Vita breve di un pittore a macchina (2010)

in P. Cavanna, a cura di, Ferdinando Fino fotografo: le valli di Lanzo a colori all’inizio del Novecento. Lanzo Torinese: Società storica delle valli di Lanzo, 2010, pp. 45-62

 

“L’Esposizione fotografica indetta dalla Società Unione Escursionisti[1] ha avuto un ottimo successo”,  scriveva nel 1906 un redattore de “La Fotografia Artistica”; “Fino e Mattei riproducono scene e soggetti alpini, ricavandone dei veri quadretti.”[2] Questa citazione rappresenta l’avvio documentato delle vicende più significative della breve vita fotografica[3] di Ferdinando Fino, ma a ben guardare, e come non di rado accade, pone più questioni di quante non ne risolva. Mi riferisco qui non solo alla sua vicenda personale  quanto alla mutazione del ruolo del dilettante fotografo, categoria di cui Fino costituiva certo un esponente paradigmatico e che in quegli anni di consolidamento definitivo nell’uso delle lastre rapide alla gelatina e delle prime pellicole si stava trasformando quasi per gemmazione in due distinte figure: il raffinato amateur, erede della sofisticata tradizione ottocentesca, e il dilettante vero e proprio, il neofita che si avvicinava alla fotografia considerandola non più che un nuovo, grazioso giocattolo dagli impensati usi sociali. È certo in questa seconda accezione che va intesa la partecipazione al suo primo concorso, in anni in cui il suo interesse prevalente era rivolto al dipingere. L’iniziativa del concorso e della relativa esposizione era stata assunta dall’assemblea dell’Unione Escursionisti del 15 dicembre 1905 con un’immediata finalità pratica, quella di accrescere la collezione di fotografie dell’Unione stessa, la cui consistenza risultava inversamente proporzionale alla pratica fotografica dei soci. Per favorire la partecipazione dei “dilettanti propriamente detti” vennero esclusi i professionisti e i soci “specialisti in materia”, mentre i soggetti proposti riguardavano esplicitamente le gite sociali e in particolare i “Gruppi di Signore in gita sociale”; uno solo, il terzo, era dedicata al tema ‘artistico’  de “Il lago alpino”. I “veri quadretti” di Fino gli valsero una medaglia, ancora amorevolmente conservata dai nipoti, ma non pare che questo primo, inedito successo abbia influito su di una pratica fotografica allora certo episodica e quasi ovvia per un giovane della borghesia torinese, impiegato nell’azienda familiare di concimi e gelatine[4], con una solida formazione tecnica e un interesse non episodico per la pittura. Un vero dilettante insomma, anche prestando fede alla tassonomia semiseria proposta da G. Ferrari circa gli stessi anni: la “grande famiglia” dei fotografi  “come ogni altra dei tre regni della natura, si divide e suddivide in classi, generi, specie, gruppi ed individui (…). Le due classi principali sono: i dilettanti ed i professionisti. La prima si divide e suddivide all’infinito. Vi sono i semplici, i quali non domandano altro che di premere il bottone (…). Poi vi sono quelli che portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi (…) da collezionare. Più in su troviamo i dilettanti più diligenti, i quali sono molto stimati dai negozianti di generi fotografici. Più in su ancora troviamo gli appassionati, gl’ingegni matematici, per quali la fotografia è una risultante di varie piccole trovate (…). Da questa schiera di dilettanti escono poi i tecnici, gli industriali, i fabbricanti brevettati, gli applicatori.  Ma vi ha un altro genere di dilettanti, coloro che sentono e vedono il bello, e solo perché è tale lo riproducono sulla gelatina; essi non sono veramente artisti, ma temperamenti sensibili, intelletti accessibili all’arte. Vi sono poi i dilettanti, i quali non scelgono che quei determinati soggetti estetici che rispondono al loro temperamento (…) Costoro sono sensibili, raffinati, e si approssimano assai più all’arte. Finalmente ci sono i dilettanti artisti, i quali, seguendo un’ispirazione, compongono scene e oggetti, li dispongono in modo che la fotografia li faccia valere, e non si servono dell’obiettivo che per copiare il quadro che hanno immaginato e compiuto. Questi sono i veri artisti. Vengono quindi gli applicatori della fotografia alla scienza e all’industria (…). Infine abbiamo i professionisti, per i quali la fotografia, più che riflettere il loro temperamento, riflette il gusto del pubblico che servono (…)”[5]. Difficile dire se la sua pratica iniziale lo ponesse tra coloro che “portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi” ovvero tra “coloro che sentono e vedono il bello”. Troppo scarna per consentire un giudizio meditato la sua produzione superstite di stereoscopie monocrome, che pure già rivela in non pochi esemplari – forse più tardi – un uso virtuosistico della luce e un’attenta composizione. Nessuna stampa si è conservata per poter esprimere un parere, anche solo ipoteticamente fondato sulla qualità delle sue prime prove, ma le immagini presentate alla mostra del 1906 non dovettero essere considerate particolarmente significative se nessuna di queste entrò a far parte della ricca collezione di Agostino Ferrari, anch’egli membro dell’Unione Escursionisti, che comprendeva molte fotografie di dilettanti che frequentavano le Valli di Lanzo nei primi anni del Novecento.[6] Quando Fino partecipa e si segnala alla mostra del 1906 è quindi uno sconosciuto, che ancora non aveva trovato posto in quella mappa della pratica fotografica amatoriale costituita dall’apparato illustrativo del volume che il CAI aveva dedicato nel 1904 a questi luoghi e che conteneva tra gli altri un contributo dello zio Vincenzo.[7] Qui, accanto a nomi di noti professionisti come Edoardo Balbo Bertone di Sambuy o grandi amateur  come Mario Gabinio, Secondo Pia e Guido Rey comparivano dilettanti di rango quali Guido e Luigi Cibrario, Edoardo Garrone, Andrea Luino e altri di cui oggi risulta difficile ricostruire le tracce dell’attività fotografica, ma la cui presenza conferma il precoce commento di Carlo Ratti: “Pittori e fotografi molte di queste bellezze han già riprodotto  [mentre] brigate di alpinisti e di escursionisti percorrono in ogni stagione dell’anno quei pittoreschi monti che in breve spazio racchiudono tanta varietà di bellezze da compendiare tutto il sublime delle Alpi.”[8]  Difficile dire a quali nomi di fotografi potesse pensare Ratti, poiché il repertorio sinora più completo relativo all’iconografia fotografica delle Valli di Lanzo[9] segnala per gli anni Ottanta del XIX secolo solo pochi operatori locali (O. Bignami, Gayda e Bersanino) mentre prevalgono quelli attivi a Torino (Fotografia Roma, Ippolito Leonardi, Giuseppe Marinoni, Gaetano Songi) e si segnala la presenza del biellese Giuseppe Varale. A questi pochi altri possono aggiungersi, quali Cesare della Matta, forse un amateur, attivo a Ceres intorno al 1860, e  Pietro Bruneri, o Brunero, professionista con sede a Torino che aprì una succursale a Mezzenile dopo il 1870. Alcune sue immagini relative alle Valli di Lanzo erano comprese nell’album che il Club Alpino Italiano presentò alla Mostra Nazionale Alpina del 1884, a cui presero parte con immagini di analogo tema anche il dilettante Paolo Palestrino e Francesco Casanova, libraio, editore e valente fotografo, mentre nel giugno del 1887 il musicista Leone Sinigaglia riportava “a Torino più di 50 fotografie prese in questi bei giorni nei dintorni di Balme” e altre ne realizzò l’anno successivo per presentarle sotto il titolo di Villaggi e montagne della Val d’Ala alla Esposizione Fotografica Alpina che il CAI organizzò nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti nel 1893.[10]

Il nome di Ferdinando Fino va ora ad aggiungersi alla schiera ben più ampia dei fotografi che frequentarono le Valli nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo, quando la realizzazione del nuovo tronco ferroviario sino a Lanzo[11] diede nuovo impulso alla già consolidata frequentazione turistica dei luoghi da parte della borghesia e della nobiltà  torinesi, aprendosi più comodamente anche ai viaggiatori stranieri, come Samuel Butler, che descrisse in un breve efficacissimo passo la sua esperienza: “da Torino andai a Lanzo da solo, con un viaggio in ferrovia (…) di un’ora e mezza circa. (…) [A Lanzo] Vicino alla scuola c’è un campo, sul pendio del colle, da cui si domina la pianura. C’era una donna che falciava e per dire qualcosa di cordiale osservai che il panorama era bellissimo. «Sì – rispose – si possono vedere tutti i treni».”[12]  Era la modernità della macchina, a vapore non meno che fotografica, che apriva le Valli allo sguardo degli altri; che portava l’immagine dei luoghi oltre i confini della Stura, specialmente grazie alla fotografia amatoriale dei villeggianti e dei più occasionali escursionisti, che per compilare i loro appunti di viaggio non di rado ricorrevano alla stereoscopia,[13] la più diffusa forma spettacolare per immagini antecedente alla nascita ed al primo sviluppo del cinema. Era l’avvento dell’istantanea, favorita dall’accoppiamento tra le nuove emulsioni rapide alla gelatina e il piccolo formato delle lastre, che consentiva ridottissimi tempi di posa offrendo la possibilità di rivivere poi, nella quiete ovattata del salotto di casa, le piccole emozioni e gli incontri con realtà vicine e tanto distanti dal quotidiano scenario urbano, a cui la visione tridimensionale restituiva un affascinante rilievo, emotivo non meno che spaziale. Osservando le  superstiti stereoscopie di Fino emerge chiaro anche in lui il piacere della notazione aneddotica, tra costume e memorie familiari; la loro funzione principale era diaristica, per nulla espressiva, come se a questa fotografia (senza e prima del colore) non fosse concesso altro statuto che quello della testimonianza, cui corrispondevano però una maggiore libertà di ripresa e meno preoccupazioni compositive. Non considerando le consuete, inevitabili riprese di soggetto familiare, analoghe a quelle che negli stessi anni andavano a riempire centinaia di album, tra loro simili e quasi indistinguibili se non per i diretti interessati, e solo per l’arco breve di poche generazioni a venire, le sue immagini di genere sono assimilabili alle Scene di vita e di lavoro che tanto successo avevano nei periodici amatoriali dei primi anni del secolo. Ne “Il Progresso Fotografico”, in particolare, dove vennero pubblicate sotto questo comune  titolo fotografie di autori tra loro diversissimi quali Wilhelm Von Gloeden e Andrea Tarchetti[14], lontane nella loro impostazione bozzettistica dall’attenzione propriamente etnografica che autori come Vittorio Sella e Domenico Vallino dedicavano alle valli biellesi e valdostane[15].  L’attenzione di Fino non era sistematica, non lascia intuire un progetto documentario, ma non si applicava neppure alla descrizione di eventi eccezionali, destinati a nutrire l’immaginario piuttosto che a coltivare il ricordo. Le sue sono sì cronache, ma familiari, dove l’attenzione si esercita sui piccoli fatti non memorabili, su occasioni quasi quotidiane, destinate a trasformare ogni più minuto evento in piccolo spettacolo salottiero piuttosto che a offrire alle generazioni prossime le memorie visive della propria famiglia. Erano, queste fotografie, un’altra forma di affabulazione, dove lo spiccato effetto di realtà della visione stereoscopica, il realismo sorprendente della loro tridimensionalità virtuale offriva una vividezza più prossima alla trasmissione orale del racconto che all’ufficialità dei ritratti di studio. Obbedivano a una logica inversa alla sintesi propria dell’immagine simbolica, dell’icona in grado di racchiudere in sé l’essenza della persona. O dell’evento. Questa intenzione, occasionale e privata, ben corrispondeva allo spirito del concorso del 1906 in cui per la prima volta si era segnalato. E al silenzio successivo.

Il nome di Fino non compare infatti fra gli iscritti al Club d’Arte, fondato a Torino nello stesso anno,  che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi, ma neppure nelle diverse esposizioni promosse negli anni successivi da “La Fotografia Artistica” (1907[16]) o dalla Società Fotografica Subalpina (1907, 1908), dal Photo-Club (1909, con una piccola sezione dedicata alle autocromie), dal Circolo Principe Eugenio e simili. In assenza di qualsivoglia documentazione, nulla ci è dato sapere delle ragioni che lo tennero lontano dalla vita fotografica dopo una prima occasione certo non insoddisfacente. Possiamo solo prenderne atto; segnalare il momento della ripresa, subito di notevole rilievo: per le sue autocromie stereoscopiche Ferdinando Fino venne premiato con Medaglia d’argento della Società Artistica e Patriottica[17] nell’ambito del Concorso nazionale di Fotografia collegato all’Esposizione Nazionale d’Arte e d’Industria Fotografica di Milano.  “Nelle prove a colori  (autocromie) chi si è fatto grande onore è Ferdinando Fino di Torino con venti stereoscopie autocromiche 6×13 che potevano dirsi d’effetto meraviglioso”[18],  commentava in quell’occasione il redattore de “Il Progresso Fotografico”, in una recensione insolitamente molto critica nei confronti del livello medio delle opere in mostra, nella quale ad esempio  non era riservata più che una citazione per Luigi Pellerano, certo allora il nome più noto tra gli autocromisti italiani e di lì a poco autore di un fondamentale testo in materia[19], il quale a proposito della stessa mostra affermava che “Coloro che hanno osservato allo stereoscopio delle autocromie come quelle del Signor Fino all’Esposizione di Milano di quest’anno non hanno potuto impedirsi di gridare «Ma è la verità assoluta!».”[20] Nella sua nuova stagione fotografica Fino confermava l’uso della stereoscopia, ma si misurava con la novità dirompente, assoluta, oggi incommensurabile del colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel (Gabriel Lippman, 1908). La nuova tecnica dell’autocromia[21], che forniva la prima soluzione praticabile su larga scala al problema della fotografia a colori, doveva rappresentare per Fino non tanto una curiosa novità tecnologica quanto il riconoscimento della possibilità di esprimersi al meglio proprio attraverso l’uso della gamma cromatica,  trait d’union con la sua passione di pittore dilettante e con gli amici pittori [22].  Con l’utilizzo del colore il riferimento non poteva che essere costituito dall’universo culturale e dal patrimonio iconografico della Pittura, non solo pieno di suggestioni per definizione nobili, ma che gli era già prossimo per le sue passioni personali e, forse, per le sue frequentazioni. È qui, in questo ambito e in questa pratica che Fino riconobbe e si concesse quelle possibilità di espressione che sembravano assenti e certo meno urgenti nella produzione in bianco e nero. Come per molti amateur suoi contemporanei l’intenzione fotografica era non solo molteplice, ma distinta e quasi separata:  una vera e propria ‘distanza’ tra ambiti solo apparentemente contigui.

La prima presentazione del procedimento autocromico era stata fatta nel 1904 dai Fratelli Lumière nel corso della XII sessione dell’Unione Internazionale di Fotografia[23], cui fece seguito una ben orchestrata campagna pubblicitaria internazionale, che coinvolse le più influenti testate, i maggiori notisti di fotografia e gli stessi inventori in prima persona[24]. Se ancora nel giugno 1905 un critico come Léon Vidal parlava in modo misterioso dei primi risultati, annunciando di essere “alla vigilia del più notevole dei progressi compiuti dalla fotografia”[25], già in luglio sulle pagine dello stesso periodico[26] Armando Gandolfi avrebbe citato il nome degli inventori e spiegato il procedimento nei suoi dettagli, mentre nel 1907, anno della sua commercializzazione, la presentazione italiana del nuovo processo, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica promossa da “La Fotografia Artistica”, venne affidata all’ingegner Ernesto Mancini, Segretario dell’Accademia dei Lincei, con una conferenza dedicata a La photographie aux plaques autochromes des Frerés Lumière, poi pubblicata integralmente.[27] La nuova tecnologia, e il nuovo prodotto, suscitarono immediatamente grandissimo interesse e attenzione da parte della stampa più qualificata: oltre al già citato “La Fotografia Artistica”, anche il prestigioso periodico inglese “The Studio”, ad esempio, dedicò nell’estate del 1908 un numero speciale alla fotografia a colori, di fatto incentrato tutto sulla novità delle autocromie, con immagini tra gli altri, di J. Craig Annan, Alvin Langdon Coburn, Baron A. De Meyer, Franck Eugene, Heinrich Kühn e George Bernard Shaw.[28]  L’elemento di attrazione era costituito non solo dal fascino divisionista (e quindi eminentemente moderno, in quegli anni) della grana colorata di queste immagini, ma anche e soprattutto dalle possibilità offerte di affrontare con strumenti linguistici nuovi il tema del  paesaggio con cui la fotografia artistica si era a lungo misurata e che continuava ad essere considerato centrale anche nei primi decenni del Novecento. Per queste ragioni si sviluppava e si definiva progressivamente,  attraverso numerosi contributi, una precisa estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico col pittorialismo, ora  si misurava e provava a  fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche, espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico. Così nella prefazione al già citato Colour Photography, 1908, contro la tendenza quasi ovvia di instaurare un confronto con la pittura, il curatore riteneva che fosse “del massimo interesse per la fotografia di essere considerata di per sé, e che qualsiasi successo artistico potesse essere raggiunto sarebbe stato giudicato più opportunamente per i propri meriti piuttosto che secondo gli standard stabiliti dal pittore o dall’incisore. I tentativi di riprodurre gli effetti ottenuti da questi artisti sono in sé stessi opposti allo spirito della vera fotografia, e mostrano una mancanza di apprezzamento delle possibilità dell’apparecchio fotografico, e delle possibilità che offre per il raggiungimento di effetti originali”. [29] Gli faceva eco nello stesso anno Edoardo Bertone di Sambuy sollecitando i fotografi autocromisti a “arrivare a formare un solo essere col proprio apparecchio. Bisogna che il nostro occhio, nell’osservare il soggetto, lo possa vedere così come sarà riprodotto sulla lastra autocroma”[30], aprendo così la strada a una concezione puramente fotografica, al pensare fotograficamente non il soggetto ma il soggetto fotografato. Più in particolare ciò che veniva immediatamente riconosciuto e apprezzato, ma anche sentito come vincolo, era l’assoluta esattezza di queste immagini, “fedeli alla natura più di quanto la Natura sia fedele a sé stessa, così implacabilmente precise da costituire in effetti un’alterazione”, imponendo al critico di “scoprire quale modalità di struttura estetica fosse possibile erigere su questa base.”[31] Ciò era particolarmente urgente proprio per la fotografia di paesaggio, nella quale la distanza tra l’osservazione dal vero (dove la purezza dei singoli colori è mediata dalla percezione) e la visione dell’autocromia (dove i colori sono registrati distintamente, sulla base delle loro specifiche caratteristiche fisiche) era maggiore e quasi incolmabile, tanto da “provocare un acuto senso di shock (…) poiché non vi è nulla di più fragile della bellezza di un colore.”  In anni in cui la battaglia pittorialista aveva fatto coincidere le possibilità artistiche della fotografia con le manipolazioni operate dall’autore, questa impossibilità d’intervento era vista come un limite insormontabile, arrivando a dire che “la strada della tecnica resta preclusa al fotografo autocromista per raggiungere l’Arte, poiché, per le caratteristiche stesse del processo, viene automaticamente escluso da ogni possibile intervento, da ogni eventuale manipolazione, perdendo di fatto la propria libertà, il proprio arbitrio, così che anche l’intervento  una delle altre due strade con cui il fotografo può sperare di raggiungere la vetta della Collina Sacra risulta rigidamente sbarrata”.[32]  Restava – secondo Dixon Scott – solo quella forma di artisticità fotografica, di espressione del temperamento che definiva “creazione per isolamento”, corrispondente cioè alla scelta del soggetto e soprattutto al taglio operato dall’inquadratura. In questa poetica del frammento risiedevano le possibilità estetiche dell’autocromia, così come la fotografia di genere, il ritratto e la natura morta erano ritenuti i soli ambiti espressivi in cui il fotografo, nel chiuso del proprio studio, poteva ritornare a essere il deus ex machina, lasciando all’apparecchio il solo compito di registrare la scena accuratamente composta e cromaticamente accordata. Analoghi limiti nella resa del colore e, in apparente contraddizione, di immodificabile precisione erano individuati anche dal critico Robert de la Sizeranne[33], ma puntualmente contestati da un noto autocromista come Antonin Personnaz, che rifiutando le distinzioni tra soggetti e generi diversi individuava le possibilità espressive del fotografo nel momento della scelta del motivo e della sua restituzione sulla lastra, prestando particolare attenzione alla scelta degli obiettivi e all’illuminazione del soggetto, imparando dai grandi maestri ad utilizzare i più opportuni accostamenti cromatici: “Corot gli mostrerà che la sola cuffia rossa di una contadina basta a esaltare il verde di un paesaggio.” [34] Il colto richiamo pittorico di questo compagno di strada degli impressionisti forse non sfuggì a Fino, che popolava le sue autocromie di analoghe soluzioni, ma questa pratica di armonizzazione preventiva del soggetto doveva costituire la regola per chi si misurava con quelle prime immagini a colori: “L’autocromista paesista – consigliava Pellerano nel suo manuale – nella macchina, con le lastre, ha dei fazzoletti di seta e di cotone, berretti da contadini, sciarpe, veli rossi, verdi, violetti, d’ogni tono e d’ogni colore. (…) Questo bazar ambulante, come si può pensare, serve a compensare quel che talvolta la natura non dà, a dipingere la stessa natura con cose colorate e magari con lo stesso pennello, imbellettato all’occorrenza, ma sempre con perfetta maestria d’arte. (…) Egli metterà un rosso (un fazzoletto al collo, in testa a una contadina, un velo) dove gli piace; là un giallo pallido (distendendo magari delle stoffe) oppure un tendaggio damascato.”[35]

Quasi una sintesi descrittiva della produzione di Fino, per come è testimoniata dalle autocromie che qui presentiamo e suggerita dai titoli di quelle offerte ai suoi corrispondenti. Dopo il buon risultato ottenuto all’esposizione milanese del 1909 non pare abbia preso parte ad altre occasioni espositive sino al 1911, quando nell’ambito delle celebrazioni per il cinquantenario della proclamazione del Regno d’Italia si tenne a Torino l’Esposizione internazionale delle industrie e del lavoro, che comprendeva anche un Concorso Internazionale di Fotografia.[36]  Tra le “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti” [37] nel Palazzo delle Feste, si segnalavano ancora una volta le autocromie stereoscopiche di Fino, “ottime sia come scelta di soggetti che come freschezza di colore (…), fra cui ricordiamo specialmente. La ‘Rosa delle Alpi’, la ‘Pineta’, ‘Sulle Alpi Graie’, ‘Prato alpino’, ‘Alba grigia’.”[38] La partecipazione e il successo ottenuto consentirono a Fino anche di avviare una proficua serie di rapporti professionali, documentata dall’unico suo copialettere fortunosamente superstite[39], che puntualmente li registra almeno per gli anni dal 1912 al 1916, lasciando però intuire rapporti antecedenti.[40] Questa fonte risulta particolarmente interessante per quanto ci consente di comprendere, se non delle sue intenzioni artistiche, almeno del suo modo di operare; di questa passione cui riusciva a dedicare solo “le domeniche libere” per “aggiornare il mio lavoro per poterle mandare delle fotografie di montagna, con grande dovizia di neve.”[41] E ancora: “In febbraio marzo aprile andai otto volte in montagna e su otto, sette domeniche presi neve, tramontana, senza poter far nulla (…) mentre una volta sola fui fortunato e potei prendere qualche veduta. Da domenica a ieri (giovedì) andai nei dintorni di Rapallo per prendere vedute di mare. Devo ancora svilupparle, però il mare mosso e il vento sugli alberi mi furono contrari[42] e non so a cosa avrò approdato nei miei tentativi. Appena avrò una piccola collezione (spero fra una ventina di giorni) glie la spedirò, e lei sceglierà. Intanto viene giugno e allora sono certo di poter preparare e ripetere quelle che avevo all’Esposizione per mandargliele.  Creda però che non potendo trar copie dalle fotografie a colori[43], per quanto il prezzo di £. 20 possa parer caro, alla fine di tutti i conti, le spese e le fatiche, non sono compensate dal guadagno materiale. Utile certo per me è quello di soddisfare con minor spesa alle mie aspirazioni di far passeggiate, di gustare le meraviglie della natura, ammirandole e procurandomene qualche ricordo fotografico quando la fortuna mi permette di prendere due volte la stessa veduta. (…) Noti poi che, quando le lastre sono nei telai, e che per due tre settimane non sono usate (come successe a me nel cattivo tempo) devono essere buttate via perché diventano inservibili.”[44] Il procurarsi “qualche ricordo fotografico” delle “meraviglie della natura” risulta quindi il solo scopo dichiarato della sua pratica fotografica, nulla più che “un’arte di diletto (…) il vaso di umili fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini”[45], sebbene non trascurasse l’occasione di ottenere un qualche piccolo introito, sempre meno occasionale e benvenuto “tanto più che, colle prospettive poco rosee che la nostra industria mi riserva, qualche po’ di guadagno extra non mi riesce certo inopportuno.”[46] Non fosse che per questo Fino si impegnava con Italo Carboni, certo il suo committente più importante, proponendo vere e proprie campagne documentarie per soddisfare richieste che andavano ben oltre la produzione ‘artistica’ presentata all’Esposizione del 1911. “Qui in Piemonte abbiamo qualche bella chiesa di puro stile del 1000 – e del 1500, come l’Abbazia di Vezzolano presso Albugnano d’Asti – o la chiesa di Sant’Antonio di Ranverso in Val di Susa presso Avigliana; degni di fotografia sono pure tutti i castelli della Valle d’Aosta, pei quali gli sfondi di Alpi con neve non mancano di rendere attrattivissime le vedute. Ma la Val d’Aosta è così mal servita da treni ferroviari, che dovrei aspettare che le strade diventassero buone” gli scriveva nel febbraio del 1912[47], e certo la proposta dovette essere accolta, avviando una serie di commesse di cui allo stato attuale delle nostre conoscenze non siamo in grado di comprendere le ragioni, restando indefinita la figura e l’attività del committente.[48] La richiesta più impegnativa riguardava gli ambienti del Palazzo Reale di Torino, per i quali era necessario superare difficoltà di ordine burocratico quanto tecnologico: occorsero infatti ben nove mesi per ottenere l’autorizzazione dell’ Amministrazione della Real Casa,  ma “finalmente – nel giugno 1913 –  dopo mille rigiri per avere il permesso di fotografare la camera di Re Umberto questo mi fu negato, come a tutti è negato, potrei però eseguire quelle dello scalone, salone degli svizzeri, sala da ballo, pranzo ecc. per le quali ebbi il permesso.”[49] La realizzazione si presentò poi tanto difficoltosa quanto scarsamente remunerativa: “in omaggio alla deferenza che Ella ebbe sempre per me, scriveva a Carboni nell’agosto del 1913[50] – ho mantenuto il prezzo di £ 20 caduna, quantunque, specialmente per gli interni del Palazzo Reale, io finisca per rimetterci, essendoché per ogni veduta, come già le accennai, dovetti farne tre per la RR. Casa, e per avere una veduta buona, senza macchie, graffiature ecc, dovetti farne diecine per ogni soggetto! In compenso, tanto più che i risultati per la maggior parte d’esse sono eccellenti, mi fido perfettamente della di Lei correttezza, ed oso sperare non me ne rifiuterà alcuna del Palazzo Reale onde compensarmi in parte di un mese di lavoro! Noti che in quegli interni ho dovuto dare pose di 1-2 e più ore[51], ed il pubblico che visitava, passando, non di rado mi rovinò l’opera mia! (…) Dimenticavo di dirle che per la disposizione infelice della luce e per l’ampiezza dell’angolo visuale che le attuali macchine fotogr[afiche] stereoscopiche non possono abbracciare, o [sic] dovuto scartare lo scalone d’onore ed il Salone degli Svizzeri, viceversa mi sono barcamenato in modo da darle una collezione dei punti migliori e decentemente fotografabili a colori del ns. Palazzo Reale.” Il committente, che pare conoscesse piuttosto bene le stesse Valli di Lanzo,  non dovette però ritenersi soddisfatto: “Quanto al Salone degli Svizzeri ed allo Scalone d’onore, ritenterò la prova – gli comunicava Fino una settimana più tardi – tanto per dimostrarle che cerco di contentarla, ma siccome mi sarebbe passiva la fattura di 4 lastre per qualità, come mi fu passiva per le 10 mandatele, userò l’astuzia di dire all’Amministraz.  della R.C. che non mi sono riuscite, e così farò a meno di ripetere pose di 3-4 ore! (…) La veduta N.15 (se non erro dove sul sentiero è ferma una donna colla gerla) è realmente la perinera, ed il campanile non ha nulla a che vedere con quello della Cappella di Benot, al quale assomiglia però, data la comunanza del tipo architettonico contemporaneo delle chiese delle vallate di Lanzo. Per l’interno della cappella, credo che non ci sia interesse, ad ogni modo se sarà fotografabile e degna di nota, ad una mia eventuale gita colà lo tenterò per lei.”[52] Negli anni immediatamente successivi all’ Esposizione del 1911 le occasioni di lavoro fotografico sembrano moltiplicarsi, nei più diversi settori: dalla documentazione d’arte, con la riproduzione di dipinti di Vittorio Avondo su richiesta di Emanuele Celanza[53], alla realizzazione di alcuni interessanti studi di nudo, forse realizzati su richiesta di Alfredo Canova, residente a Lima ma conosciuto a Torino proprio nel 1911[54]. Il tema non era certo inconsueto neppure per la fotografia, che sin dai primi dagherrotipi aveva offerto un’ampia produzione di nudi, specialmente femminili, in una gamma estesa di trattamenti che andava dallo ‘studio artistico’ all’immagine licenziosa o esplicitamente pornografica, affidandosi non di rado all’iperrealismo della resa stereoscopica per ottenere un di più di sollecitazione sensoriale, certo accentuato dal vincolo di una visione che non poteva che essere individuale ed esclusiva: privata. Questo sembra essere stato l’ambito di maggior diffusione, la destinazione privilegiata, tanto che il tema scorre quasi sotterraneo e certo non risulta essere stato tra quelli qualificanti delle prime ricerche, esplicitamente artistiche, come quelle poste in essere dai fotografi pittorialisti, nel cui ambito sono rari gli autori che lo hanno affrontato sistematicamente. Nessun nudo venne presentato alla grande Esposizione internazionale di Fotografia Artistica che si svolse a Torino nel 1902; nessun nudo integrale comparve mai sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, a riconferma di uno scarso interesse degli autori italiani per il tema, ma anche la più autorevole “Camera Work” ospitò quasi solo i corpi simbolisti, immersi nella natura di Anne W. Brigman. Non era quindi alla cultura fotografica che Fino poteva guardare per concepire le proprie immagini, ma all’iconografia pittorica, specialmente accademica, sebbene alla predilezione di molti per Ingres quale modello[55] egli doveva preferire Delacroix (Linda, I), o per meglio dire le fotografie che Eugène Durieux aveva realizzato sotto l’attenta regia del pittore circa mezzo secolo prima[56]. Riferimento fotografico difficile da ipotizzare con verosimiglianza, quasi impossibile. Più criticamente plausibile una mediazione iconica, per la relativa buona circolazione dei modelli sotto forma di riproduzioni con diverse tecniche, non ultima proprio quella fotografica, e per le relazioni forti con l’ambiente artistico torinese di cui costituiscono più che un indizio alcune immagini e alcuni documenti. Michelina (modella nello studio del comm. Grosso), dichiara sin dal titolo il luogo della sua realizzazione e si presenta come un’interpretazione fotografica del notissimo dipinto del 1896, mentre (Linda, II), si ispira a sua volta a una delle tante varianti realizzate dal pittore dopo lo scalpore e il successo de La nuda[57]. Ribaltando una consuetudine propria di tutto il XIX secolo e oltre, Fino non realizzava fotografie per i pittori, ma ne utilizzava le risorse (studi, modelle, opere) per scopi personali. Qui l’atelier  non è neppure più pretesto per mostrare il corpo nudo, è semplice scenografia, ambientazione tra le tante possibili, facilmente sostituibile da quei “tendaggi damascati” che suggeriva il manuale di Pellerano o addirittura da un contesto ambientale quasi domestico, sebbene ingombro di piccoli quadri, tenuto in ombra e un poco fuori fuoco come nel bel Busto di giovinetta, certo il meno convenzionale, il più moderno dei suoi nudi, dei quali merita però sottolineare come fossero, tutti, esercizi di grande virtuosismo tecnico, per le lunghissime pose necessarie per le riprese in interni, rispetto alle quali certo risultava fondamentale la capacità professionale delle modelle coinvolte, sebbene non dovesse essere questa qualità ad attrarre i suoi possibili acquirenti.

Il rapporto diretto con alcuni esponenti del mondo artistico piemontese, tra Accademia Albertina e soggiorni a Viù, favorito forse anche da alcuni legami parentali, dalla sua primaria passione per la pratica pittorica, testimoniato da queste immagini e da alcune lettere[58], è confermato proprio dalle fotografie a colori di Ferdinando Fino, che nella scelte compositive e di trattamento dei soggetti mostrano una consuetudine con il paesismo piemontese e con certa pittura coeva che si traduce immediatamente in adesione stilistica, tradotta nelle nuove forme espressive consentite e – di più – suggerite dalle particolarità tecniche dell’autocromia. “Non si può immaginare, se non si osserva, l’effetto eminentemente suggestivo che danno le autocromie stereoscopiche – scriveva Rodolfo Namias[59] – Congiungere colori naturali e brillanti coll’effetto di rilievo e di forma costituisce per l’occhio un godimento che niente può superare.” La pubblicazione di queste immagini, così come la loro esposizione sotto forma di stampa a immagine singola, certo priva l’osservatore odierno di questa affascinante esperienza, rendendo meno evidenti le intenzioni del fotografo, poiché la visione monoculare conserva certo gli elementi cromatici e la struttura compositiva, ma annulla  quell’effetto di profondità spaziale che ne costituiva il tratto distintivo, e a cui Fino prestava particolare attenzione specialmente nelle riprese di paesaggio, in cui questa era risolta non solo mediante la scelta di un opportuno punto di vista, che consentisse una graduale distribuzione dei volumi o sottolineando opportunamente il punto di fuga (si noti l’alberello posto al centro di Paesaggio), ma anche giocando sulle diverse luminosità della scena, collocando le ombre più profonde in primo piano (Alba sul Monte Civrari). Luce e colore, un colore iperrealistico e vivo nella mutevole osservazione per trasparenza[60], erano il vero tema di molte riprese, giocate sulla variazione quasi monocromatica: dalla penombra fredda, quasi vespertina del sottobosco (Lo stagno), argomento di diverse riprese, una delle quali (Poesia autunnale) facilmente accostabile a Nel bosco, di Petiti[61], datato 1914,  alla saturazione piena dei rossi aranciati (Nel regno dei larici) e dei verdi (Mulattiera presso Usseglio?), alle infinite combinazioni intermedie (Bosco in collina, Alberi in autunno). L’ambiente è alpino, quasi sempre, o campestre: non gli interessava la città né la vita che vi si svolgeva. Anche le sue figure sono ambientate tra prati e boschi. Alcune non sono nulla più che versioni a colori delle consuete immagini escursionistiche (Borgata Porcili presso LemieViù: Versino), ma la maggior parte di quelle rimaste mostra con quanta sensibile attenzione Fino guardasse alla produzione piemontese di derivazione fontanesiana, senza per questo escludere suggestioni diverse e di differente ispirazione, sino a produrre quasi un repertorio fotografico di soluzioni pittoriche nelle quali la figura gioca un ruolo importante, pur senza essere fondamentale. Sono scene di genere, con pastorelle e valligiane che paiono attendere ai loro lavori, ma non si tratta di istantanee. Nulla di più estraneo all’operare di Fino di ogni intenzione etnografica. Non gli apparteneva la volontà di superare “i prodotti del pennello in fedeltà e verità nel ricordarci la vita vissuta, palpitante di movimento, producendo una freschezza di impressioni che difficilmente sono a portata della paletta” [62]. Le sue scelte erano frutto del convergere di due intenzioni: la volontà di produrre immagini di valore artistico e la necessità di  “trovare i tipi che realmente posino con arte e naturalezza: ma in campagna si troveranno sempre, e sono i contadini, mentre non è facile trovare negli abitanti della città espressioni tanto naturali.”[63]  Quando neppure i villici soccorrevano alla bisogna, poteva essere la moglie a prestarsi come modella per arricchire una scena agreste (Sull’altipiano di Benot, la figura a sinistra) o realizzare efficaci composizioni sul tema della figura nel paesaggio (Meditando; Alla sorgente), accordate cromaticamente nello scrupoloso rispetto dei canoni espressi dalla pubblicistica coeva, senza mai far mancare quella cuffia rossa che sembra essere stata il marchio distintivo di quel sereno mondo color pastello raccontato dalle autocromie amatoriali. Quello che la Grande guerra si sarebbe premurata, di lì a poco, di cancellare.

 

 

Note

 

[1] L’Unione Escursionisti Torinesi (U.E.T.) venne fondata nel settembre del 1892 per iniziativa di Silvestro Fiori e Luigi Ardizzoia, allo scopo di “curare lo sviluppo dell’amore per l’escursionismo; promuovere, organizzare e dirigere comitive per gite in montagna ed in pianura alla visita dei luoghi che presentano maggiore interesse per attraenza di bellezze naturali e per ricordi storici od artistici; incoraggiare ed aiutare gli studiosi alle ricerche istruttive.”, cfr.  “L’Escursionista”, 4 (1902), n.8, 7 agosto, p.4. Erano soci negli anni immediatamente successivi alla fondazione architetti come Mario Ceradini, Gottardo Gussoni e Cesare Bertea, studiosi come Ercole Bonardi ed Edoardo Barraja, l’avvocato Carlo Reynaudi, autore ed editore di una fortunata serie di Guide turistiche, fotografi come Emanuele Elia Treves (collaboratore della “Gazzetta del Popolo”, tra i fondatori della Società Fotografica Subalpina), Mario Gabinio, Giancarlo Dall’Armi, lo scultore Tancredi Pozzi, gli  editori  Francesco Casanova e Simone Lattes. L’attività dell’associazione era sostenuta da altre collaborazioni prestigiose come quella di Riccardo Brayda, dal 1898 fino alla morte, di Giovanni Vacchetta e di Federico Sacco, ma la rete di relazioni intessuta tra i diversi gruppi a livello regionale è tale che scorrendo le pagine del  “L’Escursionista” si  incontrano altri nomi di esponenti di spicco della cultura e della fotografia piemontesi come Francesco Negri e Pietro Masoero.

[2] A.T., Notizie fotografiche, in “La Fotografia Artistica”, 3 (1906), n. 12, dicembre, p. 204. Ricordo che l’Unione Escursionisti aveva partecipato anche all’Esposizione di Fotografia di Torino del marzo 1900. In quell’occasione  “La Valle di Viù fu illustrata assai bene da Federico Filippi, il quale lascia molto bene sperare di sé per le sue vedute in formato 9×12.”, Ugolino Fadilla, L’Esposizione fotografica a Torino,  “Gazzetta di Torino”, 5 marzo 1900, p.4. La mostra del 1906 ebbe tra i propri organizzatori Mario Gabinio, di cui era già relativamente noto il lavoro dedicato alle Valli di Lanzo, ma non paiono esservi state relazioni dirette o di amicizia tra i due: tra le 475 stampe originali  e le decine di lastre di sessanta autori diversi comprese nel Fondo Gabinio della Fondazione Torino Musei non compaiono immagini  di Fino, cfr. Mario Gabinio. Valli Piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, 2000), a cura di P. Cavanna. Torino: Edizioni GAM Galleria Civica d’Arte Moderna, 2000.

[3] Non solo per i limiti geografici stabiliti da questo progetto dedicato alle Valli di Lanzo, è bene avvertire che lo studio della sua figura di fotografo, e della sua produzione, è inevitabilmente condotto su quanto di lui si conosce allo stato attuale, cioè sulle immagini superstiti: non più di un migliaio di fototipi tra lastre monocrome e autocromie, tutte stereoscopiche, ma nessuna stampa. Questo patrimonio consente certo di valutare opportunamente la sua produzione in bianco e nero, meno le più interessanti autocromie che – come dimostra il copialettere – venivano regolarmente vendute almeno a partire dai mesi successivi all’Esposizione del 1911 e sono quindi disperse (semmai superstiti) in archivi di famiglia italiani e stranieri, in fondi non ancora indagati di pittori torinesi, e delle quali ci restano soltanto – in non pochi casi – i titoli originali.

[4] Non è questa la sede per ripercorrere le vicende della storia della fotografia in Piemonte nel XIX secolo, ma credo sia utile richiamarne alcuni caratteri salienti, in particolare la pratica amatoriale svolta ad altissimo livello e sovente con esiti pionieristici.  Si pensi ad esempio ai numerosi rappresentanti della borghesia imprenditoriale come Giuseppe Venanzio Sella, Emilio Gallo o Cesare Schiaparelli, nei quali si associavano competenze tecnologiche e imprenditoriali, tanto da poter quasi dire di una fotografia dell’età industriale, dove industriale è per la prima volta la produzione e quasi solo industriali (sebbene per poco) furono molti dei suoi cultori. A questi si aggiunsero i rappresentanti delle professioni: i medici, i farmacisti (ritorna, ancora, inevitabilmente la dimestichezza con la chimica), gli ingegneri ma soprattutto gli avvocati, come Secondo Pia. Tra questi va ricordato, di poco più giovane di Fino, almeno Domenico Riccardo Peretti Griva (Coassolo 1882 – Torino 1962) che fu uno dei dilettanti appartenenti alla storica Scuola Piemontese di Fotografia Artistica (così denominata da Schiaparelli), che insieme ad Achille Bologna, Stefano Bricarelli, Carlo Baravalle, Mario Gabinio  Cesare Giulio, Italo Bertoglio e pochi altri segnarono la modernità della fotografia italiana tra le due guerre mondiali.

[5] G[uglielmo] Ferrari, Esposizione fotografica. La fotografia artistica, in “La Stampa”, 34 (1900), n. 67, 8 marzo, p. 3.

[6] Agostino Ferrari, Catalogue de Photographies de la Châine des Alpes, des Appennins, des Pyrenées, du Caucase, de l’Himalaya, etc., 1902 e 1902-1907, dattiloscritto, Torino, Museo nazionale della Montagna, Centro di Documentazione. A conferma di questo dato ricordiamo che nessuna immagine di Fino venne utilizzata dallo stesso Ferrari per il volume La Valle di Viù. Torino: Lattes, 1912.

[7] Vincenzo Fino, Notizie mineralogiche sulle Valli di Lanzo, in Club Alpino Italiano, sezione di Torino, Le valli di Lanzo: Alpi Graie. Torino: G. B. Paravia e C., 1904, pp. 491-507. Per la preparazione della monografia il CAI aveva indetto un concorso fotografico e una successiva mostra alla quale avevano preso parte tredici autori con ben seicento fotografie.

[8]Carlo Ratti, Da Torino a Lanzo e per le Valli della Stura. Torino: F. Casanova, 1883, pp. 6-7. Nonostante il richiamo all’attività dei fotografi, il volume è però illustrato da sole riproduzioni di disegni.

[9] Aldo Audisio, Bruno Guglielmotto Ravet,  Valli di Lanzo ritrovate fra Ottocento e Novecento: 1860-1930.  Ivrea: Priuli & Verlucca, 1981.

[10] Cfr. Giuseppe Garimoldi, Alle origini dell’alpinismo torinese. Montanari e villeggianti nelle valli di Lanzo. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1988. p.55; Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990; Pierluigi Manzone, a cura di, Un repertorio dei fotografi piemontesi 1839-1915, in Id., a cura di, Fotografi e fotografia di provincia: Studi e ricerche sulla fotografia nel Cuneese. Cuneo: Biblioteca Civica di Cuneo, 2008, pp.11-119.  Segnalo qui che ancora nel 1911, all’Esposizione di fotografia, Zeno Flamia di Vinovo, presentava un Album di vedute della Valle di Lanzo e della Valle di Viù, cfr. Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia,  Torino, aprile-ottobre 1911. Torino: G. Momo, 1911, p.10, n.22.

[11] Per le vicende costruttive della ferrovia rimando a Cristina Boido, Chiara Ronchetta, Luca Vivanti, a cura di, Torino – Ceres e la Canavesana. Itinerari ferroviari piemontesi. Torino: Celid, 1995.

[12]Citato in Rinaldo Rinaldi, a cura di, Un inglese nelle Valli di Lanzo. Dalle note di viaggio di Samuel Butler. Lanzo: Società Storica delle Valli di Lanzo, xlviii, 1995, p.8 passim.  Butler era allora in Italia su incarico del proprio editore che gli aveva offerto 100 sterline per la realizzazione di un libro illustrato sul nostro paese, poi rifiutato e pubblicato a spese dell’autore: Alps and Sanctuaries. London: David Bogue, 1882. Sull’uso della fotografia da parte dello scrittore inglese si vedano: Elinor S. Shaffer, Erewhons of the eye : Samuel Butler as painter, photographer, and art critic. London: Reaktion Books, 1988; Samuel Butler, the way of all flesh : photographs, paintings watercolours and drawings by Samuel Butler (1835-1902),  catalogo della mostra (Bolton, 1989). Bolton:  Bolton Museum and Art Gallery, 1989.

[13] Inventata nel 1832 da sir Charles Wheatstone, ma  messa a punto fotograficamente solo nel 1849 da sir David Brewster (già inventore del caleidoscopio) ed enormemente diffusa dopo l’Esposizione Universale di Londra del 1851, la visione stereoscopica aveva molto precocemente attratto l’attenzione dei pittori; si veda a titolo esemplificativo Alessandro Guardasoni, Della pittura, della stereoscopia e di alcuni precetti di Leonardo  da Vinci: pensieri. Bologna:  Soc. tip. Azzoguidi, 1880. L’attenzione per la pratica fotografica – sebbene quasi clandestina –  non era estranea all’ambiente dell’Accademia torinese, come dimostra la presenza nella Biblioteca dell’Albertina del volume di H.P. Robinson, De l’effet artistique en photographie: conseils aux photographes sur l’art de la composition et du clair-obscur, traduction française de la 2.e éd. anglaise par Hector Colard. Paris: Gauthier-Villars, 1885; più consueto invece il ricorso alle stampe fotografiche quali modelli di studio, non estraneo neppure a Fontanesi, ma praticato in particolare da Luigi Belli, cui si devono gli esemplari più importanti, specialmente di autori francesi, ancora attualmente conservati nel Fondo fotografico storico di questa istituzione.

[14]  Cfr. Andrea Tarchetti, notaio: Fotografie 1904 – 1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna, Mimmo Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli 1990; Miraglia 1990, p.75. Un analogo approccio bozzettistico è rintracciabile anche nelle fotografie coeve di Mario Gabinio, e nelle immagini di altri frequentatori delle Valli di Lanzo, cfr. Audisio, Guglielmotto Ravet 1981, nn. 42,43,65,94. Tra queste si segnala una ripresa realizzata a Benot da Guido Cibrario verso il 1913 (n. 137) che è analoga, quasi sovrapponibile alla veduta realizzata da Fino circa gli stessi anni (26881). Un’attenzione diversa, non bozzettistica ma empatica, per il mondo contadino delle valli piemontesi è invece quella testimoniata con grande anticipo,  per la generazione precedente, dai numerosi album di Vedute delle Valli Valdesi realizzati dal pastore David Jean Jaques Peyrot (Luserna San Giovanni, Torino, 1854 – 1915), tra i più rilevanti esempi di produzione fotografica di tutto l’Ottocento piemontese, in parte conservati presso l’Archivio Fotografico Storico del Centro Culturale Valdese di Torre Pellice.

[15] Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, s.d. [1890], (reprint Ivrea: Priuli & Verlucca Editori, 1983). Per una presentazione critica dell’Album realizzato da Sella e Vallino rimando a P. Cavanna, Album di un alpinista fotografo,  “Alp”, 11 (1995) n.122, giugno, pp.124-127; Id.,  La montagna abitata di Domenico Vallino, “Rivista Biellese”, 3 (1999), n.1, gennaio, pp.51-58.

[16] Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica. Catalogo. Torino: Grafica Editoriale Politecnica [La Fotografia Artistica], 1907.

[17] Red., Il Concorso fotografico di Milano, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 8, agosto, pp. III-IV.

[18] Red., Una Rassegna della Mostra Fotografica Nazionale di Milano,  “Il Progresso Fotografico”, 16 (1909), pp.217-221 (219). Tra i pochissimi autori a praticare il colore, Fino era il solo a lavorare in stereoscopia mentre Luigi Pellerano era il solo che risulti ancora attualmente noto.

[19] Luigi Pellerano, L’autocromista e la pratica elementare della fotografia a colori. Milano: U. Hoepli, 1914.

[20]Luigi Pellerano, L’Autochromie et ses applications artistiques, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 8, agosto,  p.128, nota 1.

[21] Autocromia (sintesi tricromica diretta – sintesi additiva): sistema messo a punto dai Fratelli Lumière nel 1904 (commercializzato dal 1907) sulla scia delle intuizioni di Ducos du Hauron (1869) e delle sperimentazioni di Joly (1894), è reso possibile dalla scoperta del procedimento di sbianca di Rodolfo Namias. La luce impressiona una lastra b/n pancromatica rivestita da un filtro a mosaico a struttura casuale costituito da granelli di fecola, colorato nei colori primari blu, verde, rosso. La lastra, dopo sviluppo e inversione, viene osservata per trasparenza o per proiezione. Lo schermo tricromo in fecola di patata attirò da subito numerosi fotografi piemontesi, di diverse generazioni, tra i quali merita almeno ricordare  Italo Mario Angeloni, Giuseppe Gallino, Franco Manassero, Felice Masino, Pietro Masoero, Francesco Negri, il già citato Pellerano, anch’egli  membro dell’Unione Escursionisti, Secondo Pia, autore di poco meno di trecento autocromie,  Adriano Tournon, Giovanni Battista Vercellone e C. Schiaparelli, oltre a Anny Wild, unica donna a godere di una certa notorietà,  le cui fotografie vennero pubblicate ne “La Fotografia Artistica”  a partire dal luglio 1910. A conferma di un fenomeno ancora tutto da studiare nelle sue dimensioni effettive e nei suoi esiti, per la gran parte sconosciuti o dimenticati, mi limito a segnalare tra gli altri autori di cui resta memoria nei cataloghi delle esposizioni o negli archivi degli eredi quello di Francesco Ernesto Penna, a sua volta in relazione con Pia; cfr. Marco Albera, Francesco Ernesto Penna: un fotografo torinese alla Sacra di San Michele (1913), estratto da Italo Ruffino, Maria Luisa Reviglio della Veneria, a cura di, Il Millenio Composito di San Michele della Chiusa: Documenti e studi interdisciplinari per la conoscenza della vita monastica clusina, V. Borgone Susa: Melli, 2003. Sulla produzione di Pia si rimanda a Giuseppe Pia, Nota storica sull’Archivio di Secondo Pia, in Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, pp.73-77, mentre l’attività di autocromista di Schiaparelli pare non aver lasciato traccia materiale, almeno per quanto risulta dalla monografia curata da Gian Paolo Chiorino, Cesare Schiaparelli fotografo paesaggista. Occhieppo Superiore: Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2003. La stessa Società Fotografica Subalpina organizzò conferenze e proiezioni per presentare questo nuovo metodo e i fratelli Lumière vennero nominati soci onorari dall’Assemblea del 30 aprile 1908.

[22] La possibilità di riprodurre le proprie opere a colori, dapprima col metodo della tricromia, aveva affascinato ad esempio già Segantini, che in un lettera a  Grubicy de Dragon del 1893 (n. 383) scriveva: “Caro Alberto, come ti ho già detto, a me pare che il sistema trovato dal Mora [cioè la tricromia] di riprodurre fach simile i quadri ad oglio [sic] è scoperta meravigliosa. ed io sono pronto a sostenerla, non solo moralmente, ma intendo di fare dei quadretti appositamente, di effetto afferrabile a tutti, e di sentimento intimo, onde abbiano con la delicatezza e serietà dell’arte (…) che seduce e affascina le anime buone, onde divolgare il gusto dell’arte (…) vera.” E ancora, a fine settembre 1897 (n.622): “Pei quadretti da riprodursi in Eleografia sistema Mora, bisognerà intendersi meglio per non fare un inutile lavoro.” Infine nel luglio 1899 (n.762): “Caro Alberto (…) Nell’ultima tua lettera ho trovato dentro dei campioni di riproduzioni a colori, per far questo bisognerebbe che avessi il tempo di starci dietro di persona.” Cfr. Annie-Paule Quinsac, a cura di, Segantini. Trent’anni di vita artistica europea nei carteggi inediti dell’artista e dei suoi mecenati. Oggiono – Lecco: Cattaneo Editore, 1985. Altrettanto, e forse più noto è il caso di Michetti che rivolgendosi a Carlo Tridenti, ch’era andato a fargli visita a Francavilla [1920ca], e stava guardando un gruppo di schizzi dal vero gli diceva: “«Lascia stare quelle porcherie e vieni qua se vuoi vedere la natura e il vero colore». E gli mostrava decine di angoli di prati in fiore, e di campi di zucche mature, fotografati da lui con lastre a colori, e proclamava che valevano molto più dei suoi quadri.”, citato in Silvio Negro, Album Romano. Roma: Casini, 1956, p. 16. L’episodio fa il paio con quello ricordato nei Taccuini di Ugo Ujetti: “Lino Pesaro [il gallerista] mi parla di Michetti. L’ha veduto giorni fa al convento di Francavilla. Che cosa ha di pronto Senatore? Quanti quadri vuole! Me li mostri, e Michetti lo conduce davanti ad uno schedario con diecimila schede grandi di cartone (…) in un angolo  un numero” che rimanda allo schedario delle fotografie “Come vede, qui lei ha 10.000 quadri. Perché non li fa? Ma per me sono fatti. E per il pubblico? Non me ne importa niente. Dovrei eseguirli. Facile ma noioso. Io, li vedo perfetti.”, citato in Marina Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, in Francesco Paolo Michetti. Il cenacolo delle arti tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma – Francavilla al Mare, 1999). Napoli: Fondazione Michetti – Electa Napoli, 1999, p. 15. Anche Rodolfo Namias, La Fotografia in Colori. L’Autocromia. I Processi Fotomeccanici in Colori. La Cinematografia in Colori. Milano: Edizioni “Il Progresso Fotografico”, 1930 (V ediz.), p. 201 ricordava di “aver inteso lui stesso dalla bocca di uno dei più eminenti artisti italiani, il compianto pittore F.P. Michetti [1851 – 1929], esaltare l’utilità delle lastre autocrome. Egli, dopo aver applicato largamente l’ordinaria fotografia come ausiliario utilissimo, trovò nelle lastre autocrome un ausiliario ben più prezioso.”   E così proseguiva: “oggi colle lastre autocrome l’artista può ottenere una riproduzione fedele del soggetto in pochi secondi, e può poi studiare l’immagine a colori con maggiore comodità e in modo più preciso che nella natura stessa. Si può dire che la prova autocroma insegna a vedere i colori e dovrebbe essere considerata come mezzo efficacissimo di preparazione artistica.” (Ivi, p. 20, che in realtà si appropriava  – senza citarlo – di intere frasi di Luigi Pellerano, L’autochrome, cit., pp.127-129). Di diversa opinione fu certamente Giuseppe Pellizza, nel cui Fondo fotografico non sono state ritrovate autocromie, cfr. Aurora Scotti, a cura di, Pellizza e la Fotografia: il fondo fotografico. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2007.

[23] Svoltasi in concomitanza col XIII Congresso delle Società fotografiche francesi a Nancy, dal 18 al 25 luglio, cfr. Pietro Masoero, Pro Annuario, in “Annuario della Fotografia Italiana”, 1905, VII, p. 191. Il processo di fabbricazione delle lastre era ovviamente coperto da segreto, tanto che anche un tecnico esperto come Namias ancora nell’edizione del 1930 del suo manuale si trovava costretto a fare abbondante uso di termini condizionali (“presumibilmente (…) sarebbe (…) Tale scelta è fatta con processo meccanico non noto, ma forse…”, Namias 1930, passim.

[24] Il nuovo procedimento era stato presentato in Italia dagli stessi Auguste e Louis Lumière, Sopra un nuovo metodo d’ottenere la fotografia dei colori,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 1904, pp. 287-289.

[25] Leon Vidal, L’Art de peindre avec la photographie, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 6, giugno, pp.1-2.

[26] Armando Gandolfi, La fotografia dei colori, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 7, luglio, pp.13-15. Un atteggiamento diverso fu quello della rivista milanese “Il Progresso Fotografico”, che ancora nel 1908 e oltre pubblicava molte tricromie e insomma non parteggiava per i Lumière come i torinesi, forse influenzati (oltre che da legami di lunga data con la Francia) dalla presenza in città del concessionario per l’Italia del nuovo processo: la ditta Momigliano e Calcina, con sede in Via Bogino, 19 bis.

[27] “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n. 8, agosto, pp.122-128. L’attenzione di Mancini per la fotografia è testimoniata anche dalla sua relazione dedicata alla Fotografia stereoscopica, metodo Estenave, presentata al III Congresso fotografico italiano di Roma del 1911.

[28] Charles Holme, a cura di, Colour Photography and other recent developments of the Art of the Camera. London –  Paris – New York: “The Studio”, 1908.

[29] Charles Holme, Prefatory Note, Ivi,  p. A2. Anche in Italia c’era chi, da tempo, era convinto che “l’arte fotografica  deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro”,  Pietro Masoero, Studi e critiche: Arte fotografica, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 10 (1898), pp. 161-171 (p. 170).  Queste posizioni lo indussero a  prendere le distanze dalla “esagerazione della ricerca” degli esponenti del gruppo americano selezionato da Alfred Stieglitz per l’Esposizione torinese del 1902, mentre nella stessa occasione espresse apprezzamento per le opere di Giacomo Grosso, Guido Rey e Cesare Schiaparelli.

[30] Edoardo Bertone di Sambuy, Notes sur l’usage des plaques autochromes, “La Fotografia Artistica”, 5 (1908),, n. 1, gennaio, pp.7-9.

[31] Dixon Scott, Colour Photography, in Holme 1908, pp. 1-10; salvo diversa indicazione, sono tratte da questo testo tutte le citazioni seguenti.

[32] Ibidem, sottolineatura dell’autore. Lo stesso Pellerano, nel descrivere il tipo di fotografo cui era destinato il suo testo così si esprimeva: “In questo manuale noi battezziamo l’autocromista col titolo di pittore a macchina, ed a lui affidiamo l’ufficio di ritrarre dal vero, con le sue linee, colori e tonalità infinite, con senso d’arte per quanto permette la tecnica autocromatica, infondendo un po’ di sentimento suo individuale nel soggetto scelto, oppur composto. Che l’opera sua serva di documento sempre, cercando di emulare, ma superare mai la vera arte, ché almeno per ora l’affermare il contrario, ripetiamolo sempre, equivarrebbe a bestemmiare nel tempo dell’arte stessa.”, Pellerano1914, p. 399, sottolineatura mia.  Le parole non ingannino: nulla di più errato che attribuire a un’eco futurista questa definizione, che invece riproponeva in modo apodittico, con sintesi efficace e felice, il giudizio limitativo proprio di tutta la cultura ottocentesca e dal quale aveva tentato (e ancora stava tentando) di liberarsi il pittorialismo fotografico. Ben altro significato avrebbe avuto l’affermazione di Tristan Tzara nel 1922: “Io conosco un tale che fa dei bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica.”, La photographie à l’envers,  in Man Ray, Les champs délicieux, Paris, Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T. Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie. Torino: Einaudi, 1975, pp.73-75.

[33] Citato da Ernest Coustet, L’exactitude du coloris en autochromie, “La Fotografia Artistica” 9 (1912), n. 7, luglio, pp. 105-107, che imputa questa insufficienza all’imperfetto ortocromatismo dell’emulsione utilizzata.

[34] Antonin Personnaz, L’Esthetique de la plaque autochrome, relazione presentata al Congresso internazionale di fotografia di Bruxelles del 1910, pubblicata in “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n. 10, ottobre, pp. 161-162. Personnaz (Bayonne, 1854-1936) fu amico di numerosi impressionisti e loro precoce collezionista. Alla sua morte la collezione passò per legato al Museo del Louvre ed è ora conservata al Museo d’Orsay di Parigi, cfr. Anne Clark James, Antonin Personnaz: Art Collector and Autochrome Pioneer, “History of Photography”, 18 (1994), n.2, Summer, pp.147-150.  Alcune delle sue autocromie, donate dalla vedova alla Societé Française de Photographie, sono state presentate nella mostra Georges Seurat, Paul Signac e i neoimpressionisti, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 10 ottobre 2008 – 25 gennaio 2009), a cura di Marina Ferretti Bocquillon. Milano: Skira, 2008.

[35] Pellerano 1914, p. 432. Il ricorso al fazzoletto rosso quale richiamo cromatico si ritrova anche in Secondo Pia, come mostra l’autocromia Donna tra le ortensie, recentemente presentata alla mostra Secondo Pia fotografo della Sindone e del Piemonte, Torino, Palazzo Barolo, aprile 2009, a cura di Erica Bassignana. In altra parte del testo di Pellerano si fa esplicito il richiamo alla tradizione impressionista, i cui “criteri stabiliti non solo per felice intuito del vero, ma per profonda analisi di questo, hanno aperto una nuova via alla pittura contemporanea. La fotografia dei colori è venuta a formare la prova sperimentale (se pure occorreva) della giustezza di quei criteri [mostrando] tutto ciò che è sanzionato dai dogmi dell’impressionismo.” (Ivi, p. 390, sottolineatura dell’autore). L’apprezzamento per la pittura “contemporanea” espresso in questa occasione dalla cultura fotografica era ben lontano dalle condanne senza appello di un critico autorevole come Enrico Thovez, attivo anche in ambito fotografico come collaboratore del londinese “The Studio”, che proprio a proposito di pittura impressionista dichiarava che “l’arte di queste tele non solo è scesa mille miglia al disotto della fotografia, ma ha toccato i gradi più bassi dell’abbiezione del gusto e della degenerazione estetica.”, E. Thovez, L’arte di dipinger male, “La Stampa”, 7 gennaio 1909, parzialmente riprodotto in Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895-1920.  Milano: Unicredit, 2003, p.232.

[36] Premiato con diploma di medaglia d’oro per il Gruppo III – Classe 17 “La Fotografia nelle sue applicazioni – Fotografie stereoscopiche”, che comprendeva al suo interno anche il tema della “Riproduzione dei colori mediante la fotografia”, significativamente escluso dalla Classe 16 “Fotografia artistica”. Vinse anche il Gran Premio più L. 400 nell’ambito del Concorso Internazionale di Fotografia,  cfr. Esposizione internazionale di Torino 1911, Elenco generale ufficiale delle premiazioni conferite dalle Giurie internazionali. Torino, 1912. A conferma di una per noi incomprensibile scarsa propensione a cimentarsi pubblicamente nonostante i lusinghieri risultati ottenuti, segnaliamo che Fino non prese parte all’Esposizione internazionale di Fotografia artistica di Roma dello stesso anno.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili.”, Brand., Inaugurazione della Mostra fotografica,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99.

[38] Brand., La fotografia all’Esposizione di Torino,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 12, dicembre, pp.167-171 (167). Fino non venne segnalato da Gino Bellotti, La Fotografa artistica all’Esposizione di Torino, “Il Progresso Fotografico”, 18 (1911), pp. 307-311, testo già pubblicato dal “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, n. 9. Da altra fonte si ricava un elenco più dettagliato delle sue opere esposte nella sala III, (n°202): “Meditando, Nel parco, La rosa delle Alpi, Sull’altipiano, Ritratto di Signora, La pineta, Bosco in collina, Nell’Ungheria, Sotto i faggi, Dopo la tormenta, Sulle Alpi Graie, Ritratto di Signora, Nel regno dei larici, Tramonto, Lo stagno, Prato alpino, Ritratto del pittore Giacomo Grosso, L’alpe, Roccie muschiose, Alba grigia, Poesia autunnale, Felici alpigiani, Ritratto di Signorina, ecc.”,  Esposizione internazionale Torino 1911  p.15. Tra gli autocromisti, tra cui Pellerano, Vittorio Marchis e Michele Polito di Torino, Fino era il solo a presentare stereocromie, mentre qualcuno (come Giuseppe Battistini,  sempre di Torino) presentava già “fotografie a colori su carta ottenute con lastra autocroma.” Come si ricava dalla lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26, buona parte delle immagini esposte in quell’occasione potrebbero non far più parte del Fondo Fino conservato dagli eredi, sebbene la mancanza di titolazione autografa sulle lastre superstiti impedisca un riscontro puntuale. Scriveva Fino:  “le ho spedito N° 40 autocrome stereoscopiche (così precisamente si chiamano le fotografie di cui Ella vide qualche saggio a Torino) (…) La avverto che fra le 40 vedute, i N: 1-2-5-6-7-9-13-19-23-30-37-38 facevano parte della collezione che vinse alla ns esposizione di Torino il concorso internazionale di fotografia a colori e il Grand Prix.” Dall’elenco allegato si ricavano i titolo seguenti: 01, Stagno nel parco Nigra Torino;  02, Lago di Viano (particolare) Val di Viù;  05, Sull’altipiano di Benot (Val d’Usseglio) (la contadina è mia moglie) ; 06, Pantano al Pian della Mussa; 07,Lago Campagna presso Ivrea; 09, Rosa delle Alpi (presso Piazzetta di Usseglio); 13, Tonio al Benot Val di Viù; 19, Campo di cavoli (Ivrea); 23, Piano della Mussa (panorama) ; 30, Pilone presso Margone (val di Lanzo); 37, Prato alpino (Praly) Val Germanasca  Pinerolo; 38,Tonio e Giacomin al Benot.

[39] Ferdinando Fino, Copialettere con rubrica.  500 fogli, di cui 69 compilati dal 2 settembre 1912 al 14 giugno 1916. Manoscritto sino al 30 novembre 1915, quindi dattiloscritto. Rubrica muta; Torino, Archivio Fino.

[40] Il 10 maggio 1912, ad esempio, scriveva, in francese, ad Alfred Krolopp, di Budapest (forse identificabile col botanico docente alla Scuola reale di agricoltura di Magyar-Ovar), scusandosi per non avergli  ancora spedite le copie monocrome di alcune autocromie, e per farsi perdonare gli inviava nove diapositive “che può darsi non corrisponderanno ai vostri desideri poiché ho perso la nota che mi avete fatta di quelle che vi interessavano.”, Copialettere, p.4.

[41] Lettera a Italo Carboni del 9 febbraio 1912, Copialettere, pp. 1-2.

[42] Le difficoltà derivanti dai lunghissimi tempi di posa, analoghi e forse superiori a quelli della fotografia delle origini, erano ribaditi anche in una successiva occasione: “Una collezione quale io avevo all’Esposizione [del 1911], frutto di una scelta fra centinaia di prove, infatti essendo esse tutte a lunga posa, il minimo soffio di vento impedisce la riuscita, nei ritratti il movimento minimo della persona, l’atteggiamento duro o non naturale dato dall’obbligo dell’immobilità, o se si è all’aria aperta il cambiamento d’un ombra per lo spostamento d’una nube (…) congiurano contro il povero fotografo che talvolta fa una dozzina e più di vedute senza avere neppure una che lo soddisfi! E senza la possibilità di trarre una copia d’una prova riuscita!” Lettera a Italo Carboni del 30 maggio 1912, Copialettere, p.  8. Secondo le indicazioni fornite da Pellerano1914, la realizzazione di un ritratto in esterni (ma con lastra 18×24) richiedeva ben 6 minuti.

[43] Evidentemente Fino non era a conoscenza del metodo messo a punto dagli stessi Lumière, e ampiamente utilizzato dagli studi professionali, di riprodurre le autocromie utilizzando altre lastre autocrome.

[44] Lettera a Italo Carboni del 17 maggio 1912, Copialettere, pp. 5-6.

[45] Guido Rey, Fotografia inutile, 1908, ora in Paolo Costantini, Italo Zannier, a cura di Luci ed Ombre.  Gli annuari della fotografia artistica italiana  1923-1934. Firenze: Alinari, 1987, pp.64-65.

[46] Lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26.

[47] Lettera a Carboni del 9 febbraio 1912, Copialettere, pp. 1-2. La lettera contiene anche interessanti istruzioni relative alle modalità di osservazione delle autocromie: “le lastre devono essere viste colla parte grigia verso il suo occhio e colla parte nera dall’altra parte, al fine di vedere la veduta dalla sua giusta parte. Però a parer mio, quando si tratta di paesaggi non tipici, pei quali non muta vederli a rovescio, come piacevoli particolari di boschi, fiori ecc., i colori sono più brillanti guardandoli dall’opposto lato.”

[48] “Ho speranza di presto mandarle qualche cosa di bello (…) Potrebbe darsi che certe vedute di montagna che le manderò, abbiano ad interessarla, intanto farò il possibile di prepararle delle vedute di chiese.” Lettera a Carboni del 14  giugno 1912, Copialettere, p. 10.

[49] Lettera a Carboni del 26 giugno 1913, Copialettere, p. 28. Le prime pratiche erano state avviate nel settembre dell’anno precedente. Il 16 luglio dello stesso anno gli era stato concesso il permesso di fotografare anche l’Armeria Reale, cfr. Visite e permessiPermessi,  fascicolo n. 865, n. prot. 4197; n. d’ordine 2339, 16/07/1913, Permesso a Ferdinando Fino di fotografare l’Armeria, consultabile all’indirizzo http:// www.artito.arti.beniculturali.it /Armeria%20Reale/ 6SALA/ ArchivioStorico.asp? PageNo=1369&Mv=Avanti (06-04-10).

[50] Lettera a Carboni del 14 agosto 1913, Copialettere, pp. 31-33. Le riprese effettuate da Fino sono tra le rare testimonianze fotografiche degli interni dei Palazzo Reale all’inizio del XX secolo e certo, almeno per quanto sinora noto, le prime realizzate a colori, cfr. Cesare Enrico Bertana, Palazzo Reale com’era … 1900-1920. Torino: Associazione Amici di Palazzo Reale, 2002.

[51] Secondo gli studi tecnici riportati in Namias 1930 p.165, “La lastra [autocroma] lascia passare circa 1/10 della luce che la colpisce.” Quindi aumenta in misura esponenziale il tempo di posa necessario per la sua corretta esposizione, calcolato in circa 80 -100 volte quello di una lastra monocroma rapida, valore che si approssima a 200 lavorando in ambienti chiusi. A dimostrazione di quanto una ripresa di questi soggetti costituisse un risultato virtuosistico altamente apprezzabile, lo stesso Pellerano pubblicava tra le tavole f.t. del suo manuale un’analoga ripresa della Galleria Beaumont dell’Armeria Reale, dichiarando un tempo di posa di 90 minuti, cfr. Pellerano1914, p. 462 f.t. Di quali fossero le effettive difficoltà di esecuzione delle riprese in Armeria anche con le ben più rapide lastre alla gelatina ci rimane testimonianza nelle parole di Giovanni Assale, direttore dello stabilimento Berra “Fotografia Subalpina” cui era stato affidato il compito di realizzare le fotografie per l’edizione dei tre volumi Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino, Milano, Eliotipia Calzolari e Ferrario [1898], con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna. Nel gennaio del 1897 Assale comunicava ad esempio che “Sarà cura del sottoscritto di non lasciar trascorrere inutilmente la futura propizia occasione di una nevicata per la esecuzione delle negative degli interni della Galleria e della Rotonda”. A queste si aggiunsero le prescrizioni dello stesso Avogadro di Quaregna che – su indicazione del fotografo –  annoverava tra le difficoltà da superare per la realizzazione del progetto “anche quella della difettosa illuminazione interna (…) che per scarsità di luce e per i molti riflessi non si addice alle riproduzioni fotografiche. Onde eliminare sì fatto inconveniente si dovette addivenire alla costruzione di una forte impalcatura provvisoria nell’interno dello scalone ove la luce è più abbondante e propizia”,  oltre a disporre una tenda di percalle bianco al “gran finestrone nello scalone” e una “tenda oscura per la finestra attigua alla galleria della Prefettura per impedirne la luce”, mettendo a disposizione del fotografo il “personale di fatica occorrente al trasporto dei monumenti equestri sopra l’impalcata dello scalone e rimettere nella galleria dopo la loro riproduzione fotografica.”  Per la ricostruzione analitica delle diverse campagne di documentazione fotografica dell’Armeria Reale di Torino rimando a P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Paolo Venturoli, a cura di, Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898. Torino: U. Allemandi & C., 2003, pp. 79-98.

[52] Lettera a Carboni del 21 agosto 1913, Copialettere, p. 34.

[53] La lettera indirizzata a Emanuele Celanza del 16 marzo 1912 contiene una nota spese per “n° 12 autocromie 13×18 riproduzioni quadri Avondo £ 4 cadauna”, Copialettere, p. 11. Le autocromie, sinora non reperite, devono certamente essere messe in relazione con la pubblicazione presso lo stesso editore del saggio di Enrico Thovez, L’opera pittorica di Vittorio Avondo. Torino: Celanza, 1912, illustrato però da riproduzioni monocrome. Secondo i dati forniti da Pellerano 1914, p. 226, 4 lastre 13×18 costavano L.7.

[54] “sempre in attesa di ric[evere] vs. commissioni, mi sono messo all’opera [per] studi artistici di nudi. La stagione piovosa mi ha impedito di dedicarmi a paesaggi (…).”, Lettera a Canova del 4 marzo 1912, Copialettere, p. 3.

[55] Si veda ad esempio il Nudo nel bagno di Leon Gimpel, in Il colore della Belle Époque: i primi processi fotografici diapositivi, catalogo della mostra (Venezia, 1982), a cura di Silvio Fuso, Sandro Mescola. Venezia: Comune di Venezia, s.d., [1982], t. 6.

[56] Si veda L’Art du nu au XIX siècle: le photographe et son modèle, catalogo della mostra (Parigi, Bibliothèque nationale de France 1997-1998). Paris: Hazan, 1997. Resta un’affascinante eccezione nella fotografia di nudo tra XIX e XX secolo, la naturalezza con cui Pierre Bonnard fotografava la sua compagna e modella, cfr. Françoise Heilbrun, Philippe Néagu, Pierre Bonnard Photographe. Firenze: Alinari, 1988.

[57] Si veda Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 1990- 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Milano: Fabbri, 1990. Non solo le date dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio che le autocromie non possono che derivare dai dipinti di Grosso, più che buon fotografo egli stesso che quindi mai avrebbe avuto bisogno di ausili esterni. Le prime notizie relative alla sua attività fotografica risalgono al 1894, quando presentò all’Esposizione Internazionale di Fotografia promossa dal Circolo Fotografico Lombardo di Milano, riproduzioni di “quadri e statue” oltre a “ritratti ai sali di platino di buona fattura”, quindi all’ Esposizione torinese del 1902, che lo vide tra gli autori più considerati, specialmente quale ritrattista. (Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso 1990, pp. 21-24. Le sue fotografie di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi, furono tanto apprezzate da Schiapparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea.”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909, I parte,  “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nel suo studio, sottolineando come il pittore “nei suoi ritratti fotografici segue la via tracciata dall’artista che lui ama così profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno.”, Enrico  Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, a cura di, Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London, 1905, pp. I.3-I.8, come confermano sia il ritratto di Cesare Reduzzi pubblicato nelle stesse pagine sia quello di Celestino Gilardi pubblicato ne “La Fotografia Artistica” a corredo del suo necrologio. Risulta perciò difficile accostare a queste prove gli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino e a suo tempo pubblicati da Miraglia 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute. Anche Pietro Masoero, come si è accennato, recensì entusiasticamente le opere di Grosso presentate all’Esposizione del 1902, cfr. Paolo Costantini, Giacomo Grosso, in Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994, scheda n. 61.

[58] “Riguardo al quadro che Ella desidera (Veduta n°11) – gli scrisse Petiti da Roma – credo che le ho domandato un prezzo da amico per una esposizione anche in quella misura 76 ½ x 55 non sarebbe meno di 600 lire perché il soggetto è difficilino e molto complicato e richiederebbe un certo tempo per farlo, impossibile essendo di dipingerlo alla prima. Le modificazioni da lei desiderate per trasportare il soggetto da destra a sinistra si possono fare per primo perché all’artista non mancano mai le risorse e qualche volta anche le licenze poetiche. Insomma io spererei che il quadretto riescisse tutto di suo gradimento … ma … Però siccome intendo ancora una volta dimostrarle la mia gratitudine glie lo farò per 200 lire (…) Potrò ancora tenere presso di me tutte le sue lastre? (…) Questa sgrammaticata lettera è talmente scritta male che dovrei rifarla ma non ne ho il tempo né la voglia. Mi perdoni.”, Lettera di Filiberto Petiti del 9 aprile 1916, Archivio Fino, Torino. Impossibile identificare il dipinto in questione, ma tra le opere di Petiti possedute da Fino ritroviamo un Monte Lera (Usseglio) che risulta essere la trasposizione dell’autocromia Sui pendii di Usseglio [26886]. Un altro cenno, purtroppo ancora generico, era già contenuto in una lettera di Fino del 1913:“Se Ella dovesse recarsi a Torino mi faccia il favore d’una sua visita e le farò vedere qualche lastra che certo però non venderei avendo servito a pittori celebri come documento per quadri che stan facendo.”, (Lettera a Carboni del 21 agosto 1913, Copialettere, p. 34). I legami e le suggestioni reciproche tra cultura pittorica e fotografica in ambito torinese nei primi decenni del Novecento, per larga parte ancora da studiare analiticamente, sono ben testimoniati dalle pagine di un periodico autorevole quale “La Fotografia Artistica”, che mantenendo fede al proprio impegno programmatico non di rado pubblicava riproduzioni a colori di dipinti sotto forma di tavole fuori testo (nel luglio 1906, ad esempio, Un torrente, proprio di Petiti; a settembre dello stesso anno una Pastorella di Michetti). Lo stesso periodico dedicò ben cinque numeri, di fatto monografici, alle opere esposte alla II Esposizione Quadriennale di Belle Arti – Torino 1908, con testo critico di Ernesto Ferrettini, critico d’arte de “La Gazzetta del Popolo”, poi de “La Stampa”, già autore del saggio Artisti nelle Valli di Lanzo, compreso nel volume edito dal Club Alpino Italiano  nel 1904.

[59] Namias 1930, p. 202.

[60] “Noti che bisognerà guardare le vedute in uno stereoscopio di centimetri 6×13, che tale è il formato delle fotografie e i veri colori naturali appariranno colla più grande verità quando si guardi la veduta avendo di rimpetto a noi o delle nuvole bianche o un muro o un lenzuolo bianco su cui batta il sole. Contro il cielo sereno avremo una diffusione di azzurro , e contro pareti in ombra un eccesso di grigio e deficienza di illuminazione.”, Lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26.

[61] Filiberto Petiti, Nel bosco, 1914 ca, olio su tela, Roma, Accademia Nazionale di San Luca.

[62] Ernesto Baum, Il «genere» in fotografia, “La Fotografia Artistica”, 10 (1913), n.1, gennaio,pp. 12-14.  Questo testo dovette costituire un riferimento importante per Stefano Bricarelli, che avviava le sue considerazioni critiche a partire dalla constatazione che in Italia la maggior parte dei dilettanti “che meritano veramente questo nome” non si dedicano alle “scene animate” sebbene “in nessun altro paese il pittoresco è stato sparso così a piene mani [e] non si conosce in niun altro luogo una vita così varia e pittoricamente interessante (…). Ma – proseguiva – una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…) Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata.” Per “fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  di un quadro (…) Scelto rapidamente il motivo (…) occorrerà procedere ad una coraggiosa opera di selezione e di eliminazione. (…) In un istante, con gli elementi che avrà riconosciuto necessari ed opportuni, la mente costituirà, organizzerà per così dire, idealmente il quadro, determinandone il taglio, fissando l’importanza relativa delle masse, equilibrando il gioco delle luci e delle ombre; sarà allora di grande aiuto per fare immediatamente avvertire ogni squilibrio e ogni deficienza dell’insieme e porvi rimedio quel senso quasi istintivo della composizione, che molto si acquista osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative.”, Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 8, agosto, pp. 225-2260, sottolineature dell’autore.

[63] Pellerano 1914, p. 432.

Di un Viaggio in Italia, passando per il Piemonte  (2008)

in Sabina Canobbio, Tullio Telmon, a cura di, Paul Scheuermeier. Il Piemonte dei contadini 1921-1932,  II, Le province di Alessandria, Asti, Biella, Cuneo, Novara, Verbania, Vercelli. Ivrea: Priuli & Verlucca, 2008, pp.  319-331

 

L’immagine è semplice: al muro di fondo, basso, coronato di fogliame, con belle pietre squadrate all’angolo destro (il solo visibile) sono poggiati in bell’ordine alcuni oggetti: una scopa di saggina, una vanga, una forca a tre rebbi sul filo dello spigolo. A terra, un poco sulla destra, un annaffiatoio in metallo. Nessuna presenza ulteriore, nessun indizio che consenta di definire meglio il contesto, sebbene la disposizione niente affatto casuale degli attrezzi lasci intendere una certa cura, se non proprio un’ intenzione estetica a orientare le capacità descrittive proprie della tecnica fotografica.  Questo “angolo di muro soleggiato con attrezzi da giardino”, come lo descrisse John Herschel, porta la data del 2 maggio 1840 e la firma prestigiosa di William Henry Fox Talbot[1]. “Wall in Melon Ground, come l’autore identificava il proprio negativo, realizzato ancora con la tecnica del disegno fotogenico, è il primo esempio noto di natura morta fotografica con oggetti quotidiani, poi ripreso dallo stesso autore in The Open Door, 1844,  per la quale Larry J. Schaaf ha parlato di influenza evidente della pittura olandese del Seicento. Insieme costituiscono il prototipo se non proprio il modello, da ricercarsi semmai nella storia della pittura, di una vasta genealogia di immagini, e di modi di vedere, di cui è agevole ritrovare traccia ancora nelle fotografie di Paul Scheuermeier, e oltre.  

Nella produzione degli autori che hanno utilizzato il negativo di carta[2], e ancora in Talbot, si trovano anche i primi esempi del genere poi ampiamente frequentato delle scene di lavoro. Penso a Carpenters at Lacock Estate, del 1842-1845 (Bernard 1981, t. 1), ma anche a The Woodcutters – Nicole and Pullen Sawing and Cleaving, circa degli stessi anni (Schaaf 2000, p. 226), con la posa che mostra strumenti e gesti, con declinazioni e variazioni sul tema che dipendono e riflettono l’insieme complesso e ogni volta diverso costituito dai nessi tra il contesto di realizzazione, le ragioni e la cultura non solo visiva di ciascun autore. Sin dalle origini della fotografia infatti si ritrova “una miriade di esempi di significative convergenze tra l’occhio e i suoi prolungamenti e le teorie e le pratiche antropologiche”  (Faeta 2006, p. 11), che nello stesso periodo andavano definendo compiutamente le loro metodiche, anche mediante il ricorso sempre più consapevole e strutturato all’uso della fotografia[3].  Per gran parte del XIX secolo fu però un’intenzione che chiameremo genericamente ‘artistica’ a orientare l’attenzione dei fotografi verso temi e soggetti di carattere popolare, producendo immagini da vendersi a pittori e incisori, come agli epigoni del Grand Tour.  Per limitarsi all’Italia basti ricordare le opere di professionisti come Celestino Degoix a Genova, di Caneva e altri della Scuola romana, di Bernoud, Conrad  e Sommer a Napoli (anche nelle successive riproduzioni romane di Cesare Vasari), di Incorpora a Palermo[4]. In questa prima fase, che perdura per tutta la cosiddetta età del collodio, almeno sino al penultimo decennio dell’Ottocento, l’ambito resta quello della fotografia di genere, in relazione di mutua dipendenza con molta produzione pittorica coeva. Con una forte inclinazione per lo stereotipo e per il bozzetto pittoresco quindi, ma pure con una sua certa sistematicità e con l’inevitabile capacità intrinseca di restituirci almeno qualcosa, una qualche traccia di mondi e di modi di essere altrimenti inconoscibili.

Ben più complessa è stata la trama dei rapporti tra cultura fotografica e demologia[5] nei decenni che chiudono l’Ottocento, quando molta fotografia amatoriale rivolse la propria attenzione al mondo popolare, specialmente contadino, mentre la produzione dei grandi studi persisteva in una produzione di accattivante maniera;  valga per tutti l’esempio degli Alinari che nella serie di riprese napoletane del 1896-1897 rischiarono “di trasformare la realtà di una crisi sociale in un sistema di bozzetti di singoli mestieri.” (Quintavalle 2003, p. 410)  Le nuove possibilità offerte dalle emulsioni sensibili alla gelatina bromuro d’argento e il conseguente smisurato ampliarsi della pratica fotografica amatoriale tra la borghesia, per quanto piccola, e la nobiltà terriera inducevano e consentivano una produzione nuova, attenta all’intorno, alle figure del quotidiano e dei mestieri, che si distingueva in modo sempre più marcato (e sovente esplicito) dalla precedente fotografia professionale  di genere. Si sarebbe tentati di dire che con gli amateur la costruzione dell’icona passava in secondo piano, resa semmai implicita a favore di una narrazione della tranche de vie  che comportava di rivolgere l’apparecchio, e  lo sguardo prima verso quel mondo popolare con cui per ragioni e con ruoli diversi ciascun nobile, o borghese persino non poteva non entrare in contatto. Tutti incontravano qualche donna con la gerla, una qualche (bella) lavanderina[6]; tutti conoscevano un vecchio pescatore col corpo segnato dalla fatica e dalla salsedine; un massaro, un pastore  almeno.  Tutti li fotografavano anche senza chieder loro una posa: osti, elettricisti, falegnami e farmacisti, i molti sacerdoti attivi in tante piccole comunità del nord, ma anche i rappresentanti della più colta e letteraria “fotografia signorile”[7], meridionale e non solo. Quasi etnografi loro malgrado, in una singolare concordanza di tempi, che non può essere coincidenza, con quanto la cultura antropologica italiana, specialmente nell’ambito della cosiddetta “scuola fiorentina”, andava elaborando a proposito di uso documentario della fotografia.

Enrico Morselli, commissario per la Sezione di Antropologia dell’Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884,  raccomandava  di usare la fotografia “dal punto di vista antropologico” innanzitutto per ritrarre l’uomo “di faccia e di profilo” con intenti antropometrici, quelli stessi che accomunavano Bertillon e Lombroso, riconoscendo però che “alle fotografie scientifiche sarà utile aggiungere ancora quelle artistiche, prese cioè coll’atteggiamento naturale e libero degli individui ritratti e possibilmente nei loro costumi o fra strumenti ed utensili caratteristici della loro regione e della loro classe sociale”[8]. Era  proprio in questa seconda accezione, lontana dalla crudele e metodica scientificità di cui gli studiosi si riservavano – almeno in questa prima fase[9] – l’appannaggio,  che la cultura dell’epoca coglieva una possibilità di dialogo, un possibile ruolo da assegnare ai dilettanti, esplicitamente invitati da Giulio Fano a rilevare nelle varie regioni di appartenenza quei tratti caratteristici della cultura e delle manifestazioni popolari che erano a rischio di estinzione per la forza “livellatrice” della “civiltà di fine di secolo (…) sotto l’influenza imperiosa, eminentemente  suggestiva della moda”[10].  La questione venne ripresa e precisata da Lamberto Loria, anch’egli membro della Società Fotografica Italiana, che raccomandava non solo che  le immagini fossero ottenute “per quanto possibile di sorpresa (…) perché nelle persone fotografate non abbiano a mostrarsi (…) atteggiamenti intenzionali”, ma anche che esse venissero integrate “di quelle indicazioni di luogo, di tempo e di misura che sono indispensabili a dare all’oggetto illustrato il suo vero carattere.”[11]  Sul rifiuto della  posa convenivano negli stessi anni anche alcuni fautori della fotografia artistica (in una delle molte accezioni che il termine assunse a cavallo tra Otto e Novecento). Così sulle pagine del “Progresso Fotografico”, nel 1906, si stigmatizzava l’opera di un amateur  “gran fautore dell’istantanea colla quale cerca di cogliere le più interessanti scene della vita cittadina e campestre. Ma anche a lui non riesce talvolta d’evitare che gli attori della scena assumano pose che guastano l’effetto” (Redazionale 1906),  e pochi anni più tardi  Stefano Bricarelli riconosceva a proposito della buona riuscita di scene animate che “una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…). Condizione questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata” (Bricarelli 1913). A questa convergenza di modi, pur con ragioni sottilmente diverse, corrispondeva anche un’unità di intenti che diremmo di conservazione contraddittoriamente nostalgica delle tracce di quel “mondo umile ma pur tanto artistico [i cui] costumi agonizzano sotto i colpi dell’industrialismo dominante”[12], che aveva caratterizzato sin dal periodo post unitario i programmi  e l’opera di organismi quali il Club Alpino Italiano (1863) e poi il Touring Club Italiano (1894), così come di molte altre forme minori di associazionismo ricreativo e culturale.

In questo contesto va collocata e compresa anche la serie fotografica dedicata ai Villaggi e montagne della Val d’Ala che il musicista Leone Sinigaglia, di cui è nota l’attenzione per i canti popolari piemontesi[13],  aveva presentato all’Esposizione di Fotografia Alpina[14] organizzata dal CAI nel 1893 a Torino, ma l’esempio più illustre e compiuto di questa etnografia ideologica, di questa demologia, è il volume che Vittorio Sella e Domenico Vallino[15] dedicarono al Monte Rosa e Gressoney, pubblicato nel luglio 1890 con un ricco apparato di  tavole fuori testo da fotografie di Sella ed immagini nel testo dovute ad entrambi gli autori. “Il traffico più attivo – si legge nell’introduzione all’Album – cancellerà la fisionomia pastorale, la semplicità di costumi, la foggia particolare di vestire, il dialetto svizzero-tedesco, l’esclusività dell’elemento locale nelle famiglie; porterà un livello medio di civiltà, percorrendo il cammino che il filosofo chiama evoluzione naturale, che l’artista deplora, per la monotonia che ne deriva al quadro della vita umana” (Monte Rosa 1890, p.5). Erano quelli i caratteri che i due autori indagavano e descrivevano con affettuosa attenzione, ripercorrendone le vicende storiche e le forme culturali, esemplificate nella rappresentazione di ambienti e strumenti di lavoro. A questo accompagnando la registrazione delle forme dialettali  attraverso la raccolta dei termini relativi agli strumenti di lavoro, ma anche con la trascrizione di “alcune delle ultime canzoni cantate dalla gioventù, le quali forse non lo saranno più alla fine del secolo [poiché] l’afa che sale dalla pianura, con le maggiori facilitazioni di traffico, non tarderà ad intisichire anche questo fiore presso le sorgenti del Lys” (Monte Rosa 1890, p.53). Il corredo di immagini rivela però intenti più incerti, mostra oscillazioni continue tra il preteso rigore analitico della descrizione e le concessioni al pittoresco dei “quadretti graziosi” e delle “figurine moventesi nel paesaggio verdeggiante”, non senza ricorrere alla pratica del fotomontaggio per risolvere compositivamente un’immagine solo apparentemente documentaria, per rendere più efficace la messa in pagina di una sequenza narrativa. (Dragone 2000, pp.274-275).

Si producevano così testimonianze a futura memoria, quasi un’archeologia del presente, segnate però da quella tensione irrisolta tra razionalità e pittoresco che ritroviamo in molta della fotografia ‘artistica’ di soggetto popolare dei successivi decenni. Non è difficile infatti cogliere in molta di quella etnografia pittorialista un tono passatista: per molti di questi autori non si trattava di comprendere analiticamente una cultura in radicale e definitiva trasformazione, ma di illustrare, celebrare e magari conservare in effigie i reperti di un’arcadia in dissoluzione, proprio negli anni dei primi significativi conflitti sociali. L’attenzione non era ancora rivolta al territorio in mutazione, alle nuove strutture produttive, industriali o agricole, alla città che sale della modernità nascente, ma a ciò che resisteva al cambiamento, residuale e tradizionale, primitivo quasi. “L’etnografia generale – nelle parole pronunciate da Loria in apertura del I Congresso di Etnografia italiana del 1911 – può e deve servire allo studio del nostro popolo perché come il selvaggio ha analogie con l’uomo primitivo, così le nostre classi meno evolute, rimaste indietro nel cammino della civiltà, conservano ancora, nascosti e sopiti, taluni degli istinti e dei caratteri delle genti selvagge”[16].  Era questo il terreno insicuro su cui si muovevano negli stessi anni le pratiche della fotografia artistica e di quella documentaria o scientifica, con confini non immediatamente tracciabili e per molti versi inesistenti, che rappresentano piuttosto l’esito di una storiografia che ha postulato una dicotomia allora non chiaramente percepita né unanimemente condivisa. Se Rodolfo Namias lamentava quanto “l’odierna esaltazione per la fotografia artistica [avesse] sviato molti dilettanti dalle raccolte fotografiche documentarie [tanto che] nelle esposizioni tale genere di fotografia si fa sempre più raro con danno della cultu­ra” (Namias 1907), per il  francese Alfred Liégard,  promotore della costituzione degli Archivi Fotografici Nazionali, “l’art et le document peuvent, et même doivent, s’entendre sur le terrain de la photographie (…). Le photographe artiste devra-t-il donc négliger le document? Pour ma part je ne crois pas. Il ne lui est nullement défendu de traiter artistiquement le document (…).  Il me semble qu’ à notre époque, avec ce merveilleux instrument que nous avons qui s’appelle l’appareil photographique, c’est un devoir pour tous de ne pas laisser périr entièrement, sans même en conserver l’image puisque nous le pouvons, tout ce qui fait partie à un titre quelconque de l’histoire du pays où nous vivons.” (Liégard 1905). Nessuna contrapposizione allora, ma la consapevolezza pur non criticamente attrezzata delle possibilità inscritte nello statuto della fotografia, della sua capacità di mostrare al di là delle intenzioni e dello sguardo dell’operatore, di costruire immagini disponibili a diverse interpretazioni e letture: dal realismo al  simbolismo[17]. Era questa scrittura fecondamente ambigua che aveva attratto Verga, Capuana e De Roberto, quella con cui aveva signorilmente giocato Giuseppe Primoli; quella a cui si era dedicato Francesco Paolo Michetti nel più generale richiamo ideale alla semplicità del sentire proprio di molta cultura ottocentesca, alla sua diffidenza  e resistenza, quando non al rifiuto dell’industrialesimo. È quanto abbiamo già potuto riconoscere nel progetto di Sella e Vallino; è uno degli elementi che nutriva il neoclassicismo, per alcuni metafisico,  di molti autori della scuola di Taormina e di Wilhelm von Gloeden in particolare, di cui intorno al 1900 venivano pubblicate immagini di soggetto popolare sulle pagine de “Il Progresso Fotografico” e quindi sul “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, tra 1909 e 1914[18]. Erano queste, insieme alla torinese “La Fotografia Artistica”, le testate che  divulgavano e attraverso cui si confrontava la produzione fotografica italiana, e internazionale in parte, che in modi diversi si richiamava alla fotografia pittorialista con più o meno esplicite attenzioni per il mondo popolare, senza dimenticare il rilevante ruolo svolto dagli editori di cartoline. Penso a Cesare Schiaparelli[19] e ad altri autori minori biellesi come Franco Bogge; penso a Luciano Morpurgo, che nel 1917-1923 realizzò una importante serie dedicata al pellegrinaggio al Santuario della Trinità a Vallepietra, nella Valle dell’Aniene, attratto negli anni precedenti da soluzioni marcatamente pittorialiste[20], ma specialmente ad Andrea Tarchetti,  notaio vercellese le cui Scene di vita e di lavoro ebbero ampia diffusione sulle pagine di quelle riviste[21]. Anche la sua descrizione della vita rurale mostra un approccio sempre in biblico tra bozzettismo e documentazione:  il documento si mescola alla scena di genere e a volte ne emerge con fatica, quasi solo per l’incapacità strutturale della fotografia a escludere il reale, in un processo che direi inverso a quello di molta fotografia etnografica, inevitabilmente segnata dalla cultura visiva del suo tempo. Le fotografie di Tarchetti, segnalate ai lettori quale esempio di eccellenza, venivano pubblicate da “Il Progresso Fotografico” come tavole fuori testo, dal 1904 stampate dallo Stabilimento eliografico Brunner & Co. di Como, avviato proprio in quell’anno da Jacques Brunner come filiale della Brunner & Co. Kunstanstalt di Zurigo, da anni tra i più qualificati stampatori europei, a cui si era rivolto nel 1890 anche Vittorio Sella per la realizzazione dell’album dedicato al Monte Rosa.

Lo stabilimento Brunner, noto editore anche di cartoline, era quindi uno dei luoghi in cui si concentrava e transitava molta della produzione fotografica italiana ed europea destinata alla pubblicazione; una delle sedi in cui migliore era la possibilità di conoscerla. Non è necessario abbandonarsi ad un rigido meccanicismo per immaginare quanto possa aver contato per il giovane Scheuermeier, nel formarsi una propria cultura visiva, lo stretto e duraturo legame con i cugini Brunner, per i quali – come è noto – lavorava sin dal 1895 come fotografo il fratello Willy, che Paul accompagnerà in un memorabile viaggio in Italia nel 1909 “Da Como fino in Sicilia secondo i desideri dei clienti e le necessità dell’azienda” (Scheuermeier 1969, p. 335). Se lo scopo del viaggio fu quello di “reperire nuovi soggetti” allora possiamo veramente riconoscerlo come l’asse portante del suo percorso di formazione fotografica, non solo e non tanto per l’acquisizione sul campo dei necessari rudimenti tecnici, quanto per l’assimilazione dei canoni di rappresentazione che comportava l’assistere alla scelta dei soggetti e delle vedute destinate all’edizione in cartolina. In assenza di specifiche indicazioni di prima mano credo che l’orizzonte entro cui può essersi formata la cultura visiva che si rivela nei modi e nelle scelte compositive delle sue immagini[22], sia da individuarsi nel contesto qui sommariamente delineato per l’ambito italiano; certo non troppo dissimile da quello europeo quale ci viene restituito dai periodici fotografici e dai cataloghi delle esposizioni coeve.

A questi possiamo aggiungere i modelli forniti dalle organizzazioni tassonomiche di oggetti tipiche dei cataloghi illustrati delle grandi collezioni museali come dei campionari industriali e artigianali,  ma soprattutto – credo – il riferimento costituito dalle riprese del suo maestro Jaberg, che già aveva fatto uso di fotografie nel corso delle sue ricerche in Piemonte (Gentili 1997, p. 19) e che fu suo costante punto di riferimento anche metodologico nel corso dei lunghi anni di peregrinazioni per la preparazione dell’AIS.

Quando attraversava la frontiera con l’Italia nei “primi drammatici giorni” del luglio 1920,  dopo le rilevazioni nel Cantone dei Grigioni, Scheuermeier possedeva certo la preparazione tecnica e il supporto logistico[23] necessari a condurre al meglio la campagna fotografica prevista a corredo e supporto dell’indagine linguistica. Possedeva anche una sua propria cultura visiva, mentre gli scopi e il metodo si sarebbero precisati e affinati nel corso del lavoro[24].

Inattese forse, e solo in parte dovute al clima incerto di quegli anni di primissimo dopoguerra,  furono invece le reazioni alla sua presenza di “straniero con la macchina fotografica”, impreparato  “ad avere sulla [sua] scia la voce sussurrata che [fosse] una ‘spia’ ” (Scheuermeier 1969, p. 342), obbligato quindi a rivolgersi al viceconsole svizzero a Como al fine di ottenere per suo tramite i permessi necessari a superare le prescrizioni di polizia[25].

Stupisce al contrario la grande disponibilità delle persone ad accondiscendere alle imposizioni registiche di Scheuermeier, tranne rare eccezioni:  “A Bagolino non mi è stato possibile fotografare un uomo in calzoni corti (…)  – scrive a Jaberg nel dicembre 1920 – tutti se ne scappavano, non ho potuto metterne neanche uno davanti alla macchina fotografica.” (in Caltagirone, Sordi 2001, p. 22) e ancora:  “con estrema difficoltà e solo grazie alle esortazioni dell’informatore mi è stato possibile portare delle ragazze davanti all’apparecchio fotografico. Tutte scappavano per timore che se ne facessero cartoline.” (ibidem). Scrivendo poi a Jud da Cuneo nel settembre del 1922, a proposito di una veduta di Via Roma con persone in posa in primo piano: “Un altro fotografo sfortunato: la gente fa attenzione alla sua posizione.” (Canobbio, Telmon 2007, p. 48).

Questa sintetica notazione, quasi di sfuggita, individua il nodo problematico della relazione tra operatore e soggetto, tra fotografo e fotografato e, più in generale,  richiama tutte le implicazioni poste dalla scelta tra messa in posa e istantanea, tra osservazione partecipata e “immagine rubata”, riflettendosi anche sul rapporto complesso tra rappresentazione e autorappresentazione. Cosa poteva significare per quei ‘contadini’ la richiesta portata da quell’estraneo, straniero e colto che era Scheuermeier? Che funzione poteva svolgere nel loro sistema sociale e simbolico? Che ruolo era consentito loro di assumere (o di recitare) al momento della ripresa? Non ci è dato saperlo, se non provando a misurarci – non qui, non ora – con l’esercizio poetico dell’interrogazione a distanza di quelle decine di sguardi rivolti all’operatore.

Mettere in posa equivale a mettere in scena, a ricostruire una rappresentazione formalizzata dell’azione e del gesto collocandola in un contesto strutturato di indagine, con evidenti corrispondenze con l’uso del questionario.  Non esistevano infatti a quella data ragioni tecniche per escludere l’uso dell’istantanea, ma la  posa gli consentiva di riunire sinteticamente la maggiore quantità di informazioni possibili; soprattutto svincolava il tempo della ripresa dal tempo del lavoro, dalla stagione e dal calendario, recuperando infine gesti e strumenti ormai fuori dal tempo: inutilizzati. Sebbene restasse memoria del suono del loro nome.[26]

In questa scelta Scheuermeier ha rivelato una sorprendente modernità, ormai dimentica delle concezioni tardo ottocentesche. Se “l’istantanea riconduce al quadro critico dell’osservazione non esplicitata o dichiarata [poiché] le istantanee sono immagini che rinviano al loro autore, e segnalano un intento di esclusione dell’oggetto rappresentato dal procedimento creativo” (Faeta 2003, p. 114), mettere in posa vuole dire dichiarare il proprio esserci. Solo così è possibile porsi quale “presenza sociale in quel mondo” (Counihan 1980, p. 28), se non proprio agire da osservatore partecipante, come andava facendo circa gli stessi anni (1915 – 1918) Bronisław Malinowski, che ricorreva alle fotografie non solo come strumento di controllo e verifica delle note di lavoro ma anche quale mezzo di comunicazione non verbale con l’altro, come sarebbe stato in parte per Scheuermeier e soprattutto per Ugo Pellis[27]. Una relazione comunicativa in cui l’immagine genera la parola, anticipando per certi versi  la pratica recente della photo-elicitation.

La fotografia indica, la parola nomina: “ogni fotografia è dotata di un foglio di accompagnamento, che contiene una descrizione e la terminologia dialettale dell’oggetto rappresentato e dell’attività in questione.” (AIS-Introduzione,  p. 254). Esattamente: questo e non altro; ma è su questa relazione che si fonda la possibilità del discorso etnografico. La nota di accompagnamento, poi la didascalia, identifica e nomina, mette cioè in relazione quell’immagine, esito del taglio operato nel continuum spazio temporale, quindi anche geografico e culturale, col proprio contesto d’origine, espresso dalla testimonianza linguistica. Non sempre però questo processo si svolge in modo piano. In alcuni casi l’immagine sembra perdere la propria capacità referenziale o – meglio – non viene riconosciuta come icona, poiché l’informatore mostra scarsa “comprensione di figure e foto, che spesso, stranamente, coglie con difficoltà o non riconosce” (Sanga 2007, p. 38). Questo tipo di reazione, ben nota anche agli antropologi  (Lanternari 1981, p. 749) ha costituito per un certo tempo uno degli elementi a sostegno della definizione della fotografia quale messaggio codificato, su cui altri  studiosi[28] hanno poi ironizzato dimostrando la maggiore complessità del problema e richiamando l’attenzione sulla rilevanza determinante del contesto culturale. Al di là delle questioni ontologiche è infatti questo a consentire di definire la fotografia quale “segno di ricezione”, il cui riconoscimento è condizionato dalla competenza del recettore. Per comprenderla in quanto tale è fondamentale “il sapere dell’arché: una fotografia funziona come immagine indicale a condizione che si sappia che si tratta di una fotografia, e cosa questo fatto implica” ha chiarito Jean-Marie Schaeffer[29], sebbene poi questa conoscenza non abbia “affatto bisogno di essere un sapere scientifico in senso stretto. È sufficiente che sia in grado di mettere in moto una ricezione che riferisca le forme analogiche a impressioni reali, anziché a una libera raffigurazione.”

È proprio nel rapporto dialettico tra i differenti reciproci saperi che si definiva lo spazio di relazione di Scheuermeier con i suoi informatori, l’ambito di sviluppo del suo crescente interesse per la cultura materiale,  per le tecnologie e per l’uso di attrezzi e utensili. Fondamentali anche in questo le sollecitazioni di Jaberg che in una lettera del novembre 1920, dopo essersi complimentato per la qualità delle fotografie (“Davvero molto abili gli scatti con cui ha fissato il trasporto di legname a Borno”) lo invitava a concentrare la sua attenzione sulla “diffusione di singoli tipi (per esempio tipo ‘gerla’, tipo ‘cestone’). Sono mol­to istruttive anche le immagini della raccolta delle castagne. Allora, se si presenta l’occasione, ritrag­ga un po’ più in grande anche i vari attrezzi.” (in La Lombardia dei contadini 2007, p. 364). E ancora, nel gennaio successivo: “In questi ultimi giorni mi sono occupato degli at­trezzi per la trebbiatura. A questo riguardo le sue osservazioni ai margini  e le sue fotografie sono state preziosissime. Anche se dovesse perdere del tempo con queste osservazioni di cultura materiale ne vale veramente la pena; non vorremmo rinunciarvi per via della fretta. At­tendo con ansia la prossima spedizione delle sue fotografie (…). Vorrei anche rielaborare i materiali sulla sedia. Su questo punto si trovano specie per i Grigioni osservazioni preziose e anche due foto; in Italia, al contrario, mancano quasi del tutto le riprese d’interno che potrebbero documentare anche altri tipi di mobilio (letto, armadio ecc.), oppure dei gruppi di sedie, sgabelli, ecc. Non vorrebbe verificare se la macchina fotografica e la luce invernale lo consentono? Noi siamo intenzionati a redigere al più presto un inventario delle foto che permetterà a noi e a Lei di vedere meglio dove ancora dobbiamo rivolgere  l’obiettivo avido di sapere. D’altronde il solo materiale fotografico fino ad ora prodotto costituisce già di per sé una collezione unica in area romanza”[30].

Nell’arco di pochi mesi l’entità e la qualità della produzione fotografica di Scheuermeier erano già tali da costituire una raccolta eccezionale, in grado quasi di riorientare e condizionare  gli obiettivi e l’andamento di tutto il progetto. Prima di colmare “il buchetto piemontese” tra Ticino e Sesia (ma con una curiosa incursione a Pettinengo, nel Biellese) riprendeva il dialogo necessario col suo maestro in una lunga lettera datata Como, il 17 gennaio 1921: “Mi rallegra che Lei possa utilizzare anche le mie osservazioni, sia quelle di carattere etnografico, sia quelle di carattere generale. Mi rendo conto benissimo che nella concitazione della rilevazione queste possano risultare non proprio sistematiche ed equilibrate. (…) Per questo motivo accompagno sempre le fotografie con una spie­gazione il più possibile comprensibile. Nelle descri­zioni delle foto mi affido in gran parte alla mia esperienza diretta, mentre per le osservazioni al margine dei questionari mi attengo spesso alle sole affermazioni dell’informatore  (…).  La mia posizione al momento è quindi la seguente: nella rilevazione assumere obiettivamente ciò che viene spontaneamente dall’informatore, secon­do il suo carattere, e ciò che posso cogliere con lo sguardo veloce passando in gran fretta, per lo più di notte. Nel resto limitare alle foto gli studi approfonditi sulla cultura materiale con descrizione. In queste [foto] tutto dovrà essere registrato in maniera sistematica e io non posso far altro che rallegrarmi del nuovo indice per argomenti delle riprese fotogra­fiche come aiuto graditissimo per evitare delle man­canze. Finora ho fotografato soprattutto ciò che era nuovo e particolare e che non avevo ancora visto altrove.  (…) È d’accordo, insieme con Jud, sul mio modo di procedere? È sufficiente la quantità delle osser­vazioni etnografiche alla quale mi sono finora atte­nuto? Nel caso non fosse d’accordo in qualche punto, La prego di segnalarmelo al più presto; altrimenti devo presumere di poter proseguire come ho fatto finora” (in Gentili 1997, pp. 21-22). La procedura si precisa empiricamente, lasciando intravedere – mi pare – l’emergere di due pratiche ancora distinte, cui corrisponde la netta separazione degli strumenti della ricerca: il questionario per l’indagine linguistica, la fotografia per l’indagine etnografica sulla cultura materiale, sebbene Scheuermeier si mostrasse ancora poco consapevole di un suo possibile uso comparativo. Jaberg rispose a stretto giro di posta, il successivo 23 gennaio: “Credo che in linea di principio abbia ragione anche nella scelta delle fotografie; io mi comporterei in modo un po’ diverso, nel senso che non attenderei sempre nuove forme di cultura materiale o qualcosa di assolutamente sorprendente, ma fotograferei a grandi intervalli anche cose che mi sembrano identiche con altre viste in precedenza. Piccole differenze non vengono spesso rilevate, non si riesce a tenere ben separato ciò che è importante da ciò che non lo è, specialmente se si vive troppo vicino agli oggetti; e, inoltre, ci si inganna anche nel ricordarli. Quali fruitori del materiale dell’Atlante e di quello iconografico, si è contenti di ricevere esplicite conferme anche di cose identiche. Neanche qui sono completamente affidabili le conclusioni ex silentio” (in Sanga 2007, p. 33). Con tutta la cortesia necessaria e il rispetto dovuto all’immane lavoro sul campo che si stava conducendo, Jaberg precisava e modificava nettamente gli indirizzi operativi proprio alla vigilia del periodo in cui Scheuermeier si apprestava a percorrere tutta l’Italia settentrionale, dalla Liguria all’Istria, per giungere infine in Piemonte solo l’anno successivo. Fu quello il momento in cui si chiariva l’esigenza di evitare il ricorso soggettivo alla documentazione fotografica a favore di una rilevazione più sistematica, certo connessa al “rilievo crescente che veniva assumendo l’indagine sulla cultura materiale” (Gentili 1997, p.20), allentando anche la relazione di stretta interdipendenza col questionario.  Questo atteggiamento nuovo comportava, letteralmente, un allargamento di campo, ulteriormente evidente nelle campagne degli anni Trenta, quando la presenza di Paul Boesch lo sciolse dal vincolo della descrizione degli oggetti, ma provocò anche un certo disorientamento. Era lo stesso modo di procedere che mutava.

Ancora nell’ ottobre del 1921 Scheuermeier appariva quasi fotografo suo malgrado, tanto da proporre una riduzione del tempo dedicato alle riprese, così obbligando nuovamente Jaberg a prendere posizione:  “La Sua minaccia di rallentare la documentazione fotografica a favore della ricerca linguistica, mi amareggia. D’altra parte mi rendo conto che il tutto Le richieda molto tempo e che Lei sia ansioso di procedere con il lavoro.” (in Gentili 1997 p. 24) Quando nel 1931 si sarebbe soffermato a riflettere sulla prima parte di quell’esperienza, il quadro di riferimento era ormai radicalmente mutato e la prevalenza dell’approccio visuale risultava chiara: “Nessun questionario (…) potrà servire dappertutto. Il miglior metodo sarà sempre di andare sul posto a vedere gli oggetti e i lavori e di fissarne l’immagine in fotografie e schizzi accompagnati da descrizioni particolareggiate.” (Scheuermeier 1932, p. 97). In modo ancora più esplicito avrebbe descritto il procedere nella conferenza berlinese del 1934:  “Nel frattempo [che Paul Boesch disegnava] io con il mio informatore percorrevo, casa e stalla, cucina e cantina, villaggio e campagna, e fissavo in immagini fotografiche che venivano tutte fornite di una descrizione tutto ciò che mi appariva interessante. (…) D’altra parte il mio dovere più importante, quello di raccogliere le risposte al mio questionario sistematico, finiva per dover essere svolto nelle pause tra tutte queste attività, e soprattutto nel tempo in cui gli impegni relativi al disegnatore e alle fotografie non mi distraevano più.”  (Scheuermeier 1936,  cit. in  Caltagirone, Sordi 2001, p.29)

Parafrasando una sua notissima affermazione si può dire che “l’acchiappadialetti” partì linguista e ritornò fotografo, accogliendo serenamente la contraddizione interna tra rilevamento linguistico, concepito e restituito in uno spazio bidimensionale e sincronico, dove la variabile temporale se non proprio esclusa non era esplicitamente considerata, e ripresa fotografica, indissolubilmente legata al qui ed ora dello scatto. Solo con la messa in scena, destinata a restituire un tempo ‘altro’, a produrre una “autenticità rappresentata” (Marano 2007, p. 107) le due forme di rappresentazione sarebbero tornate per quanto possibile ad avvicinarsi.

Sono proprio le fotografie in cui sono presenti figure che maneggiano oggetti a costituire la maggior parte delle riprese. Tutte – salvo rarissime eccezioni – frutto di una posa ricercata e accurata, certo non attribuibile a presunte limitazioni tecniche. In questo grande insieme è però necessario distinguere due categorie diverse: nella prima le persone erano chiamate a mostrare più che a mostrarsi: esponevano gli oggetti, essendo a volte attorniate da altri con simili caratteristiche tipologiche o funzionali. Nella seconda ne veniva mostrato l’uso, accennando il gesto corrispondente, come nella migliore tradizione delle scene di lavoro. Il carattere più rappresentativo che descrittivo di queste immagini è però rivelato da alcuni elementi indiziari: si pensi allo sguardo in macchina dei soggetti ripresi, che rende esplicito l’artificio. Anche i gesti presentano lo stesso carattere. Essendo stabiliti e letteralmente fissati prima dello scatto non definiscono un istante, rimandando semmai all’azione del lavoro in un senso molto lato, evocativo. Per questo riesce difficile concordare con Scheuermeier quando afferma che “le fotografie possono mostrarci  l’uomo al lavoro”[31]. Non è qui in questione il valore della fotografia come documento quanto la corretta determinazione del contenuto documentario di ciò che lui fotografa, poiché nell’accezione e nell’uso consueto che ne ha fatto l’immagine fotografica funziona piuttosto da tableau vivant: è la parola che dà movimento, che racconta l’azione, nominandola. Non è l’iconografia, né il suo trattamento ciò che distingue la produzione fotografica di Scheuermeier: è la relazione col testo, col progetto che questo uso significa e a cui dà corpo; poiché infine erano le parole e le cose a interessarlo, non i gesti[32].

Quelle cose con cui costruiva le sue misurate nature morte di oggetti, morbidamente illuminati per essere pienamente leggibili in ogni dettaglio[33], solo a volte ripresi un poco da lontano e di scorcio, con scarsa attenzione per ciò che accadeva ai margini dell’inquadratura[34]. Nella maggioranza dei casi la ripresa è invece frontale, gli oggetti ordinatamente disposti secondo le consuetudini dei cataloghi illustrati. Lo si vede nelle immagini realizzate a Ronco[35] e a Vico Canavese[36] nell’ottobre del 1923, o nella serie più tarda di Montanaro del 1932[37], dove c’è ancora una luce di gusto pittorialista a illuminare gli interni[38]. Questa è però un’eccezione: in quegli ultimi anni le riprese si fanno in certa misura più complesse e articolate, prive di un unico centro di interesse e (quindi) di un ‘fuoco’ compositivo[39]. Sono meno costruite, più immediatamente referenziali; a volte il campo si allarga sino a far scomparire il soggetto dichiarato: “l’informatore dà da mangiare alle mucche”[40]  dice il testo, ma l’informatore non si vede, sta ormai oltre la soglia della stalla, mentre una ragazza si affaccia a guardare, imprevista.

Nella produzione di Scheuermeier sono complessivamente pochi i ritratti veri e propri, quelli in cui la persona si mostra doppiamente consapevole: di essere fotografata, certo, ma anche di costituire il solo elemento di attenzione del fotografo, di essere cioè compiutamente soggetto. Nascono sempre da legami personali. Sono alcuni informatori, a volte con le loro famiglie, ritratti nei modi propri di molta fotografia locale ancora in quegli anni: in esterni, con un fondale magari bianco[41] a isolarli dal contesto quotidiano o per proiettarli in un ambito più letterario e alto. Anche stereotipato però, com’è per quella “sposa lombarda”, la “classica «Lucia» (…) figlia dell’informatrice di Galliate” che costituisce il soggetto della cartolina inviata a Jakob Jud nel febbraio del 1921[42], e a cui Scheuermeier dedicò una particolare attenzione[43]. Sono i suoi diversi assistenti (a loro volta fotografi[44]) ripresi sul campo, comunque in posa, a volte mettendo argutamente in scena il dialogo tra le due culture, come nell’efficace ripresa realizzata a Borgomanero nel 1928 in cui “lo studente Walser di Zurigo (…) parla con il marito dell’informatrice”[45]. In altri casi la figura perde la propria identità di persona, ma non per questo diventa semplice elemento della scena: è il caso ad esempio della donna di Vico Canavese col suo carico di steli di granturco, incorniciata dall’arco in pietra[46], o del vecchio con la pipa seduto in controluce accanto al vano della porta, sempre a Vico[47]; proprio la sua presenza non necessaria, che anzi nasconde alla vista parte degli attrezzi fotografati, rivela l’intenzione estetica di Scheuermeier.  Questa raggiunge a volte sorprendenti effetti espressivi, come nel fienile di Rochemolles, dove la luce sottolinea il comune profilo nodoso dell’attrezzo e del contadino[48].

Un cenno a parte meritano i ritratti legati all’amorevole histoire romancée dell’incontro con la signorina Nicolet, tutti scalati negli ultimissimi giorni dell’agosto 1923 in valle Antrona. Le fotografie si rivelano come non mai catalizzatore e memoria di sguardi, e di sentimenti[49]: alla  “immagine riflessa” di lui viene fatta corrispondere “l’altra immagine riflessa” di Nellie che interroga lo specchio della lanca come un candido Narciso, mentre l’aspro fondale alpino è tenuto sapientemente fuori fuoco, secondo la migliore sintassi pittorialista. In questo felice momento della sua vita Scheuermeier si consentiva di intrecciare il rigore analitico dell’indagine con la tensione che nasce dal desiderio: “Sguardo nella stalla attraverso la porta (…) Dietro la kasínα dla zónt, dove ci si intrattiene nelle sere d’inverno per lavorare e chiacchierare. Un uomo sulla bánca che corre tutto intorno alle pareti. (…) dietro [biancovestita a illuminare il buio del fondo] la signorina Nicolet; dietro di lei un letto vuoto”[50]. Questa fotografia, come altre ma certo per ragioni più nette, non venne pubblicata nel Bauernwerk, per il quale non solo venne utilizzata una porzione ristretta dell’intera produzione di Scheuermeier, ma le stesse immagini selezionate furono a volte modificate per essere più pertinenti al testo, più funzionali all’uso comparativo previsto dal progetto finale[51].

Diverse sono le ragioni e gli esiti dell’attuale riedizione, che ripristina invece  nella loro interezza e articolazione le primitive sequenze di realizzazione, rivelandone i nessi non solo tematici con le specificità di ciascun punto di indagine. Vengono così recuperati e resi comprensibili  l’originario ritmo e tono narrativo, a quella data destinati ai suoi soli lettori privilegiati.  Jakob e Jud naturalmente, ma ancor prima gli informatori di Scheuermeier, che potevano misurarsi con la memoria di quell’incontro, con gli esiti delle loro strategie di autorappresentazione, quasi sempre implicite, ma soprattutto con le ragioni e il possibile senso dello sguardo portato dall’altro, dall’estraneo, “colpiti forse dall’onore che un signore sconosciuto veniva a fare alle loro povere cose.” (Scheuermeier 1963, p. 295).

Anche per Scheuermeier la rielaborazione dell’esperienza ha costituito il nucleo centrale e problematico del progetto. In particolare la traduzione, l’adattamento e (certo in parte) la reinvenzione del gesto e dell’oralità in scrittura verbale e iconica, sia nella fase interlocutoria del questionario, sia – specialmente – nella sistematizzazione successiva, a sua volta scandita in almeno due fasi distinte. Mentre nella redazione della singola didascalia testo e immagine funzionavano come due voci dello stesso coro, di cui l’etnografo era il maestro concertatore, nella messa in pagina editoriale l’operazione comportava un ulteriore distanziamento dal contesto di riferimento e di produzione; l’immissione in un nuovo e diverso sistema significante, in una nuova narrazione, in un ulteriore contesto d’uso che presumeva a sua volta una gamma solo parzialmente definibile a priori di contesti di ricezione[52]. A maggior ragione ciò accade nelle attuali edizioni sistematiche per serie locali o regionali.  Al determinante recupero delle inedite sequenze documentarie originarie  corrisponde un mutamento di posizione, della distanza critica da cui possono essere nuovamente studiate e osservate. Muta la nostra comprensione del procedere di Scheuermeier sul campo.

 

Note

[1] Schaaf 2000, pp.82-83. Nessuna immagine di lavoro venne invece inclusa in The Pencil of Nature, per la cui approfondita analisi si veda Signorini 2007.

[2] Il confronto qui si pone, ovviamente, con la coeva produzione di dagherrotipi, che avevano più rigidi parametri d’uso e un ambito di applicazione mediamente più descrittivo che narrativo: dal ritratto alla veduta urbana. Tra i non molti esempi di pose di lavoro si possono segnalare Terrasse de Lerebours, eccezionale dagherrotipo panoramico coi lavoranti della stamperia omonima realizzato da Noël-Marie Paymal Lerebours verso il 1845 (Bajac e De Font-Réaulx 2003, pp. 168-169) dove argomento e schema iconografico sono analoghi al coevo Il Laboratorio di Reading, di Talbot e Nicolaas Henneman, 1846 ca, carta salata da negativo (Gernsheim 1981, p. 186),  e il bellissimo dagherrotipo colorato di anonimo autore americano, 1850ca, con il fabbro e l’assistente al lavoro all’interno della fucina (Bernard 1981, p. 24). Non si conoscono invece dagherrotipi italiani di ‘lavoro’, cfr. Italia d’argento 2003.

[3] Antoine étienne Renaud Augustin Serres, famoso docente di anatomia comparata, propose ad esempio sin dal 1844 – 1845 di realizzare collezioni di fotografie antropologiche, ma anche la realizzazione di un Musée Photographique des Races Humaines, a Parigi. (Faeta 2006, p. 10) Quelle iniziative si collocavano esemplarmente nel clima di entusiastica accettazione delle potenzialità documentarie del nuovo mezzo appena inventato (1839), analogamente a quanto accadeva in altri ambiti di studio: dalla botanica alla documentazione del patrimonio artistico e architettonico, dando immediatamente corpo alle previsioni espressa da Arago nel corso della sua presentazione del dagherrotipo nel luglio del 1839 (Arago 1839).

[4] La bibliografia di confronto è sterminata, rimando qui ad alcuni testi e ai loro apparati, utili per un primo confronto: Auer 2003; Cavanna 2003; Michetti 1999; Miraglia 1985; Miraglia, Pohlmann 1992; Morello 2000; Roma 1840 – 1870 2008.

[5] Sulle differenze profonde tra atteggiamento demologico ed etnografico ha richiamato l’attenzione Faeta 2006, p. 18, cui rimando.

[6] Il solo Francesco Negri [Lavandaie, 1905 ca] si distinse per la scelta inconsueta del punto di vista, che anticipava di molto, ma certo occasionalmente, la futura sintassi modernista con una eccezionale ripresa dall’alto in diagonale (Negri 2006, p. 103).

[7] La felice definizione è tratta da Sguardo e memoria 1988. Per orientarsi metodologicamente nell’ormai sterminata bibliografia italiana di riscoperta, non sempre ideologicamente limpida e  scientificamente attrezzata, di fondi fotografici e autori locali di interesse etnografico sono imprescindibili le indicazioni contenute in  Faeta e Ricci 1997, da leggersi in parallelo al più recente Faeta 2006.

[8] Morselli 1882, p. 7 che riprendeva e ampliava le Istruzioni di  Giglioli, Zannetti, 1880,  che si rifacevano a loro volta alle suggestioni di Paolo Mantegazza. La distinzione introdotta da Morselli, ma non era il solo, mi pare significativa non tanto per l’ovvia contrapposizione tra misurabile/ non misurabile, vale a dire tra metodo ed empiria, ma anche per la consapevolezza di quante fotografie di contenuto potenzialmente etnografico fossero prodotte proprio nell’ambito della nascente fotografia artistica. Analoga attenzione per i due opposti modi della descrizione – anche se in ambito testuale e non visuale – si ritrova ancora nella tesi di dottorato di Gregory Bateson del 1936. (Bateson 1988, p.7)

[9] I modi della ripresa artistica, attenta alla restituzione del contesto, saranno poi di fatto prevalenti, per un mutato statuto della ricerca antropologia ed etnografica, recuperando la scientificità attraverso la sua applicazione metodologicamente avvertita e definita. (Faeta, Ricci 1997; Marano 2007).

[10] Fano 1901, p. 88. Il Direttore del Laboratorio di Fisiologia del Regio Istituto di Studi Superiori di Firenze aveva avanzato questa proposta sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana”  sin dal 1898, riproponendola quindi nel corso del  II Congresso Fotografico Italiano di Firenze (1899),  dove invitava la Presidenza a nominare un’apposita commissione di studi, proponendo anche l’istituzione di un’apposita rubrica sullo stesso “Bullettino”,  il tutto in collaborazione con la Società Italiana di Antropologia, Etnologia e Psicologia Comparata, anch’essa con sede a Firenze, ma l’iniziativa ebbe scarso successo (Panerai 1991). Riprendendo un’intuizione di Ruskin 1880, la possibilità di utilizzare l’opera della crescente ‘armata’ di fotografi dilettanti, che non potevano non aver realizzato “quelque chose d’intéressant à un point de vue quelconque, une épreuve qui venant s’ajouter à d’autres, apportera un élément utile à une collection”, venne sostenuta anche da G. Moreau in occasione del Congresso internazionale di fotografia di Parigi del 1900  (Moreau 1901). Qui alla fiducia positivista nella obiettività del mezzo si accompagnava la chiara percezione della funzione sociale della fotografia e la possibilità che ne derivava di utilizzarla quale fonte, per le proprie valenze quantitative di serie potenzialmente infinita piuttosto che qualitative di singolo elemento documentario, secondo una impostazione metodologica che venne ripresa da Corrado Ricci nel 1904 con la proposta istituzione di un Archivio Fotografico Italiano da realizzarsi agli Uffizi, mentre Loria avrebbe aperto nel 1906 – sempre a Firenze – un primo piccolo Museo di Etnografia Italiana, finanziato dal conte Giovanangelo Bastoni.

[11] Loria 1900; Loria 1912. Il dibattito intorno alla fotografia documentaria procedeva anche in altri ambiti come dimostra la relazione presentata da Carlo Errera nel 1908. Ancora nel 1911 il III Congresso Fotografico Italiano ospitava una sessione internazionale specificamente dedicata alla documentazione fotografica.

[12] Favari 1899. Per un approfondimento su alcune figure della scena milanese si veda ora Paoli 2007.

[13] Sulla scia degli studi pionieristici di Costantino Nigra, Sinigaglia trascrisse a partire dal 1901 una grande quantità di Vecchie canzoni popolari del Piemonte, poi in parte trascritte  per canto e pianoforte tra il 1914 e il 1927 (Leydi 1998; Sinigaglia 2003).

[14] In queste occasioni  erano frequentemente esposte immagini di argomento demologico: ancora nel 1895 all’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino il biellese Giovanni Varale, partecipava con “impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, mentre negli anni e decenni immediatamente successivi altri autori piemontesi rivolgevano la propria attenzione ad analoghi soggetti, specialmente nelle prime fasi della loro produzione. Penso ad alcune immagini di Mario Gabinio tra 1900 e 1910 (Gabinio 1996; Gabinio 2000) o a quelle di Cesare Giulio prima del 1920 (Giulio 2005),  mentre nelle prove di poco più tarde di Stefano Bricarelli o di Domenico Riccardo Peretti Griva il tema del lavoro dei contadini diventa puro motivo, se non mero pretesto per esercizi di stile tardo pittorialisti.

[15] Sulla figura di Vittorio Sella, tra i più importanti fotografi della seconda metà del XIX secolo rimando a Sella 2006 e alla bibliografia ivi citata. Per quanto riguarda il meno noto Domenico Vallino, autore a sua volta di due Album di un alpinista (1877, 1878) dedicati rispettivamente alle valli di Andorno e Gressoney e alla Valsesia, rimando a Cavanna 1995. Sarà proprio la valenza etnografica di queste immagini a spingere Alessandro Roccavilla a rivolgersi a Vallino quando nel 1911 viene chiamato da Loria a collaborare alla realizzazione dell’Esposizione di Etnografia Italiana di Roma (Albera, Ottaviano 1989; Bellardone, Cavatore 1991) proponendo anche un diorama dedicato all’antica cerimonia del Battesimo in alta Valle Cervo (Roccavilla 1922). Segnalo qui che alcune immagini della serie dei Costumi biellesi , in parte pubblicate ne Il Biellese 1898, vennero riutilizzate con attribuzione e titolazione errate nel numero autunnale della rivista “The Studio” del 1913 interamente dedicato a L’art rustique en Italie, a corredo del contributo fornito da Roccavilla. Con una disinvolta operazione di dislocazione geografica, quelli che erano I piccoli Valìt (Valle di Andorno) nel 1898 (p.71)  divennero così Peasants butter-making, Aosta, Piedmont (Art rustique 1913, n.28), mentre il soggetto secondario della ripresa relativa a Miagliano, Case operaie Poma (Il Biellese 1898, p.130) assunse sulla rivista il ruolo di protagonista: Peasant women washing clothes, Aosta, Piedmont (Art rustique 1913, n.17; entrambi interessanti esempi dei problemi posti dall’uso delle fonti secondarie.

[16] Loria  1912, in Puccini 2005, p. 33.

[17] Come ha chiarito lucidamente Faeta (1988, p. 12) sintetizzando una lunga serie di riflessioni sulla fotografia (da Benjamin a Vaccari e Barthes passando attraverso Bourdieu) “In particolare rispetto all’ideologia mi sembra che la fotografia offra informazioni insostituibili. Essa è infatti strumento di formazione e trasmissione di forme simboliche, ma è essa stessa forma simbolica della realtà, costruita attraverso procedimenti sofisticati di codificazione.”

[18] Le sue Scene di vita e di lavoro, allora  notissime e certo pubblicabili senza problemi di censura o autocensura sono state poi quasi dimenticate, a favore della più nota e intrigante serie di nudi maschili; si vedano  Faeta 1988; Gloeden 2008.

[19] Schiaparelli 2003; anche la cartolina spedita da Galliate nel febbraio del 1921, Pascolo Biellese. Sulla via del ritorno, edita da Bonda a Biella, (Canobbio, Telmon 2007, p. 40) mostra quanto il gusto di Scheuermeier fosse prossimo a questa declinazione piemontese del paesaggismo pittorialista.

[20] Palestina 1927  2001. Di Morpurgo, a sua volta editore di cartoline, ricordo qui – a testimonianza di una lunga vicenda di intrecci ancora da studiare compiutamente – la sua Proposta per una più vasta raccolta delle nostre tradizioni popolari, da realizzarsi mediante la raccolta di documentazione visiva, presentata nel 1930 al I Congresso di Arti e Tradizioni Popolari di Trento (Di Castro 2001, p.47).

[21] Tarchetti 1990; le sue immagini venivano edite in cartolina dall’editore vercellese Larizzate presso il quale Scheuermeier acquistò nel marzo del  1921, Nelle risaie vercellesi. Mondatura del riso, con l’iscrizione al verso “ho sbrigato il questionario 65 Desana in un nido di riso.” (Canobbio, Telmon 2007, p. 41) Come rivelano le didascalie, solo il cattivo andamento della stagione precedente consentì a Scheuermeier di documentare almeno la pulitura, la sola fase della coltivazione del riso ad essere descritta. Neppure a livello locale le donne e gli uomini della risaia avevano allora il loro cantore, nessuno che li celebrasse se non occasionalmente in quella stagione della fotografia che si colloca tra pittorialismo e prima etnografia, come accadeva ad esempio con le immagini partecipate dell’Agro Romano che  in quegli stessi anni realizzavano  Luciano Morpurgo e  Arrigo Ravaioli e – un poco più tardi – Adolfo Porry Pastorel.  Le testimonianze fotografiche delle genti di risaia dei primi anni Venti si limitano alle  foto di gruppo, che conservano intatto lo schema compositivo e prossemico della tradizione ottocentesca del genere, fornendo al più indicazioni sull’abbigliamento da lavoro.

[22] Le prime riflessioni sulla cultura visiva di Scheuermeier, con la proposta individuazione di analogie con autori coevi si devono a Marina Miraglia (Scheuermeier 1981) poi riprese e ampliate in Silvestrini 1997 e 2001. Per la loro discussione critica, sostanzialmente condivisibile, si rimanda a Roda 1999 e Scianna 2007.

[23] Come noto la sede Brunner di Como svolse il doppio compito di supporto tecnico logistico per tutto il corso delle rilevazioni sia fornendo a Scheuermeier i nominativi dei propri clienti, a cui ricorrere quali “punti d’appoggio” nelle diverse località, sia nel processo di sviluppo e stampa delle fotografie. I negativi erano infatti spediti alla Ditta per lo sviluppo e per la stampa dei positivi. Questi erano restituiti a Scheuermeier  per il successivo riordino e per la descrizione, sempre corredata dei dati tecnici di ripresa (tempo e diaframma, secondo una consuetudine ampiamente diffusa all’epoca specialmente tra i dilettanti), ma anche – almeno in parte – per essere poi inviate agli informatori in segno di ringraziamento, come accadde la sera del 16 ottobre, a Ivrea, passata a preparare le “fotografie per gl’informatori di Val Vogna, Ronco, Borgosesia” (in Canobbio, Telmon 2007, p.62) dove era stato nelle settimane precedenti. Questa pratica consolidata, che vedeva Brunner anche nelle implicite vesti di mecenate, se è vero che i prezzi delle copie erano appena sufficienti a coprire le spese  (Lettera a Jaberg del 24 settembre 1921, in Gentili 1997, p. 24), dovette avere alcune singolari eccezioni, come mostra la fotografia che venne scattata al nostro “Explorator nella nebbia” alla Capanna Milano in Val Zebrù nel settembre 1920, (dove era in vacanza col cugino Rudy Wiss), poi edita come cartolina da U. Trinca di Sondrio (n. 1495), a sua volta cliente di Brunner. (Gentili 1999,  nn. 15, 42)

[24]  La produzione fotografica di Scheuermeier è consultabile all’indirizzo http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, conducendo la ricerca nella sezione “Immagini”, ricercabili per numero del fototipo, località, autore o data.

[25] Erano le limitazioni ‘militari’  relative alle cosiddette “zone di guerra” in cui si trovavano postazioni o fortificazioni. Il Ministero della Pubblica Istruzione rispose l’11 di agosto del 1920 senza far cenno esplicito alle fotografie, ma con una raccomandazione diretta a Provveditori e Direttori di istituto che sostanzialmente gli consentiva libertà di azione.  “Più che dai delinquenti, ebbi delle seccature da parte dei tutori dell’ordine” ricorderà con amara ironia ormai a molti anni di distanza dall’esperienza sul campo (Scheuermeier 1969, p.338), raccontando le tragicomiche vicissitudini occorsegli con brigadieri, cardinali e pubblici ufficiali, oltre che con i primi fascisti locali.

[26] Si veda http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 339, ripresa a Galliate il 27 febbraio 1921: “Questo tipo di zangola qui è da tempo in disuso e la donna è dovuta andare fuori a procurarsela. Lei stessa non ha più idea alcuna della lavorazione del latte. (…) Anche il setaccio (…) poggiato sul secchio, viene usato ancora solo raramente per colare il latte: tutte cose vecchie.” E ancora, per la ripresa successiva, a proposito di un costume “scomparso da circa 40 anni”: “Ciascun indumento ha una provenienza diversa ed è stato scovato dopo una lunga ricerca per poter fare la fotografia.”

[27] La procedura d’indagine utilizzata da Pellis prevedeva di affiancare al questionario una raccolta di ben 2500 immagini da mostrare contestualmente (Pellis 1926, in Ellero 1999, p. 13). Non è questa la sede per affrontare sistematicamente la questione, ma va almeno ricordato il differente modo di intendere la fotografia tra Scheuermeier e Pellis, certo meno attento alle qualità compositive delle riprese e più propenso all’uso libero dell’istantanea.

[28] “è qui che entra in scena il famoso melanesiano: egli costituisce l’ossessione della letteratura semiologica  e deve reggere da solo tutto il peso dell’alterità radicale – il che mi pare troppo per un solo uomo.”, Schaeffer [1987] 2006 , pp. 48 passim. Il fatto che, in un determinato contesto di ricezione, non sia riconosciuto il contenuto referenziale di un’immagine fotografica  comporta che questa possa perdere il suo specifico statuto di segno (non è più significante) oppure che ne sia mutato il valore (da icona a simbolo, ad esempio), ma ciò può accadere  senza la perdita della sua primaria natura indicale. Non è la comprensione del ricevente che stabilisce la natura della cosa.

[29] Ibidem.

[30] Gentili 1997, p. 20-21, corsivo di chi scrive. L’affermazione mostra bene quale fosse a quella data l’interesse quasi esclusivo, oltre che dichiarato dell’indagine. La lettera è stata ripubblicata in La Lombardia dei contadini 2007, pp. 370-371 con significative varianti di traduzione.

[31] Scheuermeier 1936, p. 357, traduzione di Carla Gentili che ringrazio per la cortesia e la disponibilità a discutere  un passaggio particolarmente delicato delle riflessioni metodologiche di Scheuermeier.

[32] Per questa ragione, credo, non gli importava che a compierli fossero semplici figuranti, coinvolti per ragioni diverse: a Montanaro nel 1932, ad esempio: “la scena si è svolta pressappoco così, quasi naturalmente” (http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6119, corsivo dell’autore; Canobbio,  Telmon 2007, pp. 228 passim), ma si veda  anche  http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 325, Galliate, 1921: “Tutte queste operazioni vengono eseguite per lo più da pettinatori professionisti. (…) Il nipote e la nipote [dell’informatrice] si sono messi al loro posto durante la pausa di mezzogiorno.” Anche a Sauze, nel 1922 a versare il grano nel ventolatoio non era un contadino ma “lo studente Hobi di Zurigo” (Canobbio, Telmon 2007, p.97) uno dei molti inviati da Jaberg e Jud  durante tutto il tempo della ricerca.

[33] Basti notare con quanta cura disponeva un panno bianco a terra per rendere meglio leggibile il fuso nella ripresa realizzata a  Villafalletto nel 1922: http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 837.

[34] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 808.

[35] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 1241.

[36] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagini nn. 1245 – 1251.

[37] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagini nn. 612, 6120.

[38] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6123.

[39] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6093.

[40] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6095.

[41] “Uno sfondo bianco permette ai soggetti di diventare simboli di sé stessi” avrebbe detto Richard Avedon nel 1987 (in Livingstone 1994, p. 59), ma questo solo espediente non è certo sufficiente e non può prescindere dalla duplice intenzione, non necessariamente convergente, tra soggetto fotografante e soggetto fotografato.

[42] Canobbio, Telmon 2007, p. 42. L’immagine venne pubblicata anche in Scheuermeier [1943-1956] 1980, II, F. 495), ma con inversione sinistra/ destra.

[43] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagini n. 330, 340 a, b.

[44] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 833, Villafaletto, settembre 1922, nella quale compare lo stesso Scheuermeier.

[45] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 2170. Nel Bauernwerk (I, 1943, F. 53) l’assistente, certo non un testimone della cultura contadina, scomparve dall’immagine a seguito di un accuratissimo intervento di ritocco, mentre nell’edizione italiana (Scheuermeier [1943-1956] 1980, I, F. 53) venne fatto, discutibilmente, ricomparire. Anche la figura a fronte (F.54) è il risultato di una elaborazione: il taglio in stampa della ripresa http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1173 realizzata a Borgone nell’agosto del 1923, di cui costituisce la parte destra, pubblicata nella sua interezza nel vol II, F. 150 con l’indicazione “Ceppomorelli (Piemonte)”.

[46] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1247.

[47] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1248.

[48] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 813.

[49] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagini nn. 1180-1182.

[50] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1187.

[51] Cfr. la nota 44.

[52] Per le definizioni di contesto d’uso e di contesto di ricezione formulate da Heintze 1990 si veda Marano 2007, pp. 44-46.

 

 

 

Bibliografia

 

AIS-Introduzione

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Albera, Ottaviano 1989

Dionigi Albera, Chiara Ottaviano, Un percorso biografico e un itinerario di ricerca: a proposito di Alessandro Roccavilla e dell’esposizione romana del 1911. Torino:  Regione Piemonte, 1898

 

Antropologia visiva 1980

Antropologia visiva: La fotografia, a cura di Sandro Spini, “La ricerca folklorica”, 2 (1980), ottobre

 

Arago 1839

François Jean Dominique Arago, Rapport de M. Arago sur le Daguerréotype, lu à la séance de la Chambre des Députés le 3 juillet 1839 et à L’Académie des Sciences. Séance du 19 août.  Paris:  Bachelier, 1839 (trad. it. con testo a fronte a cura di Gianfranco  Arciero. Roma: Arnica, 1979)

 

Art rustique 1913

L’art rustique en Italie, “The Studio», numero d’automne. Paris: Editions du “Studio”, 1913

 

Auer 2003

Collection M.+ M. Auer. Une histoire de la photographie, catalogo della mostra (Nice – Genève, 2004), a cura di Michel Auer, Michèle Auer.  Hermance: Editions M+M, 2003

 

Bajac, De Font-Réaulx 2003

Quentin Bajac, Dominique de Font-Réaulx, dir., Le Daguerréotype français. Un objet photographique, catalogo della mostra (Parigi, Musée d’Orsay, 2003). Paris: Réunion des Musées Nationaux, 2003

 

Bateson 1988

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Bellardone, Cavatore 1991

Patrizia Bellardone, Giuseppe Cavatore, a cura di, Alessandro Roccavilla e “La Rivista Biellese”.  Biella: Edizioni leri e Oggi, 1991

 

Bernard 1981

Bruce Bernard, Photodiscovery. Milano: Garzanti, 1981

 

Il  Biellese 1898

Club Alpino Italiano, Il Biellese. Milano: Turati, 1898

 

Bricarelli 1913

Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), 8, agosto, pp. 2255-2260

 

Caltagirone, Sordi 2001

Fabrizio  Caltagirone,  Italo Sordi, Gli “approfondimenti etnografici” e la cultura materiale negli inediti di Paul Scheuermeier, in Lombardia dei contadini  2001, pp.27-32

 

Canobbio ,Telmon 2007

Sabina Canobbio, Tullio Telmon, Introduzione, in Il Piemonte dei contadini 2007,  pp. 13-20

 

Cavanna 1995

  1. Cavanna, Gli “Album di un alpinista”, “ALP”, 11 (1995), n. 122, pp. 124-127

 

Cavanna 2003

  1. Cavanna, Mostrare paesaggi, in L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra ( Modena, 2003 – 2004), a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Milano: Silvana Editoriale, pp. 40-116

 

Counihan 1980

Carole M. Counihan,  La fotografia come metodo antropologico, in Antropologia visiva 1980, pp. 27-32

 

Di Castro 2001

Daniela di Castro, Luciano Morpurgo (1886 – 1971), fotografo, scrittore, editore, in Palestina 1927, pp. 43-58

 

Dragone 2000

Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895.  Torino:  Banca CRT, 2002

 

Ellero 1999

Gianfranco Ellero, Due linguisti fotografi: Paul Scheuermeier e Ugo Pellis, in Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999, pp. 117-130

 

Ellero, Michelutti 1994

Gianfranco Ellero, Manlio Michelutti, Ugo Pellis fotografo della parola. Udine : Società Filologica friulana, 1994

 

Ellero, Zannier 1999

Gianfranco Ellero, Italo Zannier, a cura di,Voci e immagini: Ugo Pellis linguista e fotografo. Milano – Spilimbergo: Federico Motta Editore – CRAF,  1999

 

Errera 1908

Carlo Errera,  Sulla convenienza di ordinare un Archivio fotografico della regione italiana in servizio degli studi geografici,  “Atti del Sesto Congresso Geografico Italiano”(Venezia, 26-31 maggio 1907), I. Venezia : Premiate officine grafiche C. Ferrari 1908, pp. 40-47

 

Faeta 1988

Francesco Faeta, Wilhelm von Gloeden: per una lettura antropologica delle immagini, “Fotologia”, 9, 1988, maggio, pp. 88-104

 

Faeta 2003

Francesco Faeta, Strategie dell’occhio: saggi di etnografia visiva. Milano: Franco Angeli, 2003

 

Faeta 2006

Francesco Faeta, Fotografi e fotografie: Uno sguardo antropologico.  Milano: Franco Angeli, 2006

 

Faeta, Ricci 1997

Francesco Faeta, Antonello Ricci, a cura di, Lo specchio infedele. Materiali per lo studio della fotografia etnografica in Italia, ” Documenti e ricerche”. Roma: Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari, 1997

 

Falzone del Barbarò 1981

Michele Falzone del Barbarò, Paul Scheuermeier ricercatore e studioso, in Scheuermeier 1981, pp.24-31

 

Fano 1901

Giulio Fano, Sull’applicazione della fotografia agli studi etnografici, in “Atti del Secondo Congresso Fotografico Italiano” (Firenze, 1899).  Firenze:  Ricci, 1901, pp.87-90

 

Favari 1899

Pietro Favari, L’Illustrazione fotografica dell’Italia per il T.C.I.,  “Il Dilettante di Fotografia”, 10 (1899),  n.15, novembre, p. 896

 

Gabinio 1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra ( Torino, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Gabinio 2000

Mario Gabinio. Valli Piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, Villa Remmert, 2000-2001), a cura di P. Cavanna. Torino: Galleria Civica d’Arte Moderna, 2000

 

Gentili 1997

Carla Gentili, Scheuermeier nel Trentino, dalla linguistica all’etnografia, in Il Trentino dei contadini, 1997, pp. 15-25

 

Gentili 1999

Carla Gentili, Dall’Italia per l’Atlante. Le cartoline di Paul Scheuermeier a Jacob Jud: 1920-1928, in Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999, pp. 171-220

 

Gernsheim 1981

Helmut  Gernsheim, Le origini della fotografia. Milano: Electa, 1981

 

Giglioli, Zannetti 1880

Enrico Hillyer Giglioli, Arturo Zannetti, Istruzioni per fare osservazioni antropologiche ed etnologiche.  Roma: Tip. Eredi Botta, 1880

 

Giulio 2005

Sul limite dell’ombra: Cesare Giulio fotografo, catalogo della mostra (Torino, 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo nazionale della Montagna,  2005

 

Gloeden 2008

Wilhelm von Gloeden. Fotografie: Nudi Paesaggi Scene di genere, catalogo della mostra (Milano, 2008), a cura di Italo Zannier. Firenze: Alinari 24 Ore, 2008

 

Heintze 1990

Beatrix Heintze, In Pursuit of a Chameleon: Early Ethnographic Photography from Angola in Context, “History in Africa: A Journal of Method”, 17 (1990), pp.131-156

 

L’Italia d’argento 2003

L’Italia d’argento 1839-1859: Storia del dagherrotipo in Italia, catalogo della mostra (Firenze – Roma, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli.  Firenze:  Alinari, 2003

 

Lanternari 1981

Vittorio Lanternari, Sensi, “Enciclopedia”, vol.12.  Torino: Einaudi, 1981 , pp.730-765

 

Leydi 1998

Roberto  Leydi, a cura di, Canzoni popolari del Piemonte: la raccolta inedita di Leone Sinigaglia.  Vigevano : Diakronia, 1998

 

Liégard 1905

Alfred Liégard, Le document et l’art, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 1, gennaio, pp. 8-10

 

Livingstone 1994

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La Lombardia dei contadini 2001

Paul  Scheuermeier:  La Lombardia dei contadini. 1920 – 1932, I,  Lombardia orientale. Le province di Brescia e Bergamo, a cura di  Giovanni  Bonfadini, Fabrizio Caltagirone, Italo Sordi. Brescia: Grafo, 2001

 

La Lombardia dei contadini 2007

Paul  Scheuermeier:  La Lombardia dei contadini. 1920 – 1932, III,  Lombardia occidentale, a cura di  Fabrizio Caltagirone, Glauco Sanga, Italo Sordi. Brescia: Grafo, 2007

 

Loria 1900

Lamberto Loria, Relazione sulla proposta pubblicazione fotografica: tipi, usi e costumi del popolo italiano, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), n. 1, pp. 19-22

 

Loria 1912

Lamberto Loria, Il primo Congresso di etnografia italiana: Parole dette nella Seduta inaugurale. Perugia: Unione Tipografica Cooperativa, 1912

 

Marano 2007

Francesco Marano, Camera etnografica. Storie e teorie di antropologia visuale. Milano: Franco Angeli, 2007

 

Michetti 1999

Francesco Paolo Michetti. Il cenacolo delle arti tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma – Francavilla al Mare, 1999). Napoli: Electa, 1999

 

Miraglia 1985

Marina Miraglia, Cesare Vasari e il  ‘genere’ nella fotografia napoletana dell’Ottocento, “Bollettino d’Arte”, 70 (1985), serie VI, nn. 33-34, settembre-dicembre, pp. 199-206

 

Miraglia, Pohlmann 1992

Marina Miraglia, Ulrich  Pohlmann, a cura di, Un viaggio fra mito e realtà: Giorgio Sommer fotografo in Italia. Roma: Carte Segrete, 1992

 

Mirisola, Vanzella 2004

Vincenzo Mirisola, Giuseppe Vanzella, Sicilia Mitica Arcadia: Von Gloeden e la ‘Scuola’  di Taormina.  Palermo:  Edizioni Gente di Fotografia, 2004

 

Moreau 1901

Georges Moreau, Douzième Question: Veu à émettre pour qu’il soient créé des dépôts d’archives photographiques, in Exposition Universelle de 1900. Congres International de Photographie.  Paris:  Gauthier-Villars, 1901, pp. 132-135

 

Morello 2000

Paolo Morello, Gli Incorpora, 1860-1940.  Palermo – Firenze:  Istituto superiore per la storia della fotografia – Alinari, 2000

 

Morselli 1882

Enrico Morselli, Programma speciale della sezione di Antropologia, in Esposizione Generale Italiana în Torino 1884. Programmi.  Torino: Stamperia Reale Paravia, 1882

 

Namias 1907

Rodolfo Namias, L’Esposizione fotografica di Torino, “Il Progresso Fotografico”, 14 (1907), n.  2, febbraio, p. 30

 

Negri 2006

Francesco Negri fotografo 1841-1924,  a cura di Barbara Bergaglio, P. Cavanna.  Cinisello Balsamo:  Silvana Editoriale, 2006

 

Palestina 1927  2001

Palestina 1927 nelle fotografie di Luciano Morpurgo, catalogo della mostra (Gerusalemme,  The Israel Museum, marzo – giugno 2001), a cura di Gabriele Borghini, Simonetta Della Seta, Daniela Di Castro. Roma: U. Bozzi, 2001

 

Panerai 1991

Cristina Panerai, Fotografia e antropologia nel «Bullettino della Società Fotografica Italiana»: una promessa disattesa, “AFT”,  7 (1991), n. 13, pp. 64-69

 

Paoli 1991

Silvia Paoli, Le tematiche sociali nella fotografia milanese dell’Ottocento, in “AFT”, 7 (1991), n. 13, pp. 55-63

 

Paoli 2007

Silvia Paoli, «Ora l’istantaneo è reso duraturo, perpetuo, una macchinetta vince il tempo. ..». La fotografia istantanea a Milano tra Otto e Novecento: Giuseppe Beltrami, Luca Comerio, Italo Pacchioni, in Elena Degrada, Elena Mosconi,  Silvia Paoli, a cura di, Moltiplicare l’istante: Beltrami, Comerio e Pacchioni tra fotografia e cinema, “Quaderni Fondazione Cineteca Italiana”. Milano: Il Castoro, 2007, pp. 23-35

 

Pellis 1926

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Il Piemonte dei contadini 2007

Paul Scheuermeier: Il Piemonte dei contadini 1921-1932, I, La provincia di Torino, a cura di Sabina Canobbio,  Tullio Telmon.  Ivrea: Priuli & Verlucca, 2007

 

Puccini 2005

Sandra Puccini, L’itala gente dalle molte vite. Lamberto Loria e la Mostra di Etnografia italiana del 1911.  Roma: Meltemi, 2005

 

Quintavalle 2003

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Redazionale 1906

Redazionale, “Il Progresso Fotografico”, 13 (1906), n. 10, ottobre, p. 145

 

Ricci 2004

Antonello Ricci, a cura di, Malinowski e la fotografia.  Roma:  Aracne, 2004

 

Ricci 2004

Antonello Ricci, a cura di, Bateson & Mead e la fotografia.  Roma:  Aracne, 2006

 

Roccavilla 1922

Alessandro Roccavilla, Il battesimo nell’Alta Valle del Cervo, “La Rivista Biellese”  2 (1922), nn. 7-8, pp. 21-22

 

Roda 1999

Roberto Roda, Il contadino fotografato: da Scheuermeier ad Avedon e oltre, in Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999, pp. 131-145

 

Roma 1840 – 1870   2008

Roma 1840-1870. La fotografia, il collezionista e lo storico, catalogo della mostra ( Roma – Modena, 2008), a cura di Maria Francesca Bonetti. Roma: Peliti Associati, 2008

 

Ruskin 1880

John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture.  Orpington (Kent): G. Allen, 1880

 

Sanga 2007

Glauco Sanga, Gli interlocutori di Scheuermeier, in La Lombardia dei contadini  2007, pp. 27-44

 

Schaaf 2000

Larry  J. Schaaf, The Photographic Art of William Henry Fox Talbot. Princeton and Oxford: Princeton University Press, 2000

 

Schaeffer [1987] 2006

Jean-Marie Schaeffer, L’image précaire.  Paris: Editions du Seuil, 1987 (traduzione italiana a cura di Marco Andreani, Roberto Signorini. Bologna: CLUEB, 2006

 

Scheuermeier 1932

Paul Scheuermeier, Observations et expériences personnelles faites au cours de mon enquête pour l’atlas linguistique et ethnographique de l’Italie et de la Suisse méridionale, “Bulletin de la Société de Linguistique”, 33 (1932), n. 1, pp. 93-110

                                                                               

Scheuermeier 1936

Paul Scheuermeier, Methoden der Sachforschung. Zur sachkundlichen Materialsammlung für den Sprach-und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, “Vox Romanica”,  I, (1936), pp. 334-369 

 

Scheuermeier [1943-1956] 1980

Paul  Scheuermeier, Il lavoro dei contadini. Cultura materiale e artigianato rurale in Italia e nella Svizzera italiana e retoromanza, a cura di Michele Dean e Giorio Pedrocco, 2 voll. Milano: Longanesi, 1980 (ed. originale, Bauernwerk in Italien der italienischen und ritoromanischen Schweiz, Vol. I.   Erlenbach – Zürich:  Eugen Rentsch Verlag, 1943; Vol II.  Bern: Stimpfli & Cie, 1956)

 

Scheuermeier 1963

Paul Scheuermeier, Regioni ergologiche della vita agricola italiana, in Il mondo agrario tradizionale nella Valle Padana, “Atti del convegno di studi sul folklore padano” (Modena, 17-19 marzo 1962).  Modena:  Enal, Università del tempo libero, 1963, pp. 291-307

 

Scheuermeier 1969

Paul  Scheuermeier, Della buona stella sul nostro Atlante, 1969, traduzione di Carla Gentili in Il Trentino dei contadini 1997, pp. 329-346

 

Scheuermeier 1981

Paul Scheuermeier: fotografie e ricerche sul lavoro contadino in Italia: 1919-1935, catalogo della mostra (Roma, 20  maggio -20 giugno 1981), a cura di Marina Miraglia. Milano: Longanesi, 1981

 

Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999

Scheuermeier le Alpi e dintorni, “Atti del Seminario permanente di Etnografia Alpina”, 4° ciclo (SPEA 4, 1997), a cura di Carla Gentili, Giovanni Kezich, Glauco Sanga,  “Annali di San Michele”, 12 (1999)

 

Schiaparelli 2003

Cesare Schiaparelli fotografo paesaggista, catalogo della mostra (Occhieppo Superiore – Torino, 2003), a cura di Gian Paolo Chorino. Occhieppo Superiore: Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2003

 

Scianna 2007

Ferdinando Scianna, Il film muto di Scheuermeier, in Lombardia dei contadini  2007, pp. 45-47

 

Šebesta 1980

Giuseppe Šebesta, Fotografia e disegno nella ricerca etnografica, in Antropologia visiva 1980, pp. 37-44

 

Sella  2006

Paesaggi verticali. La fotografia di Vittorio Sella 1879-1943, catalogo della mostra (Torino, 2006), a cura di Lodovico Sella.  Torino: Fondazione Torino Musei – GAM,  2006

 

Sella, Vallino 1890

Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, s.d. [1890]; (reprint, Ivrea: Priuli & Verlucca, 1983)

 

Sguardo e memoria  1988

Sguardo e memoria: Alfonso Lombardi Satriani e la fotografia signorile nella Calabria del primo Novecento, catalogo della mostra (Roma, 1988-1989), a cura di Francesco Faeta,  Marina Miraglia.  Milano – Roma:  Arnoldo Mondadori – De Luca Edizioni d’Arte, 1988

 

Signorini 2007

Roberto Signorini, Alle origini del fotografico. Lettura di  The Pencil of nature di William Henry Fox Talbot.  Bologna: CLUEB, 2007

 

Silvestrini 1981

Elisabetta Silvestrini, Cultura materiale tra linguistica ed etnografia, in Scheuermeier 1981, pp. 16-23

 

Silvestrini 1997

Elisabetta Silvestrini, La fotografia di argomento demologico in area svizzera , in Il Trentino dei contadini 1997, pp. 42-48

 

Silvestrini 2001

Elisabetta Silvestrini, Paul Scheuermeier: Itinerario fotografico nella Lombardia orientale, in La Lombardia dei contadini 2001,  pp. 23-26

 

Sinigaglia 2003

Leone  Sinigaglia, La raccolta inedita di 104 canzoni popolari piemontesi con accompagnamento per pianoforte, revisione a cura di Andrea  Lanza.  Torino: Giancarlo Zedde, 2003

 

Tarchetti  1990

Andrea Tarchetti notaio. Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna e Mimmo Vetrò.  Vercelli:  Comune di Vercelli – Assessorato alla Cultura, 1990

 

Il Trentino dei contadini 1997

Paul Scheuermeier:  Il Trentino dei contadini : 1921-1931, a cura di Giovanni Kezich,  Carla Gentili, Antonella Mott. San Michele all’Adige: Museo degli usi e costumi della gente trentina, 1997

 

 

Andrea Tarchetti, fotografo dilettante (1990)

 in Andrea Tarchetti notaio: Fotografie 1904 – 1912, catalogo della mostra (Vercelli, Auditorium di Santa Chiara, gennaio-febbraio 1990), a cura di P. Cavanna, Mimmo  Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli – Assessorato alla Cultura, 1990, pp.   19-45

 

Fotografi a Vercelli

Il vercellese “Vessillo della libertà” nel numero del 27 settembre 1860 cita per la pri­ma volta lo studio fotografico di Pietro Mazzocca, senza indicarne la localizzazione, mentre pochi anni dopo, nel 1863, lo stesso periodico riporta la notizia che il fotografo “ha aperto or ora un elegante e comodissimo laboratorio sull’ameno Viale dei Tigli”.[1] Sono queste le prime notizie relative alla presenza di uno studio fotografico in città, né pare che vi fossero presenze precedenti ora dimenticate se lo stesso “Vessillo”, nel ricordare l’apertura del nuovo studio, sottolinea come “non si senta più il bisogno di ricorrere al di fuori per avere ritratte le nostre sembianze o quelle delle persone che ci sono care”.

Mancano per Vercelli – almeno sino a questo momento ed in attesa che venga portata a termine l’indagine sui Fondi Fotografici Locali – indicazioni relative ai primi anni di diffusione della tecnica fotografica, in particolare della dagherrotipia, quali invece risultano disponibili ad esempio per Biella, dove già dai primi anni ’40 sono operosi alcuni dagherrotipisti, per ora anonimi, mentre nel decennio successivo si registra la presenza di autori quali Fortin, forse un fotografo itinerante di origine francese, Bernardi e infine Adolfo, attivo anche a Torino prima di trasferirsi a Roma nel 1848.[2] La ritrattistica risulta essere l’attività prevalente dei primi operatori, sia a Biella sia ­più tardi a Vercelli, e solo dai primi anni ’60 si registra la presenza di fotografi attivi anche nel campo della documentazione d’arte e di architettura: se a Biella emerge la figura di Vittorio Besso, che apre il proprio studio nel 1859, a Vercelli è Giuseppe Co­sta, titolare di uno “Studio di Pittura e Fotografia” aperto forse poco oltre il 1862, ad occuparsi per primo di documentazione del patrimonio artistico, alternando l’attività di fotografo a quella di titolare della cattedra di Elementi presso l’Istituto di Belle Arti, a cui si devono aggiungere alcune collaborazioni con Edoardo Arborio Mella quali, in particolare, la realizzazione delle parti a figura durante i restauri della chiesa di San Francesco nel 1868.[3]

Allo stesso Costa si deve anche la prima realizzazione di una campagna fotografica espressamente dedicata alla documentazione del patrimonio artistico, che porta alla realizzazione di un album Ricordo dell’inaugurazione della Cappella di S. Eusebio, realizzato nel 1882, recentemente ritrovato nei fondi della Biblioteca Civica di Vercel­li, che documenta il rifacimento dell’apparato decorativo della cappella del Duomo ad opera dei pittori Francesco Grandi e Carlo Costa, fratello del fotografo.

Alla documentazione della città si dedica invece Federico Castellani, titolare di un avviato studio ad Alessandria in collaborazione col padre Luigi, operoso anche a Vercelli a partire dai primi anni ’70, il quale realizza nel 1873 un Album delle principali ve­dute edifizi e monumenti della città di Vercelli che non comprende però alcuna docu­mentazione del patrimonio pittorico, come sottolinea un articolo del “Vessillo d’Ita­lia” del giugno dello stesso anno in cui l’articolista, rivolgendosi a Castellani, ricorda come “Le opere di Gaudenzio e quelle di Lanino sparse nella nostra città invitano al­tresì la vostra camera oscura: invocano anche quella del vostro valente collega e pittore Giuseppe Costa e voi provvedete ambedue ad appagare il desiderio.”[4] Il tono dell’ articolo lascia supporre una campagna di documentazione ormai in atto e parzialmente nota ma si deve rilevare come a tutt’ oggi non ne sia stata riscontrata traccia. Solo nel 1886 il fotografo Pietro Boeri (già titolare di uno” Studio di Fotografia e Pittu­ra”) realizza, con la firma dello studio Boeri-Valenzani, un album dedicato agli “Af­freschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli”, realizzato ve­rosimilmente sulla scia delle celebrazioni del IV centenario della nascita dell’artista, che risulta localmente un esempio insuperato di documentazione e lettura fotografica di un ciclo pittorico.

Negli anni ’80 risultano quindi presenti a Vercelli gli studi di Giuseppe Costa, di Federico Castellani e la “Fotografia Nazionale” di Boeri-Valenzani; probabilmente chiuso è ormai lo studio di C. Fontana, mentre per ora non è possibile sapere se fossero ancora in attività l’antico studio di Pietro Mazzocca e quello di Giuseppe Ferrero dei quali per altro non si conosce la produzione. Proprio nel 1880, proveniente da Alessandria, giunge a Vercelli Pietro Masoero impiegato dapprima come apprendista e quindi come direttore dello studio Castellani, per cui lavorerà sino al 1892, anno in cui apre il pro­prio studio nella casa Tricerri. La figura di questo fotografo risulta ormai sufficiente­mente delineata[5] perché qui se ne debba ulteriormente definire il ruolo; resta da sot­tolineare però come al suo impegno pubblico in campo fotografico quale segretario del primo Congresso Fotografico Italiano (Torino, 1898) e poi membro dei Comitati orga­nizzatori dei due successivi congressi di Firenze (1899) e Roma (1911) si debba una rinnovata attenzione in sede locale per le problematiche connesse alla fotografia, che si traduce immediatamente in una notevole diffusione della pratica dilettantistica.

 

Il dilettante fotografo

Riprendendo in parte il titolo di un volume edito a Torino nel 1890, autore il marchese Dionigi Arborio di Gattinara, Masoero pubblica nel 1901 sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana” il Decalogo del dilettante fotografo[6], tema a cui dedica anche la conferenza dal titolo Arte e beneficenza, tenuta al Teatro Civico di Vercelli il 26 aprile 1902, per la quale Ambrogio Alciati disegna il biglietto d’ingres­so, pubblicata l’anno successivo a Firenze da Salvatore Landi, il tipografo del “Bullet­tino”[7].

La conferenza, che significativamente cade nel periodo di apertura della Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica annessa alla Prima Esposizione di Arte Decorati­va e Moderna di Torino, precede la proiezione di centossessanta diapositive realizzate da numerosi dilettanti vercellesi, di cui il giornale “La Sesia” fornisce un elenco par­ziale: Virginio Locarni, Vittorio Petterino, Nerina Masoero (tutti presenti anche all’E­sposizione torinese), il marchese Arborio di Gattinara, Vincenzo Canetti, Secondo Gambarova, Giuseppe Tavallini, Giulio Cesare Faccio, Andrea Tarchetti ed altri. Le immagini che costituiscono la proiezione, non reperite, hanno titoli quali “ultime luci”, “tramonto”, “nubi vaganti”, “effetto di neve”, “pecorelle” e simili, propri della voga allora imperante della fotografia pittorica o artistica, “quella che sola me­rita il nome di “Arte”[8], fenomeno culturale multiforme e contraddittorio, rifiutato in blocco e quasi rimosso dalla critica e dalla storiografia. fotografica sino ad anni molto recenti[9], che ha invece costituito, seppure confusamente, la prima occasione, il primo momento di riflessione sullo specifico fotografico, sintetizzabile appunto nella questio­ne “se la fotografia sia un’arte o non sia”, secondo l’espressione usata da Enrico Tho­vez in uno degli articoli di commento alla Esposizione di Torino del 1898, in cui per la prima volta in Italia la fotografia artistica era ospitata in un’apposita criticatissima sezione.[10]

Al problema posto da Thovez, corredato da un’analisi molto attenta delle caratteristiche dell’immagine fotografica che gli consente di affermare che “in realtà la fotografia è tutt’altro che una fedele immagine del vero” e, in quanto tale, può fornire “non una riproduzione, ma una vera interpretazione, per quanto involontaria, della realtà” possiamo accostare le opinioni espresse nello stesso anno da Masoero[11], verosimilmente avendo in mente le stesse immagini che hanno stimolato le riflessioni di Thovez. Dopo aver riassunto sinteticamente i temi più consueti del dibattito, già a questa data ampiamente discussi e ripetuti, stancamente ripresi poi da numerosissimi autori per tutto il periodo precedente il primo conflitto mondiale, Masoero afferma risolutamente: “per parte mia la questione se la fotografia è un’arte o no, mi è sempre parsa di nessun valore [poiché] se la fotografia è suscettibile di afferrare e rendere gli aspetti della natu­ra con potenza e verità allorquando è con abilità maneggiata, non è per avere una natu­ra artistica in sé, ma perché risiede in chi di lei si serve; tanto è vero che per pretendere a delle forme artistiche è obbligata ad assumere delle apparenze che non sono sue . Essa è un’arte che deve evitare un pericolo, essa che è la manifestazione più pura del vero, di cadere nel manierato. E manierati, checchè si dica, sono tutti questi nuovi prodotti artistici, perché abbagliati dal mezzo, dalla forma dell’ opera, perdono di mira la parte principale del loro compito: il vero … L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio; deve essere fotografia e non incisione o pastello o altro”.

Il rifiuto delle tecniche di manipolazione in stampa non potrebbe essere più netto, ma l’opinione di Masoero è in questi anni sostanzialmente isolata, povera di riscontri nella pratica fotografica corrente; ormai la Naturalistic Photography di Emerson si è trasfor­mata per i più in Fotografia Artistica[12] in cui come “in ogni opera d’arte, se tale vuo­le chiamarsi, è necessario che il carattere della mano dell’artefice si manifesti chiaro ed evidente … perché l’essere soggettiva è in aperto contrapposto coll’obbiettività in­trinseca generale della fotografia; … la macchina fotografica, se riproduce fedelmente le immagini che le sono dinanzi e spinge la sua esattezza scrupolosa nella ricerca di particolari che all’occhio sfuggono, non può riprodurre sempre quel sentimento pro­fondo che molte volte spira in un soggetto e che lo fa amare da chi lo riproduce … Ma quando l’immagine riprodotta riesce ad acquistare ed a trasfondere in chi la vede, quel sentimento che la rese cara all’operatore, allora realmente il fotografo può dire d’aver fatta arte colla fotografia … Se a questa riproduzione l’autore aggiunge la sapienza tec­nica del metodo di stampa, da accrescerne l’effetto voluto, sia usando procedimenti co­me la gomma, il carbone o la fotocollografia, oppure interponendo tele o veli fra la negativa e la carta o la lastra da stampare, allora egli potrà ottenere dei risultati che per grazia o sapore nulla avranno da invidiare a delle vere e proprie opere d’arte.”[13] La lunga citazione, che racchiude e riassume il nuovo credo estetico, porta la firma autorevole di Arturo Alinari, nipote del fondatore della più nota dinastia italiana di fo­tografi, e mostra chiaramente quale divario esistesse tra la pratica fotografica profes­sionale e l’attività dei dilettanti, i veri protagonisti di questa stagione del gusto fotogra­fico. “La fotografia artistica, s’intende, non può fare appello a un commerciante … dunque è ai dilettanti che essa si rivolge con tutte le sue risorse, con tutte le sue incogni­te, con tutte le sue promesse.”[14]

Con essa compare nella fotografia italiana, in modo massiccio, il motivo, la scena, l’immagine stereotipa mutuata dalla coeva produzione pittorica; se per tutto l’Ottocen­to è proprio nell’assenza del ‘motivo’ “la novità, anche se riduttiva e freddamente tecnica,della fotografia italiana, che non dipende dalla pittura, anzi se ne distingue net­tamente”[15], col nuovo secolo la situazione si ribalta e la ‘pittura’, intesa sinonimicamente come arte, diviene il modello indiscusso, il termine di paragone, la pratica di riferimento. In un confronto esplicito con essa si gioca la riflessione sull’ estetica fo­tografica, sebbene i commentatori più accorti neghino credito a quello che sarà poi de­finito “combattimento per un’immagine”. Mario Tamponi, in un articolo di data or­mai tarda (1909) pubblicato in “La Fotografia Artistica” che assume quasi il tono di una riflessione, di un riesame, afferma: “Noi non abbiamo voluto, come molti credo­no, rivaleggiare colla pittura e batterla, né abbiamo voluto imitarla sotto altro punto di vista che sotto quello del criterio artistico di chi lavora alla composizione del qua­dro … La fotografia artistica è dunque cosa ben diversa da ciò che si intende sotto il nome di fotografia; essa è quell’arte che mettendo a suo profitto alcune proprietà o pos­sibilità della fotografia, tende a fini artistici, cioè a dire, tende alla produzione di quadri o composizioni artistiche”[16].

Se il confronto è con la pittura e se questa trova nella manualità il proprio strumento espressivo allora tutto quanto di meccanico risiede nel processo fotografico va posto in secondo piano, sminuito; la produzione di immagini “fotografiche” viene sottopo­sta ad una dissociazione schizoide, si instaura una cosciente dicotomia tra matrice ne­gativa, prodotto asettico di un processo ottico-chimico-meccanico, e stampa positiva, la sola a cui venga riconosciuto lo statuto di immagine, prodotto della creatività manua­le del fotografo artista. Ancora Tamponi sottolinea come “la negativa ben difficilmen­te è perfetta; vi è da togliere, da aggiungere, da oscurare, da illuminare, da tagliare, ma più di tutto da togliere … Una negativa racchiude quasi sempre pur troppo una nega­tiva artistica, cioè presenta troppi particolari; bisogna togliere le cose inutili, avvicina­re al centro l’oggetto a cui si vuole dare importanza, togliere troppi particolari che af­fievoliscono l’idea della suggestione artistica, e aggiungere qualche volta alcun’altra cosa che può essere necessaria. Tutto ciò, m’affretto a dirlo, quasi senza ricorrere al ritocco della negativa”[17].

Si riconoscono i segni, in queste riflessioni modeste, di un idealismo di maniera, che vive dei lontani riflessi di una concezione del fare artistico che affonda le proprie radici nella tradizione rinascimentale, incapace di analizzare compiutamente la novità costi­tuita dalla tecnica fotografica, modellato rigidamente sulle valutazioni espresse pochi anni prima dall’Estetica crociana, dove il filosofo riflette, marginalmente e senza offri­re contributi di rilievo, sull’eterna questione che aveva occupato pagine e pagine delle riviste fotografiche: “Persino la fotografia – afferma Croce – se ha alcunché di artisti­co, lo ha in quanto trasmette, almeno in parte, l’intuizione del fotografo, il suo punto di vista, l’atteggiamento e la situazione che egli si è industriato di cogliere. E, se non è del tutto arte, ciò accade appunto perché l’elemento naturale resta più o meno inelimi­nabile e insubordinato: e infatti, innanzi a quale fotografia, anche delle meglio riuscite, proviamo soddisfazione piena? a quale un artista non farebbe una o molte variazioni e ritocchi, non toglierebbe o aggiungerebbe? “[18]

Andrea Tarchetti

Poco sappiamo sino ad ora della sua vita: nasce a Stroppiana il 10 febbraio del 1854 da Giuseppe e Caterina Grignolio; la famiglia si trasferisce però ben presto a Vercelli, certo prima del 1864, anno in cui nasce la secondogenita Teodolinda, a cui seguiranno Luigi, Margherita e Giovanni. Il primogenito Andrea, seguendo le orme paterne ab­braccia la carriera notarile per entrare quindi in magistratura, divenendo Procuratore Capo al Tribunale Civile di Vercelli; “la sua voluta modestia che sempre lo tenne lon­tano dalla vita pubblica” come recita il necrologio pubblicato su “La Sesia” del 28 dicembre 1923, quattro giorni dopo la sua morte, impedisce di seguire più a lungo le tracce della sua vicenda biografica e di delineare meglio la sua figura, certo nota in città se le esequie celebrate il giorno di Santo Stefano risultano una “imponente mani­festazione funebre” a cui partecipa col proprio gonfalone anche la Congregazione di Carità, mentre l’orazione viene letta dall’avvocato Francesco Ferraris.

Ancora “La Sesia” ricorda che egli “fu anche animo di artista e come dilettante fotografo si ricordano di lui dei lavori, paesaggi, quadretti di genere, illustrazioni di avve­nimenti, documentazioni grafiche di antichi edifici scomparsi, che erano delle piccole opere d’arte”. La descrizione, per quanto sintetica, non si rivela un compito d’occasio­ne ed appare oggi precisa e circostanziata, segno di una buona diffusione almeno locale delle immagini del notaio Tarchetti, fotografo dilettante. Nulla risulta invece a proposi­to delle circostanze che hanno portato al deposito della maggior parte della sua produ­zione fotografica nei fondi del Museo Borgogna, sebbene si possa supporre che essa derivi da una precisa sua volontà, come dimostrerebbe la presenza sia delle stampe de­finitive sia dei negativi e di alcuni clichè tipografici da questi ricavati, mentre l’altro consistente fondo locale di immagini di Tarchetti, conservato alla Biblioteca Agnesia­na, proviene – come ricorda Mimmo Vetrò nel saggio in catalogo – da una donazione di Ernesto Gorini che le aveva acquistate dal fratello di Tarchetti, Giovanni, agli inizi degli anni ’60, ed è costituito da sole stampe fotografiche.

La sua attività di fotografo, almeno per quanto è possibile ricostruire sulla base dei ma­teriali conservati presso il Museo Borgogna, inizia negli ultimi anni del XIX secolo al­ternando immagini di paesaggio (Il lago di Viverone, la Valtournanche) ad occasioni maggiormente legate alla cronaca degli avvenimenti cittadini, ma certamente i temi che maggiormente lo affascinano, a cui dedicherà sin dal principio la sua attenzione, sono quelli propri della fotografia artistica, come risulta dalle due immagini comprese nella proiezione organizzata nel 1902 (verosimilmente la sua prima presenza pubblica) Ef­fetto di neve e Sant’ Andrea,  influenzata forse quest’ultima dalla campagna di rile­vamento del principale monumento vercellese che Pietro Masoero conduceva in quegli anni e che avrebbe portato nel 1907 all’edizione del volume dedicato alla basilica, rea­lizzato in collaborazione con Romualdo Pasté e Federico Arborio Mella.

Proprio a Masoero, che nel 1900 era stato delegato al Congresso Fotografico di Parigi con Rodolfo Namias, fondatore della rivista nel 1894, si deve forse la presenza delle opere di Tarchetti sulle pagine de “Il Progresso Fotografico / Rivista mensile di foto­grafia scientifica e pratica” che ancora oggi si pubblica a Milano sotto la direzione del figlio del fondatore, Gian Rodolfo Namias[19], presenza che permane costante per cir­ca un decennio e porta complessivamente alla pubblicazione di circa 100 immagini. Nel numero di dicembre dell’anno 1904 sono citate per la prima volta fotografie di Tar­chetti, non reperite, che saranno comprese nel supplemento” Arte Fotografica” per il 1905: Sulle rive del Sesia e Arriva il babbo stampate in fotocalcografia mentre Una partita interessante, fotografia di Tarchetti dipinta da Valeria Josz di Milano, viene stampata in tricromia, come accade anche l’anno successivo per una Marina. La presenza di proprie immagini sul prestigioso supplemento costituisce certo un rico­noscimento importante per il dilettante vercellese, di cui si riconosce che “i lavori … sono come sempre ispirati da un gran buon gusto e conformi alle esigenze della tec­nica. L’avv. Tarchetti è un gran fautore dell’istantanea colla quale cerca di cogliere le più interessanti scene della vita cittadina e campestre. Ma anche a lui non riesce tal­volta d’evitare che gli attori della scena assumano pose che guastano l’effetto. L’avv. Tarchetti ci ha inviato i suoi lavori fuori concorso avendo già avuto la prima onorifi­cenza lo scorso anno nel nostro concorso.”[20] Questo commento, datato 1906, forni­sce una prima messa a punto dell’attività di Tarchetti: i temi più frequenti sono costituiti dalle “scene di vita” , cioè da immagini che ricorrendo alle possibilità concesse dalle nuove emulsioni rapide al gelatino-bromuro d’argento, pretendono di essere “istanta­nee” pur non riuscendo ancora a nascondere, per imperizia, il meticoloso lavoro di definizione della posa da far assumere agli “attori”. Ciononostante le fotografie di Tarchetti risultano vincitrici sia del concorso indetto dalla rivista sia di quello indetto dalla Ditta Fumagalli di Milano, editrice di cartoline in parte utilizzate anche da “Pro­gresso” quale servizio per i propri abbonati.[21]

L’organizzazione artificiosa degli attori in scena non risulta comunque così evidente come potrebbe apparire dalle osservazioni sopra riportate o meglio non caratterizza univocamente tutte le immagini: se alcune di quelle riprodotte in cartolina, oggi com­prese nella collezione Peraldo, non sfuggono a tale artificiosità, denunciata persino in titoli quali Partiamo!, Primi servizi o Nonna solerte, le fotografie pubblicate sulle pagine della rivista, certamente selezionate da un occhio esercitato e attento, co­stituiscono ormai delle prove soddisfacenti in cui l’indagine del mondo contadino sem­bra staccarsi dalla tradizionale rappresentazione oleografica per mettere a frutto almeno in parte le possibilità descrittive offerte dallo strumento fotografico.

La fama acquisita sulle pagine della rivista milanese si riflette anche nell’ ambiente cit­tadino, come mostra il commento de “La Sesia”[22] alla sezione fotografica della Esposizione organizzata dall’ Associazione “Pro Emigratis” che si tiene nei locali del nuovo asilo Umberto I dal 19 al 29 maggio del 1906: tra i pochissimi fotografi presenti (“Non molto copiosa ma interessantissima la mostra fotografica”) al solo Tarchetti, autore di “una serie di istantanee e vedute panoramiche”, viene riconosciuta la “bella fama di dilettante valente”, di lì a poco impegnato – crediamo – in una revisione pro­fonda del proprio lavoro e soprattutto del proprio atteggiamento nei confronti degli “attori” con cui compone le “scene di vita”, protagonisti in quegli stessi giorni delle lotte per la conquista delle otto ore che dilagano in tutto il vercellese. Il 30 di maggio infatti “un altro gruppo (di mondine) con la bandiera bianca e rossa, ripeté la dimostrazione e si portò alla Camera del Lavoro … quindi al municipio e alla sottoprefettura”[23] ed il giorno successivo la cavalleria carica i dimostranti sulla strada per Olcenengo. Tarchetti dedica a questi avvenimenti una breve sequenza di tre imma­gini (Sciopero), mai pubblicate su alcuna rivista fotografica, in cui lo sguardo affa­scinato con cui riprende il corteo delle donne molto deve alla struttura iconografica de Il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, esposto per la prima volta alla Quadriennale di Torino del 1902.

Non sappiamo quanto profondamente, nella realtà, l’inattesa tra­sformazione degli umili contadini in gruppo sociale con una precisa coscienza di classe, abbia mutato la percezione del mondo rurale in un personaggio quale Tarchetti, ma è innegabile il riconoscimento di una trasformazione nel modo di scegliere i temi e comporre le immagini che caratterizza gli anni successivi al 1906, sebbene il quadro di riferimento complessivo continui ad essere costituito da una produzione tendenzial­mente ‘artistica’ che trova le proprie radici tematiche ed espressive nella tradizione pittorica del secondo Ottocento italiano. “Questo valentissimo dilettante – recita una nota critica del 1907 – ci ha ormai abituato ai paesaggi animati trattati da maestro e che strappano esclamazioni ammirative anche ai pittori. Come sempre anche questa volta, si distingue, per la rara abilità con cui sa cogliere i motivi della vita nelle città, nelle strade, nei campi, ottenendo sempre dei veri quadri, dimostrando quanto sia vi­vissimo in lui il desiderio di perfezionare il suo lavoro, tenendo conto delle nuove con­quiste senza giungere alle esagerazioni di certa arte fotografica che oggi per alcuni co­stituisce il non plus ultra, ma che si potrebbe chiamare incomprensibile per chi non è arrivato nell’arte a simile pretesa evoluzione.[24]

La polemica su “certa arte fotografica” che ricorre quasi esclusivamente alla stampa ai pigmenti, risulta essere decisamente pretestuosa sulle pagine di una pubblicazione quale “Il Progresso Fotografico” che propugna, per bocca del suo direttore Namias, il ricorso ai processi alla gomma bicromatata coi quali “si fa strada l’intervento del sentimento e gusto artistico dell’operatore nella produzione della copia positiva”[25] e sembra essere destinata ad aprire la polemica con “La Fotografia Artistica”, la nuova prestigiosa rivista internazionale pubblicata a Torino a partire dal 1904 da Annibale Cominetti, vercellese di origine[26], unanimemente considerata la pubbli­cazione culturalmente più avanzata del panorama fotografico italiano di quegli anni; la sola in grado di poter essere confrontata con la mitica “Camera Work” fondata da Stieglitz a New York l’anno precedente, a cui del resto la rivista torinese più o meno esplicitamente si rifaceva, propugnando la causa comune della “fotografia come stru­mento di espressione individuale”, di cui presenta almeno nei primissimi anni, un pa­norama ampio e variegato di autori e correnti anche profondamente diverse tra loro, che vanno dalle immagini di derivazione simbolista di Puyo, Demachy o Marchi per l’Italia, ai “quadri religiosi” di Riccardo Bettini, di cui il primo fascicolo del 1905 offre un allucinante La Trasfigurazione, alle stampe alla gomma di Luigi Cavadini, già presente ne “Il Progresso Fotografico” , che diviene uno dei più assidui collabora­tori della rivista sia come titolare della calcografia veronese da cui escono alcune delle tavole fuori testo che corredano la pubblicazione sia quale autore di immagini, special­mente vedute e paesaggi, marcate a volte da un sentimentalismo esasperato.[27]  Corredano questo variegato apparato fotografico, arricchito da riproduzioni delle ope­re esposte nelle più importanti mostre d’arte quali la Quadriennale di Torino e la Bien­nale di Venezia, articoli di diverso impegno e levatura, alcuni per così dire di carattere eminentemente teorico, di estetica, altri di taglio manualistico, dedicati all’analisi delle basi della fotografia artistica, nel tentativo di mettere a punto una tecnica dell’estetica in grado di per sé di garantire il raggiungimento di elevati traguardi artistici o forse ritenendo che il pubblico di dilettanti a cui essi sono rivolti sia sostanzialmente digiuno anche delle più elementari nozioni di tecnica fotografica, negando così implicitamente il carattere elitario che la rivista pretende di avere. Diversamente da quanto accade sulle pagine del periodico milanese le “scene di vita” pubblicate ne “La Fotografia Artistica” risultano molto più evidentemente costruite, con scelta accurata della posa, controllo minuzioso delle luci in ripresa e virtuosistico uso delle più varie tecniche di stampa, manifestazioni queste di un concreto ed evidente intervento dell’ autore che proprio nella sapienza delle manipolazioni mostra le proprie potenzialità espressive di artista, in grado di “modificare l’immagine secondo il pro­prio sentimento”. Poiché in realtà non sono certo i temi ed i soggetti prediletti a distin­guere gli autori presenti nelle pagine delle due riviste, che anzi – soprattutto a partire dal 1907 – diventano relativamente intercambiabili sino ad operare addirittura un ribal­tamento negli anni dopo il 1910, quando “Il Progresso Fotografico” apre le proprie pagine alle stampe alla gomma ed ai bromoli, mentre “La Fotografia Artistica”, che cessa le pubblicazioni nel 1916, abbandona gradualmente il filone delle immagini ‘simboliste’ per presentare una quieta sequenza di paesaggi, ritratti, animali e scene di genere.

Ciò che continua invece a differenziare le due testate è l’atteggiamento di fondo nei confronti della lettura dell’immagine; così nello stesso anno 1909 una immagine di Tarchetti compare quale Quiete campestre  sulle pagine di “Progresso” per assume­re ne “La Fotografia Artistica” il titolo più rarefatto e astratto di Nuages et rizières e dell’autore vercellese, indicato come uno dei più apprezzati ed assidui collaboratori della rivista sebbene la sua presenza sia sporadica e limitata a poche annate, si pubbli­cano significativamente quasi solo immagini di paesaggio, rifiutando di fatto la vasta produzione delle “Scene di vita e di lavoro” che tanta ospitalità trova sulle pagine della rivista milanese e nella produzione di cartoline.

Sono questi gli anni in cui più assidua è la presenza di Tarchetti: dal1908 al 1912 ben settantotto sue fotografie sono pubblicate ne “Il Progresso Fotografico” mentre dal 1909 al 1912 ne compaiono dodici in “La Fotografia Artistica”; tra queste andranno collocate anche le sette fotografie presentate alla Mostra d’arte della campagna irrigua che si tiene a Vercelli tra l’ottobre ed il novembre del 1912 in occasione della Esposi­zione Internazionale di Risicoltura e di Irrigazione[28] a cui partecipano artisti quali Follini, Reycend, Allason, Morbelli e Mazzucchelli oltre ad una nutrita schiera di esponenti locali quali Alberto Ferrero, Francesco Bosso, Francesco Porzio, Attilio Gartmann ed altri.

L’iniziativa dell’Esposizione, fortemente criticata dal foglio socialista “La Risaia”, impegnato negli stessi giorni a sostenere le nuove lotte dei lavoratori agricoli per la conquista delle otto ore[29], è invece seguita in ogni dettaglio dalle pagine de “La Se­sia” che commentando la sezione artistica ripropone tra le righe il conflitto tra produ­zione pittorica e immagine fotografica; dopo aver rilevato che “non tutte le opere che fanno parte della mostra … rispondono alle esigenze del programma compilato dai pro­motori”, parlando di uno degli artisti presenti, il vercellese Ferrero, rileva come egli certo non sia uno “di quei pittori, dei quali si sospetta qualche confidenza eccessiva con la prospettiva del tutto meccanica e artificiale della fotografia istantanea: prospetti­va non rispondente cioè alla visione fisiologica dell’occhio umano, e alle leggi della geometria descrittiva, di cui la prospettiva normale è appunto un ramo”. Al di là della confusione tra psicologia della percezione e strutture rappresentative fortemente codifi­cate, si ritrova in queste righe una eco dei dettami imposti dalla pittura impressionista con il lavoro en plein air ma anche, e forse più prossimo, un ricordo delle riflessioni di P. H. Emerson che nel suo testo del 1889 si era soffermato a riflettere proprio sul contrasto, sulla contraddizione si potrebbe dire, tra fisiologia dello sguardo e visione fotografica, rilevando lo scarto che esiste tra la precisione indifferenziata con cui la lastra registra l’immagine e la selezione dei piani e delle relazioni prospettiche operata fisiologicamente dal sistema visivo, per giungere infine a proporre un uso attento di alcuni espedienti quali la messa a fuoco selettiva (che si trasformerà nella pratica corren­te dei decenni successivi in un uso sfrenato del flou) proprio per simulare un livello “naturalistico” di percezione e costruzione dell’immagine, rifiutando quindi le specifi­cità della visione fotografica, considerate allora pressoché unanimemente prive di po­tenzialità artistiche.

Sono queste le opinioni condivise anche dall’anonimo recensore de “La Sesia” che chiude “la rivista degli artisti vercellesi con un cenno alla magnifica raccolta esposta dall’ avv. Andrea Tarchetti di fotografie relative alla coltura, ai costumi agli aspetti poetici della campagna irrigua; a quella meno numerosa ma altrettanto degna di elogio, di fotografie del calore [è da intendersi ovviamente colore, cioè autocromie] di scene della campagna vercellese, mandate alla mostra dal conte ingegnere Adriano Tournon, figlio dell’illustre generale e senatore. Tanto la raccolta di Tarchetti quanto quella del Tournon, hanno un alto significato tecnico e artistico, poiché indicano fino a che alto grado di interpretazione del vero possa giungere la fotografia, quando la si utilizzi con piena scienza dei suoi mezzi materiali e con elevati intenti d’arte.”[30]

La presenza di questi due autori, a cui si aggiunge nella mostra il solo G. Bertucci di cui nulla ci è noto, risulta particolarmente significativa nell’ambito di questa manifesta­zione, e non solo in termini di storia della fotografia locale: sia l’ingegnere Tournon, che sarà presidente della Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia, sia Tarchetti, il cui fratello Giovanni è agente dei Savoia-Aosta nella tenuta di Vettigné presso Santhià, so­no legati a filo doppio alla grande proprietà terriera che esprime in quegli anni, partico­larmente a Vercelli, tutti gli esponenti di maggior rilievo della classe dirigente, econo­mica e politica; fortemente connotata da una precisa volontà di difesa dei valori rurali intesi quale fondamento etico ed economico, e quindi culturale, dei rapporti sociali, in cui la città, salvata dai pericoli dell’industrializzazione, è intesa ancora quale appen­dice gestionale di un territorio agricolo, in un rapporto sostanzialmente non dissimile da quello che connette il nucleo rurale della grande cascina a corte al proprio tenimen­to, alla terra; dove alle nascenti rivendicazioni del socialismo si contrappone quello che Castronovo ha definito “patriarcato georgico”, intriso di paternalismo sociale, che si manifesta nelle associazioni benefiche e di carità quali la già ricordata “Pro Emigra­tis” o la Congregazione di Carità ma anche, con declinazioni diverse, nelle associazio­ni di mutuo soccorso. Ecco allora che le due presenze sono in sintonia col carattere celebrativo dell’Esposizione, che cade in un momento di forte conflitto sociale; le im­magini dei due autori si prestano ancora al processo, ormai sempre più anacronistico, di mitizzazione del mondo rurale, alla celebrazione di un orizzonte sociale bloccato che rifiuta ogni industrializzazione che non sia subordinata allo sviluppo dell’agricoltura e vive le nascenti manifestazioni dei conflitti di classe in modo quasi prepolitico, come rottura di un equilibrio che è culturale ancor prima che economico.

Scene di vita e di lavoro

La produzione fotografica di Tarchetti è dedicata a due grandi temi, il paesaggio e le scene di vita e di lavoro, suddivise queste ultime, come vedremo, in ulteriori, successi­ve categorie che corrispondono all’ordinamento dato dallo stesso autore alle proprie stampe. La cronologia ricostruita a partire dalle immagini pubblicate sulle diverse riviste mo­stra come tutti questi temi siano da subito compresenti e permangano per tutto l’arco della sua produzione, variando però anche sensibilmente nel trattamento, ciò che si tra­duce in scelte diverse di composizione dell’immagine e dell’inquadratura e nella scelta di particolari condizioni di luce, senza ricorrere mai a manipolazioni né a tecniche par­ticolari quali le stampe ai pigmenti, fedele in questo alla lezione sopra ricordata di Ma­soero; unica concessione esplicita al modello pittorico è costituita, in alcuni casi, dall’impaginazione della stampa definitiva, sovente tagliata per essere riportata a propor­zioni tra i lati estranee ai moduli fotografici, prediligendo in particolare gli schemi for­temente orizzontali, ottenuti eliminando drasticamente ampie porzioni di cielo, utiliz­zati sia per scene urbane – quali i mercati in piazza Mazzini – sia per le immagini di greggi e mandrie in cui il richiamo alla produzione pittorica coeva assume le forme di una ripresa quasi letterale, del resto riscontrabile anche in esempi apparentemente meno diretti come accade in Lavori campestri (1907 c.), di cui si conosce una ripro­duzione non datata, da porre in confronto con opere quali Primavera, di Clemente Pugliese-Levi, del 1882, o Prateria presso Vercelli, dello stesso autore, presentata all’Esposizione d’Arte Vercellese Moderna del 1922.[31]

I richiami alla pittura piemontese del secondo Ottocento sono evidentemente molto for­ti e, nel caso degli epigoni, si può parlare tranquillamente di sorprendenti coincidenze in cui risulta difficile valutare a quale delle due parti assegnare il debito; ma certo i confronti si fanno coi maggiori e così “In certi effetti ricordava il Fontanesi” dice Masoero commentando le fotografie di Virginio Locarni presenti all’Esposizione di Torino del 1902, e l’artista costituisce certamente uno dei termini di riferimento ricor­renti insieme a Lorenzo Delleani, quest’ultimo presente numerose volte in giurie di concorsi ed esposizioni fotografiche, senza troppo sottilizzare sulle differenze o meglio ricorrendo di volta in volta al modello che più si presta all’occasione. Così in Tarchetti gli “Studi di piante” successivi al 1905, (nei precedenti si registra la presenza della figura umana quale misura del paesaggio secondo una consuetudine fotografica ancora fortemente ottocentesca), richiamano con evidenza le atmosfere del paesaggismo natu­ralistico velato di romanticismo, in parte mitigato qui da una perfezionistica ricerca del vero che lo porta ad utilizzare per questi soggetti solo lastre di grande formato (18/24) da cui trarre prevalentemente stampe per contatto, in grado di restituire al massimo li­vello la ricchezza di dettagli e di toni della scena.

Come accade anche in Francesco Negri e in numerosi altri autori contemporanei, scarse sono le vedute di ampio respiro, i paesaggi aperti della pianura; la ripresa si dedica al dettaglio (“Boschi e piante” e “Piante e acqua”), il centro di interesse è costituito dalla configurazione ambientale complessiva, priva di singoli elementi emergenti, pre­feribilmente illuminata da luci diffuse, date da cieli coperti. La prevalenza del dato at­mosferico, sottolineato da contrasti di luce, cieli nuvolosi e tramonti si ritrova invece in alcune immagini del 1909-1911: le marine (Poesia del mare, Maestosa tranquil­lità), le vedute del Sesia (Pescatore, Dopo il temporale) e alcune immagini di montagna quali Il Mucrone e Il castello di Ussel, a cui forse possono essere accostate cronologicamente le vedute di Vercelli dal campanile del Duomo, non datate, che Tarchetti intitola significativamente “Cieli”. Ancora un forte interesse per il dato atmosferico si ritrova nella serie intitolata “Inverno” (1908-1912) in cui il centro di attenzione è costituito dal fenomeno nel suo svolgersi e non semplicemente dalle possi­bilità pittoriche che l’immagine della città coperta dalla coltre di neve può offrire. Qui il riferimento è prevalentemente fotografico e richiama in particolare le opere di Alfred Stieglitz, note in Italia per essere state presentate fin dal 1894 alla Esposizione Fotogra­fica di Milano e poi ancora, negli anni successivi, a Firenze (1898) e Torino (1902).[32] Il richiamo a Lorenzo Delleani ed al bozzettismo della scuola biellese è invece partico­larmente evidente in immagini quali La locomotiva, pubblicata in “La Fotografia Artistica” del 1912, e nelle serie dedicate agli animali, realizzate dopo il 1908 (Pa­scolo, Dopo il pascolo, Ritorno dal pascolo) in cui comunque si riscontrano rimandi precisi, in termini di struttura compositiva, anche alla già citata Prateria presso Vercelli di Pugliese-Levi. Queste immagini, che Tarchetti classifica come “Varie: vacche, pecore, ragazzi, casolari, polli”, comportano anche, in alcuni casi la presenza di figure e rientrano nella più vasta categoria delle “scene di vita e di lavo­ro”, titolazione quasi certamente non autografa, dovuta forse ai redattori di “Progres­so” come sembra indicare sia la presenza di titoli diversi per la stessa immagine a se­conda che sia pubblicata come illustrazione del periodico o edita come cartolina sia la ricorrenza dello stesso titolo a corredo di immagini di autori diversi, culturalmente an­che molto lontani da Tarchetti, quali Wilhelm von Gloeden.

All’interno di questa grande categoria tematica compaiono immagini di soggetto diverso (bambini, lavori agricoli, scene di strada) ma tutte legate alla documentazione del mondo rurale, sebbene di questo venga fornita un’immagine assolutamente parziale, privilegiando quali soggetti le occupazioni marginali come il taglio del bosco, la rac­colta di fascine, la spigolatura, il “ritorno dalla fonte”. Se si esclude un’immagine di mondine (Il lavoro nelle risaie del 1911) la risicoltura, il più importante ciclo pro­duttivo dell’agricoltura vercellese, base pressoché esclusiva dell’economia locale, non rientra tra i temi maggiormente frequentati da Tarchetti che privilegia invece soggetti legati alla coltura del grano (Falciatori, presente anche in cartolina, L’aratura ed altre) e questa scelta, se può trovare qualche fondamento nella biografia dell’autore, che riprende molte di queste immagini proprio nei pressi della tenuta di Vettigné di cui il fratello era agente, risulta essere soprattutto di tipo culturale, una scelta di non coinvolgimento, che consente di mantenere una distanza netta nei confronti del sogget­to, ciò che ne permette ancora, appunto, una lettura mitologica, finalizzata alla compo­sizione del quadro, della scena, sebbene alcune scelte espressive quali l’uso molto pre­ciso e calibrato dell’inquadratura, in cui la presenza umana risulta sempre privilegiata e dominante, inserita in un ambiente che la connota, e la tecnica dell’istantanea, definitivamente padroneggiata da Tarchetti dopo i primissimi anni, possano suggerire anche ipotesi meno univoche, un approccio fotografico al tema sempre in bilico tra bozzetti­smo e documentazione.[33]

Che tale fosse ormai il suo modo di operare lo dimostra la presenza di numerose varianti, corrispondenti a momenti successivi della stessa situazione, che risulta quindi documentata mediante una sequenza successiva di scatti, secondo un modo di operare allora proprio di pochi fotografi (si pensi, in un ambito diverso, a Primoli), che diverrà pratica corrente solo dopo l’introduzione della pellicola in rullo perforato, di piccolo formato. L’interesse per la sequenza in fase di ripresa (mai però riproposta in stampa) è evidente anche nelle due immagini di giochi di bimbi presentate in catalogo, mentre una variante dello stesso procedimento, finalizzata però alla ricerca di costanti compor­tamentali o tipologiche si rileva sia in altre immagini di giochi in cui il soggetto è sem­pre il “girotondo” (Giochi felici, Nell’ora del riposo) sia nella serie dedicata ai carri, costituita dalla documentazione esaustiva di tutte le varianti tipologiche locali di questo mezzo di trasporto.

Anche le scene di ambiente urbano hanno una loro cifra singolare, un poco passatista: se escludiamo la cronaca, che costituisce una produzione minore e d’occasione, Tar­chetti rivolge prevalentemente la propria attenzione a mestieri o modi di vita già allora in declino, e questa potrebbe essere letta come manifestazione di una sensibilità acuta se non fosse, più probabilmente, ancora una volta il sintomo di un rifiuto più o meno esplicito dell’industrializzazione. Certo anche qui la qualità delle immagini è general­mente notevole, la realtà viene indagata senza apparenti infingimenti e costruzioni arti­ficiose, ma l’occhio del fotografo opera distinzioni drastiche, e le assenze risultano si­gnificative; l’attenzione principale non è rivolta alla città che cambia, alla “città che sale”, ma a quella che resiste al cambiamento, che è ancora legata alla tradizione. Non immagini di manifatture e opifici, non di operai né di borghesi. Anche nelle scene urbane la città è vista solo in relazione alla campagna circostante: il ritorno dai campi, i venditori ambulanti, ma – soprattutto – i mercati, il momento dello scambio, uno dei nodi fondamentali del sistema di relazione tra centro e territorio, a cui Tarchetti dedica una splendida serie di immagini, mai pubblicate su rivista, alcune edite in cartolina. Altre cartoline ancora, tutte edite dalla ditta Larizzate di Vercelli, sono poi dedicate alla illustrazione dell’immagine della città, di cui si sottolineano prevalentemente le permanenze medievali, indagata sia negli aspetti monumentali (Sant’Andrea, il Brolet­to, le torri) sia negli angoli minori (il passaggio di Rialto, la cosiddetta Casa degli Ele­fanti), in cui rispunta in parte il tema del pittoresco (“Vercelli che scompare”). Sono, tutte, immagini anomale; lontane per impostazione e gusto dalla produzione consueta di questo autore, e solo l’inequivocabile indicazione sul verso ci convince ad attribuirle al notaio Tarchetti, dilettante fotografo, che qui fa sfoggio di una consumata abilità tec­nica nell’uso di macchine fotografiche decentrabili e basculabili, indispensabili ad otte­nere un perfetto controllo dei parallelismi, che sale ai primi piani delle case più prossi­me per riprendere le torri o la Piazza Cavour, costruendo immagini assolutamente indi­stinguibili dalla produzione corrente di soggetto simile realizzate in ogni parte d’Italia, applicando alla lettera i moduli canonici di impaginazione dell’immagine e di ripresa che erano stati messi a punto e di fatto codificati nella vastissima produzione dei grandi studi fotografici che si dedicavano alla documentazione, primi fra tutti gli Alinari. Per concludere la rassegna delle opere di Tarchetti o, meglio, per esaurire la serie dei temi da lui affrontati non rimane che parlare delle immagini che hanno per soggetto i bambini; serie vastissima, presente come una costante lungo tutto l’arco della sua pro­duzione a noi nota, che compare sia sulle pagine de “Il Progresso Fotografico” sia in numerosissime cartoline. Se escludiamo una delle prime fotografie realizzate, scatta­ta a Roma e pubblicata nel 1905, anomala rispetto alla produzione successiva e stretta­mente legata all’occasione[34], tutte queste immagini si servono del soggetto infantile per costruire piacevoli quadretti di genere, segnati da uno sguardo affettuoso, in cui il sentimento idilliaco non è mai sfiorato dal sospetto dell’ironia, corredati di opportuni titoli (Passatempi infantili, L’età felice, Senza pensieri, Ore d’ozio e simi­li) che non fanno che sottolineare retoricamente il contenuto dell’immagine, rafforzan­do l’idea di una visione pacificata, bucolica appunto, del mondo rurale, in cui la pover­tà delle condizioni materiali di vita -che pure emerge evidente- è riscattata nella visio­ne dell’autore da una condizione aurorale di innocente felicità. La stessa quiete dei la­vori campestri, dei buoi all’aratro, delle schiene ricurve dei falciatori sotto i grandi orizzonti padani, dei piccoli gesti calmi, consueti, della vita sulle aie dei cascinali in cui, ancora, ad accentuare l’intimismo della scena sono quasi sempre presenti i bambini.

Il migliore dei mondi possibili? Uno sforzo sovrumano per guardare e non vedere? Nulla può essere escluso, ma alcuni indizi lasciano affiorare una possibilità di lettura meno semplicistica, che consente di riconoscere, in un quadro complessivo fortemente segnato dalle tematiche della fotografia artistica, elementi diversi e in parte divergen­ti, in un equilibrio precario che oscilla tra l’aneddotica delle immagini di bimbi e la “riproduzione del vero” dei paesaggi, avendo al proprio centro la vastissima produ­zione delle “scene di vita e di lavoro”, cioè tutte quelle immagini che vanno a compor­re un affresco complesso del mondo rurale delle campagne vercellesi d’inizio secolo, in cui il documento si mescola con la scena di genere ed a volte emerge a fatica da essa ma non è mai definitivamente escluso, negato, e non solo per l’incapacità struttura­le dell’immagine fotografica di staccarsi dal reale.

Una conferma in tal senso ci viene dall’analisi del suo proprio modo di organizzare le copie fotografiche, modo che riflette immediatamente il percorso di analisi dei sog­getti e di selezione delle immagini da proporre alle riviste. Circa trenta sono le classi in cui Tarchetti suddivide i propri soggetti, rilevabili dalle scritte autografe che segna­no ciascuno dei raccoglitori (buste, cartelline, faldoni) in cui le stampe sono conserva­te; scompaiono qui i titoli dal sentimentalismo facile, e le “Scene di vita e di lavoro” ritornano ad essere indicate quali “Agricoltura”, “Fiere e mercati”, “Carri”, “Vac­che e pecore”, “Ragazzi”, “Dintorni di Vercelli”, “Sesia” ed altri. Ciascuna di que­ste classi, che corrisponde ad uno o più contenitori, certamente impoveriti rispetto alla loro consistenza iniziale, comprende numerose immagini, a volte decine, altre centi­naia, che sono risultato del lavoro condotto sul tema, ripetutamente indagato, appro­fondito mediante la registrazione di numerose varianti non semplicemente iconografi­che, cronologicamente anche distanti tra loro. Lo si vede nelle minute scene di vita ru­rale ma anche altre serie, apparentemente meno significative, quali le già ricordate im­magini di carri da traino animale, in cui la varietà di mezzi e situazioni documentate è tale da poter essere letta quale vera e propria indagine tipologica, compiutamente do­cumentaria. Non è possibile credere che questa cospicua produzione, queste ampie se­rie tematiche, fossero destinate solo a costituire un repertorio di prove fotografiche a cui attingere per la realizzazione della bella immagine finale, di una ‘fotografia arti­stica’, sebbene esista una obiettiva coincidenza di temi, di soggetti, che lo accomuna a molti rappresentanti di questo filone, di cui del resto Tarchetti è stato uno degli esponenti più noti, come dimostra il grandissimo numero di sue immagini pubblicate nel primo decennio del secolo, testimonianza di una consonanza di gusto ampiamente dif­fusa e consolidata.

Ma forse la contraddizione tra fotografia pittorica e documentaristica è solo apparente; una distorsione storiografica che presuppone una dicotomia allora non unanimemente condivisa. Poiché se è vero che per Namias “l’odierna esaltazione per la fotografia artistica ha purtroppo sviato molti dilettanti dalle raccolte fotografiche documentarie e nelle esposizioni tale genere di fotografia si fa sempre più raro con danno della cultu­ra”[35], per uno dei più lucidi esponenti della fotografia documentaria, promotore della costituzione di Archivi Fotografici Nazionali, il francese Alfred Liégard, ”l’art et le document peuvent, et même doivent, s’ entendre sur le terrain de la photographie … Le photographe artiste devra-t-il donc négliger le document? Pour ma part je ne crois pas. Il ne lui est nullement défendu de traiter artistiquement le document et il trouvera là au contraire une source importante de travaux capable d’exercer son talent, de le fortifier, de l’affiner… Nous pouvons du moins très souvent prendre l’épreuve documentaire de la manière à la présenter avec un véritable cachet artistique. Nous pouvons même, quoique cela soit plus délicat, y ajouter par des essais de reconstruction historique, ou bien encore en sachant y placer des personnages qui l’animeront sans rien enlever du coté utile du document. .. Il me semble qu’à notre époque, avec ce merveilleux instrument que nous avons sous  la main et qui s’ appelle l’ appareil photographique, c’est un devoir pour tous de ne pas laisser périr entièrement, sans même en conserver l’image puisque nous le pouvons, tout ce qui fait partie à un titre quelconque de l’histoire du pays où nous vivons.”[36] Certo le contraddizioni sono molte e la ventilata possibi­lità di ricorrere a “saggi di ricostruzione storica” o all’inserimento di personaggi (ve­rosimilmente in costume) – che porta alla mente un certo filone della cultura torinese che va dalla realizzazione del Borgo Medievale nel Parco del Valentino alle fotografie di Edoardo di Sambuy e poi di Guido Rey – può sembrare forse una concessione ecces­siva, un prezzo troppo alto da pagare alla possibilità di raccogliere, comunque, per quanto disturbate da impropri rumori di fondo, delle prove documentarie sotto forma di immagini, ma questo atteggiamento potrebbe rivelare anche una concezione molto avanzata del concetto di documento e l’appello finale, il valore anche civile della pro­posta, forse potrebbe essere stato sottoscritto da Tarchetti; l’impegno di conservare al­meno in immagine alcune testimonianze della storia locale (compito che in Masoero assume la forma di un progetto finalizzato), dimostrato indirettamente anche dalla deci­sione finale di donarle al Museo Borgogna, ci consente oggi di ricorrere ad esse quale fonte documentaria relativa alle condizioni materiali di vita delle popolazioni dell’agro vercellese di inizio secolo, e di riconoscere lo sguardo con cui la borghesia urbana le osservava.

Note

 

[1]  “Il Vessillo della Liberta”, Vercelli, 27 settembre 1860 e 30 aprile 1863. La data del 1863 è indicata anche in Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880.  Roma: Edizioni Quasar, 1978, p. 126.

 

[2] Per le notizie relative ai dagherrotipisti biellesi cfr. Becchetti 1978,  p. 55-56 ed anche Michele Falzone del Barbarò, Schede, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, vol. 2 , pp. 903- 942.

 

[3] Camilla Barelli, Carlo Costa 1826-1887, in Edoardo Arborio Mella (1808­-1884): Mostra commemorativa,  catalogo della mostra (Vercelli, Museo Camillo Leone, novembre 1985).  Vercelli: Istituto di Belle Arti – Archivio di Stato di Vercelli, 1985, pp. 149-158.  Per Giuseppe Costa cfr. Claudia Cassio, a cura di, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800.  Aosta: Musumeci, 1980,  pp. 212-214. Giusep­pe Costa risulta ancora presente all’ Esposizione del 1906 con un ritratto ad olio del barone  Vincenzo Cesati, cfr. L’Inaugurazione dell ‘Esposizione “Pro Emigratis” all’Asilo Um­berto I, “La Sesia”, 36 (1906), n. 61,  22 maggio .

 

[4] C. Cassio 1980, p. 202.

 

[5] Il primo studio relativo a Masoero si deve a Pino Marcone, Pietro Masoero: fotografo vercellese. Vercelli: E.N.A.L.-Famija Varsleisa, 1973,. Per altri saggi sulla produzione di questo fotografo, in particolare sulle campagne di documentazione del patrimonio artistico ed ar­chitettonico vercellese cfr. LINK MASOERO 1985 . Cfr. anche LINK MASOERO 1986.

 

[6] Dionigi Arborio di Gattinara, Carnet del Dilettante Fotografo. Torino: Tipografia Editrice C. Candeletti, 1890;  Pietro  Masoero, Decalogo del dilettante fotografo, in Breve raccolta di fotoriproduzioni e notizie utili. Torino: Società Fotografica Subalpina,  1901 quindi nel “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 13 (1901), pp. 163-167.

 

[7] Cfr. Marcone 1973, p. 28. Per il testo della conferenza cfr. Pietro Masoero, Arte e Beneficenza. Firenze: Tipografia di Salvatore Landi, 1903. Nei primi anni del secolo ri­sulta a Vercelli una notevole presenza di studi fotografici, di cui si presenta qui un primo elenco in attesa di completare le ricerche tuttora in corso sui Fondi Fotografici Vercellesi, condotte, per incarico dell’Assessorato per la Cultura del Comune di Vercelli, da chi scri­ve in collaborazione con Domenico Vetrò. Oltre ai noti studi fotografici di Boeri, Castellani, Costa, Masoero e Valenzani risultano presenti anche E. Rosetta, già collaboratore di G. Costa, G. Orlandi, R. Vercellino , S. Gambarova, che passa al professionismo dopo le prime prove da dilettante, M. Pozzi, G. Borghello e L. Corona, il solo fotografo vercellese presente all’Esposizione di Torino del 1911, cfr. Esposizione Internazionale di Torino 1911: Catalogo Ufficiale Illustrato del­l’Esposizione e del Concorso Internazionale di Fotografia. Torino: Tipografia Momo, 1911.

 

[8] Mario Tamponi, La Fotografia Artistica, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 1, pp. 4-5.

 

[9] Marina Miraglia, La fotografia pittorica, in Fotografia pittorica 1889/1911, catalogo della mostra (Venezia, Ala Napoleonica, ottobre-dicembre 1979; Firenze, Palazzo Pitti, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979,  pp. 9-15.

 

[10] Enrico Thovez, Poesia fotografica,  “L’Arte all’Esposizione del 1898”, n. 9, pp. 67-70, ripubblicato in Paolo Costantini, Italo Zannier, Cultura fotografica in Italia: Antologia di testi sulla fotografia 1839-1949. Milano: Franco Angeli, 1985, pp. 277-281.

 

[11] Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171. L’opinione di Masoero viene ripresa quasi letteralmente in un articolo di Albert che compare più di dieci anni dopo: “L’arte fotografica deve restare nettamente fotografica. È solo a questa condizione assoluta che essa può esse­re ammessa come arte. Essa non deve cercare di imitare né il pastello, né lo sfumino, né la matita, né l’acquarello: è necessario che resti una fotografia e cioè una cosa che non si può visibilmente ottenere che con mezzi puramente fotografici”; Armand Albert, Cosa intendo per fotografia artistica, “Il Progresso Fotografico”, 18 (1911), n. 10, pp. 292-95, citato in Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2, pp. 421-544 (503-504).

 

[12] Il termine “fotografia pittorica” a cui si fa comunemente ricorso in Italia per indicare questo fenomeno è in realtà una definizione piuttosto recente; al momento della sua massi­ma diffusione tale fenomeno fotografico era comunemente noto come “fotografia artisti­ca”. Si veda a questo proposito la precisazione contenuta nel già citato testo di Tam­poni del 1909 (cfr. nota 8): “L’appellativo di “Pictorial” che questa nuova applicazione della fotografia ebbe in Inghilterra, è, per me, inspiegabile, se non prendendo in considerazione che la traduzione letterale inglese dell’aggettivo italiano ‘Artistico’ non ha di questo lo stesso valore, e che siccome finora i quadri non erano composti che di pittura o disegno, l’appellativo ‘Pittorico’ renda più l’idea di uno studio accurato di composi­zione. Risulta evidente credo che non si tratta di una semplice precisazione filologica ma di una diversa concezione critica; per l’autore il termine “pittorica” sancisce una dipen­denza dalle “arti maggiori” che egli non è disposto a condividere.

 

[13] Arturo Alinari, Le Fotografie Artistiche. Appunti critici, “La Fotografia Artistica”, 3 (  1906),  n. 2,  pp. 25-26.

 

[14] Tamponi 1909, p. 4.

 

[15] Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in  Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979,  p. 67.

 

[16] Tamponi 1909, p. 4.

 

[17] Ibidem. È necessario ricordare che in quegli anni non sempre risultava in modo così netto la distinzione tra fotografia artistica e documentaria. Anche per la fotografia di guerra “volendo copie fotografiche di bell’ effetto e stabili, da destinare ai musei del Risorgimen­to, si farà ricorso al processo al pigmento o ancor meglio al processo al bromolio che può permettere ad un operatore artista di rimediare alle manchevolezze della fotografia ed aumentarne l’effetto”, Rodolfo Namias, Per la documentazione fotografica della nostra guerra,  “Il Progresso Fotografico”, 22 (1915),  n. 6, pp. 161-166.

 

[18] Benedetto Croce, Estetica come scienza dell’espressione linguistica generale. Bari: Laterza, 1902. Il brano è citato in numerose storie della fotografia italiana e riportato in Italo Zannier, Storia e tecnica della fotografia. Bari: Laterza, 1982, p. 147.

 

[19] Colgo l’occasione per ringraziare il dotto Gian Rodolfo Namias che mi ha consentito di consultare le preziosissime annate della rivista che fanno parte della sua collezione priva­ta, fonte indispensabile per determinare, seppure approssimativamente, la cronologia delle opere di Tarchetti e per ricostruire il dibattito che si è svolto in quegli anni intorno alle valenze espressive dell’immagine fotografica.

 

[20] “Il Progresso Fotografico”, 13 (1906), n. 10,  p. 145.

 

[21] “II Progresso Fotografico”, 12 , (1905), n. 3. Le sole cartoline di Tarchetti sinora note sono conservate nella collezione vercellese di Giorgio Peraldo, che ringrazio. Già nel giugno del 1901 sulle pagine della rivista si annunciava la pubblicazione di cartoline, utilizzate quali immagini fuori testo, che saranno inviate separatamente agli abbonati. Nella stessa occasione si an­nuncia anche la pubblicazione, presso lo stesso editore, del periodico “La Cartolina”. L’anno successivo il reparto di fotocollografia di “Progresso” viene messo a disposizione degli abbonati per la stampa a pagamento di cartoline tratte da loro fotografie, cfr. “Il Progresso Fotografico”, 8 (1901),  n. 6:  9 (1902), n. 1. Oggi (2022) una significativa scelta di quelle cartoline, appartenenti all’Archivio Fornacca di Candelo (BI), è visibile all’indirizzo https://frafor.com/fotografo-tarchetti/.

 

[22] “La Sesia”, 36 (1906),  n. 64, 29 maggio. Alla sezione fotografica della mostra, intitolata” Arte e beneficenza” rifacendosi all’iniziativa promossa nel 1902 da Masoero, che risulta nel Comitato Ordinatore col pittore Ferdinando Rossaro e lo scultore France­sco Porzio, partecipano solo sette fotografi (Aldo Guallini, Luigi Caberti, Pietro Bellone, Carlo Gastaldi, Andrea Tarchetti, Cesare Grosso, “un intelligente operaio che si diletta di fotografia” e Ugo Graneri). Come si vede, a questa data Tarchetti è il solo rimasto del folto gruppo di dilettanti presentati da Masoero nella precedente proiezione del 1902.

 

[23] L’agitazione agraria nel Vercellese, “La Sesia”, 36 (1906),  n. 65, 1giugno 1906.

 

[24] “Il Progresso Fotografico”, 14 (1907), p. 163; 15 (1908), p. 329.

 

[25] Il Congresso Nazionale delle Arti Grafiche, “Il Progresso Fotografico”, 13 (1906), pp. 156-157.

 

[26] Non è per ora possibile stabilire se esistessero legami di parentela tra Annibale e Giuseppe Cominetti, che nasce a Salasco (VC) il28 ottobre del 1882. Per Annibale Cominetti non sono state sinora effettuate indagini esaurienti, basti però ricordare che la madre, la nobil­donna Paola Cominetti era nativa di Vercelli, come si ricorda nel necrologio pubblicato in “La Fotografia Artistica”, 1913. Vercellese era anche Guido Momo, titolare dello sta­bilimento tipografico torinese che stampava la rivista. Anche Momo muore nello stesso anno, in febbraio, a seguito di un incidente occorsogli a Parigi.

 

[27] Per Luigi Cavadini cfr. La Fotografia Pittorica 1979, pp. 31-34, scheda a cura di Alberto Prandi.

 

[28] Esposizione Internazionale di Risicoltura e di Irrigazione Mostra d’arte della campagna irrigua. Catalogo delle opere esposte, Vercelli, Gallardi e Ugo, s.d. (1912). Per i com­menti alla Mostra cfr. “La Sesia”, 42 (1912), 22 ottobre.

 

[29] Inaugurando l’Esposizione Risicola, “La Risaia”,  13 (1912), n. 44, 26 ottobre: “L’Esposi­zione è dunque dei poveri e dei lavoratori e giova ai ricchi, ma non è forse così sempre?” Ed ancora: “il discorso del ministro Nitti” fu la glorificazione del grande assente, del lavoro, che era altrove e non lo ascoltava.”

 

[30] Cfr. “La Sesia” 1912. Le fotogra­fie a colori ricordate dall’articolista, più correttamente definite “diapositive” nel catalogo della Mostra, corrispondono verosimilmente alle autocromie oggi conservate alla Fondazione Sella di Biella, due delle quali sono state pubblicate in Miraglia 1981,  tavv. 679-680. A sottolineare il preciso interesse di Tournon per la fotografia occorre ricordare che nella Mostra Retrospettiva di Fotografia che si tiene nel­l’ambito della Esposizione Internazionale di Torino del 1911, alcune delle pubblicazioni esposte, relative al primo periodo della storia della fotografia, sono appunto di proprietà del Tournon. Egli non compare invece tra i fotografi selezionati per il Concorso Interna­zionale di Fotografia che si tiene nella stessa occasione, mentre risultano presenti Vittorio Sella, nella sezione del CAI, Roberto Mosca ed il vercellese Luigi Corona. Cfr. Esposi­zione Internazionale di Torino, 1911. Catalogo.

 

[31] Per Clemente Pugliese-Levi cfr. Esposizione d’Arte Vercellese Moderna. Vercelli: Gal­lardi e Ugo, 1922. Angela Ottino Della Chiesa, Clemente Pugliese-Levi (1855-1936).  Mi­lano: Mondial Gallery, 1961.

 

[32] Per Francesco Negri cfr. Cesare Colombo, a cura di, Francesco Negri fotografo a Casale 1841-1924. Milano-Bergamo: CIFe Cooperativa Il Libro Fotografico, 1969. Sebbene una certa uniformità nel trattamento delle immagini di paesaggio fosse co­mune a molti dei dilettanti fotografi di inizio secolo (“vi sono nei paesaggi inanimati ca­ratteri di somiglianza anche se eseguiti da autori diversi in località diverse” rileva un arti­colo redazionale dedicato a L’esito del Concorso per le illustrazioni del “Progresso Foto­grafico” nel 1908 , “Il Progresso Fotografico” , 14 (1907), p. 162) il riferimento a Francesco Negri risulta, per i fotografi vercellesi, quasi obbligato. Le sue immagini so­no conosciute a Vercelli sia per il tramite delle proiezioni organizzate da Masoero, di cui Negri era intimo amico, sia per la sua presenza diretta in numerose occasioni quali la con­ferenza da lui tenuta alla Unione Eusebiana la sera del 27 gennaio 1906, dedicata alla illu­strazione storico artistica del Santuario di Crea, cfr. “La Sesia”, 36 (1906),  n. 13, 30 gennaio.

Per l’influenza di Stieglitz sulla fotografia italiana cfr. il saggio già citato di Miraglia 1981 e anche Ando Gilardi, Creatività e informazione fotografica. In Federico Zeri, a cura di,  Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2. Torino: Einaudi, 1981, pp. 545-586.  Si veda in particolare la fotogra­fia di Federico Tensi, L’abreuvoir alla tav. 737 in cui, seguendo la lezione del grande fotografo americano, ciò che costituisce il soggetto della scena è la sua connotazione com­plessiva sottolineata dai dati atmosferici.

 

[33] Una attenzione per il mondo contadino sempre in bilico tra documentazione e scena di genere si riscontra già in molta produzione fotografica ottocentesca. Si vedano a questo proposito alcune delle immagini contenute in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979; Marina Mira­glia, Cesare Vasari e il “genere” nella fotografia napoletana dell’Ottocento, “Bolletti­no d’Arte”, 70 (1985), serie VI, n. 33/34, settembre/dicembre, pp. 199-206; Bertelli,. Bollati 1979, tavv. nn. 32-33 ed anche, per un sommario panorama della produzione internazionale, Françoise Heilbrun, Philippe Néagù, Musée d’Orsay. Chefs-d’oeuvre de la collection photographique. Paris: Philippe Sers- RMN, 1986. Ciò che cambia in Tarchet­ti, ed in altri fotografi dilettanti a lui prossimi, quali Giovanni Sanvitale di Parma, l’avvocato Umberto Beccuti di Moncalvo o il biellese Franco Bogge, è la modalità di approccio al tema, che in questi autori è programmaticamente quello dell’istantanea, di una tecnica cioè in cui costruzione della struttura compositiva dell’immagine (che porta tendenzialmente alla posa) e scelta dell’attimo fuggente (che è specifica delle possibilità tecnico-espressive della fotografia) faticosamente convivono.

 

[34] L’immagine viene pubblicata in “Il Progresso Fotografico”, 12 (1905), n. 5, luglio, col titolo  errato  Ciociari sulla scalinata del Campidoglio a Roma. Si tratta invece, come è facile verificare, della scalinata di Trinità dei Monti a piazza di Spagna. Silvio Negro, Album Romano. Roma: Gherardo Casini, 1956, p. 246, commentando un’immagine di soggetto simile, dovuta a Giuseppe Primoli e datata circa il 1890, ricorda che i ciociari “veniva­no in particolare da Anticoli Corrado e Saracinesco. L’uso di star ad aspettare ingaggio [come modelli] sulla scalinata di piazza di Spagna, o sui gradini della chiesa dei Greci, cominciò con la pittura di genere e finì con la prima guerra mondiale”.

 

[35] Rodolfo Namias, L’Esposizione fotografica di Torino, “il Progresso Fotografico”, 14 (1907), n. 2, febbraio, p. 30.

 

[36] Alfred Liégard, Le document et l’art, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 1, gennaio, pp. 8-10.