Scenderò nei vostri cuori a corda doppia: il racconto del cinema per immagini fisse (2004)
in Le “stelle” parlano al vostro cuore: la fotografia nel cinema delle montagne, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1 dicembre 2004 – 6 febbraio 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004, pp. 17-31
Non so cosa avesse in mente William Wadsworth Hodkinson nel 1914. Fu quando pensò ad una montagna coronata di stelle per il marchio della neonata casa di distribuzione della Paramount: un colpo da maestro per chiunque avesse dovuto promuovere un’impresa destinata a vendere sentimenti & sogni.
Il cinema non aveva ancora vent’anni e già si avviava a diventare industria, consumo di massa; già sentiva il bisogno vitale di legare a sé lo spettatore, l’agognato acquirente dei propri prodotti con lo strumento irresistibile della fascinazione, con l’astuta costruzione di icone, di immagini a forte carica simbolica.
Qui: la montagna, le stelle. Passi per queste ultime, per quell’intreccio di richiami che contengono, in cui la bandiera americana incontra lo splendore inarrivabile e freddo del firmamento siderale, profezia più che promessa del sistema hollywoodiano. Ma la montagna? Certo, l’aggettivo (paramount / supremo) conteneva il sostantivo e con questo il marchio, ma soprattutto questo ne era, a sua volta, la più efficace e sintetica raffigurazione, carica di secoli di tradizione iconografica, non ancora tragicamente interrotta, se mai lo fu – in quell’anno, e negli USA poi – dal sipario della Grande guerra. Come ci ha mostrato Hobsbawm, in quel 1914 si era solo alle soglie del “secolo breve”; i conti col XIX secolo erano tutt’altro che chiusi e l’immaginario collettivo poteva ancora facilmente comprendere e condividere tutto il carico simbolico e fantastico che si era accumulato intorno al tema della montagna almeno a partire dalla seconda metà del Settecento, portando poi uno spirito raffinato e sensibile come John Ruskin, ormai ben oltre la metà dell’800, a rievocare la sua prima visione dello spettacolo alpino come qualcosa “incredibilmente al di là di ogni sogno”, rinnovando lo stupore fiabesco e terribile che aveva toccato i primi esploratori come Pierre Martel, colui che per primo aveva utilizzato il toponimo di Monte Bianco, nel 1744, cui le sorgenti dell’Arveyron erano apparse fatte di “volte interamente di ghiaccio, di uno stile simile a quello delle grotte di cristallo inventate dalla favolistica come dimora delle Fate.” (Joutard, 1993: 87)
Non solo la montagna veduta però, con la sua geologia fantasmagorica sarà fonte di meraviglie e racconti. Anche la civiltà alpina, con le sue Storie e storie e poi il fiorente sviluppo dell’alpinismo (anche lui frutto maturo del XIX secolo) forniranno infinita materia per narrazioni tra evento e metafora, tra cronaca ed etica: come le fiabe.
Purezze di ambienti e di sentimenti; sacrifici necessari o liberamente scelti; ascensioni e ascesi: figure e percorsi comuni alle più antiche culture del mondo si offrivano, disponibili ad alimentare la fame insaziabile di storie della nascente industria; un intero universo in cui lo scenario alpino era immediatamente leggibile, e utilizzabile quindi come elemento connotativo della psicologia dei personaggi, sino ad assumere un vero e proprio ruolo drammaturgico: la montagna (forse ancor più di altri luoghi) non è mai stata semplice scenario, fondale indifferente.
Insieme al cinema e alla sua industria nasceva il materiale illustrato con funzione promozionale, specialmente manifesti dapprima, adottando forme di pubblicizzazione di altri spettacoli a basso costo come il music-hall, il teatro popolare e il circo. Nei primi anni di questa vicenda il soggetto del manifesto si riferiva piuttosto allo spettacolo in sé che non ai suoi contenuti, anzi era specialmente il pubblico con la sua vivace reazione alle prime proiezioni ad essere raffigurato (Bozza, 1995: 12), mentre la presentazione del soggetto, le suggestioni della trama erano piuttosto affidate alle fotografie di scena, distribuite sotto forma di cartoline o di vere e proprie stampe fotografiche, montate su eleganti supporti, destinate a svolgere in parte la funzione che poi sarebbe stata affidata alle fotobuste. Una collezione di scene cruciali offerta al potenziale spettatore, a ciascuno di noi; ai non proprio infiniti modelli di lettore per cui sono state pensate e prodotte, consapevolmente costruite per far leva sui meccanismi del nostro immaginario, per suggerire attrattive e senso di quel titolo, per indurci a varcare la soglia che separa la banalità del quotidiano dall’amniotico spazio sognante del cinematografo.
Attenzione però. Le foto di scena non sono il film, anzi potremmo quasi arrischiarci a dire che intrattengono con questo un rapporto analogo a quello che il ritratto ha con la persona: ne rileva alcuni aspetti, dice di ciascuno solo alcune cose. Queste fotografie sono il racconto di un racconto, forme diverse di narrare quella vicenda complessa che è costituita dalla trama del film, con quegli interpreti, sotto la direzione di quel regista, che si svolge in quei luoghi, e così via. Esse sono da sempre un racconto parallelo alla narrazione filmica, da cui le distingue non solo l’intenzionalità ma anche la logica espressiva; si pensi all’uso di inquadrature diverse, anche molto lontane dai vincoli propri della ripresa cinematografica quali ad esempio il ricorso al formato verticale. Sono immagini che presuppongono la “reinvenzione dell’inquadratura e della recitazione degli attori”, si veda qui La roccia incantata di Giulio Morelli (1950), necessariamente mutate nel passaggio dalla mobile durata del film all’immobile istantaneità della fotografia, così come dalla diversa fruizione cui sono destinate: come ha ricordato icasticamente Angelo Schwarz “Guardare un film e guardare una fotografia non sono la stessa cosa”. (Schwarz, 1995: 43).
È da questa necessità comunicativa, ancor più che dalle forti limitazioni tecniche che nascono l’impossibilità di utilizzare il semplice fotogramma estratto dalla ripresa filmata e la volontà di concepire un prodotto specifico; ed è ancora per questo che le foto di scena e di cast non sono e non possono essere un puro duplicato del fotogramma stesso, ma comportano e impongono un’ulteriore messa in scena, che è fotografica; un racconto per immagini fisse destinato a dialogare, in modi più o meno efficaci e felici, con le altre componenti grafiche della fotobusta o del manifesto: dalle figure al carattere ed al corpo dei testi. Per queste ragioni ciò che più ci ha interessato in questa occasione non è stato tanto il cosa viene narrato, che è poi quasi un’invariante: drammi, sentimenti, tragedie del cuore, avventure e prodezze, ma il come. Come viene orchestrata questa narrazione che è anticipo e promessa di un ben più complesso narrare, verificandone a titolo esemplificativo i meccanismi e i generi sulla copiosa collezione di materiali cinematografici promozionali (manifesti, locandine, fotobuste, fotografie di scena e di lavorazione, albi e pubblicazioni a stampa varie) del Museo nazionale della Montagna di Torino, che ha negli anni dedicato una particolare attenzione a questi temi anche mediante la produzione di mostre e cataloghi, per indagare “il cambio di approccio alla montagna, all’alpinismo, all’esplorazione.” (La cordata delle immagini, 1995: 59) Questi strumenti si sono rivelati indispensabili anche per la realizzazione del nostro progetto, che ad essi idealmente si riferisce adottando però il punto di vista parziale e settoriale della verifica delle modalità d’uso della fotografia in queste strategie di comunicazione, cioè di quella tipologia di immagini che più si approssima e quasi si confonde con quella cinematografica godendo però del credito di un maggior realismo, verificandone gli esiti nello specifico contesto del cinema di montagna. Abbiamo così provato a indagare i modi e i significati della reinvenzione dell’universo alpino, sovente ridotto alle sue componenti più connotate e paradigmatiche, per far emergere ricostruzioni che mostrano nell’artificiosità retorica del discorso non solo un’efficace funzionalità pubblicitaria, ma anche una più sottile e precisa capacità di rivelare le molteplici forme che le diverse idee di montagna hanno assunto nell’immaginario collettivo degli ultimi cento anni, offerte agli sguardi e alle attese degli spettatori immersi nel buio della sala.
Con l’affermarsi della montagna quale luogo accessibile, liberato da vincoli sacrali, e poi dell’alpinismo si definisce quella dicotomia ancora attuale che porta a distinguere la montagna immaginata, concepita e vissuta come scenario, da quella praticata: nella dura fatica quotidiana dei valligiani così come nella frequentazione sportiva e agonistica. È quella stessa distinzione che ritroviamo nella produzione cinematografica a soggetto, quando la scena e i personaggi che la animano si trasformano esplicitamente in spettacolo, luogo e ambiente di diverse trame possibili, contesto adeguato alla messa in scena di passioni forti, distillate. Una dura e maestosa scenografia in cui si muove un manipolo di attori: protagonisti, comprimari e comparse ma sempre eroi, del bene o del male, disposti di volta in volta a coprire ruoli drammatici, romantici o più raramente comici, dove argomento o ambientazione alpina contemplano funzioni diverse, coerenti ai differenti generi. A ciascuno di questi corrispondono modi specifici di comunicare, ulteriormente distinguibili per cronologia e nazionalità; tutti elementi concepiti per meglio far presa sull’immaginario di uno specifico pubblico, per soddisfare le sue attese, per quanto indotte.
Per questo insieme di ragioni la nostra scelta ha privilegiato il cinema in montagna, i lungometraggi a soggetto, piuttosto che il cinema di montagna, più tecnico e documentaristico, che in virtù di differenti mezzi e finalità di produzione e per essere esplicitamente destinato ad un pubblico specializzato e attento, competente e informato ci è parso utilizzare una minore varietà di strutture narrative e di strategie di comunicazione.
L’attenzione ai modi del comunicare ed alla loro efficacia è stata valutata in termini di esperienza piuttosto che di verifica di ipotesi critiche, badando alle forme di costruzione di senso ed ai sistemi di valori, anche affettivi, sentimentali su cui si fondano e rimandano, ciò che ci ha portati a considerare non tanto le singole produzioni né le diverse tipologie di autori coinvolti (dagli art director, ai fotografi di scena ai grafici, cui andrebbe dedicata una storia a sé) quanto piuttosto a istituire confronti diretti da cui far emergere la presenza di stereotipi, la messa in atto (non la messa a punto) di luoghi topici del racconto riferibili a precisi orizzonti culturali, proponendo una riflessione che parte dall’empirica immediatezza dell’evidenza visiva. Il nostro è stato un procedere per gradi, dotato di una sistematicità che si vuole solo strumentale, destinata a comprendere non a classificare. Poiché la necessità era quella di stabilire utilitaristicamente un percorso di lettura, in prima approssimazione abbiamo considerato le differenze tra i materiali che presentano un uso esclusivo della fotografia e quelli che la combinano con la grafica, senza tener conto delle diverse tipologie di prodotto, dai manifesti alle pubblicazioni promozionali, per porci alla continua ricerca di senso attraverso le permanenze e le innovazioni visuali legate ai temi ed ai diversi contenuti del racconto cinematografico, sin quasi a sfiorare il concetto stesso di “genere”, ma senza porci qui il problema della necessità critica della sua utilizzazione, in favore di una maggiore libertà, e arbitrarietà quindi degli accostamenti e dei confronti. Una questione di sguardi.
Tra fiaba e mitologia i primi materiali promozionali, come la bella serie di cartoline dedicate al Guillaume Tell di Lucien Nonguet (1904), mostrano scenografie alpine di puro artificio melodrammatico: villaggi, foreste e dirupi da teatro di posa, offerti in tutta la loro convenzionalità rappresentativa, in relazione strettissima coi fondali dipinti e le attrezzerie varie, le rocce in gesso e cartapesta che si utilizzavano negli studi fotografici ottocenteschi quali elementi connotativi per la realizzazione del ritratto, qui offerti come pura invenzione attingendo alle convenzioni di una precedente forma di rappresentazione, il teatro, e il teatro musicale in particolare, quasi a rivendicare una familiarità, una consuetudine, a suggerire una novità meno perturbante. Questo ordine di preoccupazioni sarà ben presto abbandonato e ribaltato anzi, tanto che le foto promozionali giocheranno sempre consapevolmente con tutti i codici della verosimiglianza per sottolineare la meraviglia del cinema, per costruire una finzione col massimo grado di realtà apparente, confermata proprio dal mezzo utilizzato per veicolare l’informazione, da quella fotografia che tutta la cultura del secolo XIX aveva considerato massimamente oggettiva. Le prodezze narrate, così mostrate, non potevano che essere vere, sebbene inverosimili, contribuendo a trasformare l’interprete protagonista in divo, qualcuno cui era concesso di agire e vivere al di sopra della mediocre quotidianità, disponibile alla mitica proiezione del sogno dello spettatore. Le prime fotobuste non per caso presentano – si veda quella di The Valley of Silent Men (Frank Borzage, 1922) – un trattamento grafico complessivo che richiama proprio le forme di presentazione delle più lussuose stampe fotografiche coeve, con l’immagine a pieno campo racchiusa da un’elegante cornice grafica che richiama le decorazioni degli esemplari reali, mentre le informazioni testuali, con l’esclusione di quelle relative alla casa di produzione, sono sovrapposte alla figura; non solo titolo e interprete, però: al tempo del muto la locandina riporta anche la didascalia della scena raffigurata, generando una relazione testo – immagine che la colloca in una concatenazione di formule illustrative che dal romanzo d’appendice giunge sino al fotoromanzo, mentre negli esempi successivi la distinzione tenderà a farsi più netta, con l’assumere d’importanza – per trattamento e contenuti – della cornice grafica. È questa a costituire una delle tipologie ricorrenti dei materiali promozionali, in particolare proprio delle fotobuste, cioè dell’insieme degli stampati pubblicitari esposti dagli esercenti in occasione della proiezione del film, di formato non superiore ai 50×70 cm, in cui accanto alle indicazioni testuali vengono riprodotte una o più fotografie di scena (Schwarz, 1995: 43). Al contrario di quanto accade con il manifesto (o la locandina, che ne deriva) che ha una funzione sintetica, determinata dalla necessità di “inventare una nuova struttura di figurazione dotata di logiche e interrelazioni proprie” (Bertetto, 1995: 25), in grado di emergere visivamente dal sovraccarico contesto urbano, fornendo una “rappresentazione concentrata-esemplare del film” di cui costituisce un “correlato visivo-formale [una sua] intensificazione emozionale e visiva” (idem) le fotobuste si pongono rispetto all’insieme della narrazione filmica come “una sorta di indice analitico” (Sturani, 1995: 50) e da queste differenti funzionalità deriva un’ulteriore autonomia e specificità delle due forme narrative, pur comprese all’interno di uno stesso progetto promozionale, in cui ogni elemento è strategicamente dotato di significato. Tale diversità si coglie in particolare nella diversa risoluzione dei problemi posti dalla rappresentazione del tempo, nei diversi modi utilizzati per restituire compiutamente la durata propria del racconto cinematografico, ciò che impone di far ricorso a più immagini, siano esse nettamente distinte tra loro come nelle fotobuste sia che la loro utilizzazione avvenga mediante diverse forme di assemblaggio, dal collage all’accostamento seriale. Lo svolgimento nel tempo si traduce sempre in articolazione nello spazio e dello spazio, aggiornando ulteriormente soluzioni iconografiche di tradizione millenaria. Quando invece è una sola immagine a prevalere ad essa è affidato il compito di suggerire le caratteristiche complessive del film avvalendosi quasi esclusivamente di elementi connotativi, non potendo quasi mai – nella cinematografia qui considerata – affidarsi alla presenza risolutiva dell’effigie del divo. Vediamo allora entrare in gioco, sapientemente utilizzati, una serie infinita di rimandi e richiami alle culture visive più diverse: dalle raffinatezze calligrafiche della tradizione pittorialista ai richiami, quasi citazioni, ai grandi modelli della fotografia del XIX secolo, non solo di montagna; dalle letture ironicamente familiari dell’universo di segni urbani alle soglie della Pop Art (si veda la perfetta foto di scena di Bus Stop, Joshua Logan,1956) sino alla più recente appropriazione di formule descrittive derivate dalla produzione televisiva nelle sue più diverse accezioni (Hot Dog, Peter Markle, 1984; Cinquième saison, Bahram Beizai, 1997).
Anche il ritratto, pur nella sua apparente povertà di elementi costitutivi, rivela un universo di riferimenti precisamente orientati: si veda il primissimo piano di Trenker/ Carrel in Der Kampf ums Matterhorn / La grande conquista (Mario Bonnard, Nunzio Malasomma, 1928) accostabile ai migliori esempi fotografici presentati nel 1929 a Film und Foto la grande esposizione di Stoccarda che sancì l’affermazione delle poetiche moderniste, ma anche quello di poco successivo di Leni Riefenstahl sulla copertina dell’ “Illustrierter Film-kurier” dedicato a Das blaue licht/ La bella maledetta (Leni Riefenstahl, 1932), cui sembra a sua volta rifarsi il disegno della copertina per Die Geierwally / Wally dell’avvoltoio (Hans Steinhoff,1940). Non è difficile procedere in questo modo sino alle produzioni più recenti e provare a rintracciare ulteriori modelli e riferimenti: dal ritratto in studio alla fotografia antropologica, dal riaffiorare di elementi neorealisti alla patinata vacuità da soap opera. Un elemento forte pare riproporsi nel tempo, costante: lo sguardo. Indispensabile per la connotazione del personaggio, ma anche palese rispecchiamento del gesto compiuto dallo spettatore. Anche le più consuete immagini domestiche, di produzione casalinga e privata possono però essere utili allo scopo quando sia necessario presentare drammi e vicende familiari (Seine Tochter ist der Peter, Heinz Helbig, 1936) o commedie sentimentali di vario tono e ambientazione (Everithing happens at night, Irving Cummings, 1939; Sans Lendemain/Tutto finisce all’alba, Max Ophüls, 1940) in cui il ritratto ambientato da album privato può coniugarsi coi modelli proposti dai settimanali per famiglie del secondo dopoguerra (è l’amor che mi rovina, Mario Soldati, 1951). Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, quasi all’infinito. Per questo è più opportuno limitarsi a rilevare indizi, ad avanzare ipotesi provando ad esempio a notare il senso di spaesamento che emerge dalle immagini tanto simili utilizzate per due film francesi così diversi quanto Le fugitif (Robert Bibal) e La Symphonie pastorale (Jean Delannoy) , ma entrambi del 1946; a confrontare il diverso trattamento di elementi analoghi (la coppia, la neve) utilizzati per definire l’erotismo nei manifesti di Downhill racer/ Gli spericolati (Michael Ritchie, 1969), con l’incombenza iperrealista dei volti in primissimo piano, e di Narayama Bushiko / La balada de Narayama (Shoei Imamura,1983, remake di un film di identico titolo del 1958) con l’efficacissimo contrasto ottenuto dal sovrapporsi privo di mediazioni dell’algido, etereo paesaggio innevato con la potenza tragica dell’abbraccio dei due corpi nudi nell’inserto in primo piano.
Quest’ultimo esempio appartiene ad una specifica tipologia d’immagini, che prevede l’uso di una sintassi per accostamento di elementi diversi, con soluzioni che spaziano dalla pura sovrapposizione ellittica, come in questo caso, alla costruzione di percorsi visivo narrativi ad andamento circolare sino alla costruzione di vere e proprie sequenze, adattando alle esigenze della comunicazione cinematografica schemi della più diversa provenienza, dalle pagine dei primi grandi periodici illustrati di inizio Novecento come il “Daily Mirror” o lo sportivo “La vie au Grand Air” (Lemagny, Rouillé, 1988: 76- 77) alle più mirate e radicali sperimentazioni delle avanguardie storiche: dai collage dadaisti di Raoul Hausmann a quelli surrealisti di Georges Hugnet (Krauss, Livingstone, Ades, 1985: 212 – 213) sino ai fotomurali ampiamente utilizzati negli allestimenti razionalisti degli anni Trenta. In questo periodo il fotomontaggio sembra essere una delle forme privilegiate di comunicazione del film sia nelle sue produzioni d’avanguardia (basti ricordare Walter Ruttmann) sia – e forse soprattutto – nelle diffusioni rivolte al grande pubblico come la copertina firmata Alexandre, del numero speciale di “VU” del Natale 1934, interamente dedicato al cinema (Frizot, 1994: 445) o le decine di “Film-Kurier” prodotti in area tedesca. Per verificare l’esito di questa diffusione osmotica tra avanguardie e produzioni di massa basti qui considerare la bellissima doppia pagina del fascicolo dedicato a Das blaue licht, 1932, con quella concitata giustapposizione di personaggi e azioni che ruotano intorno al testo centrale, avvinti gli uni agli altri da una catena di sguardi, controllatissima, che avrebbe fatto la gioia del John Baldessari di A Movie: Directional Piece Where People are Looking, 1972-1973 (Van Bruggen, 1990: 84), ma anche i due interessanti manifesti realizzati per l’inglese Climbing High (Carol Reed, 1938) e lo svedese Rötägg / Neiges Sanglantes (Arne Mattsson, 1946) che adottano un’accorta delimitazione delle scene ottenuta con sottili tracciati geometrici piuttosto che ricomponendo il contorno delle figure; ne deriva una migliore leggibilità complessiva, una sottolineatura delle scene salienti che orienta in maniera più chiara lo sguardo dello spettatore. Questo è certamente lo scopo che ha guidato art director e grafici nell’adozione di uno schema per scene più o meno nettamente separate sin dagli esempi più precoci quali The Gold Rush /La febbre dell’oro (Charlie Chaplin, 1925) per il quale va segnalato un fenomeno che poi sarà ricorrente: l’adozione di soluzioni narrative diverse a seconda delle edizioni: dalla fotobusta foto/grafica, con differenti proporzioni (foto prevalente per l’Italia; grafica prevalente per il Messico), al manifesto con più scene accostate ma non sovrapposte (Italia), cui però corrispondono locandine a immagini sovrapposte a formare una nuova scena altrimenti inesistente, insieme sintesi e nuovo racconto, con belle costruzioni interne. La separazione delle singole foto conduce poi quasi naturalmente ad adottare una forma di presentazione lineare delle stesse, palesemente derivata dalla successione di fotogrammi della pellicola cinematografica, pur senza ancora giungere a produrre una vera e propria sequenza. La perfetta definizione e leggibilità delle singole scene obbliga comunque l’occhio dell’osservatore a muoversi dall’una all’altra, come nello scorrere un testo, introducendo in maniera molto evidente il fattore temporale nella staticità del foglio stampato, come accade nella doppia pagina del fascicolo dedicato a Le fugitif (1946) in cui – volutamente – non risulta possibile identificare chiaramente l’inizio o la fine del racconto per lasciare a chi guarda la libertà della definizione dell’ordine e della stessa direzione di lettura di questa struttura circolare: occasione e stimolo ad esercitare la memoria o viceversa la propria capacità di immaginare storie a partire da semplici indizi, per investigare sulla trama del film che ci si appresta a vedere.
Molte sono in quegli anni le sperimentazioni visive in ambito anche fotogiornalistico, si pensi ai fotoracconti realizzati da Luigi Crocenzi per “Il Politecnico” di Elio Vittorini nel 1946-1947 (Zannier, 1986: 191) certo influenzati dal cinema, ma che a loro volta suggerirono modelli che è facile riconoscere in alcune fotobuste, come quelle de Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi. Il confronto tra grafica pubblicitaria e fotografia si fa esplicito per giungere sino alla citazione a chiave con 13 Jours en France di Claude Leluch e François Reichenbach (1968) nel cui manifesto spunta, tra una ben orchestrata serie di immagini disposte geometricamente a cornice del titolo, la fotografia di una mano che regge una striscia di provini ottenuti con una photomatic, l’apparecchio automatico per fototessera: il più comune esempio di sequenza fotografica. L’uso più pertinente di questa formula narrativa lo ritroviamo però nel bel manifesto dell’edizione giapponese di Des Hommes et des montagnes di Jean-Jacques Languepin e Gaston Rébuffat (1953), in cui la netta sequenza di scene acrobatiche sulla sinistra costituisce un commento a parte, un approfondimento quasi alla scena centrale così come accade nel manifesto del più recente Pau i el seu germà /Pau et son frère di March Recha (2001), in cui vengono utilizzati congiuntamente due modi propri del racconto fotografico quali la sequenza e il mosso, condotto questo sino ai limiti della riconoscibilità dell’immagine.
Negli esempi sin qui considerati il ruolo della grafica è limitato al lettering o confinato nello spazio più o meno angusto della cornice, ma naturalmente esistono altrettanti esempi di uso combinato con la fotografia e solo la nostra empiria ci ha costretti a separare nettamente le due categorie. È evidente sin d’ora però, e ancor più lo sarà proseguendo il nostro discorso che questa distinzione schematica ha puro valore strumentale. Ciò che ci interessa però non è tanto l’ovvia constatazione della compresenza dei due diversi linguaggi quanto, di nuovo, e ancora, comprenderne le funzioni, il senso. Non pare esserci di molto aiuto per questo la fotobusta messicana di State Secrets /Panico en las Montañas di Sidney Gilliat (1950) col bellissimo raddoppiamento retorico di una scena cruciale restituita col disegno e con la fotografia sul medesimo supporto, mentre più utili indicazioni ci vengono da produzioni antecedenti come Der ewige Traum /Rêve Eternel di Arnold Fanck (1934) o La montagna di cristallo di Edoardo Anton[elli] e Henry Cass (1948) con le fotografie dei due protagonisti sovrapposte a collage su di uno sfondo di cime stilizzate, ad accentuare qui le atmosfere sognanti o melodrammaticamente antirealistiche richiamate dai titoli, impostazione che ritroviamo sostanzialmente immutata anche per The White Tower / Det Hvide Taarn di Ted Tetzlaff (1950) con la comunione di sguardi dei due protagonisti, rivolti all’impresa degli scalatori disegnati in secondo piano. Qui la diversa natura delle figure pare voler significare il pensiero e il ricordo, il riandare con la memoria ad un episodio decisivo per i loro destini, mentre il volto femminile, assorto, tratteggiato nello spazio uniforme del cielo oltre le montagne di cartapesta de Im schatten des Berges /Les Risque Tout di Alois Johannes Lippl (1940) assume il significato evidente di una evocazione della protagonista femminile quale deus ex machina dell’intera vicenda. Al contrario, nessuno potrebbe immaginare mai – credo – il conflitto psicologico intorno al quale si sviluppa la vicenda narrata da Urzeczona/ Spellbound di Alfred Hitchcock (1945) a partire dagli indizi forniti dall’elegante manifesto polacco, con la sua grafica leggera, sottilmente ironica, quasi frivola, che richiama le sole componenti sentimentali della vicenda, trasformando il dramma onirico in commedia. L’utilizzo del montaggio a collage della fotografia su di un campo prevalentemente grafico è in effetti quasi una costante delle tecniche di comunicazione del cinema comico e leggero in genere, ma identico pare essere il meccanismo di funzionamento, identica la riduzione del realismo complessivo della scena raffigurata, che è la conseguenza più evidente e precipua di questa commistione di linguaggi, come mostra in modo paradigmatico il manifesto di 101 dalmatians / La carica dei 101: questa volta la magia è vera di Stephen Herek (1996), esito di un’operazione di merchandising che “serve – come ammette la stessa Crudelia De Mon – a vendere macchie”. (Morandini, 2001: ad vocem).
Tutti i materiali qui presi in considerazione sono riconducibili alle categorie qui sommariamente delineate, ma per procedere oltre è necessario affinare i criteri, entrare maggiormente nel dettaglio, vedere come queste diverse formule si trasformino compiutamente in retoriche adattandosi e trasformandosi in relazione ai generi e sottogeneri del cinema “con le montagne”.
L’alpinismo allora, come primo banco di prova. Lo spettacolo puro della montagna celebrato dal gesto inequivocabile della fotografia di scena (e della locandina grafica che ne deriva) di Im kampf mit dem berge di Fanck (1921); quello spettacolo che era nato con Rescued from an Eagle’s Nest di E.S. Porter, interpretato da David Griffith nel 1907, primo esempio di cinema di finzione a soggetto montano, prima produzione che istituiva anche scenograficamente quella logica di commistione tra riprese in esterni e ricostruzioni in studio che sarà una costante di gran parte di questa cinematografia, costituendo anche elemento discriminante nella identificazione del vero e proprio cinema di montagna. Anche per noi questa differenza può costituire un discrimine, ma non tanto per i suoi risvolti produttivi quanto, come di consueto, per il suo significato, per il diverso meccanismo di coinvolgimento dello spettatore. È per questo che il primo e più interessante degli aspetti emersi dall’osservazione di questi materiali è risultato essere quello dei gesti ricorrenti e – in quanto tali – emblematici, tali da identificare la pratica alpinistica e la figura stessa dell’alpinista nell’immaginario collettivo. Scopriamo così, inaspettatamente, che non è tanto la scena del raggiungimento della vetta ad essere destinata ad attrarre l’attenzione quanto la sequenza di azioni che conduce alla sua conquista; è l’azione per che affascina, che tocca l’immaginazione dello spettatore, che innesca il meccanismo di identificazione, e il desiderio.
Lo spettacolo della montagna è la montagna spettacolare certo: quella dei grandi panorami e dei silenzi, delle nevi eterne e quiete (o terribili), delle luci taglienti sui crinali, delle bufere, delle piccole silhouette stagliate su scenari immani. Ma questo non basta. Perché lo spettacolo sia completo occorrono il gesto e il dramma, il pericolo, la morte magari: come nell’arena dei gladiatori, e dei tori. Occorrono il sacrificio e la caduta, perché maggiore sia il valore della conquista, in piena coerenza con le radici religiose dell’etica occidentale. C’è sempre un prezzo da pagare, preferibilmente in anticipo. Ecco allora immagini acrobatiche di arrampicate in solitaria, superamento di tetti e salti di crepacci. Lo sforzo si fa terribile, mentre scemano le forze; l’eroe è allo stremo nel momento in cui più gli sarebbe necessario disporre di tutte le proprie energie per sconfiggere l’antagonista (persona o destino che sia). Sempre sul ciglio del burrone. Infine la vittoria sarà raggiunta, e la veloce discesa in corda doppia radicherà per sempre nei nostri cuori il ricordo delle emozioni di questa vicenda. Quando, nel 1928, François Mazeline pubblica sotto forma di romanzo illustrato l’adattamento della sceneggiatura di Der Kampf ums Matterhorn di Fanck col titolo Le drame du Mont-Cervin, “le fotografie del film” che corredano il testo esauriscono già tutto questo repertorio di scene e costituiscono il prototipo di tutte le produzioni successive, anche quelle meno sensazionalistiche e quasi eticamente “neorealiste”, come Les étoiles de midi (1959) a proposito del quale il regista Marcel Ichac parlava – anche polemicamente – di “accent de vérité si precieux (…) Au lieu de trasposer en montagne une quelconque histoire de rivalité amoureuse ou d’espionnage, pourquoi ne pas raconter des aventure vécues par des alpinistes ? (…) Les tendances actuelles du cinéma sont favorables à ces tentatives. » (Ichac, 1959)
A maggior ragione questi episodi ricorrono nei film girati prevalentemente in studio, nel regno delle montagne d’invenzione con facili location esterne, come nel “picturesque mountain village of Cortina” (Cliffhanger, 1993), della finzione condivisa, della messa in scena inverosimile, fatta di rocce finte e di scaltre riprese dal basso, ad escludere imbarazzanti orizzonti, a rendere monumentale la figura e l’azione, con una montagna resa teatrale e un poco patetica, quando non ridicola, anche nell’era attuale degli effetti speciali massicciamente utilizzati “to simulate reality without the audience noticing the difference” (idem). Se pensiamo a ciò che accadeva alle origini quando – come ricordava Samivel – dopo la visione di Traversata del Grépon di André Sauvage (1925 ca) “i direttori delle sale avevano ricevuto lettere di protesta da certi spettatori che, del tutto sconcertati dall’asperità dei paesaggi di alta montagna in genere (…) accusarono André Sauvage per aver girato su “rocce di cartapesta.” (citato in Le montagne del cinema, 1990: 108), scopriamo che ora il pubblico è disposto a credere; a farsi illudere dall’inverosimiglianza, ad esserne ammaliato anzi, abbandonandosi volutamente (e voluttuosamente) alle seduzioni della finzione sino a figurarsi almeno per un poco nei panni del protagonista, non a caso posto sempre in bella evidenza in manifesti e fotobuste, e non solo per il puro richiamo divistico. Come spiegare altrimenti l’imbarazzante spettacolo offerto dal buon Spencer Tracy (The Mountain, Edward Dmytryk, 1956) o dall’erculeo Stallone (Cliffhanger, Renny Harlin, 1993) in quei manifesti e locandine inutilmente verticali a sottolineare – oltre all’autonomia dall’inquadratura cinematografica di riferimento – le sovrumane difficoltà dell’impresa, quelle stesse che tanto spassosamente avevano attratto Enrico Sturani? (1995: 48b – 50) Nel cinema di finzione infine non è la verosimiglianza che conta, per definizione; la scelta dichiarata dell’artificio costituisce anzi un elemento essenziale al mantenimento del meccanismo di identificazione e al suo rinnovamento: è la percezione della rassicurante convenzionalità del falso (per quanto iperrealistico) che consente di condividere idealmente le peripezie della vicenda così com’è il riconoscimento dell’incommensurabile diversità e distanza dall’audacia e dal tecnicismo dell’alpinista vero che impedisce ai più di partecipare emotivamente al racconto, interponendo il filtro freddo dell’ammirazione.
I mezzi adottati per coinvolgere lo spettatore (la spettatrice? Non sappiamo) giungono sino alla diretta chiamata in causa: “Hang on / Accrochez Vous” intimava sempre Cliffhanger, ma già l’anno prima aggrappati con le unghie a “20.000 feet / 8000 metri” correvamo il rischio di morire “in 8 secondi” per un’improvvida scarica di adrenalina, determinata infine dalla semplice visione di K2 The Ultimate High / K2 L’ultima sfida (Franc Roddam, 1992) o anche solo del suo fantastico manifesto dove è raffigurata “una vertiginosa parete (inesistente, si capisce, sul K2): parallelamente vi pende una corda, un uomo è aggrappato a quella corda. C’è tutto il brivido e la drammaticità dell’azione alpinistica” (Cassarà, 1995: 29), forse. La situazione più emblematica rimane però quella che si svolge sul ciglio del burrone, sulla soglia dell’abisso: dal salvataggio al limite alla tragica caduta e all’eventuale riemergere, inatteso, in una gamma infinita di soluzioni narrative che muove dal tragico al comico. Già uno dei primi manifesti, uno dei più antichi verrebbe da dire nonostante il breve arco di tempo che ci separa da quel 1908, raffigura quel dramma: ne L’enfant de la montagne è mostrato il momento topico dell’uomo che precipita nell’abisso, il fulminante attimo della sua caduta: infotografabile (La cordata delle immagini, 1995: 8). Essere sul ciglio del burrone comporta l’affacciarsi o lo scomparire dalla scena; esso è la soglia, lo spazio limite, il punto di catastrofe dell’azione, la sua massima tensione statica con forti implicazioni psichiche: dalla sua soluzione dipende l’esito del racconto. Nei casi più drammatici questa condizione rappresenta la visualizzazione retorica della suspense, è – non solo nominalmente – la sospensione degli eventi incarnata nella sospensione del corpo (dell’attore, di colui che agisce: dell’agente); raffigura l’attimo che precede il precipitare (letterale) dei corpi e – con loro – degli eventi. Dopo tutto è dato.
Nel “Film-Kurier” di Die weisse Hölle von Piz-Palü /La tragedia di Pizzo Palù di Fanck e G.W. Pabst (1929) la figura sul ciglio del burrone è una donna, ma nel disegno del manifesto francese per la riedizione sonorizzata del 1938 (L’enfer blanc) il personaggio è maschile, raffigurato al culmine del dramma. Di nuovo: la corda appena spezzata, il volto deformato dal terrore. Nulla di più distante dal metafisico stupore di Stan Laurel (Swiss Miss/ Les montagnards sont là, John G. Blystone, 1938) qui comicamente preoccupato, non preoccupante, che ritroviamo identico anche nel manifesto grafico dell’edizione francese, disegnato da Grinsson (La cordata delle immagini, 1995: 107). Tra tragedia e comicità l’elemento che accomuna le scene – ancor più della figura appesa, a volte non visibile – è la tensione della corda, palese visualizzazione della condizione psichica dei protagonisti e (si spera) degli spettatori.
Le immagini promozionali del cinema dedicato allo sci volentieri abbandonano le formule più esplicitamente narrative per misurarsi con le astrazioni e sperimentazioni formali delle avanguardie, trasformando le campiture di neve delle piste in spazi da comporre coreo-graficamente, da attraversare con silhouette sempre meno riconoscibili: più veloci. È quanto realizza magistralmente Arnold Fanck nel libro fotografico dedicato a Der weisse rausch /L’ebbrezza bianca, 1931, pubblicato in sei fascicoli settimanali venduti a prezzi popolari. Sulle pagine del volume vengono riproposti, con un montaggio efficacissimo e denso circa 2000 fotogrammi ricavati dalle riprese di Richard Angst, montati in sequenze di grande efficacia dinamica cui vengono assegnati titoli quali “Ski- Impressionismus” o “Ski-Expressionismus”, in contrapposizione non sempre chiara ma con l’evidente intento di legittimare artisticamente il proprio operato. Già il manifesto di un precedente film (1922) di Fanck, Das Wunder des Schneeschuh’s (La cordata delle immagini, 1995: 64) utilizzava graficamente il mosso per significare la velocità della discesa, con derivazioni evidenti dalle cronofotografie di Jules- Etienne Marey, magari mediate dalle fotodinamiche dei fratelli Bragaglia, piuttosto che dalla grafica e pittura futurista, ma in questi fascicoli la ricerca dell’astrazione pura è portata all’estremo limite della scomparsa della figura stessa dello sciatore: restano solo le nuvole di neve sollevate dallo sci “wenn der Schnee stäubt” (“quando la neve è polverosa”); le tracce e le forme che modulano il bianco, analogamente a quanto accadeva in molte opere della coeva fotografia modernista.
Una particolare attenzione per la qualità compositiva dell’immagine sembra accomunare i film dedicati allo sci ed i loro materiali promozionali anche nei decenni successivi: basti confrontare qui le diverse formule di resa del mosso adottate per i manifesti di Czarna Blyskawica/ Der schwarze Blitz (Hans Grimm, 1958) o di Downhill racer/ Gli spericolati (Michael Ritchie, 1969) come anche di Snow Job/ The Ski Raiders (George Englund, 1972) che riprende la formula di Fanck, oppure considerare con attenzione i materiali promozionali di Le grand élan / Avventure al Grand Hotel (Christian- Jaque, 1940) commedia di poche pretese sugli sport invernali le cui foto di scena anticipano però di più di un decennio le celebrate acrobazie fotogeniche di Leo Gasperl (Presenze, 1997: 132 – 139). La commedia sciistica, la ‘scicommedia’ è però soprattutto occasione di leggere trame sentimentali, di vicende (piccolo)borghesi destinate a far sognare, da cui deve essere necessariamente bandita ogni distrazione acrobatica, ogni modello estraneo e mediamente irraggiungibile, così le immagini utilizzate per manifesti e fotobuste tornano a pescare i propri modelli nella produzione familiare delle fotoricordo o delle riprese da rotocalco rosa, parenti prossime del fotoromanzo. Si veda la fotobusta di un altro film di Christian-Jaque, Adorables creatures / Quando le donne amano, del 1952 o il più casereccio Siamo tutti inquilini (Mario Mattoli, 1953) in anni, almeno per l’Italia, di incipiente boom economico, quando le vacanze sulla neve si apprestano a divenire pratica di massa. Perché ciò accada è necessario anche suggerire modelli efficaci: location alla moda (il Sestriere, su tutte, Gstaad, Davos o Aspen non erano così riconoscibili e note), automobili, pellicce e locali notturni, vicende sentimental amorose oscillanti tra l’adolescenziale di Emmer e le piccole perdizioni da night club evocate da Maurizio, Peppino e le indossatrici, firmato nel 1961 da Stanley Lewis (Filippo Walter Ratti) a poca distanza dallo spogliarello scandaloso di Aiké Nanà al “Rugantino” di Roma nel 1958 (nella sequenza memorabile di Tazio Secchiaroli) e di tutto quanto fu poi identificato come Dolce vita (1960), suggestioni cui non rinuncia – seppur pudicamente – neppure il manifesto di Europa dall’alto (1959) di un altrimenti misurato Severino Casara (La cordata delle immagini, 1995: 205). Solo coi primi anni ’60 compaiono le gite in torpedone, sempre per merito dell’ineffabile Ratti. Sono le prime Vacanze sulla neve: i fratelli Vanzina non sono lontani.
Il cinema in montagna si è misurato però sin quasi dalle origini, anche con il tema drammatico della guerra, e proprio ad un personaggio fantastico del primo conflitto mondiale venne dedicato – nel pieno svolgersi della Grande guerra – Maciste alpino (Luigi Maggi, Luigi Romano Borgnetto, 1916) , facendo emergere a furor di popolo dalla selva di personaggi che popolavano la scena di Cabiria (1914) la figura del protagonista, per dar corpo con le sue “italiche gesta” al patriottismo necessario a sostenere una fase cruciale del conflitto, per risolvere individualmente l’incombente tragedia, con involontaria prefigurazione del superomismo casereccio della più tarda iconografia mussoliniana, ben riconoscibile in alcune delle fotografie promozionali, benissimo presentate, giocate tutte sull’alternanza tra protagonismo e scene corali. Tra queste emerge per spettacolarità quella bellissima del trasporto di armi e vettovagliamenti in montagna, ripreso anche nella serie promozionale di cartoline da xilografie, che questo film condivide con le coeve realizzazioni di Luca Comerio, in particolare Adamello, guerra d’Italia a 3000 metri e che ritroveremo, quasi una citazione, nella locandina tedesca di A Farewell to Arms/ In einem andern land (Charles Vidor, John Huston, 1957), a testimonianza del valore paradigmatico di una produzione segnata dalle eccezionali “doti di Segundo de Chomon, mago dei trucchi cinematografici [che] richiamano le coeve poesie di Ungaretti” (Brunetta, 1999: 265) e che fanno di Maciste alpino “il film più moderno rispetto alla produzione italiana del periodo.” (idem)
Ad un diverso modello, costituito semmai dai primi fotoricordi di guerra, consentiti dalla diffusione degli apparecchi portatili a pellicola o a piccole lastre, si rifanno invece le immagini utilizzate per la promozione de Le scarpe al sole (Marco Elter, 1935) o di alcune fotobuste italiane di A Farewell to Arms/ Addio alle armi (1957) caratterizzate tutte da una voluta, bassa spettacolarità e da inquadrature sapientemente casuali, sebbene in quest’ultimo esempio la distanza incommensurabile dai modelli di inizio Novecento sia data dall’inevitabile uso del colore. La connotazione documentaria, ora neorealista, segna anche i materiali promozionali di due film italiani come La mano sul fucile (Luigi Turolla, 1962) – con la significativa presenza dell’immagine del soldato morto in primo piano, ad illustrare didascalicamente l’assunto etico del film (“Il nemico a trecento metri è un bersaglio a cinque metri è un uomo”) – e Una sporca guerra (Dino Tavella, 1964), con quel bordo frastagliato della foto: strappata, spezzata come la carriera del protagonista.
Nulla di più lontano dagli spettacolari schemi narrativi hollywoodiani adottati da una produzione come The Heroes of Telemark /Gli eroi di Telemark (Anthony Mann, 1965). Nelle immagini realizzate a collage per le fotobuste i due protagonisti sono posti in primissimo piano, senza che prospettiva e valori di illuminazione gli consentano di condividere lo stesso spazio, lo stesso luogo in cui – alle loro spalle – si svolgono vicende diverse, raccordate senza soluzioni di continuità: un’organizzazione spazio temporale che genera – anche qui – una nuova, inedita scena di sintesi.
L’universo della montagna non si può esaurire però, non si è mai esaurito nelle sole pratiche alpinistiche o nelle divagazioni sciistiche né – fortunatamente – è stato ridotto a puro scenario delle tragedie belliche. La montagna è stata ed è ancora la gente che la abita, che vive la contemporaneità senza dimenticare di compiere gesti antichi, ancora necessari, pur tra mille contraddizioni irriducibili all’oleografia dell’immagine folklorica, pittoresca che pure per molto tempo si è data di loro. Anche la raffigurazione della vita in montagna che ci è stata offerta dal cinema e dalle sue rappresentazioni ha toccato tutta la gamma di declinazioni possibili, con le più diverse accezioni e connotazioni simboliche, con riferimenti a diversi e contrastanti sistemi di valori: dalla celebrazione epica a quella dell’identità culturale della piccola patria, con pericolose derive nazionalistiche o -peggio – regionalistiche, sino alle prevedibili variazioni pecoreccie del pornosoft, sino alla più recente rilettura dei valori più alti di un mondo arcaico e quasi in via di estinzione, riscoperti in polemica contrapposizione alle presunte degenerazioni della condizione urbana.
I primi esempi considerati, due tra le numerosissime rivisitazioni della vicenda fondante di Guglielmo Tell (1904, Lucien Nonguet; 1934, Heinz Paul) trattano non a caso il tema delle radici storiche dell’identità e – pur senza troppo forzare l’ipotesi – non possiamo fare a meno di notare come le cartoline promozionali del primo illustrassero scene di impianto prevalentemente corale, senza per nulla celare il décor palesemente teatrale, che inseriva queste immagini nella tradizione dei tableau vivant (Pelizzari, 2004: 161) ma assimilandole formalmente a certa fotografia pittorialista coeva piuttosto che alla spettacolare verosimiglianza dei set cinematografici. Così come accadeva nella serie di titoli dedicati a Tell, l’obiettivo che si ponevano i Volkische Film nati nell’Austria del primo conflitto mondiale, i film di Luis Trenker degli anni Trenta come Der Rebell (1932) e Der Feuerteufel (1939) e – nel secondo dopoguerra – l’enorme produzione di Heimatfilm, e ancora oltre sino alla ripresa dei romanzi di Ludwig Ganghofer lungo tutti gli anni Settanta, è da sempre quello di celebrare le caratteristiche storico identitarie del “luogo dove si è nati, dove si hanno le proprie radici, per cui si è attaccati al suolo, agli antenati, alle tradizioni. La confluenza commedia – melodramma costituisce la norma. Le riprese fatte nella regione (…) generano un pittoresco destinato innanzitutto al mercato nazionale, adempiono infatti a una funzione ideologica, fatta di nostalgia rurale e di passatismo.” (De la Bretèque, 1999: 519) Da qui la pletora di chalet e stelle alpine, di costumi tradizionali, di cime (di monti, di pini) svettanti su cieli tersi; apoteosi tirolesi di reinvenzione alpestre segnalate immancabilmente dall’uso smodato di caratteri tipografici neogoticheggianti.
Anche quando le vicende si fanno più personali e sentimentali permane però l’elemento caratteristico della montagna poiché “i paesaggi che compaiono sullo schermo cinematografico descrivono anche i paesaggi interiori dei protagonisti” (Bliersbach, 2000: 132) e le vicende narrate continuano a mettere “in scena l’esperienza condivisa di perdite e privazioni (…) la disillusione dai grandiosi sogni di gloria.” (idem). Lo scenario in cui si muovono i personaggi raffigurati nei materiali promozionali di Wetterleuchten um Maria (Trenker, 1957), drammone a tinte fosche in cui la Maria del titolo pare gradire oltre misura le amorose attenzioni del giovane guardiacaccia, che però le uccise il padre (!) è ancora quella delle cartoline di soggetto alpestre di inizio Novecento, solo parzialmente aggiornato da una regia visiva influenzata dalla parallela produzione di fotoromanzi, in una trama fitta di rimandi che rielabora ancora una volta la tradizione illustrativa del feuilleton, anche quando si traduce in scena farsesca (Almenrausch und Edelweiss, Harald Reinl, 1957). Sebbene non siano escluse improvvide comparse di figli naturali, come nella trama del film appena citato, la drammaturgia heimat sembra aver pudicamente nascosto per lungo tempo le dinamiche del desiderio sessuale, ben presente invece sotto forma di tenero affetto, poco più che malizioso, già nell’italiano I trecento della 7° , Mario Saffico, 1943 (“…oltre l’amore…”), e ormai palese nella fotobusta di Penne nere (Oreste Biancoli, 1952) che con la sua rappresentazione icastica della valligiana “donna con gerla” (tema ricorrente in tanta pittura e poi fotografia di genere sin dalla seconda metà dell’800), costruisce un oggetto del desiderio su misura per lo sguardo urbano. È già la sessualità palese di Riso amaro (1949) e del cinema delle “maggiorate”, cerniera e annuncio delle più esplicite trasformazioni dei decenni successivi, quando le produzioni tedesche riproporranno l’ambientazione alpestre in versione pornografica più o meno soft: Geh, Zieh Dein Dirndl Aus / Sole, sesso e pastorizia (Siggi Goetz, 1973), efficacemente titolato negli USA Love Bavarian Style, risulta – come tutti i titoli di questo filone – particolarmente efficace proprio in virtù del confronto / contrasto, della deviazione da una tradizione narrativa da sempre intessuta di sentimenti epici, di sacrifici, di eroismi e passioni di ben altro tenore, cui si richiama invece il bel manifesto di Ljubezen na odoru (Vojko Duletic, 1973) con l’intimità forte della scena di sesso in esterni, appena toccata dalle essenziali informazioni testuali. È una trasformazione di lettura, e di senso, una mutazione del percorso di avvicinamento e di racconto, un senso di rispetto che possiamo rintracciare anche in un ultimo gruppo di film dedicati alla celebrazione e poi alla riscoperta – non sempre priva di semplificazioni ed equivoci – dei valori etici fondanti della civiltà alpina, priva però di connotazioni passatiste: pensiamo al significato delle immagini bucoliche di Der verlorene Sohn / Il ritorno del figlio prodigo (Trenker, 1934) contrapposte alle deludenti visioni dei grattacieli newyorkesi, o alla retorica iperbolizzazione della purezza dell’universo montano prodotta con l’accoppiata (tutto meno che virtuosa o innocente) bambino/ agnellino (con possibile variante caprettino), che ritroviamo in molti manifesti del secondo dopoguerra come Barnen Från Frostmofjället / Les Orphelines de la Montagne (Rolf Husberg, 1945), Alpenglühn im Wetterstein (Max Michel) e Bonjour Jeunesse (Maurice Cam), entrambi del 1956, sino a Le rossignol des montagnes, 1961, di Antonio del Amo (La cordata delle immagini, 1995: 212).
Nelle produzioni più recenti l’intenzione si fa diversa ed anche le caratteristiche proprie delle immagini promozionali mostrano una palese inversione di rotta: a partire da un “film carico di simbolismi, capace di trasmettere nello spettatore un acuto disagio” (Le montagne del cinema, 1990: 189) come Si le soleil ne revenait pas (Claude Goretta, 1987) il racconto della dura vita in montagna cambia di senso e dalla rappresentazione stereotipata si passa alla misurata nostalgia critica per un mondo perduto, di cui si celebrano gli ultimi testimoni, come ne La dernière saison (Pierre Beccu, 1991), o – con progressivo slittamento di senso verso la riflessione filosofica – la significativa continuità delle presenze (Hirtenreise ins Dritte Jahrtausend /Transumanza verso il terzo millennio, Erich Langjahr 2003). Ciò che accomuna queste forme di testimonianza rielaborata narrativamente è il ricorso coerente ad uno stile documentario, dove il realismo ricercato della fotografia si vela, lievemente, di oleografia.
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