso del Novecento si sia assistito ad uno slittamento e poi ad uno scambio semantico tra i due termini: convenzionalmente il termine  ‘fototeca’ veniva e in parte ancora viene riferito all’insieme delle immagini raccolte e criticamente ordinate da uno studioso, mentre col termine archivio si indicavano le strutture istituzionali di accesso (per quanto ridotto) e quindi lo strumento di condivisione di insiemi più o meno organizzati di fonti fotografiche. Oggi il primo termine ha goduto di una estensione semantica che rimanda all’assunzione delle funzioni già proprie del secondo sulla base, direi, di un corrispondente incremento quantitativo del suo ambito d’uso, che ha assunto come parametro l’insieme degli utilizzatori: passato dall’unità ad un numero tendenzialmente infinito. Da testimonianza degli interessi, del metodo e dell’opera di un singolo studioso alle necessità eterodirette di un’utenza. Il termine archivio mi pare oggi circoscritto a definire l’insieme del patrimonio fotografico documentario – e non è precisazione senza conseguenze – pertinente a una istituzione[3] ed eventualmente costituito da fondi ma anche (con variazioni e delimitazioni a volte incerte) da collezioni e semplici raccolte[4]. Ulteriore testimonianza infine del passaggio – credo irreversibile, specialmente dopo che se ne è consumata la fine – della fotografia da puro strumento conoscitivo e ausilio mnemonico a prodotto culturale e materiale (di cultura anche materiale, cioè) cui si riconosce una valenza, e quindi un valore di bene cui corrisponde finalmente una diversa modalità di lettura, e di accesso, ormai estesa al riconoscimento delle caratteristiche complessive del lavoro fotografico e degli oggetti che questo ha prodotto: delle fotografie.

Per questo credo possa essere di un qualche interesse provarsi a mostrare i nessi tra cronologia e definizione tipologica delle diverse raccolte che progressivamente hanno costituito il patrimonio fotografico dei Musei civici torinesi, provando a identificare e poi a riflettere sulle conseguenze che il diverso statuto riconosciuto alle fotografie, ma meglio sarebbe dire alla Fotografia, e quindi ai fototipi: dalla categoria all’oggetto, ha determinato nel tempo in relazione alle mutevoli concezioni culturali espresse dall’istituzione museale. 

In questa prospettiva credo sia ormai tempo di riconsiderare le pur notevoli riflessioni di Rosalind Krauss, che aveva auspicato “la necessità di abbandonare, o almeno di sottoporre a una seria critica, categorie derivate dall’estetica come quelle di autore, opera e genere (come nel caso del paesaggio), [per] cercare di mantenere la fotografia antica nel suo statuto di archivio e di chiedere che si esamini questo archivio in modo archeologico, come Foucault ce ne ha fornito insieme la teoria e l’esempio.”[5] Vorrei dire allora che, per quanto concettualmente problematici in ambito fotografico[6], la figura, il ruolo, la funzione, la consapevolezza, insomma il progetto autoriale – per quanto minimo e tecnologicamente condizionato – non possono essere dimenticati o peggio abbandonati: pena l’impossibilità di comprendere storicamente e culturalmente il senso dei materiali prodotti e delle loro sedimentazioni. Con l’avvento della tecnologia digitale improvvisamente tutta la fotografia è diventata ‘antica’, quindi tendenzialmente passibile di essere riconosciuta nel suo “statuto di archivio”. Il problema non è però semplicemente questo: non si tratta tanto di sottoporre a critica le categorie indicate dalla Krauss, quanto di stigmatizzarne l’uso poco consapevole (e sovente improprio) che ne è stato fatto. Penso infatti sia inutile e dannoso – oltre che antistorico – provarsi ad escluderle, ma che sia indispensabile liberarle da ogni implicazione meccanicamente e acriticamente derivata dall’orizzonte teorico e metodologico, dalla tradizione estetica, e mercantile, della storia e della critica d’arte, che va intesa solo come uno dei possibili orizzonti interpretativi. L’immagine fotografica deve essere letta e intesa in una prospettiva più complessa e pertinente, che provo a dire culturale; in questo senso è necessario assegnare a ciascuna fotografia un doppio valore documentario: prodotto di una cultura (sociale e individuale, tecnologica e autoriale) che è precisamente espressa da ciascuna fotografia in quanto tale, nella sua individuale materialità di oggetto come nella sua strutturazione discorsiva, ma anche testimonianza di una realtà altra da sé, della condizione storica del referente, rispetto alla quale il valore è fondato interamente sulla sua essenza, sul suo noema. Ciò implica il riconoscimento teorico e fattuale dell’opera fotografica non solo come bene culturale, quale forma particolare di documento/ monumento aperto e disponibile a letture diverse, ma anche quale prodotto e agente di una storia più intrecciata e complessa, a sua volta esito attuale di una cultura di massa fortemente segnata dalla fotografia e dalle altre forme di (ri)produzione e comunicazione tecnologica dell’informazione.

La fototeca e l’archivio, nella loro possibile configurazione e condizione materiale e – ancor più – nell’infinità virtuale delle reti, sono oggi soprattutto strumenti di accesso, di acquisizione e quindi, necessariamente di appropriazione delle immagini che vi si trovano. Non è mia intenzione affrontare, neppure sommariamente, le implicazioni di questi scenari, semmai richiamare l’attenzione sulle conseguenze che ne possono derivare in termini di produzione (o negazione) culturale. Vorrei ricordare come proprio l’estensione incommensurabile delle possibilità di accesso, acquisizione e manipolazione richiedano una ancora più forte e precisa definizione e rivendicazione dell’identità di ciascuna delle fotografie che formano ogni archivio o fototeca che si voglia “a regola d’arte”[7].

Non è infatti difficile pensare al patrimonio iconografico che le costituisce come a un’infinita fonte di possibilità discorsive, dove le immagini possono diventare altro da sé, disponibili per la strutturazione di nuovi discorsi, di altre narrazioni. È quanto esattamente è avvenuto e avviene nella pratica critica di ogni storico dell’arte come in quella artistica, a partire almeno dalle avanguardie storiche. È quanto avviene ogni giorno nelle diverse occasioni della comunicazione e dell’uso. Tutte metodiche e pratiche irrinunciabili, che dimostrano però la necessità di ancorare le immagini alla loro identità originaria come al riconoscimento della loro fortuna critica, per quanto ridotta. Una costruzione che è fatta di occasioni e di autori, di scelte tecnologiche più o meno consapevoli, di ragioni e di progetti; di soglie anche minime di considerazione, di decisioni e di caso (e di casi, ovvio) che han fatto sì che dopo essere state prodotte non fossero distrutte o disperse. Senza la consapevolezza e la descrizione (che chiamiamo catalogazione) di quella rete causale che costituisce la loro storia di produzione (e di conservazione) esse perdono la possibilità di essere comprese, di essere coinvolte in un discorso nuovo che non le condanni all’oblio dei materiali inerti.

Provare a seguire, a inseguire anche[8], le mutazioni incorse nella concezione della fotografia espressa da un’istituzione museale consente allora di comprendere come il suo limitarsi a intenderla “nel suo statuto di archivio” non solo non ne esaurisca il senso ma anche abbia comportato, e a volte comporti ancora rischi non solo per la sua comprensione critica, ma per la sua stessa tutela materiale e giuridica.

 

La fotografia al Museo

Il Museo civico di Torino, inaugurato il 4 giugno 1863,   “nei primi tempi non ebbe carattere ben definito: alle collezioni di oggetti antichi romani e medioevali [rinvenuti nel corso delle demolizioni della Cittadella e in occasione degli scavi per la nuova ferrovia a Porta Susa, 1859 – 1861], ai quadri antichi e alle memorie patrie si erano aggiunte due raccolte: la preistorica e l’etnologica, in parte avuta in dono e in parte acquistata.”[9] I primi materiali fotografici entrarono verosimilmente già negli anni immediatamente successivi alla sua istituzione, sotto forme differenti e in occasioni diverse per la maggior parte oggi non identificabili, ma delle quali può essere utile tentare una prima classificazione: opere sistematiche, quali i bellissimi fascicoli dedicati alle incisioni di Marco Antonio Raimondi da Benjamin Delessert nel 1853-1855, accompagnati da una lucidissima introduzione metodologica[10], o gli album illustrativi e celebrativi, come Turin ancien et moderne che Henri Le Lieure pubblicava nel 1867 con un ricco corredo di testi di autori diversi, una vera e propria guida illustrata alla città, forse pervenuto per il tramite di Pio Agodino, primo Direttore del Museo e tra i redattori dei testi. Alla stessa tipologia appartengono le prime riproduzioni fotografiche di dipinti comprese negli Album della Società Promotrice delle Belle Arti di Torino a partire dal 1863[11], considerate una “bella novità” nonostante le riserve legate alla meccanicità del procedimento, che ne escludeva l’artisticità,  come quelle che costituiscono l’album fotografico dedicato a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, realizzato da Cesare Bernieri nel 1866, con presentazione di Federico Sclopis[12]. Sono esempi precoci di riproducibilità tecnica delle opere d’arte in un contesto come quello torinese particolarmente attento a questo ordine di problemi, come testimoniano gli interventi nelle pagine degli stessi Album di Federico Pastoris (1862) e ancor prima (1860) di Carlo Felice Biscarra, il quale avrebbe ripreso il tema ancora dieci anni dopo in un articolo dedicato alla tecnica di stampa fotoglittica, meglio nota come woodburytipia, “adoperata in Francia con esclusiva proprietà dal rinomatissimo editore Goupil, che vi ha consacrato ben mezzo milione di lire”[13], la cui licenza italiana era stata recentemente acquistata da Le Lieure “con ingente somma”.

Ben più numerose, come è lecito attendersi, erano le riproduzioni realizzate e pervenute in forma occasionale ed episodica, legate a richieste di perizia e proposte di acquisto[14] di dipinti o di oggetti diversi così come a scambi di cortesie tra artisti e responsabili museali.[15].

A Torino, in ambito artistico (ed è nuovamente una distinzione significativa e necessaria[16]) ancora alle soglie del XX secolo siamo in presenza non tanto di vere e proprie raccolte quanto di forme di accumulo non programmato, in cui – secondo la consueta considerazione della fotografia propria della cultura ottocentesca europea (la “umile ancella” di Baudelaire[17]) – non solo prevaleva la funzione strettamente referenziale, ma mancava ogni idea benché positiva di uso sistematico di questo potente strumento documentario, mancava ancora – non solo da noi, in quegli anni – ogni idea di catalogo, e ancor più di archivio.

Ciò valeva ancora per Vittorio Avondo (1836 – 1910) pittore e collezionista, direttore dal 1890 al 1910 del Museo Civico torinese, una delle figure centrali della cultura torinese a cavallo tra XIX e XX che pure usò della fotografia per molte e diverse ragioni[18]. Sono riferibili agli anni della sua formazione le trentasette immagini di soggetto romano, tra cui un nucleo significativo di stampe delle Vedute di Roma e dei contorni in fotografia pubblicate da Giacomo Caneva nel 1855, mentre dipendono dai diversi ruoli istituzionali da lui successivamente ricoperti la presenza della serie di vedute di architetture piemontesi e valdostane realizzate nel 1882 da Giovanni Battista Berra e da Vittorio Ecclesia per la Commissione conservatrice dei monumenti di antichità e d’arte della Provincia di Torino[19]  o quella – con figuranti in costume – realizzata ancora da Ecclesia nel 1884 al Borgo Medievale di Torino costruito per l’Esposizione generale italiana del 1884 sotto la direzione di Alfredo d’Andrade; un’opera in cui più chiara risulta a diversi livelli l’influenza della cultura della fotografia (l’idea di catalogo, l’idea di vero/simile).[20]

Alla direzione museale di Avondo va poi riferito il progetto “della riproduzione fotografica e quindi in fotocollografia e in cromolitografia dei migliori capi d’arte del Museo”[21], edita nel 1905 sotto il titolo di Museo Civico di Torino – Sezione Arte antica[22]. Il volume ebbe ampia distribuzione e notevole successo, richiesto da studiosi e istituzioni diverse: da Robert Forrer a Bernard Berenson, dalle Scuole d’Arte applicata di Venezia a R. Agostoni fabbricante torinese di mobili, adempiendo così a quella funzione di istruttiva raccolta per “ricchi e poveri” cui mirava anche il coevo progetto di Pubblica Raccolta Fotografica che portò alla costituzione del “ricetto” di Brera[23].  Sebbene fosse una campagna documentaria dedicata al patrimonio museale nessuna traccia documentale porta a credere che questa implicasse la costituzione di un archivio o di un qualsivoglia strumento di studio. Di un progetto di comunicazione a fini celebrativi semmai, come negli stessi anni accadeva (sempre per restare a Torino) con le collezioni dell’Armeria Reale, ma anche – senza contraddizione – con intenti didascalici e divulgativi, rivolgendosi paternalisticamente agli artigiani, i destinatari ideologicamente ideali di ogni arte applicata, meglio sarebbe dire applicabile a un’attività che solo nominalmente si poteva definire industria.

Una prima consapevole attenzione per la raccolta sistematica di documentazione fotografica nell’ambito dei Musei civici torinesi si ebbe con Giovanni Vacchetta, nominato Direttore della “Sezione Arte Antica e Arti Applicate alla Industria” nel 1913, a tre anni dalla morte di Avondo. Da tempo[24] sensibile al dibattito internazionale e locale sulla costituzione di raccolte fotografiche documentarie, tra i suoi atti iniziali vi fu l’istituzione di un primo nucleo di archivio fotografico mediante l’acquisizione delle 463 lastre commissionate all’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo in vista della realizzazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911 in occasione del cinquantenario dell’Unità [25], e successivamente di altre 126 riprese eseguite dagli Alinari nel 1912.  Secondo la ricostruzione fatta da Vittorio Viale, in questo periodo il Museo disponeva quindi di un corpus di circa 600 “lastre”, che costituivano “il maggior complesso di documentazione fotografica, che di monumenti e di oggetti d’arte del Piemonte sia liberamente a disposizione degli studiosi”[26]. Notazione forse velatamente polemica nei confronti del ben più ricco e chiuso archivio fotografico delle Soprintendenze, ma per noi particolarmente interessante per quanto rivela dell’idea di archivio propria della Direzione museale: non gli album e le stampe ottocentesche, e neppure la documentazione sistematica (seppur parziale) del patrimonio museale, ma quella del patrimonio artistico regionale, mentre Lorenzo Rovere – successore di Vacchetta alla Direzione del Museo – andava costituendo per personali ragioni di studio una fototeca vera e propria, dove le circa seimila immagini (fototipi e cartoline, anche non fotografiche) erano da lui raccolte e organizzate in stretta relazione con le schede di storia dell’arte e con il ricco fondo librario[27].

Vittorio Viale, che gli successe nel 1930,  procedette lungo la direttrice tracciata da Vacchetta e l’anno successivo formalizzò l’istituzione dell’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino con una prima dotazione annua di L.8.000 mediante la quale diede  avvio ad una campagna di riproduzione dei “principali quadri e i più interessanti oggetti del Museo torinese”[28]  che ampliava la documentazione prodotta da Augusto Pedrini per il volume di Mario Soldati, Galleria d’Arte Moderna del Museo Civico di Torino, edito nel 1927, ancora sotto la direzione di Lorenzo  Rovere. Nello stesso tempo non rinunciava però alla possibilità di costituire un Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” (formulata nel 1932 al Congresso della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti di Cavallermaggiore), allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle diverse Società di Studi, ritenuto a rischio di dispersione: per questo invitava a donare “le lastre, anzi le belle lastre, che ogni anno qui fra noi, studiosi e fotografi, eseguiscono per le loro ricerche archeologiche o artistiche.” [29]

Le sollecitazioni del Direttore non rimasero senza risposta: negli anni immediatamente successivi confluirono infatti nell’Archivio Fotografico dei Musei civici torinesi le fotografie raccolte dalla Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti (oggi non chiaramente identificabili), quelle prodotte in occasione della Mostra della SS. Sindone del 1931 e verosimilmente anche quelle realizzate da Albert Erich Brinkmann per il suo Theatrum Novum Pedemontii, (Düsseldorf: L. Scwann, 1931). A queste si aggiunsero successivamente le riprese commissionate per le grandi esposizioni promosse da Viale quali Gotico e Rinascimento in Piemonte, Torino 1938-1939, Vercelli e la sua provincia dalla romanità al fascismo, Vercelli 1939 o ancora l’imponente Mostra del Barocco piemontese, del 1963 per la cui preparazione vennero realizzate quasi settemila riprese.

Per quanto significative nei loro esiti le committenze istituzionali hanno costituito però solo una parte del meccanismo di accrescimento e diversificazione del patrimonio fotografico museale, che si è progressivamente arricchito per rilevanti acquisizioni di Fondi, senza determinare però alcuna significativa mutazione nella considerazione della fotografia. Solo con benevola attenzione  possiamo riconoscere  alcuni slittamenti di senso del suo valore documentario: passato inavvertitamente da referenziale a storico. Ciò è stato specialmente vero per le circa cinquemila stampe fotografiche comprese nel Fondo d’Andrade[30], donato dal figlio Ruy nel 1931. Il recupero e la salvaguardia di questo fondamentale patrimonio da un lato ribadivano l’originario utilizzo referenziale della fotografia mentre la assumevano – forse per la prima volta in questo contesto e per quanto implicitamente – tra le fonti documentarie storiche. Anche la tormentata acquisizione del Fondo Gabinio[31], parzialmente acquisito nel 1940[32], rispondeva ad analoghe esigenze ed è proprio al permanere del puro interesse referenziale che dobbiamo la perdita di una rilevantissima parte della produzione di quello che è stato uno dei più significativi autori dei primi decenni del Novecento. Delle 4424 lastre che costituivano la consistenza originaria dell’offerta, allo stato attuale ne risultano presenti solo 1078 essendo le altre – relative a soggetti già documentati – state scartate dallo stesso Direttore. Viale si dimostrava così,  nonostante la rilevanza della cultura fotografia nel contesto torinese di primo Novecento, ancora insensibile ai suoi autonomi valori espressivi, incapace di accogliere l’idea del fotografo come autore, della fotografia come opera (non necessariamente d’arte)[33], del valore intrinseco del fondo come corpus.

Per registrare un diverso atteggiamento, una differente sensibilità occorre procedere ben oltre negli anni e giungere almeno alla fine del secolo quando, nel 1997, venne perfezionata l’acquisizione dell’importante fondo di Stefano Bricarelli[34], autorevole esponente della fotografia artistica italiana nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, per  donazione della figlia Carla. In questa occasione finalmente ciò a cui si è mirato sono stati proprio il riconoscimento e la salvaguardia dell’intero archivio. La volontà di acquisizione si è fondata sul riconoscimento del valore autoriale, considerando solo in seconda istanza quello della testimonianza documentaria che pure  è inevitabilmente presente e non può, né deve essere disconosciuto.

 

And in the end…

Le Fototeche d’Arte saranno (mai state?) “a regola d’arte”: e cosa mai si potrà intendere con ciò? Che è l’arte a dettarne le regole, ovvero il suo studio? E se il Museo è il tempio dell’Arte com’è che questo – almeno qui, da noi, in una storia non brevissima –  per lungo tempo non ha avuto una Fototeca, ma forse un Archivio e certamente delle raccolte, anche dei Fondi, ma non delle collezioni? E poi, ancora: forse che la Fototeca d’Arte corrisponde a un’idea di fotografia che non corrisponde più allo stato dell’arte?

Insomma: le vicende sottese alla definizione storica di un termine (non di una struttura: concettuale e materiale) apparentemente semplice e piano come ‘fototeca’ mostrano  ancora una volta come solo il lavoro critico possa sperare di recuperare il senso delle diverse accezioni storicamente determinate, forse anche per farlo fruttare nell’oggi. Basta però un solo passo falso per ritornare alla partenza: come nel gioco dell’oca.

 

Note

 

[1] La Fondazione costituisce dal 2002 l’ente autonomo di gestione dei Musei civici torinesi: Borgo e Rocca Medioevale; GAM – Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea; MAO – Museo di Arti Orientali; Palazzo Madama – Museo civico d’Arte antica,  Biblioteca d’Arte e Fototeca. Le diverse Raccolte e Fondi sono prevalentemente conservati presso l’Archivio fotografico, che ha nella Fototeca la sua struttura di gestione e di accesso e – ad oggi – una consistenza complessiva di circa 310.000 fototipi, cui si sono aggiunte nel corso del 2007 le circa 120.000 fotografie già facenti parte del patrimonio della Fondazione Italiana per la Fotografia di Torino. Numerose immagini sono presenti anche nella Biblioteca d’Arte e, a partire dall’ultimo decennio, nelle Collezioni della GAM, qui specialmente nella forma propriamente contemporanea di opera, frutto di una politica di acquisizioni espressa non solo in relazione a singoli eventi espositivi, che ha portato all’arricchimento del patrimonio museale con opere di Gabriele Basilico, Mario Cresci, Luigi Ghirri, Mimmo Jodice, Nino Migliori, Ugo Mulas, Paolo Mussat Sartor, per non citarne che alcuni. 

[2] Nel corso di un recente convegno dedicato agli Archivi fotografici on-line, Tiziana Serena si è provata – tra le altre cose – a misurare la varietà terminologica con cui si indicano questi “multiformi ed eterogenei insiemi di sedimentazione di immagini fotografiche (‘raccolte fotografiche’, ‘fototeche’, ‘iconoteche’, ‘collezioni’, fino a sfondare i confini disciplinari per riferirsi a ‘fondi’ e ‘archivi’)” (p.3 ) per arrendersi infine, almeno in occasione del suo intervento in queste giornate senesi (“chiamatele come volete”). Questo provocante cedimento mi pare un ulteriore indizio della distanza che ancora ci separa da una possibile definizione condivisa, ma è un invito che non vorrei accogliere, e – in termini generali – non avrei paura a provare a definire cosa sia un Fondo fotografico (in attesa della scheda ICCD, certo) cosa un archivio o una fototeca. Certo non mi pare si sfondi alcun confine disciplinare parlando di fondi e archivi anche a proposito di fotografie, nel momento in cui queste vengono a costituire insiemi storicamente e culturalmente determinati e identificabili, mentre altra questione potrebbe porsi (forse) in merito alla definizione di fototeca, sebbene anche qui la risposta (non temendo di misurarsi con la banalità) sembra essere piuttosto semplice, soprattutto se pensata in analogia con altre strutture organizzate di accesso al contenuto informativo di specifiche tipologie di oggetti, sulla scia del modello antico delle biblioteche. Ciò di cui invece sono convinto è che sia poco utile guardare ai sistemi utilizzati dai produttori, dai fotografi per tentare di individuare modelli o risposte: le tassonomie e i criteri organizzativi messi a punto da questi autori si muovono su di un terreno e in un quadro diverso; bastano e devono bastare a loro stessi proprio in quanto attori privilegiati della relazione coi materiali da loro stessi prodotti. La loro organizzazione non è intesa quale percorso di conoscenza, quale momento di una ricerca (se non, a volte, di senso) ma più comunemente quale necessità di reperimento. Cfr. Tiziana Serena, Il posto della fotografia (e dei calzini) nel villaggio della memoria iconica totale. Uno sguardo sulle  raccolte fotografiche oggi, in Archivi fotografici on-line, Cinisello Balsamo, Museo di Fotografia Contemporanea, giugno 2007, a cura di Gabriella Guerci, Atti disponibili on-line all’indirizzo https://www.mufoco.org/x-portfolio/atti-del-seminario-archivi-fotografici-italiani-online-maggio-2006/ (10 12 2022).

[3] Quasi superfluo ricordare che si parla di ‘archivio’ anche in relazione al patrimonio fotografico di enti diversi dai musei (industrie, università, strutture ospedaliere, organi di polizia e istituzioni militari e simili, editori e giornali ecc.) così come all’intera produzione di singoli fotografi o agenzie. Pur senza estendere ulteriormente la riflessione alle implicazioni pertinenti a questi differenti contesti, credo sia utile ricordare come ciascuno di questi archivi si trasformi in fondo nel momento in cui venga versato in una struttura conservativa di ordine superiore.

[4] Pur non potendo entrare nel merito vorrei ricordare come non di rado il lavoro critico condotto su di un corpus di opere determini un mutamento anche sostanziale del riconoscimento autoriale, con conseguenze giuridiche ma anche conservative, mercantili  e patrimoniali.

[5] Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia. Milano: Bruno Mondadori, 1996, p.48. Una profonda riconsiderazione critica di alcuni concetti fondamentali della cultura fotografica è stata operata anche da André Rouillé, La photographie entre document et art contemporain. Paris: Gallimard, 2005, che ha espresso forti riserve sul valore degli apporti strutturalisti e semiotici nella definizione della fotografia.  Se la storia dell’arte e quella della fotografia si devono trasformare in una più generale e problematica storia delle immagini che aspira ad essere una storia, necessariamente culturale, delle rappresentazioni, allora tutti i nostri strumenti analitici e critici andranno ripensati allontanandosi – come già aveva sostenuto Ian Jeffrey anni fa (Introduction, in Id., Photography. A Concise History. London: Thames and Hudson, 1981, pp. 7-9) – dai modelli interpretativi mutuati più o meno consapevolmente dalla storiografia artistica. In questo senso credo vada accolto l’invito, forse la sfida di André Gunthert a verificare la possibilità di pensare una “storia del fotografico”, inserita nel più ampio orizzonte di studi di cui si è detto; si vedano i diversi interventi contenuti in Joan Fontcuberta, ed., Photography. Crisis of History. Barcelona: ACTAR, 2001.

[6] Nella contemporaneità lunga che si avvia con le prime avanguardie storiche la figura e il ruolo dell’autore in relazione allo statuto dell’opera sono stati certamente condizionati da ciò che negli anni recenti è stato definito come il “fotografico” cioè “una logica di funzionamento dell’immagine e una sua relazione con la realtà, con l’autore e con i fruitori tipica della fotografia, ma comune anche a molte altre espressioni dell’arte contemporanea (…) un vasto e unitario (per quanto sfaccettato) ambito d’esperienza (…) in cui i confini tradizionali tra fotografia e arte sembrano venir meno, o piuttosto costituire essi stessi un nuovo campo di attività e di teoria.”, Roberto Signorini, Arte del fotografico: i confini della fotografia e la riflessione teorica degli ultimi vent’anni. Pistoia, Editrice C.R.T.: 2001, p. 7. Per quanto riguarda l’altro ambito problematico di definizione della figura dell’autore, quello catalografico, mi permetto di rimandare al mio Oggetti, autori, cataloghi, in Strategie per la fotografia. Incontro degli archivi fotografici, Atti del convegno (Prato, 30 novembre 2000), a cura di Oriana Goti, Sauro Lusini.  Prato, Archivio Fotografico Toscano: 2001, pp.37-42 in cui riflettevo criticamente sulle conseguenze dell’eccesso di autorialità che caratterizzava l’approccio concettuale su cui si fonda il tracciato della Scheda F/ ICCD del 1999, anche qui riducendo la feconda ambiguità della fotografia.

[7] In termini più generali “il significato di ogni fotografia è profondamente embricato di elementi sociali e politici. [Ma non dobbiamo credere che] i significati e gli elementi politici si infiltrino semplicemente dall’esterno in una fotografia in paziente attesa. Cos’è la fotografia in sé stessa, prima che entri a far parte di uno specifico contesto socio politico? La domanda è tanto impossibile quanto necessaria; impossibile perché non può mai darsi un ‘prima’ incondizionato, necessaria perché il postulare un momento originario è la condizione fondante dell’identità stessa.” Geoffrey Batchen, Each Wild Idea: Writing Photography History. Cambridge – Massachussets: The MIT Press, 2001, pp. VIII-IX (traduzione di chi scrive).

[8] Le ricerche condotte sulla formazione delle raccolte fotografiche che costituiscono il patrimonio della Fondazione Torino Musei – ma il problema è certo comune ad altre istituzioni simili – hanno mostrato con grande evidenza come sia difficile anche solo ritrovare tracce documentali delle diverse fasi e occasioni in cui queste sono state storicamente acquisite, per non dire delle ragioni. Rimando per questo al volume da me curato Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005, ma voglio almeno ricordare, a titolo esemplificativo, come il “Dessin photographique d’après le procedé de M. Daguerre” con la Veduta della chiesa della Gran Madre di Dio, realizzato da Enrico Federico e Carlo Jest l’8 ottobre 1839, ad oggi il più antico dagherrotipo italiano noto, venne rinvenuto nei depositi museali solo nel 1977, senza che se ne sia potuta stabilire la provenienza o la data di ingresso.

[9]Memoria sulla storia del Museo e le sue collezioni, 1899, citata in Carla Ceresa, Valeria Mosca, Daniela Siccardi, a cura di, Archivio dei Musei civici: Inventario 1862 – 1965, I. Torino: Città di Torino, 2001, p. 27.

[10] Benjamin Delessert, Notice de la vie de Marc Antoine Raimondi graveur Bolonais accompagné de reproductions photographiques de quelques uns de ses estampes, 7 voll.  Paris- Londres: Goupil & C. – Colnaghi & C., 1853-1855. Nella nota esplicativa l’autore dichiara che “les planches qui accompagnent cette Notice sont la reproduction la plus exacte possible des gravures mêmes de Marc-Antoine. La grandeur est scrupuleusement celle de l’original ; et non seulement l’effet général de l’estampe, mais chaque trait, chaque contour doit être fidèlement rendu. J’ai voulu faire moi-même les négatifs de ces planches : tous ont été faits sur papier. Quelques personnes m’ont conseillée des types sur glace par l’albumine ou le collodion : j’aurais obtenu plus de finesse et de netteté, mais je n’aurais pu éviter, je crois, une dureté et une séchesse qui n’existent pas dans les estampes de Marc-Antoine ; ces procédés selon moi, conviennent principalement aux graveurs de l’école de Pontius, de Bolswert, de Wille.”, vol. I, p. 27.

[11]Cfr. Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino, “Fotologia”, vol.13, primavera/estate 1991, pp.30-39.

[12]L’album è costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. A Bernieri si deve anche l’importante lavoro di documentazione del cantiere del Canale Cavour, cfr. P. Cavanna, Culture photographique et societé en Piemont: 1839-1998,  “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), n.2-4, pp. 145-160, online https://www.persee.fr/doc/mar_0758-4431_1995_num_23_2_1565 (10 12 2022).

[13] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica Stabilimento Le Lieure in Torino, “L’Arte in Italia”, 4 (1870), p. 58.

[14] Testimonia la rilevanza di queste forme di accumulo non programmato di documentazione fotografica il puro dato quantitativo di stampe di riproduzione di opere d’arte delle più diverse tipologie conservate nel Fondo Avondo,  cronologicamente riferibili per la gran parte agli anni compresi tra l’istituzione del Museo (1863) e il compimento della sua Direzione (1910). Tale materiale, sinora mai studiato, presenta un rilevantissimo interesse in relazione alle vicende del mondo dell’arte piemontese, e in parte italiana, in tutte le sue sfaccettature, dalla produzione al collezionismo alla museologia e costituisce l’ulteriore testimonianza della pervasività della fotografia nella cultura delle belle arti sin dai primissimi decenni successivi all’invenzione.

[15] Sebbene apparentemente distante dal tema delle vere e proprie ‘fototeche d’arte’ credo valga almeno la pena di ricordare la consuetudine dello scambio tra artisti di carte de visite o di ritratti ambientati, ciò che ha portato alla formazione di vere e proprie gallerie tascabili che sono a loro volta la visualizzazione di trame di relazione in molti casi non altrimenti documentabili, sebbene allo stato attuale delle conoscenze a volte irrimediabilmente mute. (Si confrontino ad esempio le serie di ritratti pubblicati in Telemaco Signorini: una retrospettiva, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti 8 febbraio-27 aprile 1997). Firenze: Artificio, 1997 e in  Vittorio Avondo e la fotografia, 2005). Vorrei ancora aggiungere la consuetudine, già ottocentesca, di commissionare e conservare la documentazione fotografica della propria produzione artistica, come fu ad esempio per Domenico Morelli, che raccolse alcune centinaia di riproduzioni di suoi dipinti e disegni  (cfr. Domenico Morelli: il pensiero disegnato, catalogo della mostra (Torino, 2001), a cura di Claudio Poppi. Torino: GAM, 2001). Quella pratica, poi ampiamente diffusa sino all’oggi, ha portato alla costituzione di fototeche d’arte di tipologia ancora differente da quelle considerate in queste giornate di studi, ma altrettanto problematiche e interessanti.

[16] Per una puntuale considerazione delle  diverse iniziative in ambito nazionale si veda Marina Miraglia, “La fortuna istituzionale della fotografia dalle origini agli inizi del Novecento”, in 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, 2000), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza per i Beni Artistici  e Storici, 2000, pp. 11-21. Diverso fu l’atteggiamento – in ambito internazionale e poi italiano – nei confronti del patrimonio architettonico, oggetto di sistematiche attenzioni a partire almeno dal 1851.

[17] Giovanni Fiorentino, L’Ottocento fatto immagine. Palermo: Sellerio, 2007, pp. 76 passim, ha recentemente messo a confronto queste posizioni con il diverso pensiero dell’americano Oliver Wendell Holmes in un affascinante quadro sulle origini della comunicazione di massa.

[18] Tra i  beni pervenuti al Museo col suo legato testamentario del 1911 risultano circa  3000 fotografie  che solo con una accurata operazione critica  è stato possibile assegnare rispettivamente alla sua biografia ovvero al suo ruolo istituzionale. Cfr. Vittorio Avondo e la fotografia, 2005.

[19] Nel  1878 il Ministro della Pubblica Istruzione aveva invitato ogni prefetto a “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti e rimessole nel 1875, voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” (“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880, p. 10). Nell’ottobre dello stesso anno la neonata Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità di Torino discuteva la proposta ministeriale, ma solo quattro anni più tardi, nel 1882, venne deliberato di assegnare il compito di fotografare il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta a due dei migliori professionisti piemontesi Giovanni Battista Berra (Fotografia Subalpina) e Vittorio Ecclesia, assistiti rispettivamente da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli. In occasione della Esposizione generale italiana del 1884 prese poi avvio il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si svolse in quella occasione aveva affidato al Collegio torinese; nel successivo congresso (Venezia, 1887) questo presenterà il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale.  (Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1); è utile ricordare a questo proposito che un analogo progetto di costituzione di un Museo di Architettura e Belle Arti della Liguria, da realizzarsi nella chiesa restaurata di Sant’Agostino a Genova, fosse stato avanzato già nel dicembre 1883 proprio da Alfredo d’Andrade, figura centrale nelle vicende della realizzazione del Borgo Medioevale di Torino e del citato Congresso torinese del 1884 (cfr. Giorgio Rossini, “Chiesa di S. Agostino”, in Alfredo d’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, 1981), a cura di Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, pp. 437-446).

[20] Tra la documentazione fotografica pervenuta al Museo torinese durante la direzione di Avondo va ricordato anche l’importante nucleo di stampe presentate in occasione della Prima Esposizione Italiana di Architettura inaugurata nel febbraio del 1890.  A conclusione dell’evento le opere esposte vennero affidate al locale Circolo degli Artisti per essere quindi donate, nell’aprile dell’anno 1900  al costituendo Museo civico di Architettura, poi non realizzato. Entrarono così  a far parte del patrimonio del Museo civico anche decine e decine di fotografie, intere serie documentarie realizzate dai più autorevoli fotografi italiani: dai palazzi veneziani fotografati da Paolo Salviati alle architetture ferraresi minuziosamente descritte da Pietro Poppi (Fotografia dell’Emilia), dalla campagna documentaria sul patrimonio monumentale friulano di Antonio Sorgato alle affascinanti vedute siciliane di Giuseppe Bruno: un primo reale nucleo di collezione e di archivio fotografico di cui nessuno dei direttori successivi seppe riconoscere l’interesse e il valore.

[21] Verbale del 15 giugno 1900, AMCTO CAP5, n.80. Il progetto editoriale originava dalla divisione, stabilita nel  1892-1893, delle due sezioni museali: la pinacoteca moderna venne  spostata nella palazzina realizzata per l’Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880 nell’allora Corso Siccardi (oggi Galileo Ferraris) sul sedime dell’attuale Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, mentre la sezione di Arte Antica rimase nella primitiva sede di via Gaudenzio Ferrari.  Inizialmente prevista per la grande esposizione del 1898, la pubblicazione vide la luce solo nel 1905 per una serie di difficoltà istituzionali e produttive. Della campagna documentaria realizzata per l’occasione attualmente si conservano in Archivio solo alcune decine di stampe originali.

[22] “Cento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo, da riprese appositamente effettuate dalla Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo Balbo Bertone di Sambuy”, come specifica il sottotitolo.

[23] Il testo integrale del progetto è stato pubblicato da Andrea Strambio, Profilo documentario della Fototeca di Brera, in 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano, 2000, pp. 29-35 (p.32).

[24] Nel 1897 Vacchetta aveva già elaborato per il Circolo degli Artisti di Torino un progetto di catalogazione del patrimonio piemontese  mediante l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, che nella sezione V doveva ospitare “negative fotografiche”, allo scopo di non disperdere energie e informazioni. I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti lo portarono poi a ridimensionare il progetto, ridotto infine alla più vaga intenzione di ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.” (Roberto Albanese, Emilio Finocchiaro,  Maristella Pecollo, a cura di, G. Vacchetta. Volontà d’arte: il gusto del particolare. Cuneo: Comune di Cuneo – Assessorato per la Cultura, 1990, p. 141). L’iniziativa non ebbe alcun seguito  sebbene la Sezione di Architettura del Circolo raccogliesse negli anni le fotografie presentate alle diverse esposizioni, come quella del 1890, poi cedute – come si è detto – al Museo Civico nel maggio 1900.

[25] Quella campagna fotografica venne nello stesso anno ampiamente utilizzata per il volume dedicato a Torino, edito dallo stesso Istituto per la cura di Pietro Toesca.

[26] Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte. Torino: Tip. Anfossi,  1933, p. 4.

[27] Il materiale raccolto da Rovere (1869-1950) è entrato a far parte del patrimonio museale alla morte dello studioso, per donazione da parte della famiglia. La documentazione iconografica, suddivisa per autore o per scuola, riguarda il patrimonio artistico, in particolare pittorico in un arco cronologico che giunge, pur con limitazioni progressive sino al XIX secolo, mentre quasi nulla è la documentazione di opere del Novecento. Allo stato attuale delle conoscenze non risulta invece che Rovere avesse promosso l’accrescimento della raccolta fotografica museale, sebbene la sua attenzione per i temi della documentazione fotografica risalisse almeno al 1911, quando aveva proposto alla Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti di “raccogliere colla cooperazione di tutti i soci le fotografie dei monumenti d’arte e di antichità del Piemonte costituendo nella società un archivio fotografico”, coinvolgendo nell’iniziativa fotografi dilettanti e professionisti. (Albanese, Finocchiaro, Pecollo, p.193).

[28] Viale 1933, p.5.

[29] Ibidem.

[30] Sulla figura e l’opera di D’Andrade risulta ancora fondamentale il riferimento a Alfredo d’Andrade 1981.

[31] Sulle vicende che portarono progressivamente all’acquisizione di questo Fondo si veda Mario Gabinio: dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890 – 1938, catalogo della mostra (Torino 1996 – 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi, 1996.

[32] Anche il decennio successivo si presenta ricco di importanti acquisizioni (Carlo Nigra: 1940-1942; Lorenzo Rovere: 1950; l’editore Celanza: 1951) e alla fine del mandato di Viale (1965) il patrimonio complessivo dell’Archivio fotografico è valutato in più di ventimila fototipi, ai quali si aggiungono verso la fine del decennio (1968) i circa 6.500 negativi e positivi di Gabinio pervenuti con la donazione Marcellino-Alessio (cui si aggiunse l’acquisto di circa un migliaio di stampe nel 1991),  più altri tremila fototipi provenienti da commesse e doni diversi, non specificati dalle fonti.

[33] La fortuna critica della figura e dell’opera di Gabinio credo costituiscano un caso esemplare di quanto la considerazione delle fotografie (non della Fotografia) quale ‘documento’ o quale ‘opera’ abbia rilevantissime implicazioni in termini di salvaguardia e tutela, non solo fisica ma anche giuridica delle stesse, per tacere delle implicazioni patrimoniali.

[34] Si veda Stefano Bricarelli: fotografie, catalogo della mostra (Torino, 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: GAM, 2005.   Il Fondo è costituito da circa 35.000 negativi su pellicola, 2700 stampe in diverse tecniche e circa 2000 diapositive, con cronologia 1908 – 1985. Quasi superfluo poi ribadire che – come  anche per Gabinio, e come sempre dovrebbe accadere – solo la disponibilità di un fondo fotografico sostanzialmente esaustivo  se non, illusoriamente, completo consente di  affrontare compiutamente lo studio critico di un autore.

Storia con fotografie  (2005)

in P. Cavanna, a cura di, Dalla pittura al museo.  Vittorio Avondo e la fotografia. Torino : Fondazione Torino Musei-GAM, 2005, pp. 12-55

 

 

“La parola ha qualcosa da dire

a colui che parla.”

Giorgio Manganelli, 1987

 

 

 

 

1 – L’Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei

 

Da raccolta ad archivio: piccola storia delle fotografie al Museo Civico

 

L’attenzione italiana per la fotografia storica e contemporanea si consolida negli ultimi decenni del Novecento con la realizzazione di ricerche, progetti editoriali ed espositivi che sempre più sottendono un approccio sistematico e rigoroso, ben evidenziato anche dal ricco dibattito intorno ai temi della catalogazione e conservazione del patrimonio fotografico.[1] Dopo le pionieristiche imprese di Silvio Negro e Lamberto Vitali, ancora negli anni Cinquanta[2], una delle prime iniziative storicamente rilevanti in tal senso fu la mostra dedicata ai Fotografi del Piemonte promossa dai Musei Civici di Torino[3] nel 1977. Fu quella la prima occasione per affrontare in modo innovativo e scientificamente accorto il discorso sulle origini della fotografia in questa regione e, più specificamente, sui destini del  patrimonio fotografico storico anche dei Musei Civici torinesi, in particolare del Fondo D’Andrade, poi proseguito nei decenni successivi con più sporadiche incursioni alternate a importanti indagini, inserite in più ampie e sistematiche ricostruzioni storiografiche, come quella condotta da Marina Miraglia[4] nel 1990, sino alla realizzazione del progetto di catalogazione analitica del fondo di stampe Gabinio[5] e ad una prima ricognizione sistematica[6] dei ricchi ed eterogenei fondi che costituiscono il patrimonio museale attuale, condotta da chi scrive nell’anno 2000,  che ha consentito di delinearne la ricchezza qualitativa e quantitativa in maniera esauriente sebbene non esaustiva, essendo quella ricognizione limitata ai soli esemplari conservati presso l’Archivio fotografico (AFFTM) ed i depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna.

I primi materiali fotografici entrarono verosimilmente nel Museo torinese già negli anni immediatamente successivi alla sua istituzione (1863), sotto forma di illustrazioni fuori testo di pubblicazioni artistiche, come i preziosissimi fascicoli pubblicati da Benjamin Delessert a Parigi nel 1853-1855 Notice de la vie de Marc Antoine Raimondi, ma anche di album fotografici dedicati all’illustrazione della città, come Turin ancien et moderne di Henri Le Lieure, 1867 (forse pervenuto per il tramite di Pio Agodino, primo Direttore del Museo e tra i redattori dell’album) così come alla riproduzione di opere d’arte contemporanea, sia in forma occasionale ed episodica legata a scambi di informazioni tra artisti e responsabili museali o a richieste di perizia e proposte di acquisto[7], sia in forma sistematica, frutto di precise operazioni editoriali quali l’album che Cesare Bernieri dedicava a L’opera pittorica di Massimo D’Azeglio, ancora del 1867. Fu questo un esempio  precoce dell’applicazione di questa tecnica alla riproduzione (e quindi alla diffusione e allo studio oltre che alla celebrazione) delle opere d’arte in un contesto come quello torinese particolarmente attento a questo ordine di problemi, come testimonia l’articolo che Carlo Felice Biscarra dedicò alla tecnica della Fotoglittica (Biscarra, 1870), vale a dire della tecnica di stampa meglio nota come woodburytipia (dal nome dell’inventore) che consentiva di ottenere stampe tipografiche di grande qualità dalle matrici fotografiche e che il fotografo Le Lieure “procuratasi testé con ingente somma (…) acquistando per tutta l’Italia il brevetto della recente invenzione (…) adoperata in Francia con esclusiva proprietà dal rinomatissimo editore Goupil, che vi ha consacrato ben mezzo milione di lire.”

Come si vede il tema era quello delle arti applicate all’industria, ben connesso alle questioni che erano state poste alla base della stessa istituzione del Museo Civico.

Ulteriori importantissimi documenti sono quelli connessi ad un altro degli ambiti canonici di applicazione della fotografia del XIX secolo, quello dell’architettura, in particolare in relazione con le prime iniziative postunitarie di riconoscimento e tutela dei ‘monumenti’ che coinvolsero – in relazione ai lavori della Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità – lo stesso Biscarra, Crescentino Caselli e Vittorio Avondo, i cui  beni pervennero al Museo per legato testamentario, ma anche Alfredo d’Andrade, il cui fondo – ricchissimo di fotografie – perverrà ai Musei nel 1931[8].

Alla fine del XIX secolo il dibattito sulla necessità della istituzione di archivi fotografici o Musei documentari fondati su di un utilizzo massiccio della fotografia era particolarmente pressante: alla Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tenne a Torino nel 1890 molti progetti e realizzazioni furono documentati fotograficamente,  mentre solo due anni più tardi si ebbe l’istituzione del Gabinetto Fotografico Nazionale con il compito di eseguire le riproduzioni del “materiale artistico mobile e immobile esistente nel Regno” (Brera, 2000, p. 14) e nel 1897 Giovanni Vacchetta, futuro direttore della sezione di Arte antica del Museo, elaborava per il Circolo degli Artisti di Torino un progetto di catalogazione del patrimonio piemontese  proponendo l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, che nella sezione V doveva ospitare “negative fotografiche”, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni. I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto ridotto infine alla formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.” (Albanese, Finocchiaro, Pecollo, 1990, p. 141) L’iniziativa non ebbe alcun seguito  sebbene la Sezione di Architettura del Circolo raccogliesse negli anni le fotografie presentate alle diverse esposizioni, poi cedute al Museo Civico nel maggio 1900.

A questa data esso era già certamente dotato di un piccolo nucleo di documentazione fotografica eterogenea, cui si era aggiunta la sistematica documentazione della sezione di Arte antica realizzata per la pubblicazione della cartella del 1905 (Museo Civico, 1905) in parte utilizzate anche da Pietro Toesca nel 1911, l’anno della grande esposizione del cinquantenario dell’Unità, e poi ancora nel primo volume della collana “Attraverso l’Italia” dedicato al Piemonte che il Touring Club Italiano pubblicò nel 1930.

Nel 1913, a tre anni dalla morte di Avondo, Vacchetta venne nominato Direttore della “Sezione Arte Antica e Arti Applicate alla Industria” del Museo Civico, per la durata di sei anni, mentre ad Enrico Thovez fu affidata la Pinacoteca moderna. Tra i primi atti di Vacchetta vi fu proprio l’istituzione di un primo nucleo di archivio fotografico con l’acquisizione  delle 463 lastre commissionate all’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo in occasione della realizzazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911, e successivamente di altre 126 riprese eseguite dagli Alinari nel 1912. (Albanese, Finocchiaro,  Pecollo, 1990, p. 193). Pochi mesi prima, il 30 gennaio,  Lorenzo Rovere aveva proposto alla SPABA di “raccogliere colla cooperazione di tutti i soci le fotografie dei monumenti d’arte e di antichità del Piemonte costituendo nella società un archivio fotografico.”[9]

Secondo la testimonianza di Vittorio Viale (Viale, 1933, p. 4) in questo periodo il Museo disponeva di circa 600 “lastre”, che costituivano “il maggior complesso di documentazione fotografica, che di monumenti e di oggetti d’arte del Piemonte sia liberamente a disposizione degli studiosi”, vale a dire di un primo nucleo non formalizzato di fonti fotografiche per lo studio del patrimonio artistico e architettonico piemontese, ben distinto in termini di funzioni e soprattutto di accessibilità dal pur ricco archivio che si stava costituendo presso la Regia Soprintendenza ai Monumenti del Piemonte, nuova (1916) definizione istituzionale dell’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti diretto da D’Andrade, attivato nel 1891.

Nel 1930 Vittorio Viale venne nominato nuovo Direttore. Dopo aver richiesto invano al Podestà l’autorizzazione all’acquisto di attrezzature fotografiche per poter documentare le collezioni senza più essere “alla mercé dei fotografi di professione”[10] il Direttore formalizzava l’istituzione dell’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino (1931) con una dotazione annua di L.8.000, con la quale avviava un’ulteriore campagna di riproduzione dei “principali quadri e i più interessanti oggetti del Museo torinese” (Viale, 1933, p. 5) orientando la propria attenzione al patrimonio museale esistente piuttosto che alla estensione della conoscenza del territorio,  confermando necessariamente le scelte che già avevano caratterizzato le precedenti iniziative di Avondo e la campagna realizzata da Augusto Pedrini per il volume di Mario Soldati, Galleria d’Arte Moderna del Museo Civico di Torino, edito nel 1927 ancora sotto la direzione di Lorenzo  Rovere.

Nel 1932 Viale presentava poi al Congresso SPABA di Cavallermaggiore la propria proposta di costituzione di un Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” (riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Vacchetta e Rovere, pur senza citarle) allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle Società di Studi, a rischio di dispersione. Nella stessa occasione invitava i soci a donare “le lastre, anzi le belle lastre, che ogni anno qui fra noi, studiosi e fotografi, eseguiscono per le loro ricerche archeologiche o artistiche.” (Viale, 1933, p. 5). Le sollecitazioni del Direttore non restarono senza risposta se negli anni immediatamente successivi confluirono nell’AFFTM le fotografie raccolte dalla SPABA (nel corso di una più complessa operazione destinata a preservare il patrimonio culturale della Società), quelle prodotte in occasione della Mostra della SS. Sindone, 1931, per iniziativa del conte Lovera, e verosimilmente anche quelle realizzate da Albert Erich Brinkmann per il volume Theatrum Novum Pedemontii. Düsseldorf: L. Scwann, 1931. A queste si aggiunsero progressivamente le riprese commissionate per le grandi esposizioni promosse da Viale quali Gotico e Rinascimento in Piemonte, Torino 1938-1939 e Vercelli e la sua provincia dalla romanità al fascismo, Vercelli 1939.

Nel 1940 l’AFFTM si arricchiva di parte dell’importante Fondo Gabinio, sebbene la totalità delle lastre acquisite fosse sottoposta a drastica selezione da parte dello stesso Viale, ancora insensibile agli autonomi valori espressivi fotografia,  ed anche il decennio successivo si presenta ricco di importanti acquisizioni (Nigra: 1940-1942; Rovere: 1950; Celanza: 1951) mentre nei primi anni Sessanta vennero commissionate quasi settemila riprese in vista della realizzazione della Mostra del Barocco piemontese, 1963.

Alla fine del mandato di Viale (1965) il patrimonio complessivo dell’ AFFTM era valutato in più di ventimila fototipi, ai quali si aggiunsero verso la fine del decennio (1968) i circa 6.500 negativi e positivi di Mario Gabinio pervenuti con la donazione Marcellino-Alessio, più altri tremila fototipi provenienti da commesse e doni diversi, non specificati dalle fonti (Mallè, 1970). Nei decenni successivi e sino ad oggi l’accrescimento del patrimonio fotografico è rimasto costante, sebbene le  commesse prevalgano sulle donazioni e i lasciti, tra cui meritano di essere segnalate le fotografie di Francesco Aschieri donate dopo il 1984 dalle eredi del fotografo, l’acquisto di un ulteriore importante nucleo di stampe di Mario Gabinio (1991) e specialmente l’acquisizione del notevolissimo fondo di Stefano Bricarelli, autorevole esponente della fotografia artistica italiana nel periodo compreso tra le due guerre mondiali (1997). In quello stesso anno venne acquisito anche l’importante l’archivio di studio di Augusta Lange, mentre nel 1998 entrarono a far parte del patrimonio dei Musei Civici venti stampe di Vittorio Sella, tra i più importanti fotografi di montagna tra XIX e XX secolo.

 

 

2- Derive e approdi

 

Le vicende che hanno portato alla conformazione e consistenza attuale del patrimonio fotografico dei Musei civici torinesi hanno lasciato tracce evidenti e ben riconoscibili nella sua stessa strutturazione archivistica: così se la maggior parte dei fototipi novecenteschi (negativi e positivi) risultano sistematicamente compresi in serie coerenti, riferibili a specifici fondi tematici, ad acquisizioni e lasciti, i materiali fotografici ottocenteschi presentavano e in parte presentano ancora improprie forme di aggregazione, che sono frutto di una sequenza di accorpamenti e smembramenti successivi che la tradizionale, storica disattenzione per il patrimonio fotografico, sino ad anni recentissimi ritenuto puro materiale di consumo, non sembra sufficiente a giustificare.

In particolare la ricognizione effettuata nell’anno 2000 ha fatto emergere la presenza di importanti serie di fotografie di architettura, riferibili alle campagne documentarie piemontesi di Berra ed Ecclesia del 1882 ed alla Prima Esposizione di architettura del 1890, suddivise impropriamente in fondi diversi così come è accaduto per altri documenti fotografici coevi, in particolare di documentazione delle opere d’arte, verosimilmente riconducibili ai primi e sostanzialmente ignoti momenti della formazione dello stesso patrimonio fotografico del Museo, per la gran parte riferibili agli anni della direzione Avondo (1890 – 1910), ma solo in piccola parte archiviati in forme tali da identificarne con sicurezza la provenienza, [11] mentre proprio la loro cronologia, le analogie tematiche e la presenza di sporadici indizi documentari sollecitavano la necessità di porli in relazione con le stampe fotografiche costituenti il fondo Avondo vero e proprio (per la cui descrizione analitica rimando al repertorio in catalogo), a sua volta suddiviso tra Archivio fotografico, Fototeca e depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna.

La presenza di un nucleo di ben precisa e definita paternità collezionistica, se non di chiara provenienza costituiva però l’elemento catalizzatore di ulteriori problemi: verificata rapidamente l’impossibilità di una ricostruzione documentale delle vicende di formazione e acquisizione del Fondo così come delle ragioni della sua disseminazione in (almeno) tre sedi, si poneva il problema della definizione della sua (ipotetica) consistenza originaria, della sua integrità e completezza. Se i numerosissimi ritratti in formato carte de visite e le vedute di località svizzere dovevano necessariamente avere una provenienza privata, la presenza di un ridotto numero di immagini di Issogne non poteva che essere indizio (e residuo) dell’importante e nota (Barberi, 1999) campagna commissionata ad Ecclesia, di cui il Fondo in sé conserva però scarse tracce, mentre nel patrimonio bibliotecario museale risultano presenti ben tre esemplari dell’album[12] che ne fu il frutto (in due diverse edizioni) e sempre riferibili ad Avondo, e ancora di Ecclesia, sono i due gruppi di Fotografie del Castello Feudale e del Borgo Medioevale di Torino, realizzate nel 1884 e riferibili piuttosto ai diversi ruoli e incombenze pubbliche di Avondo, cui pare di poter attribuire anche la responsabilità della presenza, in fondi diversi, delle fotografie presentate alla già citata Esposizione di Architettura del 1890[13].

Che dire poi della provenienza di altri nuclei di fotografie quali le anonime, bellissime immagini di campagna romana, pervenute anni orsono senza ulteriori indicazioni da Palazzo Madama, mai poste in relazione col nostro ma la cui genealogia culturale orientava inequivocabilmente e quasi obbligatoriamente agli anni romani di Avondo?

Alla sua figura di artista, collezionista e Direttore del museo erano inoltre riferibili le numerose  riproduzioni di opere d’arte, specialmente dipinti ottocenteschi e gli esiti della citata campagna documentaria per la pubblicazione del 1905, di cui si erano conservate alcune decine di stampe originali. Tutti indizi sufficienti a imporre con la dovuta evidenza la necessità di indagare più a fondo l’articolazione e la consistenza di questi materiali verificando la possibilità di ricondurli alla presenza e al ruolo di Vittorio Avondo, alla sua biografia artistica e professionale, procedendo all’identificazione delle vicende e degli elementi costituenti l’archivio per giungere a delinearne l’identità quale strumento ulteriore – ma imprescindibile – di tutela attiva ma anche di conoscenza del responsabile della sua costituzione, così come delle diverse forme della cultura fotografica, dell’agire storicamente con la fotografia; di come e per quali scopi venisse utilizzata nei personali percorsi di formazione e nella definizione e gestione di un museo di “arti applicate all’industria”; di come poi queste sue testimonianze venissero abbandonate e quindi ancor più che dimenticate: confuse e lasciate (andare) alla deriva.[14]

 

3- Artista e gentiluomo

 

“F: Firenze – Alinari – Via Nazionale 8, Roma, via del Corso 90 – fotografi.” Nello scorrere i superstiti taccuini di Avondo[15] questo è il solo riferimento presente. Certo non irrilevante, sebbene piuttosto scontato per un cultore delle arti belle quale lui fu, ma specialmente sorprendente considerando che della produzione del prestigioso studio fiorentino quasi non si trova traccia  tra i numerosi ed eterogenei documenti fotografici in diversa misura a lui riferibili.

I ritratti intanto, che scandiscono per rare tappe tutto l’arco della vita sua[16] a partire dal primo bellissimo, realizzato in due versioni (FVA064, FVA063) da Carlo Duroni[17] intorno al 1860  congiuntamente a quello dell’amica Marie Dunner (FVA0352), cui Avondo – in studiatissima posa di ‘artista da giovane’, forse appena tornato da Roma , doveva essere particolarmente affezionato se lo scelse per Telemaco Signorini[18] in quella consuetudine di scambio di carte de visite che costituiva uno dei gesti sociali più diffusi in ambiente borghese nei decenni immediatamente successiva alla seconda metà dell’800, quando la circolazione di queste immagini assurse a vero e proprio fenomeno di moda e tra le principali attività dei più noti studi fotografici (Sagne, 1994). Di circa dieci anni più tardi sono invece le due versioni di ritratto in piedi realizzate nello studio Fotografia dell’Alta Italia di Alessandro Guglielminotti nella stessa occasione in cui si fa ritrarre anche il padre Carlo (FVA032), forse a celebrazione e suggello di un evento particolare e a noi oggi non noto.

Sono riprese sostanzialmente coeve al ritratto a figura intera (FVA118) in elegante costume da “antico gentiluomo inglese” (Gribaudi Rossi 1979, p. 28; Dragone 2000, p. 120) realizzato da Giovanni Battista Berra nello studio Fotografia Subalpina, a celebrazione e ricordo dell’invito al gran ballo offerto dal duca Amedeo d’Aosta il 16 febbraio 1870, analogamente a quanto fecero moltissimi degli esponenti della nobiltà e della borghesia torinese allora presenti e le cui immagini, raccolte in un album poi donato all’ospite, ritroviamo in parte anche tra i documenti personali di Avondo, a testimonianza di legami solidi e duraturi come quello con Severino Casana, di cui si conservano sia il ritratto per il ballo, in coppia con la moglie in serissimo costume da fulmini con la scritta anticlericale “Ils ne blessent pas, ils ne sont pas du Vatican”, sia un più tardo e ufficiale ritratto da senatore del regno in una bella platinotipia dello Studio Bertieri.

La messa in scena, il tableau vivant offerto ad un pubblico più o meno ampio assumeva nella cultura dell’epoca significati diversi e non sempre per noi facilmente comprensibili e distinguibili, in elegante equilibrio tra culto esibizionistico di sé – basti pensare all’esempio clamoroso della contessa Verasis di Castiglione[19] – passione storicista e goliardia.  Riprese in studio e balli di corte certo, ma anche le feste in costume al Circolo degli Artisti e i Cavalieri del Bogo; gli orientalismi e il melodramma, gli Ordini cavallereschi, il neogotico e la riconsiderazione del medioevo: come stupirsi allora se per il Natale del 1872, nell’appena acquistato maniero di Issogne, Avondo, D’Andrade, Pastoris e i due Giacosa festeggiarono vestendo “maglie e corazze e cotte sdrucite d’uomini d’arme così, per il piacere di guardarsi assaporando nell’ondeggiar delle lanterne e del focolare lampi di realtà che li colmavano di deliziosi brividi.”[20] Un bellissimo regalo di Natale, fanciullesco e giocoso ben oltre i programmi culturali, cui per altro nessuno intendeva rinunciare, assumendo comportamenti che a noi oggi paiono inconciliabili, ma a cui vanno assegnate anche altre vicende tipiche di questo gruppo di artisti e intellettuali, quali la decorazione di poco antecedente (1866) di una sala del castello di Lozzolo, realizzata mentre intorno le cose “andavano ad magnam meretricem”[21], ma di cui possiamo ritrovare traccia anche nelle cronache intorno ai ben altrimenti fondati interventi per il restauro di Issogne (contro la teatralità di più illustri esempi francesi) e per la  realizzazione del Borgo medievale per l’Esposizione del 1884.[22]

È una trama di relazioni e amicizie che troviamo illustrata, restituita in immagine nella ricca serie di ritratti conservati nel fondo, in parte raccolti da Avondo, come allora era uso, in un album[23] tascabile di carte de visite, quasi un piccolo oggetto devozionale, un pantheon personale e affettivo le cui presenze, troppo consuete e vicine, non necessitavano di identificazione scritta: D’Andrade, a Roma nel 1862, e  Bertea,  fotografato a Parigi da Disderi tra i primi, quindi una serie di presenze per noi prevalentemente anonime, specialmente quelle femminili; oggi figure mute ma non per questo meno interessanti e significative nelle loro caratteristiche di insieme, nel loro essere rappresentazione corale di un’élite composita ma chiaramente identificabile, definita[24].

Col ritorno da Roma nell’anno della proclamazione dell’Unità Avondo avviava la propria sistematica partecipazione, anche istituzionale, alle vicende della cultura artistica torinese: da subito membro del Circolo degli Artisti,  nel 1863 venne chiamato a far parte del Giurì del nascente Museo Civico[25], nel cui Comitato direttivo siederà dal 1870, anno in cui partecipò anche ai lavori della Commissione per l’individuazione dei monumenti nazionali, segretario Biscarra, poi (1874) a quelli della Regia commissione conservatrice provinciale con Severino Casana, Ariodante Fabretti, Crescentino Caselli, Riccardo Brayda, Pietro Vayra e  Carlo Ceppi (Volpiano, 1999, p. 48). Nel 1880 venne coinvolto, nella duplice veste di collezionista e di membro della Commissione nella preparazione della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, mentre ben noto è il ruolo da lui svolto nella messa a punto del progetto per la successiva Esposizione del 1884.

Può essere fatta risalire alla fine di questo decennio l’altra rara serie di ritratti di quest’uomo di “natura altera e alquanto bizzarra” (Rossi, 1912,p. 3) che Luigi Cantù, dal 1889 collega di Avondo nel Comitato del Museo[26], realizzò nella forma della sequenza, muovendo intorno al soggetto, seduto e col sigaro tra le dita, quasi una rievocazione dei primi suoi ritratti eseguiti da Carlo Duroni, in una relazione palese di grande familiarità, lontanissima dall’ufficialità distante del suo ultimo (S48-05 fot 207), realizzato nel 1908 da Oreste Bertieri[27]: quello stesso che Thovez sceglierà per aprire la monografia del 1912.

 

4 – Motivi per ricordare

Forse è ancora troppo presto, nel 1852, perché il giovanissimo Avondo acquisti fotografie nel corso dei viaggi compiuti in Toscana al seguito dei genitori; compilerà invece degli album, con piccoli paesaggi dove “il disegno a matita, ingenuo e malfermo (…) rivela il principiante.” (Maggio Serra, 1997,p. 64). Deciderà poi, come è noto, di recarsi a Ginevra per studiare presso “l’inevitabile Calame” (la definizione è di Marziano Bernardi[28])  facendovi base almeno sino all’aprile del 1857, ma da qui compiendo numerosi viaggi: non solo brevi puntate a Torino, ma anche in Savoia e nel sud della Francia – come documentano i taccuini e le opere esposte alla Promotrice del 1856 (Signorelli, 1997,p. 25) – e forse a Parigi per l’Esposizione del 1855: viaggio mitico di cui non restano tracce documentali dirette, esplicite.[29]

“Il Fontanesi e l’Avondo avevano avuta la rivelazione [della nuova pittura di paesaggio] dalla mostra di Parigi del 1855 (…) L’Avondo visitò l’Esposizione parigina e vi conobbe la scuola del trenta: Corot, Daubigny, Rousseau, Huet, Dupré: ritornò a Ginevra sconvolto da  quella visione di un’arte più libera e vera, più profonda e potente. Non nascose al Calame la sua meraviglia; ed egli amava raccontare, sorridendo, come il Calame fosse rimasto quasi offeso da quell’entusiasmo”. Così ricorderà Thovez nel 1912, e non c’è ragione di non credergli viste le sue opportunità di frequentazione diretta, sebbene poi proprio dell’incontro con la metropoli del XIX secolo nulla rimanga: non un appunto, un piccolo disegno, una qualsiasi veduta urbana tra le sue carte; restano però ben quattro ritratti nel formato carte de visite realizzati da altrettanti studi parigini[30].

Anche di altri luoghi canonici di quei suoi anni di peregrinazioni formative restano tracce scarse o nulle, quasi tutte nell’allora diffusissima forma della stereoscopia: nessuna veduta di Ginevra risulta superstite, ma troviamo immagini dei castelli di Chillon e Thun, realizzate dal fotografo ginevrino Joseph Florentin Charnaux, ed una veduta di Losanna col campanile della cattedrale che svetta sui tetti delle case, soggetto cui sembra riferibile anche un piccolo disegno a matita compreso nel lascito ai Musei civici (inv.fl/574), oltre ad alcune vedute di Friburgo (FVA0523-25), dell’ Oberland bernese[31]e delle cascate del Reno a Sciaffusa, compresa questa  nell’importante serie di Views of Switzerland and Savoy  realizzata da  William England nel 1863, cioè in una data successiva al soggiorno ginevrino di Avondo.

E poi l’Italia: dalle montagne della Valle d’Aosta a Pisa e Firenze, quindi  Ceccano e Roma e Pompei: elementi di una serie di stereoscopie edite da Richter di Napoli che di fatto rappresentano i soli monumenti archeologici documentati nel fondo.

 

4.1 – Immagini della Campagna romana

Ammesso che il fondo ci sia pervenuto integro, sono veramente pochi i ricordi fotografici rimasti dei diversi viaggi compiuti da Avondo, che ci appare legato alla memoria delle persone piuttosto che dei luoghi. Quando la sua attenzione ne è attratta le ragioni si presentano  diverse, immediatamente artistiche, legate alla comprensione problematica ed alla restituzione sentimentale del paesaggio, al confronto col vero, all’esercizio della pittura: in questo il biennio 1855-57 si presenta cruciale.

Pur non essendo documentalmente confermata l’esperienza parigina e il conseguente “incontro sconvolgente con la pittura naturalistico-romantica dei Barbizonniers” (Maggio Serra, 1997, p. 70) è impossibile non riconoscere nell’andamento dei disegni come dei dipinti successivi a quella data l’accadere di una qualche esperienza decisiva, da collocarsi necessariamente in questo ristretto arco di tempo. Avondo è a Roma forse nel 1856, certo dal ’57 e pare rimanervi sino ai primi mesi del 1861, anno in cui entra a far parte del Circolo degli Artisti (Volpiano, 1999, p. 46) sebbene sia certa la sua presenza a Torino già all’inizio di luglio del 1860, quando incontra Telemaco Signorini reduce da Pozzolengo (Dini, 1997, p. 269) e poi ancora ad ottobre, quando effettua un prestito in denaro (Signorelli, 1997, p. 14). Primo esito pittorico dell’esperienza romana fu Effetto di mattino nella valle di Ariccia esposto alla Promotrice torinese dello stesso anno, mentre nel 1861 invierà Scirocco nella campagna romana;  a quel periodo appartengono anche Tramonto sul Teverone e Teverone, nei quali “la scelta in direzione verista appare già compiuta” (Maggio Serra, 1997, p. 70). Sono questi i primi “bellissimi studi dal vero della campagna romana” cui si riferirà Thovez nel 1912,  “mirabili per larghezza di sintesi e per economia di mezzi”,  sottolineando per primo quella sostanziale mutazione di modi espressivi che costituirà da allora un punto fermo nella comprensione critica del percorso artistico di Avondo; giudizio confermato a decenni di distanza da Rosanna Maggio Serra che ha parlato a questo proposito di “struttura compositiva e tavolozza ridotte all’essenziale”, riconoscendone la genesi proprio in quegli studi di Campagna romana da lei così attentamente studiati[32] e collocati cronologicamente in un arco di tempo compreso tra 1857 (Gruppi C, D) e 1865 (Album nn.4, 14, Gruppi F, G, H), studi che sembrano preludere, o almeno letteralmente anticipare le opere presentate nei decenni successivi, a partire dal 1866,  alle diverse esposizioni torinesi del Circolo degli Artisti e della  Promotrice delle Belle Arti, in una sequenza che pare fluire morbidamente senza soluzioni di continuità, scandita da apprezzamenti e letture che colgono la sensibilità di questa “anima intuitiva, che vibra (…) alla linea vasta della bella natura” (Mario Michela, 1880, in Di Macco, 1997, p. 49), confermando la sua capacità di realizzare opere in cui “si respira l’incanto della campagna laziale, pregna di storia e poesia secolare.” (Maggio Serra, 1997, pp. 71-72)

La loro cronologia offre spunti per considerazioni interessanti: quasi tutti i dipinti infatti sono stati realizzati a distanza di anni, di decenni anche dal soggiorno romano, confermando un’osservazione non proprio innocente di Thovez per il quale Avondo “aveva studiato così acutamente il vero, che poté concedersi il lusso di lavorar completamente di maniera, pur riuscendo spesso a  una verità maggiore di molti veristi”, seguito in questo da Marziano Bernardi che nel 1936 parlava di “rari quadretti (…)  elaborati a distanza d’anni su ricordi della campagna romana.” (1936, pp.n.n).

Si tratta certo del metodo consueto della rielaborazione in studio di bozzetti e disegni realizzati en plein air: all’Ariccia,  a Cervara, lungo il corso del Tevere, al Casale della Crescenza e così via, ma è ancora Thovez a ricordare, sempre nel 1912,  come “lasciando Roma [dove Avondo aveva creato “forse le sue cose più belle”] fece, come era uso fra gli artisti di quel tempo, una vendita di tutte le cose sue: i documenti più preziosi dei suoi studi dal vero andarono così in molta parte dispersi.” Dato interessante, informazione utile che potrebbe dar conto delle ragioni dell’imponente lacuna cronologica nelle testimonianze grafiche oggi note, datate o databili – come si è visto – al 1857 e al 1865, non solo escludendo così quasi l’intero periodo della sua permanenza (1857-1860) e della possibilità di praticare l’osservazione dal vero, ma confermando per converso la tradizione di una redazione dei disegni e più ancora dei dipinti condotta in forma più che indiretta.

Per comprendere la novità non solo individuale della sua pittura, di quella  sua capacità di imprimere ai “paesaggi una poesia così tranquilla [in cui] le lontananze sono così artisticamente ondulate, l’aria così diafana, l’erba così molle (…).” (Pietro Giacosa, 1870, in Signorelli, 1997, p. 18, nota 60), quella sua “lunghezza infinita di sguardo che ricerca il colore dell’aria” (Maggio Serra, 1997, p. 72) può non essere sufficiente  allora tener conto delle influenze degli artisti e delle opere incontrate tra Roma e Firenze: Nino Costa, certo, affettuosamente ricordato anche nel rifugio di Lozzolo (Dragone 2000, pp. 74-75) e già in contatto con Enrico Gamba, e poi Mariano Fortuny, a Roma dal marzo 1858, e ad alcuni artisti inglesi come G.H. Mason e Charles Coleman, di cui Avondo possedeva piccole opere[33] ma che certo non possono essere chiamati a sostenere la sua svolta espressiva.

I tempi e i modi del suo operare, così come gli esiti delle opere ci portano, ci obbligano quasi a considerare una più ampia trama di relazioni e suggestioni, a riflettere sulle conseguenze dell’incontro con i luoghi rappresentati, sullo scegliere e quasi sull’essere scelti da quel paesaggio di campagna romana che aveva attratto allora diverse generazioni di pittori[34] e che proprio in quegli anni veniva nuovamente rivelato dai più sensibili esponenti della cosiddetta Scuola fotografica romana[35], anch’essi frequentatori del Caffé Greco, come Costa, come Ippolito Caffi, tornato a Roma nel 1855 dopo aver soggiornato anche a Torino (Pirani, 2003, p. 43) e in stretta relazione di amicizia con uno dei più importanti fotografi della Scuola, il padovano Giacomo Caneva.

Non diciamo nulla di nuovo richiamando le forti intersezioni e influenze, reciproche, tra fotografia e pittura per gli artisti ottocenteschi. Ben prima delle indagini di Schwarz, delle sintesi estreme di Mollino e delle più tarde sistematizzazioni di Scharf[36], Telemaco Signorini riconosceva che “la macchia (…) nacque nel 1855 da tre artisti e non dei peggiori in  Italia, coadiuvata dalla fotografia, invenzione che non disonora poi il nostro secolo e non ha colpa nessuna se qualcuno decade in arte abusandone”[37], ed alla stessa sensibilità credo debba essere assegnata la scoperta entusiasta che Saverio Altamura di ritorno da Parigi faceva del “ton gris” di Decamps, ottenuto con “uno specchio nero che, decolorando la natura, permettere di cogliere la totalità del chiaroscuro, la macchia”[38], abbandonando la ricerca ostinata, analitica del dettaglio, analogamente a quanto andavano facendo i primi fotografi che lasciavano la precisione ottica del dagherrotipo per misurarsi col calotipo, avvalendosi di tutte le possibilità espressive e interpretative fornite dal negativo di carta e dai diversi possibili trattamenti delle carte di stampa. Già nel 1851 il critico Francis Wey in un articolo sul periodico parigino “La Lumière” aveva notato come “La photographie est, en quelque sorte, un trait d’union entre le daguerréotype et l’art proprement dit. Il semble que passant sur le papier, le mécanisme se soit animée. (…) la photographie est très souple, surtout dans la reproduction de la nature ; parfois, elle procède par masses, dédaignant le détail comme un maître habile, justifiant la Théorie des sacrifices, et donnant ici l’avantage à la forme, et là aux oppositions des tons.”[39] Molti autori francesi avevano adottato la nuova tecnica, da Le Gray a Le Secq, da Marville  a Joseph Vigier, realizzando études  che sono vere e proprie raccolte di soggetti d’après nature destinati agli artisti[40], come quelle che Louis-Désiré Blanquart-évrard pubblicava a Lille nel 1853 -54 (Jammes, 1981, p. 73).

È quella stessa attività cui si era dedicato l’ancora misterioso Firmin Eugène Le Dien[41] ma soprattutto Giacomo Caneva, a Roma dal 1839 dove aveva esercitato per alcuni anni l’attività di pittore[42] prima di passare alla fotografia, attività in cui  “allontanandosi dagli intenti ‘monumentali’ e vedutistici della fotografia dell’epoca e della ‘Scuola romana’ di fotografia in particolare – ci mostra, negli interessi al paesaggio e alla campagna romana, uno degli aspetti della sua attività, in genere poco studiato ma fra i più stimolanti del suo percorso (…) con esiti di grandissima qualità anche emotiva, confermati da numerosi altri soggetti fra loro coerenti, come studi di piante, di rocce e di fogliami, ripresi nel verde delle ville di città e nella campagna, a Castelfusano e a Ostia.” [43]

Nel 1850 Caneva pubblicava una prima raccolta dedicata a Roma in fotografia 12 Tavole per 8 scudi romani / Ogni tavola separata Otto paoli cui farà seguire nel  1855 un’altra serie di Vedute di Roma e dei contorni in fotografia. È lo stesso anno della pubblicazione del suo Della fotografia. Trattato pratico. Roma: Tipografia Tiberina, considerato il primo testo organico redatto in italiano, in cui analizzando in termini di coerenza espressiva le diverse tecniche allora disponibili riconosceva come “del contrario [al vetro] le negative su carta danno tutta la scabrezza, la ruvidità e la immensa varietà dei toni della natura. (…) E il paesaggio, i monumenti antichi, le rocce ecc. ecc. converrà sempre trarle con carta”[44],  eventualmente “servendosi d’uno sfumino in carta e della piombaggine, [per] comporre un cielo, dar prospettiva aerea ed effetto a una negativa che manchi di tali prerogative.” (Caneva, 1855, pp.11, 50).

È alla seconda di queste due serie che devono essere verosimilmente assegnate buona parte delle trentasette stampe su carta salata, cerata o albuminata, oggi presenti nel fondo Avondo, molte delle quali ritraggono proprio quella  “pianura povera e brulla che altri non avrebbe degnato di uno sguardo”, che tanto aveva affascinato Vittorio Turletti nel 1874, posto di fronte all’avondiano Di mattina.[45]  Sono fotografie che Avondo doveva considerare importanti o quantomeno utili e ancora utilizzabili se al momento della sua partenza da Roma decise di non separarsene, di tenerle con sé per il resto della sua vita. Fotografie che oggi sembrano costituire l’elemento sinora ignoto, nascosto come la lettera di Poe, per procedere ad una migliore comprensione della sua vicenda pittorica.

È la sola loro presenza – in quanto fotografie – che già ci consente di riconsiderare alcune sue soluzioni stilistiche: non mi riferisco solo ad un comporre che procede per masse ed alla significativa riduzione della gamma cromatica, che tanto deve alla resa tonale propria delle diverse varianti del calotipo, penso anche all’ampiezza quasi grandangolare di molte vedute, non solo in disegno; all’uso non infrequente di contrasti luminosi marcati e in particolare del controluce, quale lo vediamo nel piccolo carboncino Osteria di papa Giulio fuori porta del popolo [sic] o Nei Prati di Castello (Bernardi, 1936, t.23) e specialmente nel piccolo olio compreso nel lascito ai Musei in cui il motivo del profilo urbano da cui emergono le cupole adotta una formula analoga a quella utilizzata da Edgar Degas, Roma vista dalle sponde  del Tevere, 1857ca.[46] Il confronto sistematico tra queste fotografie ed il corpus complessivo della produzione grafica di Avondo, reso possibile dalla schedatura su supporto informatico redatta da Chiara Maraghini per la direzione di Virginia Bertone, consente di individuare elementi ricavati da singole fotografie e restituiti con differenti gradi di rielaborazione in numerosi disegni e dipinti[47], come accade ad esempio per le suggestioni fortemente materiche che rendono per noi così affascinanti molte di queste fotografie e che riconosciamo nel piccolo olio su carta Sul Teverone  (inv. P/865) come nel più tardo Afa, 1885 (Thovez, 1912, t.24). In altri casi poi il riscontro è immediato, puntuale: si confronti il disegno de Il Teverone a nord di Roma (inv. fl/447) con la Veduta del Tevere a nord di Roma (FVA590) o ancora la parte destra dell’altra fotografia del Tevere a nord di Roma col disegno Teverone e cupola (inv. fl/571), ma soprattutto Nella valle del Pussino, 1874, oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, con Campagna di Roma. La Crescenza detta Valle di Pussin fuori Porta del Popolo [sic] che è una delle più note immagini di quello stesso Caneva, cui si devono anche le vedute precedenti, che Avondo acquistò dallo stesso fotografo o più probabilmente da Cuccioni, editore per cui Caneva lavorava e di cui il fondo conserva anche un album litografico di costumi romani.[48]

L’interesse forse non solo strumentale di Avondo, come di molti pittori suoi contemporanei, per la produzione fotografica è del resto testimoniato anche dalle due bellissime riprese di soggetto fiorentino (FVA606, 607), anonime, ma che per caratteristiche tecniche e livello qualitativo possono essere avvicinate alla produzione di John Brampton Philpot (Falzone del Barbarò, 1989) così come da alcuni disegni che rimandano ad immagini note ma non più presenti nel fondo quali la Passeggiata lungo il Tevere, con S. Pietro (fl/452), che ripropone graficamente uno dei luoghi canonici del vedutismo fotografico romano[49], di fortuna analoga a quella Veduta del Vicolo Sterrato che costituisce il tema non dichiarato di uno dei disegni pubblicati da Italo Cremona (1946, p. ix), a sua volta direttamente derivato da una fotografia di autore non identificato[50] e oggi non presente in collezione.

 

5 – “Le antichità gli furono assai più care dell’arte”  (Thovez)

Il ritorno a Torino corrispose per Avondo ad un coinvolgimento totale nella vita artistica e culturale della città, dal Circolo degli Artisti alla Società Promotrice delle Belle Arti al nascente Museo Civico sino alla collaborazione con l’Accademia Albertina (1870), da cui derivò immediatamente l’invito a far parte della Commissione consultiva per i monumenti nazionali d’antichità e belle arti (Vitulo, 1997).  Tra gli edifici indicati venne compreso anche il castello di Issogne, che Avondo aveva segnalato nel 1871 e acquistato nel 1872, già oggetto di vivo interesse da parte di numerosi artisti piemontesi sin dai primi anni ’50 (Dragone, 2000, p. 65-66) e ancora pochi anni prima (1865, 1868) una delle mete scelte da Pastoris e D’Andrade.[51]

Il suo inserimento nell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  ne determinò pochi anni dopo la prima sistematica documentazione fotografica, condotta nell’ambito della campagna promossa – su richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione – dalla Commissione conservatrice dei monumenti di antichità e d’arte della Provincia di Torino, di cui Avondo faceva parte dal 1876,  che dopo una prima ipotesi  non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” (18 giugno 1881) aveva deliberato di assegnare l’incarico a due dei migliori professionisti piemontesi: Giovanni Battista Berra[52] per il circondario di Torino e Susa e Vittorio Ecclesia[53] per il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli.[54]  Circa un anno più tardi, il 24 agosto 1882 Federico Pastoris, ospite a Issogne, scriveva ad Avondo comunicandogli che la campagna era in corso: “Ecclesia aveva eseguito otto foto per il Ministero e quattro per conto suo «e fece bene, perché son certo che a quanti le vedranno piaceranno assai e serviranno a dare del tuo castello un’assai buona idea»”[55]. Avondo fu però di parere nettamente diverso, tanto da diffidare formalmente il fotografo presso la Regia Pretura di Asti affinché non “vengano poste in commercio, né sieno in alcun modo pubblicate le fotografie da esso Signor Ecclesia ricavate nell’interno del Castello d’Issogne”, ciò specialmente in virtù dei danni che ne sarebbero derivati “in conseguenza della pubblicazione di dette fotografie, la quale lo pregiudicherebbe sicuramente nell’utile che egli solo intende ed ha diritto di ricavare dalla riproduzione in qualsiasi modo della sua proprietà d’Issogne.”[56] Come accadde in altre occasioni della sua vita fu nell’attenta valutazione dell’utile che se ne poteva ricavare che Avondo collocava il limite alla propria liberalità culturale, sebbene non dovesse dispiacergli l’occasione, e la possibilità di celebrare in certa misura il decennale dell’acquisto del castello, dei suoi interventi di restauro conservativo[57] come dei criteri e degli esiti del suo riallestimento quasi filologico.

Forse anche per queste ragioni il contenzioso venne risolto due anni più tardi con la stipula di uno specifico contratto che prevedeva la realizzazione di “due opere artistiche da mettersi in vendita in forma di Album con vedute fotografiche tratte dal detto Castello, l’uno di n. 20 fotografie della grandezza di 21 per 27 centimetri l’altro di 13 per 18 centimetri. (…) Il costo dei vetri, clichets, sui quali il Si.r Ecclesia Vittorio ha fatte le negative in n. di settantadue è a spese comuni” , così come la stampa e la confezione degli album e delle singole stampe da mettersi in vendita “nonché le spese necessarie per prenderne la privativa dal Governo” cioè  per la “tutela della proprietà artistica”;  Ecclesia era inoltre incaricato della vendita, i cui proventi dovevano essere divisi mensilmente. Alla scadenza quadriennale “essendo le negative di proprietà comune si dovranno vendere al miglior offerente, nonché gli album e copie in fotografia che potessero rimaner invendute, ed il Signor Ecclesia Vittorio non potrà più d’allora in poi produrre, né vendere vedute del detto Castello senza il consenso del Cav.re Vittorio Avondo.” [58]

La realizzazione procedeva speditamente affidando alla  Tipografia e Litografia Camilla e Bertolero di Torino  la tiratura di 500 più 500 copie del testo,  firmato da Giuseppe Giacosa, stampato  nei due diversi formati, grande e piccolo, “compreso lo stemma in litog. a 3 colori” e già nel maggio 1884 Ecclesia poteva vendere il primo “album piccolo senza copertina e senza testo [e] un album gran formato con la copertina e testo.”[59] Alla Libreria Francesco Casanova venivano poi lasciati in deposito alcuni esemplari, per la gran parte invenduti dopo cinque anni[60], nonostante la grande qualità delle riprese di Ecclesia, attento sempre a restituire dinamicamente i rapporti volumetrici tra le diverse parti del castello, mediante l’utilizzo sistematico di sapienti accorgimenti quali il fotografare interni ed esterni tenendo sempre le porte aperte, a mostrare o suggerire almeno le connessioni spaziali tra i diversi ambienti, come farà più di un secolo dopo anche Luigi Ghirri (Cavanna 1999), ma non dimenticando – forse su suggerimento dello stesso Avondo – quelle suggestioni medievaleggianti che qui lo portarono ad introdurre un armigero poggiato al bordo della fontana del melograno, analogamente a quanto andava facendo nello stesso anno nelle riprese del Borgo Medievale[61], animate da personaggi in costume. Ritroviamo qui – in forme diverse –  quella apparente oscillazione del gusto che tanta parte aveva nella cultura di questi intellettuali, quella stessa che aveva prodotto anche il Ritorno dalla Terra Santa di Pastoris (1880) in cui si ritrovano felicemente coniugati il realismo analitico della precisione descrittiva delle architetture e dei decori del cortile del castello e l’immaginario storicista della scena. Sarà quella stessa cultura visiva che verrà ripresa e sviluppata da Edoardo di Sambuy nel 1898, quando si spinse sino alla citazione letterale di Ecclesia variandone però significativamente il trattamento, la resa: qui sono le figure in costume a divenire il soggetto principale e il centro d’attenzione[62]; il punto di vista è abbassato, solo i primi piani sono a fuoco e l’elemento architettonico è ormai trasformato quasi in fondale scenografico. Sono immagini che costituiscono la prima concreta testimonianza piemontese di quel passaggio dalla riproduzione alla fotografia artistica che sarà sancito dall’Esposizione internazionale del 1902, di cui lo stesso Di Sambuy fu direttore artistico.

Se il successo commerciale degli album fu ridottissimo le immagini di Ecclesia ebbero invece ampia circolazione, sebbene in forme certo più soddisfacenti per il committente che per il suo autore: la seconda edizione del volume di Giuseppe Giacosa dedicato ai Castelli Valdostani e Canavesani, pubblicato a Torino da Roux e Frassati nel 1898 era corredata da  illustrazioni di Carlo Chessa (1855 – 1912) ricavate dalle sue fotografie, ma già prima, nel 1896 lo studioso francese  Robert Forrer (1866 – 1947), che aveva visitato Issogne nell’ambito di una sua più ampio studio delle residenze castellate[63], aveva pubblicato a Strasburgo illustrandolo con 12 stampe anonime tratte dalle fotografie di Ecclesia, il suo Spätgothische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne, certo per accordo con lo stesso Avondo, che ne disponeva di copie per la vendita in Italia.[64]

In questa comunanza di interessi collezionistici e museografici si collocava il commento introduttivo di Forrer, per il quale  “il castello costituisce  un vero e proprio repertorio per l’industria delle arti applicate, per coloro che intendano allestire ambienti in stile gotico, restaurare manieri antichi o realizzarne dei nuovi in stile a scopo abitativo o museale” (citato in Barberi, 1997, p. 146), richiamando così e riconfermando il senso del favorevole commento pubblicato da Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux- Arts” a proposito dell’Esposizione di Torino del 1880, che aveva avuto Avondo tra i membri della Commissione ordinatrice[65], in cui la disposizione degli oggetti si presentava come nella casa di un uomo di gusto «quand on entre, on est touché par une sorte d’armonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les œuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite.» (in Di Macco, 1997, p. 53).

Alla morte di Emanuele Tapparelli d’Azeglio nel 1890 Vittorio Avondo venne nominato direttore del Museo Civico e quindi chiamato a far parte della Commissione della II sezione, di Arti applicate, della Prima Esposizione italiana di Architettura, promossa dalla corrispondente Sezione del Circolo degli Artisti (Volpiano, 1999,pp. 89, 107 nota 28), tappa importante di un processo di trasformazione che coinvolgeva contemporaneamente  la ridefinizione del ruolo culturale e professionale dell’architetto così come dello studio e della comunicazione dell’architettura in una società industriale.

Nel 1884 la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani, che si tenne a Torino in occasione dell’Esposizione Generale Italiana aveva affidato al Collegio torinese il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[66], iniziativa che ebbe quale primo esito la donazione da parte di Camillo Riccio dell’album  contenente i progetti di tutti gli edifici da lui realizzati per l’Esposizione, ancora oggi conservato al Circolo degli Artisti, cui fece seguito nel 1886 la richiesta avanzata al Ministero della Pubblica Istruzione di poter organizzare una “speciale esposizione di opere architettoniche”. In occasione del successivo Congresso di Venezia del 1887 il Collegio torinese fu quindi in grado di presentare il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale: esso era costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”

In quello stesso anno maturava la decisione del distacco dalla  Società degli ingegneri e industriali e la costituzione della Sezione di architettura del Circolo degli Artisti, che continuava ad arricchire – come ricordava Mario Ceradini nel 1890 – “il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, mentre prendeva forma l’idea della grande esposizione di architettura, poi inaugurata nel febbraio del 1890 sotto la presidenza di Giovanni Angelo Reycend, vicepresidente della Società degli Ingegneri e presidente della stessa Sezione, proprio nel palazzo progettato da Camillo Riccio per la Sezione di Belle Arti della precedente Esposizione del 1884.

Mentre in ambito disciplinare fu di grande rilevanza l’apertura ai temi urbanistici, in termini di strumenti per la divulgazione e lo studio, di comunicazione quindi, la grande novità – non per tutti positiva[67] – era costituita dal definitivo ricorso alla fotografia, che già aveva svolto un ruolo determinante nelle Esposizioni precedenti e nell’allestimento museografico del Museo Regionale e che confermò qui le proprie rilevanti potenzialità documentarie, ampiamente testimoniate non solo dalla ricca sezione dedicata alle pubblicazioni con opere di Secondo Pia, Vittorio Ecclesia , Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet (mentre mancavano gli Alinari), ma anche dalla grande quantità di fotografie esposte nella divisione di “edilizia moderna”, dedicata alle urbanizzazioni di “oltre cinquanta città europee ed extraeuropee”, e da quelle regioni come la Lombardia e l’Emilia che esponevano esempi di documentazione fotografica del proprio patrimonio architettonico o di importanti restauri, come quello della Basilica di San Marco.

Il successo dell’iniziativa fu tale da indurre il Ministro Boselli a chiudere la manifestazione dichiarando l’intenzione di renderla permanente, conservando parte dei materiali governativi e sollecitando la generosità di municipi e privati. La proposta venne immediatamente fatta propria dal Comune di Torino che offrì la sede procedendo anche alla nomina di un comitato per la messa  a punto di un progetto di regolamento, ma il Museo non  venne mai realizzato.

Le dotazioni dapprima confluite al Circolo degli Artisti, consentendo così a Vacchetta – come si è detto – di formulare l’ipotesi di istituirvi nel 1897 un  “Museo Piemontese di Architettura”, vennero quindi donate, nell’aprile dell’anno 1900, tranne i disegni e i libri appartenenti alla Biblioteca,  al Museo Civico di Architettura “con che nel Museo ciascun oggetto porti una targa colla scritta ‘Dono del Circolo degli Artisti – Sezione Architettura” (Atti Municipali, 1900, II, p. 817). Avondo, chiamato a norma del nuovo regolamento ad esprimere un parere valutava positivamente la donazione, che avrebbe potuto trovare “appropriata sede nell’edificio già delle Belle Arti al Valentino, dove si trovano i calchi di Bari” e nella successiva seduta del 5 maggio  la Giunta comunale approvava “con riserva di provvedere (…) all’allestimento del locale.” (ibidem).

Entrarono così  a far parte del patrimonio del Museo Civico anche decine e decine di fotografie, da allora collocate e forse dimenticate nei depositi di Palazzo Madama, sebbene ne facessero parte, insieme ad importanti esempi della migliore produzione internazionale dell’epoca, intere serie documentarie realizzate dai più autorevoli fotografi italiani: dai palazzi veneziani fotografati da Paolo Salviati alle architetture ferraresi minuziosamente descritte da Pietro Poppi (Fotografia dell’Emilia), dalla campagna documentaria sul patrimonio monumentale friulano di Antonio Sorgato alle affascinanti vedute siciliane di Giuseppe Bruno: un primo reale nucleo di collezione e di archivio fotografico di cui nessuno dei direttori successivi seppe riconoscere l’interesse e il valore.

Quelli dal 1890 furono per Avondo anni di ben diverso impegno, dedicati a questioni di ben maggiore  importanza, connesse alla necessaria separazione fisica delle due sezioni di cui era costituito il Museo. Col completamento dei lavori di adattamento della palazzina della Esposizione operaia realizzata per l’Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880 e il successivo  trasloco nell’aprile 1895 si imponeva la necessità di una revisione museografica degli allestimenti, condotta in tempi rapidissimi e che ottenne il plauso del Comitato direttivo, Sezione Arte antica, invitato da Avondo nel dicembre dello stesso anno a “fare un giro per le sale del Museo onde riconoscere il modo in cui vennero esposte le varie collezioni e anche il modo in cui furono spese le somme (…) compiuto questo giro tutti i consiglieri si congratularono vivamente col Comm. Avondo pel modo razionale ed artistico con cui le collezioni vennero ordinate.” [68] Un esito così apprezzato comportava, imponeva quasi il progetto di “una pubblicazione che illustrando il museo lo renda sempre più praticamente utile (…) e che possa apparire nella prossima Esposizione Nazionale di Torino, quale un nuovo importante documento del progresso artistico della nostra città.” (in Pettenati, 1997, p. 97) rimeditando certo su modelli stranieri ben noti, ma anche in implicita competizione con quanto andavano realizzando negli stessi anni e con identici scopi altre importanti istituzioni torinesi quali l’Armeria Reale (Cavanna 2003). Soprattutto interessante il ricorrente richiamo alla funzione di pratica utilità che ancora si riconosceva al Museo, cui non corrispondeva in quegli anni una soddisfacente affluenza di pubblico[69] e la volontà di testimoniare il “progresso artistico” torinese, in aperta contrapposizione con chi come Antonio Taramelli  ancora negli stessi anni lo giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[70], riproponendo ormai tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra.” (in Maggio Serra, 1981, p. 29)

L’appuntamento con l’importante esposizione torinese non fu però rispettato e solo nel febbraio del 1899 la Giunta comunale di Torino approvò la proposta di Avondo di realizzare la “pubblicazione illustrativa”, col sostegno determinante del sindaco Casana che in prima persona presentava “alcune tavole in fotografia e fotocollografia per dare una idea del come sarà per riuscire l’opera.” (Delibera del 15 febbraio 1899, AMCTO CMS 23, 1900, doc. 138). Un primo parere informale venne immediatamente richiesto ad Edoardo Balbo Bertone di Sambuy, titolare di uno Studio di riproduzioni artistiche, cugino di Ernesto, già Sindaco di Torino e senatore del Regno,  che lo formulò corredandolo di interessanti osservazioni tecniche in merito alla possibilità di realizzare le riproduzioni a colori[71]; notazioni che furono sostanzialmente accolte dal Comitato direttivo della Sezione Arte applicata all’industria, presenti Avondo, Fontana e Calandra, che nel giugno del 1900 deliberava che la realizzazione “della riproduzione fotografica e quindi in fotocollografia e in cromolitografia dei migliori capi d’arte del Museo [fosse] affidata allo studio di riproduzioni artistiche di proprietà del Cav. Edoardo di Sambuy” per un totale di 85 tavole, in parte semplici (una sola riproduzione) in parte doppie (due o più per tavola), quasi tutte in fotocollografia, mentre le cromolitografie dovevano essere riservate “per le stoffe e le ceramiche”; che il n. di copie [fosse] di 250 e che “la spesa totale, comprese le copertine e la parte tipografica non [dovesse] oltrepassare la somma di L. 8740, disponibile per tale pubblicazione. (…) che la proprietà artistica [dovesse]  rimanere interamente riservata al Municipio (…)”. (Verbale del 15 giugno 1900, AMCTO CAP5, n.80).

La decisione venne successivamente fatta propria dal Consiglio comunale, ma non senza obiezioni che rivelavano chiaramente le differenti concezioni di politica culturale; così se Reycend giudicava la spesa “assai elevata” in relazione allo scopo della pubblicazione che “sarebbe veramente utile nel solo caso che potesse diffondersi largamente”, per il Sindaco Casana “il catalogo sarebbe oggetto di scambio coi principali Musei e potrebbe essere messo in vendita a collezioni complete od a tavole separate, a vantaggio degli artefici che ne avessero speciale bisogno.”[72]

Le riprese e le prime prove di stampa si susseguirono già nei primi mesi del 1901, non senza difficoltà di ordine tecnico, specie nella riproduzione delle stoffe, ma anche professionale, in particolare nei rapporti con l’ing. Molfese, imposto dal Sindaco e titolare dell’omonimo stabilimento di fototipia, che si dichiarava non disponibile a fare le copie di prova “se non gli si da l’ordinanza di tutto il lavoro, il che sarebbe sommamente imprudente.”[73] Anche le più complesse prove in cromolitografia ricevettero l’apprezzamento del Direttore e del Sindaco, sebbene proprio le difficoltà connesse alla loro realizzazione furono poi quelle che imposero, ormai nel 1903, una modifica del piano editoriale e dei tempi di realizzazione: su proposta di Avondo i soldi stanziati per la stampa delle nove cromolitografie restanti (sulle 10 previste, una essendo già stata terminata) vennero allora impiegati nella realizzazione di 32 nuove  fotocollografie monocrome “anche nella considerazione che il Museo si è nel frattempo arricchito di non pochi oggetti ben degni di essere riprodotti (…) si avrebbe così un’illustrazione del Museo di oltre 100 tavole.”[74]

La stampa venne affidata all’Eliotipia Calzolari e Ferrario di Milano, forse per il tramite di Luigi Cantù che nel 1898 aveva già avuto modo di apprezzarne la professionalità in occasione della stampa dei tre volumi dell’Armeria antica e moderna di S.M. il re d’Italia, cui si affiancava l’opera prestigiosa del veneziano Carlo Jacobi, stampatore dei sontuosi volumi delle edizioni di Ferdinando Ongania, ma i nuovi inderogabili termini di consegna fissati dalla Giunta comunale al 30 novembre 1903 vennero ampiamente superati e ancora nella primavera dell’anno successivo Avondo era costretto a richiamare Di Sambuy minacciandolo di “ricorrere al Sindaco”;  il fotografo per altro difendeva il proprio operato confermando l’avvenuta spedizione da parte di Carlo Jacobi delle ultime 30 tavole, col che si completava “la consegna di tutta l’opera. Ella vedrà che le tavole eseguite dal Jacobi sono anche più perfette della altre già consegnate.”[75]

La vigilia di Natale del 1904 la prima copia della pubblicazione dedicata al Museo Civico di Torino – Sezione Arte antica. “Cento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo, Torino, Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo di Sambuy”, venne presentata al Sindaco, quindi distribuita e posta in vendita dai primi mesi del nuovo anno, richiesta da studiosi e istituzioni diverse da Forrer a Bernard Berenson, dalle Scuole di Arte applicata di Venezia a  R. Agostoni, fabbricante torinese di mobili[76], adempiendo almeno in parte agli scopi del Museo ed alle intenzioni del suo Direttore che ne fece segno tangibile e strumento di conoscenza del nuovo allestimento, strutturato “per serie e per materiali” che coesistevano con quel “criterio della ricostruzione di sale ambientate secondo gli stili, definito nell’ultimo decennio dell’Ottocento «Kulturgeschichte oder Interieur Prinzip»” (Pettenati, 1997, p. 98) che – come ha precisato Michela Di Macco[77] – era già stato in parte utilizzato per la IV Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880, tanto apprezzato da Louis Gonse e tramandato dalla bella pubblicazione[78] di cento tavole in fototipia, stampate dai Fratelli Doyen, che già restituiva questa strutturazione ostensiva per prodotti e per tipologie, affiancata da presentazioni più libere ed eterogenee di cui invece non ritroveremo più traccia nelle tavole del 1905.

Qui tutto, dalle belle riprese di Edoardo di Sambuy alla nitida stampa in fototipia e – più ancora – l’ordinata sequenza logica delle tavole è pensato per marcare il passaggio da quel “complesso di cose disparate e di poco valore” che fu il Museo delle origini alla ricchezza delle nuove collezioni ormai “degne di molta considerazione” che caratterizzavano la Sezione d’Arte Antica (applicata all’industria) all’avvio del nuovo secolo, per testimoniare  – e giustamente celebrare, anche – il percorso compiuto sotto la guida del nuovo “Direttore il pittore Vittorio Avondo.” (Museo Civico, 1905)

 

 

 

Note

 

Abbreviazioni

 

ASCTO:                   Archivio Storico della Città di Torino

ASMCT:                   Archivio storico dei Musei civici di Torino, ora Fondazione Torino Musei

FTM – GAM- FA:     Fondazione Torino Musei –Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea: Fondo Avondo

FTM – PM – FA:       Fondazione Torino Musei – Palazzo Madama, Archivio: Fondo Avondo

FVA:                        Fondazione Torino Musei – Archivio fotografico: Fondo Avondo

SPABA:                   Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti – Torino

 

 [1] Nell’ormai ampia letteratura dedicata alla tutela e valorizzazione del patrimonio fotografico storico vanno segnalati almeno gli atti del convegno di Prato del novembre 2000 (Strategie 2001) ed alcuni volumi dedicati a specifici fondi o archivi fotografici come quelli di Brera (1899 un progetto di fototeca, 2000), al Fondo di Lamberto Vitali ora all’Archivio Fotografico del Castello Sforzesco a Milano (Paoli 2004) e – in un diverso contesto – al patrimonio di fotografie conservato presso la Soprintendenza per il patrimonio storico artistico di Bologna (Giudici 2004).

[2] Mollino 1949; Negro 1956; Paoli 2004.

[3] Fotografi del Piemonte 1977.

[4] Miraglia 1990 che oltre a costituire un riferimento imprescindibile per la storia e la storiografia fotografica pubblicò numerosi, importanti esemplari tratti dalle collezioni della Galleria Civica d’Arte Moderna, a partire dal preziosissimo dagherrotipo di Enrico Federico Jest, dell’8 ottobre 1839 (t.1).

[5]Mario Gabinio 1996; Mario Gabinio 2000. La prima delle due mostre, esito di un analitico progetto di catalogazione costituì anche l’occasione per la messa a punto di uno dei primi esempi italiani di accesso al fondo su supporto digitale.

[6] Cavanna 2000b; I dati quantitativi complessivi riferibili ai fototipi compresi nell’Archivio Fotografico, nella Biblioteca e nei depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea (GAM) per la sola parte storica, cioè tutti quei fototipi che potevano essere considerati patrimonio storico dei Musei, indicavano una consistenza complessiva di circa 300.000 unità. Non fu invece purtroppo verificata, in quella occasione, la consistenza dei fondi fotografici conservati a Palazzo Madama né di quelli eventualmente presenti nelle collezioni dell’allora Museo di Numismatica, Etnografia, Arti Orientali. Tranne rare eccezioni i fototipi conservati si riferiscono alla documentazione del patrimonio artistico, specialmente museale e piemontese in genere, ma arricchito di una imponente documentazione più generalmente riferibile alla storia dell’arte; documentazione che trova il suo nucleo forte nel Fondo Lorenzo Rovere,  mentre le riproduzioni coeve di opere ottocentesche (Fondo Avondo, Biblioteca, Fondo Celanza) costituiscono una fonte importantissima, sostanzialmente inedita e scarsamente utilizzata per la conoscenza e lo studio del periodo. Ciò che invece costituiva un dato di novità era la presenza di una ricca e importante serie di immagini di architettura (piemontesi, italiane e non solo) che fanno dei Musei Civici uno dei più importanti archivi fotografici tematici dell’Italia settentrionale.

A questi nuclei forti vanno aggiunti quelli relativi a un ambito più propriamente fotografico, per i quali il valore referente, documentario dell’immagine forma un tutt’uno con quello espressivo: penso naturalmente a molte delle immagini costituenti i fondi Bricarelli e Gabinio, al piccolo nucleo di paesaggi romani del Fondo Avondo qui studiati, alle stampe di Vittorio Sella.

[7] Testimonia la rilevanza di queste forme di accumulo non programmato di documentazione fotografica il puro dato quantitativo di stampe di riproduzione di opere d’arte delle più diverse tipologie conservate nella parte di Fondo Avondo che qui si presenta e per la quale rimando al Regesto così come quelle – in numero ancora maggiore – recentemente ritrovate nei depositi di Palazzo Madama, sempre cronologicamente riferibili per la gran parte alla seconda metà del XIX secolo, quindi agli anni compresi tra l’istituzione del Museo (1863) e il compimento della direzione di Avondo (1910). Tale materiale, sinora mai studiato presenta certo un rilevantissimo interesse in relazione alle vicende del mondo dell’arte piemontese,e in parte italiana, in tutte le sue sfaccettature, dalla produzione al collezionismo alla museologia e costituisce l’ulteriore testimonianza dell’ invasività della fotografia nella cultura delle belle arti nell’età di Avondo; una presenza con cui ormai non si poteva non fare i conti, pur in modi e con atteggiamenti diversi a seconda dei contesti e delle situazioni: la pratica artistica ne prevedeva un uso privato, e quasi riservato, segreto – sebbene fosse per tutti i pittori dell’800 un segreto di Pulcinella – la gestione museale, pubblica, faceva del ricorso alla fotografia uno strumento indispensabile del proprio operare quando non addirittura un fiore all’occhiello, un segno di aggiornamento e di apertura, un positivo esempio di industria applicata all’arte.

[8] Maggio Serra 1977; Cavanna 1981.

[9] Ancora da studiare e comprendere i nessi tra questa proposta di Rovere e la precedente iniziativa della Società che nella seduta del 5 maggio 1904, su proposta dell’avv. Olivieri  stabiliva di pubblicare in  volume la ricca documentazione fotografica prodotta da Secondo Pia, corredandola coi testi delle conferenze svolte dai soci sugli stessi temi. A tale scopo venne istituita una commissione interna e nei mesi successivi si avviarono trattative con l’editore Bocca, mentre i soci si impegnavano a segnalare al fotografo i monumenti della provincia di Novara per “colmare le lacune che per alcuni paesi esistono nella collezione Pia.” (18-11-1904)

La ricognizione proseguì negli anni successivi toccando anche il Tortonese, soggetto di una conferenza di Pia nel marzo 1907, ma una serie di contrasti relativi alla stesura del contratto portò il fotografo a rassegnare le dimissioni dalla Società negli stessi mesi, determinando di fatto la sospensione del progetto, ora assunto dalla libreria editrice R. Streglio e C., per indisponibilità della stessa documentazione fotografica che doveva costituire il cardine della pubblicazione. (MCT/PM – Pacco SPABA)

[10] “Naturalmente io non chiedo né chiederò mai un fotografo, cercando di fare da me, e servendomi del personale del Museo. Io sono certo che in uno o due anni, con la notevole economia che si avrebbe (…) si otterrebbe che quasi tutto il fondo per l’archivio fosse, secondo la mia intenzione, rivolto, invece che a pagare le riproduzioni degli oggetti del Museo, a completare quella magnifica raccolta di lastre, illustranti i monumenti del Piemonte.” Lettera di V. Viale al Podestà di Torino, 9 giugno 1931, n. 007343, ASMCT – CAA.89 – 1931.

[11] Al momento del loro rinvenimento le stampe erano confezionate in pacchi di carta da imballo chiusi con nastri adesivi, solo in rari casi identificati in base al loro contenuto od alla loro presunta provenienza, con  scritte a pennarello sulle confezioni.

[12] Una di queste copie, con dedica autografa ad “A. Pozzi antiquario”, va verosimilmente assegnata al legato di Ettore Mentore Pozzi, 1931. Numerose altre copie delle stampe Ecclesia di Issogne sono comprese nel fondo recentemente fatto pervenire in Archivio da Palazzo Madama, per iniziativa del suo Direttore Enrica Pagella, che qui ringrazio unitamente a tutti i suoi giovani Conservatori per la disponibilità e l’aiuto che mi hanno fornito durante questa ricerca.

Interessante ed utile per la documentazione della produzione artistica – non solo di Avondo – è poi il fondo Emanuele Celanza, pervenuto per donazione alla Biblioteca Civica e da questa ai Musei nel 1951. Il Fondo raccoglie le riproduzioni di opere d’arte di autori italiani del XIX secolo utilizzate dall’editore torinese, attivo anche nel campo della pubblicistica fotografica, per la collana “I Maestri dell’Arte. Monografie di artisti moderni compilate da Francesco Sapori”, edita nel 1917 – 1921ca. Gli autori considerati sono settantadue e la documentazione, pur incompleta, costituisce un eccezionale repertorio fotografico del panorama artistico ottocentesco italiano, a volte corredato dai ritratti fotografici degli artisti, dalle prove di stampa e dai testi manoscritti del curatore.

[13] Oltre che nel fondo Avondo altre immagini appartenenti a queste serie, ma anche alla campagna Berra – Ecclesia del 1882, sono conservate in cinque distinti fondi della Galleria d’Arte Moderna e dell’Archivio fotografico, in parte provenienti da Palazzo Madama nel 1985.

[14] Significativa in tal senso l’assoluta assenza di riferimenti ad un nucleo preesistente di documentazione fotografica nei diversi progetti e programmi di volta in volta avanzati dai successori di Avondo alla direzione del Museo, da Vacchetta a Rovere a Viale, soprattutto considerando la rilevante consistenza quantitativa degli stessi: agli esemplari nominalmente costituenti il fondo Avondo  e a quelli a lui riferibili conservati nei diversi fondi citati, vanno aggiunti quelli recentemente trasferiti da Palazzo Madama all’Archivio fotografico dei Musei civici, per una consistenza complessiva di circa tremila unità. Di questo ultimo rilevantissimo nucleo (circa 1700 unità), di cui parevano essersi confuse e quasi disperse le tracce dopo il 1997, anno in cui alcune delle immagini che lo costituiscono vennero studiate e riprodotte a corredo del volume dedicato ad Avondo (Maggio Serra, Signorelli 1997) fanno parte non solo elementi che opportunamente integrano e completano serie già note (Esposizioni del 1880 e del 1890, Issogne) e in parte immediatamente riferibili al legato Avondo (Actis Caporale 1997, p.  40 nota 63), ma anche esemplari più antichi e verosimilmente riferibili ai primissimi anni di esistenza dell’istituzione museale come gli esemplari sciolti di vedute torinesi di Henri Le Lieure, tratte dall’album Turin ancien et moderne che il fotografo dedica alla città nel 1867 e di cui esiste copia nella Biblioteca, da riferirsi alla presenza di Pio Agodino,  primo direttore del museo e autore di uno dei brevi saggi che corredano il volume, dedicato alle Porte Palatine. Ulteriore e dolorosa conferma della ‘invisibilità’ prima di tutto culturale di cui hanno sofferto questi materiali che sorprendentemente solo oggi riconosciamo come importanti e preziosi è il loro attuale stato di conservazione: non solo infatti i fototipi furono sommariamente impacchettai e identificati utilizzando materiali non idonei (carta da pacchi, nastri adesivi, scritte a pennarello sulle confezioni), ma vennero poi collocati in ambienti inadatti e caratterizzati da un elevatissimo grado di umidità relativa, come dimostrano la diffusa presenza di muffe e di carte ed emulsioni incollate tra loro.

[15] FTM-PM-FA.

[16] La più recente e approfondita analisi della biografia e della figura di Avondo (Torino 1836-1910) è quella costituita dall’insieme dei saggi raccolti in Maggio Serra, Signorelli 1997, cui si rimanda.

[17] Testimonianza dei duraturi legami con il fotografo è costituita non solo dal grande numero di immagini di Duroni conservate nel fondo ma anche da una ricevuta di 500 franchi “en accompte sur son capital” da lui firmata in data 24 novembre 1869, conservata tra le carte di Avondo: MCT/ PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture.”

[18] Matteucci 1997, p. 232 nota 207. I rapporti tra i due artisti, testimoniati dal reciproco possesso di piccole opere (Maggio Serra 1999, p. 71), dovettero essere frequenti a partire proprio dal 1860, anno in cui Avondo espose alla Promotrice fiorentina, mentre nel luglio si era incontrato con Signorini, reduce da un pericoloso arresto di polizia, proprio a Torino, luogo in cui il pittore toscano tornerà ancora l’anno successivo per esporre alla Promotrice, in viaggio per Parigi (Dini 1997, p. 270) e quindi almeno ancora una volta nel 1880, in occasione del IV Congresso artistico. Un ulteriore legame tra i due era poi costituito dalla comune amicizia per Anatolio Scifoni, amico d’infanzia di Signorini, attivo a Parigi con Pittara e Pastoris nel 1864-65 e tra gli artisti i cui nomi erano elencati nella sala del castello avondiano di Lozzolo (Signorelli 1997, p.  11 nota 57), e di cui si conserva una stampa Goupil del suo Les bulles de savon, 1864 post (23×15) GAM S48 B8, con dedica ad Avondo. Ancora Signorini ricordava la “continua corrispondenza di ideali artistici con Alfredo d’Andrade per la libera scuola di Rivara in Piemonte” (Per Silvestro Lega. Firenze: Civelli, 1896) e proprio un ritratto di D’Andrade eseguito a Torino da Henri Le Lieure è ancora conservato tra le sue carte (Matteucci 1997, p. 235 nota 236)

[19] La Contessa di Castiglione, 2000. Quasi superfluo ricordare qui in quali ambienti, anche non distanti da Avondo, circolassero a Torino le sue conturbanti rappresentazioni fotografiche, realizzate con la complicità di Pierre-Louis Pierson.

[20] Giuseppe Giacosa 1908, citato in Barberi 1997, p.149. Anche il fratello Pietro ricorderà quell’occasione, con una nota conclusiva amara e per noi incomprensibile: “Non so se fu nel 1872 o nel ’73 (…) Eppure si cenò in costume quattrocentesco, e qualcuno non disdegnò di indossare maglie e corazze di ferro. (…) Fu l’ultimo sprazzo di vita di Issogne.” (Giacosa 1968, p. 12).

[21] Carandini 1925 citato in Dragone 2000, p. 74.

[22] Al banchetto offerto “A d’Andrade l’architetto/ Del Castello Medio-Evale/ Che non ebbe mai l’eguale” (G. Giacosa) “intervennero un centinaio di persone in costumi eroici, umoristici (…) Il D’Andrade, travestito da Ercole, aveva in mano una clava ed in testa il gibus.” (Torino, 1884, n. 8, p. 67), ma la stessa attrazione storicista per le rovine immediatamente trascolorava: “un castello antico è bello al lume di luna, quando gli sprazzi della luce d’argento mettono sulle sconquassate muraglie qua e la come un lenzuolo candido (…) quando le ombre fitte, i buchi nerissimi trattengono il piede spaurito, e la signora bionda, che vi sta a lato, si avviticchia a voi stretta, tremando.” (Torino, 1884, n.42, p. 334)

[23] FVA0336, con 20 ritratti di amici ed amiche di Avondo. La sequenza è aperta da un ritratto giovanile di Alfredo d’Andrade, realizzato dai Fratelli D’Alessandri nel 1862 (Bernardi, Viale 1957, p.n.n.), cui fa seguito il già citato ritratto di Avondo fatto da  Carlo Duroni, quindi Ernesto Bertea, e Antenore Soldi tra gli altri, mentre tra i ritratti non in album vanno almeno segnalati quelli di Giuseppe Giacosa, Ferdinando di Breme, Lorenzo Delleani e Vincenzo Vela, ma anche in una rete più ampia di conoscenze quelli di Galileo Ferraris e di Giosué Carducci, questo da mettere forse in relazione con la visita del poeta ad Issogne (Signorelli 1997, p. 18), risalente alla sua prima visita in Valle d’Aosta nel 1889.

[24] Una vera foto di gruppo fu quella realizzata molto più tardi, il 30 maggio 1909 raccogliendo sulla scalinata del castello di Fenis Avondo e D’Andrade, i fratelli Boito e Melchiorre Pulciano, ma anche i più giovani Cesare Bertea, Ottavio Germano ed altri, cfr. Carandini 1925, p. 49.

[25] Ceresa, Mosca, Siccardi 2001, p. 73 passim.

[26] Su Luigi Cantù, “Consigliere Comunale distinto fotografo ed artista, Conservatore della Regia Pinacoteca (…) altamente apprezzato nel ceto artistico torinese”, Vicepresidente della Commissione della Sezione fotografica dell’Esposizione Nazionale di Torino del 1898, membro del Circolo degli Artisti  – di cui documenta fotograficamente l’inaugurazione umoristica dell’Esposizione del 1886 (ASCTO, Nuove acquisizioni, C6/1 – DA 1086-88) –  e tra i promotori della Società Fotografica Subalpina nel 1899, si vedano le notizie riportate in Stella 1893, pp. 596-597, che lo descrive impegnato nei diversi ambiti della pittura, dell’illustrazione araldica e del “restauro” (“ripulì e ritoccò, coi migliori metodi oggi usati, parecchie antiche tavole e dipinti sui muri, per collezioni private”), ma anche come “fotografo [che] si dedicò al ritratto e alle riproduzioni di opere d’arte, acquistando fama di specialista abilissimo”, sebbene oggi queste sue abilità siano testimoniate solo da rari esemplari. Altre segnalazioni della sua presenza in Miraglia 1990, p. 368; Reteuna 1997, p. 60; Società 1999, pp.14-16. Per il ruolo da lui svolto nella realizzazione dei volumi dedicati all’ Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino editi a Milano dall’ Eliotipia Calzolari e Ferrario nel 1898,  con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, rimando a Cavanna 2003, pp. 96-97.

[27] Dopo la morte del titolare nello stesso 1908, la moglie Clarice scriveva ad Avondo, su carta intestata “Photochromatographie Bertieri/ rue du Po, 25 Turin”: “Ill.mo Sig. Comm.re/ memore dell’antica amicizia che legava V.S. al povero defunto mio marito Cav.re Oreste Bertieri pregiami farle noto che ho riattivato lo studio fotografico provvedendomi di personale speciale che valga a mantenere alto il nome.”, MCT/ PM- FVA, m. D, “Corrispondenza”, lettera del 23-12-1908.

[28] Bernardi 1936,  p.n.n. Un ritratto carte de visite di Alexandre Calame, con quelli di Antonio Fontanesi, Ernesto Bertea ed altri, è compreso tra le carte di uno dei meno entusiasti calamisti piemontesi quale fu Alfredo d’Andrade (Bernardi, Viale 1957).

[29] Vero è che nel fondo documentario Avondo nulla conferma questo dato ma, per intanto, neppure vi è nulla che lo smentisca (come una sua eventuale presenza in altri luoghi) né le condizioni generali in cui ci è pervenuto consentono di garantirne la consistenza originaria. È appena il caso di ricordare qui che tra i visitatori di quell’Esposizione e della mostra dei pittori di Barbizon (e chissà se anche del “Pavillon du réalisme” di Courbet) vi furono – oltre a D’Andrade – anche Saverio Altamura e Nino Costa che sarà uno dei riferimenti di Avondo durante il suo soggiorno romano, di poco successivo.

[30] Sono due ritratti maschili  e due femminili, non tutti identificati realizzati rispettivamente da Benque (FVA0132), Tourtin (FVA0336.3), Disderi (FVA0336.5) e Ladrey (FVA0349). Pur considerando che, data la loro circolazione, il luogo di realizzazione non debba per forza coincidere con quello dell’acquisizione, come dimostra proprio il caso di Bertea, la loro presenza (specialmente quella dei ritratti femminili) costituisce a mio parere l’indizio piuttosto forte di una frequentazione parigina di Avondo.

[31] Immagini dell’Oberland bernese, all’epoca ancora in una fase di esplorazioni pionieristiche, furono presentate all’Esposizione universale di Parigi del 1855 dai Fratelli Bisson, accanto a quelle realizzate in Alvernia da  Edouard Baldus, ma il lavoro  fotografico che destò maggior sensazione fu la veduta panoramica in dodici parti del massiccio del Monte Bianco ripreso da La Flégère, per una lunghezza totale di due metri, realizzata  da Friedrich von Martens. (Infinitamente 2004).

[32] Maggio Serra 1997, cui si deve la prima fondamentale considerazione filologica e critica della produzione grafica, in precedenti occasioni illustrata a partire da pure considerazioni stilistiche (Thovez 1912; Bernardi 1936; Cremona 1946).

In particolare si deve alla studiosa la più che convincente attribuzione di alcuni degli album ad un autore diverso da Avondo, essendo “il nome che viene alle labbra” quello di Enrico Gamba. In forse restava l’assegnazione di altri due taccuini, il n.12 e il n. 8 “nel quale i disegni di architettura non hanno la nitidezza di quelli di Gamba e che diremmo perciò di Avondo (…) se non ci mettessero in dubbio un lungo appunto di lettura strettamente tecnica dei dipinti fiorentini e un elenco di persone cui l’autore donò la fotografia di un dipinto di Tiziano non identificato” (Maggio Serra 1997, p. 67). Una più attenta riconsiderazione di questo appunto al foglio 85 verso, con l’elenco delle persone amiche cui l’autore aveva destinato più copie ciascuno della riproduzione fotografica dell’opera in questione – di cui un esemplare è presente anche nel fondo Avondo – mi porta a ritenere che non si trattasse tanto di “un dipinto di Tiziano non identificato”, quanto piuttosto de I funerali di Tiziano, cioè del più noto dipinto di Gamba, confermando così l’attribuzione anche di quest’ultimo album.

Quanto alle ragioni per cui questi cinque taccuini siano stati conservati congiuntamente agli analoghi di Avondo, pur non escludendo la possibilità che siano stati “forse ottenuti in prestito da Avondo” o che “forse derivano da viaggi comuni”, io non tralascerei l’ipotesi che questa commistione possa più banalmente derivare da una storia archivistica non sempre chiara e documentata, come dimostra del resto la stessa vicenda del fondo fotografico Avondo.

[33] Una Testa di Bufalo, ad olio, di George Hemming Mason e due litografie di  Charles Coleman (FA Grf486-487), tratte da A series of subjects peculiar to the Campagna of Rome and Pontine Marshes designed from nature and etched by C. Coleman, Rome, 1850, album di 74 fogli con 53 tavole (De Rosa, Trastulli 1988).

[34] Da Claude Lorrain e Nicolas Poussin, insieme nei primi decenni del ‘600, sino a Turner e Corot, la bibliografia è ormai molto ampia e di livello diverso; si vedano almeno Corot 1994; Galassi 1994; In the Light of Italy 1996, La Campagna romana 2001.

[35] Becchetti 1983; Pittori fotografi 1987; Caneva 1989; Miraglia 2003; Roma 1850 2003.

[36] Si rimanda qui ai noti saggi raccolti in Schwarz 1992 ed alla prima sintesi organica di Scharf 1979, senza voler dimenticare l’assoluta novità italiana della sintesi storica contenuta ne Il messaggio dalla camera oscura di Carlo Mollino, 1949 [1950], che ampliava sostanzialmente gli orizzonti da noi pionieristicamente delineati da Lamberto Vitali nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento (Paoli 2004).

[37] Telemaco Signorini, Cose d’arte, 1874, citato in Bordini 1991, p. 595. In ambito locale un riconoscimento del ruolo ausiliario della fotografia era venuto  da Federico Pastoris, che in un commento pubblicato nell’ Album della Promotrice del 1862, quindi in un contesto sostanzialmente tradizionalista, aveva riconosciuto quanto questa potesse servire “a cercare [la] verità. […] Per cui io credo che la fotografia, invece di nuocere alla pittura, possa giovarle, nel senso che facilita agli artisti i mezzi d’imitazione”, citato in Reteuna 1991, p. 34. Un nuovo importante contributo per la conoscenza dei rapporti storicamente intercorsi tra pittura e fotografia nel corso del XIX secolo è quello recentemente fornito da Marina Miraglia 2005.

[38] Come risulta dalla testimonianza di Telemaco Signorini in Silvestro Lega, Firenze, 1896, ma anche nell’opinione di Diego Martelli. Il metodo non era in sé nuovo, anzi largamente praticato nello studio del paesaggio almeno a partire dal XVII secolo, significativa ne è semmai la sua attualizzazione. Quanto all’interesse degli artisti ottocenteschi per le tecniche fotografiche va almeno ricordato, sebbene avesse implicazioni diverse, l’uso del cliché-verre da parte di artisti come Corot e Fontanesi, cfr. Corot 1994; Cavanna 1997.

Altamura venne a Torino per presentare il dipinto Excelsior, oggi ai Musei Civici, all’Esposizione del 1880, fermandosi in città per ben quattro mesi durante i quali si incontrò con De Amicis, Giacosa e Fontana, ma – apparentemente – non con  Avondo (Simone 1965, p. 55) sebbene in questo fondo sia conservato un suo bel ritratto fotografico che è stato accostato al Ritratto di Eleuterio Pagliano, 1850 ca, di Luigi Sacchi da Cassanelli 1998: sch. I. 4, pp.148-149.

[39] Wey 1851. Opinione condivisa da Gustave Le Gray (Photographie: nouveau traité, 1852) : “à mon point de vue, la beauté artistique d’une épreuve photographique consiste au contraire presque toujours dans le sacrifice de certains détails, de manière à produire une mise à l’effet  qui va quelquefois jusqu’au sublime de l’art » (citato in Aubenas 2002, p.  48). Il riferimento insistito in questi testi al “sacrifice” richiama esplicitamente la teoria in onore tra i pittori francesi e che Delacroix, tra i più attenti ad un uso positivo della fotografia, aveva applicato alla fotografia e in particolare proprio al calotipo: “Les photographies qui saisissent davantage sont celles où l’imperfection même du procédé pour rendre de manière absolue, lasse certaines imperfections, certain repos pour l’œil qui lui permettent de ne se pas fixer que sur un petit nombre d’objets.” (dal “Journal”, 1859, citato in Challe 1996, p. 24). Anche per Rosalind Krauss (1996, p. 57) “I calotipi degli anni 1850 che conosciamo assomigliano sorprendentemente alle pitture di Daubingy. Sappiamo che Daubigny e gli altri pittori della Scuola di Barbizon erano rimasti sbalorditi dalla fotografia e ci rendiamo conto che devono averne tratte le conseguenze.” Per una presentazione dettagliata di queste immagini si rimanda a Challe, Marbot 1991.

[40] Senza poter entrare nel merito dei problemi sollevati da queste produzioni non possiamo che sottoscrivere l’opinione di Michel Frizot 1994, p. 83:  “anche quando il fotografo si pone al servizio del pittore non si tratta di pura imitazione servile dei luoghi comuni naturalisti. Il fotografo crea un’immagine di tipo nuovo, di cui non si ritroverà che superficialmente l’equivalente pittorico, disegnato o inciso.”

[41] Le Dien frequenta e fotografa gli stessi luoghi di Caneva: il Tevere (o l’Aniene) a nord di Roma, la passeggiata detta “del Poussin”, gli ulivi sulla strada di Tivoli ecc., forse sollecitato dai suoi due compagni di viaggio, i pittori Léon Gérard e Alexandre de Vonne (Aubenas 2002, p. 297); recentemente gli è stata attribuita una carta salata delle collezioni del Musée d’Orsay, Paysage à Rome ,1852 – 1853, già assegnata a Caneva (Heilbrun 2004, t.8).

[42] Scrive il 14 marzo 1844 all’abate padovano Pier Antonio Meneghelli: “Vado eseguendo piccoli quadretti di commercio” e ancora, nel Natale dello stesso anno “Ho apparecchiato delle piccole cosette in carta in tela come bozzetti, sperando nella concorrenza de forestieri d’inverno.” Citato in Vanzella 1997, pp. 40; 43.

[43] Miraglia 2003, p. 574, sch. XI.5.12. A partire dai primi fondamentali studi di Piero Becchetti del 1983, la figura dell’autore padovano è andata via via assumendo sempre maggior rilievo e dettaglio sino a costituire la presenza più rilevante tra i fotografi della Scuola romana, ormai ampiamente studiata (Becchetti 1983a – 1983b; Pittori fotografi 1987; Caneva 1989; Becchetti 1994; Vanzella 1997; Rampin 2001; Roma 1850 2003, Gasparini 2005), sebbene – come rileva Miraglia nel saggio citato – dedicando ancora, purtroppo, scarsa o nulla attenzione alla sua produzione di studi di campagna romana e di paesaggi di dettaglio, che pure sono di qualità altissima ed ebbero già all’epoca vasta considerazione e diffusione come dimostrano non solo le stampe acquistate da Avondo ma anche l’opinione di altri fotografi quali Luigi Sacchi che riconosceva a Caneva “oltre la grandissima sua capacità in questa nuova arte, (…) il talento di rinomato pittore” – “L’Artista”, 1 (1859), n. 2, 12 gennaio, p.16, citato in Cassanelli 1998, pp. 156-157 –  e la presenza di esemplari delle sue stampe nelle raccolte di artisti come il reggiano Alessandro Prampolini (Gasparini 2005) o il francese Théophile Chauvel (1831-1910), pittore del gruppo di Barbizon, ma anche autore di fotografie e membro fondatore della Societé Française de Photographie, (Heilbrun 2004: 19) che, alla pari di Corot,   possedeva una ricca collezione di fotografie, in parte pubblicata in Calle, Nèagu 1988. Ad ulteriore conferma di indizi per una ricerca ancora in gran parte da svolgere basti ricordare che nella testimonianza di L. Celentano (1883) Michele Cammarano cercava fotografie “specialmente di alberi e qualche dettaglio di pietra, da poter studiare guardandole, confidandogli che allora d’altro non si consigliava che della fotografia.”( Bordini 1991, p. 586) Per la circolazione internazionale di modelli o soggetti fotografici per pittori va ricordato ad esempio che  Bringing Home the May di Henry Peach Robinson, 1862, era in vendita a Milano da Spagliardi & Silo (Paoli 2004, p. 158), mentre per quanto riguarda la contraddittorietà e la scarsa intelligenza critica dei rapporti pittura-fotografia degli autori coevi basti qui richiamare una posizione come quella di Pietro Selvatico, certo ben nota proprio a Torino, che nel 1871 dalle pagine de “L’Arte in Italia” attaccava il metodo di insegnamento fontanesiano curiosamente contrapponendogli quello adottato da “tal professore [sic] Domenico Bresolin all’Accademia di Venezia, cioè la copia da un album di fotografie del tedesco Robert Kummel, utilissimo «a chi si avvia al paesaggio, come eccellente grammatica».” (Maggio Serra 1988, p. 101) Sul ruolo determinante di Bresolin, tra i più importanti protofotografi italiani, nella definizione del paesaggismo veneto di secondo Ottocento, lui docente  all’Accademia veneziana dal 1864  avendo come allievi pittori quali G. Ciardi, G. Favretto, L. Nono ed altri, cfr. Prandi  1979, mentre più in generale sulla sua figura si vedano la bibliografia citata in Cassanelli 1998, p. 46 nota 29 e Paoli 2000.

[44] Di tutt’altro avviso un autore di formazione e cultura affatto diverse come Giuseppe Venanzio Sella, per il quale invece “le immagini positive tirate dalle negative su carta rimangono sempre più o meno confuse ed indistinte.” (Sella 1856, qui citato dalla seconda edizione, 1863, p. 11).

[45] V. Turletti, Rivista artistica, in “Serate Italiane”, 1 (1874), n. 4, 25 gennaio, p. 61, citato in Maggio Serra 1988, p. 101; di analogo tenore il commento del 1873 firmato A.B. a proposito di Tevere: “Che luce, che cielo smagliante, quella volta immensa e nuvolosa ma risplendente sembra colla descrizione della vasta sua parabola accrescere gli spazi di quell’immensa provincia romana nuda ed imponente di cui  non vediamo sul quadro che le sole prime linee.” (citato in Signorelli 1997, p. 18 , nota 60).

[46] Il piccolo disegno a carboncino è inventariato col n. fl/623 e potrebbe essere a sua volta una parziale rielaborazione di elementi presenti in alcune stampe fotografiche del Fondo (Vigna S. Stefano), mentre il piccolo olio può essere utilmente confrontato col disegno pubblicato in Cremona 1946, p. XIX; per Degas cfr. Galassi 1994, t. 280).

[47] Devo qui segnalare  la presenza di due stampe fotografiche che paiono essere in scarsa se non nulla relazione con gli interessi pittorici di Avondo: si tratta di una donna in costume laziale (FVA 605) soggetto non estraneo ma certo da lui poco praticato, ed un bellissimo nudo di schiena, conservato tra le carte personali (PM/FA, m.B – N, busta “Città di Torino”) di cui non si trova riscontro nell’opera grafica o pittorica.

[48] [Valenti], Nuova raccolta/ dei principali Costumi di Roma / e suoi contorni, Roma, Presso l’Editore e Calcografo Tommaso Cuccioni Negoziante di Stampe ed Oggetti di Belle Arti, via della Croce n.88, s.d. [1850 ca].

[49] Già nel 1953 Silvio Negro segnalava la consuetudine, che faceva risalire proprio a Cuccioni, di utilizzare “pescatori con la lenza messi in pose  suggestive nei punti più panoramici del Tevere”, citato in  Paoli 2004,  sch. 83 a firma Marina Gnocchi, che descrive analiticamente una fotografia di soggetto analogo, dovuta ad un fotografo non identificato da confrontare, tra le altre, con Altobelli e Molins, Il Tevere a Castel Sant’Angelo, 1862ca in Becchetti 2003, p. 38.

[50] La fotografia, conservata nella collezione Cianfarani Negro, venne pubblicata in Negro 1964, p. 212, cui si deve anche il commento sulla fortuna del soggetto.

[51] Nel 1894 Alberto Pasini  dedicherà “All’amico V. Avondo” il suo Interno del maniero di Issogne, Torino, GAM (Dragone 2000, p. 304), mentre altri autori come Vittorio Cavalleri indagheranno il soggetto ancora nei primi anni del ‘900, continuando a riscuotere l’interesse di Avondo (Maggio Serra 1993,  190, scheda di Caterina Thellung de Courtelary).

[52] Su G.B. Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Miraglia 1990, p. 358; Cavanna 2003; La borghesia 2004, p. 123. Il fotografo, e pittore, era in stretta relazione con le maggiori istituzioni culturali torinesi quali la Società Promotrice delle Belle Arti e l’Armeria Reale, da cui nel 1874 aveva ricevuto l’incarico di produrre alcune prove di riprese fotografiche e di cui pubblicherà un ampio catalogo fotografico proprio nel 1882,  mentre nel 1880 aveva realizzato il grande album dedicato alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti,  dedicandolo a Umberto I. Sarà ancora lui, ormai alla fine della propria vita, a realizzare nel 1892 l’album con le riproduzioni fotografiche dei bozzetti del concorso per il Monumento nazionale al Principe Amedeo che il Comitato esecutivo aveva offerto ai membri della giuria (FVA0300).

[53] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano, cui si devono forse le due medaglie conquistate a Napoli nel 1878 ed a Milano nel 1881 (Miraglia 1990, p. 379).

[54] Cavanna 2000a. La richiesta ministeriale ai Prefetti comportava di acquistare o “al caso far eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” A Caselli si deve – credo –  il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, così come appare proprio nelle immagini valdostane di Ecclesia.

[55] Barberi 1999, p.  93 nota 111. Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, e poi ancora – per iniziativa ministeriale – nel salone centrale dell’Esposizione di architettura del 1890 (Volpiano 1999, p. 59). Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Piemonte.

[56] Atto del 22 dicembre 1882, MCT- PM, FA m. E.

[57] Nella copia dedicata “Al Preg.mo Dottore Rovere” il dedicante si definisce esplicitamente quale “ristauratore del Castello”. Quasi superfluo ricordare che una tale precisa intenzione documentaria ed esplicitamente celebrativa condotta con la complicità di Giacosa, questa accurata e lunga messa a punto di un autoritratto in forma di castello che fu l’intera operazione di Issogne, questo intreccio di sentimenti e culture dell’abitare che richiama alla mente l’opera di una vita di Mario Praz, non si espresse in forme neppure lontanamente paragonabili nelle poche occasioni in cui il ruolo di Avondo fu quello di consulente, come per Palazzo Silva a Domodossola o Casa Cavassa a Saluzzo, ma neppure per il castello di Lozzolo, cui pure fu molto legato negli anni giovanili ma di cui non si conserva nel fondo neppure un’immagine.

[58] Contratto del 12 gennaio 1884, MCT- PM- FVA, m. L, n.132; come risulta da una nota del 29 marzo successivo Ecclesia aveva impiegato sette giorni , coadiuvato dal custode del castello, per realizzare le 72 riprese (36 grandi, 36 piccole) del castello; le spese vive totali ammontavano a L. 311,50 (MCT- PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture”). Una seconda ricchissima campagna documentaria del castello e dei suoi arredi, con immagini di grande qualità, raccolta in un album Alfieri e Lacroix oggi compreso nel Fondo Avondo (FVA570) quale evidente esito di una integrazione successiva, sarà condotta nel 1935-36 verosimilmente in relazione con le iniziative assunte da Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, il quale “animato da una nuova ondata di passione medievalista a sfondo littorio”  (Barberi 1999, a cui si rimanda per la ricostruzione dell’intera vicenda) aveva elaborato un ambizioso progetto relativo ai castelli valdostani, che per Issogne prevedeva oltre al restauro (sciagurato) degli affreschi, anche che “tutti gli ambienti [fossero] restaurati e convenientemente arredati” (Bruno Molaioli 1936), con la graduale sostituzione “dell’arredamento di imitazione antica con mobili originali” (Carlo Aru 1936), ciò che potrebbe rendere ragione della ricca documentazione di arredi, anche del Museo Civico, nelle pagine dell’album.

[59] FTM- PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture”. Che gli album avessero edizioni anche molto diverse tra loro, e non solo per il formato, è confermato dal confronto tra i diversi esemplari conservati presso la Biblioteca della Fondazione Torino Musei;  non solo varia l’ordine delle tavole, ma vengono utilizzate stampe tratte da negativi anche significativamente diversi relativi allo stesso ambiente: la Parte del cortile col pozzo (t. IV), che nell’edizione in piccolo formato presenta un uomo in costume da armigero poggiato alla fontana del melograno, risulta assolutamente spopolata nella versione in formato maggiore, mentre in altri casi muta la disposizione degli arredi secondari o il momento della ripresa, con conseguente diversa illuminazione, senza che per ora sia possibile stabilire una dettagliata cronologia delle singole riprese.

[60] Nota del gennaio 1889, MCT- PM- FVA, m. E. Ancora nel 1898 Ecclesia scriveva ad Avondo per chiedergli l’autorizzazione ad esporre per la vendita le fotografie di Issogne all’Esposizione “visto che nella speculazione fatta (…) ci abbiamo rimesso specialmente io che più nulla mi rimane” (Lettera del 13 aprile 1898, MCT-PM- FVA, m.L, n.60), ma la querelle dovette proseguire ancora a lungo se nel 1910, per ovviare al contenzioso, le fotografie vennero consegnate alla Soprintendenza torinese (Barberi 1999, p. 93, nota 111).

[61] Le immagini ebbero un successo notevole: vennero riproposte sulle pagine de “La Fotografia Artistica” del giugno-luglio 1911 poi ancora in parte riprese da Carlo Nigra nella sua pubblicazione del 1934 dedicata al cinquantenario della realizzazione del Borgo Medievale, pur omettendone la paternità.

[62] Questa tradizione, molto piemontese, proseguirà ben oltre le raffinate ambientazioni pittorialiste di Guido Rey sino a comparire, singolarmente, nella produzione di un fotografo di cultura modernista come Riccardo Moncalvo che ancora nel 1938 fotograferà con tenero sentimentalismo due ragazze in costume nei castelli di Fenis e di Issogne (Moncalvo 1997).

[63] La visita a Issogne era connessa all’incarico di consulente per gli interni  e gli arredi avuto dall’architetto Bodo Ebhardt, responsabile del vistoso restauro stilistico del castello di Haut-Koenigsbourg in Alsazia. Su Forrer, archeologo con interessi antiquariali, direttore del Museo Archeologico di Strasburgo dal 1907 al 1940,  autore di numerosissime  pubblicazioni illustrate e albi, compresi nel Fondo Rovere della Biblioteca della Fondazione Torino Musei ma in parte risultato di scambio con la pubblicazione del 1905, rimando alla fondamentale monografia di Bernadette Schnitzler 1999, che qui ringrazio per avermi fornito preziosissime indicazioni relative al ruolo dello studioso. Di tutt’altro tenore le considerazione di un altro illustre corrispondente di Avondo, Luigi Palma di Cesnola, che in una lettera del luglio 1901 per molti versi adulatrice (“Ho bisogno che un artista come Lei che è universalmente riconosciuto, mi consigli”) gli ricordava come “Qui, di vecchi Castelli né di nuovi, esistono; tutto è democratico.” (PM- FVA, m. A).

[64] Il 2 gennaio 1902 la Libreria Clausen pagava ad Avondo L.40 per una copia dell’album Ecclesia (L.30) e “L. 10 pel Forrer, che è il suo vero prezzo ordinando l’esemplare in Germania, e che non dubito Ella vorrà rilasciarmi all’identica condizione” (MCT- PM- FVA, m. A), ma pare che anche questa pubblicazione avesse – ancora una volta – scarsa circolazione se un addetto ai lavori come Charles Chauvet, redattore e disegnatore de “L’Art pour tous” ricordando l’incontro torinese del 1898 con “l’homme sympathique, l’artiste, l’érudit qui est le directeur, M. le commandeur Avondo”, cui doveva la sua scoperta di Issogne e la possibilità “de rapporter en France, la quasi découverte d’une architecture, de decorations peintes inattendues sur le sol italien” (Chauvet 1901) mostrava di conoscere il testo di Giacosa ma non quello di Forrer. Il periodico, fondato nel 1861 da émile Reiber, ospitò dal 1898 molte tavole relative ad oggetti del Museo, disegnati da Chauvet proprio in occasione della visita compiuta a Torino per le Esposizioni di quell’anno.

[65] Esposizione 1880, i cui scopi – come ricordava Mario Michela nella presentazione – furono quelli di “raccogliere le reliquie della antica Arte sparse e nascoste per queste vecchie provincie; scuotere la polvere obliosa di nomi ingiustamente dimenticati.”  In quella occasione Avondo mise a disposizione una ventina di opere dalle sue collezioni di armi, arredi, tessuti e oreficerie, tra cui il reliquiario di Giorgio di Challant per la chiesa di Verrès (Sala III, vetrina A n.7).

[66] Per una prima ricostruzione di queste vicende mi sono avvalso di quanto pubblicato in Collegio Architetti 1887; Volpiano 1999, cui rimando per ogni citazione successiva, salvo diversa indicazione.

[67] Uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizzava il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano” (Donghi 1891, p. 18). Diverso il parere di Giovanni Sacheri, per il quale “ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!” (Volpiano 1999, p. 99); già alcuni anni prima (1883) Sacheri  si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32) concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[68] AMCTO CAP5, n.65 Verbale del 23-12-1895, sottolineatura nostra.

[69] Novara 1992, p. 255; l’attenzione per la comunicazione museale e per una più vasta divulgazione della conoscenza del suo patrimonio è testimoniata da una serie di cartoline in fototipia conservate nel fondo, tra cui il dipinto di V. Marinelli, Ferrante Catara porta in trionfo per Napoli Masaniello.

[70]Taramelli 1898. Il permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” è stato riconosciuto da Giovanni Romano 1988, p. 23.

[71] “Volendosi fare alcune tavole a colori si potrebbe ricorrere alla tricromia: ma questa, per quanto fedele, non conviene per tirature  così limitate. (…) Io proporrei invece di eseguire le dette tavole in cromolitografia a tinte piatte servendosi pei calchi della fotografia.” (Lettera dell’11 novembre 1899, AMCTO CMS 23)

[72] AMCTO CMS 23, 1900, XLII. Anche altri interventi rimarcarono il carattere elitario della pubblicazione in 250 copie, mentre alcuni consiglieri come Carlo Ceppi esprimevano dubbi “anche sul modo della pubblicazione perché le maioliche, i vetri, le stoffe ed altri oggetti a colori non si possono rappresentare colle sole risorse della fotografia.” Luigi Cantù, certo sulla scia dell’esperienza raggiunta con la curatela tecnica dell’analoga pubblicazione dell’Armeria Reale confermava infine che le lastre utilizzate dal Di Sambuy, nei due formati 18×24 o 24×30, sarebbero rimaste di proprietà del Municipio, secondo quanto meglio specificato dalla successiva scrittura privata di affidamento d’incarico che al punto 4° prevedeva: “Il presente contratto essendo stipulato per semplice locazione di opera e non altrimenti il Municipio intende rimanga interamente riservata a sé la proprietà artistica dell’opera completa, delle lastre fotografiche e delle riproduzioni che se ne potranno trarre con qualsiasi sistema e la custodia delle lastre viene affidata alla Direzione del Museo a cui verranno consegnate dal Nobile Sambuy ad opera compiuta debitamente assestate in apposite cassette scanalate, chiuse a chiave e sigillate col sigillo del prefato Nobile di Sambuy” 5° “Ad opera ultimata le pietre litografiche che servirono per le riproduzioni delle tavole in cromo saranno cancellate alla presenza del Direttore del Museo e del Nobile di Sambuy, a meno che il Municipio di Torino non intenda acquistarle al prezzo di costo della pura pietra”  6° “Nel frontespizio dell’opera (…) sarà indicato come esecutore delle riproduzioni lo studio di riproduzioni artistiche del Nobile di Sambuy”. (AMCTO CMS 23, 15 marzo 1901)  In quegli stessi giorni il Direttore riceveva da Luigi Palma di Cesnola, la conferma dell’invio di “una cassetta contenente le fotografie dei principali quadri esposti nel Metropolitan Museum” (PM- FVA, m. B.N. n.252) “dalle quali potrà farsi un idea [sic] più chiara della raccolta di oggetti d’arte che questo Museo possiede, il valore totale delle quali, in danaro costano e rappresentano sessantadue milioni di lire italiane.” (PM- FVA, m. B.N. n. 117), ma allo stato attuale non è rimasta traccia di tale invio.

[73] AMCTO CMS 23, Lettera del 9 gennaio 1901. Nel 1896 alla Fototipia Molfese e Charvet, via XX settembre, 56, era stato affidato l’incarico di stampa dei tre volumi illustrati dell’Armeria Reale, poi realizzati dallo stabilimento milanese Calzolari e Ferrario, per sopraggiunti insanabili contrasti tra il contitolare Alberto Charvet  e Giovanni Assale, responsabile delle riprese realizzate dallo Studio Berra (Cavanna 2003).

[74] AMCTO CAA 32.3  Lettera del 13 luglio 1903.

[75] AMCTO CAA 32.4 Lettera del 31-3-1904. I lunghi tempi di realizzazione erano anche dovuti alle caratteristiche intrinseche del procedimento adottato; nell’ottobre del 1903 Calzolari e Ferrario avevano a loro volta richiesto una sollecita approvazione per poter procedere coi lavori “stante che i nostri fototipi essendo a base di gelatina  influiscono molto [sic] come igrometro al tempo pessimo che siamo e che continuerà.” Ancora nel novembre successivo osservavano che “se il sole si fa desiderare non vorremmo pregiudicare la perfetta riuscita del lavoro per accelerare la consegna di qualche settimana.” AMCTO CMS 23, Memorandum del 29-10-1903; AMCTO CMS 23 Lettera del 27-11-1903.

[76] AMCTO CAA 37.1, “Pubblicazione illustrata – Copie spedite – Riscossioni e versamenti”. Non risulta tra gli acquirenti il nome di Alfredo Melani che nel 1902 aveva scritto ad Avondo per ottenere alcune fotografie degli oggetti del museo essendo stato avvertito da Bertea del catalogo in preparazione, riproduzioni che a lui sarebbero servite  per la preparazione del volume dedicato alla Storia dell’Industria artistica che “uscirà a fascicoli fra molto tempo”; richiedeva inoltre l’invio – a suo tempo – del Catalogo “per metterlo in evidenza o nell’”Arte Italiana”   o in qualche Rivista Estera (…) Abbiamo molti amici in comune: il Boito, il D’Andrade, il Giacosa, il Reycend da cui potevo farmi presentare; e scusi se sono andato così per le spicce.” Avondo rispose con grande sollecitudine ma con altrettanta freddezza ricordando che Di Sambuy ne “ha la proprietà artistica” e che per quanto riguardava l’invio del volume avrebbe potuto a suo tempo “dirigersi al Sindaco per averne una copia”. (AMCTO CAA 32.2 Lettere del 23 e 24 marzo 1902) Gli accordi con Di Sambuy non avevano però impedito ad Avondo, negli stessi giorni, di concedere a Secondo Pia di fotografare “vari oggetti esistenti nel Museo Civico” per illustrare una conferenza dell’Avv. Rondolino su Torino Medievale. (AMCTO CAA 32.2 Lettera del 21-3-1902).

[77] Di Macco 1997, p. 52, ha parlato a questo proposito di “modelli espositivi (messi a punto più tardi in sede museale).”

[78] Avondo svolse un ruolo importante nei confronti dell’Esposizione non solo come organizzatore e prestatore ma anche quale membro del Comitato per la pubblicazione illustrata. Degli scambi e suggerimenti di oggetti intercorsi tra i diversi membri del Comitato promotore resta traccia in una fotografia di una delle porte del castello di Lagnasco, esposta in mostra, compresa tra le immagini del fondo con dedica di Emanuele d’Azeglio allo stesso Avondo.

 

 

 

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La Campagna romana 2001

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Giacomo Caneva e la Scuola Fotografica Romana (1847 / 1855), catalogo della mostra (Roma, 1989), a cura di Piero Becchetti. Firenze: Alinari, 1989

 

Carandini 1925

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Cartier-Bresson 2003

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Cassanelli 1998a

Roberto Cassanelli, a cura di, Luigi Sacchi. Un artista dell’Ottocento nell’Europa dei fotografi. Torino: Provincia di Torino, 1998

 

Cassanelli 1998b

Robeto Cassanelli, Morris Moore, Pietro Selvatico e le origini dell’expertise fotografico, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini, I, Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali, “Quaderni”, 8. Pisa: Scuola Normale Superiore, 1998, pp. 41-47

 

Castelli e cattedrali 1999

Castelli e cattedrali di Puglia a cent’anni dall’esposizione Nazionale di Torino, catalogo della mostra (Bari, 1999), a cura di Clara Gelao, Gian Marco Jacobitti. Bari: Mario Adda Editore, 1999

 

Castello d’Issogne 1884

Castello d’Issogne in Val d’Aosta. Torino: Camilla e Bertolero, s.d. [1884]

 

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Cavanna 1997a

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Cavanna  1997b

Pierangelo Cavanna, Sketches of London, in Antonio Fontanesi 1818 – 1882, catalogo della mostra (Torino, 1997), a cura di Rosanna Maggio Serra. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp. 185-189

 

Cavanna 1999

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Maestà di Roma  2003

Maestà di Roma. Da Napoleone all’Unità d’Italia, catalogo della mostra (Roma, 2003), a cura di Sandra Pinto, Liliana Barroero, Fernando Mazzocca. Milano: Electa, 2003

 

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Maggio Serra  1988

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Maggio Serra  1993

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Maggio Serra  1997

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Maggio Serra  2003

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Anita Margiotta, La Scuola Romana di Fotografia, in Roma 1850 2003 , pp. 28-34

 

Mario Gabinio  1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Mario Gabinio  2000

Mario Gabinio. Valli piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, 2000-2001), a cura di P. Cavanna. Torino: Edizioni GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 2000

 

Mascia  2000

  1. M. [Alessandra Mascia], Paolo Gaidano, (scheda biografica), in Dragone 2000, pp. 334

 

Matteucci  1997

Giuliano Matteucci, Il fondo fotografico di Telemaco Signorini dell’archivio Vitali, in Telemaco Signorini. Una retrospettiva, catalogo della mostra (Firenze, 1997). Firenze: Artificio, 1997, pp. 184 -236

 

1899, Un progetto di fototeca  2000

1899, Un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, 2000), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici – Electa, 2000

 

Millozzi  2005

Federica Millozzi, Studio Salviati, in Venezia, la tutela per immagini. Un caso esemplare dagli archivi della Fototeca Nazionale, catalogo della mostra (Roma, 2005), a cura di Paola Callegari, Valter Curzi. Bologna: Bononia University Press, 2005

 

Miraglia  1981

Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839 – 1911),  “Storia dell’Arte italiana”, 9, “Grafica e immagine. II. Illustrazione e fotografia”. Torino: Einaudi, 1981, pp. 421-543

 

Miraglia  1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia  1996

Marina Miraglia, a cura di, Alle origini della fotografia. Luigi Sacchi lucigrafo a Milano 1805 – 1861. Milano: Federico Motta Editore, 1996

 

Miraglia  2003

Marina Miraglia, La fotografia, in Maestà di Roma 2003, pp. 565-581

 

Mirisola  2004

Vincenzo Mirisola, a cura di, Sicilia Mitica Arcadia – Von Gloeden e la “Scuola” di Taormina. Palermo: Edizioni Gente di Fotografia, 2004

 

Mirisola, Di Dio  2004

Vincenzo Mirisola, Michele di Dio, a cura di, Sicilia ‘800 – Fotografi e Grand Tour.  Palermo: Edizioni Gente di Fotografia – Fototeca Regionale, 2004

 

Mollino  1949

Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [1950]

 

Moncalvo  1997a

Enrico Moncalvo, Tableaux vivants tra Romanticismo e Modernismo, in Presenze. L’avanguardia temperata di Riccardo Moncalvo, catalogo della mostra (Torino, 1997-1998), a cura di Aldo Audisio. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1997, pp. 78-91

 

Moncalvo  1997b

Enrico Moncalvo, La residenza torinese di Vittorio Avondo: la palazzina di via Napione nel contesto delle tipologie coeve, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 199-208

 

Monumento Nazionale  1892

Monumento Nazionale al Principe Amedeo. Relazione della Giuria. Torino: Vincenzo Bona, 1892

 

Museo Civico  1905

Museo Civico di Torino – Sezione Arte anticaCento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo. Torino: Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo di Sambuy, 1905

 

Naef  1980

Weston Naef, The beginning of Photography as Art in France, in After Daguerre: Masterworks of French Photography (1848 – 1900) from the Bibliothèque Nationale, catalogo della mostra (Paris, New York, 1980-1981), Bernard Marbot, Weston J. Naef, eds. New York / Parigi: The Metropolitan Museum of Art / Berger-Levrault, 1980

 

Natale  1993

Vittorio Natale, Alessandro Puttinati, in Maggio Serra 1993, p. 109

 

Negro  1956

Silvio Negro, Album romano. Roma: Gherardo Casini Editore, 1956

 

Negro  1964

Silvio Negro, Nuovo Album romano. Fotografie di un secolo. Vicenza: Neri Pozza Editore, 1964

 

Novara  1992

Carla Novara,  La Galleria d’Arte Moderna della città di Torino: la storia di un’istituzione: 1863 – 1910, tesi di laurea in Storia della critica d’arte, relatore Giovanni Romano, Università degli studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1991 – 1992

 

Paoli  2000a

Silvia Paoli, Domenico Bresolin, in 1899, un progetto di fototeca 2000, p. 161

 

Paoli  2000b

Silvia Paoli, Guigoni & Bossi, in 1899, un progetto di fototeca 2000, p. 187

 

Paoli  2004

Silvia Paoli, a cura di, Lamberto Vitali e la fotografia. Collezionismo, studi e ricerche. Milano: Silvana Editoriale, 2004

 

Papone  2003

Elisabetta Papone, “Al chiarissimo Antonio Cipolla… il Municipio di Genova”: un album tra fotografia, architettura e politica, in Fotografi e fotografie, “Bollettino dei Musei Civici Genovesi, 23 (2001), nn. 68/69, maggio – dicembre, pp. 6-19

 

Pettenati  1996

Silvana Pettenati, Francesco Marmitta, in Il tesoro della città 1996, pp. 41-42

 

Pettenati  1997

Silvana Pettenati, Vittorio Avondo e le arti applicate all’industria, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 95-102

 

Piemonte  1930

Touring Club Italiano, Piemonte, “Attraverso l’Italia”, I. Milano: Touring Club Italiano, 1930

 

Pirani  2003

Federica Pirani, “Amici e rivali. Ippolito Caffi e Giacomo Caneva tra pittura e fotografia”, in Roma 1850  2003, pp. 42-47

 

Pittori fotografi  1987

Pittori fotografi a Roma 1845 – 1870, catalogo della mostra (Roma, 1987), a cura di, Lucia Gavazzi, Anita Margotta, Simonetta Tozzi. Roma: Multigrafica Editrice, 1987

 

La poesia del vero  2001

La poesia del vero. Pittura di paesaggio a Roma tra Ottocento e Novecento da Costa a Parigini, catalogo della mostra (Macerata – Camerino, 2001), a cura di Gianna Piantoni. Roma: De Luca, 2001

 

Porretta  1976

Sebastiano Porretta, Ignazio Cugnoni fotografo. Torino: Einaudi, 1976

 

Prandi  1979

A.P. (Alberto Prandi), Veneto, in Fotografia italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Venezia, 1979), a cura di Daniela Palazzoli, Marina Miraglia, Italo Zannier. Milano / Firenze: Electa / Alinari, 1979, pp. 123-126

 

Prandi  2003

Alberto Prandi, La dagherrotipia nel Veneto, in L’Italia d’argento 2003, pp. 194-200

 

Prima Esposizione  1890

Prima Esposizione Italiana di Architettura. Torino 1890: Catalogo. Torino: Tip. Origlia, Festa e Ponzone, 1890

 

Quintavalle  2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Rampin  2001

Marina Rampin, Giacomo Caneva pittore, “Fotologia” v. 21-22, 2001, pp. 58-61

 

Reteuna  1991

Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino, “Fotologia” v. 13, 1991, pp. 30-39

 

Reteuna  1997

Dario Reteuna, a cura di, Album di famiglia 1850-1940, catalogo della mostra (Torino, 1997). Torino: Fondazione Italiana per la Fotografia, 1997

 

Roma 1850  2003

Roma 1850: il circolo dei pittori fotografi del Caffè Greco, catalogo della mostra (Roma /  Parigi, 2003 – 2004), a cura di Anne Cartier-Bresson, Anita Margiotta. Milano: Electa, 2003

 

Romano  1988

Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp. 11-32

 

Romano  1994

Serena Romano, a cura di, L’immagine di Roma 1848 – 1895. La città, l’archeologia, il medioevo nei calotipi del fondo Tuminello. Napoli: Electa Napoli, 1994

 

Rossetti Brezzi  1999

Elena Rossetti Brezzi, L’arredo pittorico, in Barberi 1999, pp. 51-54

 

Rossi  1912

Teofilo Rossi, In memoria di Vittorio Avondo. Inaugurazione della lapide decretata dal Municipio a Vittorio Avondo nella sede del Museo Civico di Arte applicata all’Industria, 14 dicembre 1912. Torino: Tip. G.B. Vassallo, 1912

 

Rouillé  1992

André Rouillé, La photographie entre controverse et utopie, in Usage de l’image au XIXe siècle, atti del convegno, (Paris, Musée d’Orsay, 1990), Stéphane Michaud, Jean-Yves Moloinier, Nicole  Savy, dir. Paris: Editions Créaphis, 1992 , pp. 249 – 256

 

Sagne  1994

Jean Sagne, Portraits en tout genre. L’atelier du photographe , in Michel Frizot, dir., Nouvelle Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1994 , pp. 102-122

 

Scaramella  1999

Lorenzo Scaramella, Fotografia. Storia e riconoscimento dei procedimenti fotografici. Roma: Edizioni De Luca, 1999

 

Schnitzler  1999

Bernadette Schnitzler, Robert Forrer (1866 – 1947) archeologue, écrivain et antiquaire. “Recherches et documents”, tome 65. Strasbourg: Société Savante d’Alsace, 1999

 

Schrader  1910

Bruno Schrader, Die Römische Campagna. Leipzig: E.A. Seemann, 1910

 

Scharf  1979

Aaron Scharf, Arte e Fotografia. Torino: Einaudi, 1979

 

Schwarz  1992

Heinrich  Schwarz, Arte e Fotografia. Precursori e influenze,  a cura di Paolo Costantini. Torino: Bollati Boringhieri, 1992

 

Sella  1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del fotografo. Trattato teorico-pratico di fotografia. Torino: Tipografia G.B. Paravia e Comp., 1863

 

Signorelli  1997

Bruno Signorelli, Il personaggio di Vittorio Avondo e le fonti documentarie per ricostruirne la figura, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 11-29

 

Simone  1965

Mario Simone, a cura di, Saverio Altamura. Pittore – patriota foggiano nell’autobiografia, nella critica e nei documenti. Foggia: Studio Editoriale Dauno, 1965

 

Simonetti  1999

Antonella Simonetti, Campagne fotografiche storiche di monumenti pugliesi nella Fototeca della Soprintendenza di Bari, in Castelli e cattedrali 1999, pp. 81-85

 

Società  1999

Società Fotografica Subalpina 1899-1999. Torino: Daniela Piazza Editore, 1999

 

Solomon-Godeau  2002

Abigail Solomon-Godeau, Calotypomane. Guide du gourmet en photographie historique, “ètudes photographiques”, n.12, novembre 2002, estratto

 

SPABA  1880

“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880

 

SPABA  1883

“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”,  IV, 1883

 

Stella  1893

Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte. Torino: Paravia, 1893

 

Strategie  2001

Strategie per la fotografia. Incontro degli archivi fotografici, atti del convegno (Prato, 2000), a cura di Oriana Goti, Sauro Lusini.  Prato: Comune di Prato – Archivio Fotografico Toscano, 2001

 

Tamassia  2002

Marilena Tamassia, Firenze ottocentesca nelle fotografie di J.B. Philpot. Livorno: Sillabe, 2002

 

Tamburini, Falzone del Barbarò  1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza, 1981

 

Taramelli  1898

Andrea Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp. 106-110; n.22, pp. 171-175; n.23, pp. 177-179

 

Il tesoro della città  1996

Il tesoro della città. Opere d’arte e oggetti preziosi da Palazzo Madama, catalogo della mostra (Torino, 1996),  a cura di Silvana Pettenati, Giovanni Romano. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Thovez  1912

Enrico Thovez, L’opera pittorica di Vittorio Avondo. Torino: Edizioni d’Arte E. Celanza, 1912

 

Tittoni, Margiotta  2002

Maria Elisa Tittoni, Anita Margiotta, a cura di, Scenari della memoria. Roma nella fotografia 1850 – 1900. Roma: Comune di Roma – Electa, 2002

 

Toesca  1911

Pietro Toesca, Torino.  Bergamo: Istituto italiano d’arti grafiche, 1911

 

Torino  1884

Torino e l’Esposizione Italiana. Cronaca illustrata della Esposizione Nazionale Industriale e Artistica del 1884. Torino / Milano: Roux e Favale / Fratelli Treves, 1884

 

Torino 1902  1994

Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994

 

Vanzella  1997

Giuseppe Vanzella, Padova. I fotografi e la fotografia nell’Ottocento. Campodarsego: Gruppo Carraro, 1997

 

Varignana  1993

Francesca Varignana, Pietro Poppi “peintre-photographe”, in Andrea Emiliani, Italo Zannier, a cura di, Il tempo dell’immagine. Fotografi e società a Bologna 1880 – 1980. Torino: Seat, 1993, pp. 57-85

 

Viale  1933

Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte. Torino: Tip. Anfossi, 1933

 

Viale  1949

Vittorio Viale, In memoria Lorenzo Rovere (1869 – 1950), “Bollettino SPABA”, N.S., 3 (1949), pp. 164-166

 

Viale  1965

Vittorio Viale, Museo Civico di Torino. Acquisti e doni dal 1961 al 1965, dattiloscritto, s.d. [1965]

 

Vitulo  1997

Clara Vitulo, Vittorio Avondo e la Commissione consultiva per i monumenti nazionali d’antichità e belle arti, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 191-197

 

Volpiano  1999

Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura. Torino: Celid, 1999

 

Wey  1851

Francis Wey, De l’influence de l’héliographie sur les Beaux-Arts, “La Lumière”, 1851, ora in Michel Frizot, Françoise Ducros, dir., Du bon usage de la photographie. Paris: Centre national de la Photographie, 1987, pp. 57-71

 

Zannier  1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

 

Scoprire le architetture: patrimonio storico e documentazione fotografica in Piemonte 1861 – 1931  (2000)

“Architettura & Arte” , 3 (2000), n.11-12, luglio-dicembre, pp. 16-23

 

Gli anni della scoperta e del primo affermarsi della fotografia – come è noto – coincidono in ambito europeo con il consolidarsi dell’attenzione per il patrimonio architettonico, specialmente medievale, e col definirsi dei fondamenti stessi delle moderne teorie del restauro architettonico che, insieme alla fotografia,  sono tra gli elementi costitutivi del “moderno”. è altrettanto vero però che la  diffusione  della conoscenza di questo patrimonio e la stessa sua definizione qualitativa e quantitativa molto devono, specialmente nelle aree del Bel Paese tradizionalmente ritenute marginali dal punto di vista artistico come il  Piemonte, alla attività di quei fotografi che mescolando interessi professionali e commerciali ad una profonda passione conoscitiva, ma nella maggior parte dei casi fidando solo su quest’ultima, si sono impegnati nella formazione del catalogo visivo dell’architettura e dell’arte di questa regione.

Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione invia ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti e rimessole nel 1875, voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.”[1]  Con questo atto, le cui conseguenze iniziano appena a essere conosciute e studiate, lo stato italiano si poneva sulla scia delle iniziative avviate dal governo francese nel 1851 con l’istituzione della Mission Héliographique e si colloca in un orizzonte di sempre più precisa attenzione delle possibilità offerte dall’uso strumentale della tecnica fotografica, sperimentate a partire dal 1875 dallo stesso Istituto Geografico Militare sotto specie di fototopografia.

Il decennio che precede queste iniziative, segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, è anche il periodo di prima massiccia diffusione degli album fotografici: dopo le produzioni documentarie degli anni ‘50 con le opere di Giuseppe Venanzio Sella, Ludovico Tuminello, Francesco Maria Chiapella, in cui  i soggetti sono ancora quelli  privilegiati dalla produzione calcografica e litografica precedente,  nel decennio successivo si sviluppa una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolge a tutto il territorio regionale.

L’attività di documentazione fotografica si fa più specifica ed il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: accanto alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864) con immagini di grande qualità, il traforo del Frejus, documentato ancora da Vialardi nel 1863, a partire dagli anni ’70 compaiono i primi album di vedute realizzati dai numerosi studi fotografici ormai presenti nelle maggiori città piemontesi; in queste opere viene riproposta, adeguandola alla realtà locale, la sequenza consolidata dei luoghi canonici – che si presentano come ovvi e ineluttabili – specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il sito[2], ma proprio il loro riferirsi alla specificità del luogo ne costituisce la novità, che non è ancora di sguardo ma di cosa osservata. Sulla scia dei precedenti torinesi di Le Lieure e Marville, nei primi anni Settanta numerose sono le produzioni documentarie, tra le quali si ricordano l’opera di Pasquale Bossi per il Lago Maggiore (1870), di Giovanni Ferrari a Saluzzo (1871ca), di Luigi Natale Fariano a Cuneo, con un album dedicato alla città (1872) ed uno, non datato ma verosimilmente coevo, esteso a tutta la provincia, ed ancora le realizzazioni di Castellani, Viglietti, Berra ed Ecclesia alle quali faranno seguito nei due decenni successivi produzioni relative ai principali centri piemontesi da Biella (Emilio Gallo, 1891) a Tortona (Castellani), da Novara (Tarantola) a Pinerolo, dove Pietro Santini, figlio di Pietro, propone nel 1881 un Album del viaggio di Umberto I da Pinerolo a Perrero che richiama modestamente ma in tutta evidenza  il modello dell’album commissionato dal barone James de Rothschild a édouard Baldus nel 1855, in occasione della visita di stato condotta in Francia dalla regina Vittoria.[3]

Emerge da questa produzione un segno diverso e distintivo rispetto alle campagne precedenti: la celebrazione delle glorie municipali avviene ancora per il tramite consueto dell’illustrazione dei principali monumenti affiancando però, con pari dignità, le nuove realizzazioni che segnano le trasformazioni della città e del territorio, gli emblemi della modernità: asili e scuole, stabilimenti industriali e idroterapici,  stazioni e ponti, le banche, il gasogeno. Gli album sono a volte commissionati dalla municipalità (Acqui, Susa), da committenti o sottoscrittori privati, ma più sovente sono realizzati per iniziativa dello stesso fotografo sia a fini promozionali sia quale precisa iniziativa editoriale e commerciale. Primo significativo esempio di questa strategia culturale e commerciale è Turin ancien et moderne che il parigino Henri Le Lieure, a Torino dal 1859, dedica alla città nel 1867 corredando le ventidue splendide albumine che lo formano di brevi saggi dei personaggi più in vista della cultura torinese di quegli anni: da Luigi Cibrario a Pio Agodino, da Michele Lessona e Vittorio Bersezio a Federico Sclopis, Carlo Felice Biscarra e altri.

Se i soggetti di Le Lieure ripropongono ancora i temi delle litografie che nel 1845 Enrico Gonin include in Turin et ses environs, i fotografi attivi nei centri minori rivolgono la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche, specialmente per quanto ci riguarda, a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase è proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li porta  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrisponde allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili.  Sono questi gli anni in cui la documentazione fotografica si avvia a una utilizzazione mirata  anche da parte di studiosi e architetti, come indicano alcune partecipazioni alla Esposizione torinese del 1880: qui ad esempio Alfredo d’Andrade, seguendo le ben note indicazioni di Viollet-Le-Duc[4] e anticipando le risoluzioni boitiane, documenta il suo primo intervento architettonico, il restauro del castello di Rivara, proprio con sei fotografie realizzate da Giovanni Battista Berra e  da Giuseppe Vanetti.[5] è da qui che  la  fotografia architettonica  muove  i suoi primi passi, utilizzata specialmente  in virtù delle sue più efficienti possibilità tecniche che consentono di sostituire in modo rapido ed economico i processi di stampa calcografica e litografica, senza che si pensi ancora ad una sua utilizzazione quale specifico strumento di documentazione e di studio del patrimonio storico architettonico[6]; perché questo percorso si compia, almeno in area piemontese,  debbono giungere a maturazione le riflessioni e le esperienze nate dai contatti tra cultura artistico archeologica (piuttosto che specificamente architettonica)  e fotografica  e  contestualmente avviarsi le procedure per esaudire le richieste provenienti dalla amministrazione centrale.

Nel 1878 viene istituita la Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità (sulla base del R.D. 3 agosto 1870), composta da sette membri tutti appartenenti alla neonata (1875) Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino. Nella seduta nel 31 ottobre viene illustrata alla Commissione la citata  richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione (circolari del 21/10 e 14/11), ma solo quattro anni più tardi, nel 1882, dopo una prima ipotesi non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” per documentare il patrimonio (18 giugno 1881) definito  dell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte” redatto nel 1871 dalla specifica commissione diretta da Carlo Felice Biscarra[7],  la Commissione delibera di assegnare a due dei migliori professionisti piemontesi, Berra (Fotografia Subalpina) e Ecclesia, il compito di fotografare il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente dallo stesso Biscarra e da Crescentino Caselli, al quale ultimo si deve verosimilmente il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, quale appare proprio  nelle immagini di Ecclesia.[8]  Negli esiti di  queste campagne di ricognizione l’intenzione documentaria si sposa con la poetica  di Biscarra   ed ancor più di Federico Pastoris che vedeva nella fotografia un efficace strumento ausiliario alla sua aspirazione verista, quella stessa che gli “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[9]

Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile anche le prime applicazioni  della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico piemontese che ancora alla fine del secolo si giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[10], riproponendo tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra”[11] e la cui infondatezza sarà di lì a poco  tradotta in evidenza espositiva dalla realizzazione del Borgo Medievale nel parco del Valentino in occasione della Esposizione generale italiana del 1884,  “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni” delle diverse tipologie di costruzioni selezionate dal gruppo di studiosi coordinato da D’Andrade, raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio” e compiendo un’opera  assimilabile “a quella di un compilatore di una raccolta di oggetti per museo o galleria o di un dizionario d’arte e d’archeologia” (…) obbligo solo e strettissimo l’autenticità.”[12] In questo monumento nuovo, punto nodale per la formazione di una consapevolezza professionale e civile del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano, è facile riconoscere il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, in copie autentiche, che dichiara in tutta evidenza i propri debiti con le modalità culturali proprie dell’universo fotografico. Qui l’idea di copia oggettiva, e quindi autentica, analoga e fungibile al reale propria dell’ideologia fotografica di secondo Ottocento   investe   una pratica che si vuole filologica nonostante l’intervento di assemblaggio e collage: ogni frammento, così come ogni fotografia, è considerato autentico in quanto riproduzione fedele all’originale e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, destinato a tradurre dalla raffigurazione alla realizzazione  un soggetto inesistente in quella forma.

Intorno e ancor di più in conseguenza di questa iniziativa[13] operarono sia fotografi professionisti come Ecclesia (verosimilmente contattato da D’Andrade grazie ai buoni auspici di Vittorio Avondo)[14], sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[15], che sarà per lungo tempo collaboratore di D’Andrade. A lui si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione del giovane studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[16]

Lo stesso 1884 costituisce però momento importante per la storia della documentazione fotografica dell’architettura anche per l’avvio del progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si tiene in occasione dell’Esposizione affida  al Collegio torinese; nel successivo congresso (Venezia,1887)  questo presenterà il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato proprio al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” [quindi con una presentazione artistica] se dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[17]

La realizzazione del Borgo e la successiva istituzione del Museo favorirono una attenzione nuova per quella tipologia di edifici che erano serviti da modello alla sua realizzazione;  ad essi venne dedicata da allora una attenzione fotografica sempre più ampia sia da parte dei professionisti[18] sia degli amateur photographers  tra i quali accanto a Nigra e, in misura minore,  ad Ottavio Germano[19] la figura più rilevante fu quella di Secondo Pia[20], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione.

In occasione della Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tiene a Torino nel  1890 mentre uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizza il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte   nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano”[21], a Pia viene assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[22], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi.”[23]

Una ulteriore occasione di conoscenza sarà poi costituita dalla Esposizione di Arte Sacra del 1898, nel corso della quale Pia espone circa 600 fotografie mentre Giovanni Cena gli dedica un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[24]

L’accumulo di notizie a cui Cena si riferiva  prendeva nel frattempo la forma di un ricchissimo corpus di precise schede analitiche, dedicate a ciascuna delle opere fotografate, che costituisce oltre che una fonte importante e sinora non utilizzata per la storiografia artistica piemontese anche un indicatore esatto dello scrupolo estremo con il quale questo “dilettante fotografo” ha affrontato il suo fondamentale e pluridecennale compito di documentazione; esso è anche un indizio ulteriore e preciso dell’elevato livello culturale oltre che specificamente professionale al quale si collocava in Piemonte, a partire almeno dagli anni ‘60 del XIX secolo, questa attività fotografica, che nei casi più significativi è connotata dalla volontà esplicita di porre in atto un vero e proprio progetto culturale di scoperta e valorizzazione del patrimonio locale, muovendosi in direzione opposta rispetto alle gigantesche imprese commerciali dei più noti studi italiani (da Alinari a Sommer).

Ad un progetto analogo si richiama esplicitamente Pietro Masoero, di professione fotografo ritrattista, che avvia nel 1890 un esteso rilievo fotografico della basilica di S. Andrea a Vercelli, pubblicato nel 1907 parallelamente ai relativi rilievi grafici realizzati da Federico Arborio Mella a corredo di un volume sulla storia della basilica che si poneva quale “contributo al recente risveglio pel culto dell’arte sacra”, uno dei temi più interessanti del dibattito culturale nel Piemonte di secondo Ottocento, strettamente connesso alla rivalutazione della tradizione artistica locale e quindi anche al dibattito e alle prime iniziative di tutela[25].

In questa pubblicazione  “Si volle che la riproduzione fotografica di questo gioiello, sviluppata in una serie logica e possibilmente completa di parti armonizzanti col tutto, desse all’opera un senso di realtà e di vita”  con immagini fotografiche che “riproducono in modo mirabile, non svisato o alterato da alcun manierismo, la vera parvenza o carattere stilistico”[26] della basilica.  Mentre negli anni ‘50 Pietro Estense Selvatico sceglieva la fotografia perché credeva potesse offrire “le esatte apparenze della forma” contro le alterazioni dell’accademia, cinquant’anni più tardi, dopo la fotografia di ispirazione pittorialista,  il rischio di cui un intellettuale attento come Masoero è ben conscio è quello di leggere come obiettiva in quanto fotografica una immagine svisata o alterata dal “manierismo”, inteso quale gratuito formalismo interpretativo dell’opera, per non dire del mondo.[27]

Nel secondo decennio del Novecento la documentazione fotografica del patrimonio storico piemontese si estende sia per iniziativa di alcuni grandi stabilimenti fotografici italiani quali Alinari, che ampliano nel 1912 il ristretto repertorio realizzato nel 1898, e l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, a cui vengono commissionate più di quattrocento riprese[28] in  occasione della realizzazione del padiglione piemontese all’Esposizione romana del 1911, mentre prosegue la collaborazione tra nuove generazioni di studiosi,  organismi di tutela e fotografi particolarmente sensibili alla conoscenza e divulgazione del patrimonio artistico e architettonico, collaborazione già per certi versi anticipata negli anni Ottanta dell’800 dal rapporto tra Riccardo Brayda e Alberto Charvet[29], ma che assumerà nei primi decenni del’900 forme più precisamente connotate: dalle cartelle dedicate da Giancarlo dall’Armi al Barocco  Piemontese, con bellissime immagini corredate dai testi di Cimbro Gelati, Carlo Camerano, Emanuele Provana di Collegno, Melchior Pulciano e Paolo R.Deville[30], alla collaborazione un poco più tarda di Augusto Pedrini con  Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi.[31]

Il ruolo svolto da Brayda risulta fondamentale anche per comprendere l’opera di Mario Gabinio, in particolare la serie realizzata nei primi mesi del 1900 per partecipare al concorso bandito dal Comune di Torino  per la “Collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”.  Gabinio si aggiudica il premio con la serie dedicata a Torino che scompare:  84 stampe che per scelta  dei soggetti, esaustività della documentazione e per l’approccio quasi da reportage consentito dall’uso del medio formato costituiscono una novità assoluta nel panorama della fotografia di documentazione urbana piemontese e italiana.

A partire dagli anni Venti data l’inizio effettivo dell’interesse di Gabinio per il patrimonio architettonico di Torino, già indagato con Torino che scompare e con alcune più sporadiche riprese degli ani ‘10, del quale ci restituisce un catalogo sostanzialmente esaustivo, ritornando più volte sullo stesso soggetto, alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta.

Il suo lavoro intorno all’architettura assume la forma dell’indagine tipologica nella serie dedicata a portali e  portoni degli edifici sei-settecenteschi, riprendendo un tema non nuovo della produzione fotografica torinese, qui connotato da una più marcata attenzione per il dato architettonico e da evidenti preoccupazioni compositive, che si concretizzano nella ostinata concatenazione di spazi e superfici tra facciata e cortile interno; intendendo il portale come cornice architettonica e punto di accesso al cannocchiale prospettico puntato verso il cortile, con la presenza costante di un elemento collocato centralmente a sottolineare la posizione del punto di fuga.[32]

Agli edifici torinesi Gabinio dedica serie costituite da numerose immagini, in cui architettura e presenza urbana sono indagate con inquadrature singolari e sapienti, tanto poco ortodosse quanto efficaci, dove l’interesse per i volumi edificati e per le possibilità di lettura che ne offre la fotografia, per i problemi posti dalla relazione tra illuminazione e forma architettonica, convive col rigore topografico nella determinazione dei punti di ripresa, fornendo esempi concreti di quel connubio tra documentazione e fotografia artistica che molti ritengono  non realizzabile e che costituisce una delle manifestazioni del più generale ambito di discussione sulla natura del documento fotografico che si trascinava almeno dalla metà dell’Ottocento.

“La fotografia architettonica – afferma T.H.B. Scott, vicepresidente della Royal Photographic Society di Londra,  nel 1925 – non può essere fotografia artistica; essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve rinnegarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”; sentenza senza appello alla quale tenta debolmente di opporsi J.R.H. Weaver quando afferma che “Nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo”.[33]

Di queste posizioni esteticamente poco consistenti, fortemente legate a una poetica “pittorialista” e antimodernista avrà ragione negli stessi anni la nuova concezione della fotografia in varie forme legata o determinata dalle realizzazioni delle avanguardie storiche, immediatamente recepita e fatta propria anche da Gabinio che nella documentazione dei due importanti cantieri torinesi della Società Reale Mutua Assicurazioni si abbandona al fascino costruttivista dell’architettura del ferro, qui sapientemente confrontata con la città e le sue permanenze, in un dialogo suggestivo tra struttura architettonica e maglia urbana.

Superando concretamente la cultura ottocentesca dell’immagine ottica, tutta orientata e rinchiusa nella celebrazione dei valori documentari propri della fotografia, per aprirsi alla soggettività della nuova visione propria del moderno,  Gabinio segna il passaggio cruciale alla modernità della cultura fotografica torinese, guardando non tanto alle opere presentate ai  Salon o pubblicate in Luci ed Ombre, sostanzialmente ancorate ad un tardo pittorialismo in lenta trasformazione, con la sola eccezione di alcune opere di Stefano Bricarelli e delle prime prove di Riccardo Moncalvo, ma invece a quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che contribuisce al formarsi di una precisa consapevolezza delle modalità di trascrizione del reale proprie del mezzo, su queste fondando le stesse possibilità espressive e documentarie dell’immagine ottica.

La pacifica convivenza tra possibilità documentaria e espressione estetica, compositiva, la moderna coscienza che l’un atteggiamento non escluda l’altro si ritrovano nell’opera – meno stilisticamente connotata ma non per questo indifferente alle determinazioni estetiche – di uno studioso come Albert Erich Brinckmann (1881 – 1958), tra i primi e più autorevoli  storici ad affrontare sistematicamente l’analisi delle architetture barocche piemontesi ponendole in relazione con le più importanti scuole internazionali. Le immagini a cui ci riferiamo, tutte ricavate da negativi su lastra nel formato 9/12, vennero  realizzate nel corso dei primi viaggi compiuti in Piemonte nel 1928 – 1930 quindi pubblicate nel suo fondamentale studio del 1931[34], e donate all’Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” che Vittorio Viale aveva da poco costituito presso i Musei civici di Torino, riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Giovanni Vacchetta e Lorenzo Rovere, anche allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle diverse Società di Studi, a rischio di dispersione.[35]

La figura di studioso interessato direttamente alla utilizzazione appropriata delle possibilità offerte dalla fotografia per documentare ma ancor più per interpretare e leggere, non solo formalmente le architetture si delinea in area piemontese proprio con gli anni Trenta del Novecento, avviando una stagione nuova di esperienze e realizzazioni che porterà almeno sino a Carlo Mollino e al più giovane Roberto Gabetti, certo oggi non ancora interrotta ma da conoscere e comprendere compiutamente.

Note

[1] Il testo qui presentato costituisce una prima occasione di sistematizzazione di informazioni e riflessioni relative all’argomento sino ad ora sparse in contributi diversi, parzialmente citati nelle note che seguono, e non pretende pertanto una esaustività che mi auguro possa in futuro essere almeno ipotizzata, anche grazie all’approfondimento e all’estensione degli studi specifici.

Il testo della comunicazione ministeriale è qui citato dalla copia conservata presso l’Archivio di Stato di Lecce, Prefettura, I serie, I vers., b.44, f.413, consultata nel corso di una più ampia ricerca relativa alla definizione dei processi di sedimentazione dell’immagine (fotografica e non solo) del patrimonio culturale regionale condotta nell’ambito del corso di Storia e tecnica della fotografia presso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università di Lecce. Per i documenti relative alle parallele vicende piemontesi cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va segnalato infine l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire tanto che ancora nel 1904 Giovanni Santoponte dovrà richiamare esplicitamente la necessità metodologica di dotarsi di materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte (individuando) i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali”, Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni. Roma: 6 (1905), pp.38-48.

[2]Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863; la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedica nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di ‘archivio’ o ‘museo’ fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839 – 1911.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1990;  P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[3] cfr. Malcom Daniel, The Photographs of édouard Baldus. New York: The Metropolitan Museum of Art – Montreal, Canadian Centre for Architecture, 1994.

[4] Eugène Viollet-Le-Duc,  voce Restauration, in Id., Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siécle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Reunies, s.d. [1860], pp.33-34,  in cui viene per la prima volta codificato l’uso della fotografia nei processi conoscitivi e operativi connessi al restauro degli edifici.

[5] IV Esposizione nazionale di Belle Arti. Catalogo. Torino: L. Roux e C.,  1880, nn.182-183; va ricordato qui anche l’album fotografico che G.B.Berra dedica a questa esposizione. La novità  costituita dall’utilizzo di fotografie per la presentazione di progetti architettonici (utilizzate da quattro dei settantanove espositori della sezione “Architettura”), è ulteriormente indicativa se pensiamo alle ben note qualità di disegnatore di D’Andrade, cfr. Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981; Alfredo d’Andrade. L’opera dipinta ed il restauro architettonico in Valle d’Aosta tra il XIX e il XX secolo, catalogo della mostra (Aosta, 3 luglio  – 19 settembre 1999), a cura di Lia Perissinotti. Aosta:  Musumeci Editore, 1999.

[6]è noto che la documentazione urbana e d’architettura anticipa, per molteplici ragioni, non solo tecniche, quella relativa alla pittura; cfr. Miraglia, Culture fotografiche e società , op. cit.; P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, in Tiziana Serena (a cura di), Per Paolo Costantini, I,  Fotografia e raccolte fotografiche, «Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni», VIII, (1998),  pp.49-55.

[7] Cfr. Carlo Felice Biscarra, Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte, in “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, II, Torino, 1878, pp.225-230.

[8] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884 congiuntamente ad analoghe campagne condotte nell’Alessandrino da Federico Castellani. Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte.

[9]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891: Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna  Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni  Romano,. Torino:  Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326, da leggersi in parallelo  a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andradeop. cit.,pp.19-43.

[10]Antonio Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp.106-110 (p.107); n.22, pp.171-175; n.23, pp.177-179. Del permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” ha parlato ancora in anni recenti Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela  di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp.11-32 (p.23).

[11]Francesco Gamba, L’arte antica in Piemonte, 1880, citato in R. Maggio Serra, Uomini e fatti, op. cit., p.29.

[12] Giuseppe Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana, Catalogo, 1884, p.9.  Dalle più recenti ricerche risulta però che per queste realizzazioni non si possa parlare di  copie “esattissime” ma semmai di accurate trascrizioni sapientemente adattate per essere inserite nel nuovo contesto, cfr. Carla Bartolozzi, a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995.

[13] Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in  Fotografi del Piemonteop. cit.  e in Alfredo d’Andrade, op. cit.

[14]  Vittorio Avondo aveva commissionato proprio a Ecclesia più copie delle fotografie realizzate nel castello di Issogne, da lui acquistato e restaurato anche col sostegno di D’Andrade,  nel corso della campagna del 1882 allo scopo di realizzare una serie di album, cfr. Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo (1836 – 1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: SPABA, 1997.

[15] Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonteop. cit.,  pp.17-20. Per il ruolo svolto da Nigra nel mantenere in area piemontese un rapporto fecondo con la tradizione della “scuola storica”, cfr. Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte.  Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[16] La prima edizione di The Seven Lamps fu pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in P.Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[17] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1; tale indicazione proponeva con largo anticipo il problema dei Musei documentari,  ripreso in Piemonte dieci anni più tardi da Giovanni Vacchetta, il quale  elabora un progetto di catalogazione del patrimonio artistico piemontese  e propone alla Sezione di Architettura presso il Circolo degli Artisti di Torino l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, unitamente alla formazione di un archivio fotografico, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni; la sezione V del Museo doveva ospitare “negative fotografiche”.  I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto proponendo infine solo la formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.”,  Roberto Albanese, Emilio Finocchiaro, Maristella  Pecollo, a cura di, G.Vacchetta. Volontà d’arte: il gusto del particolare.  Cuneo: Comune di Cuneo – Assessorato per la Cultura, 1990, p.141.

[18] Per fare un solo esempio il confronto tra i cataloghi di Vittorio Besso del 1881 e del 1893 mostra come in questo lasso di tempo si fosse accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entrò a far parte una serie dedicata ai castelli costituita da ben 17 soggetti mentre per il Biellese la serie dedicata al castello di Gaglianico passò da tre a quindici titoli.

[19]Su Ottavio Germano, che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra ed inoltre Claudia Cassio, in Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola  Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino:  Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (p.77, n.23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992. Sull’attività fotografica legata alle prime attività di tutela  piemontese molto resta ancora da conoscere ma va segnalata almeno la presenza a Palazzo Madama di un vero e proprio laboratorio di sviluppo e stampa gestito da Germano e Nigra, come si ricava da una lettera datata 3 gennaio 1892: “Favorisco farmi sapere  se prima di tornare a Sartirana puoi venire a Palazzo Madama a sviluppare le rimanenti lastre già impressionate e fare altre stampe.”, citato in Cristina  Ghione, Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra,  Anno Accademico 1993-1994, p.87.  Sulle necessità di definire compiutamente i compiti e le metodologie operative dei gabinetti fotografici degli Uffici regionali si esprimerà Pietro Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica istruzione, “L’Arte”, 7 (1904), pp.80-82, inserendosi in un dibattito più ampio, anche internazionale,  a proposito della necessità di attuare raccolte sistematiche di documentazione fotografica, i cosiddetti Musei Documentari. Il riferimento metodologico costituito da  Toesca  è stato analizzato da Giovanni Romano, Pietro Toesca a Torino,  “Ricerche di Storia dell’arte”, 21 (1996), n.59, pp.5-19 ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 1-21. Per la ricostruzione del dibattito su queste istituzioni, nuclei originari e occasioni primarie di riflessione per ogni successivo  musée imaginaire fotografico o comunque virtuale si vedano Paolo  Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990, in  particolare alle pp.58-72;  P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’impegno”, 11 (1991), n.3, dicembre, pp.41-48; Brera 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, Palazzo di Brera, Sala della Passione, 17 febbraio-25 aprile 2000) a cura di Matteo Ceriana, Marina Miraglia. Milano: Electa, 2000. La particolare attenzione di Toesca per le possibilità consentite dalla documentazione fotografica, già espressa in una lettera a Secondo Pia del 1907 (cfr. Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia.  Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, p.31) lo porterà nel secondo dopoguerra a curare i volumi della collana “Artis Monumenta photographice edita”, della quale usciranno i titoli dedicati a San Pietro al Monte a Civate  ed alla Cappella di San Silvestro in Santa Croce a Firenze,  mentre rimarrà inedito il terzo, sulla Basilica Superiore di Assisi, tutti con fotografie di Mario Sansoni e Carlo Bencini, cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 57-198 (pp.158-159); Paola Callegari et alii, La Fototeca Nazionale. Roma:  Ministero per i Beni Culturali, ICCD, 1984.

[20]Tamburini, Falzone Il Piemonte fotografato da Secondo Pia, op. cit.;    Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale del Cinema, 19 ottobre-19 novembre 1989) a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò. Torino: Allemandi & C., 1989; P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, op. cit.; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia: Immagini, di Asti e dell’Astigiano, catalogo della mostra (Asti, Archivio Storico, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998) a cura di Gemma Boschiero. Asti: Archivio Storico del Comune di Asti, 1998. L’altro grande dilettante piemontese del periodo, il più giovane Francesco Negri  era invece – come noto – più impegnato nello studio e nella documentazione del patrimonio artistico, cfr. cfr. P. Cavanna, Cinquant’anni di sguardi: la fotografia scopre il Sacro Monte, in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea.  Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998, pp.137-145.

[21] Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891, p.18;  nella stessa occasione rilevava come Pia “girando tutta la regione del vecchio Piemonte, seppe scovare una quantità  di monumenti in gran parte ignorati, ch’egli presentò in tre album di oltre 200 fotografie.”

[22] Lo stesso concetto era ribadito da Pietro Masoero che ancora  dieci anni più tardi recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino sottolineava come “nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), n.4, , p.278. Altra grande occasione espositiva per Pia si presentò nel 1926 con la “Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese” che si tenne a Torino alla palazzina della Promotrice delle Belle Arti al parco del Valentino nell’ambito della “II Mostra Internazionale di Edilizia”; nella sala VII erano ospitati rilievi di d’Andrade, Brayda, Mella, Ferrante, Nigra, Pulciano, Vacchetta e Tornielli mentre “tutta una parete della sala [era] occupata da ben 22 vetrine dell’avv. Secondo Pia contenenti fotografie di grande formato di edifizi piemontesi dal periodo romanico, al gotico, al rinascimento: è la più completa raccolta di fotografie della Mostra”., cfr. La Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese, in “Il Momento”, 24 (1926), n.128, 2 giugno, p.5.

[23] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, op. cit.

[24]Giovanni  Cena, Piemonte antico, in “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240. A quella stessa occasione risale anche, come è noto, la prima fotografia della Sindone, realizzata proprio da Pia, che a questa impresa deve – impropriamente – la sua scarsa notorietà.

[25] P. Cavanna, Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione, “Fotologia”, studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier, n.6, 1986,  pp. 34 – 45

[26] Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, Pietro Masoero, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli. Vercelli: Gallardi e Ugo, 1907, p.439 passim, sottolineatura nostra.

[27] Per Masoero infatti si doveva “evitare il pericolo di cadere nel manierato (…) Al vero, unicamente al vero deve l’arte fotografica attingere le sue ispirazioni (…) L’arte fotografica deve avere un’ispirazione, di diventare il documento ispiratore e coadiuvatore dell’arte, con le sue potenti verità.”,  P. Masoero, Arte fotografica, in “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 10 (1898), pp.161-171.

[28] Le 436 lastre allora realizzate sono oggi conservate presso l’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino; per quanto riguarda la datazione va rilevato che essa potrebbe anche essere lievemente antecedente: si vedano alcune delle stampe relative a Ranverso conservate nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che  riportano  una datazione (tarda però) “prima del 1907”  e le due stampe all’albumina relative a San Sebastiano (una vela di volta e la Crocifissione)  comprese nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 22) , non datate ma tecnicamente attribuibili al più tardi ai primi anni del Novecento. Naturalmente già nella seconda metà del XIX secolo frequentarono il  Piemonte anche operatori di altri importanti stabilimenti fotografici quali Brogi e Sommer, ma la loro produzione specifica non è ancora sufficientemente nota e studiata.

[29] Riccardo Brayda,  Porte Piemontesi dal XV al XIX secolo,  1888.  La collaborazione tra i due origina dal precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, Torino, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.  L’opera di Alberto Charvet costituisce un importante esempio della ricchezza del panorama torinese e più ampiamente piemontese di fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e d’architettura con produzioni di costante alto livello. Per Charvet cfr. Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., pp.371-372.

[30]Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino:  Dall’Armi, s.d. [1915], sei cartelle fotografiche corredate di  notizie storico-critiche. Anche Dall’Armi (1881-1928) come Pietro Masoero, era professionalmente molto noto specialmente per la sua attività di ritrattista,  genere nel quale adotterà con grande eleganza e misura  stilemi di matrice pittorialista, conservati ben oltre la loro stagione più efficace nella produzione dello studio, gestito dalla moglie Giovanna Andrate fino al 1951.

 [31]  Di Augusto Pedrini, una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi a Torino nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento, oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”;  Pedrini viene chiamato nel 1932, con Gabinio, a documentare il cantiere della nuova sede della Società Reale Mutua Assicurazioni di Torino.

[32] Cfr. Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P.  Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996.

[33] John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 35-36. Dallo stesso articolo è tratta la citazione di Scott con cui l’autore polemizza utilizzando strumenti e categorie molto deboli e confuse, del resto proprie della maggior parte della pubblicistica di quegli anni, specialmente quella rivolta al grande pubblico dei dilettanti.

[34] Albert Erich Brinckmann, Theatrum Novum Pedemonti: Ideen, entwürfe und bauten von Guarini, Juvarra , Vittone. Düsseldorf: L. Schwann, 1931.

[35] Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte.  Torino: Tip. Anfossi, 1933.

Vedere barocco (2020)

Vedere barocco

 

“Una cosa finalmente piacemi ancora si avvertisca, 

ed è proprietà essere naturale de' raggi, come egli è di tutti i fluidi, 

il mutar continuamente e successivamente figura 

nell’allontanarsi che fanno del luogo onde si partono, 

tendendo sempre ad annullare gli angoli, e le acutezze della loro figura, 

e così ad accostarsi continuamente 

vieppiù al tondo, vale a dire al conico, o al cilindrico” 

Bernardo Antonio Vittone, 1760

 

 

 

 

“La fotografia – scriveva  André Bazin nel 1945 – portando a compimento il barocco, ha liberato le arti visive dalla loro ossessione per la somiglianza”[1], ma oggi potremmo dire che di quella stessa ossessione anche la fotografia si sia liberata,  ovvero,  per dire meglio, che l’abbia trasformata in una condizione più complessa della semplice relazione di analogia, dove l’accezione convenzionale di copia o riproduzione, l’intenzione documentaria infine ha progressivamente assunto un significato diverso, più interpretativo e narrativo, senza mai rinunciare però alla necessità ontologica del rapporto col referente. Generalizzando ciò che in altro contesto ebbe a scrivere Minor White potremmo dire che “La sottile linea elastica tra realtà e fotografia è stata tesa inesorabilmente, ma non è stata spezzata. Queste astrazioni della natura non hanno abbandonato il mondo delle apparenze perché farlo significherebbe spezzare il punto di forza dell’apparecchio, la sua autenticità. (…) La trasformazione del materiale originario in realtà fotografica è stata applicata in modo mirato; la stampa è stata manipolata per influenzare l’asserzione; (…) Per i dati tecnici, la macchina è stata usata fedelmente”[2].

Questo progressivo mutare di intenzioni nel rapporto tra soggetto fotografante e oggetto fotografato risulta particolarmente evidente se consideriamo l’ambito della fotografia di architettura, qui esemplificato seguendo le alterne vicende della fortuna fotografica di alcuni  edifici barocchi piemontesi.

Un viaggiatore attento come  Jérôme de la Lande, giunto a  Torino nel corso del suo “Voyage en Italie” del 1765-1766, aveva espresso (pur con qualche riserva) una sincera ammirazione per le architetture guariniane  come  la Cappella della Sindone –  considerata “la più bella chiesa di Torino” nonostante quella sua cupola “di costruzione  assolutamente singolare, si potrebbe quasi dire stravagante[3] –   o Palazzo Carignano, “un grande edificio la cui  facciata, sebbene di mattoni, ha un aspetto gradevole e maestoso”[4]. Quando però la fotografia si aprì al racconto delle architetture e degli spazi urbani,  l’opinione dei colti (cioè dei primi acquirenti di quelle stesse fotografie) viveva ancora delle feroci considerazioni di matrice neoclassica che avevano bollato il Barocco come “corruzione (…) di ogni ragionevole architettura”[5],  prolungando una sfortuna critica che si sarebbe mantenuta ben salda oltre l’inizio del Novecento, specialmente in Italia dove il recupero operato in area germanica, da Gurlitt  a Wölfflin, da Schmarsow a Riegel, tardava a dare i propri frutti[6].

 

Fotografare monumenti

 

Le più precoci tracce di un’attenzione, per quanto incerta, per le manifestazioni dell’architettura barocca in Piemonte si ritrovano nelle pagine di alcune guide o nella veduta al dagherrotipo (invertita) del lato nordoccidentale della Piazzetta Reale a Torino, realizzata da Enrico Federico Jest l’11 ottobre 1839,  a pochi giorni di distanza dalla prima e più nota ripresa della chiesa della Gran Madre di Dio (8 di ottobre),  con le cupole di San Lorenzo e della Sindone che inevitabilmente emergono dalla cortina edilizia[7]. Come scriveva Felice Romani, che ebbe l’opportunità di assistere a quelle prime “prove di questo mirabile dramma della fisica moderna (…) Al debole lume di una candela noi spiammo a traverso del vetro (…) e in meno di due minuti la superficie metallica, poc’anzi nuda ai nostri occhi cominciò a improntarsi di visibili forme (…) la cupola di San Lorenzo sorgeva colla sua rotonda, coi suoi compartimenti, colle sue finestre (…) e l’estremità della piazza del Castello, dall’angolo di Doragrossa fino a quello che mette al palazzo reale, appariva con tutte le sue proporzioni, con tutte le sue case (…).”[8]   Non dissimile l’inquadratura di una successiva ripresa di Giuseppe Venanzio Sella (fig.1), realizzata su lastra all’albumina nel luglio del 1853, contemporaneamente al lato nordorientale scorciato sulla facciata juvarriana di Palazzo Madama: due riprese che facevano (quasi) panorama e si inserivano in una serie che comprendeva anche Piazza San Carlo, il Castello del Valentino e quello di Racconigi[9].


1 – Giuseppe Venanzio Sella, Torino: Palazzo Reale e Palazzo Madama, luglio 1853, in: Ormezzano 1923, p. 134.

 

Un  significativo insieme di ambienti ed edifici ‘barocchi’, certo, ma qui scelti per il loro valore simbolico e dinastico, non per le loro specifiche (sebbene eterogenee) valenze architettoniche. Ancora più labili testimonianze si ritrovano nel piccolo nucleo di dagherrotipi realizzati da Frederick Crowley con John Ruskin nel corso della loro tappa torinese dell’estate del 1858, che oltre ad alcune vedute di  Strada Doragrossa (ora via Garibaldi), estensione barocca del decumano maximo, comprendevano un’ulteriore veduta della Piazzetta Reale con le cupole guariniane di San Lorenzo e della Sindone in secondo piano, mentre di Palazzo Madama venne preferito l’assetto medievale[10]. Analoga fu la scelta adottata per la rappresentazione di questo edificio nelle tavole delle Excursions Daguerriennes[11], distinguendo nettamente lo “Château” medievale (fig. 2) dall’addizione juvarriana di “Palazzo Madama”; una soluzione che ritroviamo in un’altra ripresa del 1853 ancora di Sella e in quella sostanzialmente coeva di Ludovico Tuminello[12], allora esule a Torino, mentre Francesco Maria Chiapella illustrava le residenze sabaude di Venaria Reale e di Stupinigi[13]. A chiudere questo primo catalogo visuale di architetture barocche si sarebbero aggiunte di lì a poco Villa della Regina e Palazzo Carignano, compresi da Henri Le Lieure nel proprio Turin Ancien et Moderne del 1867 (fig. 3).

 

2 – Vogel (incisore), Château delle Torri à Turin, 1842, incisione da dagherrotipo, in: Lerebours 1842, f. 108

 

 

3 – Henri Le Lieure, Palais Madame, 1867, in: Falzone del Barbarò 1987, t. V

 

A considerare il trattamento che questi autori riservarono a quegli edifici si conferma l’intenzione di restituirne il valore politico e urbanistico di emergenze monumentali, indifferenti alla specifica connotazione ‘stilistica’. Così ancora nel corso della campagna promossa dal ministero della Pubblica Istruzione nel 1878, ma realizzata quattro anni più tardi da Giovanni Battista Berra e da Vittorio Ecclesia per incarico della Regia Commissione conservatrice provinciale dei monumenti, si sarebbero privilegiate le testimonianze romane e specialmente medievali, citando della lunga stagione barocca la sola basilica di Superga, sede delle Tombe Reali di Casa Savoia, con un’ampia veduta generale. Un ulteriore caso di fotografia di monumenti, non di architetture.  

Solo un’isolata ripresa dello scalone di Palazzo Madama realizzata dal fiorentino Giacomo Brogi verso il 1875 rivelava una prima specifica attenzione per il tema.  Lo stesso Secondo Pia, il più importante amateur piemontese del periodo, meglio noto come autore della prima fotografia della Sindone nel 1898,  escluse con sistematico impegno le architetture barocche dalla sua meticolosa, pionieristica indagine fotografica del patrimonio storico piemontese condotta tra Otto e Novecento[14], e ancora il programma di riprese torinesi degli Alinari, effettuate sul finire del secolo (Sansoni [1898] 1987), avrebbe riconfermato l’attenzione per i soli interventi juvarriani: da Palazzo Madama a Stupinigi, mentre la successiva campagna di Brogi, pur restituendo il prospetto occidentale del palazzo lo qualificava come “costruito verso la fine dei XIII secolo”[15], certificandone così  l’invisibilità culturale (fig. 4).

 

4 – Edizioni Brogi, 3713, Torino: Palazzo Madama: costruzione del secolo XIII cadente, 1920 ca.

 

Anche a scala nazionale, non considerando sporadiche realizzazioni quali La Provincia di Terra d’Otranto di Pietro Barbieri del 1889,  che comprendeva i maggiori esempi di barocco leccese, il primo solido indizio di una inversione di tendenza si ebbe solo nel 1912 con la pubblicazione  di Architettura barocca in Italia di Corrado Ricci[16], un vero e proprio atlante con più di 300 fotografie realizzate dai maggiori studi italiani (Alinari, Anderson, Gargiolli-GFN, Moscioni). Dagli  stessi studi fotografici provenivano anche le immagini a corredo di Roma Barocca, primo titolo della “Collezione Italia” diretta da Antonio Muñoz (1919), con ben 355 illustrazioni in cui comparivano quasi per la prima volta[17]  immagini zenitali, utilizzate però non tanto per leggere le articolazioni spaziali (Alinari: San Carlino; Anderson: Cappella Paolina in S. Maria Maggiore) quanto per restituire gli apparati decorativi di volte e soffitti[18], mentre in termini più generali prevaleva,  in entrambe le opere, l’attenzione per la figurabilità urbana di quegli edifici, escludendo le più conturbanti sperimentazioni architettoniche condotte sull’articolazione degli spazi interni.

 

Fotografare architetture

 

Per quel che riguarda il Piemonte[19] fu la grande Esposizione In­ternazionale dell’In­dustria e del Lavo­ro che si svolse a Torino nel 1911 per celebrare il cinquan­tenario dell’U­nità a consolidare l’attenzione per le architetture barocche nel contesto del più ampio dibattito per la definizione di uno ‘stile nazionale’, assumendo qui più sottili valenze di orgogliosa rivendicazione di un’identità culturale sostitutiva dell’ormai superato modello neogotico di matrice sabauda, quello  che aveva portato alla realizzazione del Borgo Medievale al Parco del Valentino nel 1884. In quello stesso 1911 però, nel volume dedicato all’ex capitale del Regno di Sardegna, un importante storico dell’arte come Pietro Toesca, all’epoca primo titolare della cattedra di Storia dell’arte medievale e moderna a Torino, condannava senza appello le opere di Guarini, “ch’ebbe in sorte d’innalzare alcuni dei più importanti edifici della città e di imporre ad essa, nei luoghi più frequentati, le linee uggiose ideate dalla sua stracca fantasia. (…) l’aspetto sgradevole delle sue fabbriche è aumentato dal cattivo modo di muratura (…) [che] è quasi ripugnante alla vista.”[20] Verdetto inappellabile, di marca settecentesca, che non poteva che contribuire  a mantener vivo quel pregiudizio che  (nonostante  le precoci attenzioni di Stendhal[21])  aveva indotto Jacob Burckhardt ([1855] 1952) a  lasciare ai margini del suo viaggio italiano Torino e l’intero Piemonte; quello che ancora nel 1931 avrebbe consentito a Brinckmann di affermare che “Il Piemonte, collocato alle porte d’Italia, fa ancora parte delle aree sconosciute del paese più conosciuto nella storia dell’arte.”[22].

Lo studioso tedesco aveva iniziato a frequentare questi luoghi[23]   nell’estate del 1914 in preparazione del saggio dedicato all’architettura del Sei e Settecento (Brinckmann 1919); testo che un gesuita antimodernista come Carlo Bricarelli avrebbe recensito sulle pagine del “Bollettino  della  Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, riconoscendo come “dallo studio dei monumenti barocchi di Torino e d’una parte del Piemonte, fatto sul luogo in persona, [l’autore] trae un prezioso accento di novità all’opera sua e argomenti non ispregevoli in conferma del suo modo di concepire lo stile barocco [e] grazie a questa giustezza di criterio il Piemonte viene a prendere nella storia dell’ architettura moderna, e precisamente dei secoli XVII e XVIII, la posizione che gli spetta, di primaria importanza addirittura.”[24]

 

5 – Giancarlo dall’Armi, 40 Torino – Palazzo Carignano – Guarini, 1915 ca..

 

Tra le fotografie pubblicate in quel volume comparivano anche due riprese[25] di Gian Carlo dall’Armi (fig. 5), uno dei più importanti e colti professionisti attivi a Torino nei primi decenni del Novecento[26], che aveva da poco edito i primi fascicoli della sua “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”; una serie avviata nell’anno dell’entrata in guerra e per questo quasi immediatamente interrotta. Il piano dell’opera, che prevedeva trenta cartelle monografiche con brevi introduzioni storico critiche affidate ad architetti e studiosi, si ridusse alla  pubblicazione dei soli primi fascicoli de Il Barocco Piemontese[27], ciascuno contenente una serie di stampe fotografiche, che costituivano l’esito di una scelta rigorosa, frutto di numerose varianti di ripresa progressivamente ravvicinate[28], caratterizzate da una composizione nitida e ordinata, sorretta da una magistrale sensibilità agli esiti della luce sulle superfici murarie, con rare eccezioni di scorci zenitali, come per la volta dello scalone di Palazzo Barolo (fig. 6); una soluzione di cui si sarebbe ricordato Augusto Pedrini mezzo secolo dopo nel fotografare la Scala delle Forbici di Palazzo Reale[29].

In quello stesso 1915 Giovanni Chevalley dedicava a  Benedetto Alfieri una sua conferenza alla Società degli ingegneri ed architetti di Torino[30], mentre  di poco successivo fu il primo studio su Bernardo Antonio Vittone (Olivero 1920), illustrato da numerose fotografie di professionisti e amatori torinesi, tra le quali si segnalano per la qualità degli esiti ancora quelle di Dall’Armi – che nella sua prima  serie aveva offerto solo esempi di architetture civili – dedicate alle volte della vittoniana chiesa di Santa Maria di Piazza[31], e quelle  di Giuseppe Ferazzino, il solo in quegli anni a tentare una veduta zenitale delle volte della Chiesa dei Santi Bernardino e Rocco a Chieri[32].  Nella generalità dei casi le altre riprese non presentavano novità di rilievo, tanto che le fotografie di Pedrini del salone della Palazzina di caccia di Stupinigi[33] poco si discostavano dalle riprese Alinari del primo anteguerra[34],  senza arrischiare prospettive più ardite, senza veramente accettare il dialogo con le architetture fotografate.

 

6 – Giancarlo dall’Armi, 462 bis Torino – Palazzo Barolo –

Baroncelli – Fregi dello scalone, 1915 ante

 

Di quel rinnovato clima culturale che consentiva di guardare “alla architettura barocca (…)  in un senso prettamente storico, senza alcuna allusione dispregiativa” ovvero – come scriveva ancora Carlo Bricarelli (1921) – di “ricuperare i diritti civili”  di quello “stile” nonostante gli anatemi di Benedetto Croce[35],  fu testimonianza l’importante Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese che si tenne nel 1926 nelle sale del palazzo della Promotrice delle Belle Arti al Valentino. Diretta da Giacomo Salvadori di Wiesenhof e dallo stesso Chevalley[36],  presentava nella Sala X alcuni rilievi di edifici barocchi realizzati da Giovanni Vacchetta e corredati di fotografie di Dall’Armi e di Pedrini, impegnato in quegli anni a fornire il corredo fotografico degli studi che Augusto Telluccini dedicava all’opera di Filippo Juvarra (fig. 7).

 

7 – Augusto Pedrini, Torino – Palazzo Madama: atrio, 1926 ante, in: Telluccini 1926,  t.52

 

Lo studioso tributava “un meritato elogio [a Pedrini] che, con grande disinteresse e con grande amore e studio, mi ha coadiuvato eseguendo con vero senso d’arte le riproduzioni fotografiche usate per illustrare l’opera”[37].   Come già si è notato, a queste date il fotografo si muoveva ancora nella tradizione dell’ortogonalità prospettica ottocentesca: punto di vista rialzato e macchina parallela al piano verticale principale per conservare il parallelismo delle linee; anche negli interni l’apparecchio era posto sull’asse centrale ad un’altezza mediana: le deformazioni non erano consentite, tanto meno ricercate. La fotografia era  ancora intesa come schermo trasparente, una finestra in posizione privilegiata da cui osservare senza inquietudini i dinamici volumi barocchi, ridotti al più ragione­vole spazio bidimensionale di una forma geometrica piana (cerchio, ellisse, poligoni inscritti e circoscritti): quasi una normalizzazione tranquillizzante che rifiutava ogni deformazione esplicitamente anamorfica, espressionista.

A testimoniare un più generale mutamento del gusto fu una pubblicazione a larghissima diffusione come il primo volume della collana “Attraverso l’Italia” che nel 1930 il Touring Club dedicava  al Piemonte. La prima tavola fuori testo (fig. 8) , colorata in stampa, raffigurava l’interno di San Lorenzo e ne celebrava “l’ardita, originalissima cupola, la bizzarria dell’architettura che esclude ogni linea retta, la ricchezza e il buon gusto della decorazione, l’armonia delle luci e dei colori [che] ne fanno un capolavoro di grazia e di eleganza.”[38]  Accantonate e forse dimenticate le sprezzanti opinioni di Toesca, anche la nascente cultura di massa era pronta a celebrare queste realizzazioni riconoscendone il ruolo determinante nella definizione culturale del barocco sabaudo e del patrimonio architettonico nazionale.

 

8 – Autore non identificato, Torino: interno della Real chiesa di San Lorenzo, 1930, in: Touring Club Italiano 1930, All.1.

 

 

Vedere il barocco

 

Sviluppando le prime ricerche avviate nell’immediato anteguerra,   nel 1931 Albert Erich Brinckmann  pubblicava in soli 300 esemplari il Theatrum novum Pedemonti, unanimemente considerato il caposaldo della scoperta del  barocco piemontese, sebbene con una impostazione all’epoca molto discussa[39]. Uno studio che qui importa considerare specialmente per le scelte metodologiche e di poetica che guidarono la realizzazione e la composizione dell’apparato fotografico, sinteticamente ricordate dall’autore nell’introduzione al volume: “La comprensione  di una parte della storia dell’arte di quest’area culturale non è possibile senza un preliminare lavoro tecnico-giornalistico. In primis  le mie fotografie degli edifici, fotografie che ho raccolto nel corso di cinque viaggi in treno e in auto, da solo e spesso con difficoltà (…). Ciò che si può trovare presso gli studi fotografici commerciali è trascurabile. Non volevo illustrare ma semmai  chiarire un edificio. Oltre a una preparazione tecnica specifica, ciò comporta un  modo e una capacità di vedere particolari. Mi sono deciso a  realizzare numerose  riprese scorciate, e ravvicinate,  perché corrispondono all’immagine visiva e all’intenzione rappresentativa dell’architetto barocco. Con questo lavoro creativo mi auguro  di aver accresciuto la percezione visuale storico-artistica dei concetti spaziali e volumetrici del Barocco. (…) Come ho evitato quel genere di  abbellimento tipico  dei libri popolari di paesaggio, così mi sono anche guardato dall’adottare  quello stile ditirambico che seduce in modo ingannevole. (…) Il fotografo torinese Pedrini ha spesso esaudito richieste ambiziose.”[40]

9 – Albert Erich Brinckmann, Chieri – chiesa dei Santi Bernardino e Rocco: la cupola, 1928-1930,

courtesy Fondazione Torino Musei

 

La presenza di questo bravo professionista costituiva ormai una costante nell’apparato documentario dei primi studi sulle architetture barocche piemontesi, sebbene in questo caso contenesse oltre a quelle realizzate in proprio dallo studioso tedesco anche fotografie di autori diversi (e non dichiarati) quali Alinari, Dall’Armi[41] e Guido Cometto, risultando quindi più eterogeneo di quanto non ci si potesse attendere leggendo la prefazione. Così fotografie di impostazione più convenzionale e descrittiva[42] si alternano ad altre, dovute allo studioso,  nelle quali è ben riconoscibile l’adesione di Brinckmann ai dettami della “nuova visione” modernista, specialmente evidente nelle riprese scorciate del sistema voltato di San Bernardino a Chieri (fig. 9), poi reimpaginato editorialmente con un ardito taglio verticale rispetto all’originaria ripresa in formato quadrato[43]; in quelle di Santa Chiara a Bra o della torinese chiesa del Carmine ma anche in alcune riprese zenitali delle cupole di San Lorenzo a Torino, poi non utilizzate per la pubblicazione[44]. Scelte che influenzeranno non poco le successive riprese di un professionista locale come Paolo Beccaria, che adotterà un’esplicita composizione in diagonale per restituire la Scala delle Forbici di Palazzo Reale a Torino, verso il 1936 (fig. 10); uno scatto che va collocato nel novero della campagna fotografica commissionata da Vittorio Viale in preparazione della prima grande mostra del 1937 dedicata al barocco piemontese[45], purtroppo povera di fotografie del patrimonio architettonico, che pure “rappresentava il cuore concettuale della mostra”[46]. Non si può escludere che tale condizione dipendesse dalla  buona documentazione già disponibile nell’archivio fotografico dei Musei Civici, da poco istituito per volontà dello stesso Viale, ma resta il fatto che le rare  riprese architettoniche risultarono piuttosto convenzionali, con la sola, notevole eccezione di quella appena citata.

 

10 – Paolo Beccaria, Torino – Palazzo Reale: Scala delle forbici, 1935 ca.

 

Suggestioni di visione modernista si ritrovano anche nelle coeve riprese torinesi di Mario Gabinio, quasi un’indagine tipologica che lo faceva ritornare più volte sullo stesso soggetto, chiese e palazzi barocchi, porte e portali[47], alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta. Qui oltre al taglio dell’inquadratura grande attenzione era data ai valori luminosi dello spazio rappresentato, sovente ripreso in condizione di luce particolari, con ombre dense dalle quali emergono gli elementi strutturali, le sculture che a volte li animano e le decorazioni plastiche, come nelle  riprese dello scalone di Palazzo Graneri[48]; segni che si aggiungono a segni, sottolineature ed elisioni. Un momento di consapevolezza profonda, di riflessione sui fondamenti del linguaggio fotografico che richiama quelle di Gio Ponti comprese nel suo Discorso sull’arte fotografica, pubblicato su “Domus” nel maggio del 1932, nel quale riconosceva alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio. Enorme importanza della fotografia”[49]. Diverse intenzioni e modalità connotavano invece  altre sue riprese, come quella fortemente scorciata dell’invaso della cupola della Sindone (fig. 11), realizzata intorno al 1928[50]: qui riconosciamo l’intenzione di  definire un valore autonomo dell’immagine,  immediatamente debitrice delle suggestioni della “nuova visione”, tra costruttivismo e Bauhaus – note in Italia specialmente per la mediazione di Antonio Boggeri e delle riviste di architettura – che imponevano “lo spostamento del punto di vista dell’obiettivo: in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari”[51].

 

11 – Mario Gabinio, Torino – Duomo: cappella della SS. Sindone, 1928 ca.

 

 

Nel 1941 l’architetto Mario Passanti, già allievo e collaboratore di Giovanni Chevalley,  pubblicava sulla rivista “Torino” un saggio dedicato alla Real cappella della S. Sindone in Torino, corredato da un’interessante serie di fotografie di Riccardo Moncalvo (fig. 12) nella quale si riconoscono sia la cultura modernista del fotografo, che negli anni precedenti aveva già fornito prove interessanti misurandosi con alcune architetture contemporanee, sia l’adesione alle accorte indicazioni di regia dell’architetto, ben riconoscibili nel confronto tra restituzione grafica e fotografica di alcuni elementi quali il tamburo, o nell’insistere sui dettagli dell’articolazione degli archi, alle quali si aggiungevano inedite (e ancora dopo inconsuete) riprese scorciate dall’alto.

12 – Mario Passanti, Riccardo Moncalvo [fotografie], Real cappella della S. Sindone, in: Passanti 1941,  pp. 6-7

 

 

Negli anni della seconda Guerra Mondiale la sola documentazione disponibile relativa a queste architetture è quella conservata negli archivi fotografici dell’Ufficio Protezione Antiaerea –  UPA,  dei Vigili del Fuoco e delle testate giornalistiche locali[52]. Una  raccolta  e un racconto di ingegnose opere provvisionali e distruzioni. Fu per celebrare il restauro del Palazzo dell’Università di Torino, parzialmente distrutto dai bombardamenti del luglio 1943, che Anna Maria Brizio dedicò a L’architettura barocca in Piemonte la propria prolusione per l’inaugurazione dell’anno accademico il 13 dicembre 1952. In quella occasione  ricordava come la venuta di Guarini e Juvarra  avesse prodotto “Ogni volta (…) correnti nuove di idee e di gusto, e una discendenza di seguaci, che riprendendo spunti del loro stile l’andavano interpretando e modificando secondo il proprio ingegno personale e i gusti e le tendenze della cultura locale. Far la storia di tali riflessi e reazioni è il capitolo più propriamente piemontese della storia dell’architettura rinascimentale e barocca in Piemonte” [53]. A quella storia apparteneva la monografia dedicata da Nino Carboneri (1954) a Francesco Gallo, ancora con fotografie di Augusto Pedrini, il quale riconfermava la sua consueta controllata libertà, quasi coincidente con l’impegno a evitare ogni ingombrante presenza autoriale. Solo quando era indispensabile inclinava un poco l’apparecchio sull’asse verticale per riprendere il sistema voltato, secondo uno schema applicato senza variazioni, che prevedeva di porsi sotto la cupola per inquadrarne  la metà posteriore raccordata alle volte del presbiterio  e del transetto. Era nel riprendere una cappella laterale dei Santi Pietro e Paolo a Mondovì Breo (fig. 13) che il fotografo osava di più, memore forse degli insegnamenti di Brinckmann, avvicinandosi alla parete destra per puntare l’obiettivo verso l’alto e comprimere così all’interno dell’inquadratura la vela e il catino absidale, mentre nella chiesa dell’Annunziata a Busca (ivi, t.51) forzava lo scorcio per descrivere la relazione plastica tra cupola e volte, come nella chiesa della SS. Trinità a Fossano (ivi, t.66).

 

13 – Augusto Pedrini, Mondovì Breo, chiesa dei Santi Pietro e Paolo, volta di una cappella laterale, 1953, in: Carboneri 1954,  t.30

 

 

In quegli anni la vera novità in termini di lettura critica sub specie fotografica fu però rappresentata dalle fotografie realizzate da Paolo Portoghesi per il proprio volume dedicato a Guarino Guarini[54], nel quale leggeva magistralmente le ardite soluzioni strutturali della chiesa di San Lorenzo (t. 14) e contemporaneamente restituiva con evidenza plastica il confronto con l’architettura juvarriana, scegliendo di riprendere l’esterno della cupola con una inquadratura chiusa a destra dalle modanature  del basamento di Palazzo Madama (fig. 14), sovvertendo così una consuetudine rappresentativa che almeno da Giancarlo dall’Armi in poi (1920 ca) prevedeva di riprendere l’esterno dell’edificio collocandosi nel fornice dell’arcata occidentale del portico del Palazzo delle Regie Segreterie di Stato.

 

14 -Paolo Portoghesi, Torino – chiesa di San Lorenzo: esterno, 1955 ca, in: Portoghesi 1956, t. 11

 

Nella seconda grande mostra che Vittorio Viale[55] dedicò al barocco piemontese[56], nel 1963, fu “il medium espositivo della fotografia a offrire la più seducente chiave di accostamento all’architettura e ad aprire la strada a una visione collettiva dell’esperienza piemontese. A differenza degli altri ambiti della mostra, in più stretta relazione con l’arte di corte,  l’architettura si offriva naturalmente anche alla scala della città e del territorio.”[57] Più di mille riprese (trecento delle quali in mostra nella sezione al piano nobile di Palazzo Madama, stampate in grande formato da Vittore De Regibus),  vennero realizzate per l’occasione da Pedrini percorrendo  con Nino Carboneri, curatore della sezione,  “l’intero Piemonte per visitare, studiare e far fotografare il più gran numero possibile di monumenti barocchi”, ma ricorrendo anche al proprio consolidato repertorio antecedente[58]. Anche in quell’occasione si confermava quella misurata impostazione che aveva caratterizzato l’operato ormai quarantennale di questo fotografo, che preferiva assimilare l’immagine al piano  della percezione, senza forzature nella scelta dell’ottica, o del punto di vista. Solo nel confronto con le opere di Vittone si trovava costretto ad osare di più, come nella bella invenzione per le volte di San Luigi a Corteranzo ( ivi, t.138a), nelle quali è più evidente l’adesione alle richieste di Viale che gli aveva raccomandato di “effettuare le riprese dalle stesse angolazioni che aveva proposto Brinckmann”[59], mostrando di comprendere bene come dovesse essere l’architettura a indirizzare la ripresa, a suggerirne i  modi.

Oltre agli autori[60] impegnati tra il 1958 e il 1964 nella realizzazione delle monografie curate da Marziano Bernardi per la “Biblioteca d’Arte” dell’Istituto bancario San Paolo di Torino, che introducevano la novità dei “fotocolori eseguiti in luogo”, altri furono in quegli anni i fotografi, come Aldo Moisio,  che si misurarono con edifici barocchi su commissione dell’allora Soprintendenza ai Monumenti, realizzando riprese tecnicamente ineccepibili ma con impostazioni canoniche, di buon impianto ottocentesco. Più aggiornata appariva la serie di fotografie degli interni della chiesa di San Lorenzo realizzate da Mario Serra per un saggio di Giuseppe Michele Crepaldi (1963), soffermandosi sapientemente sulla lettura degli aspetti strutturali (come già Portoghesi) e sul dialogo tra le due cupole dell’aula e del presbiterio (fig. 15), che la ripresa zenitale centrata sull’arco assimilava in termini di forma e dimensioni, restituendo così un’immagine tanto falsata quanto comunemente accettata di questi volumi architettonici; una soluzione già adottata da Gabinio intorno al 1930 e successivamente riproposta con minime varianti da autori diversi –  da Daniele Regis a Pino dell’Aquila[61] – e che per certi versi conferma le riserve espresse da alcuni esponenti della cultura architettonica novecentesca a proposito della capacità di restituzione proprie della fotografia.

 

15 – Mario Serra, Torino – chiesa di San Lorenzo:  cupole del

     presbiterio e dell’aula, 1963 ante,  in: Crepaldi 1963, t. 9.

 

“Risolvendo in notevole misura i problemi della  rappresentazione di tre dimensioni, ha scritto Bruno Zevi in un passo famoso datato 1948, la fotografia assolve il vasto compito di riprodurre fedelmente tutto ciò che c’è di bidimensionale e di tridimensionale in architettura, cioè l’intero edificio meno il suo sostantivo spaziale. Le vedute fotografiche rendono bene l’effetto della scatola muraria (…) Ma se il carattere precipuo dell’architettura è lo spazio interno e se il suo valore deriva dal vivere successivamente tutti i suoi stadi spaziali, è evidente che né una né cento fotografie potranno esaurire la rappresentazione di un edificio, e ciò per le stesse ragioni per cui né una né cento prospettive disegnate potrebbero farlo”[62]. Pur partendo da presupposti diversi giungeva a conclusioni non dissimili anche Eugenio Battisti, che nella sua fascinosa lettura iconologica della Cappella della Sindone notava quanto la sua costruzione fosse “tanto basata su questi sottili rapporti psicologici che nessuna fotografia riesce mai a suggerirne il clima luminoso. Sprofondando nel buio, il fedele è salito alla massima luce; ma in questa luce l’ombra resta compresente e minacciosa. (…) Il nero dei marmi insistentemente ripresentato in sagome nervose, crea un efficace contrappunto di raggi del sole, che risultano spezzati a raggiera. (…) Questa è la ragione per cui nelle fotografie, dove la muratura diventa grigia e si evitano le zone di luce, l’edificio non solo risulta appiattito ma privo di dinamismo.”[63]

Certo sulla scia del grande successo della mostra di due anni prima, nel 1965 comparve nella collana dell’Automobile Club Italiano, Torino Barocca con fotografie di Aldo Ballo tecnicamente ineccepibili ma prive di elementi innovativi,  ma il frutto più rilevante di quella stagione  fu il volume di Andreina Griseri intitolato alle Metamorfosi del barocco (1967), che per quanto riguarda le architetture piemontesi si avvaleva di un apparato fotografico che diremmo di produzione eccentrica, nel quale trovavano scarsa rappresentanza i più noti professionisti locali, che certo non diedero in quell’occasione gran prova di sé[64], mentre ampio spazio era riservato a un piccolo gruppo di compagni di strada di generazioni diverse, a loro volta in parte legati da relazioni anche personali come Mario Passanti (ma in realtà alcune fotografie erano di Riccardo Moncalvo[65]), Roberto Gabetti ed Emilio Giay[66], ma soprattutto  Giorgio Avigdor, a sua volta  allievo di Carlo Mollino e collaboratore di Gabetti,  all’epoca semmai noto per le sue fotografie di moda, a cui venne affidata la maggior parte della documentazione architettonica piemontese, riservandogli l’onore dell’immagine di copertina: l’erma dello scalone di Palazzo Madama, forse il più persistente ‘luogo comune’ della storia di questo particolare genere di fotografia (figg. 16-19). Specie nelle foto di Avigdor è evidente la regia di una storica dell’arte come Griseri, che privilegiava l’analisi di dettaglio del particolare decorativo piuttosto che le articolazioni spaziali degli edifici considerati, che erano invece il fulcro dell’attenzione delle fotografie degli architetti, che mostravano però un tono generale di rapidi appunti visivi: pensate più per riflettere che per comunicare.

 

 

Torino – Palazzo Madama: atrio e scalone visti da sud.

 

16 – Giancarlo dall’Armi, 1915 ante

17 –  Augusto  Pedrini, 1925-1926,  in: Brinckmann 1931 t. 271

18 – Paolo Beccaria, 1930 ca, in: Viale 1963, t. 97

19 – Giorgio Avigdor, in: Griseri 1967

 

Le iniziative espositive ed editoriali degli anni Sessanta favorirono certo la divulgazione del tema, ripreso nel decennio successivo in occasione di alcune campagne fotografiche commissionate dal Touring Club Italiano, tra i cui esiti più singolari ricordiamo la serie di riprese dello scalone di Palazzo Madama realizzate da Gianni Berengo Gardin nel 1973[67] nelle quali l’autore si provava a scardinarne le consuete modalità di lettura adottando un’inquadratura orizzontale ma conservando il consueto punto di vista dal pianerottolo intermedio. Già fatto proprio da Dall’Armi nella sua vista generale da sud dello scalone di Palazzo Madama (n. 488), esso si inseriva in una linea iconografica di lunga durata: la sua determinazione, che  risaliva  a un primo schizzo di Filippo Juvarra[68], venne   successivamente adottata  in un disegno a penna e inchiostro acquerellato di Giovanni Migliara, 1834 ca.,  e confermata ancora da Carlo Bossoli[69]  circa vent’anni più tardi, introducendo una strabiliante dilatazione dello spazio, assimilabile solo alle più recenti immagini digitali ottenute con obiettivi grandangolari a correzione prospettica.  Un punto di vista che sarebbe divenuto canonico, riproposto con minime varianti da Augusto Pedrini nel 1925-1926[70]  e confermato solo pochi anni più tardi da Paolo Beccaria[71], così che le diverse riprese si  distinguono tra loro solo per la diversa apertura angolare e per il relativo decentramento rispetto all’asse costituito dalla balaustra con l’erma, restituendo ogni volta in modi sottilmente distinti le relazioni spaziali tra piani orizzontali e rampe (figg. 16-19). Alla committenza del TCI vanno riferite anche le riprese un poco più tarde di Toni Nicolini (1978), che a San Lorenzo interpretava alcuni elementi strutturali come le colonne delle cappelle radiali sino a trasformarle in minacciose presenze espressioniste che quasi cancellano lo spazio architettonico, e le due serie  che Roberto Schezen dedicava all’invaso delle cupole della Sindone e di San Lorenzo, forzando le prospettive scorciate dal basso, per la prima, e facendo emergere suggestioni zoomorfe e quasi apotropaiche per l’altra, riproponendo (crediamo inconsapevolmente) la formula adottata per la copertina di Brayda et al., 1963.

 

Vedere barocco

 

Fu Carlo Bertelli (1984) a riconoscere esplicitamente, a certificare quasi, la possibilità di intendere La fotografia come critica visiva dell’architettura in un importante scritto pubblicato su “Rassegna” nel numero curato da Gabriele Basilico.  Da storico dell’arte da sempre attento alla storia e alle pratiche delle fotografia, Bertelli riconosceva l’autonomia interpretativa (e non descrittiva) di  “questa razionalità nuova che scompone l’unità apparente [e] riconduce ogni elemento allo stesso grado di leggibilità [che]  costituisce un discorso a sé. Se la fotografia d’insieme è una metafora (associativa e simultanea, astorica) del monumento reale, l’insieme dei dettagli ne costituisce una metonimia (sintagmatica e sequenziale, storica) (…) la nostra consapevolezza del rapporto di tempo fra la presa fotografica e la realtà ci costringe ad ammettere una circolazione all’interno dell’edificio”[72]. Di più: “É impossibile cogliere un’architettura nella sua complessità in un colpo solo. L’architettura è fatta di dettagli, frammenti, invenzioni. E l’idea che ne è all’origine può essere colta in un frammento, in un dettaglio”[73].

Quella consapevolezza, quelle modalità di lettura avevano già da tempo trovato una loro misura, una loro efficacia ermeneutica nelle magistrali interpretazioni fotografiche offerte da Paolo Portoghesi a partire dalla monografia dedicata a Vittone (Portoghesi 1966; fig. 20), proseguendo nella propria personale verifica delle possibilità critiche della fotografia avviata esattamente dieci anni prima con il volume dedicato a Guarini[74], redatto quando era ancora studente.  “L’importanza che le immagini fotografiche possono avere  per lo studio del linguaggio architettonico  – affermava  lo studioso nella Nota alle illustrazioni che apre l’Introduzione visiva a Vittone – sia dal punto di vista documentario che dal punto di vista critico, ci ha spinto a creare un archivio di circa cinquemila negativi, riguardanti le opere di Bernardo Vittone, solo parzialmente utilizzati in questa monografia. Nel raccogliere il materiale si è fatto uso di tutti i mezzi tecnici più progrediti, riprendendo gli stessi soggetti con una gamma di obiettivi che fornisce angoli visuali dai 15° ai 180°. Il valore che Vittone dà alle cupole come elemento risolutivo dell’organismo ha reso necessario offrire insieme a immagini parziali riprese con l’asse dell’obiettivo orizzontale, immagini ad asse verticale che coprono il campo visivo dell’osservatore quando rivolge lo sguardo verso l’alto.  Le proporzioni degli spazi interni molto sviluppati in altezza hanno consigliato inoltre l’uso di obiettivi grandangolari. In particolare le immagini di forma circolare riprese coll’obiettivo Nikkor fish-eye (180°) riassumendo in un solo fotogramma l’intero organismo, come una planimetria ma con informazioni assai più numerose e pertinenti, hanno permesso di condensare in poche pagine una ampia rassegna delle idee architettoniche di Vittone. Queste immagini non corrispondono alla visione dell’occhio umano ma a questa si approssimano per eccesso di informazione, quanto, per difetto, si approssimano ad esse le immagini rilevate da un obiettivo normale.”[75]

Nello stesso anno comparve un altro volume a sua firma, esplicitamente costruito per “determinare nel lettore un rapporto critico attivo”: Roma barocca si presenta come “una sequenza di immagini che aspira anzitutto alla continuità del racconto (…) una sintesi visiva che volta per volta chiarisse un ‘pensiero architettonico’, un contributo al chiarimento dei problemi e allo sviluppo dei temi del barocco.”[76] Le sguardie della bellissima edizione curata da Carlo Bestetti sono illustrate da due riprese con obiettivo fish eye, dove quella dell’invaso di San Carlino vale come  omaggio ‘citazionista’  alla vista zenitale della cupola di Sant’Ivo pubblicata dal Borromini stesso nel suo Opus architectonicum (1725).

 

20 – Paolo Portoghesi, Santuario del Vallinotto;  San Luigi a Corteranzo, in Portoghesi 1966a, tt.11-12.

 

Nella testimonianza di Giorgio Stockel, allora giovane architetto coinvolto nell’impaginazione del volume, “Portoghesi, pur non escludendo l’uso della Linhof Technica per le fotografie d’insieme, scopriva nella SuperWide [Hasselblad] il nuovo strumento con il quale esprimere un nuovo linguaggio (…), vedeva l’architettura barocca come un corpo di donna da indagare, scoprire, accarezzare impudicamente in tutte le sue parti, per rendere visibili anche quelle invisibili: si comportava quasi come il fotografo di moda del film Blowup di Michelangelo Antonioni.”[77] Il confronto con la complessa composizione barocca  produsse un repertorio di immagini di grande qualità e interesse, dovute prevalentemente a Portoghesi e a Eugenio Monti, che ben rispondevano allo scopo di definirne strutturalmente le componenti visive. A ciò si aggiunga un’impaginazione innovativa e molto efficace, concepita per consentire al lettore di “scivolare senza disturbi all’interno delle immagini, libero apparentemente di pensare”[78], che credo debba più di una suggestione ad un libro apparentemente lontano come New York di William Klein, pubblicato nel 1956.  Anche per il successivo Francecsco Borromini[79] Portoghesi predispose una efficacissima serie di riprese e una coerente impaginazione delle  fotografie allo scopo di analizzare e restituire  l’architettura, intesa “come sistema di comunicazione autonomo” cui applicare schemi grafici di “interpretazione spaziale”. La sequenza risultante era costituita da riprese di dettaglio alternate a vedute fortemente scorciate, zenitali o quasi nadirali, con l’intento di comprendere tutta  la trabeazione  all’interno del fotogramma, di farla essere visualmente e non solo architettonicamente cornice. Immagine e cornice allora, assimilando così la ripresa fotografica alla proiezione planimetrica, ma dichiarando nel contempo l’insopprimibile, esuberante necessità di fagocitare lo spazio, che è uno dei comportamenti compulsivi imposti dalle architetture barocche. Inesauribili, imprendibili, irriducibili alla piramide prospettica, esse inducono a loro volta ad una barocca moltiplicazione delle fughe, degli scorci, delle deformazioni proiettive conseguenti.  Col pretesto di identificare e quasi inventariare il sistema di segni con cui si costruisce il linguaggio architettonico, queste immagini riescono a trattenere e trasmettere l’eccitazione indotta nell’occhio dell’osservatore, a testimoniare un’esperienza quindi. Qui il divario dai canoni descrittivi antecedenti è enorme, incommensurabile anzi. Segna tutta la distanza tra l’intenzione documentaria di tradizione ottocentesca, cui prevalentemente si assoggettavano gli operatori professionali, e la feconda interpretazione critica richiesta e qui concessa allo studioso che si fa fotografo, come accadeva anche negli studi di poco successivi di Christian Norberg-Schulz[80], autore di numerose delle fotografie lì pubblicate e già presente con proprie immagini in altri volumi di Portoghesi, come  lui impegnato  nella doppia  traduzione delle architetture in  parole e immagini.

Qui si direbbe che fosse l’interpretazione architettonica a provocare la fotografia,  a sollecitare e imporre una risposta non convenzionale; una ripresa ‘barocca’  dove i modi della restituzione aderivano all’oggetto fotografato. Immagini come strumenti e veicoli di conoscenza, consapevoli della necessità di “trovare nelle rappresentazioni stesse la misura e il criterio della loro verità (…); le rappresentazioni sono perciò non imitazioni ma organi della realtà, nel senso che soltanto attraverso esse qualcosa diviene un oggetto da noi compreso e per noi reale”[81]. È per questo  che “una fotografia Alinari  – come sosteneva Rudolf  Wittkower –  è un mezzo ideale per comprendere l’architettura di Brunelleschi, poiché vi compare un punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschiani” [82].  È per le stesse ragioni che “una costruzione neoclassica non potrà mai essere fotografata come una costruzione barocca – come riconobbe Luigi Ghirri –  perché l’una e l’altra prevedono un certo tipo di visione, frontale od obliqua”[83].   Il problema che si pone è allora quello di individuare soluzioni narrative adeguate, adatte alla restituzione di spazi dinamici come quelli barocchi,  provandosi a realizzare quella apparente contraddizione in termini che possiamo chiamare ‘fotografia barocca’, nella quale temi e modi della rappre­sentazione aderiscono tra loro in un continuo dialogo e sfida; dove la regolarità ottico-geometrica del sistema prospettico rivela a sua volta la propria natura di prodotto cultu­rale, passibile di esplorazioni individual­mente differenti ma sempre legittime e culturalmente moti­vate, vive. Solo apparentemente bizzarre,  momentaneamente irriconoscibili e incommensurabili rispetto al nostro consolidato modo di vedere, quasi fossero prodotti di un’ottica non geometrica. Però – lo ricordava Ernst Gombrich – “dal punto di vista geometrico, una fotografia in grandangolo non è né più né meno corretta di una ripresa con un obiettivo a fuoco normale. La differenza è una differenza psicologica”[84]. Adattando al nostro dire un’antica notazione di Manfredo Tafuri potremmo allora parlare di “innaturalità” fotografica a proposito di queste riprese che – pur obbedendo alle stesse leggi – non rincorrono il canone della verosimiglianza: “Il problema è sempre quello di negare ogni oggettività alla categoria dello spazio (…) anche lo spazio è (…) ‘relativo’: relativo, più precisamente, a un’esperienza soggettiva di rielaborazione”[85]. Precisazione ricca di conseguenze quando l’intento di restituzione critica muove dalla mimesi fenomenologica dell’effetto percettivo verso il riconoscimento delle potenzialità tecnologiche di trascrizione critica proprie del mezzo (qui tutt’altro che inconsapevoli), in una riflessione ampia sulle possibilità e le implicazioni metodologiche pertinenti allo specifico fotografico che apparteneva in quegli anni anche a Paolo Monti, impegnato in un serrato confronto col patrimonio architettonico e urbanistico italiano, seppure con  accenti diversi:  “Per quanto mi concerne – dichiarava in un’intervista ad Angelo Schwarz del 1978 – io cerco un approccio alla forma che sia il più semplice possibile, riservandomi poi di ridarne una visione più approfondita, più essenziale, più sintetica magari, attraverso una stampa più contrastata o avvalendomi di tutte quelle tecniche che ogni fotografo conosce molto bene”[86].

A questo ventaglio ampio di pratiche di ermeneutica visuale, ma con una intenzionalità più propriamente fotografica, vanno accostate altre serie di lavori  di diversa ampiezza condotte nei decenni successivi, quali le fotografie realizzate da Mimmo Jodice nel 1999 nel corso di una campagna fotografica commissionata dall’Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte,  quelle del progetto condotto  da Giorgio Jano  tra 1983 e 2006[87], che nelle prime fasi vide la collaborazione di Domenico Prola e di Enrico Peyrot e le successive riprese realizzate da Pino dell’Aquila a corredo di una serie di volumi curati da Giuseppe Dardanello.

Le fotografie di Jodice pubblicate in quella occasione, per la gran parte dedicate ad interni museali, avevano il preciso scopo di “mettere le cose di traverso rispetto alla logica del vedere”[88] ovvero – come notava Giovanni Romano – di spiare la realtà circostante “con attenzione allertata”, rivelando “indizi equivoci che cadono a grappoli nel fuoco del mirino, anzi precipitano con un effetto di risucchio”, come già accadeva in precedenti lavori dell’autore napoletano quali Mediterraneo (1995) ed Eden (1998).

Commentando la  ricognizione delle Architetture barocche in Piemonte realizzata da Giorgio Jano, Henry Millon (2002) riconobbe invece che quelle “immagini affascinanti (…) hanno aggiunto un nuovo aspetto alla nostra metodologia analitica.” Accanto al desiderio di comprendere e rendere omaggio alle “soluzioni formali, plastiche e spaziali di grande e libera fantasia (…)  delle decine di chiese barocche sparse nei piccoli centri della provincia piemontese”[89], si poneva infatti, forte e via via preponderante, l’intenzione di verificare i limiti tecnologici e critici del mezzo e del metodo fotografico, affrontando “un grande sforzo tecnico e culturale [che ha] imposto la sperimentazione prima e l’adozione poi di una grande varietà di materiali, attrezzature e procedure inedite o insolite, attinte (…) dal ricchissimo, diversificato e desueto patrimonio tecnico che la fotografia ha, lungo la sua relativamente breve storia, accumulato”[90]. Ne risultò una prima serie di  immagini che “piuttosto che obiettive sarebbe meglio dirle totalizzanti (…) perché hanno una carica esplorativa dirompente. (…) Non restituiscono una percezione, la suscitano. E non rispondono alla scoperta sequenziale degli spazi interni, perché sono fatte per il sincronico. Producono insiemi mai visti, ‘impossibili’”[91].   A considerarle ora si comprende meglio come nello sviluppo di quella ricerca abbia assunto sempre maggiore rilievo l’intenzione di sondare i limiti dell’apparato, con un agire che richiama la figura di quello che Vilém Flusser ha identificato come perfetto fotografo: colui che “se guarda il mondo attraverso la macchina fotografica, non lo fa perché è interessato al mondo, ma perché è alla ricerca di virtualità del programma non ancora scoperte, che lo rendono capace di produrre nuove informazioni”[92]. Per questa sola ma determinante ragione da quell’indagine fotografica è esclusa ogni relazione non solo con l’intorno ma anche con l’attuale, col tempo quindi.

 

21 – Giorgio Jano, Chierichiesa dei Santi Bernardino e Rocco: interno, 2006.

 

A Jano non  interessa il vissuto, non la materia né il suo mutare o resistere al trascorrere tempo. Quasi non interessa neppure quello della ripresa: non quella luce di quel particolare momento del giorno, dell’anno; solo quella necessaria a rivelare le architetture per riportarle sulla superficie sensibile della pellicola. Nonostante le immagini appaiano così inconsuete, l’intenzione esplicita del fotografo non è quella di destare meraviglia né di restituire una qualche esperienza personale, ma di mostrare gli esiti dell’applicazione sistematica di un metodo che prevede l’adozione di un ventaglio ristretto di soluzioni, per quanto arrischiate.  Le sue riprese sono l’esito di un posizionamento tutto ottico geometrico; il risultato reiterato e reiterabile di una applicazione che esclude la soggettività della composizione a favore della sistematicità del ‘rilevamento’.  Il ricorso ad apparecchi di grande formato ed ottiche con  amplissime aperture angolari ha una prima conseguenza fondamentale: nessuna confusione tra visione e immagine, tra sguardo e fotografia. Osservando le riprese di Jano non possiamo mai, neppure per un momento fingere di credere che è ‘come se’ fossimo in presenza delle architetture che ne costituiscono il soggetto. La loro analogia con la cosa risiede nella loro natura di traccia, non con la nostra plausibile esperienza di quell’edificio. Basti pensare a come di fronte a uno spazio tridimensionale, per quanto semplice, il nostro agire non possa che essere una ricognizione, richieda un movimento, implichi una durata. Siamo dentro lo spazio, e invece davanti alla fotografia.  Queste restituzioni anamorfiche rappresentano un dato di grande fascinazione visiva che rischia forse di alterare alcuni aspetti identificativi del singolo edificio (fig. 21) ma  fa emergere con chiarezza esemplare  le   relazioni sintattiche tra i diversi elementi strutturali e architettonici, senza rinunciare a quella coerenza di dettaglio nella resa della materia e della sua risposta alla luce che nessun disegno potrà mai restituire con la stessa ambigua ricchezza. Qui l’immagine fotografica si approssima all’astrazione grafica, proiettiva, conservando però intatto il proprio carico di referenzialità. Ancor più complesse le questioni poste dalle riprese panoramiche realizzate con fotocamera rotante motorizzata per il formato 12.5x25cm dotata di obbiettivo Schneider Super-Angulon XL 47 mm: queste fotografie più che mai intrattabili, impossibili a cogliersi in un solo sguardo, mostrano più che sensibili differenze di esito e di efficacia a seconda dell’andamento dei volumi a cui si applicano. Le forme concave vengono restituite con effetto straniante, dovuto allo sviluppo imposto alla forma dell’invaso, mentre mostrano tutte le loro potenzialità quando l’apparecchio è collocato in corrispondenza di snodi significativi dell’organismo architettonico o di spazi solitamente percepibili solo sequenzialmente,  poiché eliminano ogni soluzione di continuità, com’è per il  bellissimo effetto di flusso generato dallo scalone guariniano di Palazzo Carignano[93].  Fotografia  come  reinvenzione dell’architettura.

Nella solida consuetudine con la lettura e la restituzione fotografica del patrimonio artistico e architettonico italiano i lavori che Pino dell’Aquila ha dedicato alle architetture barocche piemontesi non si propongono tanto di sondare i limiti della strumentazione fotografica quanto di sfruttarne appieno le potenzialità per la realizzazione di un progetto che è propriamente conoscitivo, che – per questa ragione – conserva un’aderenza forte, diremmo una fedeltà al soggetto fotografato che non viene mai meno neppure nell’uso delle ottiche grandangolari, sempre funzionali all’interpretazione architettonica, non alla verifica dell’apparato come invece accade in Jano.  In questa intenzionalità conoscitiva vanno compresi anche il ricorso all’uso del colore e la consuetudine di ritornare più volte, anche a breve distanza di tempo, a confrontarsi con lo stesso soggetto, di precisarne la restituzione fotografica adottando un diverso (e magari di poco) punto di vista, ricorrendo a ottiche di differenti caratteristiche e soprattutto con una consapevolezza critica inevitabilmente accresciuta, mediata ed esplicitata dalle precedenti riprese.

Non possiamo escludere che queste radicali differenze dipendano anche dalla formazione dei due autori: laureato in matematica il primo, e particolarmente attratto dai problemi di geometria proiettiva,  in architettura il secondo, orientato alla comprensione e alla restituzione critica del costruito, sebbene poi entrambi pongano in atto strategie e strumenti di ripresa destinati – seppure in modi diversi – a dilatare la restituzione (più  percettiva che fotografica) di questi volumi interni.  Dell’Aquila si confronta con le architetture piemontesi sei-settecentesche a partire almeno dalla metà degli anni Novanta del Novecento[94], ma in modo più sistematico ed esplicitamente interpretativo a partire dai primi anni 2000, ricorrendo nella restituzione dei sistemi voltati alle riprese zenitali (centrate o eccentriche quando le cupole sono multiple, come in San Lorenzo a Torino) che costituiscono ormai quasi un canone virtuosistico e sempre molto efficace.  A volte invece si consente di giocare d’effetto, come nella ripresa del salone di Stupinigi dove la coincidenza dell’asse di ripresa col grande lampadario settecentesco evoca quasi una visione caleidoscopica; nell’accentuazione delle suggestioni zoomorfe dei costoloni della volta di San Lorenzo, o ancora sottolineando gli elementi geometrizzanti, come accade per lo scalone di Palazzo Graneri (2001).  Come ha sottolineato Giovanni Romano, “per surrogare le reticenze di Bellotto abbiamo fatto ricorso a un altro sguardo d’eccezione, competente e sensibile, quello del fotografo Pino dell’Aquila, che va considerato, nella sua specialità professionale, un autentico critico della grande architettura torinese. Il confronto con le indagini di Dardanello rivela una leggera sfasatura di visione che rende ancor più stimolante la lettura del volume: lo storico descrive animatamente l’esperienza personale di chi si avventura negli spazi architettonici torinesi seguendo i percorsi di invito proposti dagli architetti, cadendo volutamente in tutte le trappole predisposte; il fotografo forza all’estremo il punto di vista, l’ampiezza del campo visivo, la profondità di penetrazione ed estrae dagli ambienti accortamente spiati quell’ultimo resto di follia, ancora non interamente bruciato, che risale alle origini scenografiche di tante invenzioni architettoniche. I due modi di far critica convergono sulla stessa verità, soprattutto quando si tratta di Juvarra, e non si poteva desiderare conferma migliore sull’esattezza dei giudizi” [95].   Proprio nella restituzione fotografica dello scalone juvarriano di Palazzo Madama la serie di riprese ipergrandangolari si sviluppa adottando punti di vista corrispondenti alle articolazioni spaziali (l’atrio, il pianerottolo intermedio), restituendo così in progressione la percezione dei volumi architettonici ai diversi livelli, dilatandoli in senso sia verticale che orizzontale.  Altre interessanti applicazioni di queste ottiche si riscontrano nelle fotografie di Palazzo Carignano (1999-2006) sia per quanto riguarda gli esterni, con una forte accentuazione delle sinuosità della facciata guariniana, sia nella restituzione di una rampa dello scalone in cui l’ampio angolo di campo consente di mostrare le relazioni spaziali con l’atrio senza eccedere in improprie deformazioni prospettiche e solo sacrificando in parte la resa corretta dell’inclinazione e della curvatura.

Con l’avvento del digitale il confronto con gli spazi barocchi muta procedure e strumenti, passando dall’utilizzo analogico di ottiche supergrandangolari e obiettivi decentrabili all’elaborazione digitale di sequenze spaziali di immagini (fig. 22), assemblate in post produzione (stitching) utilizzando algoritmi proiettivi che consentono di restituire in modo percettivamente unitario e ‘corretto’ spazi e volumi non riducibili ai limiti di una singola inquadratura.

 

22 – Pino dell’Aquila, Torino – Palazzo Madama: atrio e scalone visti da sud, 2010

 

Com’è evidente, si tratta di  fotomontaggi che nulla hanno a che vedere con la tradizione modernista né con alcuna poetica dello straniamento, ma tendono anzi a restituire uno spazio percettivo, escludendo ogni deformazione ottico geometrica come ogni contrasto espressionistico (o di vincolo tecnologico derivante dalla latitudine di posa delle emulsioni) nei rapporti luce/ ombra. Potendo realizzare più riprese, ciascuna perfettamente corrispondente alle condizioni della porzione fotografata, poi assemblate digitalmente,  nell’immagine finale tutto è perfettamente equilibrato in termini di restituzione prospettica e di luminosità, applicando un procedimento concettualmente analogo a quello adottato nel 1851 da Édouard Baldus per restituire convenientemente la galleria settentrionale del chiostro di Saint-Trophime ad Arles, quando ricorse al montaggio di una serie di dieci negativi di carta, ciascuno correttamente esposto per una specifica porzione del soggetto[96].

Immagini fatte di immagini; fotografie fatte di fotografie. Una manipolazione produttiva (e lo dimostra bene l’esempio di Baldus)   ben presente da sempre anche nelle pratiche fotografiche che siamo soliti collocare nella solida tradizione documentaria della rappresentazione ‘oggettiva’ della realtà. Penso non tanto e non solo agli accostamenti multipli necessari  per formare panorami e fotopiani,  ma alla consuetudine di integrare i cieli inevitabilmente spogli delle prime riprese ottocentesche facendo ricorso a una specifica collezione di negativi di nuvole  o alle silhouette sapientemente poste in secondo piano da un autore di riconosciuta maestria descrittiva come Vittorio Sella. Nessuna volontà di praticare l’artificio come illusione, né di perpetrare un falso però. La loro invenzione era realistica, non fantastica: destinata a rafforzare l’effetto di realtà. È quanto ritroviamo anche in questi assemblaggi digitali,  in queste fotografie ‘frattali’, ciascuna formata da un numero  teoricamente infinito di riprese[97], dove  il quadro generale risultante potrebbe continuare ad essere nutrito di immagini a scala sempre più grande, ciascuna a sua volta pensata e realizzata per fornire un massimo di informazione;  perfettamente congiunte in un insieme ‘realistico’ e massimamente virtuale che pretende modalità di osservazione e lettura diverse dal consueto; che consente e quasi impone un’esplorazione in profondità, oltre l’apparenza della superficie, mostrando tutta l’inattualità, l’inadeguatezza della loro restituzione statica su supporto cartaceo: pagina di libro o foglio stampato che sia. Sono immagini fatte per l’interattività dello schermo: un cannocchiale non più metaforico che può offrirci una “inaspettata immagine dell’obietto rappresentato” [98].

 

 

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Note

[1] «La photographie, en achevant le baroque a libéré les arts plastiques de leur obsession de la ressemblance », Bazin [1945] 1973, p. 6. L’adozione sin dal titolo del mio breve saggio del termine “barocco” non va ovviamente intesa quale scelta critica di campo in un dibattito che ha visto fronti fieramente contrapposti, e specie in Italia; semmai una connotazione convenzionale ed empirica, che consenta di riferirsi a una serie di architetture piemontesi realizzate tra XVII e XVIII secolo senza richiedere  troppi distinguo.

[2] “The spring-tight line between reality and photograph has been stretched relentlessly, but it has not been broken. These abstractions of nature have not left the world of appearances; for to do so is to break the camera’s strongest point : its authenticity. (…) The transformation of the original material to camera reality  was used purposefully; the printing was adjusted to influence the statement (…). For technical data,  the camera was faithfully used.”, White [1950] 2000, p. 17, traduzione di chi scrive.

[3] «la plus belle Eglise de Turin»,«d’une construction absolument singulière, on peut même dire extravagante», La Lande 1769, pp. 78-79, traduzione di chi scrive.

[4]«un grand edifice dont la façade, quoique de briques, à un aspect agréable et majestueux»,  Ivi, p. 141, traduzione e corsivo di chi scrive.

[5]  «corruption (…) de toute l’architecture raisonnable», Quatremère de Quincy 1832, ad vocem “Guarini”, pp.687-698 ; diversa la considerazione per “Ivara (Philippe)” [Juvarra] (ivi,  pp. 30-32) che considerava  “lontanissimo dalla bizzarria della scuola che l’avea preceduto” , traduzione di chi scrive.

[6] Gurlitt 1887 e Schmarsow 1897  non sono mai stati pubblicati in Italia e analoga sorte hanno avuto le  trascrizioni delle lezioni tenute da Riegel tra il 1898 e il 1902 (Burda, Dvořák 1908),  mentre la traduzione italiana della tesi di abilitazione di Wölfflin (1888)  comparve solo nel 1928, pubblicata a Firenze da Vallecchi. Su questi temi si vedano i diversi contributi raccolti in  Bacchi, Barroero 2017. A testimonianza delle alterne vicende della comprensione di queste architetture ricordiamo che ancora per Martin Shaw Briggs “Palazzo Carignano (…) sfortunatamente mostra la maggior parte dei capricci e dei punti deboli del periodo [e] l’interesse principale [della cappella della S. Sindone e della chiesa di San Lorenzo] risiede nello straordinario, complicato e assurdo modo in cui sono coperte a cupola.”, Briggs 1913, pp. 98-99, traduzione di chi scrive.

[7] La preziosissima lastra dagherrotipica, oggi purtroppo in condizioni di scarsissima leggibilità, è  conservata nell’Archivio fotografico della Fondazione Sella di Biella.

[8] Romani 1839.

[9] Le lastre originali e le relative stampe sono conservate a Biella presso l’Archivio fotografico della Fondazione Sella, Fondo Giuseppe Venanzio Sella, cfr. Cavanna 2019.

[10] Jacobson 2015.

[11] De la Garenne 1842.

[12] La diffusa mancanza di interesse per le architetture barocche è ben testimoniata anche da una stereoscopia di Giorgio Sommer del 1863-1867 che mostra scorciata e quasi illeggibile la facciata di Palazzo Madama (Cavanna, Lisino 2011, p. 22).

[13] Cfr. Miraglia 1990, rispettivamente alle tt.3, 59, 53, 60,61.

[14] Falzone del Barbarò, Borio 1989. Per ragioni sinora non note il biellese Vittorio Besso realizzò prima del 1881 una serie di fotografie del santuario di Vicoforte, presso Mondovì (cfr. Besso 1881, pp. 27-28), proprio negli stessi anni in cui il soggetto venne fotografato anche dal monregalese Giuseppe Viglietti, Album fotografico della città di Mondovì e del santuario di Vico, 1878, cfr. Avigdor, Cassio, Maggio Serra 1977, p. 44.

[15] Catalogo (…)  Brogi  1926, p. 74.

[16] Ricci  1912; libro di grande successo, pubblicato nello stesso anno a Londra da Heinemann, quindi riedito nel 1922 a Torino dalla Itala Ars, e ancora nel 1928 a Stoccarda da Julius Hoffmann.

[17] Un precoce esempio di lettura architettonica di un sistema voltato condotto mediante riprese zenitali si ritrova nella campagna documentaria condotta da Pietro Masoero sulla basilica di Sant’Andrea a Vercelli a partire dal 1890 circa, cfr. Cavanna  1986.

[18] La fototeca di Muñoz è confluita negli anni Cinquanta del Novecento in quella di Federico Zeri ed è ora conservata nella Fondazione omonima. http://www.fondazionezeri.unibo.it/it/pubblicazioni/call-for-papers/articoli-2012/il-fondo-fotografico-di-antonio-munoz [22-11-2019]. Si veda ora Calanna  2018.

[19] Costituisce un riferimento bibliografico imprescindibile per la ricostruzione dell’intrecciarsi di studi e occasioni espositive Di Macco, Dardanello 2019, che raccoglie gli atti della giornata di studi promossa nel 2016 dalla Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo di Torino.

[20] Toesca 1911, pp. 64 passim . La presentazione critica proseguiva analizzando “L’incubo deforme delle linee degli archi coi quali Guarini volle sostituire la cupola, e della luce violenta”  della chiesa di San Lorenzo, mentre la concezione della Cappella della Sindone, è considerata “povera e puerile nei concetti.” Radicalmente diversa la valutazione delle architetture juvarriane perché “ad osservare quelle linee ragionevoli [di Superga] ferme, sicure, si sente di essere in presenza di un poderoso intelletto d’artista, quanto diverso dalla mente sfibrata e convulsa del Guarini!”. La scelta di Vittorio Viale di destinare Palazzo Carignano a sede principale della Mostra del Barocco piemontese del 1937, avrebbe plasticamente segnato il superamento e si direbbe la presa di distanza dalle posizioni espresse da  Toesca.

[21] “A Torino ci sono cinque o sei chiese che non bisogna perdere, soprattutto quella con la cupola insolita.”, Stendhal [1817] 1987,  p. 56.

[22]  „Piemont, an der Schwelle Italiens liegend, auch jetzt zu den unbekannten Gegenden des kunstgeschichtlich bekanntesten Landes.“,  Brinckmann 1931, p. 7, traduzione di chi scrive.La situazione rimase sostanzialmente immutata nei decenni successivi, anche in conseguenza del contesto bellico, tanto che riferendosi ai viaggi condotti col marito nel secondo dopoguerra, Margot Wittkower  ricordava che “Piedmont (…) was an almost undiscovered territory. Nobody stopped in Turin, nobody went into the country around there, and it has the most marvellous houses, churches, cathedrals, whatnot”, rievocando poi un gustoso aneddoto a proposito della loro scoperta di una “delightful small church (…) by an architect nobody had ever heard of, by the name of Vittone” (Barnett 1994, p. 319), scordando per l’occasione l’antecedente degli studi di Olivero e Brinkmann. Si veda anche quanto ricordato da Joseph Connors  2003, p. XVI.

[23] “Tutti quanti da me fotografati, imperterrito sotto il sole rovente delle vostre estati”, citato in L. P. 1937.

[24] Bricarelli 1921, che richiamandosi ancora a Brinckmann ricordava come “A tale aristocrazia dell’ arte vengono annoverate la cappella della S. Sindone e la chiesa di S. Lorenzo in Torino, minutamente descritte entrambe e studiate dal Brinckmann; due pietre miliarie nel cammino percorso dall’architettura moderna, anzi quasi colonne d’Ercole, estremi confini oltre i quali vien meno il terreno dell’arte, incomincia quello della pura scienza costruttiva, della matematica.” I fascicoli postbellici del “Bollettino” costituiscono una fonte determinante per descrivere e comprendere il mutato atteggiamento critico nei confronti della produzione barocca.

[25] Due vedute generali di Palazzo Carignano e Palazzo Madama (Brinckmann 1919, p. 126); altri soggetti torinesi come l’interno di San Lorenzo o l’atrio del Palazzo Asinari di San Marzano erano invece firmati dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche di Bergamo. Queste riprese non sembrano far parte della serie oggi conservata nel fondo omonimo della Fototeca dei Musei Civici di Torino,  commissionata all’Istituto in preparazione del padiglione piemontese per l’Esposizione celebrativa del 1911 a Roma e in parte utilizzate in Toesca 1911; serie che non comprendeva alcun edificio barocco.

[26] Cfr. Reteuna 1998; Manzo 2000; Bergaglio 2011.

[27] Dall’Armi 1915, sei cartelle fotografiche, vendute in abbonamento a L. 10 cadauna,  contenenti ciascuna 12 stampe fotografiche alla gelatina bromuro d’argento nel formato 21×27 cm, dedicate rispettivamente al Palazzo Morozzo della Rocca (poi della Borsa, demolito in seguito ai danni subiti nel corso delle incursioni aeree del 1942 – 1943), Palazzo Madama, Palazzo Barolo (I, II), Palazzo Saluzzo Paesana e Palazzo Graneri.

[28] Si confronti la n. 484, relativa alle volte dell’atrio di Palazzo Madama con la sua omologa  conservata nel Fondo Dall’Armi dell’Archivio Storico della città di Torino (ASCTO – DAL R0310138).

[29] Cfr. Viale 1963, t. 103.

[30] Di poco antecedente era stato il suo studio dedicato alle ville piemontesi del Settecento (Chevalley  1912); considerando anche gli studi antecedenti di Camillo Boggio (1896) pare di poter dire che – almeno a Torino, già sede di alcuni interventi neobarocchi (Gianasso 2018) –  la rivalutazione critica del barocco avvenne in ambito storico architettonico ben prima che storico artistico.

[31] ASCTO R0310210-R0310521; quella  serie di riprese ebbe un discreto successo e venne in parte utilizzata ancora in  Brinckmann 1931.

[32] La stampa, conservata presso l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione – ICCD,  Fondo Ministero della Pubblica Istruzione – MPI, n. 310378, proveniente dall’Archivio fotografico dell’allora Regia Soprintendenza di Torino, venne pubblicata in Olivero 1920, p. 10.  Sui Ferazzino si veda Morgantini 2011.

[33] Pubblicate in Telluccini 1926 e in Brinckmann 1931 ma riutilizzate ancora nel 1963 anche per realizzare il cartoncino d’invito alla mostra.

[34] Cfr. Alinari 1913, n. 15733, Stupinigi – Salone centrale: l’interno.

[35] Si veda il testo della conferenza tenuta al Politecnico di Zurigo il 2 febbraio 1925, poi ampiamente ripresa in Croce 1929.

[36] Società Promotrice delle Belle Arti 1926. Nel 1922 si era tenuta a Firenze la prima grande Mostra della pittura italiana del  Sei e Settecento (Ojetti 1922).

[37] Telluccini 1926, p.3. Pochi anni più tardi lo studioso, insieme ad Arturo Midana e Lorenzo Rovere avrebbe curato la sezione piemontese della mostra veneziana Il Settecento italiano (Barbantini 1929).

[38] Touring Club Italiano 1930, t.1, corsivo di chi scrive.

[39] “Si cercherebbe invano nel libro del prof. Brinckmann una traccia storica che inquadri ed illumini il ricco materiale documentario”, scriveva Giulio Carlo Argan [1932], 1970, p. 315; come si è detto Brinckmann aveva già precedentemente visitato il Piemonte studiandone le architetture del XVII e XVIII secolo (Brinckmann 1919).

[40] „Der Aufschluss eines Teiles dieses Kulturgebietes für  die Kunstgeschichte ist ohne technisch-publizistische Arbeit nicht möglich. So stehen voran die eigenen Fotoaufnahmen der Bauwerke,  die ich auf fünf reisen mit Bahn und Auto allein und oft mühsam zusammenbrachte (…) Was dem Fotohandel entnommen werden konnte, ist verschwindend gering.  Denn ich wollte nicht abbilden, sondern ein Bauwerk klar machen. Außer eingehenden technischen Vorbereitungen gehört dazu eine besondere Sehart und Sehkraft. Ich habe den Mut gehabt, wohlüberlegte Schrag – und Verkürzung aufnahmen in größerer Zahl zu machen, denn sie entsprechen dem optischen Sehbild wie dem Darstellungswillen des Barockarchitekten. Mit dieser nach schöpferischen Arbeit hoffe ich, allgemein das kunsthistorische Sehen barocker Raum – und Körpervorstellungen  entwickelt zu haben. (…) Wie ich bei den Aufnahmen jegliche Art von Schönfärberei in der Art beliebter Landschaftsbücher vermied,  so habe  ich mich auch vor einem dithyrambischen Stil gehütet, der betrügerisch besticht. (…) Der Turiner Fotograf Pedrini hat oft anspruchsvolle Wünsche erfüllt.” Brinckmann 1931, pp. 7-8, traduzione di chi scrive.

[41] Si devono a Dall’Armi la ripresa della facciata di Palazzo Carignano, 1915 ca, t. 253,  qui tagliata di tutta la porzione destra e in parte ritoccata (cfr. FFTM, Fondo Brinckmann 253.4),  e la veduta scorciata della volta della chiesa di Santa Maria di Piazza, già pubblicata in Olivero 1920, p. 25 e qui reimpaginata in verticale escludendo le fasce laterali della lastra originaria, cfr. ASCTO, Fondo Dall’Armi DAL R0310521. L’apparato iconografico del volume richiederebbe un’analisi puntuale che non è possibile svolgere in questa occasione, ma va almeno segnalata l’assenza – apparentemente immotivata – di riprese dell’invaso della cupola della Sindone, forse non accessibile in quei mesi per le cerimonie connesse all’ostensione del “Sacro Lino” (3-24 maggio 1931), ma certamente presenti nei repertori di diversi fotografi quali Gabinio o Pedrini, per non dire di Alinari.

[42] L’assenza di indicazioni di responsabilità in calce alle immagini ne rende difficoltosa l’attribuzione in tutti quei casi in cui essa non sia precisamente assegnata al recto o al verso delle stampe originali conservate nel Fondo Brinckmann della FFTM. Anche il timbro a inchiostro “Professor/ A.E. Brinckmann” al verso della stampa n. 171 è qualificabile solo come timbro di collezione, essendo la ripresa riferibile a Pedrini, datata 1924, analogamente a quanto accade per la n. 171.2, che porta al verso il timbro a inchiostro “Foto: Bildarchiv Rh. Museum, Köln” e la scritta a matita “phot. Brinckmann/ Stupinigi/ 93252”.

[43] Cfr. FFTM – Fondo Brinckmann, 67.2. La qualità linguistica e l’efficacia descrittiva delle fotografie dello studioso tedesco venne confermata anche da Laszlo Moholy-Nagy  1947, p. 117, che pubblicando una sua fotografia del transetto della basilica dei Santi Alessandro e Teodoro a Ottobeuren, così commentava: “This is a composite view produced by assembled perspectives in depth and height. The photograph recreates the movement of the eyes as they wander from the benches upward to the ceiling.”

[44] Si vedano in Brinckmann 1931 rispettivamente le tavv. 67, 34 e 195.

[45] Ricordo che in  quegli stessi mesi Beccaria era impegnato a riprodurre il corpus di disegni juvarriani (Rovere, Viale, Brinckmann 1937). Purtroppo, come è noto, di quella mostra non si pubblicò il catalogo “che pur avevo già redatto” (Viale 1963, I, p.1). Sulla genesi e sul significato di quel progetto si veda ora Abram 2019, da cui si ricava che nel corso della campagna fotografica commissionata da Viale tra 1936 e 1937 vennero realizzate circa 1345 riprese. Gli esiti del programma di ricerca, catalogazione e digitalizzazione del fondo di lastre Beccaria sono stati presentati nel corso dell’incontro del 16 dicembre 2019 promosso dall’Accademia delle Scienze di Torino intitolato a  Il progetto lastre fotografiche. Torino 1937. Mostra del Barocco piemontese. Una storia che riemerge, curato dal Centro Conservazione Restauro La Venaria Reale e dalla Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo, con interventi di Sara Abram, Francesca Bocasso, Ambra d’Aleo e Federica Panero (La campagna fotografica della Mostra del Barocco 1937. Dietro le quinte di una “magnifica attrezzatura culturale”), che ha individuato in Paolo Beccaria l’autore delle riprese.

[46] Abram 2019, p. 25.

[47] Non si può escludere che la scelta del tema derivasse dai suoi giovanili contatti con Riccardo Brayda, che nel 1888 aveva pubblicato Porte piemontesi dal XV al XIX secolo, con immagini di  Alberto Charvet.  La collaborazione tra i due risaliva al precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.

L’argomento venne poi ripreso da Pedrini 1955.

[48] FFTM, Fondo Gabinio, nn. B43/45, B43/48.

[49] Ponti 1932, pp. 285-286, corsivi dell’autore.

[50] Cavanna, Costantini 1996, t.94.

[51] Boggeri 1929.

[52] Roccia, Vaccarino 1995.

[53] Brizio 1953, p. 25.

[54] Portoghesi 1956, con 64 fotografie realizzate dall’autore, una di  Riccardo Moncalvo (t. 19)  e una di Alinari (t. 21).

[55] Viale 1963. In quello stesso anno, che segna l’avvio definitivo degli studi locali sul barocco piemontese, venne pubblicato anche il volume di Mario Passanti, con fotografie di Riccardo Moncalvo, generalmente modeste, tranne alcune sorprendentemente arrischiate della scala ellittica di Palazzo Carignano e del particolare della volta della Sindone, molto scorciata e quasi espressionista: inservibile come documentazione, realizzate circa un ventennio prima per Passanti 1941. A queste si richiamerà Roberto Gabetti circa vent’anni più tardi, nelle vesti di fotografo, ancora tutte da studiare, lasciandosi attrarre dall’elemento fantastico e quasi immateriale della cupola, accogliendo tutte le suggestioni di una forte illuminazione filtrata dalle vetrate (cfr. Griseri  1967, t. 119); si veda anche infra p. 30.

[56] La mostra si collocava in un periodo di rinnovata fortuna critica del barocco in genere (Argan, Battisti, Mellon, Portoghesi, Zevi) e di quello piemontese in particolare, anche grazie ai volumi strenna pubblicati dall’Istituto Bancario San Paolo di Torino, curati da Marziano Bernardi, mentre  di poco successiva sarebbe stata la pubblicazione di Griseri 1967. 

[57] Dardanello 2019, p. 63. Divergenti furono invece le opinioni dei critici contemporanei sulla qualità e l’efficacia di questa sezione. Così se per Giovanni Testori (1963) essa era “infinitamente bella”, per Bruno Zevi (1963) “il pubblico posto di fronte a una monotona e interminabile serie di pannelli fotografici impara poco e si stanca presto poiché non si è fatto alcun tentativo per rendergli accessibile la comprensione degli impianti spaziali e degli organismi struttivi (…). Le considerazioni del Carboneri non trovano alcuna visualizzazione”, confermando così la sua sostanziale diffidenza nei confronti delle possibilità della fotografia; cfr. infra.

[58] Il confronto col catalogo della mostra (Viale 1963), consente  di riconoscere alcune riprese antecedenti, quali ad esempio quella relativa allo scalone meridionale di Palazzo Madama (t. 97), certamente anteriore al 1934 o quella dell’atrio del Palazzo Asinari di San Marzano (t.45, n.50), di cui si conosce copia conservata presso l’Archivio del TCI datata 1957. Altrettanto interessante il confronto tra alcune riprese originali e le versioni pubblicate in catalogo (e forse presenti in mostra) dopo essere state sottoposte a un esteso e raffinato ritocco, come nel caso del Salotto cinese di Stupinigi (t.14), da cui scompare la passatoia, e soprattutto della veduta di scorcio della facciata di Palazzo Carignano (t. 36b), da cui sono fatti scomparire i passanti e le rare auto parcheggiate.

[59] Dardanello 2019, p. 63.

[60] I crediti non riportano mai l’indicazione degli autori delle singole riprese, che dovranno però essere identificati tra quelli citati in un successivo volume della serie (Cavallari Murat 1969): Mario Carrieri, Arthur Frehmer, Schmölz-Huth (Karl Hugo Schmölz e Walde Huth), Arcade, Eugenio Salvi ovvero – per il bianco e nero – Paolo Beccaria, ancora Carrieri, Piero Chomon e Odette Perino, Pedrini, Ferruccio e Giustino Rampazzi, Mario Serra.

[61] Si vedano rispettivamente l’atlante fotografico compreso in Passanti 1990, pp. 195-228  e il corredo fotografico in Dardanello et al., 2006.

[62] Zevi [1948] 1970, pp.46-47. Analoghe perplessità vennero espresse in quello stesso periodo da Ernesto Nathan Rogers: “Fotografare l’architettura è quasi impossibile. Si possono trovare le ragioni profonde di questa difficoltà nell’essenza stessa del fenomeno architettonico che, pur realizzandosi nella precisa determinazione spaziale, non può essere inteso se non percorrendone gli eventi nella viva successione dei momenti temporali che continuamente ne mutano le relazioni con noi.” (Rogers 1955) Anche per Frank Lloyd Wright:  “Se si vuole cogliere il carattere essenziale di un edificio organico non si deve ricorrere alla macchina fotografica, perché esso è integralmente fatto di esperienza. (…) La profondità sfida il piatto occhio fotografico.”, Wright 1963, p.144. A ben  considerare  queste osservazioni critiche  appaiono piuttosto ingenue, quasi ancora fondate sulla pretesa originaria e ingenua dell’oggettività della rappresentazione fotografica, come se questa (oltre che essere convenzionale) potesse veramente coincidere con/ sovrapporsi a l’esperienza del soggetto. Analogo atteggiamento sembra di cogliere in uno studioso molto raffinato come Geoffrey Batchen quando scrive che “the photograph does not really prompt you to remember people the way you might otherwise remember them – the way they moved, the manner of their speech, the sound of their voice, that lift of the eyebrow when they made a joke, their smell, the rasp of their skin on yours, the emotions they stirred. (Can you ever really know someone from a photograph?)”, Batchen  2004 che riprendeva  e sviluppava temi già affrontati in Id., 1997) e ancora in Id. 2002, pp.56-80.

[63] Battisti 1960, pp.274-275, 279, n.2.  Sembrano rispondere positivamente a queste preoccupazioni le riprese in controluce realizzate da Giorgio Jano nel 1993 (Jano 2007, p. 173), che restituiscono visivamente l’impressione che “la struttura muraria [possa] dissolversi nell’effetto scenografico di un’aureola.”, Battisti 1960, p. 274.

[64] Si veda l’imbarazzante ripresa a luce artificiale dello scalone del Collegio dei Nobili realizzata dallo  Studio Rampazzi (Griseri 1967, t. 118) con un confuso sovrapporsi di ombre, quasi da incubo.  Ancora sotto la firma Rampazzi venne pubblicata (ivi, t. 213) la ripresa del salone della Palazzina di caccia di Stupinigi realizzata però da Augusto Pedrini nel 1924.

[65] Si deve certamente a Moncalvo la ripresa a tav. 122, realizzata per Passanti 1941, mentre sono verosimilmente opera dell’architetto le fotografie di altre opere guariniane utilizzate per Passanti 1963.

[66] Credo che  l’autore della ripresa della facciata della chiesa del Corpus Domini sia da identificare con l’architetto Emilio Giay, all’epoca assistente presso l’Istituto di Caratteri distributivi degli edifici della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, con Mario Federico Roggero Direttore e Gabetti professore incaricato.

[67] Touring Club Italiano, Milano, Archivio fotografico – TCIAF, A12334, A12337, A12338.

[68] Pubblicato in Telluccini 1928, p. 86.

[69]  Carlo Bossoli, Re Vittorio Emanuele II, Cavour, i ministri e la corte scendono lo scalone di Palazzo Madama dopo l’inaugurazione della V legislatura subalpina, 1853, tempera su carta, Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea; alle stesse collezioni appartiene anche il disegno di Migliara.

[70] Cfr.  Telluccini 1928, t. 51; Brinckmann 1931, t.271.

[71] Si veda la lastra conservata nella  FFTM, Storiche GAM 0008, ancora riutilizzata in Viale 1963, t.97.

[72] Bertelli 1984, p. 7.

[73] “It is impossible to see architecture in its full complexity at once. Architecture is made up of detail, fragments, fabrications. And the very idea behind it can be captured in a fragment, in a detail”,  Hejduck  1980, traduzione di chi scrive, corsivo dell’autore.

[74] Portoghesi 1956, con interessanti fotografie dell’autore. A ulteriore conferma della sfortuna critica di certi temi, segnaliamo quanto  l’autore ebbe a ricordare anni dopo: “quando, nel 1955, raccoglievo il materiale per il mio studio, avevo constatato la assoluta assenza di fotografie della cupola della S.S. Sindone da tutti i trattati dedicati alla Storia dell’Arte e dell’Architettura.”, Portoghesi 1970, p.9.

[75] Portoghesi 1966a, p. 32. Quel confronto tra visione oculare e ottica richiama il concetto di “inconscio ottico” formulato da Walter Benjamin nel 1931 e reso noto in Italia dall’edizione Einaudi del 1966.

[76] Portoghesi 1966 b, p.n.n.

[77] Da una lettera di Giorgio Stockel a chi scrive, datata 25 settembre 2006.  Anche Michel Tournier  1990, p. 9 riconosceva che “con l’architettura barocca, ecco che la curva invade l’edificio. (…) Ora, notiamolo bene: la linea curva è quella del corpo vivente, e in particolare del corpo umano.”

[78] “Le immagini fotografiche così impaginate restituiscono quasi una architettura in movimento, quasi fossero la sequenza di una serie di quei colpi d’occhio che tanta parte hanno nel nostro modo di vedere gli insiemi. A ciò si accompagnava una consapevole scelta del sistema di “stampa in rotocalco quale l’unica tecnologia che a quel tempo fosse in grado di fornire dei neri pieni capaci di restituire la ‘carnosità’ e la ‘sensualità’ delle soluzioni architettoniche.”, Portoghesi 1966 b, p.n.n.

[79] Portoghesi 1967, con immagini dell’autore e di  Eugenio Monti, Paolo Monti, Oscar Savio  e Giorgio Stockel che mi ha ricordato come l’altro progettato volume dedicato all’architetto ticinese, con Bruno Zevi, “mai vide la luce per i tipi di Einaudi per lo scontro insanabile e mai sanato tra Zevi e Portoghesi  consumato in un convegno avvenuto all’Accademia San Luca di Roma.”, vale a dire quello del 1967 dedicato proprio a Borromini.

[80] Norberg-Schulz  1971.   Tra gli autori del corredo fotografico non era citato l’amico Portoghesi, cui pure si doveva la bella ripresa dell’invaso di Sant’Ivo alla Sapienza, fotografato dall’alto con i tre lobi anteriori della pianta visivamente inscritti nell’oculo della lanterna (t.152), già pubblicata in Portoghesi 1967, p.89.

[81] Goodman 1988, pp. 71-72.

[82] Citato in Bertelli 1984, p.7.

[83] Citato in Celati 1989, p.n.n.

[84] Gombrich 1985, p.246.

[85] Tafuri 1978, pp.83- 85.

[86] Citato in Cavanna 2016, p. 56. Sfumato per ragioni economiche il progetto dedicato a Gian Lorenzo Bernini,  l’interesse per le opere della stagione barocca si era sostanziato in Monti prevalentemente nell’attenzione per alcune realizzazioni romane come la Fontana di Trevi e gli angeli di Ponte Sant’Angelo, nelle quali – secondo Antonio Arcari – si potevano riconoscere “le stesse motivazioni che si arricchiscono e si sostanziano con la sua attenzione per la vitalità della materia (…) e con le sue tendenze all’informale e all’astratto”, Arcari 1983.

[87] Prola, Jano, Peyrot 1988; Jano 2007.

[88] Mimmo Jodice, citato in G. Romano, Sguardi sul Piemonte: Lo sguardo dell’uomo ombra (Mimmo Jodice) in Romano 1999, pp. 17-18; dallo stesso testo sono tratte le due successive citazioni.

[89] Domenico Prola, 120 chiese del periodo barocco in Piemonte, in Prola et al. 1988, pp. 17-25 (17).

[90] Giorgio Jano, Nota sulla Fotografia, Ivi, pp. 37-38.

[91] André Corboz, Architetture zenitali, Ivi, pp. pp. 12-13, corsivo di chi scrive.

[92] Flusser 1987, p. 35.

[93] Jano 2007 p. 201.

[94] Griseri et al. 1995. Ancora in  Comoli, Palmucci 2000 realizzava un Percorso per immagini (pp. 146-167), molto ordinate e “classiche” (come ebbe a dire Griseri a proposito di Augusto  Pedrini), con molti dettagli e qualche zenitale per le cupole (Santa Chiara a Mondovì Piazza, p. 160; Santuario di Vicoforte, p. 163; Santa Croce e San Bernardino a Cavallermaggiore, p. 165), ma senza forzature ‘espressioniste’.

[95] Giovanni Romano, Presentazione, in Dardanello 2001, pp. 11-12 (12).

[96] Daniel 1994, pp.21-22, t. 1.

[97] Per una applicazione estensiva, rigorosa e altrettanto problematica di questa metodica di restituzione delle architetture si veda il pluridecennale lavoro di Markus Brunetti (2016), http://www.markus-brunetti.de/ (23 07 2020).

[98] Tesauro 1670, p. 166.