Lo spettacolo della verosimiglianza (2004)
in Infinitamente al di là di ogni sogno: alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1 ottobre – 14 novembre 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004, pp. 8-23
“There was no tought in any of us for a moment of their beeing clouds.
They were as clear as crystal, sharp on the pure horizon sky ( … ).
Infinitely beyond all that we had ever thought or dreamed ¬–
the seen walls of Eden could not have been more beautiful to us“.
John Ruskin, 1885
Quando Ruskin descrive l’emozionante incontro richiamato in esergo, sono passati ormai più di cinquant’anni da quella sera del 1833 in cui – quattordicenne – si era trovato per la prima volta al cospetto delle Alpi, viste da Schaffausen[1]. L’incanto restava però, immutato, a testimoniare ancora – per noi – di un’intera stagione della cultura e del gusto che definiamo genericamente romantica, di quel Romanticismo che nelle parole di Baudelaire per il Salon del 1846 “non sta né nella scelta dei soggetti, né nell’esattezza del vero, ma nella maniera di sentire ( … ). Il romanticismo è l’espressione più recente e più attuale del bello”[2]. È quello stesso sentimento di cui Ruskin parla, tracciandone un efficace e sintetico profilo genetico in cui si intrecciano autobiografia e storia culturale: “In nessun periodo della storia umana sarebbe stato possibile immaginare un più felice ingresso nella vita per un bambino che avesse un carattere come il mio. È vero però, che il carattere dipende anche dal periodo storico. Pochi anni prima, meno di cento, non sarebbe potuto esistere alcun bambino che si interessasse tanto alle montagne e ai loro abitanti. Prima di Rousseau non c’era l’amore ‘sentimentale’ per la natura, e prima di Scott non c’era l’amore ansioso per ‘ogni aspetto e condizione’ dello spirito e del corpo. San Bernardo di La Fontaine, guardando verso il Monte Bianco coi suoi occhi da fanciullo, vedeva la Madonna ergersi al di sopra, e San Bernardo di Talloires non vedeva il lago di Annecy, ma i morti della zona tra Martigny e Aosta. Per me, invece, le Alpi e la loro gente sono belle rispettivamente per la neve e per la loro umanità, e non desideravo né per esse né per me, la visione di troni celesti ma solo la vista delle rocce e non sentivo il bisogno di vedere spiriti in cielo, ma solo nuvole”[3]. Romantico sentire sorto dalle radici del sublime settecentesco e nuovo riconoscimento della fattualità degli elementi naturali (le rocce, le nuvole) si incontrano senza contraddirsi in questo sguardo rivolto alle montagne, nelle ragioni che lo spingono a disegnare e poi a far fotografare i ghiacciai e le vette alpine[4] sin dall’estate del 1849. Sono, quelli, anni in cui l’esperienza della montagna era stata tradotta ormai da tempo in spettacolo per le popolazioni urbane, come dimostra la scelta di un tema alpino per l’inaugurazione a Parigi del Diorama di Bouton e Daguerre l’11 luglio 1822, quando una delle rappresentazioni proposte fu per l’appunto La vallée de Sarnen: “Jamais aucune représentation de la nature n’était arrivée, selon nous, à ce point de réalité qui peut faire croire (…) que la vue n’est pas reposée sur des imitations, mais sur les objets imités euxmemes”[5]. Era l’effetto di realtà, l’esito ultimo e allora apparentemente insuperabile della mimesi spettacolare offerta dal diorama che affascinava in questa esperienza, quello stesso che circonderà di attonito stupore la prima comparsa del dagherrotipo, meno di vent’anni più tardi, rafforzato da quella maniera di restituire il sentimento attraverso la scelta del soggetto di cui diceva Baudelaire, che ritroviamo ribadito e riproposto dalla coeva pittura di tema alpino e ulteriormente rafforzato poi, letteralmente moltiplicato nella larga diffusione garantita dalle nuove tecniche di riproduzione a basso costo, come la litografia e soprattutto la fotografia. Si vedano le due riproduzioni di dipinti realizzate a Monaco di Baviera da Josef Albert[6] nei primi anni Sessanta del XIX secolo scegliendo in un repertorio di paesaggismo romanticamente eroico, tra Julius Lange e Alexandre Calame[7].
Alla soglia degli anni Cinquanta la fotografia si avviava ad assumere le pratiche e le forme che oggi le riconosciamo come proprie, passando compiutamente dall’unicità del processo dagherrotipico alla riproducibilità consentita dal ciclo del negativo, avviato da Talbot e successivamente perfezionato dall’uso delle emulsioni al collodio su lastra di vetro, ulteriormente amplificata con l’avvio delle prime stamperie fotografiche, come quella aperta nel 1851 a Lille (nel sobborgo di Loos-les-Lille), la più nota e importante della Francia di metà Ottocento. Qui Louis-Désiré Blanquart Évrard (Lille 1802-1872) avviò una produzione industriale di album fotografici applicando al trattamento dei positivi il processo di sviluppo dell’immagine latente messo a punto da Talbot per il calotipo.[8] Le immagini pubblicate, frutto di apposite campagne fotografiche o di raccolte di produzione eterogenea, erano montate su fogli titolati e riuniti in album non rilegati e venduti a dispense o unitariamente. L’attività di questo stabilimento fu brevissima e la stamperia chiuse improvvisamente nel 1855 per scarsa redditività, incapace di sostenere la concorrenza delle stampe fotolitografiche e delle fotoincisioni su rame o su acciaio, ma ciò nonostante il ruolo svolto da Blanquart-Évrard fu determinante per la diffusione e la conservazione di una parte fondamentale della fotografia francese delle origini poiché qui vennero realizzate alcune delle opere più importanti della prima stagione dell’editoria fotografica, ciascuna destinata a presentare i diversi campi di applicazione della fotografia: “études d’architecture, voyages, reproduction de gravures, souvenirs historiques”[9]. I soggetti spaziavano dal vicino Oriente, conteso tra fascino esotico ed erudito interesse archeologico, tra l’Egypte, Nubie, Palestine et Syrie di Maxime du Camp (1852) e la Jerusalem di Auguste Salzmann (1854) [10], al pittoresco occidentale dei grandi fiumi e – appunto – dei paesaggi alpini, tra Les Bords du Rhine di Charles Marville (1853) [11] e i Souvenir des Pyrenées di John Stewart[12], dello stesso anno, offerti in splendide tavole oggi rarissime[13] caratterizzate dalla dizione, apparentemente piuttosto ambigua, “Photographié et édité par Blanquart-Évrard”, che pare contraddire la diversa attribuzione autoriale dei lavori mentre testimonia invece, orgogliosamente il ruolo propositivo che l’imprenditore si attribuiva.
Già Alexandre Dumas con le sue Excursions sur les bord du Rhin del 1838, aveva dedicato la propria attenzione alle leggende e alle tradizioni di questo fiume, una delle figure centrali della mitologia teutonica, e il tema continuerà a sollecitare interessi diversi, variamente connessi al fascino del pittoresco ancora negli anni delle ricognizioni di Marville, che qui riprende – da fotografo – un genere che aveva già frequentato da incisore, collaborando con Charles Nodier (1780-1844) alla serie dedicata a La Seine et ses bords del 1836. L’album dedicato al Reno non rappresenta che uno dei titoli da lui realizzati per Blanquart-Évrard, di cui fu il più assiduo collaboratore prima di dedicarsi alla documentazione dell’architettura e della città su commessa di architetti e grandi restauratori come Paul Abadie e Eugene Viollet-Le-Duc, così come della stessa Municipalità, per la quale documentò il “Vieux Paris” (1865) prima delle trasformazioni hausmanniane[14]. Diversamente da quanto accadrà nelle vedute parigine, questa ripresa ravvicinata de La vallée suisse a St. Goarshausen Marville si distingue per una eccezionale e poetica attenzione ai dettagli del paesaggio, al paesaggio di dettaglio forse, confermando uno sguardo riconoscibile anche in quella Barrière ouverte che era stata compresa nella prima serie degli Études photographiques, pubblicati sempre a Lille nel 1853[15]; una lettura affettuosa, quasi intima degli elementi costituenti lo scenario alpino, dove ai tronchi affusolati in primo piano corrisponde la delicatezza delle luci sulle foglie dei cespugli, un insieme di elementi a scala umana reso con dolcezza lontana da ogni furore sentimentale, nonostante il peso mitico del tema.
Se la distanza di Marville dal paradigma romantico si traduceva in differenti attenzioni di scala, quella posta in atto da John Stewart nella sua lettura dei Pirenei adottava strategie diverse: in Environs d’Elsaut i modelli non sono certo quelli stabiliti e accolti dal gusto del pittoresco; semmai emerge un naturalismo in bilico tra rilevamento geologico e attenzione analitica, in cui “scienza e arte convergono anziché divergere, e la ricerca estetica della forma dilaga nell’idea goethiana e humboldtiana della morfologia della natura e del paesaggio”[16]. È quanto accade anche per Le pont de Sarrance, con la ripresa eseguita dal greto del torrente, quindi dal basso, ciò che porta a ridurre ai minimi termini e quasi a escludere lo scenario alpino, cioè proprio l’elemento drammaticamente connotativo delle coeve raffigurazioni pittoriche, nelle quali la presenza del ponte assumeva forte valore simbolico, strumento di salvezza che àncora l’uomo al mondo consentendogli di affrontare la terribilità della natura, mentre in questa ripresa tutto è più domestico: stradale. Il trattamento del tema de Le torrent d’Arudy, pur orientato alla descrizione degli aspetti geologici del paesaggio rivela invece altre suggestioni: un interesse, un’attrazione quasi per le componenti materiche dello scenario naturale, dagli alberi alle rocce appunto, che Stewart condivide con molti autori coevi, non solo i fotografi della scuola di Barbizon o quelli attivi nella campagna romana, mentre permane traccia del fascino di un tema proprio della poetica preromantica del sublime: quello della Gorge, della gola e dell’antro.
Quando Stewart pubblica le diciannove tavole del proprio album questi luoghi, i Pirenei - sebbene ormai ampiamente visitati e illustrati in album[17] con titolazioni a volte identiche, in cui il termine di Souvenir costituisce la formula più ricorrente – rappresentano la più recente novità in fatto di mete alpine, poiché “n’ayant pas comme les Alpes la chance de se trouver sur le chemin de l’Italie”[18] vennero ampiamente preceduti da Chamonix e – ancor prima – dall’Oberland bernese. Qui però, come scrisse Victor Hugo, “Il me semble, que les choses-là sont plus que du paysages. C’est la nature entrevue à des certaines moments mystérieux où tout semble rêver, j’ai presque dit penser”.[19] Certo doveva risultare difficile corrispondere visualmente a queste percezioni, poiché il restituire fotograficamente questi paesaggi poneva problemi di ordine meno immediatamente letterario, ma pur sempre e squisitamente discorsivo: “Les vallées des Pyrénées, à peu d’exception près, s’étendent du nord au midi – ricordava Maxwell Lyte, amico e sodale di Stewart – conséquemment elles reçoivent seulement une lumière oblique le matin et le soir. Cet éclairage oblique est nécessaire pour produire des effets vraiment artistiques de lumière et d’ombres, et pour donner une valeur réelle aux différents plans. (…) La chaleur du soleil parait aussi, durant le jour, soulever habituellement des vapeurs qui, si elles ne peuvent se condenser en nuages, interposent néanmoins un voile bleu de brume, d’une nature antiphotogénique, entre nous et les montagnes. Sachant que ces obstacles existent, je m’arrange toujours pour être sur le terrain et à l’œuvre autant que possible de bonne heure, et par conséquent plus des neuf dixièmes de mes épreuves sont exécutées à la lumière du matin, entre cinq et huit heures; les autres sont prises, presque sans exception, à la lumière du soir.”[20]
Allo stesso ambito di scoperta romantica del paesaggio francese può esser fatto risalire anche il viaggio che nell’ estate del 1854 Edouard Baldus[21] compie in Alvernia, uno dei luoghi topici di questa fase sin dai Voyages pittoresques et romantiques dans l’ancienne France del barone Taylor e di Nodier (1829), in compagnia del suo maturo allievo Fortuné Joseph Petiot-Groffier (1788 1855), allo scopo di descrivere i monumenti e i paesaggi di una regione ancora poco toccata dalle profonde trasformazioni dell’industrializzazione e della modernizzazione che interessavano altre aree. La collaborazione dei due fu tanto stretta da produrre alcune stampe virtualmente identiche firmate di volta in volta Baldus o Petiot-Groffier e altre firmate da entrambi. Alla serie di riprese realizzate dal solo Baldus appartiene invece quella indicata nel Catalogue del 1863 col numero 73, col titolo di Chaine des Monts-Doré (paysage) Puy-de-Dome[22]. Essa fu esposta nel 1855 prima all’Esposizione Universale di Parigi[23] e poi ad Amsterdam col titolo attuale Mont d’Or, e testimonia di una fase di passaggio – e di crescita – dello sguardo fotografico di Baldus, che qui si misura non solo con le emergenze architettoniche e le vedute magistrali dei piccoli nuclei urbani della regione, come Saint Nectaire, ma anche – per la prima volta – consapevolmente con gli elementi naturali, realizzando una serie di immagini che fanno considerare “the Auvergne photographs as masterpieces of early landscape photography”[24]. Qui Baldus crea “a new kind of landscape – spare, precisely composed, intensely tactile, highly sensitive to the play of texture and tone, volume and silhouette, on the two-dimensional page”[25], affidandosi a quell’apparente trasparenza documentaria di cui si è nutrita la fecondità della fotografia soprattutto delle origini, ogni volta tradotta nello spettacolo della verosimiglianza, qui mantenuto in elegante equilibrio tra fascino del pittoresco e analiticità descrittiva. Come aveva immediatamente rilevato il critico Ernest Lacan: “si vous êtes poète, si vous aimez ( … ) le silence des solitudes alpestres ( … ) suivez M. Baldus au milieu des sites grandioses de l’Auvergne. Il est peintre, il sait choisir les points de vue et diriger votre admiration. Chacun de ses épreuves est un poème, tantôt sauvage, imposant, fantastique, comme une page d’Ossian; tantôt calme, mélancolique, harmonieux comme une méditation de Lamartine”[26]. L’ampia ripresa che Baldus dedicata al Mont d’Or sembra infatti composta avendo in mente le parole di Taylor di pochi decenni prima, quando descriveva il sito come “un angolo della creazione che rappresenta ancora l’immagine del caos. Le rocce staccate o pronte a cadere in valanghe (…) i terreni messi a nudo dalla caduta di pietre (…) pochi arbusti, qualche abete sparso qua e là (…) vi compongono un quadro severo, terribile e misterioso”[27].
All’Esposizione Universale del 1855 il lavoro fotografico che destò maggior sensazione fu però certamente la veduta panoramica in dodici parti del massiccio del Monte Bianco ripreso da La Flégère, per una lunghezza totale di due metri, realizzata da Friedrich von Martens[28] utilizzando lastre albuminate che gli permisero di ottenere quella “riproduzione immensamente esatta dei complicati dettagli offerti dai grandi rilievi della catena alpina, e in particolare dei loro ghiacciai”, che solo la fotografia poteva offrire e che tanto affascinavano il pubblico, pieno di ammirato stupore anche per le enormi difficoltà di realizzazione che si intuivano dietro lo splendido risultato: “Tutti coloro che hanno compiuto escursioni a quelle altezze – fu il commento di Ernest Lacan – possono apprezzare le difficoltà insite in una simile impresa e la dedizione ch’essa esige. Oltre alla fatica di ascensioni lunghe e penose, e alle spese che impone il trasporto di apparecchiature pesanti, le condizioni variabili dell’atmosfera sono – troppo spesso – un ostacolo insormontabile. Molte volte si parte con un tempo magnifico e un cielo limpido, ma dopo quattro, cinque, sei ore di salita si è sorpresi da un temporale, oppure d’improvviso, le nuvole vengono semplicemente a nascondere il panorama nel momento in cui l’apparecchio è montato e pronto a funzionare. Allora bisogna rifare i bagagli e ridiscendere, rinviando l’operazione a un altro giorno”[29].
Anche i Fratelli Bisson, titolari di uno dei più eleganti studi parigini del Secondo Impero[30], furono presenti all’Esposizione, dapprima con sole strabilianti immagini di architettura quindi con alcune vedute dell’Oberland bernese, all’epoca ancora in una fase di esplorazioni pionieristiche, realizzate nel corso di un viaggio promosso da Daniel Dollfus-Ausset, glaciologo originario di Mulhouse e loro socio in affari, per il quale fotografarono i due ghiacciai del Finster-Aar e del Lauter-Aar, cui aggiunsero quelle terribili del terremoto che colpì il Vallese il 25 e 26 luglio. “Toutes, parfaitement réussies – sottolinea ancora Lacan – donnent une idée exacte des accidents survenus au moment des convulsions du sol et des traces déplorables qu’ils ont laissées. Ces épreuves n’ont pas seulement un grand intérêt au point de vue de la science, elles ont encore comme œuvres d’art un mérite incontestable, ce sont de charmants tableaux d’un effet pittoresque et d’une grande beauté de détails”[31]. Poi, dopo il pittoresco terremoto, andranno sul Monte Bianco. Anzi vi andrà solo il ‘giovane’ Auguste-Rosalie a realizzare quelle che sono forse le più importanti e note riprese di montagna della fotografia europea delle origini, poi raccolte in due album dal titolo quasi identico di (Souvenir de la) Haute-Savoie. Le Mont Blane et ses Glaciers, ma ben distinti nelle intenzioni essendo l’uno il Souvenir du voyage de LL.MM. L’Empereur et L’Impératrice (1860) mentre l’altro, realizzato poco dopo la cessione della Savoia alla Francia, fu dedicato “A Sa Majesté Victor Emmanuel II Roi d’Italie”. L’insieme delle riprese eseguite nelle diverse ascensioni spazia dai passaggi sui seracchi, forse il primo esempio di fotografia di tecniche di scalata, al panorama del Monte Bianco preso dal Mont Buet, dalla Mer de Glace alle singole terribili vette; come sottolineava il pittore di corte August Marc, il giovane Bisson “rischiando la vita, ha percorso tutte le vie praticabili e non praticabili del Monte Bianco per prendervi i cliché di quelle magnifiche vedute che gli amatori comprano e che egli vende a troppo buon mercato, se si pensa a tutti i pericoli a cui si espone”[32]. La pratica fotografica richiedeva ancora tempi lunghi, di preparazione piuttosto che di ripresa, soprattutto quando si operava con lastre di grande formato come Bisson, ma era proprio la qualità di resa delle luci e dei dettagli che queste consentivano ad emozionare i contemporanei (e noi ancora). L’interesse di Bisson era rivolto alla sfida tecnica dell’ascensione fotografica, ma senza dimenticare i problemi di ordine estetico, tanto che il 25 luglio 1861 partì da Chamonix con una nuova spedizione guidata ancora da Balmat, ma della quale faceva parte anche il pittore Gabriel Loppé, incaricato di fornire consulenza artistica al fotografo.[33] Considerando l’insieme delle campagne documentarie risulta evidente come la scelta dei temi e dei punti di vista più specificamente topografici, pur in tutta la novità non solo tecnologica della ripresa fotografica, non si discostasse molto dalla tradizione, riassunta già nel 1777 dal repertorio di venti miniature incise da C. G. Geisser su di una sola lastra a partire da modelli iconografici diversi[34], mentre le riprese più ravvicinate o realizzate a quote più basse rivelano in maniera esplicita l’adesione a quel diffuso sentire romantico che Lacan aveva riconosciuto – come si è visto – nelle stesse riprese dei luoghi terremotati. Basti il confronto tra una delle immagini dell’ album donato a Vittorio Emanuele II (L’Aguille du Dru et Anguille Verte) e il dipinto nella maniera di Calame[35] pubblicato da Albert, in cui la corrispondenza iconografica è quasi letterale, con quel primo piano di tronchi e detriti che rappresentano l’esito entropico della maestà degli elementi naturali, delle guglie perfette così come degli alberi che ne costituiscono la cornice visiva, in una simbolizzazione sin troppo evidente sui temi del destino e del tempo, della morte infine [con le due figure che – nel quadro – si riparano, inermi, dal terribile scatenarsi degli elementi], mentre i nessi con l’altro dipinto sono meno puntuali ma non per questo meno significativi: se il tema della Via Mala dipendeva dal fascino sublime dell’ orrido, del cammino sull’orlo dell’abisso tra pareti incombenti, le fotografie di Bisson comprendono in più casi e quasi celebrano la nascente rete infrastrutturale, che muta profondamente la naturalità incontaminata del paesaggio alpino nel preciso momento in cui ne favorisce la percezione e l’appropriazione, la conquista anche, da parte del nuovo viaggiatore, del futuro turista. Ma certo le immagini più affascinanti sono quelle dedicate ai ghiacciai, un apporto continuamente rinnovato alle variazioni sul tema della Mer de Glace, un richiamo alla tradizione iconografica e una sfida portata dalla fotografia alle arti del disegno. Dalla Svizzera alla Savoia Bisson indaga ostinatamente il tema, svolgendolo nei suoi diversi aspetti, scegliendo di volta in volta i punti di vista, le distanze più adatte al racconto; dalla maestà geografica della veduta ampia, quasi panoramica, al fascino fantastico delle forme in cui avvolgere le figurine dei membri della spedizione: marionette in uno scenario di fiaba. Certo il soggetto è dei più affascinanti, e dei più redditizi anche (crediamo) se in brevissimo arco di tempo i ghiacciai entrano a far parte del catalogo di più autori, rinnovando più antiche fortune calcografiche.
Lo stesso Baldus presentò nel 1861, alla IV Esposizione della Société Française de Photographie, tra le altre, due vedute della Mer de Glace e di Chamounix[36], interesse confermato dal catalogo del 1863 che comprendeva anche una ripresa della Vallée de Chamounix ed una della Source de l’Aveyron, mentre devono essere state realizzate poco prima del 1860 anche le due stampe dedicate rispettivamente alla Vallée de Chamonix vue du Chapeau ed alla Mer de Glace prise du Montenvers firmate da Victor Muzet, attivo a Grenoble in società con Bajat, che figura anche nel ruolo di editore[37], e comprese in una serie di Vues photographiques de Dauphine (sic) et de la Savoié[38] per la quale nel 1860 ricevettero una non meglio precisata “medaille d’or”[39]. In questo caso però il maggior motivo di interesse non è dato tanto dalla ricorrenza dei soggetti quanto dalla sostanziale coincidenza delle riprese di Muzet con quelle realizzate da Auguste-Rosalie Bisson negli stessi anni, somiglianza che ha fatto erroneamente ritenere un passaggio di mano delle lastre negative o peggio – una appropriazione indebita da parte del fotografo meno noto.[40] Se la Vallée de Chamonix venne realizzata da Bisson nel corso della prima ascensione del 1859, come conferma la sua ripresa xilografica ne “L’Illustration” dell’aprile 1860[41], è altrettanto probabile che nello stesso torno di tempo, e per analoghe ragioni commerciali[42], venisse realizzata anche quella di Muzet, pubblicata ancora senza alcun riferimento alla medaglia vinta nel 1860, presente invece nell’altro esemplare, così come possono essere riferite cronologicamente allo stesso periodo anche le due riprese della Mer de Glace qui pubblicate, che Bisson intitola però Grande Jorasse Mont Tacul, portando l’attenzione sulle cime dello sfondo piuttosto che sul primo piano, nelle quali appaiono sorprendentemente simili anche la distribuzione e la forma delle diverse placche innevate, tanto da lasciar supporre un lasso di tempo veramente breve, forse solo di qualche giorno, tra la realizzazione delle due riprese. Al di là della verosimile coincidenza cronologica, ciò che risulta per noi più interessante in quanto sintomo e traccia di un gusto condiviso, è la quasi puntuale corrispondenza – in entrambi i casi – delle modalità adottate dai due fotografi, che non solo scelgono lo stesso punto di vista, ma utilizzano anche ottiche di analoga lunghezza focale e formati di negativo non dissimili, come rivelano le relazioni prospettiche tra i diversi elementi raffigurati e le stesse misure delle stampe a contatto[43]. Così se la valle di Chamonix trova il suo punto di osservazione privilegiato al Chapeau, giusto al di sopra dell’imbocco della Mer de Giace, la ripresa ravvicinata del ghiacciaio non poteva che essere realizzata dai pressi dell’ hospice del Montenvers, il rifugio costruito nel 1779 da Charles Bloir, già frequentato da numerosi viaggiatori illustri: da Goethe all’imperatrice Maria Luisa, da Byron e Shelley a Hugo e Dumas, al già citato Ruskin. Se in queste fotografie il ghiacciaio costituisce la base da cui spiccano i volumi dei monti, in una restituzione che potremmo definire topografica, in altri casi i fotografi cedono al fascino del sublime, introducendo la figura umana, la sua presenza nell’universo fantastico di forme dei ghiacciai. Ancor più dei Seracs des Bosson è significativa in questo senso la ripresa che Giorgio Sommer[44] dedica a Chamounix, Mer de Glace in una data non meglio precisata, ma che non dovrebbe essere troppo lontana dalla metà degli anni Sessanta. Certo la rinnovata attenzione per questo soggetto doveva molto del suo vigore proprio al successo riscosso dalle fotografie realizzate da Auguste-Rosalie Bisson, ma Sommer riesce a costruire un’iconografia nuova, che nella scelta del piano ravvicinato si discosta nettamente dai modelli prevalenti, richiamando semmai i modi utilizzati da Jean Antoine Linck (1766 – 1843) in un disegno che aveva dedicato allo stesso soggetto circa mezzo secolo prima[45] o – per restare in ambito fotografico – la ripresa del ghiacciaio di Grindelwald, nell’Oberlad bernese, che Von Martens aveva realizzato verso il 1853[46]. Ora Sommer, forse memore dell’interpretazione di Byron, quasi immerge l’apparecchio nel corpo del ghiacciaio, attratto magneticamente da queste onde immense, eternamente immobili, bloccate dal gelo ancor prima che dalla fotografia, pietrificate e bianche, da cui emerge il dorso di favolosi cetacei: l’apparizione magica della balena di Giona se non ancora di Pinocchio (1880)[47].
Di tutt’altro tenore e senso l’opera che chiude questo ciclo di immagini, realizzata da Alberto Luigi Vialardi[48], già autore nel 1863 di un Album del Monviso[49], quindi di una rara documentazione di quella grande opera infrastrutturale che è il Canale che poi sarà intitolato a Cavour, destinato a razionalizzare e potenziare la rete irrigua della pianura risi cola piemontese, cui il fotografo lavorò fino ai primi giorni del 1864 su commissione della stessa Associazione Irrigazione Ovest Sesia, promotrice dell’opera, dopo un primo affidamento allo Studio Bernieri[50]. Ad ulteriore conferma della solidità della sua rete di relazioni istituzionali, anche il grande cantiere del traforo del Frejus (1868-1871) venne documentato da Vialardi in un album destinato in maniera affatto nuova a trovare il proprio posto “nel boudoir dell’elegante signora, come nelle biblioteche dell’artista e dell’uomo di scienza e d’affari” e di cui i giornali dell’ epoca diedero ampiamente conto, segnalando le “nove stupende vedute fotografiche che rappresentano i due panorama [sic] dei cantieri nelle vallate di Bardonéche e Modane, le due entrate del gran tunnel, i due cantieri dei compressori, l’interno degli edifici dei compressori medesimi – di questi straordinari motori che per la prima volta entrano nel mondo industriale la macchina perforatrice con tutti gli operai in azione entro la galleria e per ultimo un esemplare litografico della topografia e della sezione longitudinale della montagna. Ad ogni veduta sta di fianco una relativa descrizione particolareggiata”[51]. È il trionfo dell’ingegneria, l’esito ormai italiano della politica internazionale preunitaria, cavourriana. La fotografia si rivela il medium più aderente, più adeguato a celebrare questa importante realizzazione, il primo dei grandi trafori alpini, un segno tangibile del mutato spirito del tempo: al fascino emotivo, potente e terribile della montagna si affianca – se proprio non si sostituisce – quello altrettanto forte, positivista e industriale della straordinaria macchina: costruita dall’uomo.
Note
[1] Cfr. John Ruskin e le Alpi, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1990), a cura di James S. Dearden, Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1990, in particolare alle pp.17 – 19. Per l’affascinante lettura del testo completo si rimanda a John Ruskin, Praeterita. Orpington: George Allen, 1885 – 1889, I, pp.194-195, § 134, p.113 (ed it., Palermo: Edizioni Novecento, 1992, traduzione di Maria Croci Giulì e Giusi de Pasquale).
[2] Charles Baudelaire, Salon del 1846, ora in Id., La critica d’arte, a cura di Antonio del Guercio. Roma: Editori Riuniti, 1996, pp. 109 – 128 (110).
[3] Ruskin, 1885 – 1889: § 134, p.113. Per una accurata e sintetica ricostruzione delle variabili storiche del rapporto tra cultura occidentale e montagna si veda Paola Giacomoni, “Dare del tu alle rocce”, in Montagna. Arte, scienza, mito da Dürer a Warhol, catalogo della mostra (Rovereto 2004), a cura di Gabriella Belli, Paola Giacomoni, Anna Ottani Cavina. Milano: Skira, 2004, pp. 19-40.
[4] 4 “The first sun-portraits [e qui Ruskin richiama l’originaria terminologia di William Henry Fox Talbot, che parlava di “sun pictures”] even taken of the Matterhorn (and as far as I know of any Swiss mountain whatever) was taken by me in 1849″, citato in John Ruskin e le Alpi, 1990, p. 18, corsivo di chi scrive. Come è noto l’affermazione di Ruskin non deve essere presa alla lettera, non essendo lui l’autore materiale di queste immagini, di volta in volta realizzate dai suoi camerieri personali John ‘George’ Hobbs (1849) e Frederick Crawley (1854 – 1856), ormai alle soglie dell’abbandono di questa tecnica; cfr. Paolo Costantini, Italo Zannier, a cura di, I dagherrotipi della Collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice, 1986. La veridicità letterale dell’affermazione in merito alla primogenitura non pare invece essere contraddetta da quanto sinora noto sulle prime riprese dagherrotipiche delle Alpi, cfr. Le daguerréotype français. Un object photographique, catalogo della mostra ( Paris 2003 – New York 2004), a cura di Quentin Bajac, Dominique Planchon De Font-Réaulx. Paris: Réunion des Musées Nationaux, 2003, cat. 136, p.227. In quella mostra sono stati presentati anche altri dagherrotipi di ambiente alpino in particolare la Vue d’une vallée dans les Alpes, compresa in una serie che Marie Charles lsidore Choiselat (1815 – 1858) e Stanislas Ratel (1824 – 1904) realizzarono nell’agosto del 1845 durante una missione il cui itinerario era stato stabilito dal consiglio dell’Ecole royale des mines quale esercitazione conclusiva del ciclo di studi di Ratel e che costituiscono, ad ora, le più antiche riprese note effettuate nelle Alpi, come ricordava anche uno dei viaggiatori: “Ces vues sont les seules qui soient encore sorties du fond de ces montagnes que les artistes ne visitent pas assez et où ils pourraient trouver des sujets que leur imagination n’avait pas besoin de grandir pour les rendre majestueux”. (citato in Q. Bajac, M.C.I. Choiselat, S.- Ratel, in Le daguerréotype français, 2004, cat. 155, p. 246).
[5] 5 “Le Miroir des Spectacles”, 12 luglio 1822, citato in Claudine Lacoste-Veysseyere, Les Alpes romantiques. Le thème des Alpes dans la littérature française de 1800 à 1850. Genève: Editions Slatkine, 1981, p.195.
[6] Josef William Albert (1825 – 1886), più noto come fotografo ritrattista, fu attivo a Monaco, anche come fotografo di corte di Massimiliano II e Luigi II, con studio in Brienner Strasse nel 1865-1878. A lui si devono anche rigorose vedute urbane e di architettura (il Glaspalast di Monaco, 1861; l’Esposizione di Vienna del 1873) oltre ad alcuni interessanti paesaggi, tra i quali Il fotografo in posizione a Hohenschwangau, 1857, in cui – oltre ad Albert all’apparecchio – si vede una cabina portatile per il trattamento delle lastre al collodio, analoga a quella utilizzata dal valdese David Peyrot alcuni anni più tardi e oggi conservata al Museo nazionale del Cinema di Torino, cfr. Michel Frlzot, a cura di, Nouvelle Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1994 pp. 115 passim; Helmut Gernsheim, Storia della fotografia. 1850 – 1880 L‘età del collodio. Milano: Electa, 1981, p.232; Maria Adriana Prolo, Luigi Carluccio, Il Museo Nazionale del Cinema Torino. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1978, p.139. Una fotografia di Richard Wagner realizzata da Albert nel 1880, servì l’anno successivo per la realizzazione di un noto ritratto ad olio dipinto da Franz von Lenbach, cfr. Carola Muysers, Das bürgerliche portrait im Wandel. Zürich – New York – Hildesheim: Georg Olms Verlag, 2001. Nel 1868 il fotografo mise a punto un procedimento commerciale di stampa planografica delle matrici fotografiche analogo alla litografia (collotipia), identico a quello proposto da Alphonse Poitevin, che da lui prese il nome di Albertype. Nel 1876 fu tra i primi ad utilizzare la collotipia a colori, ma a lui si deve anche lo studio di un processo di inversione (negativo/ positivo) della lastra al collodio mediante utilizzo di acido nitrico. Il tema degli studi (da Adolphe Braun a Dornach a Jean Jaques Heilmann a Pau, solo per citarne due) impegnati nella riproduzione fotografica dei dipinti e delle opere d’arte è troppo vasto perché possa essere in questa sede anche solo accennato, mi limito pertanto a rimandare, a titolo esemplificativo, ad una recente approfondita analisi della maggiore impresa italiana attiva in questo settore: Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003.
[7] Poiché i cartoni di supporto non riportano sufficienti indicazioni, l’identificazione delle opere presenta alcune difficoltà e incertezze: il primo dipinto riprodotto, identificato come Via Mala, soggetto già affrontato da W. Turner nel 1843, è firmato Julius Lange (Darmstadt 1817 – München 1878), 1860, mentre per il secondo, anonimo, non posso far altro che notare una sorprendente comunanza di temi e di modi con la produzione di François Diday (Ginevra 1802 – 1877) e soprattutto di Alexandre Calame (Vevey 1810 – Mentone 1864) intorno al 1850, per la quale rimando a Valentina Anker, Alexandre Calame. Vie et œuvre. Catalogue raisoné de l’œuvre peint. Friburg: Office du Livre, 1987, ma la prudenza della mia incompetenza suggerisce di non spingermi oltre.
[8] Le varianti di preparazione e di trattamento del materiale sensibile messe a punto da Blanquart-Évrard non ci consentono di definire le stampe realizzate dal suo stabilimento come “calotipi positivi”, ma credo sia altrettanto errata e fuorviante la consuetudine da molti adottata di indicarle tecnicamente come “carte salate”. Come è noto queste appartengono alla famiglia dei materiali sensibili ad annerimento diretto, mentre il procedimento utilizzato a Lille si fondava al contrario sullo sviluppo del positivo, quindi sul principio dell’immagine latente, allo scopo di ridurre tempi e costi di realizzazione e di vendita degli album. Per questa ragione ritengo più corretto adottare la dizione “carta a sviluppo (metodo Blanquart-Évrard)”.
[9] “La Lumière”, 1854, citato in Isabelle Jammes, Blanquart-Évrard et les origines de l’édition photographique en France: catalogue raisonnée des albums photographiques édités 1851-1855,. Genève: Librairie Droz, 1981, p.67 ; si veda anche, Frizot, 1994, pp. 80- 89.
[10] Sulla paternità del corpus delle fotografie attribuite a Salzmann o al suo collaboratore Durheim, e sulla natura problematica del concetto di opera che ne deriva cfr. Abigail Solomon-Godeau, A Photographer in Jerusalem, 1855: Auguste Salzmann and His Times, “October”, n.18, autumn 1981, citato in Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, a cura di Elio Grazioli. Milano: Bruno Mondatori, 1996, p.43 n.19, ma anche – con una più estesa riflessione critica sulla discutibile applicazione alla fotografia di alcune categorie interpretative derivate alla storia dell’arte – Abigail Solomon-Godeau, Calotypomania. The Gourmet Guide to Nineteenth-Century Photography, “Afterimage”, vol. 11, n.1-2, Summer 1983, successivamente riedito in “études photographiques”, n. 12, novembre 2002, consultato in estratto.
[11] Charles Marville (1816 – 1879), realizzerà anche una serie di Vedute di Torino. Turin: Maggi, (editore e libraio presso il quale erano in vendita anche le stampe di Luigi Crette, Vialardi e Guido Gonin) oggi nota attraverso l’esemplare conservato presso la Biblioteca centrale della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino e studiata per la prima volta in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp.37-38, con una datazione proposta al 1865-1870 che Marina Miraglla, Culture fotografiche e società a Torino 1839 –1911. Torino: Allemandi, 1990, p.334, aveva già anticipato al 1861-62, ma che sarà più corretto attribuire al 1858-59, quando Marville è in Italia e in Grecia con Charles Cordier per realizzare la campagna fotografica dedicata alla Sculpture Ethnographique, commissionatagli dal governo francese nel 1850 (vale a dire prima della ben più nota “Mission Héliographique”) e quindi pubblicata in fascicoli. Un esemplare dell’opera venne dedicato “A S.M. Victor Emmanuel Roi d’ltalie”. L’occasione per la realizzazione di queste riprese di Marville potrebbe essere individuata nella campagna di documentazione dei disegni della Biblioteca Reale di Torino e della Biblioteca Ambrosiana di Milano, che faceva seguito all’impegno analogo per le collezioni del Louvre, pubblicate pochi anni prima. La datazione delle riprese italiane potrebbe forse essere ulteriormente anticipata alla metà del decennio considerando che Marville usava la qualifica di “Photographe du Musée Imperial du Louvre”, che ritroviamo sui cartoni delle stampe torinesi, nel periodo in cui collaborava con BlanquartÉvrard, vale dire sino al 1855.
[12] John Stewart (1800 – 1887), inglese, membro della Société Française de Photographie e genero di Sir John Herschel (1792 -1871) uno dei padri fondatori della fotografia, fu – come molti fotografi coevi – anche uno sperimentatore, apportando interessanti innovazioni nel trattamento dei negativi di carta e del loro ingrandimento. Attivo prevalentemente in Francia, si trasferì nel 1847 a Pau, dove realizzò molte delle sue vedute utilizzando la tecnica del calotipo (o sue varianti) ed entrò in contatto con autori della generazione successiva come Jean Jacques Heilmann (1822 – 1859), e l’altro inglese Farnham Maxwell Lyte (1828 – 1906), ma anche con Adolphe Godard, Joseph Vigier ed Henri-Victor Regnault, che accompagnerà in un viaggio in Inghilterra. Dopo la collaborazione con Blanquart-Evrard le sue immagini vennero pubblicate da Theophile Marx e da Heilmann, che nel 1854 aveva aperto a Pau un’analoga Imprimerie photographique, da cui uscirono immagini anche di Maxwell Lyte, cioè dell’insieme di autori poi identificati come “école de Pau”. Sebbene Heilmann e Maxwell Lyte utilizzassero anche il nuovo procedimento al collodio, ciò che li contraddistingue complessivamente è appunto il ricorso al negativo di carta nelle sue diverse varianti, poiché – come ricordava Maxwell Lyte sulle pagine del “Journal of the Photographic Society of Edinburgh” del dicembre 1854, v. II, p.95, “I must still entertain my old opinion that paper is the process for views”. Numerosi esemplari di queste opere sono conservati alla Biblioteca di Pau e presso gli Archives départementales des Pyrénées Atlantiques, cfr. Paul Mironeau, Christine Jullat, Lucie Abadia, Pyrénées en images. De l’oeil à l’objectif 1820 -1860. Pau: Musée national du Chateau de Pau, 1996; Alexandre Allain, Les collections photographiques des bibliothèques municipales et l’exemple de Lille, Memoire d’étude. Paris: École Nationale Supérieure des Sciences de l’lnformation et des Bibliothèques, 2000.
[13] Il solo esemplare completo dell’album di Marville così come quello più ricco di Stewart sono oggi conservati alla Biblioteca di Lille, cfr. Allain, 2000, p. 31. Una delle tavole di Stewart, Le pont d’Orthez, è pubblicata in Frizot, 1994, p. 88 e può essere utilmente confrontata con la ripresa dello stesso soggetto realizzata e pubblicata da Heilmann col titolo Vieux pont d’Orthez, cfr. Collection M. + M. Auer. Une histoire de la photographie, catalogo della mostra (Nice – Genève, 2004), a cura di Michèle e Michel Auer. Hermanace: Editions M.+ M., 2004, p. 71 n.30. Un album anonimo di Souvenir des Pyrenées, composto però di 24 tavole, è conservato nella collezione Edward Alexander Parsons dello Harry Ransom Humanities Research Center dell’Università del Texas, ad Austin.
[14] Queste trasformazioni sono state recentemente studiate da Rosa Tamborrino, Parigi: i! piano di Hausmann, “Storia dell’Urbanistica Piemonte”, IV”, Roma, 2000.
[15] Frizot, 1994, p. 87.
[16] Giacomoni, 2004, p. 33.
[17] Rimandando ai testi citati alle note successive per una disamina puntuale della produzione iconografica sul tema dei Pirenei, voglio qui ricordare che le illustrazioni per il Voyage aux Pyrénées di Hippolyte Taine, 1855, vennero fornite da Gustave Doré servendosi anche di fotografie, realizzate verosimilmente dagli autori della “scuola di Pau”.
[18] Philippe Comte, in Les Pyrénées Romantiques, catalogo della mostra (Pau, Musée des Beaux Arts, estate 1979), a cura di Marguerite Gaston. Pau: Musee des Beaux-arts, 1979, p p.n.n.
[19] Lettera a Louis Boulanger-Cauterets, citata in Hélene Saule Sorbé, Pyrénées. Voyage par les images. SerresCastet: Editions du Faucompret, 1993, p.69.
[20] Farham Maxwell Lyte, lettera pubblicata nel “Moniteur de la Photographie” del 15 novembre 1861, citata in Bernard Marbot, Des ciels dans les paysages photographiques, dossier della mostra Quand passent les nuages. Paris, Bibliothèque Nationale de France, 1988.
[21] Edouard Baldus (1813 – 1889), nato a Grunebach in Prussia, come pittore espone a Parigi ai Salon del 1847, 1848 e 1851 ma risulta attivo come fotografo almeno dal 1848, segnalandosi immediatamente come uno degli autori più importanti della fotografia francese, membro della Mission héliographique promossa dal governo francese nel 1851; cfr. Malcom Daniel, The Photographs of Édouard Baldus. New York –Montreal: The Metropolitan Museum of Art -Canadian Center for Architecture, 1994, p. 231. Ove non diversamente indicato, tutte le informazioni relative all’attività di Baldus sono tratte da questo studio.
[22] Le pagine del catalogo, oggi conservato nella biblioteca del Victoria and Albert Museum di Londra, sono riprodotte in Daniel, 1994, p. 231 passim.
[23] Ch. P. Magne, Exposition universelle de 1855, “L’Illustration – Journal Universel”, XXXI, n.644, p.331, citatato in Michele Falzone del Barbarò, a cura di, Il Monte Bianco dei Fratelli Bisson. Ascensioni fotografiche 1859-1862. Milano: Longanesi, 1982, p. 9.
[24] Daniel, 1994, p. 39.
[25] Ivi, p. 40.
[26] Ernest Lacan, “La Lumière”, 1855, poi ripubblicato in Id., Esquisses photograpiques. Paris: Gaudin, 1856, pp.26-29, citato in Daniel, 1994. p. 262, nota 91.
[27] Citato in Bruno Foucart, La montagna nella pittura francese dell’Ottocento, in Le seduzioni della montagna. Da Delacroix a Depero, catalogo della mostra (Grenoble, Torino, 1998), a cura di Marisa Vescovo. Milano: Electa, 1998, pp. 29 -36.
[28] Noto anche come Vincent Frédéric Martens, (Venezia? 1809 – Parigi 1875), di famiglia originaria del Wurtenberg, studia all’Accademia di Belle Arti di Venezia e quindi a Basilea, perfezionandosi come incisore. Naturalizzato francese, dopo aver partecipato ai Salon dal 1834 al 1848 con vedute urbane e marine, si dedicò costantemente alla fotografia mettendo a punto anche un nuovo apparecchio di ripresa panoramico per dagherrotipi. Nel 1851 espose a Londra una serie di immagini realizzate a partire da negativi su vetro albuminato (metodo Niepce de St. Victor), che la stampa inglese definiva “Talbotypes”, cfr. Collection M. + M. Auer, 2004, p. 86.
[29] Ernest Lacan, 1855, citato in P. Cavanna, Le prime ascensioni fotografiche. I Fratelli Bisson, “ALP”, 10 (1994), n.112, pp.116-119. Sulle pagine del parigino “La Lumière”, allora certo la più autorevole pubblicazione periodica dedicata alla fotografia, il critico aveva dato ampio conto della produzione fotografica presentata all’Esposizione, segnalando in particolare le opere di documentazione architettonica e artistica di Baldus e dei fratelli Bisson, poste in opposizione dialettica.
[30] Louis Auguste (1814-1876) e Auguste Rosalie (18261900) già attivi indipendentemente come dagherrotipisti, aprono nel 1852 uno studio in società che due anni dopo avrà sede in Rue Garancière, 8 nel palazzo di Sourdèac, proprietà di Henri Plon, stampatore dell’Imperatore; la loro produzione, caratterizzata dall’utilizzo di lastre di grandissimo formato (mediamente 40×50 ca, ma con formati variabili dal 30×40 sino al 50×70 e 60×75), che stampano ed editano in proprio è dedicata in un primo momento alla sola architettura, in aperta concorrenza con Baldus. Sulla scia della Mission Heliographique del 1851, cui non sono chiamati a partecipare, avviano in proprio la pubblicazione della raccolta di Reproductions photographiques des plus beaux types d’architeture et de sculture d’après les monuments les plus remarquables de l’Antiquité, du Moyen Age, et de la Renaissance (1855-1858) per passare quindi alle riprese di montagna ed in particolare del massiccio del Monte Bianco, che Auguste Rosalie fotograferà più volte tra 1858 e 1862, poi ancora nel 1868, realizzando una serie molto nota di immagini, raccolte in due album pubblicati come Bisson Fréres al nuovo indirizzo di Boulevard des Capucines 35. In quello stesso stabile in cui operava anche Gustave Le Gray dal 1848, “al pianoterra i fratelli Bisson, finanziati dai Dolfus di Mulhouse, aprirono un sontuoso negozio dov’erano allineati, davanti a un pubblico sorpreso ( … ) vedute della Svizzera in dimensioni fino allora sconosciute” ricorda Nadar, Quando ero fotografo. Roma: Editori Riuniti, 1982, p.137, (traduzione di Stefano Santuari). Dopo il fallimento dello studio nel 1863, acquistato da Emile Placet, fotografo e fotoincisore che continuerà a tirare stampe dai negativi Bisson, Louis Auguste ne divenne il direttore mentre Auguste Rosalie proseguì la propria attività realizzando stereoscopie per conto della Maison Léon et Levy, ma intorno al 1870 entrambi i fratelli abbandonarono la pratica fotografica.
[31] Citato in M.-C. S.-G., Bisson frères, http://expositions.bnf.fr/napol/grand/048.htm, senza indicazione della fonte (Ernest Lacan) sottolineatura di chi scrive. I due ghiacciai in realtà costituiscono i due bracci del ghiacciaio dell’Aar, ripreso anche in dagherrotipo da Camille Bernabé (Lyon 1808 – 1860 post) già nel 1850, da un “padiglione” fatto costruire nel 1846 proprio da Daniel Dollfus-Ausset, che fu anche il committente di queste prime immagini, esposte (con le stampe Bisson?) nel 1856 alla Société des amis des arts di Strasburgo e autore, con Henri Hogard, di un volume di Materiaux pour servir à l’étude des glaciers. Strasbourg: Simon, 1854. Interessante come sempre la testimonianza relativa alla realizzazione del dagherrotipo: “On à dû séjourner pendant huit jours par le froid, la pluie et la neige, avant d’avoir obtenu une heure de temps favorable pour faire les trois vues de ce glacier”, citato in Marie Sophie Corcy, Camille Bernabé, Glacier de l’Aar, in Le daguerréotype français, 2003, sch. 275, p.341. Nel 1852 Von Martens di ritorno da Losanna gli fece visita e così poi ne scrisse: “J’ai vu chez lui très beaux portratits au collodion, de belles vues sur verre, et une délicieuse vue de montagne sur plaque d’argent.”, citato in Collection M. + M. Auer, 2004, p. 69 n.25. Segnaliamo qui, come traccia di possibili legami e percorsi di ricerca, che anche Alexandre Calame aveva visitato i ghiacciai dell’Aar in compagnia di Dollfus-Ausset, cfr. Anker, 1987, p. 108 che trascrive una lettera di Eduard Desor a Calame del 12 gennaio 1846.
[32] Citato in Cavanna 1994.
[33] Cfr. Cavanna 1994. Sull’insieme delle riprese alpine di Auguste-Rosalie si veda Falzone del Barbarò, 1982, mentre dell’album donato a Vittorio Emanuele II è stato realizzato un facsimile Souvenir de la Haute-Savoie. Le Mont Blanc et ses Glaciers, MM. Bisson frères Photographes de l’Empereur. Excursions dirigées par Auguste Balmat, testo introduttivo di Angelo Schwarz. Torino: Gruppo Editoriale Forma, 1982. Gabriel Loppé (1825-1913) era anche fotografo (Musée d’Orsay), cfr. Marie-Noel Borgeaud, Gabriel Loppé: Peintre, Photographe & Alpiniste. Grenoble: Glénat, 2002.
[34] M.T.V. (Marie-Christine Vellozzi), C.G.Geisser, “Vinght [sic] vues sur un méme feuille“, 1777, in Immagini e immaginario della montagna 1740 – 1840, catalogo della mostra, (Torino, Museo nazionale della montagna, 15 febbraio-2 aprile 1989). Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1989, sch. 138, p. 103.
[35] Già Theophile Gautier aveva posto in relazione le due differenti letture, sebbene con ragioni diverse: “Le montagne sembrano finora aver sfidato l’arte. È mai possibile inquadrarle in un dipinto? Ne dubitiamo, perfino dopo le tele di Calame. (. .. ) L’artista può solo far intravedere, ultimo e sublime piano, la silhouette ghiacciata d’argento di una montagna nei fumi azzurri dell’orizzonte ed è proprio ciò che rende tanto preziose le belle prove fotografiche dei signori Bisson”, citato in Foucart, 1998, p. 34.
[36] Daniel, 1994, p. 245.
[37] I dati sono desunti dalle iscrizioni e dai differenti timbri a secco delle due stampe: mentre i negativi sono sempre numerati e firmati dal solo Muzet (1828 – 1885 post) i timbri parlano alternativamente di “Muzet et Bajat Photographes / Grenoble” o più semplicemente di “Bajat à Grenoble”, senza ulteriori specificazioni, ciò che parrebbe indicate piuttosto il ruolo di editore di quest’ultimo, confermato anche dalla pubblicazione dell’album litografico di G. Margain, Grenoble et ses environs. Vingt Vues dessinées d’après nature et lithographiées. Avec texte explicatif, 1865 ca, indicato come in vendita ” Chez Bajat, Place S.te Claire “. Sia le Vues photographiques sia quelle dessinées d’après nature uscivano però da Maisonville & Fils & Jourdan Editeurs. Scarse sono le notizie relative a Muzet, che alcuni indicano attivo a Lione (sotto la firma Muzet et Joguet, autori di stereoscopie, 1860 ca, dove risulta attivo anche Bajat nel 1842). In questa occasione non ci è stato possibile verificare il legame tra Muzet e la Société Dauphinoise des Amateurs Photographes, di cui la Biblioteca municipale di Grenoble conserva oggi 25.000 lastre prevalentemente dedicate a temi alpini, cfr. Allain, 2000, p. 47.
[38] Un’altra stampa con veduta di una cascata e mulini, appartenente alla stessa serie, è conservata all’Harry Ransom Humanities Research Center all’Università del Texas ad Austin, collezione Gernsheim.
[39] Il dato si ricava dal timbro a secco della veduta della Mer de Glace, presente anche nella stampa conservata ad Austin.
[40] Cfr. Giuseppe Garimoldi, Fotografia e alpinismo. Storie parallele. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1995, p.7 che riprende un’analoga osservazione di Falzone del Barbarò, 1982, p. 12. La stessa interpretazione è stata ancora recentemente ribadita senza riconoscere non solo che le due riprese, come si è detto, sono sottilmente diverse ma anche, come doveva risultare evidente dal confronto diretto, che la stampa di Muzet è firmata ben due volte sulla lastra, una in negativo (in chiaro) per effetto di una scrittura sovrapposta all’emulsione, l’altra in positivo (in scuro) quale esito di una incisione dell’emulsione stessa, cfr. G. G. [Giuseppe Garimoldi], Auguste Rosalie Bisson, in Le cattedrali della terra. La rappresentazione delle Alpi in Italia e in Europa 1848-1918, catalogo della mostra (Milano, Museo della Permanente, 24 gennaio – 19 marzo 2000), a cura di Letizia Scherini. Milano: Electa, 2000, sch. 103, p. 181 e didascalia p. 134.
[41] Per la ripresa di Bisson, molto nota, cfr. N.V, [Nicola Vassallo], Louis-Auguste (nato 1814) e Auguste-Rosalie (nato 1826) Bisson, Album del Monte Bianco, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), III, sch.1435, pp.1326-1327, n.14; Souvenir de la Haute Savoie, 1982, t.nn.; Falzone del Barbarò, 1982: t. 12 e t.14.
[42] Giova ricordare che anche Edouard Baldus, presentò alla IV Exposition de la Societé Française de Photographie del 1861 due immagini di analogo soggetto, cfr. Daniel, 1994, p. 230, e che questi temi riscuoteranno larghissimo successo ancora negli anni e decenni successivi, enormemente diffusi con la produzione stereoscopica, in particolare con la serie realizzata tra 1863 e 1868 da William England (1830 – 1896) per l’Alpine Club di Londra.
[43] Per la Vallée de Chamonix si ha rispettivamente (in millimetri, altezza per base) 305x 406 per Bisson e 327×388 per Muzet, mentre i valori della Mer de Glace corrispondono a 236×384 e a 243×354.
[44] Giorgio Sommer (Francoforte sul Meno 1834 – Napoli 1914), attivo a Roma nel 1857-1872, con Edmond Behles (1841 – 1921) , quindi a Napoli 1873 – 1891. Ipotizzando che possa aver visitato la Savoia negli stessi anni in cui lo troviamo a Torino (1863 – 1865 ca, prima che la Mole in costruzione emergesse dalla tessitura urbana a nord di Piazza Vittorio, come mostra un suo panorama della città da Villa della Regina, cfr. Miraglia, 1990, tav. 85), che il rinnovato interesse – ora fotografico – per il soggetto molto dovesse alla recente pubblicazione del primo album Bisson, e considerando che l’indicazione di responsabilità posta in calce all’immagine si riferisce al solo Sommer e non alla coppia Behles – Sommer, scioltasi come ha ipotizzato Miraglia, fra il 1865 e il 1867, credo che si possa verosimilmente collocare in questo arco di tempo la realizzazione della ripresa e della stampa qui presentata. Per un’attenta e affettuosa presentazione critica della figura di questo fotografo rimando a Marina Miraglia, Giorgio Sommer, un tedesco in Italia, in Un viaggio fra mito e realtà. Giorgio Sommer fotografo in Italia 1857 – 1891, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Braschi, 5 dicembre 1992-10 gennaio 1993), a cura di Marina Miraglia, Ulrich Pohlmann. Roma: Carte Segrete, 1992, pp. 11 – 32 (in particolare alle pp. 12, 26 n. 11, 31 n.84).
[45] M.T.V. (Marie-Christine Vellozzi), J.A. Linck, “Crevasse sulla Mer de Glace et Grands Charmoz”, s.d., in Immagini e immaginario della montagna, 1989, sch. n. 163, p.133.
[46] Garimoldi, 1995, p. 49. Un ricchissimo repertorio di iconografia alpina prefotografica è costituito dalla collezione Paul Payot depositata al Conservatoire d’Art et d’Histoire di Annecy e pubblicata in Mont-Blanc. Conquete de l’Imaginaire. Montmélian: La Fontaine de Siloé, 2002.
[47] Per i riferimenti letterari al tema cfr. Mario Domenichelli, Il monte e la balena: il sublime dell’origine nel romanticismo, in Alpi gotiche. L’alta montagna sfondo del revival medievale, atti delle giornate di studio (Torino 1997), a cura di Cristina Natta-Soleri, Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1998, pp. 123 – 131, che pensa piuttosto a Poe e Melville.
[48] Alberto Luigi Vialardi (1833 -1912), membro dei CAI, tra i più noti fotografi torinesi della sua generazione, risulta essersi dedicato alla professione per un brevissimo arco di tempo, compreso tra il 1863 e il 1869, sebbene di lui siano note alcune immagini di Figurini del personale della Real Casa, datati 1871 e conservati presso la Biblioteca Reale di Torino. Lo svolgersi della sua attività, e il suo stesso avvio forse, sembrano essere strettamente connessi al ruolo nuovo di capitale nazionale, e poi alla sua perdita, svolto da Torino immediatamente dopo l’Unità, così come gli incarichi da lui assunti, quasi certamente determinati dalla buona conoscenza e dai buoni rapporti con il milieu burocratico statale che gli derivavano dall’essere stato segretario presso il Ministero delle Finanze e autore di un Annuario del Debito Pubblico (1862) che allora godette di una certa fama, cfr. Claudia Cassio, ad vocem, in Miraglla,1990, pp.430-431.
[49] N.V, [Nicola Vassallo], Alberto Luigi Vialardi, Album del Monviso, 1863, in Cultura figurativa e architettonica, sch.1436, pp.1329-1331. Una stampa della stessa serie, annotata e colorata a mano, è conservata anche nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna, cfr. Scherini, 2000, p. 135, sch. 104. Gli altri membri della spedizione furono Giuseppe e Luigi di Rovasenda e Luigi e Melchiorre Pulciano, quest’ultimo noto ingegnere e restauratore che sarà particolarmente attivo in area saluzzese. Da una cronaca coeva citata da Vassallo si apprende come nonostante il significato anche politico dell’impresa – l’aspetto più innovativo della spedizione fosse considerato “lo sperimento della fotografia” e in particolare l’uso delle nuove lastre al collodio secco, sebbene l’autore ritenesse che Vialardi avesse “fors’anco abusato del nuovo sistema secco del tanino [sic] proposto dal maggiore Russel, col non sviluppare le prove ottenute che al finire del viaggio”, contrariamente a quanto era invece indispensabile fare utilizzando il collodio umido, come nel caso di Auguste-Rosalie Bisson. (V.G., “L’Opinione”, 21 agosto 1863).
[50] All’album di Vialardi dedicato al cantiere del Canale Cavour conservato presso l’Archivio Storico della Associazione Irrigazione Ovest Sesia di Vercelli, si devono aggiungere le immagini di Bernieri e di Tarantola conservate presso l’Archivio Storico dei Canali Cavour di Novara ed in alcune collezioni private. Le fotografie di Vialardi divennero di fatto l’immagine ufficiale della grande opera, diffuse sotto forma di piccole vedute a volte assemblate in un unico cartone, corredate di tavola topografica relativa al percorso del canale. Undici di queste fotografie, montate in cornici dorate, vennero inviate alla Esposizione Internazionale di Dublino del 1865, cfr. ASCC, Novara, Libro Mastro A, f.170, 27 aprile 1865.
[51] “La Gazzetta Piemontese”, 31 maggio 1869, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta: Musumeci, 1980, p.365. Ricordo qui che già le immagini dell’Album del Monviso erano corredate di ampie didascalie che mostravano un’attenzione particolare per il tema, recente e scottante, della definizione dei confini con la Francia. I resoconti relativi all’attività di Vialardi che Cassio ha ricavato da fonti giornalistiche coeve sono interessantissimi, sebbene risulti assolutamente incomprensibile il riferimento – contenuto in un articolo della “Gazzetta del Popolo” del 1864 – ad un inesistente “traforo del Moncenisio” che sarebbe stato realizzato nel 1863; lungo quel percorso gli unici lavori che comportarono la costruzione di gallerie (artificiali) furono quelli relativi alla realizzazione della ferrovia a cremagliera nel 1868.