Fotografia e tutela del patrimonio architettonico in Valle d’Aosta nella seconda metà dell’Ottocento (2012)

“Bollettino della Soprintendenza per i beni e le attività culturali” [della Regione autonoma Valle d’Aosta], 8 (2011- 2012),  pp. 293-302

 

Scriveva Alfredo d’Andrade al Prefetto di Torino nel 1888: “Avendo bisogno di consultare le fotografie dei monumenti regionali per il servizio del Ministero della Pub[blic]a Istruzione del quale sono delegato […] regionale per i Mon[ument]i del Piemonte e della Liguria occorremi sovente di dover consultare la raccolta delle fotografie di monumenti piemontesi (in deposito presso questa Prefettura) fatte dai fotografi Berra ed Ecclesia per ordine e conto del Ministero predetto. Sarei quindi a pregare la S.V. Ill.ma a volere impartire gli ordini opportuni perché temporaneamente vengano le predette fotografie depositate presso quest’Ufficio, e ciò a mente della circolare N° 776 del M. Istr. P. in data 6 giugno 1885”[1]. Nonostante il puntuale, burocratico richiamo il Prefetto declinò fermamente l’invito poiché, spiegava, “Le fotografie […] fanno parte dell’inventario di questa R[egi]a Prefettura; ed inoltre ogni qualvolta la Commissione Consultiva Conservatrice dei Monumenti d’Arte e d’Antichità lo crede opportuno ne chiede visione, epperciò bisogna che le abbia costantemente a di Lei disposizione. Sono quindi spiacentissimo di non poter corrispondere alla richiesta della S. V. Ill.ma, ma le dichiaro contemporaneamente, che le predette fotografie sono sempre a sua disposizione”[2]. Questa schermaglia, che si risolverà in data non meglio precisata a favore di D’Andrade, come conferma la presenza di alcune di queste stampe negli archivi fotografici dell’Ufficio beni archeologici della Soprintendenza per i beni e le attività culturali di Aosta e della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Torino[3], fornisce indizi ed elementi in merito a due aspetti non secondari della storia della tutela del patrimonio culturale in Valle d’Aosta: il contrasto, neppure troppo velato e a volte aspro, tra la Regia Commissione conservatrice dei monumenti d’arte e di antichità per la Provincia di Torino (insediata nel 1878) e i neonati (1884) Delegati regionali designati dal Ministero e la rilevanza che si attribuiva alla campagna fotografica documentaria promossa nel 1882 dalla Commissione stessa, testimoniando quale fosse l’idea di ‘monumento’ e quindi di patrimonio da conoscere e tutelare espressa dalla cultura torinese e aostana in quegli anni.

Le vedute, di mano di autori stranieri che per le più diverse ragioni avevano attraversato la Valle richiamando per la prima volta l’attenzione sullo stato dei luoghi (Christian Friederich Müller, 1805 circa; James Pattison Cockburn, 1822-1823)[4], offrivano sporadiche e spesso fantasiose rappresentazioni dei soggetti architettonici, col gusto per il pittoresco a forzare la mano, specialmente nelle tavole dedicate a illustrare le guide, in cui prevaleva l’attrazione tutta romantica per gli elementi naturali, orridi o sublimi. Diverso il caso dell’album di Henriette-Ann Fortescue-Hoare[5], 1817, in cui a una raffigurazione convenzionale e pacata degli elementi naturali corrisponde un’attenzione certo inedita per le architetture anche minori, mentre i castelli già illustrati da Cockburn in una forma scenograficamente idealizzata fanno la loro sistematica comparsa;prima vera anticipazione di uno dei topoi dell’immagine e   dell’immaginario valdostano. I monumenti archeologici romani, appena considerati da Müller (Porta Prætoria, ponte di Châtillon) vennero per la prima volta descritti dal barone De Malzen (1826), in una più ampia rassegna dedicata agli Stati di terraferma del Regno di Sardegna[6], illustrati con belle litografie ricavate significativamente dai disegni di un architetto di gusto neoclassico come Giuseppe Talucchi, appena pochi anni prima che prendesse avvio la ricognizione graficamente più approssimativa ma sistematica di Clemente Rovere, che tra 1829 e 1830 percorse la Valle fornendo descrizioni attendibili dello stato dei luoghi, alternando le vedute alpine con quelle di città e paesi (Aosta, Courmayeur, Montjovet, Verrès, Villeneuve, Piccolo e Gran San Bernardo, il Monte Bianco), alcuni resti romani (Arco e Teatro ad Aosta, l’arco a Donnas, Pont d‘Aël, il ponte di Châtillon), pochi monumenti aostani (cattedrale, castello di Bramafam, Torre del Lebbroso), il ponte-acquedotto di Porossan, ma soprattutto moltissimi castelli: Aymavilles, Châtillon, Fénis, Montjovet, Introd, Quart, Sarre, Saint-Denis, Saint-Pierre, Verrès, mentre molti altri (tra cui Issogne e Ussel) inspiegabilmente mancano[7]. L’iconografia della Valle incominciava ad articolarsi definendo la propria immagine eterogenea e complessa e forse non è un caso che questa fosse dovuta a uno sguardo più topografico che erudito, a un’intenzione esplicitamente documentaria, che per questo si apriva a considerare anche il paesaggio alpino e le montagne, tema che ritroveremo ancora segnalato sin dal titolo nella ben nota tavola litografica di Enrico Gonin, Vues principales de la cité et de la Vallée d’Aoste, des eaux minerales et des plus hautes montagnes d’Europe, 1851, con le vedute alpine impaginate quasi a formare  una veduta circolare, posta a coronamento del panorama del capoluogo[8]. È sufficiente scorrere questa breve serie di esempi per rilevare come non compaiano ancora, in quegli anni, autori  valdostani a descrivere e rivendicare il patrimonio artistico quale elemento costituente dell’identità valdostana, ancora in bilico tra romanità centrifuga, in qualche modo extraterritoriale, e Medioevo centripeto, tutto e fortemente locale, tutto aostano, questione resa ancor più complessa da un altro, forte conflitto identitario: quello tra natura e cultura, tra montagne e architetture. “Combien de fois […] murmurai-je  contre les peintres qui, selon moi, perdaient leur temps près des murs délabrés de nos vieilles tours du moyen âge?”[9]  scriveva Georges Carrel circa gli stessi anni presentando il  suo Panorama Boréal de la Becca di Nona (1855), costretto a disegnarlo di propria mano (con l’aiuto della camera obscura) e a fotografarlo dopo il rifiuto opposto da tutti i pittori a cui lo aveva proposto, tra i quali Conrad Zeller[10]  di Zurigo. Carrel si risolse a “prendre le crayon […] sans avoir aucune notion de dessin, et j’esquissai de mon mieux, à l’aide d’un prisme de foyer de 50 centimètres environ et même du daguerréotype, le Panorama de la Becca di Nona, dont je ne publie qu’un tronçon en forme d’essai”. Questa testimonianza risulta fondamentale anche per quel che riguarda  la nascita della fotografia in Valle d’Aosta, sebbene la data in cui Carrel inizia a praticare l’ancora relativamente nuova e sorprendente tecnica del dagherrotipo debba essere anticipata almeno di alcuni anni se nell’edizione del 1853  del romanzo di Xavier de Maistre, Le Lépreux de la Cité d’Aoste, Aosta, Damien Lyboz, curata dallo stesso Carrel, compare una “Tour du Lépreux Daguerréotypée” (siglata G.C.C.A) certamente dovuta al curatore, che già nel 1845  non solo si era fatto acquistare a Torino, dall’amico Louis  Jules Ransis, dei composti chimici certamente necessari per il trattamento delle immagini come il cloruro d’oro e l’iposolfito di sodio, ma aveva realizzato un ritratto al dagherrotipo di Émilie Argentier in tenuta da alpinista, poi appartenuto al figlio Anselme Réan e un altro non meglio specificato “portrait au daguerrotype” di un comune amico del prevosto del Gran San Bernardo, Joseph Deléglise[11]. La bella veduta della Torre del Lebbroso, che per ora conosciamo solo nella versione incisa, potrebbe allora essere la più antica fotografia di un monumento aostano ed è rilevante notare che le motivazioni da cui nacque questo interesse, questa prima eccezionale realizzazione, fossero storico letterarie piuttosto che storico artistiche, a  conferma delle posizioni del canonico.

Si dovrà attendere quasi un ventennio perché fosse affidato alla fotografia il compito quasi sistematico di illustrare i “principali Monumenti antichi” della Valle, seguendo una direttrice geografica che partendo da Pont-Saint-Martin giungeva sino ad Aosta: La vallée d’Aoste monumentale: photographiée et annotée historiquement, che i due avvocati e “amateur photographers J. Riva e P. Meuta” (questo l’ordine con cui firmano l’introduzione, mentre al frontespizio è “Meuta e Riva”), pubblicarono ad Ivrea presso la tipografia Garda nel 1869[12], un bell’album contenente trentuno stampe all’albumina corredate di brevi testi esplicativi da loro stessi redatti, in francese[13], che potrebbe aver avuto come modello editoriale l’analogo Turin ancien et moderne che Henri Le Lieure aveva pubblicato solo due anni prima in un più lussuoso formato, affiancando alle vedute “variati articoli dettati da distinti scrittori”[14].

I monumenti romani rappresentati erano numerosi (Pont-Saint-Martin, Donnas, Châtillon, Liverogne, il Pont d‘Aël e, per Aosta, Arco di Augusto, mura romane, Porta Prætoria, il Teatro), forse risentendo degli studi di Jean-Antoine Gal (Coup-d’œil sur les antiquités du Duché d’Aoste) e di Carlo Promis, Le antichità di Aosta: Augusta Prætoria Salassorum, misurate, disegnate, illustrate da Carlo Promis, entrambi editi nel 1862, ma le presenze medievali erano in assoluto prevalenti, nonostante alcune clamorose e apparentemente ingiustificabili assenze come Sant’Orso e, ancora, Issogne. Risiede nella natura fotografica dell’opera il valore storico documentario di questa impresa, diverso e più attendibile di quanto non potesse essere quello reso possibile dalla sistematica raccolta iconografica del solo, vero e qualificato antecedente: La Vallée d’Aoste che Édouard Aubert aveva pubblicato a Parigi, presso Amyot, nel 1860, dopo quasi un decennio di perlustrazioni e indagini, svolte anche con la collaborazione di Jean-Antoine Gal e specialmente di Georges Carrel[15]. Quelle che compongono l’album sono fotografie di grande interesse, che mostrano una notevole cura compositiva, attenta specialmente a restituire le relazioni spaziali piuttosto che le singole architetture isolate dal contesto, seguendo in questo, e a volte quasi citando proprio le tavole di analogo soggetto pubblicate da Aubert (si confrontino, a puro titolo di esempio, la ripresa di Pont d‘Aël o quella dell’Arco di Augusto, con cui condividono la distanza e il punto di vista). Diversamente dalle incisioni, queste fotografie possiedono come si è detto anche un più stringente valore documentario, poiché descrivono in modo necessariamente, culturalmente più fedele, lo stato dei luoghi negli anni immediatamente successivi all’Unità, vale a dire ben prima che l’interesse erudito per il patrimonio archeologico e architettonico valdostano producesse interventi di restauro della più diversa natura e livello qualitativo. La produzione dei fotografi valdostani (o attivi in Valle) in quel periodo è ancora quasi del tutto sconosciuta, ma risulta difficile credere che la stereoscopia del castello di Verrès realizzata da Julien Vuillier di Courmayeur intorno al 1870 non facesse parte di una serie più ampia di cui oggi si è persa traccia[16], utile anche per comprendere quanto gli studi e le pubblicazioni erudite potessero aver influito su una produzione decisamente commerciale e a basso costo quale era quella delle stereoscopie e, ancor più, delle immagini in formato carte de visite.

Erano gli anni in cui il nuovo stato unitario iniziava a prestare una precisa attenzione alla conoscenza (e in parte alla tutela) del patrimonio architettonico. Il 6 maggio 1870  Cesare Correnti, ministro della Pubblica Istruzione, scriveva ai presidenti delle Accademie di Belle Arti affinché gli fornissero “con sollecitudine una nota particolareggiata di tutti gli edifici pubblici (cioè non appartenenti a privati cittadini) di qualsiasi forma, sacri o profani, esistenti nel distretto di codesta Accademia, i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali”, precisando in una successiva comunicazione, indirizzata alle Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti, di essere “mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa”[17].  A queste lettere di intenti fece seguito il decreto ministeriale del 3 agosto dello stesso anno, a cui il Presidente dell’Accademia Albertina di Torino, conte Marcello Panissera di Veglio rispose dichiarando tutta la disponibilità “ad additare al Governo le opere e gli edifizi più degni di conservazione e di restauro per antichità, per memorie storiche, per interesse artistico che si trovano in Piemonte”, dove il richiamo ai concetti di conservazione e restauro introduceva una importantissima variazione nella gerarchia dei parametri di giudizio, ormai non più meramente conoscitivi ed eruditi. La Commissione, presieduta da Panissera e composta da Francesco ed Enrico Gamba, Bartolomeo ed Andrea Gastaldi, Federico Pastoris, Vittorio Avondo, Carlo Ceppi, Edoardo Arborio Mella e Carlo Felice Biscarra, comunicò l’esito delle proprie indagini alla Giunta di Belle Arti istituita presso il Ministero, Sottocommissione per i Monumenti Nazionali, il successivo 27 aprile 1871; per la Valle d’Aosta, nella selezione operata dal “pittore e antiquario” Avondo, erano indicati solamente la chiesa e la “collegiale” di Sant’Orso, il duomo di Aosta, e i castelli di Fénis, Issogne e Verrès, non considerando quindi alcuna testimonianza di architettura romana, lontana dagli interessi del Commissario a cui era stata assegnata la ricognizione di questo territorio[18].  L’esito di questa campagna nazionale venne pubblicato nel 1875 sotto forma di Elenco dei monumenti nazionali medievali e moderni[19], mentre la parte relativa al Piemonte, ovviamente comprensiva della Valle d’Aosta, venne edita nel 1879 da Carlo Felice Biscarra, col titolo, a quella data un poco fuorviante, di Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte[20]. Frattanto il Ministero aveva emanato il Decreto di istituzione delle Commissioni conservatrici, su modello fiorentino, modificandone nel contempo la giurisdizione, che passava da scala regionale a provinciale, ciò che portò nel triennio 1874-1876 a un incremento di ben ventisette nuovi organismi locali, che vennero ad aggiungersi a quelli già attivati nel 1866, legati da un programma unitario ma nei fatti fortemente differenziati a seconda delle specificità locali.

La Regia Commissione conservatrice dei monumenti d’arte e di antichità per la Provincia di Torino venne istituita il 18 maggio 1876 avendo per membri sette soci della Società di Archeologia[21]  che divenne “organo della commissione conservatrice dei monumenti di Belle Arti e di Antichità”, pubblicando periodicamente nei propri “Atti” i principali argomenti trattati nelle diverse riunioni, presiedute dal Prefetto. Dal 31 ottobre 1878 al 15 luglio 1879 la Commissione tenne quattro sedute; nel corso della prima, oltre a discutere del progetto di restauro dell’ “antico granaio militare di Aosta”, decidendo di attendere una specifica relazione di Promis, venne comunicata “la richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione di avere le fotografie dei monumenti medievali esistenti in questa provincia, e che con la scorta dell’elenco dei monumenti, approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti, volesse la Commissione indicare per ciascuno dei più importanti monumenti le figure d’insieme e i dettagli che meglio valgano a darne una chiara idea”. I membri Biscarra e Fabretti fecero notare come quell’elenco fosse incompleto e opinabile, mancava infatti come si è detto ogni riferimento agli edifici romani e per questo affidarono poi allo stesso Biscarra il compito di “migliorarlo”[22].  Il ricorso alla fotografia nelle campagne di documentazione archeologica non era estraneo all’ambito operativo della Società di Archeologia e Belle Arti (poi SPABA), come risulta dai rendiconti di questi anni, che registrano acquisti da Felice Alman e dai fratelli Bruneri[23], ma l’iniziativa ministeriale costituiva, per sistematicità e chiarezza di impianto, un incommensurabile salto di qualità, ben esplicitato dalle indicazioni contenute nel prosieguo della stessa circolare: “Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30×0,40”[24].  Con questo atto, le cui conseguenze iniziano appena a essere conosciute e studiate, lo stato italiano si poneva sulla scia delle più avanzate iniziative europee, sviluppate a partire dal modello costituito dalla Mission Héliographique promossa dal governo francese nel 1851[25]. Non sono sinora note le ragioni per cui intercorse un così ampio lasso di tempo tra la formulazione della richiesta  ministeriale e la sua attuazione, ma si dovette attendere la seduta del 18 giugno 1881 affinché la Commissione conservatrice deliberasse di “invitare i migliori fotografi ad una specie di concorso. Agli artisti prescelti si associerebbe [sic] un membro della Commissione per assisterli nelle operazioni di rilievo, e per indicare la parte di maggior importanza artistica da riprodurre”[26] e solo nella successiva riunione in data 8 febbraio 1882 la Commissione assegnava a Giovanni Battista Berra e Vittorio Ecclesia “l’incarico di rilevare i monumenti esistenti nella Provincia di Torino”, sottoponendo al Ministero le condizioni del contratto già approvato dalla Commissione stessa, “commettendo all’uno [Berra] i rilievi dei monumenti dei circondari di Torino e di Susa, e all’altro [Ecclesia] quelli dei circondari di Aosta e d’Ivrea, assistiti dai signori Biscarra e [Crescentino] Caselli”[27].

Le ricerche archivistiche sinora condotte non ci hanno purtroppo consentito di reperire l’elenco dei “migliori fotografi” piemontesi invitati al concorso, quindi neppure di ricostruire il dibattito che portò alla scelta dei due professionisti incaricati o alle caratteristiche del loro contratto, ma la scelta finale appare più che motivata in relazione al panorama del periodo. Nonostante la rilevanza del suo operato, risultano ancora sconosciute le ragioni che portarono Giovanni Battista Berra (Chivasso, 1811 o 1817 – Torino, 1894) ad abbandonare una pratica pittorica di discreta qualità (si veda il suo Ritratto di famiglia, 1856)[28]  per dedicarsi compiutamente alla fotografia, così come sono contraddittorie le informazioni relative alle date in cui avrebbe assunto la direzione della Fotografia Subalpina, fondata da Domenico Berra e Leone Mecco nel 1862, studio attivo sin dai primi anni nella documentazione delle opere d’arte, a partire dalle innovative illustrazioni per gli Album della Società Promotrice delle Belle Arti di Torino nel 1868 e oltre, ampiamente celebrate dalla stampa locale: “Il Berra è uno dei più distinti artisti di Torino […] come fotografo poi egli dà al pubblico dei lavori finiti, eleganti, irreprensibili. Speriamo che la fotografia del quadro del Gamba verrà posta in vendita, e non vi sarà amico dell’artista, ammiratore del quadro che non vorrà farne acquisto. La tela ce la pigliano gli stranieri, conserviamone noi la fotografia”[29]. Negli anni successivi la fama del fotografo si consolidava sia per la riconosciuta qualità delle produzioni autonome sia attraverso la realizzazione di importanti commesse, quali alcune riprese per l’album che la Città di Torino presentò all’Esposizione di Vienna del 1873 e il grande album dedicato ai dipinti e alle sculture esposte alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, Torino 1880, di cui strategicamente donò due copie a Umberto I e al Municipio di Torino[30].

Non meno noto e stimato era Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe, 1847-  Asti, 1928), sebbene da alcuni anni, dopo un importante apprendistato e avvio di attività torinesi[31], si fosse trasferito ad Asti dove nel 1878 aveva realizzato un bell’album contenente sedici vedute della città, premiato a Napoli nello stesso anno, mentre subito dopo “riprodusse, sotto la direzione degli ispettori degli scavi e monumenti antichi di Casale ed Asti, alcuni dei più importanti monumenti dei tempi andati […] rappresentati nell’assieme e nelle loro parti più importanti […]. Consta questa raccolta di 39 tavole in dimensioni non comuni (510x 400 mm)”[32]. L’importante documentazione del patrimonio architettonico monferrino, condotta per incarico dei Commissari astigiani dovette costituire la ragione della scelta dei colleghi torinesi, che proprio ad Ecclesia affidarono la parte più consistente del lavoro. La campagna fotografica, certamente avviata ad agosto[33],  venne conclusa entro l’inverno e nella seduta del 18 dicembre 1882 la Commissione conservatrice dei monumenti prese “cognizione delle fotografie dei monumenti esistenti nei Comuni della Provincia, eseguite dai fotografi cav. Battista Berra e Vittorio Ecclesia, lodandone il lavoro”[34], mentre una nota redazionale del periodico “Arte e Storia”, nel numero del maggio successivo, descrive la consistenza di questa serie di “grandi fotografie illustrative delle antichità della provincia di Torino che formano una raccolta specialissima di numero 103 grandi tavole [nel formato 30×40 cm richiesto dal Ministero] splendide per esecuzione e per impostazione di documento storicoartistico. L’egregio Biscarra presentò al Ministero della Pubblica Istruzione tale raccolta che figurerà nella grande esposizione generale italiana di Torino nella sezione di Architettura e desterà certamente vivo interesse negli estimatori delle artistiche antichità”[35].  Ad Ecclesia era stato affidato il compito più impegnativo sia per estensione territoriale dell’area considerata sia per il totale delle riprese commissionate, che per la sola Valle d’Aosta (escludendo quindi Ivrea) assomma a ben sessantatre, relative a diciotto diversi monumenti, prevalentemente aostani (undici)[36] dei quali in alcuni casi secondo una consuetudine comune a tutti gli studi fotografici ottocenteschi sono note anche stampe di dimensioni minori, e quindi più economiche, ricavate da riprese con apparecchi di differente formato poiché la stampa a contatto, allora la sola possibile, non consentiva di ricavare per proiezione, a partire da un unico negativo, quelle stampe di differente grandezza che erano necessarie a soddisfare le diverse esigenze di mercato[37]. Confrontando la campagna di Ecclesia con quella di Meuta e Riva[38] e non considerando per ora la qualità delle immagini, su cui torneremo, risulta evidente quanto fossero diversi gli scopi e di conseguenza le impostazioni. Mentre l’Album del 1869 voleva offrire uno sguardo antologico sulle architetture della Valle, con una scelta ampia e variegata ma dedicando a ciascun monumento una sola immagine, la regia della Commissione conservatrice impose a Ecclesia una selezione più rigida, dalla quale furono esclusi ad esempio i castelli “minori” e l’arco di Donnas, ma una lettura più analitica dei singoli edifici: sei e sette riprese rispettivamente per la cattedrale Santa Maria Assunta[39] e per Sant’Orso; quattro per la Porta Prætoria; dieci per Verrès e addirittura quindici per Issogne, con uno squilibrio certamente dovuto all’influenza sui membri della Commissione di Vittorio Avondo, con cui Ecclesia avrebbe realizzato due anni dopo uno specifico album dedicato al castello[40]. Nonostante questi squilibri il repertorio si presentava ben più ampio e articolato di quello compreso nell’Elenco del 1871, in particolare per la rilevante presenza delle più importanti architetture romane, sulle quali aveva recentemente richiamato l’attenzione il canonico Édouard Bérard, segretario dell’Académie Saint-Anselme, pubblicando il proprio, ricchissimo repertorio nella forma di una lunga lettera ad Ariodante Fabretti, anche allo scopo di “indiquer à S.E. le Ministre de l’Instruction Publique […]les réparations urgentes qu’exigent les antiquités de la vallée [sic] d’Aoste”[41].  Posto che il programma delle riprese, vale a dire l’elenco dei soggetti e dei loro eventuali dettagli venne certamente stabilito dalla Commissione conservatrice e dal membro incaricato di assistere il fotografo, Caselli, il confronto con le immagini comprese nell’album di Meuta e Riva, evidenzia sostanziali differenze di impostazione delle riprese, esaltate anche dall’uso di  lastre di grande formato (317×419 mm) alla gelatina bromuro d’argento. Ecclesia ha adottato punti di vista sempre ravvicinati, riducendo il contesto ai minimi termini per migliorare la leggibilità dell’edificio di volta in volta considerato o per esaltarne la monumentalità, come accade ad esempio nella ripresa scorciata di una porzione del fronte occidentale dell’Arco di Augusto o nella vista assiale dell’arcata del ponte romano di Pont-Saint-Martin, in cui ha adottato efficacemente i modi delle più innovative riprese di manufatti industriali in ferro, come i ponti ferroviari. Anche quando le condizioni ambientali imponevano un identico punto di vista, come per i resti del ponte di Châtillon le differenze, sebbene più sottili, risultano fondamentali: la scelta del momento della giornata, e quindi dell’illuminazione, rende perfettamente leggibili i resti altrimenti in ombra. Nella maggior parte delle riprese le luci quasi zenitali, le ombre sempre morbide, evidenziano i volumi senza celare neppure il minimo dettaglio, come nella migliore pratica e nella già allora consolidata tradizione della fotografia di architettura. Poi su suggerimento dell’architetto si trovava sempre un angolo verticale cui far aderire la stadia, portata dal giovanissimo assistente di Ecclesia che compare in molte di queste immagini, quasi sempre la sola figura ad animare la scena. Posto perfettamente in chiave all’arco, a misurarne direttamente spessore e altezza della spalletta nella ripresa da valle di Pont-Saint-Martin, o in collocazioni meno evidenti ma sempre appropriate, il riferimento metrico venne utilizzato in quasi tutte le riprese, per consentire una prima sommaria restituzione grafica degli edifici fotografati, alcuni dei quali erano proprio in quegli anni oggetto di particolari attenzioni, come la Tour du Pailleron, minacciata addirittura di distruzione, o la Porta Prætoria, di cui la serie documenta indirettamente anche i discussi interventi  in corso, su progetto dell’ing. Chabloz e del canonico Bérard, rispetto ai quali il Ministero aveva già chiesto un parere alla Commissione il 29 maggio 1879 e che saranno poi rimossi da Alfredo d’Andrade nell’ottobre del 1892[42].

 

 

Note

[1] Minuta di lettera, datata 14/11/1888, ASTO, Corte, Fondo D’Andrade, m. 77, Carteggio dell’Ufficio, Fotografie.

[2] Lettera, s.d., ASTO, Corte, Fondo D’Andrade, m. 77, Carteggio dell’Ufficio, Fotografie, f. 2.

[3] Il testo che qui si presenta costituisce l’esito parziale delle ricerche svolte a supporto della campagna di catalogazione dei fototipi storici conservati presso l’Archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Torino, promossa dal Dipartimento Soprintendenza per i beni e le attività culturali dell’Assessorato Istruzione e Cultura della Regione Autonoma Valle d’Aosta.

[4] Il tema della costruzione iconografica dell’identità della Valle d’Aosta è stato diversamente trattato in Valle D’Aosta nelle immagini dei viaggiatori dell’ottocento : collezione della Soprintendenza per i beni culturali della regione autonoma della Valle D’Aosta, catalogo della mostra permanente (Verres), a cura di Aldo Audisio. Torino: Museo nazionale della montagna, 1986; Marco  Cuaz, Valle d’Aosta. Storia di un’immagine: le antichità, le terme, la montagna alle radici del turismo alpino. Roma – Bari,Laterza, 1994; Daria Jorioz, Souvenirs d’ltalie. lconografia del Grand Tour nelle collezioni d’arte della Regione Autonoma Valle d’Aosta, in Memorie del Grand Tour. Viaggio in ltalia nelle fotografie degli archivi Alinari e nelle collezioni d’arte della Regione autonoma Valle d’Aosta, catalogo della mostra (Aosta, MAR, 19 dicembre 2008 – 3 maggio 2009), a cura di Angelo Maggi. Firenze: Alinari, 2008, pp. 14-17; Piero Malvezzi, Viaggiatori inglesi in Valle d’Aosta (1800-1860).  Milano: Ed. di Comunità, 1972; Ada Peyrot, La Valle d’Aosta nei secoli, vedute e piante dal IV al XIX secolo. Torino: Tipografia Torinese editrice, 1972; Ada Peyrot, Piero Malvezzi, Efisio Noussan, Immagini della Valle d’Aosta nei secoli, vedute e piante dal XVI al XIX secolo. Torino: Tipografia Torinese, 1983. Come ha ricordato Malvezzi 1972, p. 16, “La prima letteratura turistica sulla Valle d’Aosta, è letteratura inglese e non valdostana o piemontese.”

[5] Si vedano: Penelope Le Fanu-Hughes, One of your best pupils, Francis Nicholson and the honorable Henrietta-Ann Fortescue, in memory of Piero Malvezzi, “The Old Water-Colour Society Club”, 63 (1994), pp. 51-69; Pierre Tucoo-Chala, Les Pyrénées en 1818 : Dessins  inédits d’Henrietta-Ann Fortescue-Hoare, in Une Anglaise aux Pyrénées : Lady Fortescue, catalogo della mostra (Pau, Musée national du château, février-mars 1996). s.n. Portet-sur-Garonne, 1996; Giuseppe Garimoldi, Daniele Jalla, a cura di, Henrietta Anne Fortescue: viaggio in Valle d’Aosta, settembre dicembre 1817, catalogo della mostra (Forte di Bard, 2006). Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2006.

[6] De Malzen, Monumens d’antiquité romaine dans les états de Sardaigne en terre-ferme par M. le Baron de Malzen, Chevalier de l’Ordre de Malte, Ciambellan [sic] de S. M. le Roi de Bavière, et son Chargé d’affaires à la Cour de Sardaigne. Turin: s.n., 1826. I soggetti valdostani comprendevano tra gli altri il ponte di Pont-Saint-Martin, l’arco di Donnas, il ponte di Saint-Vincent, il Teatro di Aosta e il Pont d’Aël, anticipando l’attenzione per alcuni degli edifici poi studiati con ben altro rigore da Carlo Promis, Le antichità di Aosta: Augusta Prætoria Salassorum, misurate, disegnate, illustrate da Carlo Promis. Torino: Stamperia Reale, 1862.

[7] Cristina Sertorio Lombardi, a cura di, Il Piemonte antico e moderno delineato e descritto da Clemente Rovere. Torino: Reale Mutua, 1978.

[8]  Più convenzionale risulta, in questo senso, la serie litografica di Margherita Cornagliotto edita dai F.lli Doyen nel 1848: 1. Ponte acquedotto romano presso Aymavilles; 2. Castello di Sarre; 3. Castello di Fénis; 4. Castello di Quart; 5. Castello di Saint-Pierre; 6. Castello di Aymavilles; 7. Torre di Bramafam; 8. Acquedotto di Porossan; 9. Veduta generale di Aosta; 10. Cattedrale di Aosta; 11. Teatro romano di Aosta; 12. Ponti di Châtillon, cfr. Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, III, scheda n. 1431.

[9]  George Carrel, Les Alpes Pennines dans un jour, soit, Panorama boréal de la Becca de Nona depuis le Mont-Blanc jusq’au Mont-Rose.  Aoste: Lyboz, 1855, p. 7 passim. Mentre il frontespizio indica un editore aostano, la copertina dell’esemplare consultato presso    la Biblioteca Reale di Torino recita: The Pennine Alps viewed in a day’s journey. Panorama de la Becca de Nona Vallée d’Aoste, dess.ne [sic] d’après nature pendant l’été de 1854. Turin: Lit. F.lli Doyen, 1855, a testimonianza di una doppia edizione, tale da soddisfare la maggior parte dei possibili acquirenti stranieri. Anche il fotografo francese Aimé Civiale avrebbe realizzato un panorama fotografico dalla Becca di Nona circa 10 anni dopo, il 9 luglio 1866, ospite proprio di Carrel, cfr. Carla Fiou, Daria Jorioz, Georges Carrel: Scienza e religione in Valle d’Aosta nell’Ottocento. Aosta:  Le Chateau, 1999, p. 102.

[10] Johann Conrad Zeller (Hirslanden, 1807 Zurigo, 1856) nato da una famiglia di commercianti, dopo aver preso lezioni di disegno da Konrad Gessner, nel 1832 rinunciò alla sua carriera di imprenditore e si trasferì a Roma, dove venne introdotto da Hans Heinrich Keller nella cerchia di Thorvaldsen, Overbeck, Johann Anton Koch e Wolfensberger, per rimanervi sino al 1847, anno del suo ritorno a Zurigo.

[11] Fiou, Jorioz 1999, in particolare il paragrafo Fotografia (pp. 100-103) redatto da Jorioz. Secondo Albert-Marie Careggio, Le clergé valdôtain de 1900 à 1984. Notices biographiques.  Aoste: Imprimerie valdotaine, 1985, p. 45, segnalatomi da Maria Cristina Fazari che qui ringrazio, fu invece un altro religioso, Jean-Pierre Carrel (Valtournenche, 1826 Aosta, 1908), nipote di George, il primo ad utilizzare il dagherrotipo in Valle, ma credo che   tale attribuzione a mio parere errata, anche per ragioni cronologico   biografiche possa derivare dal ricorso a fonti piuttosto tarde, forse i soli necrologi del 1908, che verosimilmente riportavano in modo impreciso eventi ormai lontani più di mezzo secolo.

[12] Il volume ebbe immediata notorietà, tanto da essere compreso già nella bibliografia a corredo della terza edizione di John Ball, A guide to the Western Alps. London: Longmans, Green and Co., 1870. Per una sintetica descrizione dell’album si rimanda a Pietro Fioravanti, Daniela Giordi, ll restauro di una copia del volume fotografico La Vallée d’Aoste monumentale, photographiée et commentée par P. Meuta et J. Riva, edito nel 1869 a lvrea dalla tipografia Garda, “Bollettino della Soprintendenza per i beni e le attività culturali”, 5 (2008 – 2009), pp. 310-315. Un esemplare dell’album e una selezione di immagini (in riproduzione) erano già stati esposti alla mostra tenutasi presso il Museo Archeologico Regionale nel 2008-2009 e pubblicati in Memorie del Grand Tour 2008.

[13] “Tutti i castelli, i ponti, gli acquedotti sono annotati, con alcuni cenni storici altrettanto esatti quanto concisi, e se un neo volessimo trovare in questo lavoro gli è quello di avere scritto le annotazioni in francese, mentre gli autori sono due buoni italiani; ma questo diffettuccio va spiegato come un tributo che essi vollero rendere ai buoni Valdostani descrivendo il loro paese colla lingua da essi parlata.”, Salvatore Olivetti, La Vallée d’Aoste monumentale, photographiée et annotée historiquement, par Riva et Meuta, “Gazzetta Piemontese”, n. 241, lunedì 30 agosto 1869, p. 3.

[14] Redazionale, Torino antico e moderno, “Gazzetta Piemontese”, n. 301, 8 dicembre 1867, p. 2. Per una riedizione del volume si rimanda a Michele Falzone Del Barbarò, a cura di, Henri Le Lieure maestro fotografo dell’Ottocento. Turin ancien et moderne. Milano: Fabbri, 1987.

[15] Peyrot 1972; Fiou, Jorioz 1999, p. 9. Qui si coniugavano per la prima volta paesaggio e storia. Le 90 incisioni pubblicate costituiscono un vero e proprio catalogo illustrato del patrimonio architettonico anche minore (Gressan, Porossan, Gignod, Châtelard, ecc.) oltre a molte vedute di paesi e paesaggi alpini. La presenza di Carrel accanto ad Aubert consentirebbe di formulare ipotesi rispetto al possibile uso della fotografia, del dagherrotipo in particolare, quale fonte intermedia per le incisioni, che il frontespizio dichiara ricavate “d’après les dessins de l’auteur”, sul modello delle parigine Excursions daguerriennes: vues et monuments les plus remarquables du globe (1841-1843) di Noël-Marie Paymal Lerebours e delle Vues d’Italie d’après le Daguerréotype pubblicate a Milano nel 1840-1847 dalla ditta Ferdinando Artaria e Figlio, ma non è questa l’occasione per condurre i necessari approfondimenti.

[16] l fotografi della Valle d’Aosta 1870-1940, catalogo della mostra (Aosta, Tour Fromage, 1986),  a cura di Gianfranco Maccaferri. Aosta: Regione Valle d’Aosta, 1986, p. 48. Di Vuillier è nota anche una veduta della Torre del Lebbroso, 1870 ca, in formato carte de visite, ma sono note anche due stereoscopie, dedicate rispettivamente a Fénis e a Ussel, realizzate circa gli stessi anni da uno dei più importanti studi fotografici europei: Adolphe Braun di Dornach.

[17] Lettere rispettivamente del 6 maggio e del 12 agosto, Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, m. AABA TO599, “Arte in Piemonte”. Salvo diversa indicazione, tutti i documenti di seguito citati sono  compresi in questo fondo.

[18] L’assenza di sistematicità e il prevalere degli interessi dei singoli studiosi connotano tutta la redazione di questo primo elenco di beni.

[19] Elenco dei monumenti nazionali medievali e moderni.  Roma: Forzoni e C. Tipografia del Senato, 1875.

[20] Carlo Felice Biscarra, Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte, “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino”, II, 1878, pp. 255-279; lo scarto tra compilazione e pubblicazione è confermato dai dati relativi a Issogne, che nel testo è ancora indicato di proprietà del “barone di Vautheleret” mentre in nota si registra ormai l’acquisto di Avondo “verso il 1872” (p. 264).

[21] Cfr. “Gazzetta Piemontese”, n. 311, 10 novembre 1876, p. 2. Va quindi corretta l’informazione contenuta in Ariodante  Fabretti, Atti della Società (1879),  “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino”, III, 1879, Torino, 1881, pp. 9-15, che parla di 18 maggio 1878, esito forse di un banale refuso, successivamente accolto dagli studiosi che hanno utilizzato questa fonte. Membri della Commissione erano Nicomede Bianchi, Carlo Felice Biscarra, Gaudenzio Claretta, Ariodante Fabretti, Francesco Gamba, Andrea Gastaldi, Vincenzo Promis ed Ercole Ricotti.

[22] Fabretti 1881, pp. 10-11. I testi pubblicati negli “Atti” e, ancor più, alcuni documenti relativi alle sedute della Società rappresentano fonti  imprescindibili anche per la ricostruzione del vivace dibattito intorno ai restauri aostani.

[23] Archivio della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, m. 58/4, Rendiconti delle spese 1874-1910. Gli acquisti erano fatti da tale Francesco Pianta, che i documenti indicano come aiutante di un non meglio definito “fotografo”, mentre altre fotografie erano realizzate da E.  Mancarelli. L’uso però doveva essere piuttosto saltuario e incerto se ancora nel 1879 Enrico Gamba, discutendo di “pitture murali antiche non conosciute ancora” suggeriva di “mettere in pratica il metodo dei lucidi, da eseguirsi con tutta fedeltà sugli originali, da ridursi poi col mezzo della fotografia in una data proporzione a convenirsi per la pubblicazione, incidersi poscia od eseguirsi in litografia a contorni con massima cura per la riproduzione esatta del carattere dell’originale”; proposta sostenuta anche da Pastoris che citava “ad esempio molti studi visti da lui posti in pratica dal D’Andrade anche per quanto riguarda l’arte ornamentale”, osservazione che getta nuova luce sulla precocità del ruolo svolto da D’Andrade quale modello di riferimento metodologico per un’intera generazione di studiosi piemontesi, cfr. Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, m. AABA TO599, “Arte in Piemonte”, Verbali della Commissione Conservatrice.

[24] Il testo della comunicazione ministeriale, non reperito negli archivi torinesi, è qui citato dalla copia conservata presso l’Archivio di Stato di Lecce, Prefettura, I serie, I vers., b. 44, f. 413. Va sottolineato l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese per decenni a venire tanto che ancora nel 1904 Santoponte dovrà richiamare esplicitamente la necessità metodologica di dotarsi di materiali  altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte [individuando] i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali», Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id., Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni.  7 (1905). Roma: Tip. Della Casa Edit. Italiana, pp. 38-48.

[25] Anne De Mondenard, La Mission héliographique: cinq photographes parcourent la France en 1851. Paris: Monum – Éditions du patrimoine,  2002.

[26] Ariodante Fabretti, Atti della Società (1880-1882), “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino”, 4 (1883), p. 13.

[27] Ibidem.

[28]  In  La borghesia allo specchio: il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Cavour, 26 marzo 27 giugno 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2004, p. 171.

[29] Red., in “Gazzetta Piemontese”, n. 85, 26 marzo 1870, p. 2, corsivo di chi scrive.

[30] Per una prima ricostruzione dell’attività di Berra cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Allemandi,  1990, p. 358, pur con imprecisioni dovute “alla non sempre precisa segnalazione delle guide”. È infatti probabile che il “pittore” di cui parla la Guida Galvagno del 1872 fosse proprio Giovanni Battista, che morì nel 1894 mentre l’attività dello studio (Fotografia Subalpina) sarà proseguita dalle due figlie Celestina Berra Bussolino e Gustava Berra Favale, cui succederanno prima Baratelli e quindi Vittorio Rogliatti, cfr. P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Paolo Venturoli , a cura di, Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898. Torino: Allemandi,  2003, pp. 79-98. Ricordiamo che nel 1880 venne anche esposta una ricca selezione di      opere d’arte decorativa, tra cui alcuni oggetti provenienti dal Tesoro della cattedrale di Aosta, da Sant’Orso e dalla chiesa di San Biagio di Villeneuve, poi pubblicata nella cartella di cento splendide tavole in fototipia L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880. Torino: F.lli Doyen, 1882, senza indicazione dell’autore delle riprese.

[31] Secondo quanto riportato in un foglio pubblicitario molto tardo (1907) Ecclesia avrebbe avuto una prima fase di apprendistato torinese presso Alberto Luigi Vialardi, per divenire quindi, dal 1864, operatore presso l’importante studio di Henri Le Lieure, prima di aprirne uno proprio in società con Rondoni, cfr. Miraglia 1990 p. 379; Pierluigi Manzone, Un repertorio dei fotografi piemontesi 1839-1915, in Id., a cura di, Fotografi e fotografia di provincia. Studi e ricerche sulla fotografia nel Cuneese.  Cuneo: Biblioteca civica di Cuneo – Nerosubianco, 2008, ad vocem.

[32] Giovanni Minoglio, Monumenti archeologici astigiani e casalesi, “Gazzetta Piemontese”, n. 21, 21 gennaio 1880, p. 2.

[33] Il 24 agosto Federico Pastoris, ospite a Issogne, scriveva ad Avondo che Ecclesia aveva eseguito otto foto per il Ministero e quattro per conto suo “e fece bene, perché son certo che a quanti le vedranno piaceranno assai e serviranno a dare del tuo castello un’assai buona idea”, cfr. Sandra  Barberi , a cura di, Il castello di Issogne in Valle d’Aosta. Diciotto secoli di storia e quarant’anni di storicismo.  Torino: Allemandi,  1999, p. 93, n. 111. Le ricognizioni di Ecclesia dovettero incrociarsi con quelle di Carlo Nigra, che operava in preparazione del progetto per il Borgo medievale di Torino; così mentre lui fotografava la facciata e lo scalone di Fénis, Nigra riprendeva lo stesso scalone e la cappella adibita a fienile, non considerata dal primo.

[34] “Gazzetta Piemontese”, n. 2,  2 gennaio 1883, p. 3; cfr. anche Fabretti 1883, p. 16.

[35] Red., Torino Antichità torinesi,  “Arte e Storia”, 2 (1883), maggio, p. 168. Per l’elenco delle opere esposte si rimanda a Esposizione Generale Italiana, Arte contemporanea, Catalogo, 1884, p. 123 passim. Nella stessa occasione, nella cosiddetta casa di Avigliana del Borgo medievale, fu installato un chiosco per la vendita delle fotografie ricordo dell’esposizione, con gabinetto di camera oscura, gestito proprio da Ecclesia.

[36] Si fornisce di seguito l’elenco dei soggetti valdostani realizzati da Ecclesia. Aosta: Anfiteatro, Arco di Augusto, Cattedrale, Collegiata di Sant’Orso, Mura romane, Ponte romano (pont de pierre), Porta Pretoria, Priorato di Sant’Orso, Teatro, Torre di Bramafan, Torre del Pailleron. Aymavilles: Pont d‘Aël. Chatillon: Ponte romano. Fénis: Castello. Issogne: Castello. Pont-Saint-Martin: Ponte romano. Saint-Vincent: Ponte romano, resti. Verrès: Castello.

[37] Quale ulteriore indizio della loro circolazione si segnala che anche delle stampe di maggior formato sono note diverse edizioni, a volte distinte da più o meno significative variazioni del titolo o da altri interventi, verosimilmente realizzate in momenti e per fini diversi. Si vedano a titolo di esempio le due versioni della Tour du Pailleron, di cui quella non virata (e non numerata) presenta una rozza mascheratura in corrispondenza del tetto e dello spigolo nordorientale.

[38] Non può essere considerato in questo confronto l’album di Vittorio Besso, La Valle d’Aosta, 1880 ca, dedicato a Umberto I, conservato presso la Biblioteca Reale di Torino, che contiene solo bellissimi paesaggi prevalentemente alpini (Gressoney, Valtournenche) e tre fotografie di stambecchi e camosci imbalsamati.

[39] Da alcune di queste riprese vennero tratte cartoline ancora all’inizio del ’900: si veda ad esempio quella relativa al portale della cattedrale, edita da Garlanda di Biella, conservata nel Fondo Valle d’Aosta della Soprintendenza torinese.

[40] P. Cavanna, a cura di, Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei-GAM, 2005. Anche in questa occasione emerge la grande attenzione di Avondo per i possibili risvolti commerciali delle proprie iniziative culturali: non può essere casuale la scelta di pubblicare l’album nello stesso anno dell’Esposizione e in particolare della realizzazione del Borgo medievale, del cui gruppo di progetto lo stesso Avondo faceva parte.

[41] Édouard Bérard, Antiquités romaines et du Moyen-Age dans la Vallée d’Aoste, “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti della provincia di Torino”, 3 (1881), pp. 119-120, successivamente aggiornato in Id., Appendice aux antiquités romaines et du Moyen-Age dans la Vallée d’Aoste, “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti della provincia di Torino”, 5 (1887), pp. 130-156.

[42] Si vedano a questo proposito gli “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti della provincia di Torino”, 2 (1879), p. 14 e il resoconto contenuto in ASTO, Corte, Fondo D’Andrade, m. 67.

Esposizioni della fotografia (2011)

in Torino, la città che cambia : fotografie 1880-1930, catalogo della mostra (Torino,  Borgo Medioevale, 9 aprile – 9 ottobre 2011), catalogo a cura di Riccardo Passoni. Cinisello Balsamo : Silvana Editoriale, 2011, pp. 16-21

 

Fu nel 1861, alle soglie di quella che si sarebbe detta l’età del collodio e dell’avvio della grande commercializzazione con l’apertura dei grandi studi, che la fotografia in Italia fece la sua apparizione alla Prima Esposizione Italiana Agraria, Industriale e Artistica di Firenze[1], inaugurata da Vittorio Emanuele II, che fu anche la prima a essere oggetto di documentazione fotografica, realizzata dal fotografo fiorentino Pietro Semplicini, “Fotografista dell’Esposizione Italiana”, per incarico della Commissione Reale presieduta dal principe Eugenio di Savoia Carignano[2]. La committenza è indicativa di quale ormai fosse la consapevolezza dell’efficacia di quello che era a tutti gli effetti uno strumento di comunicazione, sebbene non ancora di massa. Mutavano cosi anche i luoghi di esposizione di queste fotografie di interesse pubblico: non più o non solo le vetrine degli studi o degli editori come Alberto Charvet o Giovanni Battista Maggi, il “boudoir dell’elegante signora, come [le] biblioteche dell’artista e dell’uomo di scienza e d’affari”[3], ma anche e sempre più frequentemente i padiglioni delle Esposizioni, come quella di Dublino del 1865 in cui le fotografie di Alberto Luigi Vialardi dedicate al Canale Cavour vennero presentate montate in cornici dorate[4]. La fotografia si rivelava, qui come nella poco più tarda documentazione del Traforo del Frejus, fotografato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure, come il medium più aderente, più adeguato a celebrare i cantieri pieni di macchine di quelle grandi infrastrutture. Erano ancora anni, di più, decenni, in cui la fotografia alle Esposizioni raccontava altro da sé, utilizzata per la sua novità di immagine a cui non ancora era riconosciuta una possibile dignità di opera. Si pensi alla cartella di cento splendide tavole in fototipia L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880, pubblicata dai Fratelli Doyen nel 1882, in cui le fotografie, di autore non identificato, riproponevano quella disposizione degli oggetti fatta come nella casa di un uomo di gusto, che tanto aveva affascinato Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux-Arts”: “Quand on entre, on est touché par une sorte d’harmonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les ceuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite”[5], essendo esposte (e poi fotografate: difficile immaginare un allestimento apposito per le riprese) in modo sistematico per prodotti (maioliche e porcellane, mobilio, oreficerie, stoffe) e per tipologie, secondo modalità che non paiono estranee alla presenza di Vittorio Avondo trai membri del comitato predisposto alla pubblicazione. Anche la Fotografia Subalpina di Giovanni Battista Berra realizzò per l’occasione un’ampia documentazione dei dipinti e delle sculture esposte, poi raccolta in album e donata “A S.M. Umberto I / che più di tutti / ama la grandezza / della Patria”, e al Municipio di Torino[6]. Altre fotografie di Berra, accanto a quelle realizzate da Giuseppe Vanetti, tutte relative allo stato di fatto prima e dopo gli interventi di restauro del castello di Rivara, furono presentate da Alfredo d’Andrade nella sezione di Architettura della stessa esposizione, con un intento documentaristico che non può non richiamare alla memoria le indicazioni metodologiche di Viollet-le-Duc.
Avondo e D’Andrade, cioè l’invenzione del Borgo Medievale per l’Esposizione Generale Italiana del 1884. Questo monumento nuovo, esito di un progetto conoscitivo lungo un biennio, che vide tra le altre la collaborazione di Carlo Nigra per la documentazione fotografica preliminare, costituì il punto nodale della formazione della consapevolezza culturale del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano. Nell’idea che lo sosteneva, in una pratica che si voleva filologica nonostante il procedimento di assemblaggio necessario alla realizzazione di una “copia” che si pretendeva oggettiva, riconosciamo il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, favorita e quasi indotta dall’enorme diffusione della fotografia. Il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, una stereoscopia improvvisamente vivibile che riesce a dare concretezza di materia alla raffigurazione di un soggetto inesistente in quella forma. Un’idea felicissima, una novità assoluta che con un buon secolo di anticipo proiettava lo spettatore nella condizione postmoderna della società del simulacro, poiché “la compiuta finzione aiuta la fantasia […]. Ora l’uomo è cosi fatto, che si sente suscitare dentro più spiriti estetici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effettivo”[7]. In perfetta sintonia con questo principio di spettacolarizzazione anche il Club Alpino Italiano aveva realizzato un Villaggio alpino, posto accanto alla Tenda di caccia di S.M. Vittorio Emanuele II, in cui erano ospitati i materiali della Stazione Alpina, primo nucleo del futuro Museo della Montagna[8]. A Vittorio Ecclesia, che aveva incontrato Avondo a Issogne[9] nel 1882, venne affidato il ruolo di fotografo di scena dello spettacolo del Borgo, ma risultava presente anche nella Sezione Belle Arti / Fotografie Architettoniche con altri tredici fotografi, tra i quali lo stesso Berra, con cui aveva condiviso la campagna documentaria prodotta dalla Commissione conservatrice dei monumenti nel 1882, e Federico Castellani che aveva condotto analoghe ricognizioni nell’Alessandrino. Oltre ad alcune belle vedute del Santuario di Crea, Ecclesia presentava proprio le immagini animate del Borgo in un piacevole giuoco di rimandi e rispecchiamenti che corrispondeva però anche a precisi accordi commerciali: nel bell’album realizzato e prodotto da Giovanni Battista Maggi[10], il Borgo Medievale, che pure apre la sequenza di immagini, è sempre visto da lontano e dall’esterno, sebbene la sua presenza fosse inevitabile e segnasse l’orizzonte di molte riprese. Ma di più non era concesso fare poiché era Ecclesia a detenere la privativa sulle immagini di quegli edifici, di quelle strade animate da personaggi in costume ‘d’epoca’, secondo un gusto per la giocosa messa in scena che costituiva la cifra riconoscibile del gruppo di amici che si riuniva intorno ad Avondo a Issogne. Dalla sezione dedicata alle fotografie di architettura prese avvio il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[11],  realizzata dal Collegio torinese, che in occasione del successivo VI Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani di Venezia, nel 1887, presentò il catalogo del Museo Regionale di Architettura, ospitato in una sala del Borgo Medievale, costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano disposte “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia”[12].

Questa realizzazione rappresentò il precedente necessario della Prima Esposizione Italiana di Architettura, promossa dalla relativa Sezione del Circolo degli Artisti e inaugurata nel febbraio del 1890, in cui vennero esposti oltre diecimila disegni, ma anche numerose fotografie: “Ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!”[13]. Accanto alla documentazione di nuovi edifici compariva in modo sempre più sistematico quella dei cantieri di restauro (dall’arco di Augusto a Susa, ripreso da Secondo Pia, a San Marco a Venezia), cui si affiancavano i repertori di storia dell’architettura frutto delle campagne documentarie di Pia, Ecclesia, Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet, assenti gli Alinari, mentre Annibale Cominetti, giornalista e fotografo dilettante, futuro direttore de “La Fotografia Artistica”, presentava immagini di edifici spagnoli.

Con il diffondersi dei nuovi materiali sensibili alla gelatina bromuro d’argento, carte per la stampa ma specialmente lastre e pellicole di produzione industriale, la pratica fotografica si apriva al variegato universo dei dilettanti di rango, determinando un atteggiamento diverso e inedito, caratterizzato dall’emergere di una volontà di ricerca che coniugava tecnica e intenzione espressiva, in cui era possibile pensare e mostrare la fotografia in quanto immagine e – attraverso di questa – l’autore. Fu questo cambio di paradigma che consenti di pensare alle esposizioni di fotografia, magari limitandosi dapprima prudentemente a un ambito circoscritto, quale ad esempio, in area piemontese e torinese in particolare, quello della montagna, anche per la determinante influenza del CAI e di molti dei suoi membri più autorevoli, non a caso magistrali fotografi di fama internazionale come Vittorio Sella e Guido Rey. Cosi nel 1893 questo sodalizio organizzò la sua prima Esposizione Fotografica Alpina nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti, con la partecipazione tra gli altri del musicista Leone Sinigaglia, con una serie dedicata a Villaggi e montagne della Val d’Ala, mentre alla successiva Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dall’Associazione Universitaria Torinese nel 1895, parteciparono L[uigi?] Belli, Luigi Primoli, Rey, Giulio Roussette, Sella, Emanuele Elia Treves. Oltre a questi si segnalarono Giovanni Varale di Biella “con gli impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, Alberto Durio con un “album contenente le magnifiche riproduzioni degli affreschi di Gaudenzio Ferrari, che resero famosa la chiesa delle Grazie a Varallo Sesia” e Federico Peliti, con una serie di 150 fotografie di grande formato intitolata 28 anni nell’India Inglese[14].

1898. Cinquantenario dello Statuto albertino: Torino rivendicava il ruolo svolto nel difficile processo di unificazione celebrando le proprie glorie recenti, ormai passate, e lo fece utilizzando ancora una volta la forma moderna per eccellenza delle Esposizioni, ma scegliendo con grande accortezza di affiancare Arte Industriale e Arte Sacra. Fu in questo contesto che la fotografia assunse inaspettatamente le caratteristiche di un evento di rilevanza internazionale, con la ripresa della Sindone effettuata in Duomo da Secondo Pia, che rivelò la natura di “negativo” del Sacro Lino e diede origine a una serie infinita di polemiche e contestazioni, che coinvolsero a diverso titolo tanto la comunità religiosa quanto quella scientifica. L’enorme flusso di visitatori atteso per le due Esposizioni portava nuovamente Torino al centro della scena nazionale e costituiva per molti, fotografi compresi, un’importante occasione commerciale. Cosi Brogi pubblicò una nuova edizione del proprio album di vedute di Torino e gli Alinari inviarono in città il loro miglior operatore, Mario Sansoni, che ebbe tra le proprie inevitabili mete anche i padiglioni espositivi. Sul versante più squisitamente tecnologico i fratelli Lumière colsero l’occasione per presentare i risultati delle loro prove di *fotocromosgrafia indiretta […] ed è ad un mazzo di leggiadrissimi lillà. stavo per dire fragranti, che affida[rono] sicuri la divulgazione della loro scoperta[15]. Anche per le istituzioni l’Esposizione costituiva un’occasione preziosa per rendere note le proprie attività e collezioni attraverso fotografia: cosi fu per i tre volumi de l’Armeria Antica e Moderna di SM. il Re d’Italia /in Torino, con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, pubblicati a Milano dall’Eliotipia Calzolari e Ferrario, che dovevano essere pronti per “l’epoca dell’apertura della Esposizione Nazionale indetta pel 1898 in Torino”[16], mentre l’analogo progetto voluto da Avondo per la Sezione di Arte antica del Museo Civico avrebbe visto la luce solo la vigilia di Natale del 1904. Anche il Comitato per la Mostra Medievale Pugliese, che aveva presentato dei calchi tratti da “monumenti di arte classica antica dei periodi Angioino, Svevo e Normanno”, aveva celebrato quel l’iniziativa con l’album Nella Terra di Bari. Ricordi di arte medioevale, con 127 illustrazioni in zincotipia ricavare da fotografie di Romualdo Moscioni e di Nicola de Mattia, mentre i fratelli Antonelli, di Bari, furono premiati con medaglia di bronzo “per ritratti e fotografie di monumenti con luce artificiale”[17].  La zincotipia costituiva allora la grande novità dell’editoria, consentendo la stampa tipografica congiunta di immagini e testo, tecnica immediatamente adottata da Roux Frassati e C., editori del giornale del l’Esposizione, illustrato dalle fotografie del “cav. Remo Lovazzano, uno dei migliori fotografi torinesi […] Orbene, di queste fotografie il cav. Lovazzano pensò di fare una raccolta completa e di offrirle in omaggio al Re quale ricordo fedele della grande Mostra […]. Le fotografie sono state riunite in un magnifico album in cuoio giallo con fregi in argento cesellato e sguardie in raso bianco marezzato, opera veramente ricca ed artistica dello stabilimento Vezzosi. Un’epigrafe dettata dall’avvocato Bona dichiara il pensiero di omaggio e di ricordo con cui il cav. Lovazzano offre al Re questa raccolta, che forma una vera opera d’arte, poiché arte è ormai altresì la fotografia. L’album sarà tra breve presentato al Re. Una consimile raccolta il cav. Lovazzano ha altresì offerto all’on. Villa, presidente dell’Esposizione”[18], Anche Mario Gabinio[19] si era cimentato con le architetture effimere dei padiglioni, con un ampio lavoro (89 stampe raccolte in album), realizzato forse su sollecitazione dell’amico Mario Ceradini, progettista del chiosco della ditta  Sangemini, che mostra quale fosse ormai il livello raggiunto da questo oscuro grande fotografo, assente anche al Primo Congresso Fotografico che si tenne in città in quell’occasione[20]. Nonostante la rilevanza dell’evento, il trattamento riservato alla sezione fotografica dell’Esposizione risultò pessimo[21] e venne aspramente stigmatizzato da Carlo Brogi: “La fotografia figura meschinamente, e non da di sé, del suo sviluppo raggiunto nel nostro paese, che un’idea molto lontana dalla realtà […] non è considerata né classificata con criteri razionali. E ciò avviene per quell’erroneo concetto in forza del quale si vuole disconoscere in essa qualunque carattere d’arte, per ritenerla semplicemente un processo meccanico di riproduzione del vero […). Ricordo che a Bologna nell’Esposizione del 1888, si aveva fatto ancora peggio, confinando la fotografia con le carni insaccate […). Ma che dire di più, quando si vede che neppure i fotografi di Torino hanno preso parte alla festa che si faceva in casa propria”[22].

Anche Enrico Thovez, analogamente a quanto aveva fatto Biscarra nel 1870[23], colse l’occasione per celebrare le glorie della riproducibilità fotomeccanica delle immagini: “Grazie alla fotoincisione una rivoluzione si è operata nell’aspetto di molte pubblicazioni. Giornali e riviste di ingegneria e di meccanica (sopratutto americane ed inglesi) diventano piacevoli a sfogliare come albums pittoreschi, grazie alla bellezza delle vedute di officine, di cantieri, di docks, di ferrovie, non più schematizzate secondo un’intenzione dimostrativa, ma colte nella realtà viva, colla poesia delle luci e delle ombre, delle nuvole di fumo e di vapore, della folla che le popola”[24]. La nuova tecnologia gli consentiva anche di formulare il progetto di “pubblicare questa ricchezza {del nostro patrimonio artistico), e pubblicarla a buon prezzo, senza scrupoli di perfezione, popolarmente, a dispense, con riproduzioni fotoincise rigorosamente fedeli, magari senza testo, come fanno spesso i Tedeschi, perché la coltura più necessaria e fondamentale, per ora, è quella visiva, empirica, formale […]. La Pinacoteca è stata recentemente fotografata dal Brogi e dall’Anderson; non basta; bisogna pubblicarne un catalogo con buone riproduzioni fotografiche, in modo che tutti, conterranei e forestieri, ne conservino un ricordo completo e un invito a tornarvi, non bisogna lasciare questo godimento estetico soltanto alle serve e ai soldati. E un uguale programma attende il Museo Civico d’arte moderna”[25].

La fotografia e le fotografie erano ormai parte dello scenario quotidiano. Le brevi di cronaca ne segnalavano con sempre maggiore frequenza la presenza: a corredo delle prime patenti automobilistiche, sciolte, nei portafogli, nei ciondoli, per non dire di quelle utilizzate in ambito scientifico, giudiziario o per foschi ricatti a sfondo sessuale, mentre in altre pagine degli stessi quotidiani, non ancora illustrate con fotografie”[26], grande successo riscuoteva il tema della fotografia spiritica, e la divulgazione di argomenti quali la telefotografia e la cronofotografia, descritte da Oreste Pasquarelli sulle pagine de “La Stampa” nella rubrica “Scienza popolare”. “La fotografia non è più, come era nel suo inizio, un soprappiù, una curiosità scientifica, un capriccio della moda; essa è oggidì una necessità della vita pel largo contributo e per la validissima cooperazione sua alla scienza, alla storia, all’arte. I suoi stessi progressi, gli studi cui è fatta scopo da illustri ingegni, le sue infinite e variatissime applicazioni bastano a mettere in evidenza la grandissima importanza che ha la fotografia ai giorni nostri, importanza che, lungi dal diminuire, aumenterà sempre. È adunque logico, giusto, naturalissimo che le Mostre fotografiche si facciano più frequenti e crescano ogni volta più di valore e di importanza”[27]. In questo clima di rinnovata attenzione si aprì nel febbraio del 1900 la I Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dalla neonata (1899) Società Fotografica Subalpina, per la cura di Edoardo di Sambuy, ospitata nella sede di via della Zecca 25 in “cinque grandi sale, le cui pareti sono addirittura coperte di fotografie, il cui numero è tale che si dovette ricorrere anche a speciali vetrine, discoste dalle pareti […]. Fra i numerosi concorrenti professionisti e dilettanti sono notevoli le mostre del Foto-Club di Parigi, e di altri stranieri; quella collettiva degli Escursionisti, quella dell’Istituto geografico militare di Firenze e quella del Genio Militare. Una delle sale, elegantemente addobbata, è destinata alle signore promotrici”[28]. Particolare attenzione suscitarono le opere di Constant Puyo e Robert Demachy, di cui si apprezzava l’estremo pittorialismo, pur preferendo ancora, in fondo, il neoclassicismo dei tableau vivant di Guido Rey, “innamorato della grazia greco-pompejana e della grazia ché presiedeva al gusto del secolo scorso”. Tra i membri dell’Unione Escursionisti si segnalava perla prima volta Mario Gabinio, che con la serie dedicata a Torino che scompare si aggiudicava il premio bandito dal Comune di Torino per la “collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”[29]; lavoro molto apprezzato da Riccardo Brayda e dallo stesso di Sambuy che elogiandone gli esiti in occasione del banchetto conclusivo del’ l’Esposizione, formulava l’idea della costituzione di un archivio fotografico. Fu ancora di Sambuy a promuovere e poi a coordinare l’Esposizione internazionale di fotografia artistica che ebbe luogo nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa Moderna del 1902, allo scopo di far conoscere i migliori esiti delle nuove tendenze, mostrando “accanto alle opere già ben note in Torino dei membri del Photo-Club di Parigi […] quelle di Tedeschi, Fiamminghi, Svedesi, Inglesi, Americani, fors’anche dei lontani Giapponesi ed Australiani […] Benvenuta adunque l’Esponzione di fotografie inspirate unicamente ad intenti artistici, poiché contribuirà, con quella d’Arte Decorativa Moderna, a scuotere l’indifferenza del pubblico ed a persuaderlo che una coltura artistica largamente diffusa è indispensabile ai giorni nostri come fatto di moderno democratico incivilimento, e quale apportatrice di maggior benessere sociale”[30]. Le diverse nazioni presentarono i loro autori (qui ormai la parola assumeva il suo senso più proprio, e pieno) più significativi”[31]. Per l’Italia, solo per fare qualche nome, Francesco Negri con una serie di belle tricromie; le scene di Rey, i paesaggi di Cesare Schiaparelli, Vittorio Sella con stampe virate in doppio tono relative al Caucaso georgiano, gli intensi ritratti degli amici artisti di Giacomo Grosso”[32]. Un’occasione cruciale per la cultura fotografica italiana e torinese in particolare, portata a misurarsi con più di 1.300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, ma l’opinione comune doveva essere diversa se la segnalazione contenuta nella rubrica “Gli Spettacoli d’Oggi” de “La Stampa” indicava semplicemente: “Esposizione d’Arte Decorativa Moderna al Valentino con annessa Mostra di fotografia artistica, vini e olii”.

La pubblicazione nel dicembre del 1904, per iniziativa di Annibale Cominetti, de “La Fotografia Artistica”[33] fu certo tra gli esiti più significativi di quell’evento. Una “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33 x 24), redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni nel testo e tavole fuori testo realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa fotografica al bromuro, alle fotoincisioni, alla similgravure), che ha rappresentato nei primi due decenni del secolo, sino alla chiusura nel 1917, l’espressione più rilevante della fotografia italiana, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la scena internazionale (artistica e tecnica: si pensi alla costante attenzione per gli sviluppi della fotografia a colori), ma anche più in generale con la cultura artistica e pittorica nazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” cui tendeva tutto il movimento pittorialista, qui richiamato sin dal titolo e che costituiva il punto di riferimento, magari incerto, dei membri dei numerosi sodalizi fotografici aperti in quegli anni a Torino, come il Club d’Arte, fondato nel 1906, che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi. Non meno rilevante fu il ruolo svolto dal periodico nell’organizzazione di alcune importanti iniziative quali, nel 1907, l’Esposizione internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, organizzata in poco più di un mese, ma avvalendosi del sostegno di tutte le principali personalità della scena fotografica torinese e italiana oltre a un comitato d’onore con importanti presenze internazionali quali il fotografo Alfred Horsley Hinton, tra i fondatori di The Linked Ring Brotherhood; lo storico della fotografia Josef Maria Eder e il fisico Gabriel Lippmann, che l’anno precedente aveva ricevuto il premio Nobel per le sue ricerche sul metodo interferenziale di fotografia a colori. Questa IV Esposizione nazionale generale di fotografia e internazionale per materiale fotografico non ebbe pero il successo sperato. Poco soddisfacente la sezione artistica, nella quale “la ‘maniera nera”, l’abusare cioè di toni bassi e di sfumature confuse ingenera monotonia: rari sono i motivi di paese e di figure che riescano a vera bellezza d’arte, e si lamenta sopratutto il costume dei ritocchi di cieli e delle illogiche aggiunte di pennellate di colore che nonché giovare, rovinano in bontà delle fotografie […] Uno dei rami che appaiono in decadenza è quello delle scene composte: siamo lontani dai saggi di anni addietro del Rey, del Puyo, del Demacky […] L’evocazione storica per mezzo della fotografia è cosa di una delicatezza spaventosa: se non è fatta con tutta severità, può facilmente cadere nel puerile “[34]. Poche furono anche le Case produttrici di apparecchi fotografici e di carte sensibili, e l’interesse maggiore venne suscitato non tanto dai saggi di tricromia offerti dalle due ditte milanesi Alfieri e Lacroix e Unione Zincografi, quanto dalla presentazione ufficiale per l’Italia del nuovo processo a colori dell’autocromia, messo a punto dai Fratelli Lumiere nel 1904,  affidata al Segretario dell’Accademia dei Lincei Ernesto Mancini[35]. Il dibattito che ne seguì sulle pagine dei più importanti periodici internazionali, condusse alla progressiva definizione di una vera e propria estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico con il pittorialismo, si misurava e provava a fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche ed espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico.

Nonostante le perplessità derivanti dal confronto con altre grandi, recenti iniziative italiane e straniere, così come contro la convinzione sempre più diffusa “che le grandi esposizioni generali abbiano fatto il loro tempo”, la volontà “di consacrare il cinquantenario dell’affermazione unitaria con un quadro completo del progresso economico della patria risorta attirò il concorso entusiastico di tutte le forze vive della nazione”[36]  e rese possibile la realizzazione nel 1911 della grande Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro. Il Concorso Internazionale e la Mostra Fotografica realizzati per l’occasione videro circa “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti”[37], a cui si aggiunse l’esposizione di fotografia alpina prodotta nella stessa occasione dal Club Alpino ltaliano, curata da Guido Rey”[38] e ospitata ancora una volta in un “villaggio alpino” dislocato lungo le mulattiere che solcavano le lievi balze del Parco del Valentino, in un pastiche folklorico con qualche pretesa etnografica. Nell’edificio che fungeva da alberghetto “una scaletta di legno ci invita. Si entra e ci si trova in una sala che per verità è raro trovare in un villaggio alpino [dove] l’attrattiva maggiore sono le stupende diapositive del Sella che fanno ufficio di vetri alle finestrelle e i panorami del Karakorum o le altre fotografie di questo principe dei fotografi illustranti i campi d’azione del Duca [degli Abruzzi]”[39].

I resoconti descrivevano un panorama certo più soddisfacente di quello offerto dall’occasione del 1907, confermando come la fotografia fosse ormai considerata “non più una pratica di puro sperimentalismo, sibbene un’arte, alla cui esplicazione concorrono molti elementi di gusto personale, di perspicacia e di abilità schiettamente individuali”; in particolare “la fotografia a colori è ampiamente rappresentata in questa mostra; ed è doveroso notare che il suo progresso è stato grandissimo da quando fece, pochissimi anni fa, la sua prima apparizione […] però è ancora molto spesso lecito osservare che si tratta, sì, di fotografia a colori, ma non sempre precisamente di fotografia del colore: distinzione che non è punto sottile, e che giova fare per intenderci su come vadano meglio considerate queste prove”. Tra i partecipanti il recensore segnalava “certe interessanti fotografie esotiche del conte Luigi Primoli” e “alcune prove di Bricarelli, tra cui una bellissima, che pare un quadretto fontanesiano: una squallida campagna autunnale su cui, contro un cielo nubiloso, si levano due file oscure di pioppi: indovinatissimo è il color giallo che il Bricarelli ha scelto per questa fotografia”[40]. Era questa la prima segnalazione di chi negli anni successivi avrebbe segnato con la propria attività di fotografo, critico, editore e animatore del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica tutto il periodo compreso tra le due guerre mondiali, aprendo la cultura fotografica torinese e italiana alle suggestioni della nuova visione.

 

Note

[1] Per dare un’idea della scarsa rilevanza del settore ricordiamo che su circa 4.000 espositori solo 48 appartenevano alla sezione fotografica (Classe X – Sezione V), cioè poco più dell’1%. Per il Piemonte erano presenti Giuseppe Venanzio Sella e Francesco Maria Chiapella.

[2] Un esemplare dell’album di Pietro Semplicini, Esposizione italiana 1861, è conservato presso la Biblioteca Reale di Torino.

[3] “Gazzetta Piemontese”, 31 maggio 1869, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta:  Musumeci, 1980, p. 365.

[4] Archivio Storico dei Canali Cavour, Novara, Regi Canali, Libro Mastro A, f. 170, 27 aprile 1865.

[5] Citato in Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Vittorio Avondo (1836-1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro, atti del convegno (Torino, Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 27 ottobre 1995), a cura di Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli.  “Atti SPABA”, Nuova Serie, vol. IV. Torino 1997, pp. 49-60 (53).

[6] Le due copie dell’album Ricordo della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, ciascuna costituita da cinquanta albumine, sono conservate presso la Biblioteca Reale di Torino e la Biblioteca della Fondazione Torino Musei.

[7] Camillo Boito, Il Castello medioevale all’Esposizione di  Torino, citato in P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architetturain Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale e Palazzo Madama, 27 giugno – 27 settembre 1981), a cura di  Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi,  pp. 107-125.

[8] “Cfr. I villaggi alpini. Le identità nazionali alle grandi esposizioni, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 25 febbraio – 20 novembre 2011), a cura di Alessandro Pastore.  Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 2011. Tra i materiali esposti in quell’occasione anche un album fotografico con immagini, tra gli altri, di Pietro Bruneri, Francesco Casanova e Paolo Palestrino.

[9] P. Cavanna (a cura di), Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005.

[10] I padiglioni fotografati da Maggi costituiscono l’indispensabile termine di confronto per l’album di 121 tavole di progetto di tutti gli edifici realizzati sotto la sua direzione che Camillo Riccio offri al Collegio degli architetti, oggi conservato al Circolo degli Artisti, cfr. Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura.  Torino: Celid,  1999, P. 56.

[11] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[12] Ibidem. Tra i donatori di documenti e opere vi furono Brayda, Casana, Ceppi, Ferrante, Gelati, Tonta ma anche Berra ed Ecclesia (Volpiano 1999, p.120). Mario Ceradini ricorderà nel 1890 che “il collegio [degli architetti] trasse vita oscura […] continuando ad arricchire il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, in Id., L’architettura italiana alla prima esposizione d’architettura in Torino. Torino: Carlo Clausen, 1890, p. 3.

[13] Giovanni Sacheri, citato in Volpiano 1999., p. 99; già alcuni anni prima (1883) Sacheri si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32), concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[14] “Gazzetta del Popolo della Domenica”, n. 50, 15 dicembre 1895, p. 399.

[15] Michelangelo Scavia, La fotografia dei colori,  “La Stampa”, venerdì 26 agosto 1898, n. 236, pp. 1-2. La ricostruzione del contesto in cui si è sviluppata la pratica e il dibattito intorno alla fotografia nel periodo di tempo qui considerato si è avvalsa quale fonte importante delle annate storiche del quotidiano “La Stampa”, ora consultabili in rete all’indirizzo http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_frontpage/Itemid,1/  (09 01 2023).

[16] P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 18371898, catalogo della mostra (Torino, Armeria Reale, 15 ottobre 2003 – 11 gennaio 2004), a cura di Paolo Venturoli.  Torino: Allemandi,  2003, pp. 79-98.

[17] Clara Gelao, Tra calchi e monumenti. A cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, in Castelli e cattedrali di Puglia a cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, catalogo della mostra (Bari, 13 luglio – 31 ottobre 1999), a cura di C. Gelao, Gian Marco Jacobitti.  Bari:  Consorzio Idria – M. Adda, 1999, pp. 33-47.

[18] Cronaca, “La Stampa”, 29 gennaio 1899, n.29, p. 3.

[19] L’Album di Gabinio intitolato Esposizione 1898 contiene anche riprese realizzate dal pallone frenato di Godard, collocato nel recinto dell’Esposizione. Una serie analoga venne realizzata nella stessa occasione da Edoardo di Sambuy dopo che lo stesso Godard gli ebbe negato l’autorizzazione a fotografare la città durante il volo su Torino compiuto il 6 giugno, cfr. “L’Esposizione Nazionale del 1898”, n. 14, p, 105.

[20] Atti del primo Congresso fotografico Nazionale in Torino, ottobre 1898. Torino: Tip, Roux, Frassati e C.,1899.

[21] “Poco favore aveva incontrato a Torino nello scorso anno la sezione fotografica dell’Esposizione Generale. Pessimo era il locale e disadatto, e dai rari visitatori non era avvertito quanto di buono vi era esposto. Alla fotografia italiana toccava una rivincita, e se l’ebbe, adesso in Firenze”, Edoardo di Sambuy, L’Esposizione fotografica a Firenze, “La Stampa”, 14 giugno 1899, n. 163, p. 2.

[22] Carlo Brogi, La fotografia all’Esposizione, in “L’Arte all’Esposizione del 1898”, nn. 31-32, pp. 252-254, mentre altri osservavano “con grande sorpresa e vivo rincrescimento che nella presente Esposizione Generale la fotografia alpina figura con ben poca cosa: troppo poca; e neppure si può dirne tutto il bene che si vorrebbe”, L. Stanghelloni, Per la fotografia alpina, “La Stampa – Gazzetta Piemontese”, 27 ottobre 1898, n. 298, pp. 1-2.

[23] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica. Stabilimento Le Lieure in Torino,  “L’Arte in Italia”, IV, 1870, p. 58.

[24] Enrico Thovez, Poesia fotografica, “La Stampa”, 3 giugno 1898, n. 152, ripreso dal n. 9 de “L’Arte all’Esposizione del 1898”.

[25] Enrico Thovez, L’ideale di Torino,  “La Stampa”, 2 gennaio 1899, n.2, p.1.

[26] L’illustrazione fotografica fece la sua prima apparizione nelle pagine de “La Stampa” solo nel 1907, e non a caso in una pubblicità. Il ritratto della signorina Panni Dianira, sarta, di San Costanzo Cerasa, provincia di Pesaro, era corredato dalla seguente, orgogliosa e privatissima dichiarazione: “Ero anemica. Le Pillole Pink mi hanno resa la salute”, “La Stampa”, 4 giugno 1907, n. 153, p.4.

[27] Redazionale,  “La Stampa”, 26 dicembre 1899, n. 357, p.3.

[28] Arti e Scienze, “La Stampa”, 10 febbraio 1900, n. 41, p. 3.

[29] Citato in P. Cavanna, Mario Gabinio, vita attraverso le immagini, in Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, GAM, 28 novembre 1996 – 16 febbraio 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo  Costantini.  Torino: Allemandi,  1996, pp.7-35 (p.10).

[30] Edoardo di Sambuy, La fotografia artistica, “La Stampa”, 28 novembre 1901, n. 330, p. 1.

[31] Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, , catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci.  Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179.

[32] Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 22 novembre 1990-17 febbraio 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini.  Milano: Fabbri,  1990, pp. 21-24. I suoi ritratti di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi furono tanto apprezzati da Schiaparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909,I parte, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nello studio di Grosso, sottolineando quanto il pittore seguisse “la via tracciata dall’artista che lui ama cosi profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno”, Enrico Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, ed., Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London 1905, pp. 1.3-1.8. Risulta difficile accostare queste prove di grande qualità agli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino a suo tempo pubblicati da Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911.  Torino: Allemandi, 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute.

[33] Cfr. Paolo Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri,  1990.

[34] Cronaca, “La Stampa”, 17 gennaio 1907, n. 17, p. 3. L’Esposizione vide la partecipazione di 391 autori provenienti da sedici paesi diversi, in particolare Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania.

[35] Il testo della conferenza, La photographie aux plaques autochromes des Frères Lumière, venne pubblicato integralmente ne “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n.8, agosto, pp. 122-128.

[36] La chiusura dell’Esposizione. Quasi duecentocinquanta mila visitatori, “La Stampa”, 20 novembre 1911, n. 322, p. 5.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili”, Brand, Inaugurazione della Mostra fotografica, “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99. Si veda anche Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia (Torino, aprile-ottobre 1911). Torino: G. Momo, 1911.

[38] Per i dati relativi a queste manifestazioni cfr. Esposizione internazionale di fotografia artistica e scientifica, Torino, giugno-luglio 1907, Concorso indetto dalla rivista internazionale “La Fotografia Artistica”. Torino, Grafica: 1907; Brand 1911.

[39] Dal villaggio Alpino alla Mostra dell’Inghilterra, “La Stampa”, 22 aprile 1911, n. 111, p. 3.

[40] La Mostra fotografica, “La Stampa”, 21 giugno 1911, n. 170, p. 6.

“Invece di leggere la storia nei libri”: Fotografia e museografia in Piemonte intorno al 1884 (2006)

in Enrica Pagella, a cura di, Il Borgo Medievale: Nuovi studi, “Quaderni del Borgo”, n.6. Torino: Fondazione Torino Musei, 2006, pp. 130-140

 

 

Erano i primi giorni  dell’anno 1870 quando il giovane Vittorio Avondo si recava nello studio della Fotografia Subalpina per farsi ritrarre da  Giovanni Battista Berra in costume da “antico gentiluomo inglese”[1], non ancora attratto da più rudi medievalismi sabaudi sebbene l’abito fosse scelto per partecipare  al gran ballo offerto dal Duca Amedeo d’Aosta, il 16 febbraio.  Quelli erano ancora tempi di vaghe suggestioni storiciste, teatrali: tra Partite a scacchi e Feste Campestri, Balli delle Alpi e Cavalieri del Bogo, Ordini cavallereschi  e l’ormai consolidata moda del revival neogotico.  Ancora due anni più tardi, nel Natale del 1872, alcuni dei protagonisti di quella stagione si riunivano per festeggiare vestendo “maglie e corazze e cotte sdrucite d’uomini d’arme, così, per il piacere di guardarsi assaporando nell’ondeggiar delle lanterne e del focolare lampi di realtà che li colmavano di deliziosi brividi.”[2] “Fu l’ultimo sprazzo di vita di Issogne”[3], avrebbe aggiunto Pietro Giacosa in un suo ricordo tardo,  a rimarcare forse la fine della spensieratezza e l’avvio di una stagione nuova, col fratello Giuseppe, Alfredo d’Andrade, Federico Pastoris e Vittorio Avondo tra i protagonisti del convivio notturno in quello splendido edificio che il giovane pittore e antiquario aveva appena acquistato, dopo averlo segnalato nel 1871 alla Commissione consultiva per l’individuazione dei monumenti nazionali d’antichità e belle arti, di cui faceva parte.  Era ancora lieve lo sguardo volto a ritroso, alla ricerca di  un altrove  le cui coordinate oscillavano tra storicismi e orientalismi o – in altri – verso il mondo popolare extraurbano (a quello urbano avrebbe pensato Bava Beccaris), ma tutte identificavano luoghi in cui fosse almeno possibile vagheggiare alcuni valori perduti della società preindustriale. Quasi ovvio allora che questa topografia dell’immaginario trovasse una propria corrispondenza geografica nei luoghi delle architetture valdostane, quelle che avevano attratto i più sensibili artisti torinesi sin dai primi anni Cinquanta; Pastoris e D’Andrade dal 1865.  Tra 1870 e 1872 qualcosa sembra però essere mutato nella sensibilità di questo ristretto gruppo di artisti torinesi, già ricchi di giovanili esperienze internazionali. Al piacere della rievocazione fantastica, non ancora – forse mai – mitica,  si affiancava e cresceva  la consapevolezza del nesso inscindibile tra identità culturale e materiale del patrimonio,  attraverso la rielaborazione originale sebbene non sistematica delle suggestioni etiche e intellettuali che provenivano dalle diverse anime della cultura europea del restauro: da Pugin a Viollet-Le-Duc, in attesa di accogliere le raccomandazioni ruskiniane per il tramite di Camillo Boito. Era una disposizione alla scoperta[4] e all’ascolto che “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica”, delle testimonianze medievali in particolare, sostenuta da una peculiare forma di verismo che “invece di leggere la storia nei libri [li portava]  a studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita”[5], come ben dimostra un quadro importante come il Ritorno dalla Terra Santa di Pastoris (1880). Quasi un manifesto del gruppo, in cui  ritroviamo felicemente coniugati la resa analitica, fotografica quasi  della descrizione architettonica e il ricco immaginario storicista della scena, in quella che a noi appare come un’oscillazione del gusto da comprendere e giustificare criticamente, mentre costituiva il primo esito maturo di quell’atteggiamento culturale che si sarebbe compiutamente espresso nella realizzazione del Borgo.  Negli stessi anni si avviava a livello centrale il primo progetto di formazione di un repertorio fotografico del patrimonio architettonico italiano. Nel 1878 il Ministro della Pubblica Istruzione aveva invitato ogni  prefetto italiano a “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici (…) per  avere le fotografie dei monumenti medievali esistenti in questa provincia, e [ad]  indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie.”[6] La Commissione piemontese istituita giusto quell’anno riuscì però a deliberare solo nel  febbraio 1882,  assegnando a Giovanni Battista Berra (Fotografia Subalpina)[7] e Vittorio Ecclesia[8] il compito di fotografare gli “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  limitandosi però al circondario di Torino e Susa e al territorio di Ivrea e Aosta.[9]    Così l’Elenco dei monumenti assumeva per la prima volta la forma di un repertorio per immagini, riconoscendo alla visualizzazione un ruolo importante nel processo di mediazione e diffusione della conoscenza. Si trattava però di un tipo del tutto nuovo di figure, poco adatte ad essere lette come traduzione e rappresentazione formalizzata del reale, sulla scia tradizionale delle arti del disegno e dell’incisione. Anzi: queste erano immagini che portavano in dote la propria invisibilità, quella capacità massimamente mimetica di offrirsi quale immediato sostituto del reale che  Pietro Estense Selvatico aveva celebrato già nel 1859, sottolineando come “l’impassibile occhio senza cuore” della fotografia – la definizione è di Alfonso Rubbiani – fosse in grado di “darci le esatte apparenze  della forma”[10]. Per questo l’uso della documentazione fotografica veniva raccomandato e codificato da Viollet-Le- Duc nel suo Dictionnaire del 1860[11].    Fu proprio a Vittorio Ecclesia, autore delle riprese di Issogne nel corso della campagna del 1882, cui Avondo si rivolse per celebrare con un album fotografico[12] il decennale dell’acquisto del castello, dei suoi interventi di restauro come dei criteri e degli esiti recenti del suo riallestimento quasi filologico[13], quelli  che tanto avrebbero colpito  lo studioso francese  Robert Forrer (1866 – 1947) durante la visita fatta all’edificio nel 1896: “un vero e proprio repertorio per l’industria delle arti applicate, per coloro che intendano allestire ambienti in stile gotico, restaurare manieri antichi o realizzarne dei nuovi in stile a scopo abitativo o museale.”[14] Giudizio che avrebbe potuto essere esteso con profitto e condiviso con reciproca soddisfazione per diverse altre occasioni museografiche. Dalle nuove riprese realizzate nei primi mesi del 1884[15] emerse una lettura chiara e sistematica dell’architettura come degli apparati decorativi e degli ambienti arredati. Una fedele documentazione non solo del suo stato attuale di residenza “in stile”, ma anche – sorprendentemente – di come il castello doveva essere stato, e vissuto: abitato da personaggi in costume, come l’armigero poggiato al bordo della fontana del melograno.  In quegli stessi mesi  giungeva a compimento la costruzione del Borgo Medievale, “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni” delle “parti più importanti e caratteristiche” delle architetture, selezionate dopo il ‘colpo di mano’ di Avondo e D’Andrade che aveva reindirizzato le prime scelte della Commissione. Si trattava – come è noto – di procedere raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio”,  compiendo un’opera  assimilabile “a quella di un compilatore di una raccolta di oggetti per museo o galleria o di un dizionario d’arte e d’archeologia”, di un repertorio insomma.  “Obbligo solo e strettissimo l’autenticità.”[16]  Il nodo concettuale imposto da questo vincolo metodologico generò un monumento di tipo nuovo, punto nodale per la formazione di una consapevolezza disciplinare e civile del patrimonio medievale piemontese e valdostano,  ma soprattutto esito concretamente esperibile dell’aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, di presenze riconosciute autentiche. Alla manifesta necessità economica di sostituire la realtà col suo simulacro, infine. Analogamente a quanto accadeva con  le fotografie, l’aggregarsi improvviso di elementi esistenti in luoghi diversi dislocava il visitatore nello spazio e nel tempo, scardinando paradossalmente ogni realismo e nel Borgo trovava compiuta consistenza museografica quel concetto di analogo, di copia fedele e fungibile al reale che accomunava ‘ricostruzione’ e immagine ottico meccanica, mescolandosi ancora inestricabilmente con le suggestioni disciplinari e letterarie del restauro alla francese. Qui il luogo comune dell’ideologia fotografica di secondo Ottocento  investiva  una pratica che si voleva filologica nonostante gli interventi di assemblaggio e collage, i sapienti aggiustamenti necessari ad  adattare i parametri originali al nuovo contesto[17]. Anche per questa realizzazione, come per ogni fotografia, si può così parlare di riscrittura apparentemente oggettiva e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, una stereoscopia improvvisamente vivibile che riesce a dare concretezza di materia alla raffigurazione di  un soggetto inesistente in quella forma. Analogamente a quanto accadeva quasi negli stessi giorni a Issogne, a ulteriore testimonianza della capacità dei membri più autorevoli della Commissione ordinatrice di conservare un affascinante equilibrio tra consapevolezza archeologica e piacere giocoso della messinscena, Vittorio Ecclesia veniva incaricato di realizzare anche al Borgo una serie di vedute animate da figure in costume.[18]

Così se “queste fabbriche non [apparivano] una fredda rassegna di cose da museo” ciò accadeva perché erano animate da “personaggi e scene dell’epoca a cui si riferiscono” (Nino Pettenati)[19], mentre al banchetto inaugurale offerto “A d’Andrade l’architetto/ Del Castello Medio-Evale/ Che non ebbe mai l’eguale” (ispirati versi di Giuseppe Giacosa) intervenivano “un centinaio di persone in costumi eroici, umoristici (…), il D’Andrade, travestito da Ercole, aveva in mano una clava ed in testa il gibus.” Alla cerimonia inaugurale poi, alla presenza dei reali, “il corteo passa. È il mondo moderno  che entra nel medioevo. È il secolo XIX che fa un ricorso fantastico nel XV. Quei due mondi destano un contrasto che non manca di una certa comicità” certo, ma per cogliere le emozioni più vere occorreva attendere la sera, quando la dotta attrazione archeologica trascolorava, trasformandosi: “un castello antico è bello – infine – al lume di luna, quando gli sprazzi della luce d’argento mettono sulle sconquassate muraglie qua e là come un lenzuolo candido […] quando le ombre fitte, i buchi nerissimi trattengono  il piede spaurito, e la signora bionda, che vi sta a lato, si avviticchia a voi stretta, tremando.” Era il coup de théâtre ostinatamente cercato e raggiunto, poiché “ora l’uomo è così fatto, che si sente suscitare dentro gli spiriti estetici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effettivo” (Camillo Boito) , poiché “la compiuta finzione aiuta la fantasia” (Antonio Bonamore), specialmente quando la verosimiglianza – come a Issogne – era certificata dalla   rappresentazione fotografica degli ambienti e della “vita civile del XV secolo”, anticipando meccanismi narrativi che di lì a non molto avrebbe sviluppato con ben altri mezzi il cinema. Riproduzione tendenzialmente fedele dell’originale, testimonianza e documento, strumento – al pari dei rilievi grafici e dei calchi – di una disciplina  che stava definendo le proprie metodiche e il proprio progetto culturale e scientifico senza voler rinunciare al fascino letterario dell’evocazione[20]. Materializzazione di un sogno, questo assemblage di immagini costituiva un efficace dispositivo di realismo fantastico, non ancora consapevole dei rischi futuri di quelle rappresentazioni omologate in cui le più forti connotazioni dei luoghi sono trasformate in stereotipi.  Allora ciò non poteva neppure essere concepito per un patrimonio come quello piemontese, ancora in fase di scoperta e di studio,  ma nella spettacolarizzazione del Borgo oggi riconosciamo il primo indizio di un meccanismo di riduzione che si sarebbe rivelato tentacolare e onnivoro, di un percorso che ha condotto a certe superficialità consumistiche dell’oggi.

Il fascino e l’efficacia didascalica di questa museografia della verosimiglianza dovettero essere tenute nel dovuto conto dalla Commissione incaricata di stabilire il nuovo allestimento della Sezione di Arte Antica del Museo civico torinese, presieduta dal neodirettore Avondo, certo memore anche dei favorevoli commenti espressi da Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux- Arts” a proposito degli esiti del suo riallestimento del castello di Issogne come dell’Esposizione di Torino del 1880[21], che lo aveva avuto tra i commissari, dove la disposizione degli oggetti si presentava “come nella casa di un uomo di gusto”.[22] La revisione museografica degli allestimenti, consentita dal trasloco nell’aprile 1895 della Sezione di arte moderna nella nuova sede della palazzina dell’Esposizione operaia realizzata per l’Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880, ottenne il plauso del Comitato direttivo “pel modo razionale ed artistico con cui le collezioni vennero ordinate” [23], e quasi impose la messa in cantiere di una “pubblicazione illustrativa” la cui concreta realizzazione prese però avvio solo nel febbraio del 1899, affidata a Edoardo Balbo Bertone di Sambuy.  A causa di una serie di difficoltà successivamente sorte, la “riproduzione fotografica e quindi in fotocollografia e in cromolitografia dei migliori capi d’arte del Museo” fu particolarmente travagliata e lunga[24],  così che solo la vigilia di Natale del 1904 la prima copia della pubblicazione dedicata al Museo Civico di Torino – Sezione Arte antica  venne presentata al Sindaco di Torino. Le bellissime tavole stampate dallo stabilimento eliotipico Calzolari & Ferrario di Milano illustravano la nuova sistemazione, in cui accanto all’organizzazione tipologica “per serie e per materiali” (ceramiche, tessuti ecc.) comparivano  ricostruzioni ambientali cronologicamente e stilisticamente connotate, come la Stanza piemontese del XV secolo, che costituivano non solo l’attualizzazione di importanti modelli internazionali, ma anche una rielaborazione delle esperienze e delle soluzioni adottate al Borgo e ancor prima poste in atto nella risistemazione del castello di Issogne. Mancavano ormai i figuranti in costume, che Edoardo di Sambuy aveva comunque utilizzato ancora in una serie di riprese valdostane del 1898, ma questi esempi di ricostruzione verosimilmente oggettiva di un altrove temporale e spaziale sarebbero stati ancora ben presenti nell’eclettico allestimento progettato da Augusto Cavallari Murat per il grande progetto storiografico ed espositivo che Vittorio Viale mise a punto nel 1939 con la mostra dedicata a Gotico e Rinascimento in Piemonte[25], incerto tra ormai consolidate soluzioni moderniste (penso all’uso dei bellissimi ingrandimenti fotografici realizzati da Riccardo Scoffone[26])  e più tradizionali ambientazioni in stile di avondiana memoria. Qui, ancora una volta, i due diversi meccanismi di ‘riproduzione’ di una realtà lontana nel tempo e nello spazio prendevano forma nella goticizzazione degli spazi di Palazzo Carignano e nei rimandi visuali delle tavole fotografiche.

 

Note

 

[1] Piergiorgio Dragone, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895. Torino: Banca CRT, 2000, p. 120.

[2] Giuseppe Giacosa, 1908, citato in Sandra Barberi, L’ultimo castellano della Valle d’Aosta: Vittorio Avondo e il maniero di Issogne, in Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 1997, pp. 137-164 (149).

[3] Pietro Giacosa, Il castello di Issogne. Verona: Stamperia Valdonega, 1968. p. 12.

[4] A breve distanza dalla serie di incisioni realizzate da  Édouard Aubert, La Vallée d’Aoste. Paris: Amyot, 1860, utilizzate ancora molto tempo dopo da Amé Gorret, Claude Bich, Guide de la vallee d’Aoste. Torino: F. Casanova, 1877,  nel 1869 veniva pubblicato l’album  di Meuta e Riva La Vallée d’Aoste monumentale photographiée et annotée historiquement,  che costituisce il primo esempio di pubblicazione fotografica relativa al patrimonio artistico della valle.

[5]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891,. Torino:Paravia e C.,  1893, p.337, citato in  Rosanna Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni Romano. Torino: Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326, da leggersi parallelamente a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, 1981), a cura di Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp.19-43.

[6]  “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10.

[7] Su G.B. Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990, p. 358; P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898, catalogo della mostra (Torino, 2003-2004), a cura di Paolo Venturoli. Torino: Umberto Allemandi & C., 2003; La borghesia allo specchio. Il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra ( Torino, 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2004p. 123. Il fotografo, e pittore, era in stretta relazione con le maggiori istituzioni culturali torinesi quali la Società Promotrice delle Belle Arti e l’Armeria Reale, da cui nel 1874 aveva ricevuto l’incarico di produrre alcune prove di riprese fotografiche e di cui pubblicherà un ampio catalogo fotografico proprio nel 1882,  mentre nel 1880 aveva realizzato il grande album dedicato alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti,  dedicandolo a Umberto I, oggi conservato presso la Biblioteca d’Arte della Fondazione Torino Musei. Sarà ancora lui, ormai alla fine della propria vita, a realizzare nel 1892 l’album con le riproduzioni fotografiche dei bozzetti del concorso per il Monumento nazionale al Principe Amedeo che il Comitato esecutivo aveva offerto ai membri della giuria. Esemplari della sua campagna documentaria del 1882 sono attualmente conservati nell’Archivio fotografico della Soprintendenza per il patrimonio Architettonico e per il Paesaggio del Piemonte, ma anche nel Fondo Avondo e nel Fondo Musei Civici della Fondazione Torino Musei, costituito da 96 stampe all’albumina di medio o grande formato essenzialmente dedicate a soggetti di architettura piemontese, nella maggior parte provenienti da Esposizioni torinesi o dalla campagna di documentazione dei “monumenti” piemontesi promossa dalla Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità della Provincia di Torino nel 1882.

[8] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano, cui si devono forse le due medaglie conquistate a Napoli nel 1878 ed a Milano nel 1881 (Miraglia 1990, p. 379).  Tre esemplari dell’album dedicato al Castello d’Issogne,  in due diverse edizioni, uno dei quali con  dedica di Vittorio Avondo ad “A. Pozzi antiquario” e numerosi esemplari delle due serie di Fotografie del Castello Feudale e del Borgo Medioevale di Torino, 1884, sono oggi conservati presso la Biblioteca d’Arte della Fondazione Torino Musei, mentre 24 stampe all’albumina  di identico soggetto compaiono nel Fondo Brayda e fanno parte anche di un Fondo non meglio identificato della stessa Fondazione, che conserva anche esemplari riferibili alla campagna documentaria del 1882, di cui si conoscono copie conservate anche presso l’Archivio fotografico della Soprintendenza per il patrimonio Architettonico e per il Paesaggio del Piemonte.

[9] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna, conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, congiuntamente alle «fotografie architettoniche» realizzate nell’Alessandrino da Federico Castellani e alle  vedute urbane presentate dall’editore Giovanni Battista Maggi, e poi ancora – per iniziativa ministeriale – nel salone centrale dell’Esposizione di architettura del 1890, cfr. Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea. Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884, p. 123 passim; Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura. Torino:  Celid, 1999, p. 59. Diversi esemplari di queste immagini sono oggi conservati negli archivi fotografici della Fondazione Torino Musei, dell’Accademia Albertina di Belle Arti e della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Piemonte.

[10] Aggiungendo opportunamente, secondo una formula ampiamente abusata: “ma non  isprigionare dall’intelletto l’i­dea.”, Pietro Estense Selvatico, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, in Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e Comp., 1859, p.338.

[11] Eugène Viollet-Le-Duc, Restauration, in Id., Dictionnaire Raisonné de l’Architecture Française du XI au XVI siècle. Paris: Librairies Imprimeries Réunies, s.d. (1860),  VIII, pp.33-34.

[12]Per la ricostruzione dell’iter progettuale dell’album cfr. P. Cavanna, a cura di, Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005, pp. 33-35.

[13] Quale fosse il valore assegnato dall’ambiente culturale che ruotava intorno ad Avondo e D’Andrade al riallestimento di Issogne mi pare indirettamente confermato anche dalla scelta dei soggetti per le tavole che Carlo Chessa ricavò dalle fotografie Ecclesia (senza dichiararlo) ad illustrazione del volume di Giuseppe Giacosa, Castelli valdostani e canavesani. Torino: Roux e Frassati, 1898.

[14] Robert Forrer, Spätgothische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne. Strassbur: Fritz Schlesier Verlag, 1896, citato in Barberi 1997, p.146.

[15] Fondazione Torino Musei – Palazzo Madama- Fondo Vittorio Avondo, cartella “Conti – ricevute – fatture”.

[16] Giuseppe Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana Torino 1884. Catalogo ufficiale della Sezione Storia dell’Arte. Torino: Tip. Vincenzo Bona, 1884, p.9.

[17] Carla Bartolozzi, a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995.

[18] Questa serie di  immagini ebbe un successo notevole: vennero riproposte sulle pagine de “La Fotografia Artistica” del giugno-luglio 1911 poi ancora in parte riprese da Carlo Nigra, Il Borgo ed il Castello medioevale nel 50° anniversario della loro inaugurazione. Torino: Tip. Carlo Accame, 1934, pur omettendone la paternità.

[19] Salvo diversa indicazione tutte le citazioni successive sono tratte da Torino e l’Esposizione Italiana. Cronaca illustrata della Esposizione Nazionale Industriale e Artistica del 1884. Torino – Milano: Roux e Favale- Fratelli Treves, 1884: n.8, p. 67, n. 42, pp. 331-334.

[20] Giova qui almeno ricordare che il  1884 costituisce un momento importante per la storia della documentazione fotografica dell’architettura italiana anche per l’avvio del progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”, che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si tenne in occasione dell’Esposizione affidò  al Collegio torinese. Questa iniziativa ebbe quale primo esito la donazione da parte di  Camillo Riccio dell’album  contenente i progetti di tutti gli edifici da lui realizzati per l’Esposizione, ancora oggi conservato al Circolo degli Artisti, cui fece seguito nel 1886 la richiesta avanzata al Ministero della Pubblica Istruzione di poter organizzare una “speciale esposizione di opere architettoniche”. In occasione del successivo Congresso di Venezia del 1887 il Collegio torinese fu quindi in grado di presentare il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale. In una macchina museografica costruita come un repertorio veniva ospitato un catalogo antologico fatto di calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto di fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.” Cfr. Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887; Volpiano 1999. Colgo l’occasione per segnalare come parte di quelle immagini sia stata recentemente ritrovata nei depositi di Palazzo Madama ed oggi sia conservata presso l’Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei, ma  sia ancora in attesa di un’appropriata catalogazione e studio sistematico in grado di stabilire consistenza e congruenza di quelle immagini rispetto all’allestimento originario.

[21] Ricordo qui, ma il tema della produzione fotografica connessa alle diverse esposizioni andrebbe approfondito, che un’ampia selezione delle opere esposte venne pubblicata nelle cento splendide tavole in fototipia che costituivano la cartella L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880. Torino: Fratelli Doyen, 1882. Anche G. B. Berra aveva documentato fotograficamente in un grande album la IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, ma dedicandosi all’arte moderna.

[22] Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 49-60, cui rimando anche per un inquadramento critico delle concezioni museologiche di Avondo.

[23] Archivio dei Musei Civici di Torino,  CAP5, n.65 Verbale del 23-12-1895, sottolineatura mia.

[24] Cfr. Cavanna 2005, pp. 41-44.

[25] Realizzazione “che costituisce, ancora oggi  un riferimento insostituibile per ogni storico dell’arte piemontese”, Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[26]Gotico e Rinascimento in Piemonte, catalogo della 2a mostra d’arte a Palazzo Carignano, a cura di Vittorio Viale.  Torino: Città di Torino, 1939. Scoffone firmava gli ingrandimenti per le sale 4, 5 e 6 mentre a Paolo Beccaria si devono le fotografie per il catalogo.